PIETRO RAMELLA

 LA RETIRADA

 

 

 

L'ODISSEA DI 500.000 REPUBBLICANI SPAGNOLI

ESULI DOPO LA GUERRA CIVILE (1939/1945)

 

Il materiale presente e' utilizzabile esclusivamente citando autore e fonte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Et par le pouvoir d'un mot

Je recommence ma vie

Je suis né pour te connaître

Pour te nommer

LIBERTĖ

 

 

Scrive Claudio Pavone, nella premessa a La guerra Civile: «nella selezione delle fonti (di una ricerca storica) s’insinua la silenziosa selezione compiuta in tanti anni dalla memoria», così questa mia ricerca si apre con i versi di Paul Eluard per rendere evidente il filo conduttore che l’ha guidata.

LIBERTÀ, termine e valore, imparato ad undici anni - il 26 luglio 1943 – leggendolo, scritto con il gesso, - sulla fiancata di un vagone della Canavesana, ferrovia che collegava il mio paese natale, dove ero sfollato, a Torino, città di residenza. Nato e educato, nella seconda metà del ventennio fascista, la cui coinvolgente retorica fu sempre osteggiata dalla freddezza paterna verso il regime, fui testimone involontario delle manifestazioni d'entusiasmo delle folle al passaggio del Duce, percepii nei rifugi antiaerei l'incrinarsi del carisma dell’«Uomo della Provvidenza», sopportai bombardamenti aerei e privazioni, fui testimone oculare delle crudeltà della guerra civile (rastrellamenti, incendi ed uccisioni) e gioii alla Liberazione intesa come fine a tanti angosciosi incubi. Questo drammatico susseguirsi d’avvenimenti e i tragici retaggi della guerra acuirono il bisogno di capire, così sviluppai un mio personalissimo metodo di studiare i fatti storici, approfondire gli avvenimenti ricordati da lapidi e monumenti.

 

Nel gennaio 1991 a Saint Cyprien nel Roussillon - Francia del Sud - il mio interesse cadde su un monumento di bronzo rappresentante in forma stilizzata una figura umana sdraiata: una lapide ricordava che

En ces lieux et des

Le 6 février 1939

90.000 Républicains espagnols

Enfants femmes et hommes

Civilis et militaires

Furent internes

 

Le prime ricerche rivelarono un capitolo poco conosciuto dell’antifascismo europeo, per approfondirlo visitai i piccoli musei e le biblioteche dei Pirenei Orientali e raccolsi materiale di studio e testimonianze. Alla fine dell’anno, stavo per compiere sessant’anni, m’iscrissi alla Facoltà di Scienze Politiche dell’università di Pavia e mi posi come obiettivo che, se fossi riuscito a portare a termine gli studi, avrei sviluppato l’argomento nella tesi conclusiva. In successivi viaggi in Francia ed in Spagna raccolsi ulteriore materiale, quando il conseguimento della mia seconda laurea stava per diventare realtà, lo proposi come argomento della tesi finale ai professori Marina Tesoro e Lucio Ceva. La Commissione d'esame l’ha giudicata degna del massimo dei voti e del diritto di pubblicazione per «la novità dell'argomento e l'ampiezza della ricerca».

Lavoro che ho continuato ad aggiornare nel corso degli anni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I

 

LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA (1936/1939)

Premesse ed andamento

 

 

 

Pienso en España, vendida toda,

De rió a rió, de monte a monte, de mar a mar.

 

Antonio Machado

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DAL “DESASTRE DEL ‘ 98” ALLA REPUBBLICA

 

 

Agli inizi del XX Secolo la Spagna stentava a trovare una via d’uscita dalla crisi di modernizzazione e d’identità che durava dal 1898 dopo la sconfitta nella guerra con gli Stati Uniti che le era costata la perdita degli ultimi possedimenti coloniali americani: Cuba e Portorico ed asiatici: Filippine, arcipelaghi delle Caroline e delle Marianne.

La crisi coinvolse tutti i settori della vita sociale e politica, ma soprattutto acuì il rancore dei militari verso la classe dirigente che essi ritenevano responsabile del «Desastre del 1898». L’Esercito cui le ristrettezze del bilancio statale non permettevano di ammodernarsi subì nelle guerre marocchine due pesanti sconfitte. La prima nel 1909 presso Melilla che costò 2.253 morti, tra cui un generale e due tenenti colonnelli, ebbe drammatiche ripercussioni in patria quando la decisione di mobilitare i riservisti per il Marocco fece esplodere il malcontento popolare. Le rivendicazioni portate avanti, in campo sindacale e sociale, dagli anarchici, dai socialisti e dai sindacalisti, si fusero con le proteste generali per la guerra in uno sciopero, che si colorò di tinte sanguinose ed anticlericali durante la Settimana Tragica di Barcellona. Nel corso dei disordini quarantotto chiese e conventi furono dati alle fiamme; solo l’intervento dell’esercito, che aprì il fuoco sui dimostranti, riportò la situazione sotto controllo. L’anarchico Francisco Ferrer, accusato di essere la mente della rivolta, fu condannato a morte e fucilato, nonostante le proteste dell’opinione pubblica mondiale.

La seconda e più grave sconfitta avvenne nei pressi d’Annual nel luglio 1921 con circa 1300  morti. Repubblicani, socialisti e liberali chiesero un’inchiesta parlamentare per accertare e punire i colpevoli del nuovo disastro, ma il re Alfonso XIII, che era stato l’ispiratore dell’operazione, e i militari non accettarono di essere posti sotto accusa e sostennero il generale Miguel Primo de Rivera, che, nel settembre 1923, instaurò una dittatura che s’ispirava al fascismo italiano.

Durante le guerre marocchine furono creati due corpi militari, che avrebbero avuto in seguito un peso decisivo nella vita spagnola:

-          I Regulares, truppe indigene inquadrate sul modello dell’armée d’Afrique francese, e

- il Tercio de Extranjeros su quello della Legione Straniera francese.

Sarà ufficiale delle due unità Francisco Franco.

 

Sotto la dittatura:

1.        Grazie all’alleanza con i francesi, nel settembre 1925 furono sconfitti i ribelli marocchini,

2.        Il catalanismo politico fu soppresso e l’uso ufficiale della lingua catalana fu proibito anche in chiesa. La Mancomunidad fu sciolta, malgrado che i conservatori catalani avessero appoggiato Primo de Rivera,

3.        Una politica paternalistica verso i lavoratori, lo stato d’assedio, la censura sulla stampa e la creazione di una polizia speciale misero in crisi i quadri della Confederación Nacional del Trabajo (C.N.T.), determinando una normalizzazione della vita sociale.

 

Nel 1928 il dittatore convocò un’assemblea nazionale incaricata di varare una nuova Costituzione: in essa era sancita un’assoluta separazione dei poteri, a tutto svantaggio del corpo legislativo, in cui i rappresentati corporativi sedevano accanto ai deputati eletti dal popolo. I punti di maggior distacco dal parlamentarismo classico erano l’eliminazione di qualsiasi responsabilità dei ministri e la soppressione della prerogativa reale di nominare e destituire i ministri, potere ora esteso ad un organismo che imitava il Gran Consiglio del Fascismo. Ma la costituzione, boicottata dai vecchi uomini politici, non piacque al re che con un decreto stabilì che essa dovesse essere approvata da un plebiscito. Ciò accentuò il declino del dittatore, che perso anche il sostegno degli alti gradi dell’esercito e degli ambienti finanziari, il 30 gennaio 1930 si dimise.

Il suo successore, il generale Berenguer, tentò di gestire il ritorno alla normalità democratica e di salvare la monarchia, che ritenuta corresponsabile della dittatura, era nuovamente sotto accusa.

I gruppi repubblicani, federatisi nel patto di San Sebastian, stabilirono di iniziare la rivolta il 15 dicembre, ma all’ultimo momento alcuni cambiamenti nel programma generarono confusione tra i congiurati, infatti, il 12 a Jaca insorsero i capitani Galán Rodriguez Firmín e García Hernández Angel che marciarono su Madrid. Ma le forze fedeli al re ebbero facilmente ragione dei ribelli, i cui capi furono processati e fucilati.[1]

 

Le elezioni amministrative dell’aprile 1931 furono vinte da un fronte assai eterogeneo composto da socialisti, repubblicani, radicali e dai movimenti autonomisti catalano e basco, a cui diede un apporto decisivo una parte della borghesia che desiderava rompere con il passato. Il re considerò il responso delle urne come un voto di sfiducia nei suoi confronti e senza formalmente abdicare lasciò la Spagna per l’esilio affidando il potere al repubblicano moderato Alcalà Zamora.

 

 

LA NIÑA BONITA

 

 

Il 14 aprile 1931 fu proclamata la Repubblica (la niña bonita) ed Alcalá Zamora ne fu eletto Presidente, mentre Capo del governo, dopo le elezioni politiche del 28 giugno, nuovamente vinte dai movimenti d’orientamento progressista, fu nominato il repubblicano Manuel Azaña.

 

Nella nuova Costituzione la Spagna era definita come una:

«repubblica democratica di lavoratori di tutte le classi, che si organizza in un regime di Libertà e Giustizia»,

Attribuendo allo Stato il compito di coordinare la produzione industriale, di nazionalizzare i servizi pubblici e di socializzare i latifondi. Veniva inoltre sancita la separazione tra Stato e Chiesa ed introdotti il divorzio ed il matrimonio civile. [2]

 

 

Le prime riforme significative furono l’istituzione della giornata lavorativa d’otto ore, la fissazione dei minimi salariali, l’estensione del diritto di voto alle donne, l’inizio di una campagna d’alfabetizzazione con la creazione di 6.750 nuove scuole e, nel settembre 1932, la concessione di una larga autonomia alla Catalogna. Non potendo sciogliere l’ «odiatissima» Guardia Civil, il governo le affiancò un corpo di carabinieri, le Guardias de Asalto.

Fu infine delineato un programma per attuare la Riforma Agraria che prevedeva l’esproprio (con indennizzo) di un milione d’ettari, provvedimento primario in una nazione dove più della metà della popolazione dipendeva dalla terra, di cui il 64,30% era posseduto da duecentomila grandi proprietari e il 35,70% da tre milioni di medi e piccoli proprietari. Dai lavori agricoli dipendevano due milioni di braccianti, pari ad un quinto della popolazione attiva, che vivevano in grossi pueblos ove venivano giornalmente ingaggiati dagli amministratori dei latifondisti. Dalla primavera all’autunno riuscivano a guadagnare in media tre pesetas il giorno mentre per il resto dell’anno restavano inattivi, sempre in concorrenza con i contadini proprietari di modesti appezzamenti la cui produzione era insufficiente alle necessità della vita.[3]

Ne derivava una vita di stenti che facilitava il diffondersi delle idee di redenzione sociale proprie del movimento anarchico che, non avendo una rappresentanza parlamentare in quanto propugnava l’astensionismo elettorale, aveva la sua forza nel sindacato tramite il quale faceva valere le istanze di giustizia sociale con grandi scioperi. Vedendo come la promessa Riforma Agraria procedesse a rilento anche per i contrasti tra socialisti e radicali – i primi prospettavano una forma di produzione associata della terra mentre i secondi miravano all’estensione della piccola proprietà – gli anarchici scatenarono una serie di disordini specie contro chiese e conventi in quanto la Chiesa, come maggiore proprietaria terriera spagnola e detentrice del monopolio dell’istruzione, rappresentava il simbolo dello sfruttamento e della reazione.

 

Il Governo, anche se la Guardia Civil ricorreva frequentemente all’uso delle armi, non riusciva ad impedire o quanto meno a controllare tali disordini, cosicché un simile stato di cose offrì terreno propizio ad una ripresa della destra tradizionale, che nell’agosto 1932 tentò un colpo di stato, sfruttando il malcontento degli ufficiali, in parte posti in quiescenza nel previsto programma di ridimensionamento dell’esercito, che n’aveva ridotto il numero da diciassettemila a diecimila, modificando così il rapporto da uno ogni nove sottufficiali, graduati e soldati ad uno ogni quindici. Pronunciamento che fallì per mancanza di coordinamento e che fu represso con relativa facilità. Il principale responsabile, il generale Sanjurjo Sacanell José, fu condannato a morte. La pena venne poi commutata nel carcere a vita (in seguito fu amnistiato ed esiliato). [4]

 

In questo periodo assunsero peso politico tre movimenti, importanti nel prosieguo della storia di Spagna:

 

- la C.E.D.A. (Confederación Española de Derechas Autonomas) del cattolico Gil Robles,

- la Falange Española di José Antonio Primo de Rivera, di matrice chiaramente fascista,

-          La Renovación Española, apertamente antirepubblicana, di Josè Calvo Sotelo.

 

Questi raggruppamenti erano sostenuti dalla Chiesa cattolica, contro la quale il governo stava per promulgare la Legge delle Congregazioni, per dare pratica attuazione agli articoli 3 e 26 della Costituzione riguardanti la religione. Legge che prevedeva:

 

-          L’annullamento del Concordato del 1851 con la Santa Sede,

-          La cessazione del pagamento della congrua ai preti,

-          L’espropriazione dei beni ecclesiastici non necessari all’esercizio del culto,

-          La chiusura delle scuole cattoliche,

-          Lo scioglimento degli ordini religiosi dipendenti da autorità straniere, che aveva comportato l’espulsione dei Gesuiti.[5]

 

La già difficile situazione interna venne ulteriormente aggravata dalla sommossa anarchica dell’11 gennaio 1933 nel villaggio di Casas Viejas, in provincia di Cadice, che fu repressa nel sangue con numerosi morti da entrambe le parti. Il fatto fu sfruttato sia da destra sia da sinistra con conseguente indebolimento del governo, che fu battuto nelle elezioni municipali dell’aprile, sconfitta che indusse Azaña a rassegnare le dimissioni. Il Presidente della Repubblica, non avendo Alessandro Lerroux, esponente radicale, a cui era stato affidato l’incarico per la formazione di un nuovo governo, ottenuta la fiducia delle Cortes, ne decretò lo scioglimento ed indisse nuove elezioni per il 19 novembre.

 

 

 

EL BIENIO NEGRO (1934/1935)

 

 

Le elezioni furono vinte dalle forze conservatrici con un notevole successo per la C.E.D.A., che diventò il gruppo di maggioranza relativa, che diede il suo appoggio esterno a Lerroux per formare il governo. La sconfitta delle sinistre dipese dall’astensionismo elettorale degli anarchici che raggiunse la percentuale del 34%, decisamente superiore in valore assoluto al 30% del 1931, infatti, gli iscritti erano passati da 6.200.000 a 13.200.000 per la concessione del voto alle donne, che in prevalenza non avevano votato, su istruzione dei loro confessori, per i partiti di sinistra. [6]

Ebbe inizio il bienio negro in cui vennero annullate tutte le riforme varate dal governo precedente. In particolare furono imposte massicce riduzioni salariali, restituite ai vecchi proprietari le terre espropriate, riaperte le scuole confessionali e fu abrogata l’autonomia della Catalogna. La tensione provocata da questa politica reazionaria sfociò in una serie di sommosse, che toccarono il culmine nell’ottobre del 1934 con un’azione rivoluzionaria sostenuta da uno sciopero generale in tutta la Spagna e dalla proclamazione della Repubblica in Catalogna. Ma il governo riprese rapidamente in mano la situazione incarcerando a Madrid gli esponenti socialisti promotori dello sciopero ed a Barcellona Lluis Companys. Questi insuccessi lasciarono in uno splendido isolamento l’insurrezione sviluppatasi nelle Asturie dove gli anarchici collaborando uniti nell’u.H.P. (Union de Hermanos Proletarios) con socialisti, comunisti e l’Alianza Obrera d’ispirazione trotzkista avevano assunto il controllo della provincia, compresa la capitale Oviedo. Una stazione radio incitava alla lotta invitando i lavoratori tra i diciotto ed i quarant’anni ad arruolarsi nell’armata Rossa. Ci furono saccheggi ed atti d’ingiustificata violenza che i comitati rivoluzionari non riuscirono a controllare, numerosi edifici religiosi furono dati alle fiamme.[7]

Il governo affidò ai generali Francisco Franco e Manuel Goded Llopis, in qualità di Capi di Stato Maggiore, il comando delle operazioni per reprimere la rivolta. Essi ricorsero al Tercio ed ai Regulares, formati da soldati professionisti che si erano già distinti contro i ribelli del Riff in Nord Africa. Truppe che in due settimane ebbero ragione degli insorti, abbandonandosi ad atrocità e violenze contro la popolazione. Nel ritirarsi i minatori incendiarono le proprietà dei ricchi e uccisero preti e guardie civili. La ribellione era ormai soffocata e gli asturiani offrirono la resa ponendo come sola condizione che venissero ritirate la Legione Straniera e le truppe marocchine, condizione accettata ma poi non rispettata dal Ministro della Guerra. La repressione che ne seguì fu durissima, oltre ai mille morti in combattimento o fucilati, le casas del pueblo si trasformarono in carceri in cui furono reclusi trentamila prigionieri, sottoposti ad ogni sorta di soprusi e torture. La rivolta delle Asturie fu importante per almeno due ragioni: fece apparire agli occhi dei conservatori l’Esercito come la sola forza capace di mantenere l’ordine costituito e d’altra parte fece capire alle sinistre che solo formando un fronte unitario avrebbero potuto sconfiggere la reazione. [8]

 

Nel 1935 sorsero in Spagna due schieramenti politici contrapposti:

-          Il Frente Popular, raggruppamento di tutte le organizzazioni democratiche e di sinistra, meno gli anarchici,

-          Il Bloque Nacional, di cui facevano parte borghesi, agrari, monarchici, falangisti e massoni.

 

Il governo aveva vita difficile per i contrasti tra i moderati e la C.E.D.A., che, ad un certo momento, fece mancare il suo sostegno prendendo a pretesto degli scandali finanziari che avevano coinvolto alcuni esponenti radicali. Era la ventiseiesima crisi governativa della Repubblica. Dopo vari tentativi, tutti infruttuosi di formare un governo, il Presidente sciolse le Cortés ed indisse nuove elezioni, fissandole per il 16 febbrario 1936.

 

 

VITTORIA ELETTORALE DEL FRENTE POPULAR

 

 

Dopo una campagna elettorale, che non fece registrare gravi fatti di violenza, prevalentemente impostata dalla destra sui pericoli che la vittoria degli avversari avrebbe rappresentato per la Chiesa, le votazioni si svolsero in maniera che il corrispondente del “Times” definì: «nel complesso esemplari».

I votanti furono 9.865.000 su un totale di 13.554.000 iscritti con un’astensione del 27% contro il 34% di due anni prima, una parte degli anarchici all’ultimo momento disattese la raccomandazione no votad impartita dalle loro organizzazioni e votò per il Frente Popular. Esso si impose con il 48,3% dei suffragi validi (pari a 4.838.000 voti) contro il 43% della coalizione di destra (3.997.000 voti), mentre 458.000 elettori appoggiarono i movimenti di centro ed i nazionalisti baschi. [9]

 

Grazie al particolare meccanismo elettorale, che assegnava un premio alla maggioranza, le sinistre ottennero il 56% dei seggi delle Cortès ed il Primo Ministro uscente Portela Valladares passò le consegne a Manuel Azaña, principale esponente del Frente Popular. Questi formò il governo con rappresentanti della Sinistra repubblicana, dell’unione repubblicana, dell’esquerra catalana e dei nazionalisti baschi con l’appoggio esterno degli altri partiti progressisti.

Il primo provvedimento dell’esecutivo fu la concessione di un’amnistia ai detenuti politici, cosicché socialisti, catalani ed asturiani condannati per le sommosse dell’ottobre 1934 furono liberati. I generali Franco e Goded, responsabili della repressione delle Asturie, furono esonerati dalle loro funzioni presso il Ministero della Guerra: il primo fu destinato al comando delle truppe di stanza nelle Canarie ed il secondo quelle di stanza nelle Baleari. [10]

 

Il governo si mise quindi al lavoro per attuare il programma del Frente, in particolare l’Istituto della Riforma Agraria riprese a funzionare ed alla fine di marzo decine di migliaia di contadini divennero proprietari di un appezzamento di terra. I datori di lavoro furono obbligati a riassumere gli operai licenziati in occasione degli scioperi del 1934 e ad indennizzarli. Tale politica indusse industriali e grandi finanzieri a trasferire all’estero i loro capitali, con conseguente svalutazione della peseta sui mercati internazionali.

 

Il dramma della seconda Repubblica che sfociò nella guerra civile va considerato alla luce dello scontro radicale tra cinque progetti di società, dei quali erano portatori diversi gruppi sociali politici. I condizionamenti storici, la struttura sociale interna ed il contesto internazionale impedirono che si producesse una convergenza tra le maggiori forze politiche in un progetto dominante e maggioritario di convivenza politica.

Il primo di questi progetti, avanzato dai repubblicani di sinistra e specialmente da Acciòn Republicana di Manuel Azaña, intendeva creare una repubblica borghese avanzata, pluralista e liberale, ispirata al modello della III Repubblica Francese.

Il secondo era orientato verso il mantenimento della struttura propria della vecchia società conservatrice, arcaica e non secolarizzata, prefiggendosi come meta uno stato confessionale, tradizionale, per molti aspetti di natura medioevale.

Il terzo consisteva in un modello che, pur mantenendo caratteristiche proprie, si rifaceva a quelli già esistenti in Italia e Germania. Si trattava, quindi, del modello fascista a base corporativa, a cui la Spagna aveva già iniziato ad accostarsi all’epoca della dittatura del generale Primo de Rivera. Condizione sine qua non per realizzare tale stato era un partito unico come espressione monolitica della società, cioè la Falange.

Il quarto era rappresentato dall’aspirazione di creare in Spagna un regime socialista, ispirato in parte all’u.R.S.S., anche se sulla sua esatta fisionomia non si arrivò mai ad un accordo tra le forze politiche che lo rivendicavano: il Partito Socialista Operaio ed il Partito Comunista.

Il quinto consisteva nel vecchio ideale anarcosindacalista, fatto proprio dai settori contadino e piccolo borghese d’alcune regioni spagnole, che facevano capo alla Federacíon Anárquica Ibérica (F.A.I.) ed alla Confederación Nacional del Trabajo (C.N.T).

 

Nonostante l’impulso dato alla Riforma Agraria, migliaia di contadini convinti che la distribuzione delle terre procedesse troppo lentamente cominciarono ad invadere, specie nell’estremadura, i grandi latifondi semiabbandonati ed a spartirseli o a costituirvi comunità agricole collettivizzate. Questo portò a scontri con la Guardia Civil ed in uno di questi, a Yeste, i gendarmi uccisero diciotto contadini. Ma l’ordine pubblico restava il problema più grave, la violenza era opera di aderenti alla Falange, decisi ad accrescere il disordine così da giustificare l’avvento di un governo forte. Ma i militanti della F.A.I. e della C.N.T. rispondevano colpo su colpo in quanto, in ossequio alle loro idee libertarie, non volevano contare sull’autorità costituita, anche se di sinistra. In questo clima di esasperata violenza gli alti gradi delle Forze Armate cominciarono a tessere le fila di una cospirazione. Ne era organizzatore il generale Mola che nell’aprile ne precisò i piani in una circolare: due organismi, uno militare e uno civile, avrebbero dovuto insediarsi in tutte le province della Spagna, nelle Baleari, nelle Canarie e nel Marocco spagnolo. Tali organismi avrebbero dovuto, a livelli provinciale, predisporre i piani per l’occupazione degli edifici pubblici e per assumere il controllo delle vie di comunicazione. Il generale Sanjurjo, capo del fallito golpe del 1932, che viveva esule in Portogallo, sarebbe rientrato per assumere la carica di Presidente di una giunta militare che avrebbe governato la Spagna. Appoggiavano questo progetto, oltre alle alte cariche dell’esercito, la Chiesa, la ricca borghesia, i grandi proprietari terrieri ed i carlisti della Navarra, che disponevano di una forza paramilitare, i requetés, fanaticamente cattolici.

 

In un susseguirsi di violenze ed assassinii politici, che per lo più restavano impuniti, si giunse al mese di luglio, fissato dai congiurati per l’inizio della ribellione. Il 12 elementi della Falange uccisero un tenente degli Asaltos, Josè Castillo, per vendicare l’assassinio di un loro camerata. Nell’eccitazione del momento si fece strada l’idea di colpire i capi della destra, anziché come avveniva di solito, delle figure di secondo piano. Forse si voleva solo prenderli in ostaggio per costringere i loro seguaci a limitare le velleità – le testimonianze in proposito non sono attendibili – fatto sta che due gruppi di Guardias de Asalto si recarono ai domicili di Gil Robles, capo della C.E.D.A., e di Calvo Sotelo, capo di Renovaciòn Española. Il primo era fuori Madrid, fatto che gli salvò la vita, mentre il secondo fu prelevato e prima di arrivare al Cimitero dell’est fu freddato con due colpi alla nuca. L’opinione pubblica fu impressionata da queste morti e durante i funerali vi furono scontri con altre vittime. La tensione del momento indusse il generale Mola a fissare ora, data e luogo d’inizio della sommossa: ore 17 del 17 luglio a Melilla, in Marocco. Nel frattempo poiché i preparativi del golpe erano ormai chiari, Indalecio Prieto, a capo di una delegazione di socialisti e comunisti, si recò dal Primo Ministro a chiedere la distribuzione delle armi alle organizzazioni dei lavoratori. Casares Quiroga rifiutò, aggiungendo in tono acido che se Prieto continuava ad andare da lui tanto spesso tanto valeva che governasse lui la Spagna.

 

 

L’ALZAMIENTO

 

 

La rivolta, iniziata con alcune ore d’anticipo rispetto al previsto, divampò in tutte le città del Marocco e, grazie all'intervento decisivo della Legione Straniera, gli insorti ebbero ragione dei militari rimasti fedeli al governo e dei militanti della sinistra. Nel frattempo Franco s’impadronì delle Canarie e lanciò un proclama alla nazione: «L’Esercito si è assunto il glorioso compito di salvare la Spagna dalla sovversione e dall’anarchia» quindi volò in Marocco ed assunse il comando dell’esercito d’Africa. Nella calda mattinata del 18 luglio Radio Ceuta trasmise la frase in codice: «Su tutta la Spagna, il cielo è senza nubi» era il segnale dell’alzamiento nelle guarnigioni della penisola. [11] Il 95% degli ufficiali fece causa comune con i sediziosi trascinando con se 80% dei soldati. La Guardia Civil nella sua quasi totalità ed il 50% delle Guardias de Asalto si unirono ai rivoltosi. Nella proporzione dal 75 al 90% gli alti funzionari dei ministeri, delle amministrazioni locali, delle imprese industriali fecero altrettanto.[12] Il governo tentò di bloccare la sollevazione ricorrendo alle procedure consentite dalla Costituzione e ordinò ad alcune navi da guerra (la flotta era rimasta fedele alla Repubblica) di presidiare lo stretto di Gibilterra così da contenere la ribellione in Marocco e nelle Canarie. In ogni caso continuò a non autorizzare la distribuzione delle armi al popolo come chiedevano le organizzazioni di sinistra. Quest'ordine favorì i ribelli perché consentì loro, pur se inferiori di numero, di assumere il controllo della Galizia, del Léon, della Nuova Castiglia, della Navarra, del nord dell’estremadura e di parte dell’aragona, per cui i faziosi controllarono i centri di La Coruña, Valladolid, Salamanca, Burgos, Pamplona, Cáceres, Saragozza e Huesca. Occuparono inoltre le principali città dell’andalusia: Cadice, Siviglia, Granada e Cordoba, di vitale importanza per il proseguimento delle operazioni in quanto le loro forze più efficienti erano concentrate in Marocco.

Il 19 luglio le truppe ribelli uscite dalle caserme di Barcellona puntarono verso Plaza de Cataluña ma bloccate dai lavoratori, in prevalenza anarchici, e dalla Guardia Civil rimasta fedele al governo, caso quasi unico in Spagna, dovettero ritirarsi. Il generale Goded, capo dei rivoltosi, fu catturato ed obbligato a leggere alla radio un appello ai suoi di deporre le armi. André Malraux racconterà ne L’Espoir la successione dei combattimenti, in cui morirà uno dei più famosi capi anarchici, Francisco Ascaso. [13]

Il giorno dopo è la volta di Madrid, con la conquista da parte dei cittadini e dei militari fedeli alla Repubblica della caserma della Montaña, centro operativo della ribellione, la capitale è salva.

 

Data

Repubblica

Nazionalisti

Luglio 20/24

 

 

 

 

Agosto

5

 

 

 

 

 

15

 

 

17

 

 

18/19

 

 

Settembre

4

 

5

 

 

27

 

30

 

 

Ottobre

1

 

 

10

 

 

 

24

 

 

28

 

 

Novembre

4

 

 

6

 

 

 

//8

 

 

 

 

18

 

 

20

 

 

24

 

 

Dicembre

3/14

 

 

29

 

 

 

 

1937

Gennaio

5

 

 

 

14

 

Febbraio

6

 

 

8

 

 

24

 

 

 

 

 

Marzo

8/21

 

 

 

 

 

31

 

 

Aprile

26

 

 

 

Maggio

3/17

 

 

 

 

17

 

 

Giugno

19

 

Luglio

1

 

 

4

 

 

6/24

 

Agosto

24

 

Ottobre

21

 

 

Dicembre

15

 

1938

Gennaio

/

 

Febbraio

22

 

Marzo

10

 

 

18

 

Aprile

3

 

14

 

 

21

 

Luglio

25

 

 

Agosto

12

 

20

 

Settembre

21

 

 

Ottobre

28

 

 

 

 

Novembre

16

 

Dicembre

23

 

 

1939

Gennaio

15

 

26

 

Febbraio

11

 

23

Marzo

5

 

 

6

 

28

 

31

 

Aprile

1

 

Il PCE crea il Quinto Reggimento, nasce a Barcellona il Comitato Cen trale delle Milizie Antifasciste.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Carlo Rosselli forma la Colon-

na Italiana.

 

 

 

 

 

Governo di Llargo Caballero

 

 

 

 

 

 

Decreto di militarizzazione delle Milizie.

 

 

 

 

 

Arrivo ad Albacete dei primi

volontari stranieri delle Briga-te Internazionali.[1]

 

 

 

 

 

 

 

 

Quattro ministri anarchici entra

no nel governo.

 

Il governo si trasferisce a Valencia. A Madrid si costituisce la Giunta di Difesa.

 

Scontri alla Casa del Campo di Madrid ed alla Città Universitaria, battesimo del fuoco delle Brigate Internazionali.

 

 

 

 

Fucilazione di José Antonio Primo de Rivera ad Alicante.

 

 

 

 

 

 

 

Fallita offensiva in Estrema- dura della XIV BI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Successo della controffensiva repubblicana sul Jarama. Partecipano

l’ XI, XII, XIII e XV BI. Il tentativo di tagliare la strada Madrid – Valencia è respinto.

 

 

Battaglia di Guadalajara. Le truppe fasciste del C.T.V. sono messe in fuga . Partecipa agli scontri il battaglione Garibaldi della XII BI.[14-15]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scontri di Barcellona tra gover

nativi ed Anarchici e POUM.

[16-17]Dimissioni del governo Llargo Caballero.

 

Negrin forma un nuovo governo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Congresso Internazionale degli Scrittori.

 

Battaglia di Brunete.

 

 

Battaglia di Belchite

 

 

 

 

 

 

Inizio offensiva contro Teruel.

 

 

 

Conquistata Teruel.

 

 

 

 

 

 

 

 

Violenti bombardamenti aerei su Barcellona.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizia la battaglia dell’Ebro. Occupata Gandesa.

 

Controffensiva in Estremadura.

 

 

Negrin annuncia alla Società delle Nazioni il ritiro delle BI.

 

 

Iniziano a Barcellona le sfilate d’addio dei volontari stranieri.[2] Messaggio della Passio-naria.[19]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizia “La Retirada”.

 

 

 

 

Muore a Colliure Antonio Machado.

 

Guerra civile a Madrid tra i comunisti ed i seguaci di Casado.

 

Il governo lascia la Spagna.

 

 

 

 

 

Costituita la Giunta di Difesa Nazionale a Burgos Muore, in un incidente aereo il Generale Sanjurjo, capo della rivolta.

 

 

Trasferimentodell’armata d’Afri ca (35000 uomini) dal Marocco

con 9 Savoia-Marchetti e 50

Jumker forniti da Mussolini ed

Hitler.

 

Conquista di Badajoz (4.000

esecuzioni).

 

 

 

 

Assassinio a Granada di Garcia

Lorca.

 

 

Conquista di Irún.

 

Gli Eserciti del Nord e del Sud si congiungono ad Arenas de San Pedro.

 

Liberato l’Alcazar di Toledo.

 

 

 

 

 

Franco è eletto “generalissimo” e Capo dello stato spagnolo.

 

 

 

 

 

Creazione dall’Alto Tribunale di Giustizia Militare.

 

Hitler autorizza l’invio della Legione Condor (6.000 specialisti militari).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Governo riconosciuto da Italia e Germania.

 

 

 

 

Franco sospende l’attacco frontale a Madrid.

 

 

Fallito tentativo di aggirare la capitale da Nord.

 

 

 

 

 

 

 

 

Arrivo dei primi contingenti del Corpo Truppe Volontarie mandate da Mussolini.[3]

 

Inizio offensiva contro Malaga.

 

 

Inizia la battaglia del Jarama.

 

 

Malaga è occupata da spagnoli ed italiani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizio offensiva al Nord contro le Province Basche.

 

 

Bombardamento aereo e distruzione di Guernica (1654 morti).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Occupata Bilbao.

 

 

Lettera collettiva dell’episcopato spa-

gnolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Occupata Gijón e Avilés, fine della campagna del Nord.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riconquistata Teruel.

 

 

Offnsiva nell’Aragona, ripresa Belchite.

 

 

 

 

Occupata Lerida.

 

Raggiunto il Mediterraneo. La Catalo gna è divisa dalla Spagna Centrale.

 

Inizio dell’offensiva contro Valencia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizia la controffensiva sull’Ebro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I ribelli riconquistano tutto il terreno perduto fino all’Ebro.

 

 

Inizia l’offensiva contro la Cata

logna.

 

 

 

Occupata Tarragona.

 

Occupata Barcellona.

 

Completata l’occupazione della Catalogna.

 

 

 

 

 

 

 

 

Occupata Madrid.

 

Occupata Alicante.

 

 

Radio Burgos trasmette il bollettino della Vittoria: “Oggi dopo aver fatto prigioniero l’esercito rosso e averlo disarmato, le truppe hanno raggiunto i loro obiettivi.. La guerra è terminata”.[19]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I I

 

LE CAUSE DELL' ESODO

 

 

 

 

Cadde morto Federico,

sangue alla fronte e piombo alle viscere

Sappiate che fu a Granada il delitto, povera Granada!

Nella sua Granada.

Antonio Machado

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ECCIDI DI PARTE REPUBBLICANA

 

 

Dopo aver considerato in breve, nel capitolo precedente, l'intero corso della guerra civile spagnola (Luglio 1936 /Marzo 1939) occorre, per comprendere le cause della Retirada, prendere in esame il comportamento delle parti in lotta nei confronti degli avversari.

 

La storiografia, la letteratura e la memorialistica hanno considerato i fatti sotto aspetti diversi (politico, religioso, sociale, economico) denunciando, non sempre con la dovuta obiettività, la gravità dei crimini commessi dalle due fazioni e traendo conclusioni nettamente difformi tra loro.

 

Il numero delle uccisioni perpetrate dai repubblicani nel corso del conflitto, secondo le fonti sottoriportate, sarebbero state:

 

300/400.000 Enciclopedia Universal Ilustrada – Suplemento Annual, parte II, 1943,

86.000 Hugh Thomas nella Storia della guerra civile spagnola (che si rifa' alla fonte franchista del Santuario Nacional di Valladolid), cifra che in seguito modificherà in 50.000, [1]

70.628                        Salas Larrazábal Ramón in Pérdidas de la guerra,

50.000 Santos Juliá in Victimas de la Guerra Civil,

20.000 Gabriel Jackson in La Repubblica Spagnola e la guerra civile [2]

 

Dato quest’ultimo che risulta errato per difetto, se si considera che l’"Osservatore Romano", organo ufficiale del Vaticano, valutò in 16.500 i religiosi ed i laici cattolici uccisi. Paul Claudel, uno dei pochi intellettuali favorevoli a Franco, dedicò a loro la sua ode Aux martyrs espagnols: seize mille pretes massacrés et pas un'apostasie!. [3]

La rigorosa ricerca effettuata nel 1941dal sacerdote Antonio Moreno Montero[4], riportata nell’Historia de la persecución religiosa en España 1936/39, ha permesso di rendere pubblici i nomi di 6.832 religiosi assassinati:

- 13 vescovi, 4.171 preti, 2.365 frati e 283 monache; morti che ebbero un peso notevole sull'opinione pubblica mondiale. Dato che nel 1954 l'Ufficio d'informazione e statistica della Chiesa, fonte ufficiale della Chiesa spagnola, aumentò a 7.338. Al marzo 2001, l’attuale Papa Giovanni Paolo II ha beatificato nel corso del suo pontificato circa 500 di questi martiri.

 

Recenti studi, coordinati dal professor Santos Juliá, che costituiscono l’argomento del sopra citato Victimas de la Guerra Civil, hanno permesso di accertare che nelle ventidue province spagnole oggetto d’indagine le vittime della repressione repubblicana furono 37.843. L’autore ne deduce che complessivamente i morti per mano dei rossi non dovrebbero superare le 50.000 unità, in quanto le restanti ventisei province da analizzare, sono in massima parte quelle in cui i ribelli assunsero il potere sin dall’inizio dell’Alzamiento. Nella zona repubblicana la violenza toccò il suo acme nei primi tempi della rivolta (18/7 – fine ottobre 1936), quando più prepotente era la spinta a vendicare i massacri delle Asturie nel 1934 e a porre fine alle ingiustizie sociali generate da secoli di sfruttamento, mentre era massimo il caos interno per la defezione delle istituzioni pubbliche (magistratura e forze di polizia), passate in gran parte ai ribelli. Le uccisioni colpirono indiscriminatamente militari golpisti, ecclesiastici (circa 7.000), falangisti, borghesi e grandi proprietari terrieri. Particolarmente efferati furono i massacri dei fascisti di Ciudad Real precipitati nel pozzo di una miniera, o di Santander gettati giù dalla scogliera del Cabo Mayor o dei 512 maschi delle famiglie borghesi della cittadina andalusa di Ronda scaraventati in un dirupo. Fatto quest’ultimo ripreso da Ernest Hemingway in Per chi suona la campana, forse il maggior veicolo di conoscenza della guerra di Spagna presso il gran pubblico. Romanzo duramente contestato dai veterani dell’Abraham Lincoln Brigade sotto l’aspetto politico e da Aldo Garosci in Gli intellettuali e la Guerra di Spagna sotto l’aspetto reale dei personaggi. Nel corso degli espropri delle grandi proprietà terriere, numerose furono le uccisioni, motivate dall’odio di classe, di latifondisti e ricchi proprietari, compresi molti religiosi, nonché di quanti - intendenti e guardie civili - erano considerati strumenti dello sfruttamento cui le classi popolari erano sottoposte da secoli. Quando Madrid fu investita nell’ottobre dalle truppe franchiste molti prigionieri (in prevalenza ufficiali dell’Esercito che avevano dichiarato il loro sostegno ai ribelli) vennero, con il pretesto di essere trasferiti in altri penitenziari, condotti a Paracuellos del Jarama ed a Torrejón de Ardoz ed uccisi; finita la guerra furono esumate più di duemila salme. Altri, detenuti in carceri o battelli-prigione, furono massacrati dopo i bombardamenti delle città dalla folla inferocita per vendicare i civili inermi uccisi. La psicosi della temuta Quinta Colonna favorì l’assassinio di presunti oppositori in libertà operati dalle checas, squadre d’incontrollabili, quali la Brigada del Almanacer, che giustiziavano qualsiasi persona denunciata, anche anonimamente, senza prove certe dopo un processo sommario. Una tecnica, applicata in particolare dagli anarchici, era quella del paseo (passeggio), che consisteva nel prelevare i borghesi o i franchisti, portarli in qualche località in macchina e qui eliminarli. Molti reazionari catturati a Barcellona furono condotti ad una cinquantina di chilometri dalla città, sulla costa, per essere uccisi di fronte alla stupenda baia di Sitges. I morituri, nei pochi momenti che restavano loro, vedevano lo spettacolo meraviglioso del Mediterraneo all'alba. Sembrava che dicessero loro i giustizieri: «Guarda come avrebbe potuto essere bella la vita, se tu non fossi stato un borghese, e ti fossi alzato all'alba spesso, come sempre hanno dovuto fare i lavoratori».[4] Il 5 novembre 1936 il nuovo governo, presieduto da Llargo Caballero, che contava tra i suoi componenti quattro ministri anarchici con García Oliver alla Giustizia, per mettere un freno ai tanti tribunali del popolo che agivano al di fuori d’ogni legalità, adottò due provvedimenti: la riorganizzazione dell’Esercito, per controllare le milizie anarchiche, che amministravano in proprio la giustizia, e la creazione dei Tribunali Popolari composti di tre magistrati di carriera e quattordici giurati. Istituì inoltre il Servicio de Investigación Militar (SIM) e i Tribunales de Espionaje y Alta Traición per debellare lo spionaggio ed il sabotaggio e i Tribunali Permanenti dell’Esercito per giudicare i numerosi disertori e renitenti alla leva. Le checas furono sciolte il 4 dicembre 1936 per decisione del nuovo ispettore generale delle carceri, l’anarchico Melchor Rodriguez, dopo di che, le uccisioni sommarie diminuirono drasticamente. Il ministro García Oliver istituì numerosi campi di lavoro dove internare i prigionieri fascisti, nei quali il trattamento era duro ma era vietata la violenza fisica. Si pretendeva che il prigioniero lavorasse, e non ignorando come la mancanza di libertà limiti l’impegno, all’entrata dei campi era posta la scritta: "Lavora e non perderai la speranza" e come incentivo alla fatica la promessa che nove anni di lavoro ne valevano trenta di pena. Con l’avanzare dei ribelli, i campi divennero mobili, cioè i prigionieri erano aggregati alle truppe combattenti ed utilizzati a scavare trincee o costruire fortificazioni. Dei nemici fatti prigionieri nel corso del conflitto i repubblicani giustiziarono, dopo averli processati, i militari di carriera, accusandoli di aver tradito il giuramento di fedeltà alla Repubblica, i volontari del Tercio ed i membri della Falange.

 

ECCIDI DI PARTE FRANCHISTA

 

Più difficile da determinare, ma sicuramente più elevato, è il numero delle uccisioni perpetrate dai franchisti, durante e dopo il conflitto, infatti, sarebbero:

 

400.000 Gabriel Jackson, (dati di fonte repubblicana), di cui 200.000 nel dopoguerra, in quella che passerà alla storia come la grande mattanza. [5]

150.000 Hugh Thomas, che in un primo tempo aveva compreso tra i caduti in combattimento quanti erano stati uccisi dopo esser stati fatti prigionieri. Non quantifica le esecuzioni successive al 1.4.1939, che

34.250 Salas Larrazábal in Pérdidas de la guerra,

145.000 Santos Juliá in Victimas de la Guerra Civil. In effetti, la ricerca ha accertato 72.257 vittime in ventiquattro province ma devono ancora essere prese in considerazione quelle conquistate dai ribelli all’inizio della rivolta.

 

 

 

Da parte franchista il ricorso sistematico all’eliminazione fisica dei nemici fu perseguito sin dai primi giorni della rivolta, quando in Marocco furono uccisi i militari rimasti fedeli al legittimo governo centrale e gli esponenti dei partiti democratici e dei sindacati che li avevano appoggiati Paul Preston, nella biografia di Francisco Franco, (Mondadori, 1995) mette in evidenza l'uso strategico del terrore da parte delle truppe nazionaliste sin dall'inizio del conflitto, quando erano formate in prevalenza da Regulares marocchini e Legionari del Tercio. Truppe che, appena conquistata una città grande o piccola, massacravano i prigionieri: ufficiali e sottufficiali dell’esercito o delle milizie, commissari politici, soldati semplici o volontari stranieri delle Brigate Internazionali, che avevano avuto il torto di tentare di resistere, compresi i feriti. Subito dopo entravano in azione squadre di falangisti, borghesi e proprietari terreni, di massima figli di vittime dei repubblicani, che in preda ad una frenesia di vendetta, infierivano sugli oppositori in particolare: insegnanti, sindacalisti, esponenti e militanti dei partiti democratici, sindaci ed amministratori comunali e quanti accusati di delitti contro la Chiesa, le proprietà o i simpatizzanti della ribellione. Prelevati dalle carceri o dalle loro abitazioni, erano trascinati lungo i muri dei cimiteri o in zone fuori mano ed uccisi mentre l’immancabile sacerdote tentava di indurli a confessarsi.. Oltraggiavano le loro donne con violenza carnale ed il taglio dei capelli, saccheggiavano le case, bastonando selvaggiamente quanti vi incontravano senza distinzione di sesso ed età. Il ricorso all'intimidazione ed al terrore, definito eufemisticamente castigo, era specificatamente previsto dagli ordini superiori, infatti, alla fine d’agosto - dopo le stragi di Merida e Badajoz - Franco si vantò delle misure che i suoi uomini avevano adottato per reprimere il movimento comunista. I massacri facevano comodo per più di una ragione: appagavano la sete di sangue delle colonne africane, eliminavano in massa potenziali avversari (anarchici, socialisti, comunisti, che Franco sprezzantemente definiva marmaglia) e soprattutto generavano un terrore dagli effetti devastanti sulle improvvisate e male armate milizie repubblicane. Lucio Ceva, recensendo il libro di Preston, ritiene giusta l'opinione dell'autore, secondo cui quelli che sono definiti "i seri errori militari" di Franco sarebbero dovuti al fatto che per il generalissimo contava - esclusivamente o quasi - l'eliminazione del maggior numero possibile d’avversari. Questa scelta conferisce a Franco una patente d’autentico stratega, dal momento che se anche fu un mediocre comandante operativo per il carattere non risolutivo e l'altissimo costo delle sue campagne, fu un eccellente stratega perché realizzò compiutamente l'obiettivo di fondo consistente nello sterminio o nel castigo di chiunque, consapevolmente o no, avesse avversato la sua idea di Spagna.[6]

Nel febbraio 1937 il tenente colonnello italiano Faldella, capo di Stato Maggiore del generale Roatta comandante del Corpo Truppe Volontarie, mandate da Mussolini, esortò Franco ad imprimere un ritmo più celere alle operazioni ma egli dichiarò: «In una guerra civile la sistematica occupazione del territorio nemico accompagnata dalla necessaria limpieza (pulizia cioè sterminio di tutti gli oppositori) è preferibile ad una rapida disfatta degli eserciti avversari che lascerebbe il paese infestato di nemici».[7]

 

 

Indicative le stragi perpetrate in alcune località occupate dai falangisti, in particolare

 

Data

Città

Vittime

Testimonianza di

Luglio 1936

MAIORCA

3.000

Georges Bernanos in

"I grandi cimiteri sotto la luna"

Agosto 1936

BADAJOZ

4.000

Mario Neves, inviato del "Diario de Lisboa"

Claude Bowers ambasciato

re USA in “My mission to Spain"

Agosto 1936

GRANADA

5.000

Vittima più illustre fu Federico Garcia Lorca

Febbraio 1937

MALAGA

4.000

Atrhur Koestler in "Dialogo con la morte"

Gennaio 1939

BARCELLONA

25.000

Rivas Cherif Cipriano "Manuel Diaz Azaña, retrato de un desconocido"

 

Riportiamo le testimonianze tratte dalle opere di alcuni degli intellettuali di valore internazionale che si schierarono con la Repubblica.

 

Hemingway nell'opera prima citata descrive le uccisioni seguite all'occupazione di un villaggio nei pressi di Valladolid:

«Come fu che fucilarono i tuoi? ..... Mio padre era il sindaco del villaggio ed era un galantuomo.

Mia madre era una donna onesta e una buona cattolica e la fucilarono insieme al marito per le opinioni politiche di mio padre, che era repubblicano.

Io li ho visti fucilare tutti e due e mio padre disse: «Viva la Repubblica!».

Era appoggiato al muro del mattatoio del nostro paese quando gli spararono.

Mia madre, che era in piedi contro lo stesso muro disse:

«Viva mio marito che era sindaco di questo paese!»[...] [8]

 

Georges Bernanos, uno dei maggiori scrittori di cultura cattolica, denuncia in I grandi cimiteri sotto la luna, i massacri compiuti nell'isola di Maiorca sotto la regia del generale della M.V.S.N. Arconovaldo Bonaccorsi e la benedizione del Vescovo di Palma Miralles Sbert.

«Ho visto laggiù, a Maiorca, passare sulla Rambla autocarri carichi d’uomini. Rotolavano con un rombo di tuono, sfiorando terrazze multicolori, lavate di fresco, roride, con il loro gaio mormorio di festa paesana. Gli autocarri erano grigi per la polvere delle strade, grigi anche gli uomini seduti in fila per quattro, con i berretti grigi di traverso e le mani allungate sui calzoni di rigatino, molto modestamente .....

Li arraffavano ogni sera nei villaggi sperduti, nell'ora in cui tornavano dai campi; e così partivano per l'ultimo viaggio, con la camicia incollata alle spalle per il sudore e le braccia ancora appesantite dal lavoro della giornata, lasciando la zuppa pronta sulla tavola e una donna che arriva troppo tardi alla soglia del giardino, tutta trafelata col fagottino di panni stretto nel tovagliolo nuovo: «A Dios! Recuerdos!». [9]

.... a dicembre i fossati intorno ai cimiteri dell'isola ebbero la loro messe di malpensanti. Una volta che fu quasi finita l'epurazione sommaria (in città e villaggi) bisognò occuparsi delle prigioni. Erano piene, ci pensate! Pieni anche i campi di concentramento.

E piene allo stesso modo le chiatte in disarmo, i sinistri pontoni sorvegliati giorno e notte, sui quali, per eccesso di precauzione, dopo il calare della notte passava e ripassava il lugubre pennello di un faro che io vedevo dal mio letto, ahimè! Allora cominciò la seconda fase, quella dell'epurazione delle prigioni. Infatti, un gran numero di questi sospetti, uomini e donne, sfuggiva alla legge marziale, in mancanza del più insignificante reato materiale suscettibile di condanna da parte di un consiglio di guerra. Si cominciò dunque a rilasciarli a gruppi, secondo il loro luogo d'origine. A metà strada, si vuotava il carico nel fossato

..... Quanti morti? Cinquanta? Cento? Cinquecento? La cifra che vi darò è stata fornita da uno dei capi della repressione palmisana. La valutazione popolare è ben diversa.

Non importa. Al principio del marzo 1937, dopo sette mesi di guerra civile, si contavano tremila di questi assassinii.» [10]

Jean Paul Sartre ne Il muro racconta:

…«Tom riprese: - Sai cosa fanno a Saragozza? Fanno sdraiare i nostri sulla strada e ci passano sopra coi camion. E' un disertore marocchino che l’ha detto. Lo fanno per economizzare le munizioni.

- Non economizzano la benzina, - dissi. Ero irritato contro Tom: non avrebbe dovuto dir questo.

- Ci sono degli ufficiali che passeggiano sulla strada e stanno lì a sorvegliare, con le mani in tasca, fumando la sigaretta. Tu credi che li finiscano, quei disgraziati? Nemmeno per sogno. Li lasciano urlare. A volte per un'ora. Il marocchino affermava che, la prima volta, quasi vomitava.

- Non credo che qui lo facciano, dissi. A meno che non manchino veramente le munizioni». [11]

 

Arthur Koestler, ufficialmente cronista del New Chronicle di Londra, in effetti, agente del Comintern, fu arrestato a Málaga ed imprigionato a Siviglia per tre mesi durante i quali dovette sentì ogni notte l'appello dei condannati a morte, le grida dei morituri e i borbottamenti del prete che li accompagnava al muro dei fucilati.

Dedica il suo libro Dialogo con la morte, in cui riporta la sua esperienza di condannato a morte, a Nicolas, un oscuro soldatino della Repubblica spagnola che il 14 aprile 1937, sesto anniversario di quella Repubblica, fu fucilato. Nicolas era stato catturato dieci giorni prima e condannato a morte dopo sette, in un processo che era durato tre minuti. Il Presidente della Corte Marziale si era detto dispiaciuto di non poter mandare questo rojecillo miserabile piccolo rosso a Ginevra dentro una gabbia per far vedere alla Società delle Nazioni che razza di disgraziati erano questi cosiddetti combattenti per la giustizia e per la democrazia. Koestler si rivolge a Nicolas: «questo libro è dedicato a te piccolo contadino andaluso. Che vantaggio ne hai tu? Non potresti leggerlo nemmeno se tu fossi ancora vivo.

E' per questo che ti hanno fucilato: perché avevi l'impudenza di voler imparare a leggere. Tu, e qualche altro milione come te, che impugnaste le vostre vecchie armi da fuoco per difendere il nuovo ordine, il quale, forse un giorno, vi avrebbe insegnato a leggere. Gran Dio, davvero dovrebbero mandarti a Ginevra dentro una gabbia, con il cartello:

Ecce Homo, Anno Domini 1937».

Descrive con crudo realismo il prelevare di notte, a mezzanotte o l'una, i predestinati al plotone d’esecuzione, le preghiere del prete accompagnate dal campanello del Sanctus, le invocazioni d’aiuto e le grida di mamma, la paura dei prigionieri a sentire i passi che si avvicinavano alla cella, il sollievo di sentirli allontanare, distesi sui letti con i denti che battevano forte.

La notte del martedì ne furono fucilati diciassette.

La notte del giovedì ne furono fucilati otto.

La notte del venerdì ne furono fucilati nove.

La notte del sabato ne furono fucilati tredici.

Sei giorni tu lavorerai, disse il Signore,

e il settimo giorno riposerai.

La notte della domenica ne furono fucilati tre.»[12]

 

La cruzada suscitò l'indignazione anche degli intellettuali cattolici, in particolare del filosofo neo-tomista Jacques Maritain che pubblicò su La Nouvelle Revue Française del 2 luglio 1937 un articolo intitolato Cristo non è un capo di guerra»:

«Che s’invochi pure, se si ritiene giusto, la giustizia della guerra che si fa. Ma che non s’invochi la sua santità. Che si uccida, se si crede di dover uccidere in nome dell'ordine sociale o della nazione, questo è già abbastanza orribile. Ma che non si uccida in nome di Cristo Re, che non è un capo di guerra, ma un re di grazia e di carità, morto per tutti gli uomini, e il cui regno non è di questo mondo».

Allineato sulle stesse posizioni François Mauriac criticò duramente l'incondizionato appoggio della Chiesa al franchismo, responsabile di tanti massacri indiscriminati.

«Purtroppo resta questa spaventosa sciagura, che per milioni di spagnoli cristianesimo e fascismo si confondono, e che non potranno più odiare l'uno senza odiare l'altro [...] Quanti anni o secoli ci vorranno alla Chiesa di Spagna per liberarsi dal terribile equivoco e perché i figli delle donne assassinate a Guernica, a Durango, a Barcellona e in tutta la Spagna imparino a non confondere più la causa del loro Dio crocefisso con quella del generale Francisco Franco». [13]

Sicuramente la più terrificante testimonianza resta quella d’Antonio Bahamonde, capo del servizio propaganda del generale Queipo de Llano, (comandante dei Carabineros, che nei primi giorni della sommossa aveva occupato Siviglia, Cordoba, Granada e Cadice e il Sud-Ovest), il quale fuggito all'estero per il disgusto del lavoro svolto, valutò nel suo Memoirs of a Spanish Nationalist (Londra 1939) in 150.000 le persone assassinate dal luglio 1936 all'inizio del 1938 nel sud della Spagna.[14]

Il carattere spietato del nuovo ordine franchista è confermato dalla testimonianza, del conte Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri di Mussolini che nei suoi Diari annota con soddisfazione:

«La situazione è buona in Catalogna e Franco la migliora procedendo ad un'accorta epurazione, con rigorosa severità. Molti italiani, anarchici e comunisti sono stati fatti prigionieri. Io l'ho comunicato al Duce ed egli mi ha ordinato di farli tutti fucilare: i morti non raccontano la Storia».

Con i settemila religiosi uccisi dai repubblicani, di cui al paragrafo precedente, occorre ricordare gli ecclesiastici vittime della violenza franchista. Si trattò d’appartenenti al basso clero basco che, disattendendo alle istruzioni dei superiori, erano rimasti fedeli al Governo di Madrid, come la stragrande maggioranza dei loro conterranei. Dopo la conquista delle Province Basche (ottobre 1936) cominciò da parte dei ribelli l’abituale bagno di sangue con l’eliminazione fisica degli avversari, tra cui si contarono anche 16 religiosi, mentre centinaia di loro subirono violenze e vessazioni.

In un libro edito a Buenos Aires nel 1946 "En España sale el sol", un cattolico basco, Pedro de Basaldua, riportò un lungo elenco di sacerdoti baschi perseguitati fino al 1938, precisando nomi, cognomi, carica ecclesiastica e località di residenza: 21 i fucilati senza processo e 228 gli imprigionati, di cui 7 condannati a morte, 11 all’ergastolo, 7 a trent’anni di carcere, 40 a pene varianti tra i venti ed i sei anni e 5 ai lavori forzati; di questi 4 risultavano morti durante la detenzione e 3 torturati. Lo stesso elenco comprende inoltre i nominativi di 17 sacerdoti deportati, di cui 2 morti, di 16 destituiti od espulsi e di 224 esiliati. Nulla fece ufficialmente il Vaticano per fermare tali assassinii e persecuzioni, mentre con l’enciclica del 19 marzo 1937 “Divinis Redemptoris” Pio XI duramente condannava il flagello comunista che si era abbattuto sulla cattolicissima Spagna, ricordando i vescovi e le migliaia di sacerdoti, religiosi e religiose uccisi. Di fronte alla denuncia del Presidente basco José Aguirre il cardinale Tomá, arcivescovo di Toledo e Primate di Spagna, affermò che le gerarchie ecclesiastiche “non avevano fatto passare certo la cosa sotto silenzio”, ed, in effetti, le esecuzioni cessarono. [15]

Il Caudillo, poco prima della fine delle ostilità, per dare un crisma di legalità alla resa dei conti che aveva in mente fece promulgare il 13 Febbraio 1939 la Legge sulle responsabilità politiche che istituiva Tribunali per giudicare tutti gli atti di sovversione compiuti dal 1° ottobre 1934 (rivolta di Barcellona e delle Asturie) e i delitti di ribellione contro il Movimento dal 1936, (cui faranno seguito il 1 Marzo 1940, la Legge speciale sulla repressione della massoneria e del comunismo ed il 29 Marzo 1941, la Legge sulla sicurezza dello Stato).[16]

Dopo la fine della guerra, (1° aprile 1939) il nuovo ordine, internò, nella attesa di processarli uno ad uno, in almeno cinquanta campi di concentramento improvvisati oltre settecentomila soldati repubblicani ed instaurò nel paese un regime poliziesco basato su denunce e delazioni, che portò in breve, secondo il Comitato Internazionale della Croce Rossa, a raddoppiare il numero dei detenuti. Furono creati in tutte le città della Spagna oltre un migliaio di tribunali militari, composto ognuno da sette ufficiali, e si raccolse per ogni prigioniero nei luoghi di residenza informazioni ed eventuali denunce sulla sua partecipazione ad atti contro il Movimento, il che comportò l’accumulo di centinaia di migliaia d’atti giudiziari. L’esame delle pratiche fu svolto dai giudici con rapidità a danno della verità – non erano, infatti, prese in considerazioni prove a discarico – mentre gli imputati erano sottoposti durante gli interrogati a brutali torture per indurli a confessare le colpe loro ascritte, quindi veniva istruito un processo che poteva essere singolo o collettivo, come pure le sentenze. Un processo durava anche meno di mezz’ora e numerosissime erano le condanne alla pena capitale. Secondo il Ministero della Giustizia furono 192.684 i giustiziati dall’aprile 1939 al giugno 1944; le sentenze capitali erano eseguite dalla Guardia Civile, mentre le squadre della morte falangiste nelle zone di recente occupate dai nazionalisti si scatenavano in paseos, soprattutto di quanti erano stati assolti nei processi o erano sfuggiti alla giustizia, oltre alle sopra citate violenze e saccheggi. Le fucilazioni o gli strangolamenti con la vil garrote si succedevano senza posa e le vittime erano inumate in fosse comuni privando i famigliari anche del conforto di un fiore o di un omaggio alla tomba del congiunto. Come la cava di granito in disuso sulla collina del Montjuic a Barcellona, le cui alte mura di pietra fanno da cornice ad un grande spiazzo d’erba in cui si ritiene siano sepolti tremiladuecento oppositori catalani. Nello stesso luogo, tra le lapidi commemorative dei volontari delle Brigate Internazionali, vi è la tomba di Lluis Companys, presidente della Generalitat catalana, arrestato dai tedeschi in Francia e consegnato ai suoi carnefici. Un’altra fonte (non controllabile) parla di trentasettemila cadaveri accatastati per uno spessore di 25 metri. Uno dei delitti più agghiaccianti fu la fucilazione avvenuta il 5 agosto 1936 nel carcere di Ventas di tredici ragazze, tra i quindici ed i diciassette anni, appartenenti alla Gioventù Socialista Unificata, accusate di aver progettato l'attentato di un generale. Una poesia a loro dedicata le definirà le tredici rose.[17] La giustizia nazionalista mise a morte seimila insegnanti, compresi cento docenti universitari, che la Repubblica aveva definito "milicianos de la cultura". Quelli risparmiati dai plotoni di esecuzione, ma condannati a lunghi anni di detenzione (anche trent’anni) scontavano la pena in penitenziari fatiscenti, sottoposti ad una disciplina durissima aggravata dalla brutalità dei gurdiani e dalla scarsità del vitto e delle cure, che determinò la morte di moltissimi di loro, il più famoso fu il poeta Miguel Hernández, deceduto nel 1942 nella prigione d’Alicante per tubercolosi contratta in carcere. Le prime vittime di tanta crudeltà furono i figli delle carcerate, cui il vitto delle prigioni, insufficiente per quantità e valore nutritivo, fu causa di rachitismo e morte. A questi vanno aggiunti quanti, non riuscendo a sopportare l'atmosfera d’incubo delle prigioni, si tolsero la vita. Emblematica la figura di Matilde Landa, militante comunista, dirigente del Soccorso Rosso di Madrid, che rimasta nella capitale per riorganizzare il Partito Comunista, confidando nel fatto che durante la guerra si era dedicata esclusivamente a problemi assistenziali. Fu invece arrestata e dopo esser stata maltrattata nella Direzione Generale di Sicurezza, condannata a morte nel dicembre 1939. Per l'intervento del filosofo e sacerdote García Morente, allievo d’Ortega y Gasset, la pena le fu commutata nell'ergastolo. Inviata nel penitenziario di Maiorca fu sottoposta da parte del vescovo Miralles Sbert a tutta una serie d’angherie, per indurla a convertirsi al cattolicesimo, tanto che per l’esasperazione il 26 settembre 1942 si uccise gettandosi da una finestra. Per limitare il fenomeno i detenuti organizzarono dei gruppi di sostegno che vegliavano contro i tentativi di suicidio dei compagni più deboli.

I condannati cui state comminate pene non gravi, se militari, malgrado avessero servito come soldati di leva nell'esercito repubblicano, furono obbligati a ripetere la ferma (tre anni), se civili furono inquadrati nei Battaglioni del lavoro ed utilizzati, come mano d'opera schiava, alla ricostruzione di città, strade e ponti o ad innalzare il faraonico mausoleo della Valle de los Caidos, iniziato nel 1940 e terminato nel 1959 con un costo di duecento milioni di sterline dell'epoca (in quest’opera furono impiegati in vent’anni circa 20.000 di questi lavoratori). Se lavoravano per imprese pubbliche percepivano il giorno 5 pesetas (recluso con moglie – naturalmente sposata in Chiesa - ed un figlio) di cui 1,50 servivano per il mantenimento, 0,50 restavano al prigioniero e 3 andavano alla famiglia. Se l’ingaggio era in imprese private la paga era di 14 pesetas il giorno di cui 1,40 per il vitto, 0,50 per il detenuto, 3 per la famiglia mentre le restanti 9,10 venivano versate allo Stato. [18]

In tutti questi luoghi di pena il trattamento era durissimo, la disciplina severa, il lavoro pesante in ogni condizione atmosferica, il vitto scarso per i "prelievi" dei guardiani, ma soprattutto le violenze erano all’ordine del giorno. I sorveglianti tolleravano l’accesso di bande di falangisti, assetate di vendetta, che si divertivano a picchiare sadicamente, senza alcun giustificato motivo, dei prigionieri presi a caso; il che comportò numerosi decessi coperti dai medici con falsi certificati. Cosa accomuna questi luoghi di tortura ai campi di internamento nazisti oltre alle brutalità sopra riportate, fu la "spersonalizzazione dell’individuo”, in proposito vanno ricordate le parole del Direttore del Carcel Modelo di Barcellona, Isidro Castrillón López che rivolto ai prigionieri affermò: "Parlo alla popolazione reclusa: dovete ricordare che un prigioniero é la decimilionesima parte di una merda".[19] Dovettero passare molti anni prima che la Chiesa rivedesse le sue posizioni, infatti, non si può tacere la partecipazione attiva del clero, che tentava con ogni mezzo, lusinghe e minacce, di riportare a Dio queste anime perdute.

I morti forse furono i più fortunati, perché quelli che sfuggirono alla pena capitale subirono vessazioni ed umiliazioni per anni. Infatti, anche dopo aver espiato la pena ed essere tornati alle loro case, il calvario di questi desafectos non era finito, oltre all’obbligo di presentarsi ogni giorno alla Guardia Civil per sottoscrivere il Registro delle presenze (di mussoliniana memoria), subirono la confisca di denari, immobili ed attività, vennero gravati da pesanti multe, persero l’impiego, nessun diritto civile fu loro riconosciuto. Ad esempio, nei Paesi Baschi su una popolazione di 1.325.000 persone, 929.630 subirono le conseguenze della guerra, di cui 48.000 i morti, 50.000 i feriti gravi, 87.000 i prigionieri, 150.000 gli esiliati e 596.000 i sancionados. In nessuna nazione la vendetta dei vincitori fu così spietata e duratura; vi furono delle limitate amnistie, ma fino al 1969 (trent’anni dopo) la legge sulle Responsabilità non fu abrogata. La parola riconciliazione non fu mai pronunciata dal regime, che tenne sempre viva la divisione delle Dos Españas, i vincitori avevano vinto e governavano, ai vinti era consentito sopravvivere.

 

Numeri e testimonianze esaurienti a giustificare il terrore che si impadronì dei catalani e dei profughi delle altre provincie spagnole all'approssimarsi delle armate franchiste e come la vicina Francia apparisse il naturale rifugio alle loro paure.

 

 

 

 

 

 

 

 

I I I

 

L'AGONIA DELLA CATALOGNA E LA "RETIRADA"

 

 

 

 

Después tanto luchar

Contra el fascismo atrás

y en el campo de Argelès sur Mer

Nos fueron a encerrar pa no comer.

Y a pensar que hace tres años

España entera

Era una nación feliz

Libre y obrera.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CADUTA DELLA CATALOGNA

 

Il 23 dicembre 1938 le truppe nazionaliste, forti di 300.000 uomini (cinque corpi di armata spagnoli più quattro divisioni scelte italiane), appoggiate da 565 pezzi di artiglieria e dalla supremazia aerea garantita da italiani e tedeschi, iniziarono la grand’offensiva che le avrebbe portate al conquistare la Catalogna. Italiani e Navarresi passarono il fiume Segre a venti chilometri a nord di Mequinenza, alla sua confluenza con l'Ebro, mentre altri due corpi d'armata attaccarono e sfondarono più a monte sui primi contrafforti dei Pirenei. Per fronteggiare l'offensiva fu gettato nella battaglia il V Corpo d'Armata agli ordini di Lister, che riuscì a resistere per quasi due settimane, ma la cronica carenza di armi - soprattutto artiglieria, carri armati ed aerei - costrinse i repubblicani a ritirarsi. Caddero Borjas Blancas e Artesa de Segre, mentre a sud i franchisti passato l'Ebro, e risalita la costa, occupavano Tarragona.

La battaglia per i repubblicani si trasformò in rotta, non restavano che i fucili per difendere la Catalogna ormai circondata da ogni parte. La fallita offensiva sull’Ebro del luglio 1938 aveva prosciugato le già scarse scorte di materiale bellico a disposizione della Repubblica.

Il 24 gennaio 1939 i nazionalisti raggiunsero il fiume Llobregat a pochi chilometri da Barcellona, mentre a nordest cadeva Manresa con il pericolo che la frontiera con la Francia venisse isolata.[1] Il Capo del governo Negrín, i ministri, i capi dell'esercito e gli alti funzionari dell'amministrazione civile, assieme al governo catalano e a quello basco in esilio, si trasferirono a Gerona. Il 26 gennaio Barcellona cadde quasi senza resistenza mentre centinaia di migliaia di profughi iniziavano la marcia verso i Pirenei: un milione secondo il quotidiano Le Midi Socialiste di Perpignan.

 

Ora che l'incubo delle armate franchiste si era fatto più pressante, aumentò anche la paura delle ritorsioni dei vincitori alimentata dai racconti di quanti erano fuggiti dalle altre regioni. Molti baschi, ad esempio, che erano già espatriati in Francia nel giugno del 1937 per rientrare poi in Spagna attraverso i Pirenei Orientali, davano testimonianze agghiaccianti, spesse volte ingigantite o frutto di fantasia, ove raccontavano di uomini torturati, di donne violate, di bambini infilzati sulle spade ricurve dei mori, di fucilazioni di massa, ecc.

Álvarez Del Vayo, Ministro degli Esteri spagnolo, richiese al suo omologo francese Georges Bonnet di accogliere 150.000 profughi, (neppure il governo prevedeva che l'entità dell'esodo sarebbe stato tre volte superiore), ma questi rispose che non poteva dare seguito a tale richiesta perché essa avrebbe imposto alla Francia un'uscita finanziaria eccessivamente pesante.

Il governo Daladier propose di «accogliere un massimo di 3.000 bambini», di quelli che attendevano nei pressi della frontiera di poter entrare. Bonnet tentò in alternativa di costituire una zona neutra, da situarsi nel nord della Catalogna e in Andorra, in cui accogliere i profughi, affidandoli alla tutela delle organizzazioni umanitarie internazionali e delle potenze neutrali rappresentate nel Comitato di non intervento e a tal riguardo si mise in contatto con il governo di Burgos. Il governo repubblicano aderì alla proposta, ma questa fu respinta da Franco.[2]

 

 

REAZIONI IN FRANCIA

 

 

L'avvicinarsi di questa massa disordinata verso la frontiera pirenaica riaccese la polemica su cosa fare di fronte al problema spagnolo in generale ed a quello dei profughi in particolare. All’Assemblea Nazionale, discussioni burrascose opposero Léon Blum e l'Unione delle Sinistre (fra cui il Partito Comunista, che non riteneva ancora tutto perduto se si fosse aiutata concretamente la Repubblica Spagnola) alla destra ed al governo Daladier. Léon Blum, dimenticando di essere uno dei promotori del Comitato di non intervento, rimproverava al suo successore la partecipazione del governo francese a questo comitato e la rigida osservanza alle sue direttive che avevano privato la Spagna repubblicana di molti aiuti stranieri. Per altro, nonostante la politica seguita dai diversi governi francesi, tesa a rimpatriare i civili in Spagna e a rifiutare l'asilo sul suo territorio ai militari, molti rifugiati risiedevano già in Francia. Nel novembre 1937, il governo rammentò le sue precedenti istruzioni, che prescrivevano che solo i "turisti" potessero risiedere in Francia precisando che essi dovevano provvedere alle loro necessità con mezzi propri, in altre parole senza svolgere alcun lavoro. Il divieto di lavorare era legato alla difesa della mano d'opera locale in un momento di grave recessione economica. Nei riguardi di donne, bambini, vecchi e feriti, nei confronti dei quali le pressioni per invogliarli al ritorno non erano meno pressanti, si derogò alla norma consentendo loro, se le informazioni erano eccellenti, di essere alloggiati a spese della comunità pubblica.

Si è prima accennato alla grave crisi economica che travagliava la Francia, motivo perciò i francesi non volevano sopportare un esborso finanziario supplementare per sopperire alle necessità dei profughi. Tale assistenza comportava una spesa molto elevata, sopportata quasi interamente dalla Francia: si stimava, infatti, che un rifugiato costava alla comunità non meno di cinque franchi il giorno, che diventavano sessanta se si trattava di un ferito. Dall'insurrezione militare, nel luglio 1936, al dicembre 1938, le spese sostenute dallo stato francese per aiutare i profughi ammontavano ad ottantotto milioni di franchi ai quali bisognava aggiungere altri apporti d’organizzazioni non statali e private, quali quelli del sindacato C.G.T. che alla fine dell'anno 1938 avrà donato 12.283.639 franchi. Alcuni ritenevano che poiché la Francia non riconosceva i diritti di belligeranza all'una o all'altra parte non era tenuta a rispettare l'art. 14 della Convenzione dell'Aia che imponeva di aiutare i feriti e di evitare di rinviarli a combattere.

L'ostilità aumentò nell'aprile 1938 con la salita al potere di Daladier. Altre leggi regolanti il soggiorno in Francia degli spagnoli rafforzarono le misure repressive già in vigore.

La legge del 2 maggio 1938 introdusse l'obbligo di una carta d'identità da richiedere alle autorità di polizia entro il primo mese. In mancanza l'interessato rischiava una pena da cinquanta a mille franchi e una condanna che poteva andare da un mese ad un anno di prigione, ma soprattutto rischiava l'espulsione. I francesi che aiutavano uno spagnolo non in regola incorrevano nelle stesse pene. Il 27 luglio 1938, una circolare ministeriale rammentò che gli spagnoli erano autorizzati a risiedere in Francia a titolo temporaneo nell’attesa del ripristino della situazione in Spagna. A questo titolo i servizi di polizia rilasciavano loro una ricevuta di domanda di carta d'identità o di lasciapassare breve sul quale era indicato in chiaro: «Soggiorno precario che non comporta alcun diritto a fissare la propria residenza definitiva in Francia» e portava la dichiarazione: «Divieto di esercitare qualsiasi mestiere, commercio o industria». Esso precisava chiaramente che, «salvo casi particolari, per i quali potrà essere esaminata un'eventuale deroga, alcun’eccezione a queste disposizioni sarà consentita a causa della temibile concorrenza che essi potevano fare ai nostri cittadini».

La sinistra, ricordando che l'asilo è un diritto e non un privilegio, insorse contro queste leggi che tendevano a limitare e selezionare l'entrata dei rifugiati. I reazionari invece consideravano queste disposizioni troppo moderate anzi, il giornalista radicale Dominique richiese il rimpatrio di tutti gli spagnoli invalidi, dei malati mentali, di quelli colpiti da malattie veneree o tubercolosi, dei pervertiti sessuali, degli alcolizzati, degli agitatori politici e dei criminali e terminava: «Quelli che non hanno mezzi di sussistenza propri». Nella stampa dell'estrema destra, Léon Daudet, giornalista del L' Action Française, e Henri Béraud, giornalista del Gringoire orientavano e davano tono al dibattito domandandosi se la Francia doveva diventare «l’immondezzaio del mondo». L'intransigenza della destra reazionaria e fascista francese incoraggiò il governo Daladier a continuare a vilipendere i rossi fino a creare un clima d'angoscia e provocare un riflusso nazionalista. Di là delle lotte politiche, una frangia della popolazione francese era sempre più sensibile a queste campagne tenuto conto che dal 1918 tre milioni di stranieri avevano trovato rifugio in Francia. Ora, in un periodo di recessione economica, la xenofobia latente riemerse, e gli stranieri, rifugiati o non, divennero la facile valvola di sfogo nazionale e si diffuse l'opinione che se ne dovessero andare. Ancora una volta la Francia era divisa.

 

Si è sopra accennato come la Francia avesse già dovuto affrontare il problema dei profughi nel periodo dal marzo all'ottobre 193, quando i franchisti avevano occupato le Asturie e i Paesi Baschi, ma allora la quasi totalità dei fuggiaschi era stata fatta rientrare in Spagna attraverso la frontiera dell'Est. Vivevano all'epoca in Francia molti spagnoli, numerosi erano émigrés économiques con un'attività o un lavoro stabile, altri avevano attraversato clandestinamente i Pirenei dopo il 1936 ed avevano trovato ospitalità presso parenti, tra questi molti seguaci di Franco che attendevano la totale conquista della Spagna da parte delle armate amiche per rimpatriare, ma in quest’ultimo caso si trattava per lo più di borghesi che possedevano sufficienti mezzi di sostentamento.

 

A fianco delle forze progressiste che per fratellanza ideologica sostenevano il buon diritto dei repubblicani sconfitti ad essere accolti in Francia, si schierarono molte personalità culturali e politiche che non potevano essere definite di sinistra. Tra questi vanno ricordati:

- il cardinale Verdier, arcivescovo di Parigi, Justin Godard, membro dell'Accademia di Sanità, il marchese di Lillers, presidente della Croce Rossa Francese, Jacques Maritain dell'Istituto Cattolico, Jean Perrin, premio Nobel dell'Accademia delle Scienze, Henri Picot, presidente dell'Unione Federale dei Combattenti, André Bergson, premio Nobel per la filosofia, gli scrittori André Gide, François Mauriac e Georges Bernanos. Tra gennaio e febbraio gli appelli lanciati da tali personalità restarono lettera morta; negli ambienti ufficiali francesi regnava la massima indifferenza.

 

Il 17 gennaio, il governo autorizzò l'ingresso di soli tremila feriti gravi, a fronte della richiesta avanzata due settimane prima di accoglierne circa quindicimila a seguito dell'evacuazione dagli ospedali della Catalogna. In particolare furono accolti solo i feriti civili, diversi militari furono rifiutati nonostante la gravità del loro stato specie se si trattava di soldati delle Brigate Internazionali ai quali era fatto assoluto divieto di entrare in Francia, a meno che non fossero cittadini francesi. Il 5 febbraio, trecento feriti furono respinti con brutalità dalle guardie mobili che minacciarono di bloccare a tutti il passaggio della frontiera se si fosse insistito per farli passare. Nel frattempo si scatenò la reazione. Le campagne antirepubblicane, fomentate dalla destra e dall'estrema destra francese, aumentarono d’intensità alla fine del 1938, man mano che si profilava sempre più netta la vittoria franchista. In particolare queste forze politiche si opposero all'entrata in Francia dell'esercito repubblicano in rotta, argomentando che i soldati spagnoli potevano mettere in pericolo con la loro presenza, la neutralità francese.

La prospettiva di un esodo massiccio dalla Catalogna terrorizzava molta gente; sensazione largamente diffusa e stimolata anche dalla stampa moderata.

La Depeche, che rifletteva l'opinione del governo, moltiplicò gli avvertimenti sui rischi derivanti dalla presenza d’estremisti, comunisti o anarchici, e richiese l'invio di rinforzi militari.

Qualificando i combattenti repubblicani in fuga come «orde terroriste», il 30 gennaio - Barcellona era caduta da quattro giorni - questo giornale scrisse: «Si consideri il pericolo che possono rappresentare questi rivoltosi sul nostro territorio».

Sulla maggior parte dei quotidiani venivano denunciate estorsioni e crimini commessi, oltre i Pirenei, da membri della F.A.I., del Partido Comunista Español (P.C.E.) e del Partido Obrero de Unificación Marxista (P.O.U.M.) e contraffacendo una realtà sin troppo evidente il giornale prima citato parlava di un «afflusso di borghesi che non sfuggono il franchismo ma i terroristi». Per tutti i giorni a cavallo fra gennaio e febbraio questa stampa, mescolando l'angoscia al sensazionale, creava prima dell'arrivo dei profughi un'autentica psicosi e le condizioni per fomentare una xenofobia spinta al parossismo. Per accentuare ulteriormente la pressione essa si dichiarava preoccupata della situazione dei contadini meridionali, la cui incolumità sarebbe stata messa in pericolo da fuggiaschi armati che si aggiravano per le campagne. Il 5 febbraio, il quotidiano L'Indépendant dichiarò: «Le popolazioni rurali sono a giusto titolo turbate dal vedere sparpagliarsi per le loro terre una massa d’uomini che per anni hanno condotto una vita al di fuori d’ogni controllo e che vogliono sfuggire ai vincoli che il nostro governo giustamente vuole loro imporre». Queste campagne all'odio prefigurarono l'atmosfera che si sarebbe sviluppata nei giorni in cui la massa dei fuggiaschi raggiunse la frontiera.

Il governo, temendo un conflitto interno, considerata l'affermazione delle forze politiche reazionarie, cedette a queste pressioni e all'inizio di gennaio prese delle decisioni radicali per prevenire un eventuale sconfinamento delle truppe spagnole. Inviò reparti del genio militare ad Osséja (Pirenei Orientali) a preparare delle trincee in cui sistemare armi automatiche. Dopo la visita d’alcuni ministri alla frontiera, il governo dichiarò: "«Giammai il nostro paese mancherà ai suoi doveri d’umanità, ma esso ha dei doveri verso se stesso e non può divenire terra d’asilo per popolazioni in preda al panico e cui si sono mescolati elementi d’ogni specie».[3]

 

 

LA RETIRADA

 

 

Nella notte dal 27 al 28 gennaio la frontiera fu aperta: «Le donne, i bambini e i vecchi possono essere accolti. I feriti saranno curati. Gli uomini in età di portare armi devono essere respinti». Questa, in sintesi, la decisione del governo francese, di fronte all'afflusso dei fuggiaschi a tutti i posti di frontiera e al rifiuto categorico di Franco di accettare la costituzione di una zona franca dove accogliere i profughi.[4]

Secondo una prima stima si attendeva per i giorni che seguivano l'arrivo di due o trecentomila persone. Tutte le strade che conducevano verso il Nord presentavano lo stesso desolante spettacolo: erano letteralmente intasate da migliaia di vetture, camion, carrette, cavalli e muli che si facevano strada attraverso una massa estenuata d’uomini, donne e bambini, che procedevano a piedi. I fuggiaschi camminavano lentamente in piccoli gruppi, portando a spalle o sulla testa tutto ciò che avevano potuto salvare dalle loro case, grossolanamente imballato in sacchi o in teli. Per proteggersi dal freddo la maggior parte era intabarrata nelle coperte. Molte donne avevano i figli più piccoli in braccio e si trascinavano dietro per mano i più grandicelli, che piangevano per la fatica. I feriti e i malati che non avevano potuto essere evacuati su autoambulanze o camion avanzavano, mescolati alla folla, aiutati dai più validi. Un silenzio pesante regnava su questa massa che avanzava verso la frontiera, rotto soltanto dal rombo dei motori degli aerei italiani e tedeschi che venivano a mitragliare o bombardare questi disgraziati, aerei che scendevano a bassa quota per meglio aggiustare il tiro.

Le città di frontiera erano letteralmente intasate. Il terrore accomunava tutti, sia che venissero dal profondo Sud, dall'Andalusia o dall'Estremadura, che i franchisti stessi avevano spinto alla fuga per aumentare le difficoltà della Repubblica, sia dall'estremo Nord, dai Paesi Baschi sconvolti dalla distruzione di Guernica, o dalla Catalogna per troppo breve tempo fiera della sua ritrovata autonomia. Anche l'esercito, o ciò che ne restava, era nella più completa confusione, reparti sparsi tentarono di rallentare l'avanzata dei nazionalisti, ma senza ordini e senza collegamenti.

 

Le atrocità commesse dai vincitori divennero rapidamente di dominio pubblico. Ben presto circolò l'orribile notizia del carnaio del Llobregat, ove la divisione del generale Yagüe aveva falciato con le mitragliatrici cinquecento civili. L'angoscia riprese. Per evitare che questo panico generasse altri problemi, le autorità repubblicane misero in atto delle misure per ripristinare un certo ordine, furono ripresi i collegamenti con il fronte: diverse compagnie furono riorganizzate con la nomina, ove mancava, di un comandante ed inviate a combattere nel tentativo di rallentare l'avanzata franchista. Nei posti di frontiera le forze di polizia ripresero le loro funzioni e tornò una certa normalità.[5]

 

Le località interessate dall'esodo furono:

 

SPAGNA FRANCIA

 

Port Bou Cerbere

La Junquera Le Perthus

Mollò Prats de Mollo

Puigcerdá Bourg Madame.

 

Il 30 gennaio la situazione migliorò, l’entrata delle vetture e dei profughi venne canalizzato, permettendo di sgombrare gli accessi alla frontiera e consentendo un flusso più regolare, il che determinò un maggior ordine nella colonna dei fuggiaschi. Oltre al mitragliamento dell'aviazione fascista, le condizioni meteorologiche aggravavano la situazione dei fuggiaschi, il cui stato fisico non cessò di peggiorare. Il freddo particolarmente intenso e la pioggia, uniti alla fatica generale, ebbero delle conseguenze drammatiche su degli organismi sottoalimentati. La notte era il momento più atroce; si cercava di far fronte alle intemperie con un fuoco per riscaldarsi e per cuocere un po’ di cibo, poi avvolti in una coperta e stretti gli uni agli altri si aspettava l'alba, quando ci si accorgeva che un corpo più rigido degli altri aveva l'aria serena che dona la morte. I memorialisti riportano le testimonianze di diversi protagonisti ma tutti accomunati nel descrivere il fiume di miseria che lentamente defluiva in un disordine spaventoso.

 

Lo scultore Manolo Valiente, commissario politico di un battaglione repubblicano, era in convalescenza a Lloret de Mar sulla Costa Brava, in un asilo per vecchi trasformato in ospedale, quando giunse l'ordine d’evacuazione. «Là – racconta in Arena y viento, romance de refugiado - ho visto uno spettacolo terribile, indimenticabile: per fuggire una dozzina di ciechi si sono messi in fila indiana tenendosi l'uno all'altro dietro di quello che vedeva un po’. Lo strano corteo è entrato nella foresta delle querce da sughero e, sbattendo dappertutto e graffiandosi ai rami degli alberi, ha cominciato a camminare verso la Francia».[6]

 

Il 2 febbraio il governo repubblicano e 67 membri delle Cortes in un'ultima riunione a Figueras, al castello di Sant Ferran, approvarono all'unanimità la politica di resistenza ad oltranza e passarono in Francia. Diversi autocarri trasportarono oltre frontiera i tesori artistici spagnoli, che furono consegnati il 14 febbraio al Segretario della Società delle Nazioni a Ginevra, e 1.480.000 franchi oro che la Banca di Spagna depositò presso la Banca di Francia. Il 5 febbraio entrarono in Francia per La Vajol e Les Illes i quattro presidenti: quello della Repubblica spagnola Manuel Azaña; del Parlamento spagnolo Martínez Barrio, della Generalitat catalana Lluis Companys e del Governo basco José Aguirre.[7]

 

Il governo francese, costretto dagli avvenimenti incalzanti, consentì l'espatrio sul suo territorio all'armata repubblicana, a partire dal

- 5 febbraio alle ore 20 a Cerbère,

- 6 febbraio alle ore 16 e 30 a Le Perthus,

 

giorno in cui le armate di Franco occuparono Pont de Molins, alle porte di Figueras, Ripoll ed erano ormai prossime a Puigcerdá.

Dall'altra parte della frontiera le autorità francesi furono letteralmente prese alla sprovvista, non avevano valutato l'impatto di una simile massa di fuggiaschi né avevano avuto la possibilità e la capacità di predisporre efficienti dispositivi di ricezione. La burocrazia, l'intersecarsi d’autorità diverse, civili e militari, la difficile interpretazione delle disposizioni emanate dal governo centrale, la mancanza di mezzi, tutto contribuì a rendere penoso anche l'auspicato passaggio della frontiera. Il 23 gennaio, nel corso di una conferenza stampa, Raoul Didkowski, Prefetto di Pirenei Orientali, aveva dichiarato:

«I rifugiati spagnoli non saranno respinti: questo non è mai stato in discussione. La generosità francese non potrà essere messa in dubbio, essi saranno accolti e ripartiti secondo il piano predisposto che mi è stato inviato dal Ministero dell'Interno. I profughi saranno ricevuti ai posti di frontiera, disarmati se è il caso, rifocillati, trattati umanamente e poi avviati su dei treni, nelle zonepredisposte nei vari dipartimenti della Francia».

In effetti, i militari si preoccuparono più dell'ordine pubblico che dell'assistenza, per la quale poco era stato programmato. I servizi sanitari e d'intendenza dimostrarono rapidamente la loro inefficienza davanti alla gravità della situazione, solo il servizio di sicurezza, affidato alle autorità militari, dimostrò tutta la sua dura efficacia. Con le armi in pugno e l'artiglieria in posizione, i reparti dell'esercito, dislocati da giorni lungo i Pirenei, accolsero i rifugiati. Il massimo d'orrore per questi disgraziati traumatizzati dai mori di Franco - tristemente famosi per la repressione delle Asturie del 1934 e per il fatto di costituire il nucleo delle truppe franchiste - fu essere ricevuti da reparti coloniali francesi: il 7° reggimento di Spahis e il 24° dei tiratori senegalesi.[8]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I V

 

L’ACCOGLIENZA

 

 

 

 

Mais oui, Monsieur.

Mais non....

(Es la Francia de Daladier,

la de monsieur Bonnet,

la que recibe a Lequerica,

la Francia de la Liberté).

 

Rafael Alberti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAMPS DE COLLECTAGE (CENTRI DI RACCOLTA)

 

 

Dopo un primo controllo alla frontiera, i profughi furono ammassati nei cosiddetti camps de collectage, creati in prossimità del confine e precisamente a:

Mont Louis, Prats de Mollo, Arles sur Tech, Amelie Les Bains, Saint Laurent de Cerdans, Lamanère, Boulou, La Tour de Carol,.... Si trattava di massima d’appezzamenti di terreno all'aperto senza protezioni di sorta, solo in alcuni di essi esistevano tettoie o costruzioni in muratura che di solito erano riservate alle donne con bambini ed ai feriti. Qui decine di migliaia di rifugiati, intirizziti dal freddo, affamati, cercavano di sopravvivere con quanto si erano portati dalla Spagna. Per proteggersi dal gelo e dalle intemperie si costruirono dei rifugi con coperte e ramaglie. Per riscaldarsi ed avere un po’ di cibo caldo (la razione giornaliera fornita dai francesi era di solito una pagnotta e una scatola di sardine, questa da dividere tra cinque persone) raccolsero tutto ciò che trovavano nelle vicinanze e poteva servire ad alimentare un fuoco, come pali di vigna o legname in genere, o a sfamarli, come castagne o marroni. Questi atti di vandalismo provocarono inevitabilmente la collera dei locali, i quali chiesero che fossero inasprite le misure di sorveglianza. Ogni notte si portava via la sua quota di morti, a causa delle condizioni fisiche precarie e della malnutrizione; la maggior parte delle madri non riuscirono a nutrire i loro piccoli, che furono le prime vittime innocenti della situazione disumana in cui i rifugiati erano costretti a vivere. Protetti alla meglio sotto teli da tenda o rifugi di fortuna, stavano ammassati gli uni contro gli altri per ripararsi dalla pioggia o dalla neve e tremando per il freddo, attendevano di essere chiamati dai gendarmi per essere trasferiti ai centri di raccolta organizzati. L'attesa poteva durare ore o giorni. Questo spettacolo allucinante si ripeté ad ogni posto di frontiera e fu più grave negli accampamenti di montagna, dove, accucciati nella neve, avevano per proteggersi da una temperatura che scese fino a 10 gradi sotto lo zero solo una coperta o un pastrano. In pochi casi i più fortunati furono ospitati in carri bestiame ferroviari, naturalmente non riscaldati, su cui, per timore degli incendi, non era possibile accendere un fuoco.[1]

L'armata repubblicana fu autorizzata ad entrare in Francia alle seguenti condizioni:

-          passaggio concordato tra lo Stato Maggiore spagnolo e gli ufficiali francesi,

-          deposito di tutte le armi,

-          perquisizione,

-          vaccinazione antivaiolosa e antidifterica.

In pochi giorni più di 250.000 soldati vennero ad aggiungersi a 10.000 feriti, 170.000 donne e bambini e 70.000 civili, per lo più anziani, arrivati dal 28 gennaio. Appena superato il confine, i militari furono sistematicamente disarmati e perquisiti, prima di essere sottoposti, come tutti gli altri fuggiaschi, al controllo sanitario, alle vaccinazioni e all'umiliazione dello spidocchiamento. Fu nei loro confronti che il servizio d'ordine francese, costituito in prevalenza da truppe coloniali e guardia mobile repubblicana, fu particolarmente duro. Essi furono trattati con brutalità, talvolta furono usati i manganelli, il che provocò la reazione degli spagnoli. La calma ritornò grazie all'intervento dei superiori che richiamarono ognuno i propri uomini, mentre molti ufficiali francesi non riuscivano a nascondere la loro ostilità verso l'esercito vinto.

Armata che poteva passare a testa alta, ricostituita in fretta nelle prime settimane che seguirono il pronunciamento del luglio 1936 in cui l'esercito spagnolo aveva perso ufficiali, armamenti e un'intendenza organizzata, aveva tenuto testa con milizie improvvisate ai franchisti e ai loro decisivi alleati italiani e tedeschi. Aveva perso la guerra, ma aveva vinto delle battaglie, resistendo in condizioni di costante inferiorità di mezzi per oltre trenta mesi. La Francia che nel febbraio del 1939 li disprezzò non riuscirà a fare altrettanto pochi mesi dopo. Passando tra due file di gendarmi disposte su ciascun lato della strada, conobbero le prime umiliazioni: privati dei fazzoletti che contraddistinguevano i vari reggimenti (rosso-neri per gli anarchici o rossi per i comunisti) obbligati con la forza a disperdere la manciata di terra di Spagna che tenevano racchiusa nel pugno, ma soprattutto non trattati come soldati da altri soldati. La maggioranza accettò di mala voglia, diversi distrussero le armi prima di consegnarle, una minoranza riguadagnò la frontiera spagnola, preferendo affrontare i franchisti piuttosto che sottostare a tali umiliazioni.

 

Un colonnello francese con tono sprezzante affermò:

«E' questo l'esercito repubblicano spagnolo? Se l'armata francese fosse stata a questo livello altro che fermare i tedeschi sulla Marna, essi sarebbero arrivati a Le Perthus!».

Un giovane tenente spagnolo, forse operaio a Barcellona o metallurgico a Madrid o contadino nell'Estremadura, replicò con fierezza: «Signor colonnello, io spero che quando Hitler attaccherà la Francia, l'esercito francese resisterà tanto quanto l'armata di cui oggi vi fate beffa».

François Billoux, che diverrà Ministro di De Gaulle dopo la Liberazione, raccontò questa scena nella prefazione a 968 giorni di lotta e aggiunse: «Io non so quale sia stato in seguito il comportamento del colonnello, ma di una cosa sono certo che quel sottotenente fu uno dei numerosi repubblicani spagnoli che combatterono contro l'occupante straniero in Francia o sui campi di battaglia d'Africa e d'Europa».

 

La stazione internazionale di Cerbère divenne un gigantesco accumulo di materiale da guerra e munizioni abbandonate. Gli ultimi distaccamenti entrati in Francia avevano in dotazione pezzi d’artiglieria pesante, carri blindati e veicoli d’ogni specie. Tutto questo materiale fu poi raccolto in due campi di recupero situati a Villeneuve de la Riviere ed al campo di Marte di Perpignan. Qui oltre mille autisti e meccanici spagnoli lavorarono nelle settimane che seguirono per rimettere in sesto i camion per il trasporto dei rifugiati e del materiale occorrente alla costruzione dei campi d’internamento. Il materiale bellico fu successivamente consegnato al governo franchista.[2]

Il dispositivo di sorveglianza lungo i Pirenei fu rinforzato perché si era costatato che molti passavano attraverso i passi di montagna finora poco controllati, cosicché gli effettivi dislocati alla frontiera spagnola raggiunsero i 30.000 uomini. Il 15° reggimento di fanteria alpina fu mandato a rinforzare il 24° reggimento dei tiratori senegalesi nel dipartimento dell'Ariége, infatti, dopo che i nazionalisti avevano raggiunto la frontiera andorrana i fuggiaschi non avevano altra soluzione per raggiungere questo dipartimento che utilizzare, nonostante i rischi, come sola via possibile di fuga i colli:

-          Bonet (2.585 mt) e la valle di Vicdessos,

-          Coulac (2.546 mt) e la valle d'Uston,

-          Envalira (2.400 mt),

-          Hospitalet (1.436 mt).

L'intera zona di frontiera fu militarizzata, le pattuglie si moltiplicarono, i soldati avevano la baionetta innestata. S’installarono gruppi elettrogeni con proiettori per supplire ad un eventuale arresto della corrente elettrica. Altre truppe furono dislocate nelle località dove erano stati istituiti i cosiddetti campi di raccolta. Da Perpignan alla frontiera, la zona fu interdetta ai civili, salvo che fossero muniti di lasciapassare rilasciato esclusivamente dalle autorità militari. Sessanta agenti e tre plotoni della G.R.M. furono utilizzati per la sorveglianza della città dove s’intensificarono le perquisizioni per la ricerca d’irregolari.

L'8 febbraio, alle 15 e 15, il Presidente del Consiglio Negrín passò la frontiera al Colle di Le Perthus con il generale Rojo, comandante in capo delle forze armate repubblicane spagnole.

 

In Spagna l'occupazione di Ripoll e d'Olot aveva tagliato in due i resti dell'armata repubblicana, alle truppe, che avevano resistito ad Olot, non rimase altra via possibile di fuga che passare per il colle omonimo e discendere i sentieri di montagna che sboccano a Prats de Mollo. Alle 17 dello stesso giorno la frontiera fu chiusa al Col de La Serra presso Cerbère. Banyuls, Collioure, Port Vendres e i paesi prossimi a Perpignan erano saturi di fuggiaschi. Alla mattina del 9 a Le Perthus passarono oltre duecento autocarri che trasportavano le retroguardie dell'esercito spagnolo. Alle 11 l'aumentata pressione di civili e militari a piedi annunciò l'imminente arrivo dei franchisti, che, al suono delle loro fanfare, avanzavano ormai senza colpo ferire per occupare il paese, a questo punto il colonnello Gauthier della G.R.M. ordinò di chiudere la frontiera provocando il panico fra quanti erano ancora ammassati oltre la barra di confine. Urla di spavento si mescolarono alle detonazioni delle armi di quelli che preferivano il suicidio piuttosto che cadere nelle mani dei nemici. Il colonnello Faliu davanti a questa situazione drammatica, sotto la sua responsabilità, tenne aperta la frontiera fino alle 14 e 15 quando le truppe franchiste raggiunsero il confine. Tutte le vie che portano al Languedoc-Roussillon erano sbarrate.

Il 10 cadde Puigcerdá e si chiuse la strada per Bourg Madame, mentre gli ultimi fuggiaschi raggiunsero La Tour de Carol. Ora la sola possibilità di ripiegamento erano i colli che circondano Llivia e la via neutrale di questa enclave, e fu sul ponte di Llivia che transitarono, alla cadenza di un autocarro ogni tre secondi, gli uomini della 26ª Divisione anarchica Durruti, che avevano ritardato fino all'estremo l'avanzata dei fascisti, tra loro diverse donne in uniforme e numerosi feriti negli ultimi scontri. Il grosso dei soldati appiedati espatriò attraverso i sentieri di montagna, ma il 12, con la conquista del Col d'Ares, tutta la Catalogna era in mano all'esercito franchista, che catturò circa 25.000 prigionieri.[3]

 

Dall'inizio dell'esodo sarebbero entrati in Francia circa 500.000 spagnoli. Il condizionale è d'obbligo perché le rilevazioni al riguardo furono alquanto aleatorie e in disaccordo tra loro. In ogni caso non furono considerati quanti avevano immediatamente riguadagnato la Spagna, senza perciò essere considerati dalle autorità francesi, ed i clandestini sfuggiti anche ai successivi controlli. La cifra totale oscilla tra i 450.000 indicati da Javier Rubio ne La Emigración Española a Francia e i 527.843 riportati sulle statistiche del Ministero dell'Interno e dei Servizi speciali della Legazione del Messico in Francia, che però comprendono anche i profughi sbarcati in Africa del Nord, dopo la conquista di Valencia. La prima valutazione ufficiale fornita da Jean Mistler, presidente della Commissione degli Affari Stranieri, alla Camera dei Deputati francese, diede la seguente classificazione:

 

CIVILI

-          Bambini 68.035

-          Donne 63.543

-          Anziani 9.029

-          combattenti isolati 11.476

-          non classificati 11.024

Totale 163.107

 

MILITARI

-          nei campi di raccolta 180.000

-          feriti negli ospedali 10.000

Totale 190.000 [4]

Il massiccio arrivo di soldati, che avevano tra loro numerosi feriti, di cui diversi con gli arti amputati, fece repentinamente salire il numero dei decessi. I feriti, arrivati con i primi profughi, erano stati soccorsi e ricoverati negli ospedali, ma ben presto il loro numero, complice la disorganizzazione, rese difficile ogni assistenza. Per mancanza d’autoambulanze e di treni ospedali ma soprattutto di buona volontà i feriti furono parcheggiati nelle stesse tremende condizioni degli uomini validi. Qualunque fosse la loro ferita non ricevettero alcuna cura né tantomeno assistenza medica o medicine. Le garze e le bende non furono cambiate e s’impedì anche ai medici spagnoli, considerati prigionieri come gli altri, di assistere i loro compatrioti.

A La Tour de Carol (1300 mt) i feriti passarono la notte, stesi, senza ricovero, sulla nuda terra, al bordo della strada, sull'erba bianca di brina. Nella sola notte del 9 febbraio si contarono 35 morti, erano stati trenta il giorno prima.

E' questa una delle pagine più tristi della storia di Francia, patria dei diritti dell'uomo, ma non sarà l'ultima. Pochi anni dopo il regime di Vichy si macchierà dell’infamia di consegnare ebrei francesi e stranieri alla Gestapo.

 

Le dolorose esperienze vissute da civili e soldati verranno in seguito testimoniate da chi ebbe la sfortuna di viverle, come:

 

- Antonio Mirò che in L' Exile (Ed. Galilee 1976 - Parigi) ricordò:

«...centinaia dei miei compatrioti, ammucchiati, presentavano uno spettacolo spaventoso. Si sarebbe detta un'immensa infermeria. Uomini, donne, bambini e vecchi erano accucciati sul cemento... Tutti apparivano sfiniti. Si rivoltavano penosamente sul pavimento per ricercare una posizione meno dolorosa... La febbre brillava in numerosi sguardi. Dei fanciulli mutilati si trascinavano alla ricerca dei loro genitori. Gli invalidi erano esposti ai quattro venti. Alcuni francesi avevano portato della paglia per fare un giaciglio per i feriti. Essa fu in breve rossa di sangue, c'erano molti amputati. Dei ciechi, barcollando, cercavano un passaggio tra i corpi, e cadevano tra i binari. Ogni tanto delle urla di dolore squarciavano il tumulto circostante; il più delle volte esse erano sommerse dalla massa dei gemiti, singhiozzi o invocazioni d’aiuto. La stazione era piena da scoppiare. Malgrado ciò continuava l'afflusso dei rifugiati. I più malridotti arrivavano su delle autoambulanze francesi ammucchiati gli uni sugli altri, ed erano scaricati sul pavimento».[5]

 

-          il giornalista François Francis non nascose la sua emozione e scrisse su L’Indépendant del 31 gennaio:

«Se Dante avesse assistito all'esodo delle popolazioni spagnole in Francia, egli avrebbe avuto materia per scrivere un nuovo capitolo del suo Inferno».[6]

 

Come sovente accade nelle tragedie umane dove mancò l'Organizzazione intervennero i singoli, fu il caso di:

- Louis Nogueres, deputato dei Pirenei Orientali, che richiese la requisizione del Dispensario Pneumologico di Port Vendres e dello stabilimento termale di La Preste, al momento chiusi, e che potevano in poco tempo essere pronti per ospitare numerosi feriti.[7]

 

- Lucette Pla-Justafré, all'epoca istitutrice a Le Perthus, in seguito sindaco comunista d’Ille sur Tet ricorda:

«Io sono morta di vergogna durante l'esodo. Specie quando sono arrivati, a piedi, i malati e i feriti dell'ospedale di Gerona e li hanno parcheggiati sul terrapieno davanti alla scuola. Che puzza! .. era orribile. Al forte di Le Perthus c'era posto per centocinquanta persone e ne furono ammassate cinquecento. Nessuno si assumeva la responsabilità per evacuarli né il commissariato speciale, né la Prefettura dei Pirenei Orientali... Mancava la benzina per le autoambulanze, allora mi sono decisa sono andata dai distributori del paese. Essi me l'hanno dapprima rifiutata pretendendo dei buoni firmati dalle autorità. Poi si sono accontentati della mia firma ed i feriti hanno potuto essere trasferiti. Cinque giorni dopo il Segretario Generale della Prefettura mi ha chiesto con quale autorità io avevo firmato quei buoni. Poi, senza che io aggiungessi qualcosa mi ha detto "al bisogno continuate». [8]

 

 

- Teresa Rebull, militante del P.O.U.M., rammenta:

«Arrivata a Prats de Mollò mi sono infilata con alcuni compagni in una povera casa la cui porta era aperta; cercavamo solo un po’ di caldo. Un uomo è sceso dal piano superiore, aveva la faccia da contadino con un viso che assomigliava ad un personaggio del Greco. Gli ho detto: «Guardaci non abbiamo la faccia d’assassini. La porta era aperta». l'uomo ci guardò e disse semplicemente: «Entrate, il riso sta cuocendo». Abbiamo mangiato avidamente in silenzio. Nel ripartire ci ha dato una coperta, senza una parola, senza accettare neppure un grazie».

 

- Andrés Capdevila riporta in Un episodio della nostra evacuazione in Francia:

«Alle 11 del mattino a Cerbère sono arrivati una trentina di gendarmi incaricati di scortarci. Ci hanno fatti allineare in fila e ci hanno distribuito una pagnotta di pane e una scatola di sardine a testa. Poi ci hanno fatti marciare verso una destinazione ignota. A Banyuls sur Mer, quando abbiamo attraversato la cittadina, i commercianti ci hanno guardati con ostilità e disprezzo. Per contro i pescatori ci sorridevano e ci salutavano con simpatia. Così pure a Port Vendres. Qui abbiamo incontrato un gruppo di scolari accompagnati dal loro maestro. Spontaneamente i bambini ci hanno offerto la loro merendina e questo gesto di pura generosità ci ha sconvolti fino alle lacrime».[9]

 

 

L’INTERNAZIONALE

 

 

Il massiccio arrivo dei soldati obbligò le autorità francesi ad accelerare la partenza dei primi profughi verso i dipartimenti dove esistevano strutture per accoglierli. Partenze che avvennero con treni riservati costituiti di massima da vagoni merci. Trasporti che talora crearono non poche difficoltà ai responsabili francesi in quanto gli Spagnoli, sradicati, vinti ed umiliati avevano la faccia tosta di cantare le loro canzoni provocando la reazione dei buoni borghesi che si lamentarono in alto. Il Prefetto dell’Ariège indirizzò il 2 febbraio al comandante della gendarmeria di Foix, capitano Cathoulie, la nota seguente:

 

«Un reclamo mi è stato indirizzato da M. Faure, consigliere generale del cantone di Varilhes, in cui si lamenta che dal convoglio che ha lasciato Foix verso le 11 e 30 proveniva il canto dell’Internazionale ed inni anarchici, cosa deplorata da una parte della popolazione.

Vi ordino di incitare le guardie che scortano i treni che si fermano a Foix di pretendere dai rifugiati il rispetto dell'ospitalità francese».

Altra protesta dello stesso tono fu inoltrata sempre al Prefetto dal Maresciallo d'alloggio Mascarenc, comandante la brigata di Varilhes:

«Il 2 febbraio 1939 alle ore 11 e 40 nel lasciare la stazione di Varilhes, un gruppo di rifugiati spagnoli che si trovava in coda al treno ha intonato l'Internazionale. Simile atteggiamento da parte di stranieri accolti per umanità, rischia di turbare la tranquillità pubblica».

 

La questione assunse aspetti grotteschi, così il capitano Cathoulie si giustificò:

«E' evidente che l'atteggiamento dei rifugiati rischia di provocare reazioni da parte dei normali viaggiatori, ai quali però non si può pensare di vietare l'accesso o la sosta nelle stazioni. Tuttavia, il fatto accade quando i treni si mettono in movimento, per cui la gendarmeria della stazione è impossibilitata ad intervenire».

La logica militare non deflette, il capo squadrone Borin informò il Prefetto che:

«Ordini sono stati impartiti per evitare il ripetersi dei fatti denunciati.

I gendarmi di servizio nelle stazioni si opporranno al canto dei rifugiati; in ogni caso dovranno intervenire le guardie di scorta sui treni con la dovuta energia ed immediatezza».

Malgrado proteste e note, i miliziani nell'Ariège ed altrove continuarono a cantare.[10]

 

Dopo le lacune nell'organizzare l'accoglienza e le umiliazioni inflitte agli Spagnoli, un altro grave fatto venne ad incrinare l'immagine della Francia. All'atto del passaggio della frontiera i profughi dovevano dichiarare se volevano o no essere rimpatriati, infatti, tra loro vi erano diversi soldati franchisti fatti prigionieri dai repubblicani o civili che si erano accodati ai fuggiaschi a causa dei bombardamenti aerei o che temevano di essere coinvolti dai combattimenti tra le retroguardie repubblicane e le truppe di Franco. Quanti dichiaravano di voler rientrare in Spagna erano separati dagli altri, rifocillati e avviati al posto di confine di Hendaye sulla costa atlantica. Facendo leva sul loro desiderio di rientrare nella Spagna repubblicana per continuare a combattere ed equivocando sulla differenza delle lingue, molti militari furono rimandati nella Spagna franchista.

Il quotidiano Le Midi Socialiste del 13 febbraio riportò che il deputato Louis Mogueres si trovava a Lamenére, vicino Prats de Mollò, ove incontrò circa duecento repubblicani in procinto di essere trasferiti oltre frontiera che cantavano l' Internazionale. Stupito domandò loro perché volevano andare da Franco. «Piuttosto morti - fu la risposta - ci hanno chiesto se volevamo tornare in Spagna e noi abbiamo accettato, era sottinteso che intendevamo la nostra Spagna».

Josè Castejon Ara, membro del Partito Comunista Spagnolo, inquadrato nella Divisione Karl Marx, saltò dal treno che lo portava a Hendaye. Roger Gabriel - guardia mobile a Foix - richiese un cambio d’itinerario per ventiquattro spagnoli che doveva accompagnare allo stesso posto di confine, infatti, essi - capito l'inganno - richiesero di essere internati con i loro camerati nel campo d’Argelès, protestando per il tentativo di rimandarli in Spagna contro la loro volontà.

 

Di fronte a tanta disumanità la sinistra insorse. Il 18 febbraio il Ministro degli Interni Albert Sarraut intervenne:

«Centinaia di migliaia di Spagnoli hanno cercato rifugio in Francia, tuttavia se è auspicabile un loro pronto rimpatrio, esso deve essere volontario».

Aggiunse: «Si devono prendere tutte le precauzioni affinché al loro ritorno in patria non subiscano alcuna rappresaglia. Fatto di competenza di Mr. Bonnet, Ministro degli Affari Esteri».

 

Lo stesso giorno Franco chiarì i suoi programmi:

«I nazionalisti hanno vinto, i repubblicani devono sottomettersi senza condizioni», e contemporaneamente promulgò la ricordata Legge sulle responsabilità politiche.

 

La conquista della Catalogna si risolse, come prima altrove, in una repressione selvaggia (25.000 fucilazioni a Barcellona), le fosse della cittadella del Montjuich divennero un'enorme fossa comune, il carcere Modelo straboccò di prigionieri, lo statuto d’autonomia della Catalogna fu abrogato, l'uso della lingua catalana vietato, 15.860 funzionari nella sola città di Barcellona furono sospesi dall'impiego, migliaia di salariati persero il loro lavoro.

 

Il 9 febbraio per libera scelta o in taluni casi forzata 10.000 persone avevano riguadagnato la Spagna. Il giorno 13 Franco autorizzò la riapertura della frontiera catalana.

L'indomani, il quotidiano La Garonne annunciò che il numero dei rimpatri aveva raggiunto la cifra di circa 50.000 e che esso avrebbe continuato ad aumentare in ragione di 6.000 unità il giorno, numero massimo autorizzato dalle autorità franchiste di Burgos. In realtà alla fine di marzo sarebbero stati 63.000 i rimpatriati, tra cui, si disse, 10.000 che credevano di raggiungere Valencia per continuare a combattere. Le cifre dei rimpatri sono oggetto di controversia tra i vari scrittori, ma l'argomento sarà affrontato in seguito.

 

Dopo i tentativi di rimpatrio ritornò in voga la proposta dell'arruolamento nella Legione straniera. Non era richiesta nessuna dichiarazione d’identità, la paga era quella stabilita per la truppa francese: 2.000 franchi l’anno e la concessione della cittadinanza francese alla fine della ferma a quanti si fossero comportati bene. I volontari avrebbero prestato servizio nelle colonie francesi d’oltremare: Marocco, Levante o Tonchino. Proposta che era fatta con discrezione, nessuna pressione esercitata sul candidato, assumeva la caratteristica di consiglio dato a stranieri che non avevano una situazione stabile in Francia. Tutto ciò per evitare nuove rimostranze della sinistra. Il ricordo del Tercio, la legione di Franco, fu più forte della prospettiva di crearsi in un domani una situazione stabile e di massima i rifugiati rifiutarono l'arruolamento. L'alternativa la Legione o i campi non cambiò la loro determinazione. La gran maggioranza fu dunque avviata verso campi di concentramento, non ancora attrezzati ma di cui erano state individuate le aree.[11]

 

 

 

 

 

 

CENTRES D' HEBERGEMENT (CENTRI D’ACCOGLIENZA)

 

 

Dal 28 gennaio i civili avevano cominciato a lasciare i campi di raccolta. Le partenze avevano dato luogo a scene drammatiche in quanto delle famiglie che si erano appena ricongiunte sono nuovamente separate. Chi non accettava tali disposizioni era privato della magra razione di cibo giornaliera. Fino al 2 febbraio, 45.000 rifugiati furono avviati ai centri d’accoglienza predisposti all'interno del paese, che interesseranno settanta dipartimenti. Questi centri erano sovente vecchi conventi, prigioni, case o scuole abbandonate; locali più o meno salubri, requisiti dalle autorità (sindaci) o messi a disposizione dalla popolazione. L'autorità che li dirigeva proveniva dall'amministrazione civile; il trattamento e la disciplina erano in funzione del personale addetto. A Magnac-Lavall (Haute Vienne) le 488 donne, bambini e vecchi, dipendendo da un intendente ostile ai repubblicani spagnoli, vissero come prigionieri per più di sei mesi. Per contro a Clermont-Ferrand i rifugiati, sorvegliati da G.R.M. erano autorizzati a circolare per la città nella mattinata; mentre a Verdelais (Gironde) il responsabile del centro li autorizzò ad uscire dal paese e girare nei dintorni. A Saint Jean du Bruel (Aveyron) essi ricevettero una buon’accoglienza e godettero di una certa libertà di movimento grazie alla solidarietà del sindaco socialista e degli abitanti. Si rilevarono delle carenze a livello di comfort o di servizi igienici, ma di massima le condizioni di vita e l'accoglienza erano buone. Le donne svolgevano di regola i compiti propri delle casalinghe; i tempi sono programmati alla perfezione:

- dalle 8 alle 9 : disinfezione e pulizia dei locali,

- dalle 9 alle 11 : corvè di lavanderia ai lavatoi comunali,

- dalle 11 alle 12 : lavori di cucito,

- dalle 13 alle 14 : pulizia del refettorio e delle stoviglie,

- dalle 14 alle 17 : lavori di cucito, passeggiata in gruppo.[12]

 

I ragazzi dovevano seguire dei corsi di francese organizzati apposta per loro o, se autorizzati, potevano frequentare la scuola comunale. Normalmente, e soprattutto nei primi tempi, tutti dovevano essere a letto per le ore 22.

 

Nelle prime settimane dell'esodo, di massima, i feriti gravi erano stati evacuati per mezzo di treni ospedali verso i grandi centri di Bordeaux, Nantes, Rennes,.. ed altri ospedali di minore importanza nei Pirenei Orientali e nell'Ariege. Il 9 febbraio, quattro navi mercantili fino allora inutilizzate furono attrezzate per ricoverare 4.000 feriti, perciò si poté dare corso all'evacuazione dai campi di raccolta di quanti avevano resistito alle intemperie e alla mancanza d’assistenza. L'elevato numero di soldati entrati tra il 5 e il 9 febbraio e la limitatezza dei rientri fece finalmente capire alle autorità l'inadeguatezza e la provvisorietà dei camps de collectage e le indussero a modificare i piani per far fronte all'imprevista emergenza di dare alloggio e vitto a tante persone. I militari negli ultimi giorni dell'esodo, dopo le solite formalità di frontiera, furono avviati, a piedi e scortati da dragoni a cavallo, verso le spiagge del Roussillon in costituendi campi di concentramento e precisamente verso i comuni d’Argelès sur Mer, Saint Cyprien, Le Barcarès o più all'interno a Prades e Carcassonne. A Perpignan, il Ministero degli Affari Esteri spagnolo (repubblicano) aprì un ufficio per censire i rifugiati; di ognuno fu fatto un dossier in cui figurava oltre i dati anagrafici, il mestiere e le capacità al fine di consentirne la ripartizione negli stati che si fossero dichiarati disposti ad accettarli.

 

Il 21 febbraio si stimò che su 455.000 profughi passati per i Pirenei Orientali 190.000 erano stati evacuati:

- 137.000 verso gli altri dipartimenti francesi, (eccetto la città di Parigi),

- 53.000 verso la Spagna,

mentre 265.000 (di cui 200.000 militari) erano rimasti nel dipartimento:

- 90.000 a Saint Cyprien,

- 80.000 ad Argelès su Mer,

- 65.000 nell'alta valle del Tech (Prats de Mollò, Arles sur Tech),

- 30.000 in Cerdagne.[13]

Mentre, preoccupata del mantenimento dell'ordine, la Francia denunciava la sua inefficienza, in parte se si vuole giustificata dall'ampiezza del fenomeno, e provvedeva ad internare l'armata repubblicana - esercito del solo governo spagnolo legalmente eletto - rendeva gli onori alle truppe ribelli, ulteriore umiliazione per chi aveva lasciato la patria. Il 10 febbraio a Le Perthus, il generale francese Falcade accolse il pari grado franchista Solchaga, comandante dell'armata di Navarra, con queste parole: «Non avete né mitragliato né bombardato le colonne in fuga, ciò è stato molto generoso» e, dopo averlo salutato militarmente, gli strinse la mano come ad un vecchio compagno d’arme.

Stendardi al vento da una parte e dall'altra, fanfare, guardie d'onore e presentat'arm. Al saluto degli ufficiali francesi gli spagnoli risposero con il saluto fascista al canto di Per Dio, per la Patria, per il Re, l'inno dei requetès. Il che scatenò nuove polemiche, soprattutto sui giornali di sinistra, infatti, l’Humanitè riportava che a seguito degli attacchi aerei vi erano stati almeno 150 morti e 300 feriti tra i civili. Altre manifestazioni di simpatia verso i franchisti si ebbero a Perpignan il 28 febbraio 1939 (lo stesso giorno della conquista di Madrid) in occasione dell'insediamento del nuovo console nominato dal governo di Burgos. Le Flambeau du Midi fece una lunga relazione della cerimonia sotto il titolo Arriba España! in cui auspicava più stretti rapporti tra Francia e Spagna, stati fratelli che si erano liberati dal giogo marxista del Fronte Popolare.[14]

 

 

PABLO CASALS - RAFAEL ALBERTI - ANTONIO MACHADO

 

 

La massa di profughi non era costituita solo da operai, contadini, minatori e soldati ma comprendeva anche gran parte dell'intelligenza spagnola, catalana soprattutto. Vi erano rettori, docenti d’università e di scuole superiori, medici, avvocati, ingegneri, architetti, scrittori e giornalisti. Le figure di maggior prestigio furono il violoncellista Pablo Casals e i poeti Rafael Alberti e Antonio Machado.

Casals risiederà in Prades dove per contraccambiare l'ospitalità creerà una scuola di musica e nel 1950 darà vita al Festival di Prades che con il tempo diverrà uno degli eventi musicali più importanti a livello mondiale. Non rientrerà mai più in Spagna, morendo a San Juan di Portorico il 22 ottobre 1973 all'età di 96 anni, senza vedere poter rivedere l'amata Catalogna.

Rafael Alberti dopo un soggiorno a Prades, peregrinerà in Messico e in Argentina e nel 1961 verrà in Italia, a Roma. Rientrerà in Spagna con il ritorno della democrazia dopo la morte di Franco.

Più tragico il destino d’Antonio Machado. Aveva lasciato Madrid assediata nell'autunno del 1936 per trasferirsi a Rocafort in provincia di Valencia, quindi nell'aprile del 1938 era arrivato a Barcellona. All'approssimarsi delle truppe franchiste, conscio che sarebbe stato perseguitato se non ucciso, com’era successo a Federico García Lorca di cui cantò la morte con la poesia El crimen fue en Granada, lasciò Barcellona il 22 gennaio 1939 a bordo di un’autoambulanza, essendo sofferente d'asma, insieme alla mamma di 93 anni e al fratello. Il 27 entrò in Francia effettuando a piedi l'ultimo tratto di strada. Waldo Frank così descrive la sua ultima notte: “L’ha trascorsa sotto la pioggia e la minaccia fascista, marciando con quella folla di infelici... Vedeva il sangue, le ossa messe a nudo, le carni malate con i vestiti inzuppati dei compagni. C’erano dei bambini fra le braccia delle madri, c’erano dei vecchi, e fra questi la madre di Machado, che non aveva voluto lasciarlo. Il poeta, quasi invalido, camminava chiuso fra quei corpi doloranti, quelli del suo popolo,sostenuto dalla vecchia madre; usciva dall’agonia della Spagna, il cui vigore spirituale e feconda visione non dovevano soccombere con lui.” Convinto dal giornalista amico che: «Machado è per la Spagna ciò che Paul Valery è per la Francia», il comandante dei gendarmi di Cerbère lo fece accompagnare con la sua macchina alla stazione. Qui passò la sua prima notte in Francia in un vagone. Partì l'indomani mattina ma l'aggravarsi delle condizioni di salute lo indusse a fermarsi tre stazioni dopo a Collioure, dove trovò una camera in una modesta pensione aperta anche d'inverno. Le condizioni di salute del poeta e della madre andarono via via aggravandosi, finché il primo morì, all'età di 64 anni, il 22 febbraio, seguito dalla madre tre giorni dopo. La salma fu portata a spalle al cimitero da soldati dell'esercito repubblicano e provvisoriamente tumulata nella tomba della titolare della pensione, madame Pauline Quintana. Nel 1958 un intellettuale catalano rifugiato nel Roussillon, Josep Maria Corredor, lanciò un appello su Le Figaro Littéraire sotto il titolo: Un grande poeta attende la sua tomba. Pablo Casals, André Malraux, Albert Camus parteciparono con altri alla sottoscrizione mentre il Comune di Collioure offrì il terreno, così Machado trovò sepoltura definitiva in terra di Francia, e divenne il simbolo del triste esilio di tanti spagnoli.[15]

Altro personaggio illustre che fu tumulato in suolo francese in ossequio alle sue volontà fu Manuel Azaña y Diaz, ultimo Presidente della Repubblica Spagnola, morto il 3 novembre 1940 nella città di Mountauban (Tarn et Garonne), la sua bara non fu avvolta nella bandiera repubblicana, vietata in Francia, ma in quella messicana.[16]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V

 

LES CAMPS DU MEPRIS

I campi del disprezzo

 

 

 

Si me quieres escribir

ya sabes mi paradero

en el campo de Argelès

primera linea de mierda.

 

Agusti Bartra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I CAMPI DI CONCENTRAMENTO

 

 

I campi di concentramento furono l'unica soluzione cui pervennero le autorità francesi per dare asilo e, soprattutto, per tenere sotto sorveglianza l’imponente massa dei militari spagnoli e delle Brigate Internazionali. Il governo aveva conferito la delega per la loro organizzazione al generale Ménard, che si avvalse della collaborazione del:

-          colonnello Dellezey, incaricato del comando di tutti i campi,

-          colonnello Gauthier, responsabile dei campi del Roussillon,

- ingegnere capo Cazes, direttore della Sezione Strade e Ponti del Roussillon per il

progetto e la costruzione. [1]

 

I Prefetti avevano allertato i Sindaci dei comuni prescelti e cioè:

-          Argelès sur Mer, Saint Cyprien, Le Barcarès, Agde , Vernet les Bains (P.O.)

-          Mazières, Montaillou (Ariège)

-          Gurs (Pyrénées Atlantiques)

-          Bram (Aude)

-          Septfonds (Tarn et Garonne).

 

I Sindaci, a loro volta, avevano preso contatto con i commercianti locali di legname per predisporre il materiale per la costruzione di baracche, destinate ad ospitare i profughi, assicurandoli che nella costruzione i loro operai sarebbero stati coadiuvati da carpentieri esperti forniti dagli spagnoli. L'organizzazione sembrava essersi messa in moto, ma la situazione precipitò poiché gli spagnoli, entrati in Francia in numero superiore al previsto, avevano saturato i camps de collectage che, nell'intenzione delle autorità avrebbero dovuto costituire la base logistica di prima accoglienza e nel frattempo consentire la costruzione dei campi.

Il 6 febbraio Albert Sarraut, Ministro degli Interni, dispose che il campo d’Argelès fosse attivato per ricevere circa 150.000 uomini al momento accampati a ridosso della frontiera. Il campo non era altro che un'immensa spianata sulla spiaggia, che in tutta fretta venne divisa in rettangoli di un ettaro ciascuno, circondati da tre lati da reticolati, mentre il quarto era "protetto" dal mare. Sulla nuda sabbia, battuta dalla tramontana, non esisteva alcun riparo.[2]

Il numero degli occupanti aumentò con velocità progressiva: 20.000 il 6 febbraio, 60.000 l’8, 75.000 il 9, presto 100.000 persone s’intasarono in un rettangolo di sabbia recintato di 550 metri di lunghezza e 260 di larghezza.[3]

Gli unici che ricevettero un trattamento umano furono 650 feriti gravi che furono ospitati in cinque grandi tende riservate al servizio sanitario, tuttavia insufficienti a riparare i malati o i feriti leggeri. Ma anche in tale struttura le lacune non si contarono: mancavano sedie e panche, pochi i medicinali; anche le pillole d’aspirina, normalmente distribuite a piene mani erano scarse, bende e garze per le medicazioni insufficienti. Il personale sanitario, un medico e cinque infermieri per tutto il campo, usò le parti pulite delle bende già utilizzate.

Venne sollecitamente predisposto un secondo campo a Saint Cyprien, che il 9 aveva già una popolazione di 72.000 internati, il che comportò di apprestarne un terzo sulle spiagge di Le Barcarès. Su queste spiagge desolate nulla era stato predisposto, neppure posti per i bisogni fisici, non esisteva un albero o qualcosa per appartarsi. Ben presto la mancanza d'igiene provocò delle epidemie aggravate dall'inquinamento dell'acqua. Infatti, la sola acqua potabile disponibile era quella delle falde sotterranee a quattro metri sotto la sabbia, ma l'assenza di un sistema d’evacuazione delle acque usate per le necessità personali fece sì che urine ed escrementi si infiltrassero nel terreno e contaminassero l’acqua usata per bere.

Il servizio d'intendenza era ugualmente deficitario, infatti, dopo una marcia di circa trenta chilometri a piedi dal confine alle spiagge del Roussillon i rifugiati, giunti ai campi, restarono anche due giorni senza mangiare. Il terzo giorno, i privilegiati ricevevano una scatola di sardine e una zuppa di carne di mulo, però il più delle volte il vitto era costituito da una pagnotta di pane trasportata ogni giorno con camion militari. La distribuzione di questo frugale pasto, che i gendarmi chiamavano pasto dei cani, generava delle scene intollerabili. Piazzato in alto su un autocarro un gendarme lanciava al volo le pagnotte di pane a questi uomini affamati che, tra le risate delle guardie a cavallo che li disperdevano, si battevano come animali per tentare di strapparne un pezzo.

 

Alla disorganizzazione generalizzata, che si riscontrò ad ogni livello, fece contrasto un'organizzazione perfetta del dispositivo di sorveglianza:

-          all'interno del campo: sette plotoni della Garde Republicaine Mobile (G.R.M.);

-          dietro i reticolati: due compagnie di tiratori senegalesi, baionette in canna e mitragliatrici in batteria,

-          attorno ai campi: pattuglie di spahis a cavallo per riprendere i fuggiaschi o per evitare che elementi estranei se ne avvicinassero, infatti, l'accesso era severamente vietato.

Acquartierati a Perpignan e pronti ad intervenire in caso di disordini trenta plotoni della G.R.M. a piedi o a cavallo.[4]

 

Il trattamento riservato ai profughi fu, specialmente nel primo periodo d’internamento, particolarmente duro e indisponente. Ogni mancanza era duramente punita, in particolare ogni tentativo d’evasione comportava l'immediato trasferimento al castello-prigione di Collioure.

In ogni campo fu predisposto un luogo di punizione ove rinchiudere le "teste calde", i recalcitranti, tutti quelli che contestavano l'autorità. Essi venivano di solito detenuti in un recinto di pochi metri quadrati delimitato da filo spinato con un palo piantato al centro, privo d’ogni riparo dalle intemperie. Per tentare di riscaldarsi i prigionieri erano obbligati a correre in tondo, da cui il nome di ippodromo dato al recinto, dileggiati dai gendarmi che gridavano: uno-due, uno-due, ... Altra forma di punizione era il picadero un recinto ove erano invece obbligati a stare in piedi con le mani legate dietro la schiena. Il vitto era di solito costituito da pane e merluzzo secco, sovente la punizione era preceduta dal cosiddetto passage à tabac: pugni, pedate e botte con il calcio dei fucili. Nei campi disciplinari, istituiti successivamente, il trattamento sarebbe stato aggravato dal taglio dei capelli, dal privarli di cinture, bretelle, lacci delle scarpe. Erano inoltre costretti a dormire di notte all'aperto, ad una temperatura di diversi gradi sotto lo zero, avendo come sola protezione due latte ondulate disposte a mo’ di tenda, riparo che, largo 3 mt. lungo 2 ed alto 1, poteva contenere fino a 20 prigionieri.[5]

In questo primo periodo, i prigionieri, per ripararsi il più possibile dal freddo, dall'umidità del mare e dalla sabbia sollevata dal vento, scavarono delle buche nel terreno e le ricoprirono con pezzi di latta, coperte o canne raccolte sulla spiaggia. Fornendo prova di un certo humour queste bicocche, fatte alla buona, furono battezzate: Hotel Mille e una notte, Grand’Hotel di Catalogna, Bristol, Royal, ecc.

 

Un rifugiato, Juan Carrasco, ricorda in La odisea de los republicanos en Francia che viveva all’Hotel Mexico, un capanno confezionato con canne e ricoperto con pezzi di tela, divise militari e coperte, alto ca. 1 metro e 60, largo 2,50 e profondo 1,80 con altri sette uomini, stretti come sardine in scatola. [6]

La rigidità dell'inverno, la promiscuità, la sottoalimentazione, l’assenza d’installazioni sanitarie, la mancanza d'acqua potabile e, soprattutto lo scoraggiamento, contribuirono a propagare le epidemie. Circa il 60% dei rifugiati soffriva di dissenteria. Numerosi furono i casi di turbe mentali. L'alimentazione insufficiente e povera di vitamine, l'assenza di frutta e verdura fresca moltiplicarono i casi di scorbuto (504 nel campo di Gurs). Occorre inoltre aggiungere i molteplici parassiti che infestarono questi disgraziati che avevano a disposizione per lavarsi l'acqua del mare, particolarmente fredda dato il periodo invernale.[7]

 

Il generale medico Peloquin visitò i campi d’Argelès, Saint Cyprien e Prats de Mollò dal 17 al 19 febbraio e, in conformità a quanto costatato, fece una relazione ad un gruppo parlamentare d’amicizia francospagnola di Parigi in cui non nascose la sua indignazione. Egli affermò che specialmente al campo d'Argelès: «gli uomini sono trattati alla stessa stregua d’animali. I servizi sanitari sono insufficienti in rapporto al numero di malati. Lo spettacolo che i campi offrono è ripugnante». Il generale suggerì di trasferire i rifugiati nei campi militari di.

-          La Valdonne (Gard),

-          Larzac près de Sarlat (Dordogne),

-          La Courtine (Creuse),

-          Caylus (Tarn-et-Garonne).

Lo Stato Maggiore oppose un rifiuto categorico: cedere le installazioni militari in un momento così delicato in cui la mobilitazione generale poteva essere imminente costituiva un rischio troppo grande.[8]

Ma, anche se gli eventi avrebbero dato ragione a questa decisione, essa dipese piuttosto dalla politica d'indifferenza strategica messa in atto dal governo Daladier, infatti, quest'ultimo sperava ancora che la maggior parte dei rifugiati ritornasse in Spagna dove Franco continuava, a parole, a promettere clemenza. Politica che si confermò premiante: diverse decine di migliaia di spagnoli ripassarono la frontiera in senso inverso. Taluni non andarono più lontano di Figueras, prima città spagnola oltre confine, dove li attendevano i plotoni d’esecuzione, altri resero conto ai tribunali militari che giudicavano senza posa nelle loro città o villaggi. La clemenza promessa ebbe un vago sapore di vendetta...... Tali trattamenti furono normalmente taciuti dalla stampa reazionaria francese astiosamente contraria a questa massa d’indesiderabili di cui continuava a chiedere l'espulsione sostenendo che in Spagna ormai esisteva l'ordine e la tolleranza e faceva leva sui gravosi costi che la loro presenza comportava che andavano incidere sul già disastrato bilancio dello stato.

 

L’Indépendant del 14 marzo 1939 riferendosi ai soli internati nei campi del Roussillon scriveva: «I rifugiati mangiano ogni giorno 50 tonnellate di carne o di merluzzo, 40 di verdure, 12 di caffè e zucchero, che necessitano per la loro cottura di 250 mila chili di legna e carbone. E' pari al nutrimento di quindici o sedici divisioni di fanteria».

Nel corso del corrente anno furono votati dal governo dei crediti speciali per far fronte alle necessità crescenti dell'esodo spagnolo, in particolare furono erogati 31.280.000 franchi, a cui si aggiunsero 20 milioni per saldare debiti contratti con la Croce Rossa e le spese per la costruzione delle baracche nei campi. In tutto il 1939 furono erogati 841milioni di franchi.[9]

 

Le disumane condizioni di vita erano denunciate oltre che da giornali e uomini politici di sinistra anche da autorevoli quotidiani stranieri, che avevano mandato giornalisti, fotografi e cineoperatori a documentarsi. Tutte le testimonianze rese nei vari libri scritti sull'argomento, mettendo in luce l'inefficienza delle istituzioni francesi, denunciano un sentimento di rancore che il tempo non sopirà, infatti, la maggior parte di queste opere pubblicate dopo la morte di Francisco Franco, avvenuta il 20 novembre 1975, riportano nei loro titoli termini come:

-          Odyssèe (odissea), Mepris (disprezzo), Honte (vergogna).

Voglio ricordare una memoria di sole 50 pagine scritta da un muratore spagnolo, Isidore Ribas, 1939 J'ai Vécu le Camp d'Argelès pubblicato a cura del Museo Catalano delle Arti e Tradizioni Popolari della città d’Argelès sur Mer nel quale in modo semplice, efficace e talora ironico, quest’oscuro combattente repubblicano raccontò la sua esperienza d’internato. Tutta la testimonianza è come pervasa da un senso di delusione, come se gli riuscisse difficile capire il motivo di un tale trattamento. In fondo la maggior parte di loro erano civili divenuti soldati per difendere le istituzioni democraticamente elette del loro paese

Migliaia di stranieri erano accorsi volontariamente da tutte le parti del mondo per sostenere la loro lotta. Aveva sentito parlare lingue per lui incomprensibili, aveva avuto come compagni d'armi uomini di razze diverse provenienti da paesi che non aveva mai sentito nominare. Molti di loro erano caduti in battaglia e avevano, come disse la Pasionaria: «la terra di Spagna come sudario». Sapeva di uomini di cultura che avevano sostenuto con le armi e con la parola il suo buon diritto. E allora? Perché la Francia li aveva traditi?[10]

Non si spinge però sino all'infamante conclusione di un altro internato, Francisco Pons, ex istitutore di Minorca, divenuto ufficiale dell'esercito, che in Barbelés à Argelès et autour d'autres camps Edizioni L'Harmattan - Parigi, denunciò che le umiliazioni erano conseguenti alla politica estera della Francia tutta tesa a non indisporre la Germania, alla quale continuava a fare concessioni nella vana speranza di evitare la guerra.[11]

 

Non vi fu solo abbandono ed umiliazione, di pari passo si sviluppò la solidarietà catalana, come affermò con orgoglio una giovane insegnante di Canet Village, un po’ stupita, nella testimonianza resa ad un anziano studente italiano che si documentava sulle vicissitudini degli spagnoli, come suo nonno, ex rifugiato ed ex legionario divenuto cittadino francese.

Fu solidarietà di organizzazioni sindacali, di partiti politici e di semplici cittadini che supplì almeno in parte alle lacune delle istituzioni. Il Comitato Mondiale delle Donne contro la guerra e il fascismo fu uno dei più attivi nel promuovere la raccolta di vestiti, scarpe e denaro. Collette pubbliche furono organizzate da molti comuni francesi. Il 25 febbraio 1939 Le Travailleur Catalan di Perpignan informava di una sottoscrizione di 11.150,25 franchi raccolti in 27 comuni dei Pirenei Orientali.

A Prades, Pablo Casals visse i suoi primi mesi d’esilio. In una camera di un hotel istituì un ufficio dove accentrò i doni, gli acquisti fatti con le offerte ricevute, le richieste d’aiuto e organizzò le distribuzioni. Numerosi camion partirono carichi di viveri e vestiti con destinazione i campi. Il grande musicista catalano si dedicò anima e corpo ad alleviare le sofferenze dei suoi conterranei. Amici, associazioni e congregazioni religiose, tra le quali molto attiva fu quella dei Quaccheri inglesi, lo sostennero in questa opera. Egli visitò in più riprese i campi d'Argelès, Riversaltes, Le Vernet d'Ariège e Septfonds e ne uscì sempre con un senso d’angoscia. Dichiarò ad un giornalista:

«I campi sono tremendi, non tanto per effetto di una crudeltà deliberata, quanto per l'improvvisazione e il disordine che ne avevano contraddistinto la creazione.

Quella povera gente, tra cui molti ammalati, manca delle cose più elementari. Io ho cercato con le mie visite di portare un po’ di consolazione a questi disgraziati, che, privi di contatti con il mondo esterno vegetano penosamente, come abbandonati da tutti, senza speranza. A tutti quelli che si sono rivolti a me ho cercato di portare qualcosa come segno d’incoraggiamento».[12]

 

Tragica conseguenza di tale vergognoso trattamento fu l'elevato numero di decessi tra i rifugiati. Anche in questo caso le cifre segnalate dai diversi scrittori non trovano conferma con i dati dei documenti ufficiali, infatti, mentre Pons Prades in Republicanos españoles en la Segunda Guerra Mundial - Barcellona 1975 - afferma che morirono a causa di ferite o malattie almeno 50.000 persone pari al 10% degli internati, Bravo Tellado in El Peso de la Derrota - Madrid 1974 - diminuisce la percentuale al 7%, che rappresentano pur sempre 35.000 decessi, numero lontano dai 14.672 morti riportati sulle statistiche ufficiali, che però non dovrebbero comprendere quanti morirono nei primissimi giorni dell'esodo, soprattutto feriti e bambini in tenera età, obbligati a pernottare all'aperto con temperature sotto lo zero. I morti nei campi nei primi giorni di internamento vennero inumati direttamente nella sabbia, in quanto i cimiteri dei piccoli paesi vicini non erano in grado di accoglierli.[13]

In un secondo tempo diverse salme furono riesumate per essere sepolte in un piccolo appezzamento di terreno che un homme de grands sentiments humains, Monsiuer Deprade - ricorda Isidore Ribas - donò al comune d’Argelès sur Mer. Un belga - Mr. Culdiere d’Anversa - nel ricercare suo fratello, soldato delle Brigate Internazionali, seppe che era sepolto in questo cimitero degli Spagnoli e, ottenute le dovute autorizzazioni, vi fece erigere una piccola stele su cui furono riportati i nomi di quanti fu possibile ricordare. Ancora oggi alcuni vecchi rifugiati, insediatisi ad Argelès, con la collaborazione del comune, si adoperano affinché il piccolo cimitero sia tenuto in ordine.

 

La popolazione dei campi alla fine del mese di marzo 1939 era così distribuita:

-          Le Barcarès (P. O.) 70.000

-          Argelès sur Mer " 43.000

-          Saint Cyprien " 30.000

-          Gurs (B. P.) 16.000

-          Bram (Aude) 16.000

-          Septfonds (T. e G.) 16.000

-          Adge (Hérault) 16.000

-          Le Vernet d'Ariège 15.000

-          Mazières (Ariège) 5.000

-          Africa del Nord 4.500

-          Altri 4.900

Totale 236.400 [14]

 

Lentamente la tanto criticata organizzazione si mise in moto, e soprattutto per decongestionare i campi di Argelès sur Mer e di Saint Cyprien vennero predisposti i seguenti campi destinati ad accogliere:

-          Agde (Hérault) i Catalani,

-          Barcarès (il campo migliore) i rifugiati in transito per la Spagna,

-          Bram (Aude) gli anziani, gli intellettuali, i funzionari e i..... panettieri,

-          Gurs (Basses Pyrénés) i Baschi e i reduci delle Brigate Internazionali,

-          Vernet d’Ariège i miliziani anarchici,

-          Vernet les Bains (Pyrénés Orientales) i malati e i feriti gravi,

-          Septfonds (Tarn et Garonne) tecnici ed operai specializzati.

 

La sicurezza restava la preoccupazione principale perciò si provvide anche a suddividere gli internati secondo la loro pericolosità, in particolare si separarono i comunisti dagli anarchici e dai militanti del P.O.U.M., dati i rapporti tesi in conseguenza degli scontri della Catalogna del maggio 1937. Le cosiddette teste calde furono internate in campi disciplinari, dove fu applicato un regime carcerario particolarmente duro:

-          Rieucros (Lozère) creato il 18 febbraio per tenere sotto stretto controllo «criminali, delinquenti comuni, agitatori politici e donne ritenute pericolose». Queste comprendevano sia quelle conosciute per il loro impegno politico, sia quelle che si erano opposte o avevano denunciato tentativi di violenza da parte delle guardie.

-          Le Vernet d'Ariège ad inaugurarlo furono gli anarchici della 26[P1] ª Divisione Durruti con il loro comandante Ricardo Sanz. Successivamente vi fu rinchiusa l'élite delle Brigate Internazionali e dell'Antifascismo europeo militante. Nel campo vi saranno ospiti provenienti da cinquanta paesi dei cinque continenti e diverrà uno dei più importanti centri di formazione dei quadri della Resistenza europea e una delle capitali della Resistenza intellettuale.

-          Fort Collioure, la prima prigione dell'esilio, situata in un vecchio castello dei Templari, a soli 25 chilometri dal confine. Qui venivano condotti con le manette ai polsi e sotto la scorta delle truppe senegalesi, come fossero dei malfattori, quanti avevano tentato di evadere dai vicini campi del Roussillon.

 

Indipendentemente dall'età o dal sesso le condizioni di vita in questi campi o prigioni furono particolarmente dure; ma non erano paragonabili a quelle dei campi del Nord Africa, creati per ospitare gli ultimi difensori della Repubblica spagnola dopo la caduta di Madrid e Valencia (31.3.1939):

-          Biserta (Tunisia),

-          campo Morand, il più importante dell'Algeria, situato tra Boghari e Boghar,

-          Medea e Djelfa (Algeria) conosciuto come il campo della morte,

-          Meridja, Hadjerat M'Guil, Ain el-Ourak tutti nel sud algerino,

dove sarebbero stati trasferiti dal novembre 1941 all'aprile 1942 a cura del governo di Vichy alcune migliaia di hommes d'action dangereux.[15]

 

 

VERSO LA NORMALITÀ

 

 

La costruzione dei campi frattanto procedeva abbastanza alacremente, anche se non mancarono le contrarietà, infatti, molti dei carpentieri spagnoli non sapevano tenere in mano un martello, si trattava perlopiù d’uomini che si erano dichiarati tali in quanto il cibo per chi aveva un lavoro era migliore. Inoltre l'installazione dei servizi igienici, indispensabili per evitare epidemie e ridare una qualche dignità ai rifugiati, veniva sabotata dal furto notturno di una parte del materiale poi utilizzato per migliorare i ricoveri di fortuna dell’attuale bidonville. Ricostruiti, verranno guardati a vista dai gendarmi. Le baracche, costruite con assi di legno di 3 cm e coperte di cartone bitumato, erano di due misure:

-          altezza mt. 2,80

-          larghezza mt. 6,00

-          lunghezza mt. 24,00

 

e potevano contenere fino a 66 persone, quindi ognuno aveva a disposizione uno spazio largo 75 cm. su cui stendere la paglia che gli serviva da giaciglio, [16] o

-          altezza mt. 2,80

-          larghezza mt. 7,00

-          lunghezza mt. 48,00

 

e con una capienza su tre file di 240 persone, in queste lo spazio a disposizione si riduceva a poco più di 60 cm. I senegalesi dimostrarono, sdraiandosi per terra, che potevano ricoverarsi anche 350 prigionieri.[17]

 

Sappiamo, dalle memorie dei rifugiati, che furono costruite:

-          675 baracche nel campo di Le Barcarès

-          428 baracche nel campo di Gurs

-          45 baracche nel campo di Vernet d'Ariège.

numeri che dimostrano come il tutto richiese un notevole sforzo, non solo finanziario, per mettere insieme materiali, mezzi di trasporto e addetti al montaggio.

 

Testimonianza inedita della vita dei campi si ricava dal diario – in corso di pubblicazione – d’Aldo Morandi, che aveva comandato unità dell’Esercito repubblicano raggiungendo il grado di tenente colonnello comandante della Divisione di Manovra Extremadura.

Ricorda il passaggio della frontiera a Le Perthus, il trasferimento al campo di Saint Cyprien il 9 febbraio e l’incarico conferitogli dalle autorità francesi, quale ufficiale più alto in grado, di responsabile del campo n. 7 destinato agli Internazionali:

«Il campo n. 7 sorgeva tra il mare ed un terreno paludoso, recintato da una doppia fila di reticolati, dove montavano la guardia, baionetta in canna, tiratori senegalesi. Alla destra altri campi, riservati agli spagnoli, in questi vi era un solo ….filo spinato, ne dedussi che gli Internazionali erano considerati dai francesi ospiti speciali. La prima operazione fu la conta degli internati, che risultarono essere 3.345 di cinquantuno nazionalità, il che permise di determinare quante baracche fosse necessario costruire e fornì un criterio – sulla base della lingua – con cui suddividerli. Tre giorni dopo le baracche e le latrine erano in costruzione, mentre il pane era abbondante e le cucine riuscivano a fornire due pasti caldi il giorno. Sorse però il problema dell’acqua, prelevata per mezzo di pompe infilate nella sabbia, dapprima sapeva d’urina, poiché nella notte gli uomini non utilizzavano le latrine, si rimediò istituendo una Polizia sanitaria. Poi denunciò gusto di sapone, in quanto i panni venivano lavati in prossimità delle pompe e l’acqua saponata inquinava la falda: divieto di lavare alle pompe destinate all’acqua da bere e costruzione di una lavanderia. Il pericolo più grave venne dai campi vicini dove erano internati decine di migliaia di spagnoli, dove le baracche non erano ancora state costruite per questo tutti dormivano in buche scavate nella sabbia e le condizioni di vita permanevano precarie. Qui si ebbero numerosi i decessi, le salme venivano inumate ai bordi dei reticolati ma tale pratica portava ad inquinare pericolosamente l’acqua. Numerosi i casi di febbri alte, che i medici diagnosticarono essere tifo, quindi per evitare il pericolo di un’epidemia si ordinò di bollire l’acqua e di seppellire i morti lontano dai campi. L’intervento di deputati francesi e della stampa di sinistra fece migliorare le condizioni di vita, anzitutto l’assistenza ai feriti ed ai malati, ma anche l’igiene personale come quando, dopo un’elargizione di mille franchi, l’acquisto e l’uso di rasoi e sapone rese più presentabili gli uomini».

 

La vita lentamente riprese. I malati e i feriti furono separati dagli uomini validi, quindi si procedette a dividere questi ultimi per nazionalità, e gli Spagnoli, che naturalmente erano la gran maggioranza, secondo le regioni di provenienza. Un'ulteriore suddivisione riguardò i diversi corpi dell'esercito, cavalleria, fanteria, artiglieria, marina, ecc., riuscendo così a creare un certo amalgama tra loro. Furono migliorate anche le condizioni delle sezioni dove erano alloggiate le donne sole o i familiari degli internati - mogli e figli - denominate campo civil.

Agli internati fu affidata una parte dell'amministrazione, che conservò tuttavia la struttura paramilitare con cui si era stata impostata. La base fu costituita da compagnie di 120/150 uomini agli ordini di un ufficiale. Sette od otto compagnie costituivano un raggruppamento (ilot in francese = isolotto) agli ordini di un comandante. Ogni ilot aveva un suo servizio d’intendenza: cucina, infermeria di pronto intervento, magazzino, ecc.[18]

Oltre ai già citati carpentieri furono costituiti altri gruppi d’addetti ai lavori. In particolare fu organizzata un'unità di trasporto con gli autocarri dell'esercito repubblicano, revisionati da meccanici spagnoli, che assicuravano i rifornimenti ai campi e il rimpatrio dei rifugiati che avevano scelto di ritornare in Spagna. Incombenza particolarmente ambita era l'incarico di cuoco, che doveva interessarsi sia degli approvvigionamenti sia della preparazione del cibo per il raggruppamento, cui era stato assegnato. Altri, che conoscevano la lingua francese, furono impiegati come interpreti negli uffici amministrativi. Fu organizzato un ospedale dove finalmente i medici spagnoli poterono visitare e curare feriti e malati.

La corvè cui tutti volevano sfuggire e pertanto a turno obbligatoria, dopo la ripulitura delle spiagge maleodoranti e sporche, era il cambio dei recipienti ove ora, con la costruzione delle latrine, erano raccolti gli escrementi: la cosiddetta brigada de la mierda. Le porte e le pareti delle latrine si coprirono di scritte che rispecchiavano le divisioni politiche dei rifugiati. Frasi brevi e violente; risposte rabbiose:

-          Morte ai comunisti - fascista

-          Resistere è vincere - vai a farti fottere

-          Viva Negrín - mangia le sue pillole (lenticchie) e taci

-          Viva l'anarchia - per diffondere il caos

non mancano tuttavia anche frasi esaltanti il comune nemico come:

-          Viva Franco o Franco vencerà.[19]

 

Un ulteriore ritorno alla normalità fu rappresentato dall'apertura, in ognuno dei tre campi dei Pirenei Orientali, di un ufficio postale con addetti francesi e spagnoli. Ogni compagnia incaricò un postino della consegna e del ritiro della corrispondenza di sua competenza. Si ritiene che a metà marzo i tre uffici ricevessero e spedissero 20.000 lettere il giorno. L'amministrazione postale francese fornì ad ogni rifugiato due francobolli il mese, che con un piccolo sotterfugio (coprendoli di un leggero strato di sapone), essi utilizzarono più volte. Tutte le lettere erano sottoposte alla censura, sia francese sia spagnola, soprattutto quest'ultima per quanto riguardava le condizioni di vita oltre confine. Per aggirarla le famiglie dalla Spagna si servirono di frasi convenzionali per avvertire i loro parenti dei pericoli che avrebbero corso se fossero rientrati in patria: «Ti ho trovato un impiego là dove lavora tuo fratello», dunque al cimitero dato che il fratello è morto e sepolto; altra espressione : «tuo fratello ha traslocato, ora è in pensione in un albergo di via dell'Enteca» cioè è in carcere in quanto nella via non ci sono alberghi ma si trova il Carcere Modelo. Altre possibilità di rompere l'isolamento furono le telefonate o i telegrammi con i parenti che si trovavano all'interno della Francia.[20]

 

L’Indépendant quotidiano di Perpignan fu autorizzato dal 15 febbraio a pubblicare una rubrica d’annunci gratuiti di ricerca di persone sotto il titolo: Donde estàn ùstedes?. Vennero pubblicati migliaia di nomi e recapiti, così da permettere ad un gran numero di rifugiati di ritrovare i loro famigliari o amici persi nei giorni dell'esodo. Il 19 febbraio la rubrica occupava tre quarti di pagina, il 28 dello stesso mese due pagine complete. Gli ultimi annunci vennero pubblicati il 5 aprile, infatti, dal giorno dopo il servizio di ricerca e ricongiungimento fu affidato al Comitato Internazionale della Croce Rossa di Ginevra.[21]

Altra iniziativa lodevole fu l'autorizzazione, anche se in forma sporadica e selezionata, concessa ai parenti di visitare gli internati. Nel frattempo migliorarono anche le possibilità finanziarie grazie all'intervento sia del governo repubblicano in esilio che stanziò a loro favore parte dei fondi trasferiti durante la fuga, sia, come già in precedenza accennato, delle organizzazioni più diverse: sindacali, politiche e religiose, francesi ed estere, nonché di privati cittadini. Tra i più attivi vi furono i Quaccheri inglesi che inviarono vitto e vestiario, ma anche medicine e materiale medico-chirurgico, apparecchi ortopedici per i mutilati...

 

Consistenti aiuti vennero dagli Stati Uniti, dove durante la guerra avevano operato l’

-          American Committee to Aid Spanish Democracy e

-          American Medical Bureau to Aid Spanish Democracy,

da cui, per iniziativa dei veterani della Abraham Lincoln Brigade, sorse il

-          Joint Anti-Fascist Refugee Committe.

Organizzazione che funzionò per molti anni e raccolse centinaia di migliaia di dollari, fornendo viveri, indumenti, medicinali ai profughi internati nei campi francesi, nonostante le difficoltà create dalle autorità governative americane. Con parte del denaro raccolto, a Città del Messico, fu costruito ed attrezzato per curare i rifugiati spagnoli l’Ospedale Edward Barsky, dal nome del medico americano responsabile di tutti gli ospedali delle Brigate Internazionali in Spagna. Il personale dell’ospedale era composto per lo più da rifugiati.

Si costituirono dei comitati internazionali d’orientamento sociopolitico differente:

-          Comitato di coordinamento e d'informazione per l'aiuto alla Spagna repubblicana, C.I.C.I.A.E.R..

-          Centrale di sanità internazionale che aprì a Parigi la Maison des Blessés per gli Internazionali,

sorti il 19 dicembre 1938 per iniziativa di Georges Bonnet e di cui facevano parte tra gli altri le maggiori personalità religiose di Parigi e uomini di cultura come François Mauriac,

-          Comitato per l'aiuto ai rifugiati spagnoli C.I.P.A.R.E. d’orientamento di sinistra,

-          Comitato di Perpignan per gli internati del P.O.U.M.,

-          Solidaridad internacional antifascista - S. I. A., creato dalla C.N.T. - F.A.I.[22]

 

Oltre alle modeste elargizioni ottenute da questi enti, gli internati ricavarono un po’ di denaro costruendo piccoli oggetti, come modelli d’aerei o di navi, che amici francesi vendevano all'esterno, il che permetteva loro soprattutto l'acquisto di verdure fresche dai contadini locali per integrare la razione giornaliera di vitto che n’era carente. Esisteva al di fuori dei campi un mercato delle merci più diverse (bevande, carta da lettere, penne, sapone, rasoi, ....) tollerato dietro compenso dalle guardie, dove negozianti senza scrupoli vendevano a prezzi maggiorati. Altri che si approfittarono della situazione furono dei trafficanti che, specie nei primi tempi, si aggirarono nei pressi dei campi per acquistare a basso prezzo qualsiasi oggetto di valore che i rifugiati fossero riusciti a salvare dalla cupidigia delle guardie. Vi erano poi proprietari agricoli della zona che ingaggiavano i più validi con salari di fame effettuandone la scelta come ad un mercato degli schiavi con l'ispezione dei denti, degli occhi, dei muscoli e delle mani. L'amministrazione francese, mentre i campi necessitavano di carne fresca, mise in vendita a basso prezzo tutto il bestiame (circa 10.000 animali: cavalli, muli, mucche e pecore) che i profughi si erano trascinato dietro nella fuga.[23]

 

V I

 

VITA QUOTIDIANA NEI CAMPI

 

 

 

 

Yo, fui, yo fui, yo era

al principio del Quinto Regimento.

Pensaba en ti, Lolita,

mirando los tejados de Madrid.

Pero ahora....

Este viento,

esta arena en los ojos,

Argelès! Saint Cyprien!

 

Rafael Alberti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'UNIVERSITA' DELLA SABBIA

 

 

La costruzione delle baracche e la parziale autonomia diedero nuovo spirito ai rifugiati che, specie nei campi non disciplinari, si organizzarono per dare alle comunità una qualche forma di vita sociale. Vennero dati nomi alle strade che nostalgicamente ricordavano la patria abbandonata, vi erano: via della Libertà, La Puerta del Sol, le Ramblas........ Nacque un mercato, il Barrio Chino, dove si potevano comprare indumenti, scarpe, orologi, occhiali, sigarette, .... esisteva un'osteria dove si poteva bere un bicchiere di vino e mangiare un'insalata di verdura.

Al campo civil funzionava in forma molto discreta un bordello la Casa de la Sevillana, dove cinque prostitute coinvolte nell'esodo avevano ripreso la vecchia professione. Un incontro costava 10 franchi o un milione di pesetas, che non avevano più corso legale [1].

Con la sveglia delle sette, il campo si animava; dopo la colazione iniziavano le varie corvè cui gli internati erano comandati o in base alla loro specifica preparazione professionale o quelle che tutti, a turno, dovevano disimpegnare. Dopo aver bevuto una bevanda calda, pomposamente chiamata caffè, servita da due internati, il gruppo comandato alla pulizia dei servizi igienici si avviava all'ingrato incarico. Iniziava quindi il lavoro degli addetti alla cucina che andavano a ritirare le provviste fresche ed il pane, quindi preparavano il pranzo. Questo servito a mezzogiorno, comprendeva di solito minestra, carne e verdure bollite, mentre la cena, servita alle sei, era costituita da merluzzo, semola e marmellata. Ognuno aveva diritto a 300 grammi di pane e un quarto di vino ogni due giorni, se lavorava la razione riceveva un'integrazione di pane e carne. L'alimentazione dei bambini era arricchita da latte fornito in parte dall’intendenza e in parte dalle associazioni umanitarie. Durante la giornata quelli che non avevano incarichi specifici disimpegnavano incombenze personali, come dare aria alla paglia dei giacigli, lavare la biancheria, andare dal barbiere, scrivere una lettera, ecc. Degli altoparlanti diffondevano tutto il giorno programmi musicali, dove predominavano tanghi, passi doppi e sardane, interrotti da comunicati diversi destinati a coloro che attendevano una visita o che avevano qualche faccenda da definire con l'amministrazione. Alle 11 e 30 e alle 17 e 30 veniva dato in castigliano e in catalano un riassunto delle notizie sulla situazione in Spagna e sugli avvenimenti internazionali[2].

 

Ma dove la volontà degli internati di tornare alla vita dimostrò tutta la sua forza fu nell'organizzazione culturale e ricreativa. Prendendo spunto da una circolare del Ministero dell'Interno del 5 maggio 1939 che dava istruzioni ai prefetti affinché venissero istituiti dei corsi di lingua francese sia per i bambini sia per gli adulti i numerosi intellettuali s’impegnarono per istituire dei corsi d’istruzione in diverse materie che, nonostante la precarietà dei mezzi a disposizione, ebbero molto successo. Infatti, nel giugno circa l'80% degli internati seguivano gli insegnamenti di quest’ Università della sabbia, che oltre a saziare una fame di cultura, serviva a rompere l'isolamento e a dare uno scopo alla giornata e a prepararli al tempo in cui sarebbero tornati liberi. La scolarizzazione dei bambini e l'alfabetizzazione di un forte numero d’adulti fu senz'altro la preoccupazione maggiore dei rifugiati.[3]

 

Nel sopracitato Barbelés à Argelès et autour d'autres camps, Francisco Pons, raccontò tra le altre vicissitudini, i sotterfugi cui era ricorso per riuscire ad ottenere dal colonnello francese, comandante del campo, l'autorizzazione ai corsi scolastici e all'apertura di una biblioteca. L'autorità militare temeva che queste attività nascondessero fini politici, che cioè i rifugiati se ne servissero per azioni di proselitismo, da cui potevano nascere, date le diversità d’orientamento ideologico, problemi d’ordine pubblico. Nella domanda egli fece anzitutto presente che esistevano nel campo un numero sufficiente d’insegnanti e che il materiale come banchi, lavagne e materiale didattico sarebbe stato fornito gratuitamente dai Quaccheri e che pertanto era sufficiente la sua autorizzazione a destinare alcune baracche all'incombenza, suggerendo che fossero abbastanza vicine al campo civil affinché i bambini potessero facilmente raggiungerle. Puntò inoltre sul prestigio che ne sarebbe derivato all'amministrazione del campo e quindi al comandante, queste argomentazioni e l'interessamento dei Quaccheri fecero sì che il responsabile accogliesse la richiesta ordinando la costruzione di cinque nuove baracche di cui una da destinare all'istituenda biblioteca, i cui libri furono offerti dalle diverse organizzazioni di sostegno [4].

 

Professori, istitutori, artisti, persone di cultura, artigiani organizzarono in ogni campo quello che ad Argelès fu denominato Centro Educazione e Lavoro. Esso era totalmente gestito dagli Spagnoli che supplirono alla mancanza di materiale pedagogico con l'immaginazione e l'entusiasmo. Qui ogni giorno, cinquecento bambini, in gruppi di cinquanta, venivano dal campo civil accompagnati all’Università dalle guardie mobili. Bambini ed adulti imparavano lo spagnolo, il francese, la storia, le scienze naturali, il disegno, la ginnastica, ma anche lavori manuali e tecniche artigianali. Da un documento amministrativo del giugno si possono rilevare le varie discipline insegnate e i servizi disimpegnati dal Centro.

 

Responsabili spagnoli del centro e laboratori collegati:

 

-          Corrales - assistente J. Saderra - organizzazione generale: corvès, cucina, intendenza, infermeria, cantina.

-          Saderra, - interprete del centro, amministrazione, servizio postale.

-          San Juan - scuole tecniche, cultura generale, matematica, storia, scienze naturali, lingue, biblioteca.

-          Mirabel, assistente P. Valiente - scuole pratiche, meccanici, falegnami, decoratori, sarti, calzolai, orologiai, parrucchieri, riparazione di biciclette, coltura degli orti, cura delle strade, stampatori,

-          Valiente, assistente U. Izquierdo - belle arti, paesaggistica, ebanisteria artistica, disegno, modellistica, composizioni decorative, incisione.

-          Vaello - cultura fisica, nuoto, boxe, ginnastica, calcio, rugby e altri sport.

 

 

V° L'Ispettore Capo Il Responsabile del Centro

Cheimol firma illeggibile [5]

 

 

Delle attività culturali svolte vennero redatti dei bollettini, ad esempio quello del 17 aprile 1939 n. 2 informava che fino allora nel campo d’Argelès erano state effettuate:

 

-          n. 99 conferenze su argomenti diversi,

-          n. 26 corsi di lingua francese a n. 320 allievi,

-          n. 5 corsi d’alfabetizzazione,

-          n. 28 incontri di calcio, rugby, pallavolo,

-          n. 7 festival, il più importante quello del 14 aprile, anniversario della Repubblica spagnola,

-          lettura e commento giornaliero dei quotidiani.

 

Nel mese di giugno tali attività si erano moltiplicate il bollettino riepilogativo segnalò:

 

Materia corsi n. allievi

 

-          Francese 231 390

-          Alfabetizzazione 675 5.400

-          Semi analfabeti 519 6.660

-          Cultura generale 450 8.340

-          Matematica 315 1.350

-          Grammatica 315 1.350

-          Geografia 315 1.360

-          Conferenze 325 1.630

 

 

Incontri sportivi

 

-          football 250

-          pallacanestro 60

-          rugby 30

-          boxe 22

-          lotta 8

-          ginnastica 25

-          atletica 4 (velocità, fondo, salti, lanci)

 

Attività culturali

 

-          pubblicazioni,

-          lettura di poesie,

-          esposizione di disegni

 

In calce i bollettini segnalarono che i Quaccheri inglesi avevano fatto pervenire al Centro 8.000 quaderni, 6.000 penne e 6.000 matite, libri di scuola e di lettura diversi.

 

In ogni baracca veniva esposto il piano di studio:

 

-          al mattino

 

-          ore 8/10 analfabeti,

-          ore 10/11 cultura generale, grammatica, matematica, geografia, storia,

-          ore 11/13 biblioteca e lettura giornali,

 

-          al pomeriggio

 

-          ore 14/15 francese elementare,

-          ore 15/16 francese superiore

-          ore 17/19 conferenze, dibattiti e corsi integrativi per i lavoratori impegnati in lavori esterni o interni [6].

Anello Poma, giovane volontario della Brigata Garibaldi internato nel campo di Gurs, ricorda in Antifascisti piemontesi e valdostani nella guerra di Spagna” edito dall’A.I.C.V.A.S., la sua esperienza:

«La vita – per così dire culturale – nel campo iniziava il mattino con la lettura del giornale. Nella mia baracca toccò a me quest’incarico della lettura ad alta voce del quotidiano. Pur non essendomi ancora impadronito sufficientemente della lingua francese, la traduzione in italiano mi riusciva abbastanza facile. Si finiva poi la sera, con la lettura, sempre collettiva, di un qualche romanzo a sfondo sociale, e toccava ancora al sottoscritto adempiere a quell’incarico. Ricordo, che, a confermarmi in quella mansione, contribuì forse un poco la mia dizione abbastanza corretta, ma ancora più la mia risata contagiosa. Mi poteva capitare, nel corso della lettura, d’imbattermi in qualche brano umoristico, e io, anziché attendere di unirmi alla risata generale, la provocavo: avevo colto con un’occhiata il seguito del discorso e, prorompevo in una risata fragorosa che trascinava anche gli altri; avevo allora 25 anni.

Trascorrevamo nello studio collettivo o nella lettura individuale il tempo che divideva la lettura mattutina da quella serale: il lavoro collettivo era compiuto su testi di studio, quello individuale su libri che le ricche letterature francese e russa ci fornivano. Ricevevamo gli uni e gli altri dagli emigrati italiani residenti in Francia, in Svizzera o in Belgio. I testi di studio erano gli articoli di Stato Operaio, le opere di Lenin che erano in circolazione e, tradotti in francese, alcuni libri d’economia politica, tra i quali ricordo il Précis d’economie politique di Leontiev, fino alla Storia del Partito comunista bolscevico dell’U.R.S.S. uscita allora. Non ultimo era lo studio delle lingue, soprattutto il francese, e poi d’altre materie quali la matematica, quest’ultima ce la insegnava un valente professore albanese».

 

Una delle realizzazioni di cui gli intellettuali si cimentarono con maggior entusiasmo fu la pubblicazione di giornali, scritti e stampati dagli stessi internati. Il primo di questi, era stato pubblicato ad Argelès sotto il titolo di Tredici perché era stato redatto e scritto a mano in lingua catalana da tredici persone e diffuso in altrettante copie. Gli articoli trattavano fatti della vita del campo, della guerra, ma parlavano anche di Paul Valery e di Jean Giono. Altre pubblicazioni, sovente effimere, come La voz de los Españoles del campo di Saint Cyprien, apparvero, testimoniando quest’effervescenza giornalistica, ebbero per argomento le condizioni di vita degli internati, poi scomparvero. Un periodico manoscritto, Rossellòn pubblicò dei poemi, dei saggi e dei disegni di rifugiati che vivevano nel Castello di Valmy, presso Argelès. La rivista del Roussillon in lingua catalana Terra Nostra pubblicò poemi dei rifugiati, come Exili di J. M. Musteros scritto a Perpignan nell'aprile 1939 - dedicato ai catalani della Catalogna del Nord - o Enyoranca di R. Dalmau y Ferrer scritto al campo di Le Barcarès nel maggio.

 

Le attività culturali furono stimolo ad altre iniziative quali la costituzione d’orchestrine, compagnie di teatro, squadre di calcio. Al campo d’Agde, i Catalani formarono una corale diretta dal tenore Aropesa e organizzarono recite trasmesse dalla radio del campo; dei giovani ripresero la tradizione dei Xiquets de Valls - piramidi umane, ogni sabato si svolgevano incontri di boxe o più frequentemente partite di calcio, dove ciascuno difendeva i colori del proprio ilot. Internato ad Agde con altri 20.000 catalani, Henri Tarradellas ricordava il risultato dell'incontro di calcio che opponeva la nazionale dei rifugiati alla squadra dei guardiani del campo: 2 a 2.

 

In queste comunità rinacque lo spirito della festa e della spensieratezza goliardica.

Al campo di Le Barcarès si festeggiò il 14 luglio. Ogni gruppo costruì un gran castello di sabbia. «Avevamo fatto molte Bastiglie e busti di personaggi celebri, tra gli altri uno di Franco a grandezza naturale su cui qualcuno aveva versato una specie di sciroppo fabbricato con zucchero. Un'ora dopo, Franco era coperto di mosche», ricordò Manolo Valiente. [7]

 

I rifugiati scolpirono, disegnarono, scrissero....

Un Palais de l'exposition fu inaugurato a Le Barcarès il 14 maggio 1939, fece seguito ad Argelès un Salon des Beaux Arts e Saint Cyprien non tardò ad aprire una sua baracca/galleria. Manifestazioni alle quali la stampa locale diede rilevanza e che furono occasioni di contatti con la popolazione francese. Le opere esposte erano generalmente pitture ad olio, acquerelli, disegni che rappresentavano scene di vita quotidiana dei campi d’internamento, ritratti, caricature, paesaggi marini, ..... Gli scultori - con tecniche d’espressione che si rapportavano sia all'arte figurativa sia all'avanguardia - realizzarono le loro opere con i materiali più vari, come sapone, legno recuperato in mare e ogni sorta di scarti (latte di conserva - cartoni - conchiglie - e perfino fil di ferro dei reticolati). Altri fecero lavori d’ebanisteria, dei modellini di navi o d’aerei.

Tutto un tesoro d'arte popolare, naif, fantasiosa e spontanea. Diverse di queste opere sono tuttora conservate nei piccoli musei dei paesi ove sorsero i campi.

Esposizioni d’artisti di professione furono organizzate nelle città dell'interno. Il 6 maggio, a Perpignan, la Galerie Vivante presentò le opere di Fernando Callico, soprannominato le fils d'Ingres (massimo esponente della pittura neoclassica francese - 1780/1867) e subito dopo quelle d’Antoni Clavè. Il Musée du Travail di Montpellier organizzò dall'8 al 15 luglio 1939 una mostra di trenta opere di tre giovani pittori catalani spagnoli: Roser Bru, Jaume Piques e Alexandre Cirici. Il vernissage fu l'occasione di una manifestazione di solidarietà ai rifugiati alla quale partecipano M.me Yves Blanc Azéma, assistente del sindaco di Montpellier, Camille Descossy, direttore della Scuola di Belle Arti, lo storico Rovira y Virgili e il deputato socialista di Prades, Joseph Rous.

 

Non tutti però erano d'accordo. Le manifestazioni diedero il pretesto ad una ripresa della campagna xenofoba. Fedele alla sua impostazione ipernazionalista la rivista Somatent scrisse: «Mentre da più parti si segnala che molti artisti francesi sono ridotti in miseria, degli sconosciuti pittori spagnoli, ospitati nei campi di internamento, hanno venduto diversi quadri e ottenuto ulteriori ordini per altre opere. Un pittore specializzato nel dipingere ritratti di bambini avrebbe guadagnato una cifra spropositata, ben oltre 100.000 franchi. E' intollerabile che degli artisti stranieri vengano a rubare il pane ai francesi, ma è ancora più intollerabile che questi artisti siano protetti dalle autorità della città. Noi chiediamo a tutti i giornali di questo dipartimento e in particolare al Roussillon, a La Démocratie e al Flambeau du Midi di prendere le difese degli artisti francesi e di dare il dovuto spazio alla nostra campagna:

«Il pane di Francia per i lavoratori francesi».[8]

 

 

LA POLITICA NEI CAMPI

 

 

Nel primo periodo dell'internamento le penose condizioni di vita non incoraggiarono certo le discussioni tra i rifugiati, così come, una volta superata l'emergenza, si cercò di non generare attriti con l'amministrazione francese. Ogni gruppo politico organizzava propri dibattiti e gli oppositori, se partecipavano, evitavano ogni comportamento ostile che avrebbe potuto degenerare in rissa e giustificare l'intervento dei gendarmi. Favoriva questo comportamento il fatto che, all'atto della suddivisione per baracche, ognuno aveva cercato di restare con i propri compagni di idea e di nazione di provenienza. Erano rappresentate tutte le numerose espressioni della sinistra: comunista, anarchica, trotzkista e socialista nonché altre ideologie antifasciste quali i repubblicani ed i giellisti tra gli italiani. In principio vi fu molta solidarietà, al di sopra d’ogni appartenenza politica o nazionale, per alleviare per quanto possibili tante sofferenze sia fisiche sia morali. Si assistettero i malati, si medicarono i feriti, talvolta si coprì un'evasione. Nessuno vide o sentì. L'omertà giunse a coprire anche alcuni regolamenti di conto in cui qualcuno pagò per fatti accaduti in Spagna. In questi casi neppure l'autorità brillò per diligenza o scrupolosità, le inchieste furono rapidamente archiviate. Meglio non indagare sulle ragioni di una morte, sia dovuta a vendetta o a disperazione.

 

Quando l'organizzazione dei campi uscì dallo stato embrionale e i francesi demandarono ai rifugiati parte dei servizi d’intendenza, di trasporto, d’infermeria, ecc., le diverse fazioni tentarono di imporre quale capo uno dei loro sia in ogni baracca sia d’ogni ilot, così da riuscire a controllare gli incarichi più importanti. Il controllo delle mansioni permetteva d’avere regolari contatti con l'esterno per ottenere informazioni, istruzioni, giornali e di acquisire una posizione preminente nei confronti di tutti gli internati, anche di quanti la pensavano diversamente.

Per ottenere tale scopo, in alcuni casi, furono stilate delle vere e proprie liste di proscrizione degli avversari indesiderabili, che consegnate alle autorità, determinarono il loro trasferimento al forte di Collioure o al campo di Le Vernet d'Ariège.

 

Su pubblicazioni d’orientamento libertario furono evidenziati alcuni casi che coinvolgevano naturalmente i comunisti, di regola denominati stalinisti. Ad Argelès, ad esempio, dove gli italiani erano appena il 10% degli internati, uno di loro, Ghini o Chedini, (soprannominato Atasi), cui era imputata l'uccisione di diversi suoi connazionali anarchici in Spagna, tentò di imporsi ai non spagnoli predisponendo una lista d’avversari politici da consegnare alle autorità francesi. In tal modo cercava di far allontanare quanti avrebbero potuto opporsi al controllo del campo da parte degli stalinisti. Incidenti si ebbero al campo di Gurs, dove i comunisti erano riusciti ad assicurarsi tutti gli incarichi, sostituendo tra l'altro come responsabile di una baracca un anarchico tedesco comandante della Colonna Ascaso. Davanti a tale sopruso gli internati che protestarono videro le loro razioni di cibo ridotte per tre giorni, finche non intervenne il comandante francese del campo a sistemare la diatriba. Nel primo numero di una pubblicazione edita dagli internati libertari Boletín de los antifascistas descontentos de los campos internacionales fu pubblicata l'esperienza di due portoghesi non comunisti. L'Amministrazione francese aveva segnalato per la quinta volta in due mesi a Damaso Guerriero Rafael che egli poteva lasciare il campo in quanto la sua domanda al riguardo era stata accolta, ma gli stalinisti, addetti al servizio, insabbiarono la comunicazione continuando a sostenere che egli era evaso da tempo, cosicché le autorità di polizia emisero un ordine di cattura nei suoi confronti. Aureliano José Dos Santos richiese un permesso per assistere la moglie che stava per partorire ed inviò tutta la documentazione richiesta tramite, il capo baracca comunista, ma questa non pervenne mai agli uffici preposti. Alle sollecitazioni dell'interessato il responsabile rispose che l'autorizzazione non era stata concessa senza specificare le motivazioni del rifiuto, messo alle strette affermò poi che i documenti si erano persi. Qualche giorno più tardi il Dos Santos ricevette un telegramma della moglie che si lamentava di non aver ricevuto risposta alle sue numerose lettere. Anche in questi casi le situazioni furono risolte con l'intervento dei francesi.

 

Ad un certo punto gli internati si resero conto che la posta non perveniva giornalmente ai destinatari o mostrava evidenti segni di censura.

I giornali erano ugualmente intercettati: La España expatriada, il bollettino La solidaridad democratica, l’ Avanti, la Giovine Italia, Il Libertario, che Giovanna Berneri, moglie dell'intellettuale anarchico ucciso dai comunisti a Barcellona nel maggio 1937, inviava regolarmente ai compagni di fede politica, ....

Da indagini fatte risultò che la posta ed i giornali, regolarmente trasmessi dall'ufficio delle Poste dell'amministrazione centrale, erano trattenuti per due o tre ore prima di essere distribuiti al fine di far sparire tutte le lettere sospette e la stampa non comunista.

Attraverso la stampa del campo, Voz de los Españoles (comunista) e Buletín de los antifascistas descontentos..... (anarchico) ripresero le vecchie diatribe ideologiche, che li avevano divisi in Spagna quando la parola d'ordine dei primi era «vincere la guerra per fare la rivoluzione» mentre per i secondi si doveva «fare la rivoluzione per vincere la guerra».

 

Per i comunisti, «l'unità della Catalogna si sarebbe potuta fare dopo aver liquidato i sabotatori anarchici e i traditori trotzkisti, alleati del rinnegato Franco». Essi accusavano, infatti, gli anarchici di aver appoggiato il colpo di stato del colonnello Casado, che determinò nel marzo 1939, la sconfitta totale della Repubblica. Sostenevano che se la guerra fosse continuata fino al 1° settembre, inizio della Seconda Guerra Mondiale, tedeschi ed italiani avrebbero ritirato le loro unità militari e la Francia avrebbe consentito il traferimento degli ingenti quantitativi d’armi provenienti dall’Unione Sovietica, bloccati alla frontiera franco-spagnola, nonché l’autorizzazione a raggiungere il territorio repubblicano alle decine di migliaia di soldati spagnoli internati, desiderosi di continuare a combattere.

Gli anarchici, da parte loro, ricordarono che nessun capo comunista era morto combattendo, che i comunisti avevano commesso delle atrocità in Spagna (Barcellona e distruzione delle collettività agricole in Aragona e Castiglia), e che l'unità proposta non sarebbe mai stata possibile perché era: «un’unità irreale, settaria, soggetta alle convenienze e all'egemonia del P.C.E. a detrimento dei sentimenti e degli ideali dei lavoratori che desideravano l'emancipazione della loro classe, senza distinzione di credo....».

Di fronte alle critiche i comunisti lanciarono un appello all'unità politica del Frente Popular e denunciarono la presenza nei campi di franchisti ed agenti dell’O.V.R.A[5].

Ma la tattica tendente ad arginare il movimento di contestazione fallì. Al contrario, il settarismo e gli abusi di potere dei comunisti rinforzarono la determinazione degli altri gruppi che, mettendo a tacere le loro divergenze interne, si coalizzarono tra loro.

Tra gli altri, i socialisti rammentando che l'unione presupponeva sincerità, correttezza e soprattutto libertà di discussione; visti i precedenti, risposero: «no creemos».

 

Il 7 luglio 1939, centocinquanta internati italiani, portoghesi e tedeschi, di diverse tendenze politiche, stanchi delle vessazioni degli stalinisti, presentarono domanda al comandante del campo per essere separati da questi ultimi. Per calmare gli animi, fu loro offerto il controllo della mensa e della posta, ma nel frattempo furono minacciati di far loro perdere l'assistenza d’organizzazioni, quali il C.I.C.I.A.E.R., il Centro sanitario internazionale o l'Associazione dei volontari. Ma i centocinquanta, sostenuti dalla maggioranza dei rifugiati, rifiutarono di cedere al ricatto. Il 6 agosto l’ Avanti titolò: «Nel campo di Gurs i volontari internazionali della guerra di Spagna si sono ribellati in massa contro la tirannia dei funzionari di Mosca». Dopo essere venuti alle mani, i comunisti capitolarono e gli altri ottennero soddisfazione [9].

 

Qualche giorno più tardi, il 23 agosto 1939, la situazione precipitò: Stalin aveva firmato il patto di non aggressione con Hitler, e le polemiche si fecero accese.

I comunisti tentarono di spiegare: «che i popoli non hanno gli stessi interessi dei produttori d’armi e dei capitalisti che si arricchiscono con le guerre, essi vogliono la pace, come l’U.R.S.S. che, oggi, n’è divenuta il campione». Il messaggio ebbe difficoltà ad essere compreso e le discussioni spesso sfociarono in pugilati. Vi furono comunisti che strapparono la tessera del partito. Il patto fece nascere nei francesi l'ossessione della Quinta colonna il che comportò il trasferimento di molti esponenti comunisti ai campi di disciplina in particolare al Campo di Le Vernet d'Ariège, che teoricamente evacuato al 22 settembre 1939, riprese la sua attività. I trecentottantacinque internati superstiti diventarono novecentoquindici il 13 ottobre, millesettecentoventicinque il 1° dicembre e duemila nel febbraio 1940. Erano in prevalenza spagnoli, ma anche tedeschi ed austriaci, nonché militanti d’altre nazionalità esuli in Francia o volontari delle Brigate Internazionali. Le donne politicamente impegnate nel partito furono internate al campo di Rieucros. L'invasione dell’U.R.S.S. da parte delle forze tedesche e la partecipazione attiva dei comunisti alla Resistenza avrebbe stemperato le polemiche.[10]

 

Vibranti erano le discussioni tra gli stessi anarchici, che costituivano la maggioranza degli internati, tese ad una rivisitazione della rivoluzione libertaria del 1936/1939.

La disputa era alimentata dalle due diverse visioni della strategia propugnata dagli anarchici in quegli anni, cioè tra quelli che sostennero necessaria la collaborazione con lo Stato (cosiddetti trientistas) e gli idealisti. Le critiche riguardarono principalmente:

-          il sostegno elettorale al Frente Popular nelle votazioni del 16 febbraio 1936,

-          la partecipazione al Governo della Repubblica (spagnola e catalana),

-          l'accorpamento delle milizie popolari nel ricostituito esercito repubblicano,

- le tragiche giornate di maggio a Barcellona e dell'estate in Aragona e Castiglia.

 

La partecipazione alle elezioni degli anarchici fu decisiva, secondo Gerald Brenan, infatti, le sinistre ottennero oltre un milione di voti in più rispetto al 1933, quando la propaganda astensionista era stata viva e intensa per culminare nella grand’assemblea di Barcellona dove gli oratori, tra cui Durruti, lanciarono la parola d'ordine: «Mai alle urne, rivoluzione sociale!».

Un'uguale decisione fu adottata nel gennaio del 1936 dal Comitato regionale della C.N.T. della Catalogna, ma poi nella realtà la campagna antielettorale fu talmente blanda: tanto valeva dire di votare. Per giustificare tale atteggiamento si spiegò che si era derogato dalle disposizioni dell'Assemblea e dai principi fondamentali del Confederazione per allontanare il pericolo di un nuovo governo delle destre e per ottenere la liberazione di 33.000 prigionieri politici, vittime della selvaggia repressione che era seguita alla rivolta delle Asturie nell'ottobre 1934.[11]

 

Le critiche, pur valutando corretta da un punto di vista umano la liberazione dei prigionieri, tuttavia mettevano in luce che la situazione avrebbe dovuto essere più attentamente valutata. Infatti nonostante la vittoria dei partiti di sinistra, il potere reale era rimasto in mano dei capitalisti, della Chiesa e della casta militare. Inoltre aveva attivato quest'ultima nel preparare il golpe, che era stato solo in parte fermato grazie al sacrificio delle classi lavoratrici.

 

Al contrario la vittoria della destra, quasi certa se gli anarchici fossero stati compatti nel non votare, avrebbe comportato la fine della cospirazione militare e messo al potere un governo debole come il precedente, creando così i presupposti per una situazione rivoluzionaria dal punto di vista libertario. Dimenticando però la tragica esperienza delle Asturie.

 

Per quanto riguarda la partecipazione diretta al governo prima della Catalogna e poi della Repubblica i giudizi erano nettamente discordi. I puri erano allineati sulle posizioni del padre di Federica Montseny, al quale prima di assumere la carica di Ministro della Sanità a Madrid la figlia si era rivolta per un parere. Egli affermò che la collaborazione avrebbe comportato: «la liquidazione dell'anarchismo e della C.N.T. Una volta installati al governo voi non vi libererete più del Potere....».[12]

Al contrario i favorevoli alla collaborazione dicevano di aver interpretato il pensiero del mitico Durruti, che poco prima di morire nella difesa di Madrid, nel novembre del 1936 aveva affermato: «rinunciamo a tutto salvo che alla vittoria».[13]

Tale interpretazione faceva intendere che egli era pronto a rinunciare agli obiettivi rivoluzionari per una vittoria ad ogni costo su Franco.

I primi contestavano tale interpretazione rifacendosi ai concetti espressi dallo stesso Durruti in un'intervista concessa al Montreal Star di Toronto d’alcuni mesi prima:

«Io non mi aspetto niente da nessun governo al mondo, neppure dal nostro».

«Vi troverete su un mucchio di macerie, se vincerete» disse il giornalista.

Durruti rispose: «Noi siamo sempre vissuti nei tuguri e nelle caverne. Sapremo come adattarci, per un certo tempo. Noi sappiamo anche costruire. Siamo stati noi a costruire i palazzi e le città qui in Spagna, in America e dappertutto. Noi lavoratori potremo costruire città nuove, e migliori. Le rovine non ci spaventano minimamente. Noi erediteremo la terra. La borghesia distrugga pure il suo mondo prima di uscire dalla scena della storia, ma noi portiamo un nuovo mondo nei nostri cuori». Non erano certo le parole di un anarchico convertito alla collaborazione.[14]

 

L’intellettuale libertario italiano Camillo Berneri, poco prima di essere ucciso nei tragici fatti di Barcellona, sosteneva che gli anarchici non dovevano puntare al governo ma sul movimento proletario, costituire un esercito efficiente di tipo rivoluzionario, difendere le collettivizzazioni ma senza massimalismi, risparmiando ad esempio la piccola borghesia:

«Il dilemma guerra o rivoluzione non ha più senso. Il dilemma è uno solo: o la vittoria su Franco mediante la guerra rivoluzionaria, o la sconfitta».[15]

 

La terza questione riguardava la militarizzazione delle milizie di partito in pratica la loro trasformazione in un esercito regolare. Erano state queste truppe disorganizzate che avevano contrastato la ribellione nelle grandi città e avevano retto il primo urto dell'esercito ribelle. George Orwell descrisse in Omaggio alla Catalogna le caratteristiche di questi suoi compagni d'arme: «Il punto essenziale del sistema era l'uguaglianza sociale tra ufficiali e uomini di truppa. Tutto, dal generale all'ultima recluta, percepivano la stessa paga, mangiavano lo stesso rancio, indossavano gli stessi panni. Se volevate dare una manata sulle spalle al generale che comandava la divisione e chiedergli una sigaretta, potevate farlo, nessuno trovava niente da ridire. Teoricamente ogni milizia era una democrazia e non una gerarchia. Era stabilito che agli ordini si doveva ubbidire, ma era anche stabilito che quando si dava un comando si dava ad un compagno e non da superiore ad inferiore. C'erano ufficiali e sottufficiali, ma niente titoli, galloni, distintivi, battere di tacchi, saluti militari. Era una specie di società senza classi. Ammetto che in un primo tempo lo stato di cose che trovai al fronte mi fece inorridire, ma io avevo idee da esercito britannico. In seguito capii che in un esercito proletario la disciplina è teoricamente volontaria, si base sulla lealtà di classe, mentre la disciplina di un esercito borghese è in definitiva basata sulla paura».[16]

Era questa caratteristica che gli anarchici temevano di perdere - di diventare dei borghesi - nel venire inquadrati in un esercito regolare. Ancora una volta le ragioni pratiche di collaborazione venivano ad urtare contro i principi dell'anarchismo nettamente contrari ad ogni forma d’autoritarismo. Orwell che aveva servito per cinque anni nell’Indian Imperial Police in Birmania tutto ciò sembrava «bizzarro e commovente. C’erano molte cose che non comprendevo, in un certo senso ciò non mi piaceva, ma riconobbi nella situazione immediatamente uno stato di cose per il quale valeva la pena di battersi».

 

Più lacerante era l'analisi delle già citate tragiche giornate del maggio 1937 e della fine del programma di collettivizzazione per l'intervento delle truppe del Governo repubblicano.

S’imputava ai capi il mancato intervento delle tre divisioni anarchiche, (la 25ª, la 26ª e la 28ª) che erano dislocate al fronte, mentre Lister con la sua 11ª [P2] Divisione appoggiata dalla 27ª comunista e dalla 30ª catalana metteva a ferro e fuoco l'Aragona, imitato nella Castiglia dal Campesino.[17]

 

Ma tutto era messo in discussione anche la violenza che sembrava essere una delle basi del movimento anarchico e che nei primi tempi della cosiddetta rivoluzione libertaria era stata largamente messa in atto. Ora si affermava rifacendosi alle Opinioni del Congresso di Saragozza del maggio 1936 che: «Il comunismo libertario è incompatibile con qualsiasi regime di correzione ed esso implica la scomparsa dell'attuale sistema di giustizia e, di conseguenza, degli strumenti di punizione (prigioni, confino, ecc..). La violenza non è un'arma di difesa contro Franco, essa diventa un'arma di vendetta (esecuzione dei prigionieri fascisti), d'intimidazione (fucilazioni pubbliche dei disertori), di minaccia preventiva (pena di morte per i ladri). Un anarchico non può giustificare l'uccisione di un uomo disarmato, quale che sia il suo delitto. A chi domanda: Dovremmo dunque risparmiare la vita a chi è responsabile del massacro di centinaia di nostri compagni? C'è chi risponde si; se è uno dei mezzi per cambiare la società. Si pensi a qualcosa di più reale, di più positivo e di più rivoluzionario del resistere alla violenza, piuttosto che il parteciparvi. E' più umano e più rivoluzionario difendere il diritto alla vita di un fascista piuttosto che appoggiare il Tribunale che ha il potere legale di fucilarlo, è meglio parlare alla gente essendo in mezzo a loro piuttosto che dai banchi di un governo, è più facile influenzare gli spiriti con la discussione piuttosto che modellarli con la coercizione».

 

Infine più importante di tutto è la questione della dignità umana e del rispetto di sé e dei propri simili. Vi sono cose che nessuno può fare senza cessare di essere un uomo. Vale per questi l'insegnamento di un vecchio anarchico francese Sébastian Faure: «Io non ignoro che non è sempre possibile fare quello che sarebbe necessario; ma so che ci sono delle cose che è assolutamente necessario non fare mai». Dalla lezione della rivoluzione spagnola gli anarchici cercavano risposte per le insurrezioni di domani [18].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

V I I

 

I CAMPI DI PUNIZIONE

 

 

 

 

Morts sous le soleil, le froid, la pluie, le gel..

Semis de jeunes corps si fatalment

Arrachés au triste terroir qui les enfanta.

 

Rafael Alberti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE VERNET D' ARIÈGE

 

 

Le condizioni di vita rimasero sempre dure nei cosiddetti campi di disciplina, dove furono internati i rifugiati ritenuti più pericolosi, come anarchici, comunisti, trotzkisti, capi e militari delle Brigate Internazionali. Quanti si erano macchiati di una qualche colpa in Francia (tentata evasione, ribellione alle guardie, furto, ecc.) furono incarcerati nel castello di Collioure.

Il campo di Le Vernet d'Ariège creato nel giugno del 1918, come campo d’addestramento per le truppe coloniali, fu quasi subito trasformato in un campo di prigionia per soldati tedeschi ed austriaci; quindi nel periodo tra le due guerre fu utilizzato per un certo periodo come deposito di materiale militare. Dipendeva amministrativamente dalla Prefettura di Foix e militarmente dalla 17ª regione di Tolosa, ed era un vasto appezzamento di terreno distante due chilometri dalla cittadina omonima e a circa ottanta dalla frontiera franco-spagnola e franco-andorrana. Inutilizzato da diversi anni era in grave stato d’abbandono, le residue diciannove baracche erano in rovina, tanto che le autorità della Sanità militare non vi autorizzarono in un primo tempo l'internamento dei profughi. Il Prefetto, pressato dalla necessità di decongestionare Saint Cyprien, di evacuare i campi d’accoglienza sorti sui contrafforti dei Pirenei e soprattutto preoccupato dalla presenza di tanti irriducibili intervenne presso i competenti ministeri ed ottenne l'autorizzazione.

Il 2 marzo 1939 9.000 anarchici, su 10.200 appartenenti alla 26ª Divisione Durruti, che per ultima aveva lasciato la Spagna, accampati provvisoriamente al forte di Mont Louis, raggiunsero la nuova destinazione, mentre i restanti 1.200 furono trasferiti a Mazères. Per la loro pericolosità questi uomini, tra cui molti esperti nel maneggio della dinamite, erano stati sin dal loro ingresso in Francia soggetti ad una stretta sorveglianza. Furono inoltre inviati a Le Vernet d'Ariege anche gli elementi più turbolenti degli altri campi e quanti, riusciti ad entrare in Francia sfuggendo al servizio d'ordine, erano stati in seguito arrestati. Successivamente vi furono internati lo Stato Maggiore delle Brigate Internazionali con molti combattenti nonché numerosi civili che avevano sostenuto la Repubblica Spagnola sia combattendo in altre formazioni sia impegnati nel fronte interno. Dopo la firma del patto di non aggressione russo-tedesco del 23.8.1939 vi furono trasferiti molti comunisti stranieri da tempo in esilio in Francia dai loro paesi d'origine.

Il campo con quello di Septfonds (Tarn et Garonne) fu posto sotto la giurisdizione del colonnello Dellezey, che dipendeva direttamente dal generale comandante della Regione militare al quale riferiva ogni due giorni - immediatamente in caso di disordini gravi - ed aveva sotto di sé i comandanti dei due campi con i quali era in contatto diretto, senza intermediari. Egli era responsabile della disciplina generale e del regolare andamento dei campi, a questo titolo si preoccupava del normale funzionamento dei servizi, dello stato morale e fisico degli internati e dell'efficienza della sorveglianza. Era in contatto permanente con i comandi militari addetti all'amministrazione generale di tutti i campi di Francia e con lo stato maggiore della regione incaricato di assicurare il coordinamento di tutti i servizi logistici, compreso quello essenziale dei rifornimenti; per far fronte a tutte queste incombenze provvedeva ad ispezionare i campi almeno due volte la settimana.

Il comandante del campo di Le Vernet - tenente colonnello dell'esercito - era assistito da un commissario speciale e da un ispettore di polizia responsabile della sicurezza complessiva. Ai suoi ordini, un dispositivo militare e poliziesco particolarmente imponente composto da alcuni battaglioni di fanteria incaricati della guardia esterna; sei plotoni della G.R.M. per il servizio interno, la repressione di eventuali ammutinamenti e le periodiche perquisizioni, uno squadrone di guardie a cavallo che pattugliava i dintorni dei campi per arrestare eventuali evasi; una pattuglia di motociclisti di stanza a Tolosa pronti ad intervenire per ricercare i fuggiaschi in un'area più vasta. Infine di riserva, senegalesi e malgasci accasermati a Pamiers (Ariège).

La disciplina interna del campo era di pertinenza dell'autorità militare; la sorveglianza esterna dipendeva dal Prefetto, sempre con la collaborazione dei comandi militari di vario livello. All'autorità pubblica era inoltre demandato il controllo di tutte le relazioni esterne dei rifugiati.

All'arrivo il campo si presentò ai miliziani come un’immensa spianata di fango, senza ricoveri, salvo una ventina di baracche in rovina. Sguazzando in questa fanghiglia e tremando di freddo, soprattutto la notte quando la temperatura scendeva a meno 10 gradi, i rifugiati si protessero alla meglio con ripari di fortuna. Ricevettero il loro primo pasto (una pagnotta di pane e l'immancabile scatola di sardine) tre giorni dopo il loro arrivo.

 

I fondi messi a disposizione dalle autorità locali, dalle organizzazioni umanitarie o dai partiti della sinistra furono utilizzati, senza vergogna, per scopi diversi da quelli previsti. Infatti, il Ministro degli Interni fece sapere al Prefetto dell'Ariège che «non vedeva alcun inconveniente a che le spese di tipografia necessarie per stampare le schede d’identificazione dei rifugiati fossero pagate con i fondi donati per l'assistenza ai profughi spagnoli». Mentre sembrava avere priorità la schedatura degli internati, la mancanza d’igiene, le mancanze alimentari e sanitarie provocarono numerosi decessi. Non si conosce il numero esatto di queste morti in quanto non furono redatti documenti ufficiali, la sola traccia resta il cimitero del campo che conta 142 tombe corrispondenti ad altrettanti decessi avvenuti dal 1939 al 1945. Più di un terzo (50) riguardarono spagnoli deceduti nel 1939; 25 dei quali nei mesi di marzo ed aprile.

Nel corso di qualche mese si ebbero dei miglioramenti riguardo all'alimentazione, se non in qualità almeno in quantità. Gli internati avevano diritto ad una bevanda calda, caffè o te, a delle lenticchie, dei piselli secchi e della pasta ed ad una porzione di carne servita una volta il giorno con una pagnotta di pane. Non ebbero mai verdure fresche né zucchero, eccetto quello delle bevande calde, da cui i numerosi casi di scorbuto e di avitaminosi. L'amministrazione non fornì né gavette né posate cosicché gli internati utilizzarono delle vecchie scatole di conserve in sostituzione delle prime e si fabbricarono cucchiai e forchette di legno per mangiare. La mancanza di igiene favorì lo sviluppo dei parassiti, i rifugiati furono infestati da pulci e pidocchi e molti contrassero la scabbia o altre malattie della pelle. Altra gravissima mancanza fu quella sanitaria, infatti il campo all’inizio non possedeva alcuna struttura per ricoverare malati o feriti. I feriti o i malati di altri campi, giudicati guariti ed in grado di sopportare la vita del campo, erano inviati a Le Vernet, dove trascorrevano la convalescenza con tutti gli altri internati augurandosi di non avere una ricaduta o un aggravamento in quanto sul posto esisteva solo una specie di infermeria non attrezzata a fornire un’assistenza medica qualificata. Solo a maggio tale infermeria fu trasformata in un ospedale che poteva ricoverare quattrocento malati in letti non tutti dotati della necessaria biancheria. Mancavano bende e garze per le medicazioni e ogni tipo di medicinali, tanto che il generale medico Goursolas lanciò un appello agli organismi assistenziali affinché ne inviassero gratuitamente e porto franco.

 

Con il mese di maggio, seppure lentamente la situazione cominciò a migliorare. I primi stanziamenti assegnati al campo furono utilizzati per perfezionare la sorveglianza, l'illuminazione delle recinzioni e la posa di nuovi reticolati conformemente alle direttive del Ministro degli Interni Albert Sarraut (circ. 5 maggio 1939), nello stesso mese s’iniziò la costruzione di quaranta baracche, di cui nove riservate all'ospedale-infermeria. La bonifica del terreno e le sistemazioni di primaria necessità (acquedotto, servizi igienici, cucine, illuminazione) furono fatte fare dagli internati così «da procurare loro un diversivo con il lavoro». Ora ogni internato aveva un tetto, sia sotto una tenda di trenta posti sia in una baracca dove da trecento a trecentocinquanta uomini dormivano in una specie di letto a castello di tre piani. Vi fu una prima distribuzione di mille vestiti, camicie, mutande, calzini e ciabatte provenienti dalle collette dei sindacati degli operai ed un secondo invio il mese successivo d’altri duemila pezzi per ogni tipo forniti dall'esercito francese. Fino allora, come segnalò il commissario speciale al Prefetto, gli internati non possedevano altro che quanto avevano indosso al momento del loro ingresso in Francia; l'amministrazione non aveva fornito altro che camiciotti da lavoro ai cucinieri e agli infermieri. Nel frattempo le autorità decisero di creare dei laboratori per la produzione di vestiti e scarpe di tela, nonché segherie, falegnamerie ed officine meccaniche. Un'area del campo fu inoltre destinata ai giochi collettivi.[1]

 

Quella che non fu ammorbidita fu la disciplina. Ogni giorno si facevano quattro appelli per accertare prontamente eventuali evasioni. Gli internati erano tenuti a fare il saluto militare quando incontravano un ufficiale o a togliersi il cappello in presenza di una guardia. Una volta la settimana gli occupanti d’ogni baracca dovevano assistere inquadrati all'alzabandiera. Era questa una corvè quanto mai fastidiosa e ridicola per dei senza patria secondo la loro ideologia anarchica. La maggior parte degli internati era d’origine catalana e nella loro lingua la parola drap (bandiera in francese) significava straccio, per questo malignamente affermavano di andare a salutare lo straccio francese. Oltre alle restrizioni personali vennero anche limitate le visite, la spedizione e la ricezione di posta e la lettura dei giornali. Le visite, quando autorizzate, erano limitate ai soli membri della famiglia, muniti di un'autorizzazione speciale, e a persone o associazioni accreditate presso il governo francese (sindacati nazionali, Croce Rossa, comitati di solidarietà, rappresentanti del governo franchista, pastori religiosi,...) Gli internati potevano spedire due lettere al mese, scritti che non dovevano eccedere le quattro pagine per la Francia e due per l'estero, e che erano soggetti ad una censura rigorosissima. Potevano ricevere lettere, pacchi (cinque chili al massimo per settimana) e dei vaglia (500 franchi al mese). Rigorosamente vietati i giornali di sinistra, quelli autorizzati circolavano di mano in mano. Il Prefetto dell'Ariège informò il Ministro degli Interni che: «la vendita dei giornali è limitata alla stampa regionale: La Dépeche e La Petite Gironde. Le autorità militari hanno rifiutato l'entrata de Le Midi Socialiste».

 

Al di fuori delle visite regolamentate (martedì, giovedì e domenica dalle ore 14 alle 18) era vietato avvicinarsi al campo o fermarsi in prossimità sulla strada nazionale che lo costeggiava. Coloro che infrangevano quest’ordine erano esposti alla brutalità dei guardiani e provocavano delle sanzioni nei confronti degli internati comportanti più giorni di prigione.

Le infrazioni alla rigida disciplina del campo erano duramente punite con soggiorni nei già citati Hippodromo o Picadero. Si è già accennato come la pena consistesse nell'obbligo di restare in piedi con le mani legate dietro la schiena e, qualsiasi fossero le condizioni atmosferiche e la durata della punizione, fosse vietato introdurre cibo, sigarette e coperte. Una volta scontata la punizione, l’internato poteva, a discrezione del comandante del campo, essere mandato alla prigione di Perpignan o al castello di Collioure.

 

Una volta a seguito dell'inumano trattamento, protrattosi per oltre venti giorni, due condannati morirono, l'organizzazione interna degli internati decise di intervenire e alla successiva punizione iniziò un movimento di protesta che coinvolse tutto il campo, perciò il comandante fu obbligato a mettere fine al supplizio. Consci della forza del numero, le agitazioni si moltiplicarono per contrastare le brutalità ed angherie quotidiane. La notte, le guardie non osavano avventurarsi all'interno del campo ed effettuavano le ispezioni, sempre corredate da colpi con il calcio dei fucili o manganelli, esclusivamente di giorno. Nel corso di una di queste una ventina di guardie, che scortavano il comandante del campo, furono particolarmente brutali tanto da provocare la reazione dei rifugiati che riuscirono a disarmarle. Nel corso dello scontro anche il comandante fu colpito da qualche pugno. Immediatamente il campo fu messo in stato di allerta, le mitragliatrici messe in postazione e nel corso dei tafferugli che ne seguirono diversi internati riportarono ferite di baionetta. Per rappresaglia tutto il campo fu vaccinato contro il tetano raddoppiando la dose del vaccino.

 

Qualche tempo dopo, quando nel corso di una colluttazione un gendarme della G.R.M. finì in una latrina, furono fatti intervenire i tiratori senegalesi appoggiati da piccoli carri armati. Queste agitazioni, anche se rapidamente represse, inquietavano le autorità che temevano una rivolta generale.

 

Il 24 luglio il Ministro dell'Interno comunicò un'informazione confidenziale appena pervenutagli:

«I rifugiati de Le Vernet hanno programmato la rivolta del campo a causa dell'internamento prolungato, della mancanza di denaro e d’oggetti di prima necessità, soprattutto vestiti. Questo sollevamento inizierà nel campo ove sono internati i soldati della 26ª Divisione anarchica Durruti per estendersi agli altri campi».

L'insurrezione non ebbe mai luogo, ma per prevenzione numerosi elementi considerati tra i più pericolosi furono trasferiti al Forte di Collioure.

Un internato, assegnato ad una corvè su una via pubblica, avvicinato da un corrispondente del Réveil de Pamiers dichiarò: «Voi potete scrivere, signore, che siamo trattati come cani!».

 

Tale stato di cose spingeva molti rifugiati ad evadere. Tra aprile e giugno si stima che ne fuggirono in media tre o quattro il giorno. I rischi corsi e le scarse possibilità di successo non li dissuadevano dal tentare la fuga perché, anche se erano ripresi, erano tradotti davanti al Tribunale di Foix che, di regola, li condannava ad un mese di carcere da scontare nel penitenziario locale che i reclusi preferivano al campo di Le Vernet. I tentativi d’evasione cessarono da luglio, quando la maggioranza degli internati fu aggregata alle C.T.E. (Compagnies de Travailleurs Etrangers) con la possibilità di riunirsi ai familiari e di avere una vita normale.

Alla vigilia della dichiarazione di guerra rimanevano nel campo centosettanta miliziani spagnoli inquadrati in una C.T.E. incaricata dei lavori di manutenzione, trasferiti in seguito nella Valle del Vicdessos. Gli altri internati (circa duecento) erano un campionario delle nazionalità più diverse cui si aggiunsero gli estremisti pericolosi, rastrellati per tutta la Francia e negli altri campi, di cui ho fatto cenno sopra.[2]

 

Anche nei campi normali esisteva una sezione especial per custodire questi indesiderabili. Tra questi Alvaro Lopéz, segretario dell’A.I.C.V.A.S., che ricorda quello di Saint Cyprien dove i prigionieri cantavano:

 

"En la playa Saint Cyprien

hay un campo muy especial

donde los comunistas

de cabeza van a dar.

Son cien pasos por setenta

tenemos doble alambrada

debajo chapa ondulada

y ademas tres barracas,

la cocina y

un sitio par cagar".

 

 

 

 

 

 

FORT COLLIOURE

 

 

In questo vecchio castello dei Templari, trasformato in prigione, tutti i reclusi furono trattati come criminali da ufficiali cui era stato attribuito un potere illimitato e circa cento vi morirono per i maltrattamenti subiti. Al suo arrivo il prigioniero era perquisito, privato di tutti gli oggetti personali e rapato completamente. Questa tosatura era la prima di una serie di vessazioni, il barbiere usava acqua di mare e vecchi rasoi. L'isolamento era completo; era vietato ricevere posta da francesi o pacchi (eccetto calze o magliette), erano proibiti i giornali e le visite. Una volta la settimana, essi ricevevano due fogli di carta da lettere e un pacco di tabacco, da dividere con altri venti detenuti, era sottinteso che nella corrispondenza dovevano evitare ogni riferimento al trattamento ricevuto sotto minaccia d’espulsione in Spagna. Le provocazioni, gli insulti e le botte erano quotidiane, ma oltre alle punizioni abituali degli altri campi, il Forte di Collioure era dotato di una sezione speciale dove erano praticate delle torture fisiche. Svegliati alle cinque, i prigionieri erano adibiti a lavori pesanti quanto inutili, riservati abitualmente agli ergastolani: assicurare la corvè dei buglioli versati in mare, trasportare e spaccare delle pietre, scavare delle buche riempite il giorno dopo, il tutto sotto i colpi dei Senegalesi. Lo stato fisico ne risentiva e le malattie non mancarono. Il vitto, servito due volte il giorno, era insufficiente e poco nutriente per compensare le fatiche sopportate: una pagnotta di pane e mezzo piatto di merluzzo con lenticchie.

Manuel Serra, un intellettuale poco abituato agli sforzi fisici, che pesava cinquanta chili al momento della sua carcerazione n’avrebbe pesati poco più di trenta all'atto della liberazione.

 

In maggio, ossia due mesi dopo la sua apertura, le condizioni del penitenziario furono denunciate da L'Humanité grazie alla testimonianza di un giornalista che vi si era fatto internare.

Qualche giorno dopo, Paul Bourgeois, membro di un'associazione umanitaria, che aveva ottenuto l'autorizzazione ad entrare nel castello per distribuire dei pacchi integrò questa testimonianza e convocò una conferenza stampa in cui denunciò apertamente il capitano Rollet, comandante della prigione, di essere pervaso da un odio innato verso gli spagnoli. Denuncie che provocarono una forte emozione in tutta la Francia. La Lega dei Diritti dell'Uomo e il Comitato di Difesa giuridica dei «murati vivi di Collioure», testé costituito, composto da trentatré avvocati, chiese spiegazioni al Prefetto Raoul Didkowski che si astenne dal rispondere. Per tutto il mese furono vietate le visite con il pretesto che il forte era sotto la giurisdizione militare. Il 2 giugno il giudice di pace di Argelès, il cancelliere ed il sindaco di Collioure si presentarono per stabilire un contatto ma il capitano Rollet si rifiutò di riceverli in quanto privi dell'autorizzazione del suo superiore il generale Lavigne. Basandosi sulle argomentazioni addotte dal Comitato di difesa che i prigionieri erano stati incarcerati senza essere stati condannati da alcun tribunale Jean Chauvet, Segretario del Soccorso Popolare, presentò richiesta ad un giudice di pace affinché i carcerati fossero immediatamente liberati Dopo la loro scarcerazione essi denunciarono con particolari agghiaccianti il trattamento subito e il sadismo delle torture. Alcune guardie, come il sergente Miallet, dichiararono di vergognarsi d’essere compatrioti del capitano Rollet.[3]

 

 

AFRICA DEL NORD

 

 

In questi campi affluirono in un primo tempo gli spagnoli che erano riusciti a fuggire per mare dopo l'occupazione del Sud-Est della Spagna da parte dei franchisti, conquista che pose fine dopo circa tre anni alla guerra civile e chiuse l'esperienza democratica della Repubblica.

Diverse navi, perlopiù battenti bandiera inglese, erano partite negli ultimi giorni di marzo da Alicante o Cartagena con destinazione Marsiglia o l'Africa del Nord francese. Attraccarono ad Orano la petroliera Campillo e quattro altre navi di grosso tonnellaggio, tra le quali lo Stanbrook. Su queste navi più di tremila persone, dei due sessi e di tutte le età, erano ammassate sul ponte e attorno ai fumaioli, tremanti di fame e freddo, neri di fumo, impossibilitati a sdraiarsi per riposare tanto era ridotto lo spazio a loro disposizione. Sul molo, cordoni di gendarmi e di soldati senegalesi impedirono con brutalità agli abitanti di Orano, tra cui molti d’origine spagnola, di avvicinarsi alle navi per offrire il loro aiuto ai profughi (viveri, sigarette, cioccolato...) Gli occupanti della Campillo restarono a bordo dodici giorni prima di essere sistemati sotto delle tende nell’attesa che le autorità stabilissero dove mandarli, quelli della Stanbrook e delle altre navi, un mese. La fame divenne la loro fedele compagna, non essendo sufficienti una pagnotta di pane e la solita scatola di sardine a nutrirli. Sullo Stanbrook, che non era equipaggiato per accogliere tanti passeggeri, le condizioni igieniche e la promiscuità furono peggiori che sulle altre navi. Vi era a bordo un solo W.C., insufficiente per tanta gente, tra i quali numerosi malati di dissenteria. Alcuni si liberavano sul ponte mentre altri si sporgevano dal bordo della nave aggrappandosi ai parapetti, con il risultato che talvolta qualcuno precipitava nell'acqua piena di escrementi. Per trenta giorni le autorità francesi lasciarono tremila persone affamate ed assetate a marcire nella sporcizia e tra i pidocchi. Alcuni ammalati fatti scendere sul molo non furono ricoverati in ospedale perché dovevano completare il prescritto periodo di quarantena. Arrivò finalmente il giorno dell'evacuazione, quasi con un senso di sollievo i civili (vecchi, donne e bambini) raggiunsero la prigione di Orano, per poi essere trasferiti in centri vicini ad Algeri (Carnot, Orléansville, Molière); mentre i soldati furono destinati nella zona di Boghari parte al campo di Suzzoni (considerato sanitario) e parte a quello di Morand. Qui si ritrovarono duemilasettecento uomini di età tra i 19 e i 58 anni sistemati in baraccamenti di legno senza pavimento, in ognuno dei quali fu ospitata una cinquantina di internati, ossia il doppio della sua capacità normale. L'igiene era migliore che sulle navi e il vitto più vario ma sempre cattivo e poco nutriente. Qui, come nei campi francesi, il regime disciplinare era piuttosto duro e le punizioni frequenti, inoltre l'adattamento era reso difficile dalle condizioni climatiche.

 

Ma, con il mese di settembre, la situazione dei rifugiati peggiorò, infatti, furono trasferiti a Sud nel deserto, dove, per impiegarli come mano d'opera, furono costituite delle compagnie di lavoro. Il governo francese aveva, infatti, deciso di riprendere la costruzione della ferrovia Transahariana che partendo da Colomb-Bechar doveva unire l'Algeria al Niger. I lavori, iniziati all'epoca della Prima Guerra Mondiale erano cessati nel 1918 con il rimpatrio dei prigionieri tedeschi, potevano ora riprendere dopo più di vent'anni grazie alla deportazione di questi schiavi. Le condizioni di vita, già terribili, furono ulteriormente aggravate. Alloggiati in capanne, questi lavoratori forzati dovettero affrontare le calamità naturali della regione: variazioni sensibili di temperatura tra il giorno e la notte, lo scirocco, vento caldo che sollevava la sabbia e soffiava per giorni interi, e gli animali del deserto come scorpioni, particolarmente pericolosi per uomini a piedi nudi o mal calzati, rettili, che s’infilavano nelle capanne, ragni enormi, che provocavano gonfiori e dolori atroci.....e, non ultima, la sete! Agli inizi l'acqua era razionata: un solo litro al giorno per persona per le pulizie personali, il lavaggio delle stoviglie e placare la sete. Dopo un po’ questo razionamento fu tolto ma l'acqua restò rara e calda. Cominciarono gli attacchi di dissenteria e di malaria. Il lavoro, che consisteva nel maneggiare picconi e zappe per togliere la sabbia di dune pietrificate per più di due chilometri di lunghezza al giorno, era reso ancora più pesante dalle condizioni climatiche e dal ritmo sostenuto, imposto da un piano di lavoro da rispettare quotidianamente. In questi bagni penali le punizioni particolarmente raffinate superarono quelle impartite in Francia. Qui il picadero consisteva in uno spazio delimitato da filo spinato sul quale era stata collocata, a circa trenta centimetri dal suolo, una lamiera di latta. In questa fornace i puniti erano costretti a stare anche più giorni tormentati dalla fame e dalla sete. Non esisteva, inoltre, alcuna seria speranza di fuggire da quest’inferno, perché, anche se fossero riusciti a superare i pericoli del deserto, non avrebbero potuto sottrarsi alla vigilanza dei terribili Thuareg che al soldo dell'esercito francese davano la caccia agli evasi e li riconsegnavano per una miserabile ricompensa.[4]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V I I I

 

VIGILIA DI GUERRA

 

 

 

 

Ils les condamnaient à mourir et

osèrent inscrire comme épitaphe sur

leur tombe:

Morts pour la France.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RIMPATRIO IN SPAGNA

 

 

Il Governo francese, per tutta la durata del conflitto spagnolo, si era preoccupato di restare fedele agli accordi del Comitato di non intervento, costituito a Londra il 3 settembre 1936, nonostante le palesi violazioni d’Italia e Germania che mascheravano il loro aiuto a Franco con l'invio di volontari. L'impegno di mantenere l'equidistanza dalle parti in lotta, la pressione delle forze d’estrema destra, che denunciavano la pericolosità dei rossi, la complessità e la rapidità dell'esodo, ma soprattutto l'intento di limitare al massimo il tempo della permanenza dei fuggiaschi sul territorio francese furono alla base del trattamento loro riservato. Nel momento in cui apparve evidente che la maggioranza dei profughi non intendeva per il momento rientrare in Spagna, atterriti dalle notizie del regolamento dei conti messo in atto dai franchisti, le autorità centrali dovettero rivedere la loro politica e pur senza tralasciare la priorità del rimpatrio - cercarono soluzioni alternative al gravoso problema, quali:

-          l'impiego in grandi lavori pubblici,

-          l'arruolamento nella Legione Straniera,

-          l'emigrazione verso altri stati di cui si doveva ricercare la disponibilità.

 

 

Nel capitolo III si è evidenziato come tra i profughi vi fossero dei soldati franchisti prigionieri dei repubblicani e dei civili che semplicemente fuggivano per non essere coinvolti nei combattimenti, i quali, appena attraversata la frontiera, espressero la volontà di rientrare in Spagna. Essi, dopo esser stati rifocillati, furono accompagnati al posto di confine di Hendaye. Diversi fuggiaschi invece, tratti in inganno dalla differenza di lingua, accettarono il rimpatrio credendo di poter raggiungere le zone ancora controllate dalla Repubblica e così continuare la lotta.

Il reclutamento pro-franchista che aveva avuto un effetto limitato alla frontiera, fu continuato e intensificato nei campi d’internamento, con l'appoggio più o meno dissimulato delle autorità; propagandando il ritorno della normalità in Spagna e la clemenza del Caudillo. Nei Pirenei Orientali, in particolare ad Argelès e Saint Cyprien, i più accaniti tra i sostenitori di Franco furono gli aderenti al Partito Socialista di Francia, raggruppamento riformista di tendenza fascista, fondato da Marcel Déat nel 1933, che sostenevano essere criminale far credere che i repubblicani corressero dei pericoli rientrando in Spagna.

 

La disorganizzazione e la severità di vita nei campi erano inoltre ottimi argomenti di questa propaganda. «Noi stiamo crepando come mosche» si lamentavano i rifugiati nel campo di raccolta di Prats de Mollo e se ne chiedevano il perché e fino a quando una tale situazione sarebbe durata. Al che i fascisti avevano buon gioco di rispondere: «Il governo repubblicano vi ha abbandonato e vi lasceranno marcire nei campi d’internamento».[1]

Altro fattore ampiamente sfruttato fu la famiglia, da cui erano stati brutalmente separati alla frontiera. Per quelli che accettavano di ritornare in Spagna, finivano le vicissitudini, ritornava la normalità di vita, erano previsti aiuti ed era agevolata la riunione delle famiglie. Malgrado che le autorità coprissero i maneggi dei propagandisti, di regola fischiati ed insultati dagli internati, le richieste di rimpatrio restarono limitate. Fu soprattutto nei primi giorni che i più isolati e pertanto più vulnerabili accettarono tali proposte. Per controbattere la propaganda franchista i rifugiati chiesero di poter ricevere posta e leggere i giornali. Abbiamo visto come il primo servizio entro certi limiti venne regolato e come, tramite le lettere, i parenti facessero conoscere la situazione di terrore esistente in Spagna. Riguardo alla seconda richiesta furono ammessi solo due quotidiani reazionari: Le Matin e Le Jour, ma anche da questi si potevano avere sufficienti informazioni.

Dalle notizie pubblicate sul primo giornale si poteva desumere che la maggior parte dei repubblicani, rientrati in Spagna, fossero internati in tre campi di concentramento, da cui molti tentavano di fuggire per riguadagnare la Francia. Il giornale invitava, infatti, le autorità francesi alla massima vigilanza dato che il fenomeno dell'esodo non era cessato e che tra quanti tentavano l'espatrio vi erano molti già rimpatriati.

 

Il 19 aprile 1939, il Ministro degli Interni Albert Sarraut ordinò ai prefetti di essere particolarmente vigilanti e di prendere tutte le disposizioni necessarie per contrastare qualsiasi propaganda volta a bloccare il movimento di rientro dei rifugiati. La sorveglianza doveva essere intensificata; occorreva vietare qualsiasi pubblicazione tendenziosa e prendere delle misure disciplinari contro quanti ne favorivano la diffusione. Egli si riferì soprattutto ai giornali stranieri che erano fatti entrare clandestinamente nei campi da amici francesi degli internati. Scrisse ai responsabili dell'ordine pubblico: «Nell'intento di mettere fine a campagne di stampa pericolose e suscettibili di ostacolare i rimpatri sono indotto a vietare, in applicazione dell'art. 14 della legge del 29 luglio 1881 l'introduzione nei campi di numerosi giornali in lingua straniera, finora largamente diffusi tra i rifugiati». Quest’atteggiamento del governo, fu certamente ancora più criminale delle inumane condizioni di vita dei campi poiché scientemente inviò alla morte migliaia di persone. Tanto che nel mese di maggio una commissione internazionale, che aveva visitato i campi, denunciò «le manovre per spingere al ritorno in Spagna senza preoccuparsi delle conseguenze».[2]

Dei manifesti che intimavano agli internati di dare un motivo valido al loro rifiuto di ritornare in Spagna furono affissi nei campi. In alcuni, come in quello di Bram, una circolare del Ministro degli Interni precisò che il 5 agosto sarebbero partiti gli ultimi convogli per la Spagna, dove i rifugiati potevano rientrare senza timore, e che le iscrizioni sarebbero state chiuse alle ore 16, dopo le quali i non iscritti sarebbero stati obbligatoriamente impiegati nelle colonie francesi nella costruzione di ferrovie od opere similari. La stampa di sinistra, in particolare L'Humanitè, denunciò a più riprese tali pressioni, come quando al campo d'Argelès in giugno il comandante fece affiggere avvisi di questo tenore: «Il solo mezzo per ritrovare la propria famiglia è ritornare in Spagna» o come a Sées (Orne) dove la prefettura intimò il rimpatrio a meno che esistessero concrete possibilità di emigrare altrove [3].

 

Il 2 agosto, per compiacere Franco, con cui la Francia aveva stabilito normali relazioni diplomatiche dopo il riconoscimento del nuovo governo spagnolo avvenuto il 27 marzo 1939, un giorno prima della caduta di Madrid, Albert Sarraut diede nuove istruzioni: un interrogatorio individuale doveva convincere che «è venuta l'ora per quelli che non hanno motivi gravi di ritornare al loro paese». Senza tuttavia esercitare alcuna coercizione occorreva orientare gli incerti a partire e invitarli a raggiungere i duecentocinquantamila spagnoli già rientrati. Fu questa la prima cifra, anche se formulata in modo non strettamente ufficiale, che quantificava l'entità dei rientri, da cui si potrebbe arguire che circa metà dei profughi fece ritorno in Spagna. Quando viene affrontato il problema delle cifre iniziano le discordanze, infatti, i vari autori non disponendo di dati effettivamente riscontrabili danno interpretazioni personali come Joan Villaroya y Font del Centro de Historia Contemporanea de Cataluna che si rifà ai dati riportati da Javier Rubio in La emigracion de la guerra civil de 1936-1939 relativi al campo d’Agde, dove su un totale di 23.020 persone furono:

-          rimpatriate n. 14.200

-          trasferite in altri campi o inserite in Francia n. 5.500

-          emigrate n. 1.520

-          rimaste nel campo n. 800.

 

Basandosi su questa suddivisione, lo storico citato deduce che, su un totale di 500.000 fuggiaschi che entrarono in Francia, due terzi circa ritornarono in Spagna, in altre parole almeno 330.000.[4]

Pressoché alle stesse conclusioni giunse J. M. Naharro Calderon nel suo El exilio de Las Españas de 1939 en las Américas, egli stimò alla fine dell'anno i profughi in Europa ed Africa in 168.000 e gli emigrati in America in 14.000. I primi dopo la seconda guerra mondiale si sarebbero ridotti a 130.000 in quanto nel frattempo altri 20.000 ritornarono in Spagna, 8.000 andarono in America e 10.000 morirono per cause belliche o naturali. Cifre contestate da altri scrittori, tra questi Guy Hermet che ne La guerre d'Espagne valutò tra 150.000 e i 200.000 i rimpatri nel periodo che va dal 1939 all'occupazione tedesca della Francia, mentre uno studio sui campi d'internamento del Sud-Est della Francia (1939/1944) stimò che poco più del 15% degli espatriati ritornò in Spagna e cioè circa 75.000 persone. In un articolo pubblicato su Italia Contemporanea nel settembre 1994 - L'ultima vittoria del fascismo - Spagna 1938/1939 Lucio Ceva indica 288.000 rimpatriati e 182.000 quanti preferirono l'esilio, rifacendosi al lavoro di J. Villaroya y Font Exodo y los campos de refugiados en Francia. Non è stato possibile acquisire dei dati ufficiali perché le pubblicazioni consultate in Spagna (Enciclopedia Universale Illustrata e Enciclopedia Storica Spagnola), anche negli aggiornamenti successivi al ritorno della democrazia liquidano l'argomento con molta approssimazione: quasi mezzo milione espatriarono di cui una gran parte rientrò.[5]

Dopo la dichiarazione di guerra della Francia alla Germania del 1° settembre 1939 la propaganda franchista si accentuò facendo leva sui pericoli del conflitto, in particolare l'Ambasciatore di Spagna in Francia - con l'avallo del Ministro degli Interni francese - indirizzò il seguente appello agli spagnoli residenti in Francia:

« In questo momento critico che attraversa l'Europa, la Spagna indirizza ai suoi figli residenti nel territorio francese, liberi o nei campi di concentramento, l'invito a ritornare sul suolo della patria. Essi troveranno lontano dai pericoli che la guerra moderna fa correre non solo ai combattenti, ma anche alle popolazioni delle retrovie, un regno di pace e d'ordine dove potranno riprendere ad esercitare le loro vecchie attività. La nostra Nazione, sotto la guida del glorioso Caudillo Franco è aperta a tutti gli Spagnoli che non hanno crimini da rimproverarsi. Milioni di uomini e donne, che non erano stati sottoposti durante gli anni alla sua autorità, sono ritornati alla vita normale e sono trattati con clemenza e una fraternità tutta cristiana. Non c'è dunque alcuna ragione perché un'accoglienza differente sia riservata a quei compatrioti ai quali la sfortuna o l'inganno non hanno ancora permesso di riguadagnare il loro paese e per i quali il Generalissimo apre le porte della Spagna, in quest'ora memorabile. Nessuno crede più alla leggenda della repressione spagnola. Ognuno conosce dalle informazioni dirette come è stata amministrata la giustizia da Franco e con quale benevolenza, quale scrupolosa valutazione delle complesse ragioni che sovente hanno influenzato molti comportamenti sono stati presi in considerazione dalle autorità. Ritornate dunque a questa Spagna, Una, Grande e Libera, che vi attende. Nel momento in cui la guerra vi trova disorientati in un paese straniero, la vostra Patria vi chiama. Tutti gli Spagnoli la cui coscienza è tranquilla e il passato onesto troveranno il loro posto in Spagna per lavorare a migliorare e a riparare i guasti delle passate sventure. Viva la Spagna, Viva Franco!».[6]

 

I soli dati ufficiali possono essere desunti dal censimento francese del 1951 in cui furono individuate 165.000 unità; cifra che però si presta a due considerazioni: è comprensiva anche di spagnoli espatriati prima della guerra civile e non comprende i profughi che nel frattempo si sono naturalizzati francesi.

 

 

COMPAGNIES DE TRAVAILLEURS ÉTRANGERS (C.T.E.)

 

 

Sarà l'aggravarsi della situazione politica internazionale a dirottare l'interesse dell'opinione pubblica francese dal problema rappresentato dai profughi a quello ben più grave della minaccia di una nuova guerra. Hitler non faceva più mistero del programma di espansione della Germania nazista ed ignorando il trattato di Monaco (29/9/1938), che pure gli aveva consentito di impadronirsi della regione dei Sudeti a danno della Cecoslovacchia, nel marzo dell'anno successivo occupò la Boemia e la Moravia e cancellò dalla carta geografica questo Stato creato dal trattato di pace di Versailles. Dopo di che rivolse le sue attenzioni al cosiddetto corridoio polacco, altra stortura generata dagli accordi di pace alla fine della prima guerra mondiale. Questa parte della Pomerania, che interrompeva la continuità territoriale tra Prussia Occidentale e Prussia Orientale, era stata attribuita alla Polonia per consentirgli di affacciarsi sul Baltico e di accedere al porto di Danzica, città abitata in prevalenza da tedeschi tolta alla Germania e trasformata in città libera. La firma del Patto d'acciaio tra Hitler e Mussolini del 22 maggio 1939 aumentava i timori di guerra anche perché il dittatore italiano aveva a sua volta iniziato una campagna propagandistica rivendicante il possesso di Nizza, della Corsica, della Savoia, della Tunisia e di Gibuti, tutti territori francesi o soggetti alla sovranità d'oltralpe. Questi fatti modificarono i programmi del governo francese almeno nei confronti di quanti tra i rifugiati potevano essere utilizzati per far fronte all'imminente temuto sforzo bellico. La popolazione dei campi rappresentava una riserva di mano d'opera produttiva considerevole, infatti, un censimento eseguito dal Servicio de Emigración de los Republicanos Españoles - (S.E.R.E) degli uomini validi, ancora internati nei campi, diede la seguente suddivisione:

-          46.000 braccianti agricoli

-          1.400 lavoratori agricoli specializzati

-          22.600 meccanici, tornitori, saldatori, fabbri, elettricisti, operai tessili

- 6.500 autisti

- 3.000 ferrovieri

-          8.600 marinai, pescatori

-          9.600 muratori

-          2.200 boscaioli, carbonai

-          2.800 sarti, calzolai

-          2.400 tipografi

-          1.300 laureati (medici, farmacisti, ottici, dentisti)

-          2.400 insegnanti, giornalisti

-          11.300 addetti al commercio (panettieri, macellai, erbivendoli....)

-          3.600 funzionari pubblici

-          2.300 ufficiali esercito, marina, aviazione

-          11.200 militari e graduati

-          23.800 manovali e lavoratori generici.

 

Naturalmente a questi bisogna aggiungere quanti avevano trovato sistemazione presso parenti e conoscenti o avevano già lasciato i campi avendo trovato una regolare occupazione [7].

 

Il 12 aprile 1939 il governo francese, ora presieduto da Paul Reynaud, promulgò un decreto legge che disponeva:

«Gli stranieri di sesso maschile d'età compresa tra 20 e 48 anni, beneficiari di diritto d'asilo, saranno d'ora in poi soggetti agli stessi obblighi imposti ai Francesi dalle leggi sul reclutamento e sull'organizzazione della nazione in tempo di guerra».

 

Il Ministro del Lavoro incaricò i prefetti di censire gli uomini validi e di studiare con l’Ingegner Capo del dipartimento i lavori (demolizioni, pulizia di fiumi e canali, lavori di sterro....) che potevano essere eseguiti senza ricorrere alla mano d'opera locale.

Si precisò che la paga era sostituita dal cibo e dall'alloggiamento, al massimo si potevano elargire dei premi di rendimento. In maggio, in una nota confidenziale, propose ai direttori degli uffici dipartimentali di collocamento di «reclutare la mano d'opera per i lavori agricoli non più all'estero come prima ma nei campi dove vi erano numerosi contadini e braccianti spagnoli che non facevano nulla». Unica avvertenza raccomandata era di considerare l'appartenenza politica, infatti il Prefetto dell'Ariége aveva fatto presente che al campo di Vernet d'Ariège era internata la 26ª Divisione Durruti, costituita da elementi anarchici considerati pericolosi, per cui erano necessari accertamenti sul loro comportamento prima di autorizzarne l'uscita dal campo.

I primi lavoratori, isolati o in gruppi, lasciarono i campi d'internamento verso la fine del mese di maggio per essere avviati di massima a lavori agricoli o alla costruzione e sistemazione di strade. In questo periodo, furono eseguiti i primi reclutamenti per l'Africa Occidentale e per quell’Orientale, dove le condizioni di vita erano peggiori che altrove. Lavorando per un franco il giorno i rifugiati erano soggetti ad una disciplina molto severa, le piccole mancanze comportavano richiami e soppressione parziale o totale della paga; per quelle più gravi si applicava il Codice militare francese. Per selezionare e trasformare «questa massa disorganizzata e passiva in elementi utili alla collettività nazionale» furono interessati due Ministeri: quello del Lavoro, che con l'aiuto delle autorità militari responsabili dei campi, procedette alla classificazione degli uomini validi e il Ministro dell'Interno che, con la collaborazione dei servizi di polizia, identificò gli elementi indesiderabili (circ. 5/5/1939 AD/5M163). I Prefetti costituirono delle commissioni ristrette, di cui facevano parte l'Ispettore del Lavoro, il Direttore dell'Ufficio di Collocamento Dipartimentale, il Direttore dei Lavori Agricoli e un membro della Camera dell'Agricoltura, che in conformità a dette selezioni dovevano assegnare ad ogni rifugiato un compito specifico. Tra la massiccia utilizzazione dei profughi alcuni campi furono adibiti alle selezioni: a Le Barcarès furono eseguite le prove d’abilità per gli operai metallurgici; a Bram e a Septfonds furono concentrati gli specializzati che avrebbero potuto essere utili all’economia francese. Gli elementi selezionati furono muniti di una carta d'identità provvisoria valida per tre mesi, su cui oltre i dati anagrafici e i contrassegni salienti era specificata la professione ed il dipartimento d’assegnazione (erano stati esclusi quelli della zona parigina e del confine Nord). Dopo essere stati rivestiti in modo decente erano accompagnati sotto scorta alla città o paese di destinazione, fruendo di trasporti gratuiti. A gruppi o isolati erano sempre sottoposti ad una stretta sorveglianza, ogni rimprovero del datore di lavoro comportava prima un avvertimento dell'autorità di polizia poi se ripetuto l'invio ai campi di disciplina. Il datore di lavoro doveva informare immediatamente il Prefetto in caso di fuga, di trasgressione, di mancato rinnovo dell'impegno di lavoro o della cessata necessità della prestazione. In generale essi trassero un notevole profitto dal lavoro dei rifugiati i cui salari erano minimi e le condizioni di vita, cibo ed alloggiamento, deplorevoli.

Permase nei loro confronti un forte senso di diffidenza e molti condivisero l'opinione dell'Ingegner Capo del servizio Ponti e Strade, il quale riteneva: «molti internati avessero perso la voglia di lavorare e il senso della disciplina», quindi occorreva tenerli sotto controllo, alloggiarli lontano dai luoghi abitati e rapportare la remunerazione allo scarso rendimento. La vita nei cantieri era più pesante della vita dei campi d’internamento, infatti, al cibo insufficiente, alle condizioni generali e alla disciplina molto dure si aggiungeva un lavoro massacrante. Ad esempio nel cantiere della costruenda centrale idroelettrica di Gnioure nel cuore dei Pirenei, a più di tre ore di marcia dal comune di Signer dell'Ariège, fu scavata con le mine una galleria che scendeva da 2.500 metri d’altitudine a 1.800 metri. La sola distrazione era il riposo in dormitori di fortuna in quanto era strettamente proibito scendere al villaggio. A capo del cantiere un ingegnere, M. Palauqui, conosciuto per la sua brutalità, che considerava i miliziani, anche se feriti, non degni d’alcuna pietà. Il 29 agosto, per reazione alle angherie cui erano continuamente sottoposti sette operai incrociarono le braccia rifiutandosi di lavorare. Essi furono immediatamente inviati al campo di disciplina di Vernet d'Ariège ove il comandante prese delle misure disciplinari nei loro confronti. Il 23 settembre, altri centocinquanta si ribellarono e si rinchiusero nella galleria minacciando di farla saltare, dopo essersi impossessati di tremila chili d’esplosivo. Il direttore, intimorito dall'azione, fece appello alle autorità che riuscirono a far rientrare la ribellione assicurando che non vi sarebbero state rappresaglie e che le condizioni di vita e di lavoro sarebbero state migliorate. Promesse prontamente mantenute.

 

Nel giugno il responsabile dell'organizzazione di tutti i campi, generale Ménard, fece affiggere il seguente avviso:

 

«Ai rifugiati che non desiderano essere rimpatriati. La Francia vuole impiegarvi e di conseguenza richiede la vostra collaborazione per costituire delle squadre di lavoro guidate da Spagnoli da utilizzare nell'industria, nelle costruzioni, ... Con la costituzione delle squadre verrà anche risolto il problema della riunione delle famiglie».

 

Il campo di Le Barcarès fu completamente evacuato per accogliere le costituende Compagnies de Travailleurs Etrangers (C.T.E.), da utilizzarsi principalmente per ultimare le fortificazioni militari della Linea Maginot. Ogni compagnia era costituita da duecentocinquanta uomini comandati da un capitano francese assistito da un pari grado spagnolo e da un plotone di soldati. Ne furono costituite duecentoventi per un totale approssimativo di 55.000 uomini.[8]

Anche per quest’operazione non mancarono le contestazioni, infatti, dopo la firma del patto di non aggressione russo-tedesco del 23 agosto 1939 Juan Carrasco, capo del Partit Socialista Unificat de Catalunya (legato al Partido Comunista Español) dichiarò che le compagnie di lavoratori dovevano essere sabotate e che ci si doveva opporre all'arruolamento forzato. Istigati da tali provocazioni, 10.000 catalani, internati al campo d’Adge, si rifiutarono di uscire dalle baracche e dopo aver disarmato i gendarmi entrati nel campo per ristabilire l'ordine proclamarono - al canto dell’Internazionale - lo sciopero della fame.[9]

 

In settembre, l'entrata in guerra e la mobilitazione generale ebbero un effetto immediato sull'impiego di tutti i rifugiati. Un decreto del dicembre definì il loro nuovo stato giuridico, in particolare la messa in libertà (alquanto teorica) e l'assimilazione ai soldati francesi per quanto riguardava le razioni e i permessi; la paga fissata in 5 F.F. il giorno fu aumentata di 0,75 F.F. per i lavori pesanti, ma soprattutto fu concesso il diritto d'asilo. Ebbero priorità nel reclutamento il Ministero del Lavoro per le necessità dell'industria e l'autorità militare per le esigenze della difesa. Quanti non erano stati compresi nelle loro liste furono precettati per i lavori agricoli in qualità di prestatore d'opera e non di lavoratori liberi. A questo titolo, essi erano alloggiati collettivamente a cura dei sindaci, nutriti dai datori di lavori e ricevevano un salario di 5 F.F. il giorno. Furono dotati di un lasciapassare provvisorio valido solo per il dipartimento d'accoglienza e rinnovabile ogni mese. Erano sottoposti alla sorveglianza della gendarmeria locale che provvedeva ogni giorno ad accompagnarli al lavoro e a ricondurli ai locali predisposti come dormitori. Tutte le sere era fatto l'appello per assicurarsi che non vi fossero fughe, nel qual caso era avvertito telegraficamente l'Ispettorato centrale della Polizia Criminale presso la Direzione Generale della Sicurezza Nazionale. Se catturato, il fuggiasco era inviato ai campi di disciplina ancora in funzione. In un secondo tempo quanto tentavano di sottrarsi con la fuga o rifiutavano il lavoro, in base all'art. 2 del decreto legge del 14 aprile 1939, furono espulsi dalla Francia e accompagnati, sotto scorta, alla frontiera spagnola.

 

I campi d’internamento vennero ad uno ad uno smantellati, restarono in essere quelli destinati ad accogliere i mutilati non utilizzabili per lo sforzo bellico e quelli disciplinari dove erano rinchiusi gli indesiderabili: soldati delle Brigate Internazionali non rimpatriabili, i comunisti e gli anarchici più impegnati. Il problema restò sempre la spesa che lo stato francese doveva sostenere per mantenere gli inattivi, cioè oltre i feriti, le donne, i bambini e i vecchi, perciò il governo stabilì la data, il 15 marzo 1940, in cui l'emergenza doveva aver fine dopo di che al loro mantenimento avrebbero dovuto provvedere quelli che ora lavoravano, si doveva inoltre favorire la riunione delle famiglie. Le donne i cui mariti erano ancora internati o le nubili dovevano cercarsi un lavoro, affidando, quando era il caso, i figli ad altre donne o alle colonie gestite dalla Commissione Internazionale di sostegno per i bambini spagnoli. Ma la soluzione prospettata dall'autorità sarebbe stata attuabile solo se i salari fossero stati sufficienti per far fronte a tale necessità. Era evidente che anche i rifugiati addetti ai lavori agricoli sottopagati desideravano riunirsi ai loro congiunti sparsi per tutta la Francia ma le autorità locali conoscendone la scarsezza dei mezzi a disposizione si opposero alle direttive governative. Una lettera di Jean Moulin, Prefetto dell’Eure-et-Loire, in data 15 marzo, ne fu la dimostrazione lampante:

 

«Il dipartimento ha accolto dal mese di settembre passato un forte contingente di rifugiati provenienti dal campo di Bram che manifestano il loro desiderio di essere riuniti ai loro famigliari nel comune ove sono impiegati. Benché le disposizioni ministeriali siano favorevoli a queste riunioni, io sono nella condizione di non poter accordare a questi stranieri l'autorizzazione che essi sollecitano, in quanto la remunerazione da percepita non permetterebbe di assicurare il sostentamento delle loro famiglie. Inoltre, una volta finiti i lavori, essi sarebbero nuovamente avviati ai campi d’internamento e le famiglie resterebbero a carico dei comuni di residenza.... Io accoglierò le loro richieste solo se gli industriali presso di cui lavorano s’impegnano ad occuparli almeno per un anno e farsi parte attiva per l'alloggiamento dei gruppi familiari riuniti».

Questa disponibilità non riguardava i profughi utilizzati direttamente dall'esercito in quanto sottoposti alla disciplina militare, che vietava ogni contatto con l'esterno, e soggetti a trasferimenti da un posto all'altro secondo le necessità che via via si presentavano. Oltre ai già citati lavori d’ultimazione delle fortificazioni della Linea Maginot e della frontiera francobelga, essi furono impiegati nella costruzione di ponti, strade e dighe nel Cantal e nell'Ariège, nelle fabbriche di carbone di Gransac (Aveyron), nelle polveriere di Tolosa, e di Fauga, nel taglio d’alberi nelle Landes. Fu favorita la ricostituzione delle famiglie di quei tecnici specializzati, che dopo aver superato un esame teorico e pratico, furono impiegati nelle fabbriche d’armamenti con un contratto di tre mesi rinnovabili, una paga media di 27 franchi il giorno ed una certa libertà di movimento dato il controllo saltuario esercitato dalla gendarmeria. Talvolta come allo stabilimento Sud-Aviation a Bordeaux le condizioni offerte erano particolarmente corrette: nove o dieci ore di lavoro per un salario di 54 franchi, pari a quello di un operaio francese.

Molti inquadrati nelle C.T.E. furono messi dall'autorità militare a disposizione dell'industria. Alla fine dell'anno il Ministero del Lavoro invitò gli industriali a modificare lo status di prestatori d'opera in quello di salariati, facendo loro un contratto che permettesse di ottenere il libretto di lavoro, una carta di soggiorno e la libertà di circolazione. Nel marzo del 1940 propose di equipararli in tutto e per tutto ai lavoratori francesi.

 

 

LA LEGION E I BATTAILLONS DE MARCHE

 

 

Nei primi giorni dell'esodo ai militari spagnoli era stata posta l'alternativa: o l'arruolamento nella Legione Straniera o l'internamento nei campi. La stragrande maggioranza aveva optato per la seconda soluzione. Quando l'organizzazione interna dei campi raggiunse una certa normalità e risultò chiaro che la prospettiva di rimpatrio non destava molto entusiasmo, riprese la propaganda per l'arruolamento. Gli altoparlanti, dislocati nei campi, ripetevano ogni quarto d'ora gli appelli subdolamente integrandoli con la descrizione della quantità e della composizione del rancio di un legionario. Neppure questo sotterfugio ottenne l’effetto sperato su questi uomini malnutriti, che anzi fecero una, seppur minima, contro propaganda. Al campo di Gurs due interbrigatisti sorpresi a diffondere volantini contrari all'arruolamento furono pestati a sangue dalle guardie. In quest’occasione, come in altre in precedenza, le diverse autorità francesi non brillarono che per l'elevato numero di decreti e conseguenti circolari emessi. Nel marzo 1939, a seguito dello scarso entusiasmo suscitato dalla Legione, un nuovo decreto modificò le modalità di reclutamento nell'esercito francese: «... gli stranieri con più di 17 anni d’età possono essere autorizzati a contrarre una ferma per la durata della guerra in qualunque corpo dell'esercito francese. Ferma che può essere sottoscritta anche in tempo di pace...».

In giugno si precisò che

«Tutti gli stranieri tra i 18 e i 40 anni possono contrarre una ferma per la durata della guerra in vista di servire in uno dei corpi speciali dei combattenti stranieri facenti parte dell'Armée».

L'obbligo poteva essere sottoscritto sia in tempo di guerra sia in tempo di pace ed era soggetto ad alcune condizioni quali l'attitudine fisica, certificato di buona condotta rilasciato dalle autorità, autorizzazione paterna per i minori di 18 anni, il riconoscimento come massimo del grado di caporale maggiore anche se chi si arruolava era un graduato più elevato.

 

L'avvicinarsi del conflitto modificò il senso della propaganda: si fece appello allo spirito antifascista dei rifugiati e al loro dovere nei confronti del paese che li aveva accolti.

L'indomani dello scoppio della guerra furono creati, a fianco delle compagnie di lavoro, dei battaglioni di fanteria, destinati ad affiancare l'esercito francese per tutta la durata del conflitto. Ne fecero soprattutto parte quegli internati che per motivi di disciplina non erano stati inseriti nelle C.T.E. e ai quali ancora una volta le autorità offrirono o l'arruolamento volontario o il ritorno sotto Franco. Dopo essere schedati all'Ufficio di Reclutamento di Perpignan i nuovi soldati ricevettero al campo di Le Barcarès un'istruzione militare rapida ed anacronistica: cinque minuti per apprendere il funzionamento di un fucile e dieci per quello di una mitragliatrice, un po' di marcia, qualche attacco alla baionetta ed eccoli trasformati in combattenti. Così addestrati ed inquadrati furono inviati in prima linea nella Somme, nell'Aisne e nelle Ardennes, con un armamento completamente superato: fucili e moschetti più vecchi di quelli utilizzati nella guerra di Spagna, mentre le mitragliatrici erano residuati della Prima Guerra Mondiale, armi con cui avrebbero dovuto fronteggiare i carri armati e i mezzi ultra moderni della Wehrmacht.

 

A quanti si arruolavano nella Legione Straniera erano offerte due possibilità: contrarre sia l'ingaggio normale di cinque anni sia l'ingaggio per la durata della guerra, che corrispondeva a quello dei battaglioni di fanteria di volontari stranieri dell'esercito francese citati. Quale che fosse la forma scelta, la disciplina e le regole erano identiche, l'unica differenza stava nell'utilizzazione. I primi furono inviati a Sidi el Abbès (Algeria), quartiere generale della Legione in Africa; i secondi al già citato campo di Le Barcarès ove era impartito lo stesso rapido addestramento dei volontari dell'esercito. Qui si formarono i reggimenti il n° 21 composto da elementi di cinquantasette nazionalità, il n° 22 a maggioranza spagnola e il n° 23 composto esclusivamente da spagnoli.

 

Sulla spiaggia di Le Barcarès un monumento, il Memoriale, progettato da un ex-volontario l'architetto Parisien Vago e edificato grazie ad una sottoscrizione tra i superstiti ed un contributo statale ricorda che:

 

«Qui si materializzò nel 1939 la volontà indomita di 10.000 volontari stranieri di resistere all'invasore coscienti del dono della loro vita che essi facevano alla Francia. Essi costituirono il 21° - 22° - 23° R.M.V.E. Questo memoriale è eretto in ricordo del loro passaggio».

 

Di linea molto sobria, consiste in tre colonne di cemento che si slanciano verso il cielo, rappresentanti ognuna uno dei tre reggimenti. Reparti simili furono formati al campo Vienot a Sidi el Abbés per i rifugiati internati in Africa del Nord: tra loro duemila spagnoli ripartiti nei reggimenti contraddistinti dal n° 10 al n° 15, di cui i primi due furono inviati in Francia alla fine dell'anno per unirsi a quelli di Le Barcarès. Le famiglie degli arruolati erano autorizzate a sistemarsi in Francia e ricevevano 10 franchi al giorno a cui si aggiungevano i due franchi percepiti direttamente dai soldati. Quanti riuscivano ancora a passare la frontiera e sollecitavano l'asilo politico erano invitati ad arruolarsi altrimenti erano respinti. Malgrado il desiderio delle autorità militari francesi di utilizzare il massimo numero di soldati temprati da tre anni di guerra in Spagna, i pregiudizi nei loro confronti permasero, per cui numerosi ingaggi vennero risolti e gli interessati considerati sospetti dal punto di vista nazionale o ardenti propagandisti di idee comuniste ed anarchiche furono trasferiti al campo disciplinare di Le Vernet d'Ariège, dove nel frattempo erano stati internati numerosi comunisti francesi e stranieri residenti in Francia a seguito del già citato patto di non aggressione russo-tedesco.

Questi un giorno costituiranno una piccola ma formidabile armata: Le Maquis.[10]

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 


 

 

 

 

I X

 

AMERICA LATINA

 

 

 

 

America

por caminos de la plata hacia ti voy,

a darte lo que hoy,

un poeta español puede ofrecete.

 

Rafael Alberti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EMIGRAZIONE

 

 

L'emigrazione fu senz'altro una delle pagine più interessanti dell'odissea dei profughi spagnoli soprattutto per le positive conseguenze che questo fenomeno determinò in alcuni dei paesi di accoglienza. Quando apparve chiara la politica del Governo francese più propensa al rimpatrio che all'accoglienza, i Comitati di sostegno ai rifugiati che fino allora si erano adoperati per mitigare la durezza dell'internamento, si fecero parte attiva per favorire l'esodo dalla Francia. In particolare:

-          il Servicio de emigración de los republicanos españoles - S.E.R.E. del quale era presidente onorario Juan Negrín e in cui erano rappresentate tutte le componenti politiche: Juan Comorera e Mariano Rojo comunisti, Lamoneda Ramón socialisti, Federica Montseny e Del Rosal anarchici.

-          la Junta de auxilio a los repubblicanos españoles - J.A.R.E. che faceva capo ad Indalecio Prieto [1].

 

I dirigenti repubblicani cominciarono a litigare per l'amministrazione dei fondi che erano riusciti a portare via dalla Spagna. Oggetto di controversia fu il caso del piroscafo "Vita" che partito da Boulogne per il Messico su istruzioni di Negrín, carico di preziosi e beni confiscati ai nazionalisti all'inizio della guerra civile per un valore di circa 50 milioni di dollari, fu invece consegnato dal Presidente del Messico Lázaro Cárdenas a Indalecio Prieto, che se ne servì per finanziare le iniziative dello J.A.R.E. Negrín poteva tuttavia disporre di gran parte del tesoro della Repubblica spagnola, cioè del milione e quattrocentottantamila franchi oro depositati presso la Banca di Francia i primi giorni dell'esodo.

 

Gli stati che diedero la loro disponibilità ad accogliere i profughi furono anzitutto i paesi dell'America Latina di lingua spagnola: Messico, Cile, Venezuela, Repubblica Dominicana, Cuba e in minor misura gli altri. Nessuna concessione dagli Stati Uniti e Canada che si erano limitati a rimpatriare i connazionali superstiti delle Brigate Internazionali. Degli stati europei il solo Belgio si dichiarò disposto ad accogliere duemila bambini orfani, mentre l’U.R.S.S. accolse quattromila profughi tra cui i membri più autorevoli del Partito Comunista; oltre a cinquemila giovani con trecento istitutori che vi erano stati sfollati nel corso del conflitto ed a qualche centinaio di marinai e di aviatori sorpresi dalla fine della guerra o in porti sovietici o mentre stavano completando l'addestramento militare.

Per dar corso alle spedizioni il S.E.R.E. prese a nolo dei piroscafi in partenza dai porti di Bordeaux, Marsiglia e Casablanca della Société France-Navigation, che era stata costituita nel 1937 dal governo repubblicano per il trasporto di armi, munizioni ed approvvigionamenti e tramite la quale si diceva il Partito Comunista Francese avesse conseguito buoni utili. Sin dall'inizio il S.E.R.E. collaborò con Narciso Bassols, rappresentante del Messico a Parigi, al quale il Presidente Cárdenas aveva concesso pieni poteri per organizzare l'emigrazione di tutti gli spagnoli che lo desiderassero. In realtà furono favoriti soprattutto i comunisti e i seguaci di Negrín. Gli sforzi dei capi anarchici, come Federica Montseny, per ottenere dei visti per i loro militanti furono in gran parte frustrati, in quanto Bassols e i suoi collaboratori, che sarebbero stati, in un secondo, tempo sollevati dal loro incarico, erano comunisti. Il fenomeno non fu isolato, anche il poeta Pablo Neruda, console del Cile a Parigi, sarà richiamato dal suo paese per aver favorito i comunisti nella scelta degli immigranti. Significava che per i profughi, che non appartenevano ad alcun partito o sindacato, la partenza per l'America restava il più sovente nel regno dei sogni.

 

La maggior parte degli emigranti che raggiunsero il Messico viaggiò sulle navi:

-          Sinaia, arrivata il 13.6.1939 con 1.599 passeggeri,

-          Ipanema, arrivata il 7.7.1939 con 994 passeggeri,

-          Mexique, arrivata il 27.7.1939 con 2.091 passeggeri e

-          De Grasse arrivata a New York con 206 passeggeri, che proseguirono per il Messico in treno.

Altri gruppi di spagnoli partirono grazie all’autofinanziamento o all’aiuto d’associazioni private e religiose. [2]

 

Dopo il patto di non aggressione russo-tedesco del 23/8/1939, l'attività del S.E.R.E. subì un rallentamento per i continui interventi della polizia, che effettuò numerose perquisizioni nei suoi uffici di Parigi e delle principali città, finché nel marzo del 1940 cessò ogni attività dichiarando di aver esaurito i fondi a disposizione.

Prese il sopravvento allora la J.A.R.E. che, se per il succedersi degli avvenimenti internazionali non raggiungerà mai l'importanza del primo; tuttavia tra il 1940 e il 1942 riuscirà ad organizzare la partenza di almeno tre navi, Cuba, Quanza e Serapinta.

Con l'occupazione di tutta la Francia da parte delle truppe tedesche nel novembre del 1942 anche la J.A.R.E. smobilitò.[3]

 

Si fanno stime diverse sul numero complessivo di spagnoli che raggiunsero il Messico. La Direzione Generale di Statistica messicana fornì una lista di 6.234 nel 1939, 1.746 nel 1940, 1.611 nel 1941 e 2.534 nel 1942, per un totale complessivo di 12.125 persone, mentre le stime degli storici oscillarono tra 15.000 e 40.000 ingressi. È stato calcolato che complessivamente raggiunsero l'America latina circa 50.000 spagnoli, di cui il 60% in Messico ed il resto sparso per gli altri paesi, da cui però in un secondo tempo molti partiranno per raggiungere la repubblica centro-americana.

Il Messico aveva già accolto nel 1937 circa 500 ragazzi che avevano trovato alloggio e scuola a Morelia, nello stato di Michoacan ed un nutrito gruppo d’intellettuali che avevano fondato nella capitale la Casa de España, divenuta poi il Colegio de Mexico con professori spagnoli e messicani ed allievi messicani. Nonostante questa positiva esperienza, non tutti condividevano la politica del Presidente Cárdenas favorevole all’ingresso di tanti stranieri per almeno quattro motivi:

-          il timore che tanti elementi di sinistra condizionassero ulteriormente la politica messicana,

-          complicazioni nei rapporti internazionali. Il Messico non aveva riconosciuto il governo di Franco.

-          il sorgere di conflitti di lavoro con i lavoratori messicani,

-          il considerarli eredi dei Conquistadores.

La stampa alimentava questi dissapori soprattutto dopo che a Veracruz in occasione dell’arrivo del primo piroscafo, i profughi risposero alle manifestazioni di benvenuto dei cittadini e delle autorità salutando con il pugno chiuso. Il governo invitò la stampa a spiegare che questo era il saluto della Repubblica Spagnola, democraticamente eletta e piegata con la violenza e non il saluto del Partito Comunista.

 

Con fondi spagnoli furono create numerose attività, soprattutto agricole per dare lavoro ai profughi e facilitarne l’assorbimento nel contesto economico del paese.

Il più importante progetto fu quello denominato Santa Clara, dalla località nello stato di Chihuahua dove furono acquistati 150.000 ettari di terreno e costituita una grand’azienda agricola, completa di case d’abitazione, magazzini, impianti d’irrigazione e macchine. Agli inizi era stata progettata per accogliere 450 persone, che si sarebbero ridotte a 68 nel 1944. Il fallimento di tali iniziative era anche dovuto al fatto che pur di poter partire molti internati avevano dichiarato d’essere contadini, mentre, in effetti, poco o nulla sapevano d’agricoltura. Ciò che favorì il loro inserimento sarebbe stata la Seconda Guerra Mondiale che avrebbe portato notevoli benefici all’economia messicana in ogni campo.

 

Il 23 gennaio 1940 il Presidente Cárdenas offrì la cittadinanza messicana a quanti n’avessero fatta richiesta, era sufficiente dichiarare le proprie generalità, il luogo di nascita e prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione. A gran maggioranza gli emigrati accettarono (70/75%), pur continuando ad essere una comunità culturalmente diversa. [4]

Ne El exilio español de 1939 curato da José Luis Abellán i profughi sono classificati come:

-          docenti d’Università, Liceo ed istituti superiori,

-          avvocati, giudici, magistrati e notai,

-          medici, farmacisti e veterinari,

-          ingegneri ed architetti,

-          insegnanti

-          scrittori e giornalisti,

-          funzionari d’enti pubblici e privati

-          militari di grado superiore,

-          tecnici specializzati (agricoli, tessili, meccanici, ..).[5]

 

Questa inteligencia apportò linfa vitale allo sviluppo culturale del paese, infatti, si moltiplicarono i corsi universitari, i centri di ricerca, le attività industriali sia pubbliche sia private, nacquero nuovi giornali e riviste, iniziative teatrali e cinematografiche.

Furono particolarmente interessate: Belle Arti, Filosofia e Lettere, Pedagogia, Scienze fisico-matematiche e naturali, Chimica e Farmacia, Medicina, Diritto ed Economia.

Furono fondati diversi collegi, di cui il più importante anche a livello internazionale fu il già citato El Colegio Madrid di Città del Messico, e poi l’Ateneo Español de Mexico, l’Instituto Luis Vives e l’Academia Hispano-Americana.[6]

Tutto questo fervore intellettuale trovò una sua consacrazione nella Fiera del Libro di Città del Messico del 1960, dove una sezione speciale dedicata agli spagnoli immigrati presentò 970 autori con 2.034 opere, che riguardavano i diversi aspetti dell'intero sapere umano.

Gli studi filosofici che nella nuova Spagna di Franco non avrebbero certo potuto esprimere il loro spirito libero e critico si svilupparono in vari indirizzi:

 

-          l'influenza d’Ortega y Gasset nella nascita di una coscienza americana,

-          la scuola di Barcellona,

-          la filosofia sociale,

-          i pensatori socialisti,

-          gli indipendenti [7].

 

Particolare fervore si riscontrò nella narrativa tanto che l'opera sopra citata ricorda ben ventisette autori maschili e dieci femminili di maggior peso. Interessante anche l'apporto dei critici letterari per il numero di pubblicazioni realizzate.

Numerosi storici pubblicarono le prime opere sulla guerra civile spagnola, vista dalla parte repubblicana, per controbattere quanto veniva stampato nella Spagna franchista. Essi collaborarono anche alla stesura e correzione di diari, memoriali e autobiografie di protagonisti della vicenda spagnola, quali Valentín Gonzáles (El Campesino), Francisco Largo Caballero, Enrique Castro Delgado, … La città di Buenos Aires, si può dedurre dalle bibliografie dei diversi volumi consultati, fu senz'altro la città dove furono pubblicate il maggior numero d’opere attinenti alla guerra civile, tra queste:

 

-          Abad De Santillàn Diego, dirigente anarchico: Por qué perdimos la guerra.

-          Aguirre y Lecube José Antonio, capo del governo basco in esilio, De Guernica a Nueva York pasando per Berlin, 1944,

-          Alcalá Zamora Niceto, primo Presidente della Repubblica, Un viaje azaroso desde Francia a la Argentina.

 

La poesia ebbe in Rafael Alberti il suo maggior esponente che espresse con i versi la tristezza della partenza per il lontano esilio:

 

y el mièrcoles del Havre sale un barco,

y esté triste allà lejos se quedarà mas lejos,

yo a Chile,

yo a URSS,

yo a Colombia,

yo a Mexico,...

 

Il teatro ebbe come punti di riferimento lo stesso Alberti, che s’ispirò a ricercare la Spagna perduta o Max Aub che espresse un teatro epico e documentale. Diversi registi cinematografici diedero inizio alla produzione di film in Messico, con questi lavorò per un certo periodo Luis Buñuel, che girò Los olvidados, film premiato al Festival di Cannes nel 1950 per la miglior regia. Appartenne a questo filone il regista colombiano Sergio Cabrera. Egli pose al centro della vicenda raccontata ne La Strategia della Lumaca del 1993 la figura di un anarchico spagnolo emigrato dopo la guerra civile, il quale stimolato da un profondo spirito di solidarietà tra poveri, diviene il capo dei diseredati inquilini di un condominio da abbattere per contrastare l'avidità dei potenti e dei ricchi.[8]

Nel 1972 fu eretto su iniziativa degli emigrati spagnoli nel Parco de España di Città del Messico un monumento al Presidente del Messico generale Lázaro Cárdenas, a ricordo del suo sostegno alla Repubblica Spagnola e dell'aiuto offerto agli esuli.

 

Quelli che si trasferirono negli altri stati dell'America Latina non riuscirono ad inserirsi con altrettanta facilità, per questo, dopo un certo tempo, molti lasciarono i paesi d'accoglienza per raggiungere il Messico. Le poche notizie in proposito riguardano:

- la tumultuosa traversata del piroscafo Winnipeg che partito da Bordeaux il 4 agosto 1939 attraccò al porto di Valparaiso (Cile) il 4 settembre.

Nel corso del viaggio scoppiarono risse sia tra i passeggeri (duemila persone di cui quattrocento donne e trecento sessantacinque bambini) per motivi politici - comunisti contro anarchici - sia tra i passeggeri e l'equipaggio per il cattivo trattamento e il cibo scadente. L'arrivo fu salutato al canto dell’Internazionale e di Bandiera Rossa, cui si unirono i portuali di Valparaiso, il che suscitò il biasimo delle autorità già contrariate, come si è accennato, con Pablo Neruda che aveva favorito l'ingresso nel paese d’estremisti e per di più di basso livello culturale.[9]

Oltre trent’anni dopo molti degli esuli e loro discendenti saranno vittime delle brutalità delle dittature instaurate in Cile nel settembre 1973 dal generale Pinochet e in Argentina nel 1976 dai militari, nell’ambito dell’Operazione Condor progettata per abbattere in Cile il governo democraticamente eletto di Salvador Alliende e reprimere in Argentina i movimenti di sinistra. Infatti, tra le migliaia di desaparecidos, arrestati, torturati ed uccisi si conteranno molti uomini legati alla Retirada.

 

- Hugo Pratt, famoso cartoonista creatore di Corto Maltese, che tanto successo ha riscosso tra i giovani negli ultimi venticinque anni, nella sua autobiografia All'ombra di Corto (Rizzoli 1993) raccontò: «quand'ero lontano da Venezia e dall'Italia ho conosciuto a Buenos Aires anarchici e comunisti, fuoriusciti della guerra di Spagna. Gente bellissima, autentica, più adulta di me: asturiani, catalani, polacchi......».

 

Non può passare sotto silenzio il grande influsso che questa produzione letteraria ebbe sulla cultura spagnola durante la dittatura franchista, quando la scuola, sia pubblica sia religiosa, era il massimo del grigiore e del sordido. Nei libri grandi epoche della storia erano ignorate, la seconda guerra mondiale era liquidata in poche righe. Qualsiasi scrittore che fosse solo in odore di comunismo posto all'indice. Esistono testimonianze d’intellettuali spagnoli formatisi in questo clima che grazie all'importazione clandestina di libri e riviste completarono la propria formazione culturale:

 

- Lluis Pasqual, regista teatrale, direttore prima del Teatre Lliure di Barcellona, quindi del Théàtre de l'Europe a l'Odeon di Parigi e responsabile della sezione teatro della Biennale di Venezia, raccontò in un articolo apparso su La Stampa del 31 agosto 1994 la sua esperienza scolastica a Reus, città della Catalogna di 60.000 anime a 102 chilometri da Barcellona:

«Nel 1966 mio padre m’iscrisse al Liceo pubblico dove insegnavano gli intellettuali della Repubblica, quelli che non erano in esilio o non erano stati uccisi, e che, di massima, usciti dalla prigione, erano stati autorizzati a tornare ad insegnare. Non all'Università ma nei licei e ad una distanza di almeno cento chilometri da Barcellona. Ora, ho già precisato Reus era a 102 chilometri, e così ho avuto degli insegnanti straordinari. La mia professoressa di francese era la figlia del Ministro dell'Educazione sotto la Repubblica. La prima lezione ha messo un disco d’Edith Piaf ed ha detto: «Il giorno che sarete capaci di avere un’emozione ascoltando e comprendendo il senso ultimo di questa canzone, allora avrete imparato il francese». Tutta la mia educazione era di questo tipo: un privilegio. Ci parlavano degli autori di cui non conoscevamo nulla. Di qui sorse la stimolo ai viaggi a Perpignan dove le librerie erano piene d’opere proibite».

 

- Juan Goytisolo, scrittore e professore presso Università americane, sullo stesso giornale il 16 giugno 1993, denunciò il nozionismo del sistema educativo sottomesso ai canoni del nazional-cattolicesimo, alla retorica e ai sogni di grandezza della Falange:

«I professori - gesuiti, fratelli delle scuole cristiane o laici - non mi hanno insegnato niente d’utile né di durevole: soltanto un'enorme indigestione di fatti e di nozioni, dimenticati subito dopo gli esami. Precetti religiosi, sillogismi scolastici, calcoli matematici che odiavo, tutto si è cancellato, come gli articoli del Codice Civile che ho dovuto memorizzare dieci anni più tardi.

A parte qualche nozione elementare di grammatica, niente di quanto mi è stato presentato nel campo delle lettere ha contribuito alla mia formazione. Appena entrato all'Università, dove ho trovato una mezza dozzina di studenti che condividevano le mie inquietudini, ho potuto incominciare in maniera artigianale la mia contro-educazione: scoprire García Lorca, leggere Alberti e Neruda sulle riviste clandestine, frequentare le opere di Gide e Sartre (libri proibiti dallo Stato e dalla Chiesa). Le mie incursioni furtive nel retrobottega della libreria francese e dagli importatori di libri stampati in Argentina sono state eccitanti quanto le prime scorribande nei quartieri di Barceloneta, delle Ramblas e del Barrio Chino».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

X

 

LA "DROLE DE GUERRE" E L'ARMISTIZIO

 

 

 

 

A Tous les Français

La France a perdu une bataille! Mais la France n'a pas perdu la guerre!

..................................

Vive La France!

 

Général De Gaulle (18.6.40)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NARVIK (Norvegia)

 

 

Il 1° settembre 1939 l'esercito tedesco iniziò l'invasione della Polonia, due giorni dopo Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania, e i profughi spagnoli rimasti in Francia o nell'Africa del Nord si trovarono coinvolti in un nuovo conflitto. Un decreto legge del 13 gennaio 1940 dispose la mobilitazione di tutti i rifugiati di sesso maschile, di età dai venti ai quarant'anni, cosicché quelli che era ancora internati dovettero raggiungere i loro compatrioti inquadrati nelle C.T.E. (sotto la giurisdizione del Ministero della Difesa) affiancate all'esercito francese schierato dal confine italiano alla Manica. Si trovarono così invischiati in quella che passerà alla storia come la drôle de guerre (la guerra balorda) in cui i due eserciti si fronteggiarono dal settembre 1939 all'offensiva tedesca del maggio 1940 quasi senza combattere, arroccati nelle fortificazioni della Linea Maginot (i francesi) e Sigfrido (i tedeschi).

 

Lo Stato Maggiore francese sembrava più preoccupato di aiutare la Finlandia contro l'U.R.S.S. che di lanciare un'offensiva contro la Germania. Infatti, nel febbraio mise in stato di allarme, tra gli altri, i battaglioni di fanteria della Legione Straniera n. 11 e 12 che costituiti in Africa del Nord, dopo l'addestramento, erano stati trasferiti in Francia, ma la progettata spedizione fu superata dalla pace firmata a Mosca a metà marzo. Una parte di questi effettivi fu allora inviata in Siria, all'epoca protettorato francese.[1]

Il 9 aprile l'esercito tedesco invadeva la Danimarca e la Norvegia, immediatamente l'alto comando alleato (nel frattempo in Francia Paul Reynaud ha sostituito Daladier alla guida del governo) predispose un'azione con obiettivo la conquista di Narvik nella Norvegia del Nord. Si trattava di un centro doppiamente importante in quanto era un capolinea della ferrovia del ferro, che collegava le miniere svedesi di minerale di ferro con il mare, e perché il suo porto protetto dai fiordi consentiva il controllo dell'Atlantico del Nord e del Mare Artico. Furono inviate due divisioni di cui una formata da inglesi e polacchi e l'altra comprendente diverse unità dell'esercito francese in particolare: una compagnia di cacciatori alpini, una compagnia di carri leggeri, un gruppo di artiglieria coloniale, una compagnia trasporti e i due battaglioni della 13ª Mezza Brigata di fanteria della Legione Straniera (13ª Demi Brigade L.E.), che annovera nei suoi ranghi da 500 a 1.200 spagnoli, secondo le diverse fonti.[2]

Partiti da Brest il 23 aprile i francesi raggiunsero al largo delle coste scozzesi il convoglio in rotta verso la Norvegia, dove il 26 avvenne un primo sbarco di truppe inglesi nel fiordo di Olot a 30 chilometri a sud di Narvik mentre i cacciatori alpini francesi sbarcarono 50 chilometri più a nord, ove si unirono agli sciatori norvegesi, che già fronteggiavano i tedeschi. La conquista della città di Narvik fu affidata alla Legione Straniera che il 10 maggio sbarcò il 1° battaglione a Bjervik dove incontrò una violenta resistenza da parte tedesca tanto che occorsero cinque ore di duri scontri per conquistare la cittadina interamente distrutta. Il 2° battaglione sbarcò a sua volta nella regione di Meby quindi proseguì verso il lago Hartvingand, che completamente gelato era utilizzato dalla Luftwaffe come campo di aviazione, e il 21 maggio si congiunse con i Cacciatori delle Alpi, completando così la prima parte del piano che prevedeva l'isolamento di Narvik.

 

Frattanto la situazione sul fronte francese si era fatta drammatica: i tedeschi avevano occupato l'Olanda ed il Belgio, aggirando la linea Maginot, sfondato nelle Ardennes e accerchiato metà dell'esercito alleato nella sacca di Dunkerque. L'Alto Comando richiamò il Corpo di Spedizione, ma il comandante generale Béthouart comprese che non poteva reimbarcare i suoi uomini con le truppe nemiche a Narvik e per rendere più facile l'operazione decise di occupare la città. I soldati non sapevano che andavano a combattere "pour rien". Il 28 maggio il 1° Battaglione sbarcò nella baia d'Orneset, ad un chilometro da Narvik, dove dapprima incontrò una feroce resistenza e poi subì un violento contrattacco in cui perse metà dei suoi effettivi. Lo sbarco del 2° battaglione permise ai francesi di riprendere l'iniziativa e di conquistare, il giorno successivo con un assalto alla baionetta, l'intera città e le colline circostanti. L'avanzata si spinse fino al confine svedese per allargare la testa di ponte e così favorire il reimbarco, che avvenne il 4 giugno, fu sempre la Legione a proteggere la ritirata così da imbarcarsi per ultima sulla Duchess of York per far rientro in Francia.

 

I milleottocento reduci della 13ª D.B.L.E. furono sbarcati a Brest il 14 giugno (lo stesso giorno i tedeschi entravano in Parigi) e reimbarcati per l'Inghilterra quattro giorni dopo, dove furono acquartierati a Trentham Park nel Surrey.[3]

Le perdite alleate furono valutate dagli storici oscillare tra i 530 e i 900 caduti, di cui la maggioranza spagnoli. Essi si erano battuti con coraggio e sprezzo della vita contro i nemici della guerra civile, ma il loro sacrificio non ebbe il dovuto riconoscimento, infatti, quando dopo la fine della guerra, su iniziativa francese, fu inaugurata in ricordo della battaglia una stele in mezzo al fiordo di Narvik con i rappresentanti di Polonia, Inghilterra e Norvegia, non furono invitati i rappresentanti della Spagna repubblicana. Sul monumento una lapide portava la dedica:

«La France a ses fils et à leur frères d'armes tombès glorieusement en Norvège. Narvik 1940».[4]

 

Un poeta spagnolo, Antonio Aparicio, li ricorderà nella poesia Narvik:

 

Tumbas en la neve.

Joan Andalucia, Pedro

Valencia, Manuel de Mino,

Rafael de Extremadura,

ahora lejanos, ahora

enterrados en Noruega

y perdidos.....[5]

 

Con il ripristino della democrazia in Spagna dopo la morte di Franco, il giornalista Coll Parrot, con l'appoggio dell'Ambasciata spagnola di Oslo, fece erigere nel cimitero della cittadina norvegese un monumento dedicato ai caduti spagnoli.

 

 

 

 

 

DISFATTA IN FRANCIA

 

 

Al fronte, in Francia, si trovavano gli altri cinque reggimenti di fanteria costituti in gran parte da reduci della guerra spagnola e tutti rimasero invischiati nella disfatta degli eserciti alleati. L’11° reggimento L. E. era di stanza a Sierck les Bains in Lorena quando ricevette l'ordine di proteggere la ritirata delle unità della II Armata cui era aggregato, per cui prese posizione nel bosco d'Inor, tra la Mosa e la Chiers, nella regione di Stenay. I legionari furono dapprima sottoposti a violentissimi bombardamenti aerei poi il 27 maggio subirono l'attacco terreste da parte di mezzi blindati e fanteria. Essi furono impegnati per venti giorni in violentissimi combattimenti che costarono molte perdite da ambo le parti. Il 17 giugno, divenuta impossibile ogni resistenza, giunse l'ordine di ripiegare, il reggimento, che aveva perduto quattrocento uomini, era ormai accerchiato. Il 2° battaglione effettuò un disperato contrattacco in cui perse i nove decimi dei suoi effettivi, compresi tutti gli ufficiali, ma permise agli altri due battaglioni di rompere l'accerchiamento e di ripiegare verso Toul. Il 23 giugno gli ottocento superstiti nuovamente accerchiati a Saint Germain sur Meuse, dopo aver bruciata la bandiera, si arresero ai tedeschi.

 

Il 12° reggimento L. E. era dislocato nel settore di Soissons con il compito di difendere sette ponti sull'Aisne. Investiti da violenti attacchi frontali i legionari riuscirono a ricacciare i tedeschi oltre il fiume, ma questi passati più a Sud avanzavano per accerchiarli, il che rese necessario il ripiegamento. La 2ª e la 12ª compagnia si sacrificarono per consentire a quanto restava del reggimento di passare l'Yonne a Montereau; dove si riorganizzò per rallentare l'avanzata tedesca finché furono sorpresi dall'armistizio a Bessines sur Gartempe.[6]

Il 21°, 22° e 23° reggimenti di fanteria, dopo il sommario addestramento ricevuto a Le Barcarès, furono mandati in prima linea dove furono fatti letteralmente a pezzi dallo strapotere delle armi tedesche. Il 21° fu quasi distrutto dai bombardamenti aerei mentre gli altri due furono decimati nel corso di un’accanita difesa delle posizioni. L'ultimo messaggio del 22° presso Villiers Carbonnes fu: «siamo schiacciati dai carri». In totale le tre unità denunceranno una perdita media, compresi i prigionieri, del sessanta per cento.

 

Dei 55.000 uomini arruolati nelle C.T.E. circa la metà era utilizzata direttamente dall'esercito. Allo scoppio delle ostilità molte compagnie si trovano sulla linea del fuoco, tanto che quando la situazione precipitò da lavoratori furono affrettatamente trasformati in soldati.

Decisione che si dimostrò in seguito tragica in quanto, poiché non venne loro riconosciuta la qualifica di militari; se catturati, furono considerati prigionieri politici e non prigionieri di guerra, il che determinò il loro internamento nei campi di sterminio nazisti. Non erano certo questi soldati improvvisati che potevano fermare le potenti armate tedesche che procedevano senza soste nella loro offensiva. Dopo la conquista di Sedan, che fu occupata il 13 maggio, proseguirono la loro avanzata con azioni combinate verso Saint Quentin, Amiens e Abbeville per accerchiare gli inglesi e ciò che restava dell'esercito francese. Come un rullo compressore, le divisioni corazzate, appoggiate da un'aviazione e un'artiglieria largamente superiori all'armamento francese, eliminarono ogni resistenza organizzata. Il generale Weygand, nominato Comandante in Capo in luogo del generale Gamelín, tentò di organizzare una linea difensiva sulla Somme e sull'Aisne ma il 4 giugno anche questa linea fu sfondata. Al Nord l'avanzata continuò, i tedeschi il 20 maggio occuparono Boulogne, il 1° giugno Lilla e, sotto il comando del generale Rommel, accerchiarono nella sacca di Dunkerque quasi 400.000 soldati alleati.[7]

Gli inglesi misero in atto l'operazione Dinamo e dal 26 maggio iniziarono l'evacuazione delle truppe accerchiate, essa si risolse in un successo: in dieci giorni oltre 330.000 uomini (224.000 inglesi e 142.000 francesi e alleati) furono salvati. Fu un'operazione selettiva, fino al 31 maggio furono imbarcati solo i britannici (i 15.000 francesi che raggiunsero l'Inghilterra lo avevano fatto a bordo di navi francesi), dopo questa data e fino al 4 giugno all'alba, qualche ora prima che i tedeschi occupassero Dunkerque, fu la volta dei francesi, tra i quali vi erano circa duemila spagnoli, che lasciarono sulle spiagge almeno altri seimila compagni.[8]

 

Antonio Vilanova in Los Olvidados descrisse le peripezie di una di queste compagnie: la 118ª. Formata a Saint-Cyprien il 29 dicembre 1939 fu inviata con la 114ª, 116ª e 117ª a Cassel nel Nord per partecipare alla costruzione di fortificazioni.

Il 2 giugno, dopo essere ripiegati su Dunkerque, gli spagnoli tentarono, senza successo, di unirsi ai gruppi che attendevano l'imbarco. Si spostarono a Bay les Dunes, sei chilometri più a nord, ma ricevettero lo stesso rifiuto. Il 3 giugno il gruppo degli spagnoli nel frattempo ridottosi a soli quindici uomini da ottantaquattro che erano, per rinunce, morti o ferite, continuarono a vagare da un imbarcadero all'altro senza fortuna. Nel corso di uno di questi spostamenti, essi trovarono abbandonata una barca in cattive condizioni e seguendo le istruzioni di un marinaio galiziano, che faceva parte del gruppo, con mezzi e pezzi di fortuna riuscirono a ripararla tanto da poter prendere il mare. Remando e continuando a buttare fuori bordo acqua per tutta una notte il mattino raggiunsero sani e salvi Dover. Altri si salvarono allo stesso modo: l'ultimo convoglio che lasciò le spiagge francesi comprendeva la Léopold-Anna, una nave belga, che trainava un'imbarcazione raccolta alla deriva sotto un mare di bombe con a bordo ventisei spagnoli. Per i lavoratori delle C.T.E. che erano riusciti a sfuggire all'accerchiamento ed a raggiungere l'Inghilterra una nuova delusione: non ottennero il permesso di restare e furono prontamente reimbarcati per Cherbourg. Si unirono a quanti rimasti in Francia, non fatti prigionieri, per iniziare un nuovo esodo questa volta verso il Sud.[9]

 

Il 10 giugno l'Italia dichiarò guerra alla Francia, i tedeschi occuparono Rouen e il governo francese lasciò Parigi per Bordeaux. Il 16 Paul Reynaud si dimise e divenne Capo dello Stato il maresciallo Pétain, il quale iniziò le trattative per l'armistizio, che sarà firmato il 22. Il 18 giugno dai microfoni della B.B.C. a Londra il generale De Gaulle lanciò il suo famoso messaggio:

 

«A tutti i francesi. La Francia ha perduto una battaglia! Ma la Francia non ha perduto la guerra!».

 

Da questo momento fino alla fine del conflitto (maggio 1945) i repubblicani spagnoli ebbero un parte (attiva o passiva) nei seguenti avvenimenti:

 

-          il regime di Vichy,

-          l'occupazione tedesca,

-          la deportazione nei campi di sterminio nazisti,

-          la partecipazione alla Resistenza,

-          le battaglie nelle Forze della Francia Libera o sotto altre bandiere alleate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

X I

 

IL REGIME DI VICHY

 

 

 

 

Au Vernet, les coups étaient un événement quotidien;

à Dachau, ils duraient jusqu'à ce que mort s'ensuive.

A Dachau les gens étaient tués volontairement.

Au Vernet, la moitié des prisonniers dormaient sans

couvertures, à 20° sous zéro;

à Dachau, ils étaient enchainés pour etre exposés

au froid.

Arthur Koestler

La lie de la Terre

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL GOVERNO COLLABORAZIONISTA E LE ESTRADIZIONI

 

 

La sconfitta della Francia che aveva condotto all'armistizio del giugno 1940 aprì un nuovo drammatico periodo dell'esilio spagnolo. Per i rifugiati politici, in particolare i rossi della guerra di Spagna, l'occupazione tedesca di due terzi del paese costituì una nuova minaccia e d'altronde la zona libera non era molto più sicura. La Francia era ormai nelle mani degli elementi più reazionari, nazionalisti, xenofobi e ferventi fautori di rapporti privilegiati con le autorità tedesche e con la Spagna franchista. Dal mese di luglio gli 85.000 profughi-lavoratori, che con la cessazione delle ostilità ed il conseguente armistizio erano stati smobilitati, e quindi non più necessari all'economia bellica francese, dovettero rientrare nei campi da cui erano usciti pochi mesi prima, a meno che potessero dimostrare di possedere sufficienti mezzi di sostentamento, vale a dire essere in possesso di un regolare contratto di lavoro e non essere considerati pericolosi per l'ordine pubblico. Successivamente una legge del 3 settembre 1940 - che riprendeva ampliandolo il decreto legge del 18 novembre 1939 - autorizzava i prefetti a prendere provvedimenti nei confronti degli individui ritenuti pericolosi per la difesa nazionale e l'ordine pubblico. Stabiliva inoltre che gli spagnoli entrati in Francia prima del 17 luglio 1936 - data d’inizio della guerra civile - che non potevano quindi rivendicare lo status di rifugiato politico, fossero ricondotti alla frontiera o internati a Gurs od Argelès, se le autorità spagnole non li accettavano. Quelli, entrati dopo tale data e che quindi potevano richiedere questa posizione, se non inseriti nel mondo del lavoro dovevano essere internati ad Argelès o se ritenuti pericolosi a Le Vernet o a Rieucros, se si trattava di donne. E' in questo periodo che numerosi profughi, in particolare le donne, preferirono lasciare l'inospitale terra d'asilo e rientrare in Spagna.[1]

Di fronte a questa nuova prospettiva d’internamento i rifugiati, soprattutto gli spagnoli, optarono per l'emigrazione verso il Messico. Il governo francese, il cui obiettivo prioritario restava la partenza dei profughi, il 23 agosto 1940 stipulò un accordo con quello messicano, con il quale quest'ultimo s’impegnava ad accogliere tutti quelli che lo richiedessero (non vi fu cioè, come prima, alcuna selezione). Provvidero alle spese del viaggio i Quaccheri che agivano per conto del governo repubblicano spagnolo in esilio. Il governo di Vichy da parte sua garantì i diritti dei rifugiati. Le autorità tedesche d’occupazione diedero dapprima il loro consenso all'accordo dal quale però esclusero quelli che si trovavano nelle zone occupate, prigionieri o non, e circa 800 nominativi compresi in una lista che Franco aveva consegnato all'ambasciatore tedesco.

Immediatamente il governo messicano tramite la sua legazione, riprese il censimento dei candidati alla partenza, iniziato un anno prima dal S.E.R.E., cercando di dare asilo a tutti anche a quanti non rientravano nell'accordo. La polizia francese sospettò la legazione messicana di andare oltre i patti, di aiutare i partiti disciolti (P.C.E.), di fornire falsi documenti a rifugiati dei quali era stata vietata l'emigrazione, evasi o assegnati a domicilio coatto. Nel gennaio del 1941, il Ministro dell'Interno stimò che «mettere un freno a queste attività equivaleva a scongiurare un movimento insurrezionale comunista».

In applicazione dell'art. 10 della convenzione di armistizio, che prevedeva che "la Francia non intraprenderà alcun’azione ostile al Reich ed impedirà ogni trasferimento all'estero di carattere militare", la commissione tedesca si oppose nel marzo del 1941 alla partenza di cinquecento spagnoli pronti per l'imbarco. Il portavoce delle autorità tedesche, von Welzech, ricordò ad un responsabile francese degli Affari Esteri che «non si possono lasciar partire indistintamente tutti gli stranieri», doveva essere vietata l'emigrazione a quanti all'estero potevano esercitare un'azione ostile al Reich, e includeva tra questi i repubblicani spagnoli. Le proteste di Vichy non ebbero alcun esito. Il 27 giugno, dopo che numerose volte la commissione d'armistizio tedesca era intervenuta a bloccare le partenze, fu revocato definitivamente su pressione del governo franchista il precedente assenso. Von Welzech dichiarò che nessun rifugiato era più autorizzato a partire per l'America, sia a titolo privato sia in gruppo, e che i comunisti attivi dovevano essere consegnati alle autorità tedesche per essere condotti in Germania dove sarebbero stati isolati.[2]

Nonostante le continue intromissioni riuscirono a partire per il Messico circa 9.700 profughi nel 1941 e 2.500 nel 1942, in pratica fino alla rottura delle relazioni diplomatiche fra la Francia ed il Messico. Furono le autorità francesi dell'Africa del Nord, meno controllate, che favorirono le ultime partenze specie dal porto di Casablanca. [3]

S’inserisce in questo contesto la testimonianza di Alvaro Lopéz, che fu uno dei 500.000 profughi. Dopo aver ricordato la trafila dei campi: Segre, Prats de Mollo, Barcarés, Saint Cyprien, Vernet d'Ariège racconta la partenza per l'America Latina:

«il 14 giugno 1940, giorno della caduta di Parigi il S. E. R. E. ci fa uscire. Gli internazionali ci regalano vestiti e scarpe. La nostra partenza dà origine ad una manifestazione indimenticabile , tra due ali di brigadistas che ci abbracciano. E restano fermi fin quando il nostro treno passa davanti al campo qualche ora dopo. Si va a Bordeaux in carrozze ferroviarie da 40 hommes , 12 chaveaux. Partiamo da questa città il 19, poco prima che sia occupata dai nazisti. La nave Cuba è forse l'ultima che porta un gruppo di rifugiati spagnoli in America con destinazione Santo Domingo, ma il dittatore Trujillo ci respinge - ben per noi - e grazie all'intervento di Mantecón e Galarza presso il Presidente Cárdenas veniamo accolti nell'ospitale terra messicana».

 

Il governo franchista forte dell'appoggio delle autorità di occupazione tedesche esercitava pressione sul governo collaborazionista francese per ottenere il rimpatrio dei rifugiati, soprattutto di quelli i cui nominativi erano stati inclusi nella famosa lista che comprendeva i maggiori capi politici e militari della Repubblica spagnola. Per Vichy le procedure di estradizione erano regolate dalla convenzione franco-spagnola del 1° dicembre 1877 per la quale occorreva anzitutto determinare se i delitti contestati, oggetto della richiesta, erano politici o di diritto comune, in quanto solo per questi ultimi era prevista l'istruzione di una pratica che poteva portare all'espulsione. Non si opponeva alle richieste ma pretendeva che queste rientrassero nella legge. Nel febbraio 1941, il Ministro degli Interni, ammiraglio Darlan, affermò che nessuno degli stranieri che figuravano sulle liste prodotte da Madrid sarebbe stato consegnato ma si preoccupò però di precisare che l'eccezione politica non poteva essere ammessa a priori per tutti i fatti avvenuti durante la guerra civile. Obiettivo del governo francese non era di interferire o di contrapporsi alla giustizia spagnola ma di legittimare la propria azione. Il 19 marzo 1941 si confermò ai prefetti della zona libera che gli spagnoli incarcerati in Francia per crimini o delitti di diritto comune commessi in Spagna durante la guerra civile, dopo il procedimento giudiziario di condanna, dovevano essere internati al campo di Le Vernet e registrati al fine di poter rispondere ad eventuali domande di estradizione.

Questa politica di rispetto della legalità ebbe come conseguenza, non calcolata, di limitare le espulsioni, perché in effetti il governo franchista non ebbe interesse a dar vita a procedure tanto lunghe, negative nei confronti dell'opinione pubblica internazionale, e che conducevano i tribunali francesi a deliberare su questioni interne della Spagna. D'altra parte il governo di Vichy collaborava senza reticenze per quanto riguardava: sorveglianza, arresti, divieti di emigrazione. In particolare s’impegnava a trattenere tremilaseicentodiciassette ex-responsabili militari, politici o sindacali, i cui nominativi erano inseriti in tre liste consegnategli tra l'agosto e il dicembre 1940. Mentre la pseudo-protezione francese era efficace per quanto riguardava le estradizioni, si tolleravano invece evidenti ingerenze della polizia franchista, quali accertamenti nei campi di internamento, denunce di false identità, domande di perquisizioni, divieti di imbarco e anche azioni illegali (per esempio il suicidio del fratello di Lluis Companys a Lione nel settembre 1940).[4]

 

 

I CAMPI RIAPRONO

 

 

Il 27 settembre 1940, una nuova legge sul lavoro obbligatorio dei rifugiati, che si rifaceva a quella dell'aprile 1939, creò i Groupements de Travailleurs Etrangers (G.T.E.) in cui furono inquadrati - sotto l'autorità del Ministro della Produzione Industriale e del Lavoro - tutti gli stranieri da diciotto a cinquant'anni rimasti senza occupazione in quanto provenienti dalle C.T.E. o dalle aziende belliche che avevano cessato la loro attività (fabbriche di munizioni o polverifici).[5] Nel frattempo in adempimento alle clausole dell'armistizio era stato soppresso il Ministero della Difesa e della Guerra, alla cui giurisdizione erano fino allora sottoposti i campi d’internamento, e le sue competenze furono al Ministero dell'Interno, che provvide a riordinare l'intero sistema concentrazionario in Francia e nell'Africa del Nord. I profughi della Repubblica Spagnola - ora inquadrati nei G.T.E. - e i loro familiari vennero di massima internati in sei campi principali:

-          Le Vernet, che conservava la caratteristica di campo repressivo,

-          Bram, Argelès e Saint-Cyprien qualificati come campi di alloggiamento,

-          Rieucros ed Adge destinati a ricevere anche gli indesiderabili stranieri e gli estremisti francesi arrestati dopo la repressione anticomunista,

-          e nei campi minori di Le Barcarès, Riversaltes, Noè, Récébédou e Septfonds, mentre restavano in attività i campi nordafricani.[6]

 

Fu in questo periodo che cominciò l'internamento nel campo di Gurs dei primi contingenti d’ebrei provenienti dalla Germania e dai paesi occupati, quella, che divenne in seguito una terribile operazione di morte, si limitava al momento ad allontanarli dai luoghi d’origine. In seguito toccò agli israeliti francesi e la Francia scrisse una delle pagine più tragiche e dolorose della sua storia millenaria. Si aprì una ferita che oggi, ad oltre cinquant'anni, non si può considerare sanata.

 

Per ogni campo venne nominato un responsabile, di regola un ex militare, da cui dipese la struttura organizzativa e di controllo, il quale aveva come braccio destro un amministrativo che esercitava la sua autorità sulla contabilità generale e sulle attività logistiche: rifornimenti di viveri e materiali, trasporti, destinazione ai lavori agricoli. Le miserabili condizioni di vita che caratterizzarono tutti i campi furono in gran parte loro imputabile in quanto, ossessionati dall'idea di fare economie, si sforzarono per non spendere gli 11,50 franchi assegnati dalle autorità centrali per persona ogni giorno. A mantenere l'ordine provvedeva un gruppo di funzionari, ispettori o commissari della Sicurezza, incaricati di istruire le inchieste di polizia (furto, traffici, mercato nero, ...), di esercitare la censura, la sorveglianza degli internati e la costituzione di fascicoli personali. Erano individui temuti ed odiati dagli internati per la loro efficienza e brutalità. Ai livelli più bassi di questa gerarchia concentrazionaria erano le guardie reclutate per lo più tra la popolazione locale o tra i profughi alsaziani e lorenesi, dopo una minuziosa inchiesta sulla loro moralità, efficienza fisica e tendenze politiche. Un rapporto, anche lontano, con un ebreo, un comunista o un massone determinava la non accettazione senza appello. Era ben vista l'appartenenza alle Croci di Fuoco o alla Legione dei Volontari Francesi contro il Bolscevismo forse per la brutalità che li caratterizzava. Le condizioni di lavoro, poco attraenti (disciplina severa, guardie di notte, paga modesta, mancanza di divise, disprezzo da parte della popolazione) fecero man mano diminuire gli arruolamenti. Mentre alcuni di loro si diedero a malversazioni (furti, ricatti, mercato nero, brutalità, ...) altri invece presero coscienza delle tristi condizioni di vita degli internati e a poco a poco si avvicinarono ai gruppi della resistenza, tanto che nel 1943 i prefetti consigliarono di appoggiarsi esclusivamente alla Milizia. Quale prima incombenza i responsabili dovettero relazionare il Ministero sulla situazione dei campi. I rapporti denunciarono una serie di mancanze che investirono tutti i livelli dell'organizzazione: dalla costituzione fino al funzionamento. Diversi campi destinati ad accogliere molte migliaia di internati ognuno erano stati installati in zone eccessivamente decentrate, lontane dai centri abitati e dalle vie di comunicazione, prive delle infrastrutture necessarie ad assicurare, tra l'altro, il regolare flusso di rifornimenti necessari. Per controllare la veridicità di tale relazioni il ministro mandò due ispettori i quali precisarono:

 

-          Bram (Aude): tremilaseicentodiciotto internati, di cui millesessanta donne e milletrecentosedici bambini, vivevano in una condizione di sporcizia incredibile. La mortalità infantile era molto alta, l'inquinamento dei pozzi aveva provocato un’epidemia di febbre tifoidea...

-          Argelès sur Mer: tremilaquattrocentotrentanove internati, di cui milleduecentodiciotto donne e novecentoquarantatre bambini, lo stato generale in particolare sanitario era buono, ma le baracche costruite sulla sabbia erano in cattivo stato...

-          Saint-Cyprien e Le Barcarès furono dichiarati inabitabili. Il primo in ragione del tifo e della malaria (zanzare negli stagni), il secondo per la quantità incredibile di parassiti,

-          Le Vernet e Gurs furono considerati in condizioni sufficientemente soddisfacenti, anche se il primo presentava un certo numero di baracche sovrappopolate e in cattivo stato ed il secondo, costruito su un terreno argilloso, si trasformava in una palude di fango nei giorni di pioggia (che erano numerosi!).

 

Seguiva una lunga lista di lavori ritenuti strettamente indispensabili, che per la maggior parte restarono però allo stato di progetto. A Gurs, per esempio, i lavori (riparazioni e rivestimento con cartoni bitumati) previsti per la fine del 1940 non furono iniziati che nel 1941 e riguardarono sette raggruppamenti di baracche in tutto ma furono interrotti nel mese di settembre per mancanza di cartone bitumato. Non furono mai ripresi benché cinque gruppi di baracche fossero inutilizzabili e quelli restaurati subissero gravi danni a causa delle intemperie, in particolare delle tempeste di grandine del giugno 1942.[7]

Il 26 settembre 1940 il Ministero dell'Agricoltura e dei Rifornimenti stabilì le nuove razioni per gli internati. Esse venivano ridotte di un terzo rispetto a quelle definite dalla circolare del Ministero della Difesa nazionale e della Guerra del 10 maggio 1939, in particolare la razione giornaliera di pane passò da 600 a 350 grammi, i legumi secchi da 150 a 100, i grassi da 30 a 11, lo zucchero da 21 a 13, il caffè da 16 a 3, la carne da 150 a 125 grammi la settimana e così via per pasta, patate, formaggio, ecc. La razione venne aumentata alle donne incinte e che allattavano, mentre i bambini dovevano avere latte, cioccolato e marmellata. Un supplemento di pane, carne e grassi era previsto per gli internati che lavoravano. Queste avrebbero dovuto essere, secondo gli addetti all'amministrazione, le razioni massime autorizzate per le quali veniva stanziata la cifra giornaliera di 11,50 FF. ma normalmente di loro iniziativa essi facevano delle economie quando non traevano vantaggi personali. Ne derivò così una denutrizione cronica, denunciata anche da un'ispezione ministeriale in cui risultava che la quantità minima di duemila calorie al giorno non era mai raggiunta, essa oscillava tra le millecento e le millecinquecento. Oltre alla quantità scarsa anche la qualità lasciava a desiderare: il pane era talvolta ammuffito e la carne, di seconda o terza categoria, era sovente avariata o proveniva da bestie affette da tubercolosi e ciò nonostante la vigilanza delle autorità. Un macellaio di Mende denunciato per aver fornito al campo di Rieucros carne inadatta alla consumazione dichiarò a sua difesa dichiarò che, a causa dei bassi prezzi impostigli dall'economo del campo, egli non aveva potuto fornire che carne di terza qualità.

 

Il cibo diventò l'ossessione di tutti gli internati, il che portò allo sviluppo del mercato nero, soprattutto da parte dei lavoratori dei G.T.E. che avevano la possibilità di uscire, con la complicità degli addetti all'amministrazione che pretendevano una percentuale sugli introiti. Tali commerci non erano però sufficienti a coprire le carenze alimentari in quanto era difficile ottenere prodotti razionati. In una nota dell'11 febbraio 1942, il Ministro dell'Interno segnalò a quello dei Rifornimenti che «I campi attraversano un grave periodo d’insufficienza alimentare causa d’avitaminosi, di cachessia e di morte per fame» richiedendo un aumento della sovvenzione giornaliera di 11,50 FF., che era risultata insufficiente. I rifugiati più indifesi - ammalati o invalidi - privi dell’appoggio della famiglia furono le prime vittime della carenza di vitto, del freddo e della situazione ambientale. Molti si lasciarono morire. Claude Laharie in Le camp de Gurs 1939/1945, dopo aver consultato gli archivi, affermò che le persone internate a Gurs tra l'aprile 1939 e il settembre 1944 furono 60.559 di cui 1.070 morte tra il maggio 1939 e l'agosto 1943 (500 nel 1940 e 401 nel 1941).

 

All'inizio del 1941, l'ambasciata americana in una memoria ufficiosa trasmessa al suo governo sulle condizioni di vita dei campi segnalò:

«Tutti i campi presentano più o meno lo stesso aspetto miserevole con alcune varianti: qui, assenza d’infermeria, là, utilizzo di tuguri privi d'aria, d’illuminazione o della possibilità di riscaldarsi. Gli internati sono ammucchiati, non esistono strutture per i bambini o i nuovi nati. In questa Torre di Babele si trova di tutto: condannati per delitti comuni, estremisti politici, malati di mente, gente rispettabile. Il cibo, di cattiva qualità, è insufficiente».[8]

I governi neutrali si fecero parte attiva con i rappresentanti diplomatici della Francia all'estero affinché intervenissero presso i ministri responsabili per porre fine a tale deplorevole stato di cose. La stampa europea (svizzera ed inglese) e quella americana riportando testimonianze dirette od indirette della vita nei campi insorsero contro tali situazioni contrarie ai principi umanitari della tradizione francese. Il moltiplicarsi di tali lamentele indusse il governo di Vichy a creare un organismo, diretta emanazione del Ministero dell'Interno, l'Ispettorato generale dei campi, con il compito di provvedere alla loro riorganizzazione nel quadro di una sana gestione che tenesse conto degli interessi degli internati e di quelli del Tesoro.

La direzione del nuovo servizio fu affidata ad André Jean Faure, ex Prefetto dell'Ariège, che non si limitava a mandare i suoi ispettori a visitare i diversi campi ma andava a costatare di persona. Quanto accertato gli provocò uno choc. Tutti i suoi rapporti furono accuse schiaccianti. Il 20 ottobre 1941, alla fine di un primo giro d’ispezioni, egli mandò una nota al capo di gabinetto del Maresciallo Pétain in cui affermava che per la propaganda antifrancese i campi rappresentavano «una sorgente di critiche severe e dannose in quanto fondate». Scosso da quanto constatato, decise di agire senza indugi dopo aver fatto un primo bilancio e stabilite le misure più urgenti; era persuaso che in qualche mese gli sarebbe stato possibile migliorare la situazione cosicché la stampa e la diplomazia internazionali potessero costatare i miglioramenti.

 

I lavori ebbero immediatamente inizio: furono installate tubature per l'acqua potabile, sanitari e fognature, tolti i reticolati che dividevano i diversi gruppi di baracche e pavimentati con pietrisco i passaggi, riparate le baracche, migliorati i servizi d’infermeria. Fu predisposta l'evacuazione dei campi di Rieucros e Riversaltes. Il cambio nella politica interna francese dell'aprile 1942, avvenuto con la nomina di Pierre Laval a capo del governo, portò ad una maggior collaborazione con i tedeschi ed i campi - nei quali ogni miglioria fu sospesa - divennero anticamere dei campi di sterminio nazisti. Se le manchevolezze prima denunciate rendevano penosa la vita nei campi di alloggiamento essa era ben più dura nei campi di disciplina, più volte citati: Le Vernet d'Ariège, Rieucros e quelli dell'Africa del Nord.[9]

 

Si è in precedenza accennato come il campo di Le Vernet d'Ariège ospitò all'epoca della Retirada la 26ª Divisione anarchica Durruti, quindi profughi che si erano resi colpevoli di una qualche infrazione (evasione, rissa, insubordinazione, ecc.) ed infine i cosiddetti elementi pericolosi essenzialmente comunisti francesi o stranieri residenti in Francia, tra cui i reduci della Brigate Internazionali. Vi transitarono uomini dei cinque continenti e di cinquantotto nazioni tra cui messicani, norvegesi, sanmarinesi o albanesi, il commerciante cinese arrestato nel Porto Vecchio di Marsiglia incontrò l'ebreo della Palestina, l'ufficiale greco, il principe georgiano, il poeta tedesco o lo studente estone. In prevalenza erano attivisti politici o uomini di cultura comunisti, socialisti, anarchici o semplicemente antifascisti.

Vi furono anche fascisti e nazisti: a fianco della spia internazionale tedesca Rozescu, un rumeno, agente dell'Abweir che aveva operato in Francia, Cecoslovacchia e Spagna si trovò Léon Degrelle, capo dei nazisti belgi, futuro generale delle Waffen S.S., arrestato il 10 maggio 1940 a Bruxelles. Fu liberato su espressa richiesta di Hitler nei primi giorni dell'agosto.

 

Tra i molti intellettuali internati, che per l'elevato numero fecero del campo una delle capitali della Resistenza culturale europea, si possono citare:

-          Serge Mintz-Meinard, russo, direttore del teatro di Pietroburgo all'epoca della Rivoluzione d'Ottobre,

-          Michel Flurscheim, fuoriuscito tedesco, direttore di teatro,

-          Jacques Haik, franco-tunisino, produttore cinematografico,

-          Eberhard Schmidt, compositore tedesco, che scrisse delle canzoni per la corale germanica,

-          Felix Sztal, famoso pianista polacco,

-          Tommaso Sarti, disegnatore italiano,

-          Paul Pitoum, pittore russo, morto dopo un’operazione all'ospedale di Pamiers,

-          Joseph Soos, pittore ungherese,

-          Otto Kuhns, pittore tedesco,

-          Isidore Weiss, pittore rumeno,

-          Bruno Peiser, architetto tedesco

-          Moise Rosenberg, scultore polacco.

 

I più numerosi furono gli scrittori come:

-          Louis Emrich, tedesco, conosciuto come uno dei capi del movimento separatista renano, direttore di un giornale filo-francese a Sarre, autore di diverse opere antinaziste, arrestato nonostante l'intervento del vescovo di Strasburgo. Di cultura europeista scrisse nel campo L'Europe à l'aube d'une époque nouvelle ove immaginava l'Europa unita nel 1950. Non sopravvisse alla deportazione in Germania.

-          Friedrich Wolf, tedesco, medico, poeta, drammaturgo, comunista, all'epoca più celebre di B. Brecht. Le sue opere teatrali furono rappresentate in tutto il mondo (I marinai di Cattaro sugli ammutinamenti del 1918; Professor Malmlock denuncia dell'antisemitismo). La stampa americana lo aveva soprannominato il "Nemico n°1 di Hitler". Al campo egli scrisse una delle sue opere migliori: Bel mercato. Dopo la guerra pubblicò dei racconti sulla vita nel campo.

-          Rudolf Leonhard, poeta, animatore di Radio Libertà, presidente della società degli scrittori tedeschi. Dato il suo prestigio intervenne a suo favore l'ispettore generale André Jean-Faure. Nei venti mesi d’internamento scrisse più di cento poemi pubblicati dopo la guerra sotto il titolo Le Vernet.

-          Ladislas Radvany, ungherese, comunista, ebreo, scrisse in tedesco sotto lo pseudonimo di Johan Lorenz Schmidt. Economista aveva fondato e diretto l'Università Operaia di Berlino, poi la Libera Università Tedesca di Parigi. Professore all'Istituto di Storia delle Scienze di Parigi, durante l’internamento scrisse una Storia della letteratura francese. Emigrò negli Stati Uniti.

-          Arthur Koestler, ungherese, ex-comunista, giornalista e romanziere (tedesco ed inglese), descrisse ne La Schiuma della Terra il suo soggiorno a Le Vernet, come aveva descritto la sua prigionia nelle carceri franchiste nel Dialogo con la Morte. Fu qui che impostò il celebre Lo zero e l'infinito, primo grande libro che analizzò i meccanismi dello stalinismo.

-          Max Aub, uno dei più grandi scrittori spagnoli, amico di Picasso, scrisse sul periodo 1939/1945 un celebre libro: Ultime Notizie della Guerra di Spagna. Vi sono pagine terribili sul campo e in particolare il Manoscritto del Corvo descrizione satirica e surrealista dell'universo concentrazionario francese.

 

Tutti questi intellettuali furono protagonisti dell'animazione culturale del campo (corsi d’istruzione pubblici, letture commentate, rappresentazioni teatrali, tavole rotonde). Dal campo uscirono clandestinamente poemi, romanzi, opere teatrali, che, diffusi nel mondo libero, colpirono l'opinione pubblica e contribuirono ad attirare l'attenzione sulle vittime dei campi di concentramento francesi.

 

A Le Vernet passò una parte dell'élite politica antifascista europea, che giocò un ruolo importante nell'organizzazione e nella guida della Resistenza in tutti i paesi occupati dai nazisti.

 

- Anarchici:

Gli spagnoli (catalani di massima), soldati ed ufficiali della 26ª Divisione Durruti, che inaugurarono il campo - nel febbraio/marzo 1939 ed ebbero una parte attiva nella guerriglia nella zona dei Pirenei. Poi Francisco Isgleas del Comitato nazionale della F.A.I., Valerio Mas del Comitato nazionale della C.N.T., Manuel Gonzales Martin, comandante di Divisione, Eduardo Val Bascos, segretario generale della C.N.T. a Madrid, ecc.

Gli italiani che pubblicarono una rivista libertaria Res Nova sotto la direzione di Giorgio Braccialarghe, capo di Stato Maggiore della XII Brigata Internazionale, che rientrato in Italia divenne comandante della Brigata partigiana "Mazzini".

 

- Comunisti:

Luogo d'internamento di numerosi dirigenti europei e di buona parte dei capi e dei soldati delle Brigate Internazionali, il campo divenne il principale centro di diffusione delle direttive impartite da Mosca.

 

Le principali nazionalità rappresentate furono:

 

- Tedeschi

Molti ex deputati: Philip Daub, futuro sindaco di Magdeburgo, Eric Jungmann, Paul Merker, deputato della Renania, Heinz Renner, futuro sindaco di Essen, Rudolf Stender, deputato di Amburgo.

Responsabili del Partito Comunista Tedesco (K.P.D.): Herman Axen, Rudolf Bergmann, Adolf Detter, membro del Comitato Centrale, Wilhem Eildermann, Gerhart Eisler, Alfred Kirn, futuro Ministro del Lavoro nella Sarre.

Ufficiali delle Brigate Internazionali: Heinrich Rau, futuro Ministro dell'Economia e Vice Premier della Repubblica Democratica Tedesca (R. D. T.), Herbert Grunstein, futuro Vice-Ministro degli Interni della Germania dell'Est, Walter Janka, Herbert Tschape, comandante dell' XI Brigata, consegnato ai tedeschi ed ucciso nel 1944.

La figura di maggior peso politico fu Franz Dahlem, deputato, numero due del K.P.D., membro supplente del Comintern, responsabile dei tedeschi inquadrati nelle B.I., consegnato alla Gestapo fu internato a Mauthausen, da cui sopravvisse divenendo in seguito Vice-Ministro dell'Educazione nella R.D.T.

 

- Spagnoli

Francisco Anton, membro dell'Ufficio politico del P.C.E., commissario generale dell’esercito repubblicano; Jésus Larrañaga, segretario generale del partito basco, fucilato in Spagna alla fine del 1941; Miguel Valdes, deputato; Juan Blasquez, prima commissario politico e poi generale e Vice comandante dell’Agrupación des guerrilleros españoles en Francia, e i futuri comandanti partigiani: Tomas Guerrero (Camilo) nel Gers, Antonio Caamano nell'Alta Garonna, Emilio Alvarez nella Dordogna, Rafael Gandia nell'Aude, Armano Castillo e Francisco Ruiz Vera nei Pirenei Orientali, Fernando Claudin......

 

- Italiani

Luigi Longo, ispettore generale delle B.I., futuro comandante in Italia delle formazioni Garibaldi e Vice-comandante del Corpo Volontari della Libertà, Giuliano Pajetta, commissario politico delle B.I., Eugenio Reale, Mario Montagnana, Francesco Fausto Nitti, Eusebio Giambone che sarà fucilato a Torino il 5 aprile 1944 con sette membri del Comitato Militare Regionale Piemontese, Felice Platone e molti altri.[10]

 

Tra questi Leo Valiani, che al momento dell'arresto aveva già maturato il suo dissenso dalla linea politica del Partito Comunista (il patto russo-tedesco gli aveva confermato i dubbi sorti con i processi di Mosca) ma non l'aveva reso pubblico e così fu internato. Comunicò la sua disapprovazione con una lettera al Comitato Politico Comunista del Vernet, di cui facevano parte Longo, Reale, Montagnana e Parodi. Egli racconta in Sessant'anni di avventure e battaglie:

«Quando scrissi questo mi espulsero dal partito, e l'indomani tutti i comunisti, forse quattromila, mi tolsero il saluto come un sol uomo: è duro vedersi togliere il saluto da quattromila compagni. Fra quelli che mi tolsero il saluto c'era Rajk, il combattente eroico della guerra di Spagna, futura vittima dello stalinismo». In una lettera del 31 marzo 1970 a Paolo Spriano che lo intervistava per la sua Storia del Partito Comunista affermerà che per primi, qualche mese dopo, gli avrebbero restituito il saluto Longo e Montagnana. Aderrà a Giustizia e Libertà dopo una visita al campo di Franco Venturi che gli organizzò la fuga in Messico.[11]

 

E poi Albanesi, Austriaci, Bulgari, Cecoslovacchi, Greci, Jugoslavi, Polacchi, Rumeni, Russi, Ungheresi,.....

 

Arthur Koestler, che fu internato nel campo per pochi mesi, nella Schiuma della Terra diede una descrizione del campo e della vita che vi si conduceva:

«Il campo di Le Vernet d'Ariège occupa circa venti ettari. La prima impressione entrandoci era di una massa di filo spinato e ancora di filo spinato. Correva tutt'intorno al campo con triplice recinto e attraverso ad esso in varie direzioni con trincee parallele.

Il terreno era arido, pietroso e polveroso quand'era bello, coperto di fango da entrarci fino alle caviglie quando pioveva, gibboso di zolle gelate quando faceva freddo.

Il campo era diviso in tre sezioni: A, B, e C. Ciascuna sezione era separata dalle altre da filo spinato e da trincee. La sezione A era per stranieri con precedenti penali, la sezione B per quelli con precedenti politici, la sezione C per quelli senza alcun’accusa precisa ma che erano "sospetti", o per motivi politici o per motivi comuni. Io ero nella C; e così era la maggior parte della gente venuta con me da Parigi. Le baracche erano costruite con tavole di legno coperte da una specie di carta impermeabile. ciascuna baracca ospitava duecento uomini, ed era lunga trenta metri e larga cinque. Il mobilio consisteva in quattro ripiani di assi, due inferiori e due superiori, ognuno largo circa due metri, che correvano lungo i due lati lunghi e lasciavano uno stretto passaggio nel mezzo. Tra il ripiano inferiore e superiore c'era uno spazio di circa novanta centimetri, sicché quelli del ripiano inferiore non potevano mai stare in piedi. Per ciascuna fila dormivano cinquanta uomini con i piedi verso il passaggio. Le file erano divise in dieci scomparti dalle travi di legno che facevano da impalcatura al tetto. Ogni scomparto conteneva cinque uomini ed era largo due metri e mezzo, di modo che ogni persona disponeva per dormire di uno spazio di cinquanta centimetri. Ciò significava che tutti cinque dovevano dormire di fianco, nella stessa direzione, e se uno si voltava dovevano voltarsi tutti. Le assi erano coperte di un sottile strato di paglia, e la paglia era l'unico arredamento mobile della baracca. Era, di fatto, una capanna. Non v'erano finestre ma solo pezzi di rettangolari segati dalle assi delle pareti e che servivano da imposte. Non ci fu stufa nell'inverno del 1939, né luce, e non c'erano coperte. Il campo non aveva refettorio per i pasti, né vi erano tavole o sgabelli nelle baracche, non venivano forniti piatti, cucchiai o forchette per mangiare, né sapone per lavarsi. Una piccola parte degli internati poteva permettersi di comprarsi queste cose; gli altri erano ridotti al livello dell'età della pietra.

Il vitto consisteva principalmente della razione giornaliera di trecento grammi di pane. Veniva aggiunta una tazza di caffè nero amaro la mattina e mezzo litro di "minestra" a mezzogiorno e la sera. Ho messo "minestra" tra le virgolette, era un liquido pallido che non conteneva grasso ma solo pochi granelli di piselli, lenticchie o vermicelli. Il numero dei grani variava da trenta a cinquanta. C'erano anche ottanta grammi di manzo bollito con la minestra di mezzogiorno, ma di qualità talmente pessima che solo i più affamati potevano mangiarlo.

Il lavoro durava d'inverno dalle 8 alle 11 antimeridiane, e dall'1 alle 4 pomeridiane, le ore di lavoro erano limitate dalla luce e dalle condizioni fisiche degli uomini malnutriti. La percentuale dei malati era sempre al disopra del venticinque per cento in tutte le baracche, sebbene la simulazione di malattia fosse sempre duramente punita. Il lavoro consisteva principalmente nel costruire strade e nei vari accomodamenti necessari alla manutenzione del vasto campo. Non era retribuito e il campo non forniva abiti da lavoro. Dal momento che la maggioranza dei prigionieri possedeva solo quello che aveva indosso - da molto tempo avevano venduto l'ultima camicia di ricambio o la biancheria per un pacchetto di sigarette - lavoravano con i vestiti logori e le scarpe sfondate a venti gradi sotto zero, e dormivano senza coperte nelle capanne quando perfino gli sputi per terra si gelavano.

Quattro volte il giorno c'erano gli appelli, che duravano ciascuno da mezz'ora a un'ora. Per la maggior parte del tempo dovevamo stare immobili in piedi al gelo. La più leggera mancanza era punita dalle guardie mobili con un pugno o una frustata. Mancanze più serie venivano punite con un minimo di venti giorni di prigione, le prime ventiquattr'ore senza mangiare né bere, e i seguenti tre giorni a pane e acqua».

Parla delle umiliazioni cui fu sottoposto (perquisizioni, rasatura dei capelli), della corruzione dilagante, delle malversazioni di cuochi, addetti all'amministrazione, capi baracca, della malvagità delle guardie, delle punizioni crudeli e gratuite, del lavoro pesante o degradante (corvée de tinette).[12]

 

Questa testimonianza, che potrebbe essere suffragata da altre, per citare tra gli italiani quelle di Leo Valiani o di Mario Montagnana (Ricordi di un operaio torinese), spiegava i motivi delle azioni di protesta messe in atto dagli internati, soprattutto dai più organizzati: i comunisti, il cui Comitato Politico divenne l'anima del Collettivo Internazionale organismo clandestino di rappresentanza di tutti i prigionieri. Si ebbero delle manifestazioni di sciopero e di contestazione, specie nel periodo dall'autunno 1940 alla primavera del 1941, periodo in cui vennero sostituiti ben quattro responsabili del campo. Puntando sul sostegno dalla stampa internazionale, perfino i giornali italiani nell'agosto del 1940 avevano denunciato le sevizie inferte ai prigionieri, in occasione del secondo anniversario dell'internamento in Francia delle Brigate Internazionali il Collettivo mobilitò i quartieri B e C per protestare contro le brutalità delle guardie e la fame:

«i detenuti comuni catturano dei topi, li fanno cuocere in latte di conserva....i detenuti si sono rifiutati di mangiare delle patate marce». Il nuovo comandante del campo era un poliziotto che non tollerava insubordinazioni e minacciò gravi ritorsioni. Un incidente scatenò la rivolta prima al quartiere C e poi al B. Gli internati rifiutarono di lavorare e mangiare e in un primo momento neutralizzarono le guardie. Il Prefetto dell'Ariège fece intervenire l'esercito: il campo venne preso d'assalto e ci furono feriti da una parte e dall'altra. Vennero effettuati 102 arresti: i principali caporioni, Ilich e Rau, furono giudicati al Tribunale di Foix e condannati a diversi anni di prigione. Gli altri membri del Collettivo furono inviati nella prigione di Castres, i tedeschi consegnati ai nazisti, tra cui Dahlem, gli italiani ai fascisti.

Milleduecento rivoltosi vennero imbarcati a Port-Vendres i giorni 2, 6, 11 e 16 marzo sulle navi Djebel Nador, la Mayenne e Sidi Aissa con destinazione i campi del Nord Africa. Altri duemilacinquecento (non tutti provenienti da Le Vernet) partirono sempre per l'Algeria dal 25 novembre 1941 al 25 aprile 1942.

 

Con l'attacco della Germania all’U.R.S.S., il Komintern ordinò ai suoi militanti di raggiungere i propri paesi di provenienza per organizzare la resistenza contro i tedeschi. Le vie di uscita furono o accettare l'arruolamento volontario offerto dai tedeschi e poi, nel corso del viaggio, evadere o di fuggire direttamente dal campo. Venne creata una rete di favoreggiatori, che provvedeva a fornire nascondigli, documenti, mezzi di trasporto, contatti e denaro. I primi furono gli spagnoli che appoggiandosi ai connazionali residenti nel Sud della Francia si diedero alla macchia e costituiscono le prime bande armate.

 

Il campo cominciò ad accogliere ebrei francesi rastrellati nei dipartimenti dei Pirenei e dalla primavera del 1944 iniziarono le prime deportazioni verso la Germania. Il 15 giugno 1944 i tedeschi occuparono il campo e il 30 giugno deportarono gli ultimi internati con quello che passò alla storia come il treno fantasma, da cui molti riuscirono ad evadere.[13]

 

Se per i rifugiati sul territorio metropolitano le condizioni di vita per un certo periodo migliorarono soprattutto quando, per esigenze belliche, vennero impiegati nell'industria o in agricoltura, quelli internati nei campi del Nord Africa non conobbero miglioramenti al trattamento duro e repressivo. I profughi della Guerra di Spagna furono suddivisi tra il 5° G.T.E. che era di stanza in Marocco a Meridja e il 6° di stanza in Algeria Hadjerat M'Guil, il Buchenwald francese, che comprendeva una sezione speciale ove era quasi impossibile sopravvivere. Esistevano inoltre in Algeria i campi di Djelfa e Berrouaghia riservati agli stranieri indesiderabili mentre le donne erano internate in quello di Ben Chicao. Quelli che avevano conti in sospeso con la giustizia francese, già giudicati o nella attesa di processo, venivano rinchiusi nella prigione Maison Carrér di Algeri, o in quella di Lambése (Costantina) e nel forte di Port-Lyautey in Marocco. Ai cittadini francesi e agli autoctoni furono riservati i campi di Bousset, El Aricha, Djenien-Bou-Rezg. Qualunque fosse la loro denominazione si trattava di bagni penali ove coesistevano lavori forzati e trattamenti inumani, in particolare nelle sezioni speciali. Con l'avvento del governo di Pétain l'invio in Africa del Nord divenne il mezzo più sicuro per sbarazzarsi degli indesiderabili sospettati di "attività estremiste". Gli stranieri furono mandati nei campi del deserto per o lavorare alla costruzione della transahariana, divenuta dopo il 21 marzo 1941 la Mediterraneo-Niger, o alle miniere di carbon fossile di Kenadza.

Ogni nuovo arrivo a Djelfa, il campo della morte, dava luogo ad un cerimoniale di ricevimento presieduto dal comandante Cavoche, che accoglieva i prigionieri con le parole: «Spagnoli voi siete arrivati al campo di Djelfa, siete in pieno deserto. Pensate bene a questo: solo la morte potrà liberarvi» o anche «Voi siete qui per morire e non dimenticatevi mai che io sono il vostro primo nemico». Nei campi del Sud Sahara, ove le temperature variano da più 50° in estate a meno 14° in inverno, le punizioni leggere portavano invariabilmente al sepolcro (fossa lunga due metri, profonda e larga uno). Malgrado le condizioni atmosferiche era proibito al punito di portarsi una coperta, il pasto, già di norma frugale, era ridotto a pane secco con poca acqua, che poteva essere soppresso e sostituito da un piatto molto salato e pepato.

Le punizioni più gravi comportavano l'imprigionamento nella fortezza di Caffarelli, da cui molti non fecero ritorno. In questa prigione i detenuti erano costretti in celle talmente umide e strette in cui era quasi impossibile muoversi, il che determinava l'insorgere di polmoniti, che non curate, portavano alla morte. Le autorità chiudevano la pratica con l'annotazione: morte naturale.

Il peggiore di tutti i campi era Hadjerat Mi Guil qui, come a Mauthausen, i detenuti dovevano portare dei blocchi di pietra di circa quindici chili in cima ad una collina da cui poi dovevano scendere a passo di corsa, tutto sotto i colpi dei guardiani. In quest’inferno uno dei supplizi più applicati (specie nei casi di tentata evasione) consisteva nell'attaccare il punito alla coda in un cavallo lanciato al galoppo finché non decedeva. Tutte queste atrocità costituirono il capo d'accusa nei processi, che furono istruiti contro i responsabili quando l'Africa del Nord fu occupata dalle truppe alleate nel novembre 1942 e i campi vuotati con il 27 aprile 1943. Furono incriminati, il luogotenente colonnello Viciot, responsabile di tutti i campi del Sud, il luogotenente Santucci, comandante di Colomb-Béchar ed il suo aiutante Finidori ed i loro scagnozzi: Mosca, capo delle guardie arabe incaricato della sorveglianza, il sergente maggiore Dauphin, cinico e crudele cui erano attribuite le torture più raffinate, Otto Riepp e Dourmenoff, già cacciati per ignominia dalla Legione Straniera ed il colonnello Liebray, comandante del territorio, che appoggiava le crudeltà praticate a Hadjerat M'Guil perché, per lui,: «tutti i repubblicani, socialisti o comunisti, non sono che dei rossi e di conseguenza delle bestie pericolose». I processi si conclusero con la condanna a morte per Santucci , Riepp, Finidori e Dauphin. Solo le prime due furono eseguite, mentre gli altri ebbero la pena commutata rispettivamente nell'ergastolo e in vent'anni di carcere. A Viciot e Santucci fu revocata la Legion d'Onore e a Mosca e Finidori la medaglia militare. Altri come Cavoche, comandante del campo di Djelfa fu condannato a sei mesi di prigione. Questi processi celebrati, quasi di nascosto, ebbero poca pubblicità. Il quadro legislativo che aveva costituito l'infrastruttura necessaria alla creazione dei campi, imputabile alle autorità di Vichy, non fu messo in discussione. Alla fine si sgonfiarono, lo scandalo dei campi di concentramento francesi si ridusse ancora una volta in un processo a dei carnefici, dunque a degli uomini, e non fu un processo all'esistenza dei campi, dunque al sistema politico-sociale che li aveva generati.[14]

 

Dopo la liberazione agli internati furono prospettate le seguenti possibilità:

-          emigrare in Messico,

-          lavorare per la produzione industriale accompagnata dall'autorizzazione a risiedere nelle colonie,

-          arruolarsi per la durata della guerra nelle truppe scelte o nei corpi ausiliari dell'esercito inglese

senza garanzia di residenza a fine servizio in Gran Bretagna,

-          lavorare per le truppe americane, senza nessun impegno per il futuro.

 

Vedremo nelle pagine seguenti quali furono le scelte e le motivazioni che le determinarono.

 

 

 

 

 


 

XII

 

L' OCCUPAZIONE TEDESCA

 

 

 

Ce n'est pas la patrie française

qui est en danger, ni la liberté

de la France qui est en jeu, c'est

la liberté, la culture et la paix

mondiales.

 

Francisco Ponzan Vidal[6]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RICONSEGNE FORZATE AI FRANCHISTI

 

 

Il 22 giugno 1940 nella foresta di Compiégne a Rethondes, sullo stesso wagon-lit su cui i tedeschi sconfitti avevano firmato l'armistizio l'11 novembre 1918, la delegazione del governo francese firmò la convenzione d'armistizio con la Germania il cui l'articolo 2 precisava: «La linea di demarcazione tra la zona occupata dalle truppe tedesche e quella che resta sotto la giurisdizione francese comincia ad est, alla frontiera franco-svizzera presso Ginevra ed è delimitata dalle località di Dole, Paray-el-Monial e Bourges, fino a circa venti chilometri ad est di Tours. Di lì, essa passa ad una distanza di venti chilometri ad est della linea ferroviaria Tours-Angouleme-Libourne per proseguire per Mont-de-Marsan e Ortez fino alla frontiera spagnola».

La clausola più odiosa delle ventiquattro, che costituivano la convenzione, e la più disonorevole era quella che obbligava la Francia a consegnare tutti i profughi tedeschi antinazisti. Il generale Weygand protestò che questo era contro l'onore, perché violava lo storico diritto d’asilo, e ne domandò la cancellazione. I tedeschi rifiutarono, i francesi chiesero allora di modificare la clausola come segue: «La posizione dei cittadini stranieri che hanno cercato asilo in Francia formerà oggetto di un successivo accordo sulla base dell'onore e dell'umanità». Keitel, capo della delegazione tedesca, si oppose nettamente ad ogni modifica. Forse inconsciamente per salvare i fuoriusciti tedeschi, i francesi introdussero il concetto di cittadini stranieri che finiva per comprendere tutti i profughi.[1]

La nuova amministrazione militare tedesca nella zona di sua competenza s’interessò subito dei rifugiati spagnoli e si preoccupò di:

 

-          consegne forzate al governo di Franco,

-          impieghi in lavori forzati in Francia o in Germania,

-          deportazioni in Germania.

 

Non appena le truppe del Reich raggiunsero la frontiera spagnola allacciarono rapporti diretti con le autorità franchiste consolidando quelli esistenti tra le due nazioni dovuti soprattutto al fattivo aiuto fornito dai tedeschi nel corso della guerra civile. Hitler tendeva a cementare tale amicizia per spingere Franco ad entrare in guerra a fianco delle forze dell'Asse. La Spagna aveva, infatti, nella strategia bellica una notevole importanza, sia per conquistare Gibilterra acquisendo così il controllo della via d’accesso dall'Atlantico al Mediterraneo, sia per rifornire le truppe impegnate in Africa del Nord evitando il ricorso ai convogli navali sottoposti agli attacchi d’aerei e sottomarini inglesi. In attuazione di tale programma di collaborazione, già nel mese di giugno ottantaquattro rifugiati, residenti a Deux-Sevres (Poitou-Charentes), furono trasferiti con la forza per ordine della Feldkommandantur al posto di frontiera di Hendaye e consegnati alle autorità spagnole. I francesi, ormai senza potere, erano obbligati a cooperare: il 10 ottobre 1940, il Prefetto di Mont de Marsan dovette fornire ai tedeschi la lista di tutti i repubblicani spagnoli registrati nel dipartimento delle Landes. Qualche giorno dopo venne a sapere che gli spagnoli erano stati arrestati e trasferiti in Spagna. Dieci giorni dopo la richiesta fu ripetuta per la zona di Bayonne (Pirénées Atlantiques), la Feldkommandantur richiese: «Una lista completa dei rifugiati rossi, uomini e donne, al fine di rimpatriarli di forza o inviarli nei campi di lavoro in Germania». [2] Inoltre la polizia spagnola era autorizzata a fare delle incursioni in territorio francese per prelevare elementi legati alla Repubblica.

Le personalità di maggior prestigio consegnate dai tedeschi alla Spagna furono: Lluis Companys, Presidente della Generalitat catalana, Julián Zugazagoitia e Juan Peiró, rispettivamente Ministro dell'Interno e dell'Industria e Rivas Cherif, console a Ginevra e cognato di Manuel Azaña. Lluis Companys, consegnato il 15 agosto 1940 dopo due mesi di violenze fu fucilato il 15 ottobre nei pressi della fortezza di Montjuich a Barcellona. Il suo sacrificio fu ricordato con un monumento che sorge al porto di Saint Cyprien (P.O.) su cui è incisa la seguente dedica in francese ed in catalano:

 

A LLUIS COMPANYS JOVER

Président de la Catalogne

et

a tous les

CATALANS TOMBÉS

pour la défense de la liberté

des hommes et des peuples

engagés volontaires dans l'Armée Française

1870/1871 - 1914/1918 -1939/1945.

 

Zugazagoitia e Peiró furono fucilati, mentre a Rivas Cheriff, dapprima condannato a morte, la pena fu commutata in trent'anni di carcere.[3]

 

 

DEPORTAZIONI IN GERMANIA

 

 

Quando apparve chiaro, dopo il famoso incontro di Hendaye del 23 ottobre 1940 tra Hitler e Franco, che quest'ultimo non aveva alcun’intenzione di entrare in guerra a fianco dell'Asse, anche la politica tedesca verso la Spagna cambiò e le estradizioni forzate cessarono quasi del tutto, mentre proseguirono le deportazioni, iniziate sin dall'agosto 1940, nei campi di concentramento in Germania. La destinazione dei profughi della Guerra Civile, spagnoli ed interbrigatisti, dipese dalle situazioni che avevano determinato il loro arresto: i militirazzati delle C.T.E. ed i refractaires al Service de Travail Obligatoire (S.T.O.), furono mandati a Mauthausen in Austria, che assunse il triste soprannome di campo degli spagnoli, mentre quelli arrestati per appartenenza alla Resistenza in Francia finirono di massima, se uomini a Buchenwald ed a Dachau, se donne a Ravensbruck. A Mauthausen i tedeschi imposero ai Rotspainer (rossi spagnoli)[7] come contrassegno un triangolo blu classificandoli quindi tra gli apolidi, in cui tuttavia era inserita una "S" quale distinzione della nazionalità. Il triangolo rosso, contrassegno dei politici, era riservato ai Republikaniske Spanier, i reduci delle Brigate Internazionali di ogni nazionalità, triangolo in cui era inserita la lettera "S". Negli anni 1940/42[8] vi furono internati una cinquantina di interbrigatisti in prevalenza bulgari, rumeni, jugoslavi, ungheresi ed alcuni sudamericani e cubani, essi raggiunsero nel 1945 le centocinquanta unità con il trasferimento dei deportati di Auschwitz, tra cui diversi tedesci ed austriachi.[4]

A Mauthausen una lapide ricorda 38 Interbrigatisti austriaci morti nei diversi campi.

 

Juan Carrasco nel suo Album-souvenir de l'exil.... sostiene che gli spagnoli furono deportati su istigazione di Ramòn Serrano Suñer, Ministro degli Esteri spagnolo, cognato di Franco ed ardente filonazista, che intendeva così colpire i rossi che erano sfuggiti alla giustizia franchista. Egli dichiarò: "Cosa possa succedere a questi rossi non ci interessa assolutamente. Sono responsabili di lottare contro i principi di ordine, patria e religione che tanto il III Reich che noi difendiamo. Se fossero stati in Spagna li avremmo sterminati perché il loro seme non si sviluppasse. Potete fare tutto quello che ritenete opportuno".

La personalità repubblicana di maggior prestigio che conobbe l’inumana esperienza dei campi di concentramento nazisti fu l’ex Primo Ministro Francisco Largo Caballero. Arrestato nel 1943 in Francia, fu internato nel campo di Oraniemburg (matricola 69040). Liberato il 23 aprile 1945, morirà a Parigi nel 1946.

L’8 agosto 1940, arrivarono a Mauthausen trecentonovantadue spagnoli, già inquadrati nelle C.T.E., che erano stati militarizzati ed armati quando ormai l'esercito francese aveva utilizzato le sue ultime riserve nel tentativo di bloccare l'avanzata tedesca. Catturati con le armi in pugno non fu loro riconosciuta la qualifica di militari, perciò non furono considerati prigionieri di guerra ma politici, il che ne comportò l'internamento in un campo di concentramento anziché in uno di prigionia.[5]

Il 24 dello stesso mese arrivò un trasporto detto di Angouleme (Charente) dalla città francese dove erano stati arrestati, comprendente anche donne e bambini. Arrivati alla stazione di Mauthausen fu fatta una selezione e 430 uomini (tra cui 40 ragazzi di età superiore ai 14 anni) vennero internati mentre le femmine ed i maschi inferiori a 14 anni furono mandati indietro per essere trasferiti in Spagna. Secondo un’altra fonte vennero invece spediti al campo di Ravensbrük, dove furono eliminati.[6]

La Lista degli spagnoli che passarono attraverso lo Stalag XIB (Fallingstobel – Hannover) prima di essere mandati al campo di concentramento di Mauthausen è un documento in possesso dell’ Amicale nationale des déportés et familles de disparus de Mauthausen et ses commandos di Parigi, che interessa anche il sottocampo di Gusen, su cui sono elencati 10.350 nominativi specificandone: data di arrivo, nome, cognome, data e luogo di nascita, occupazione, nazionalità e numero assegnato al campo ad ogni spagnolo internato tra il 6 agosto 1940 ed il 20 dicembre 1941.

1940 - Agosto: n. 1.104

Settembre: " 229

Ottobre: " 1

Novembre: " 3

Dicembre: " 846

1941 - Gennaio: " 1.616

Febbraio: " 2.690

Marzo: " 854

Aprile: " 1.555

Maggio: " 136

Giugno: " 564

Luglio: " 80

Agosto: " 195

Settembre: " 84

Novembre: " 51

Dicembre: " 342

TOTALE n. 10.350 [7]

 

Risulta incompleta perché mancano gli arrivi dell’ottobre 1941 e degli anni dal 1942 al 1945. Il primo registrato fu Christobal Nautissa-Bernal, con il numero 3.058.

Il maggior studioso del KZ di Mauthausen Hans Maršálek, ex internato e Segretario del Comitato Austriaco del campo, ha calcolato in 11.033 gli spagnoli ivi internati, così suddivisi per anni:

1940 2.239

1941 8.428

1942 131

1943 38

1944 179

1945            18

 

L’esame dei singoli arrivi permettono di comprendere che negli anni 1940/1941 gli spagnoli vennero prelevati essenzialmente dagli Stalag (Stammlager – campi per prigionieri di guerra) sparsi per Germania, Austria e Francia, mentre negli anni successivi la maggior parte di essi venne da Parigi (dove erano concentrati i deportandi, di massima membri della Resistenza) o da altri campi di sterminio.[8]

Se oltre che a Mauthausen, si considerano gli spagnoli internati in questi campi la cifra totale dei deportati supera i dodicimila (alcuni storici parlano di quindicimila), quindi - considerati i superstiti - i decessi rappresenterebbero l’85% dei prigionieri.

 

Dopo gli ebrei ed i polacchi, gli spagnoli furono i detenuti contro di cui metodicamente infierirono le S.S. e i loro scagnozzi. Negli anni 1941 e 1942 ne furono uccisi circa 4.200, le eliminazioni più feroci avvennero al sottocampo di Gusen tra il dicembre 1941 ed il gennaio 1942, quando costituirono la maggioranza dei 1.628 eliminati con operazioni bagno od iniezioni al cuore. Data la brutalità del trattamento loro riservato essi si posero il problema di salvare i giovani, non solo dal punto di vista fisico, ma anche da quello morale e politico. Nessun giovane non doveva mai restare solo, durante il lavoro all’infermeria dove erano stati destinati, dovevano sempre avere qualcuno al loro fianco che li sorvegliasse per impedire di cadere nelle maglie della protezione di Kapò o capi blocco. Fu anche deciso di aiutarli dal punto di vista alimentare, riservando loro i supplementi del rancio ottenuti con i servizi di pulizia, aiuto ai barbieri, ecc. La loro disciplina militare, la dura esperienza dei campi francesi e la loro giovinezza (età media 27 anni, dato che gli anziani erano stati i primi a morire) consentirono loro di adattarsi alle condizioni di vita del campo di concentramento. Al disopra di tutte le ideologie politiche e delle tendenze separatistiche, essi erano uniti da uno sconfinato amore per il loro paese e dall’odio contro il sistema franchista e quello hitleriano. La maggioranza contava in una sconfitta militare del nazifascismo e credeva che il regime di Franco non sarebbe potuto sopravvivere al crollo delle potenze dell’Asse, per questo voleva vivere per tornare in Spagna. Con la loro sveltezza felina erano veri maestri dell’arte di organizzarsi, molti che avevano imparato qualche parola di tedesco dagli internati tedeschi che avevano militato nelle Brigate Internazionali misero a frutto quest’esperienza costituendo dei corsi di scuole di lingua; infatti, era importante capire il più velocemente possibile gli ordini urlati dai Kapò per ottenere i lavori meno pesanti o ad inserirsi nell’organizzazione amministrativa del campo, così molti di loro divennero interpreti, segretari d’infermeria o dell’intendenza, altri fecero i barbieri o gli addetti alle cucine ed ebbero modo di essere di aiuto ai compagni meno fortunati. Riuscirono pertanto a migliorare le condizioni di vita tanto che dalla primavera del 1943 non vi furono tentativi di fuga (fino allora ne erano scappati dieci, dei quali uno solo non fu ripreso) ed a partire dall’estate dello stesso anno il loro tasso di mortalità risultò essere parecchie volte inferiore a quello degli altri gruppi.

Avendo una certa libertà d’azione, costituirono il 24 giugno 1941 il Comitato Spagnolo di Resistenza, prima cellula dell’A.M.I. (Apparato Militare Internazionale), creato con gli altri gruppi nazionali grazie all’intermediazione d’internati ex soldati delle Brigate Internazionali. Organismo che avrebbe gestito il campo nell’aprile 1945 tra la fuga delle S. S. ed il definitivo arrivo delle truppe americane. Essi furono anche l’unico gruppo nazionale che immediatamente dopo la liberazione condannò a morte con un tribunale straordinario e giustiziò parecchi connazionali che si erano prestati a fare da sicari alle S. S.[9]

 

Il 6 maggio 1962 fu eretto a cura del Governo della Repubblica Spagnola in esilio un monumento formato da cinque blocchi di granito; su quello centrale una scultura bronzea rappresenta una figura velata che sostiene un deportato, mentre su ognuno degli altri quattro, due per lato, vi è scritto in una lingua diversa (tedesca, spagnola, francese, russa) :

 

A ricordo dei 7000 Repubblicani Spagnoli morti per la Libertà .

 

Nella Sala delle Bandiere del campo tra i vessilli delle nazioni che contarono il maggior numero di deportati, è esposto quello rosso, giallo e viola della Repubblica Spagnola sotto di cui una lapide ricorda in castigliano e tedesco:

Ti diedi la luce, o figlio mio!

fosti fedele e giusto combattente

della Libertà.

Quanto ti piango.

Agli spagnoli repubblicani

morti a Mauthausen

 

In altri settori del campo delle lapidi ricordano:

 

7000 spanische Republikaner

wurden in KZ Mauthausen u Gusen

Opfer des Nazismus

Allen Kamaraden u. Familien

werden sie unvergessen sein

 

---------------------------

España a sus Hijios

Caidos en Mauthausen

2 febrero 1978

 

Spanien seinen in

Mauthausen

Gefallen soehnen

2 februar 1978

Infine alla base del monumento commemorativo prima ricordato familiari di deportati morti hanno deposto delle piccole lapidi a ricordo dei loro parenti. I loro nomi sono:

Paulino Telechea, Vicent Bach Vila, Ian MolinsMaynou, Joan Lura Ros.

 

Molte furono le testimonianze sulla presenza degli spagnoli nei campi rese dai superstiti, tra cui particolarmente significative quelle di Aldo Carpi e Vincenzo Pappalettera.

 

Il primo nel Diario di Gusen fece cenno a più riprese a fatti in cui essi furono protagonisti:

«c'era anche Lovati, lui, in qualche modo, ha fatto sapere che io ero pittore ed in aprile mi hanno mandato al blocco 17, dove c'erano altri pittori, francesi, jugoslavi, cecoslovacchi, russi, spagnoli....»[10]

« 20/2/1945 - Penso però talvolta a un viaggio in Spagna con te, Maria (la moglie), per vedere Goya, Velazquez, il Greco e per conoscere da vicino gli spagnoli.

Qui ce ne sono molti: hanno caratteri vivaci e, in sostanza, buoni. Sono piacevoli, fantasiosi, vibranti. Rivedo in loro i tipi dipinti da quei tre grandi pittori, anche il tipo del Greco a viso lungo e sottile. Noi italiani, non subito, ma dopo qualche tempo ci siamo compresi con gli spagnoli, e ora ci stimiamo e ci rispettiamo di più».[11]

« 6/3/1945 - Quando nel giugno 1944 è avvenuto lo sbarco degli Alleati in Normandia, c'è stato un certo movimento specialmente nei blocchi degli spagnoli, un momento allegro, diciamo così, che è durato parecchio tempo.

Devo dire che questa volta mentre gli spagnoli si agitavano, le S.S. non sono intervenute come erano abituate a fare. Forse anche loro erano rimaste sorprese, spaventate dallo sbarco».[12]

« 18/3/1945 - Mi ricordo che uno spagnolo, che si chiamava José Purg ed era addetto al forno dell'ospedale, non al forno crematorio - ce li indicava (gli ebrei) dicendo: Alles kaputt. Per fortuna non sono poi tutti morti».[13]

« 10/5/1945 - Mi ricordo che il mio compagno spagnolo Corteyoso y Rodriguez aveva gridato ai miei compagni, che non mi aiutavano, che mi dessero le medicine».[14]

« 31/5/1945 - Partono i cecoslovacchi, gli ungheresi e gli ultimi francesi malati; spagnoli, italiani, polacchi sono ancora qui».[15]

 

Molto più articolata la testimonianza di Vincenzo Pappalettera che in Tu passerai per il camino descrisse la vita del campo partendo dal momento della sua liberazione da parte della 71ª Divisione della III armata americana il 4 maggio 1945.

«America! Americani! E' l'esclamazione urlata, gridata, è il gemito, il lamento di migliaia di deportati: ciò che le residue forze di ognuno, chiamate a raccolta dalla gioia della libertà, riescono ad emettere.

Amerikansky, americains, americanos, amerikai: russi, polacchi, francesi, spagnoli, ungheresi, ebrei, zingari, fiamminghi, jugoslavi, cecoslovacchi, romeni, greci e italiani esprimono la medesima emozione per la conclusione del tragico dilemma che ci opprimeva durante le interminabili ultime settimane: uccisi o liberati».[16]

«Un gruppo è affaccendato ad abbattere i simboli dei nostri persecutori: l'enorme aquila nera che si aggrappa alla croce uncinata.

 

Al suo posto gli spagnoli sono stati pronti ad esporre una gran fascia bianca, con scritto:

 

Los españoles antifascistas saludan a las forzas de liberación»[17]

 

«La squadra per le cucine è composta di venti uomini: spagnoli, cecoslovacchi, russi, jugoslavi e due italiani, Lodigiani e io.

.....Questi cibi non sono certo sufficienti né per quantità né per qualità, a ridare forza ad uomini denutriti, malati e morenti. Non resta che requisire con le buone o con le cattive il bestiame che si troverà nelle cascine circostanti. Il compito viene affidato ad una squadra di spagnoli. Dopo ore convulse piene d’ordini gridati in tedesco, russo e spagnolo il miracolo è compiuto. La prima zuppa è organizzata quando la luce del nuovo giorno illumina il lager».[18]

«Un urlo prolungato risponde all'annuncio che una pattuglia di spagnoli rientra con un bottino cospicuo: hanno scovato tredici Kapos».[19]

«Rientra una pattuglia che riporta un ex deportato spagnolo caduto in combattimento. Si chiamava Badia. Difendeva il ponte sul Danubio: un reparto di S. S. voleva attraversarlo, ma è stato respinto. I pochi spagnoli sopravvissuti sono tra i più attivi. Esperti nella guerra, con le armi tolte alle guardie hanno organizzato subito la ricerca dei persecutori, il controllo e la difesa della zona. Sono ex combattenti repubblicani della guerra di Spagna. La Gestapo ne ha catturati in Francia quindicimila. Erano raccolti nei vari campi di concentramento da quando nel 1939 la caduta della repubblica li aveva costretti ad espatriare. Soltanto duecento sono rimasti in vita a vendicare i morti. La rabbia della sconfitta, le umiliazioni dell'esilio, le sofferenze della lunga deportazione hanno acuito il loro desiderio di combattere ancora il fascismo».[20]

«Arrivo così al gran magazzino di patate. Dobbiamo sbucciarle; le S. S. mangiano le patate pulite, le bucce sono un privilegio riservato al personale fisso delle cucine. Le patate crude sono disgustose anche per chi ha molta fame. Impreco mentre le mastico, in tedesco e in russo. Uno spagnolo sorride vedendo le mie smorfie di disgusto. Si avvicina e mi dice: vieni con me, italiano. I suoi modi mi rassicurano, non vuol farmi del male, mi ha trattato con rispetto, italiano mi ha chiamato, non macaroni o badoglio. D'altronde gli spagnoli non fanno male a nessuno.

Duilio, così dice di chiamarsi, mi accompagna in uno sgabuzzino dove, sopra un armadietto, raggiunge, salendo su uno sgabello, una ciotola piena di candida purea. ....Duilio è gentile, lo guardo negli occhi grato e per scoprire perché è stato tanto generoso proprio con me. Seduto vicino a lui divento loquace. Sottovoce Duilio m’infonde coraggio dicendomi:

- Il nazismo è kaputt - poi aggiunge ammiccando - gli americani sono oltre Passau ed i russi a St. Poelten.

Sorride ancora mentre mi dice: l'Italia è libera. Gli Alleati sono a Bologna. Ancora pochi giorni poi saremo liberi.

- Torneremo a casa. Da quanto tempo manchi, Duilio?

- Dal 1938 non dormo nel mio letto - mi risponde diventando cupo.

- Hai famiglia? - gli chiedo.

- L'avevo, ora non è più. - mi risponde pensoso.

- Sono morti? Uccisi?

La risposta tarda a venire. Poi tutto d'un fiato:

- No, mia moglie e i miei figli sono vivi. Mia moglie si credeva vedova e si è risposata. Ha avuto un terzo bimbo!.

Duilio tace, il suo respiro diviene affannoso, sofferente. Prosegue:

- Devi sapere, Vicente, che un giorno è arrivato a Mauthausen, un compagno spagnolo catturato in Francia nel 1943. Tutti mi ritenevano morto. Mia moglie ha ricevuto un messaggio nel 1941 che l'informava dell'avvenuta mia fine.

Sembra che da qui uscirò vivo. Che dovrò fare poi? Sparire, non fare sapere che sono vivo? No. Voglio rivedere i miei bambini. Saranno grandi ormai. D'altra parte il mio ritorno creerà a gente tranquilla un cataclisma. Debbo evitarlo?

Un nodo alla gola gli impedisce di aggiungere altre cose che ha bisogno di confidare».[21]

«La cava di pietra con la quale è costruita la fortezza nostra prigione è la cantera forse perché i primi ad esserne inghiottiti sono stati gli spagnoli.[22]

Duilio mi accompagna laggiù, vuole che veda cosa significava lavorarci.

La cantera è una profonda voragine aperta nel fondo di una valletta e per arrivarci bisogna andar giù dalla collina lungo un ripido pendio per circa cinquecento metri, poi scendere tutti quei gradini che sembra non finiscano mai, tanti sono. In fondo al burrone provo un senso di smarrimento; so che in questo squallido luogo sono stati perpetrati migliaia d’efferati omicidi.

Alzo lo sguardo e vedo poco cielo e lontano, al di sopra delle alte pareti di pietra grigia che circondano il baratro.

- Prova, Vicente - mi dice Duilio - scegli una pietra, mettila in spalla.

Con il suo aiuto mi carico con fatica di una pesante pietra, pronto all'esperimento.

.- Pesa, Vicente, vero? eppure questa era certamente considerata piccola e quindi ti trasformavano in paracadutista.

Mi aiuta a liberarmi dal peso, poi mi spiega che dopo aver salito i centottantasei gradini, allora ognuno di differente altezza e posizione, si doveva percorrere il sentiero che rasenta per un tratto il precipizio formato dalla cava stessa. Chiamavano quel tratto il "muro dei paracadutisti", perché vi era un kapò a controllare la grandezza delle pietre e quando ne giudicava una troppo piccola, spingeva il disgraziato nel burrone.

........Bisognava ripetere il percorso sei volte il giorno, ciò significava cinquantaquattro piani con una pietra in spalla, oltre al restante percorso in salita per raggiungere il campo e tutto sotto i colpi di frusta dei Kapos.

Duilio ha sommato gradini per cinque mesi; ha visto morire migliaia di suoi compatrioti, quasi la totalità dei deportati repubblicani sopravvissuti alla guerra di Spagna».[23]

«Il Comitato di Liberazione Internazionale, il 5 maggio 1945, prese possesso degli uffici della Kommandantur, da dove diresse la riorganizzazione della vita civile.

Ecco i nomi dei rappresentanti delle varie nazionalità:

- Presidente Heinrich Durmayer, austriaco,

-          Comandante dei Reparti Armati o Polizia Internazionale: Manuel Razola, spagnolo».[24]

-          «Un gruppo di spagnoli si è stabilito in Austria, un altro in Francia, hanno creato famiglie austriache o francesi. In Spagna c'è ancora Franco e quindi non sono potuti rimpatriare».[25]

 

La testimonianza di Piero Caleffi ne Si fa presto a dire fame riguarda uno spagnolo divenuto vice capo-blocco:

«E' un giovane spagnolo, di Barcellona. E' uno dei superstiti - ci dice poi egli stesso - di dodicimila miliziani spagnoli, combattenti dell'esercito repubblicano, riparati in Francia dopo la vittoria fascista, raccolti in un campo di concentramento, e nel 1940, invasa la Francia, trasferiti dalla Gestapo a Mauthausen. Ora sono rimasti in poche centinaia, e i sopravvissuti sono riusciti ad intrufolarsi nelle <gerarchie> del campo e a sopravvivere. E' lo spagnolo che mantiene la disciplina tra noi».[26]

Descrive come questo disgraziato alterni momenti di rigido rispetto della dura disciplina del campo con altri in cui solidarizza con i deportati. E' riuscito ad entrare nell'organizzazione del campo che le SS affidavano agli stessi internati, perlopiù delinquenti comuni e difendeva il suo privilegio col massimo zelo e quindi con la massima crudeltà

«L'appello è finito. Lo spagnolo -< Raus!, raus! > - ci fa uscire all'aperto. Durante la notte è caduta altra neve. Quel tipo di fa correre su e giù per il cortile antistante il blocco. .......Non deve essere un cattivo diavolo. In un linguaggio colorito misto di spagnolo, italiano, tedesco ci fa un lungo discorso. Vuol dirci insomma che Mauthausen è terribile, che non ci facciamo illusioni, che il Krematorium ci aspetta se non righiamo diritto. Ci descrive quel che era il campo fino a pochi mesi prima, gli stermini degli spagnoli, e degli ebrei».[27]

 

Le peripezie di un partigiano spagnolo combattente della Resistenza francese, catturato nel 1943 dai tedeschi e deportato a Buchenwald, furono narrate da Jorge Semprun ne Il grande viaggio. Figlio di un diplomatico della Repubblica aveva quattordici anni, quando all'epoca della conquista franchista dei Paesi Baschi (ottobre 1937), si rifugiò in Francia arrivando a Bayonne su un peschereccio. Date le possibilità della sua famiglia non fu rimpatriato né visse l'esperienza dei campi d’internamento francesi. Proseguì gli studi e si iscrisse alla Sorbona, quindi aderì alla Resistenza in un maquis della Borgogna, dove fu catturato dai tedeschi, portato nel carcere di Auxerre, quindi messo su un vagone merci e mandato in Germania.

Sopravvissuto a due anni di prigionia ripercorse le sue esperienze di profugo spagnolo dall'arrivo in Francia sino al ritorno dalla Germania.

«Un inverno, mi ricordo, qualche anno fa, aspettavo in uno stanzone della questura. Venivo per il rinnovo del mio permesso di soggiorno, e lo stanzone era pieno di stranieri, venuti come me per la stessa cosa, o per qualcosa di analogo.

Facevo la fila, era una lunga fila davanti ad un tavolo che era all'estremità della sala. Al tavolo, c'era un ometto con una sigaretta che si spegneva continuamente. L'ometto guardava i documenti delle persone, o le loro convocazioni, per dirigerle a quello o a quell'altro sportello. A volte, le mandava via, semplicemente con alte grida. ......

Ero affascinato dallo spettacolo dell'ometto. Non ho neppure trovato il tempo troppo lungo. Alla fine, è venuto il mio turno e mi sono trovato davanti al tavolino, all'ometto con la cicca che si era appena spenta, di nuovo. Prende il mio permesso di soggiorno e lo agita, con un'aria disgustata, fucilandomi con lo sguardo. Io non batto ciglio, lo guardo fisso, quest'uomo mi affascina.

Posa il permesso sul tavolo, riaccende la cicca e guarda il permesso:

- Ah, ah, - dice con voce tonante - un rosso spagnolo.

Sembra pazzo di gioia. Dev'essere molto tempo che non gli è capitato un rosso spagnolo da mettere sotto i denti.

Questo mi fa ricordare vagamente il porto di Bayonne, l'arrivo del peschereccio nel porto di Bayonne. Il peschereccio aveva attraccato vicino alla piazza centrale, c'erano aiuole fiorite, villeggianti. Noi guardavamo quelle immagini della vita di prima. E' stato a Bayonne che per la prima volta ho sentito dire che eravamo rossi spagnoli.......... Il giorno dopo, ho avuto la mia seconda sorpresa quando abbiamo letto in un giornale che c'erano i rossi e i nazionali. Perché fossero nazionali, anche se facevano la guerra con truppe marocchine, la legione straniera, gli aerei tedeschi e le divisioni del Littorio, non era facile capirlo. Ma a Bayonne, sulla banchina, sono diventato rosso spagnolo. .......

Poi, non ho più smesso di essere un rosso spagnolo. E' un modo d’essere valido dappertutto. Così al campo ero un Rotspanie". Guardavo gli alberi ed ero contento di essere un rosso spagnolo». [28]

«...e ho portato, non una stella ma un triangolo rosso, con la punta rivolta verso il basso, verso il cuore, il mio triangolo rosso di rosso spagnolo, con una S sopra......»[29]. (il triangolo rosso contraddistingueva i deportati per ragioni politiche, la nazionalità era espressa dalla lettera, a Mauthausen invece gli spagnoli portavano un triangolo blu, come apolidi).

«Era l'11 aprile 1945, a mezzogiorno abbiamo attaccato un nucleo di S.S. che ripiegava. Avanzavamo nel mezzo della strada, noi spagnoli, con un gruppo di Panzerfaust e un gruppo di armi automatiche. I francesi a sinistra e i russi a destra. Le S.S. avevano un mezzo cingolato e stavano inoltrandosi nel bosco da un sentiero. Abbiamo sentito, a destra, gridare degli ordini e poi, per tre volte consecutive, un lungo hurrà. I russi caricavano le S. S. con bombe a mano e all'arma bianca. Noi altri, francesi e spagnoli, ci siamo mossi per aggirare le S. S. e superarle. Ne è seguita quella cosa confusa che è un combattimento. Il mezzo cingolato era in fiamme e improvvisamente si è fatto un grande silenzio. Era finita, quella cosa confusa che si chiama combattimento era finita».[30]

«Siamo a Longuyon, nel campo di rimpatrio. ......Ero con Haroux, un francese, siamo entrati nella baracca dell'Amministrazione e, grazie al vincolo del giuramento, abbiamo avuto i documenti di riconoscimento provvisori. Ci ritroviamo in fondo alla fila davanti ad una donna giovane e bionda, in camice bianco, che prende la scheda di Haroux e ci scrive sopra qualche cosa. Poi, dà a Haroux un biglietto di mille franchi ed otto pacchetti di Gauloises. Perché è lei che è predisposta ai premi di rimpatrio. Poi prende la mia scheda e la mia carta d'identità provvisoria. Segna qualche cosa sulla scheda e allinea sul tavolo gli otto pacchetti di Gauloises. Comincio a mettermeli in tasca, ma ce ne sono troppi, devo tenerne la metà in mano. Poi, mi dà il biglietto di mille franchi. La donna bionda getta un'occhiata sulla mia carta d'identità, nel momento in cui stava per restituirmela.

- Oh, - dice - ma lei non è francese!

- La Francia è la mia patria d'adozione, a quanto pare, ma veramente non sono francese.

- Che cosa è? - chiede.

- Lo vede, sono un profugo spagnolo.

- Ma è una cosa seria, signore - dice lei, con un tono burocratico - vede è per via del premio di rimpatrio. Solo i cittadini francesi vi hanno diritto.

Ne segue una vivace discussione tra me, Haroux e l'impiegata, che richiama l'attenzione del capo sezione. Questi burocraticamente spiega le disposizioni dell'Amministrazione, non interessa che abbia fatto la Resistenza, abbia combattuto contro i nemici della Francia, sia stato internato per questo. Non sono cittadino francese, quindi non ho diritto al premio di rimpatrio, praticamente non sono un rimpatriato.

- Restituisco il biglietto di mille franchi cui non ho diritto.

- E le sigarette? - dice la donna bionda.

Il problema delle sigarette, improvvisamente ricordato, fa sgranare gli occhi al caposezione in doppiopetto.

- Le sigarette, - ripete.

Haroux, gli cascano le braccia, non sa più che dire.

Ma il caposezione ha preso una decisione rapida e coraggiosa.

- Evidentemente, - dice - secondo la lettera della circolare, le sigarette e l'acconto di mille franchi non sono frazionabili. Ma penso che rimarremo fedeli allo spirito della circolare, lasciando al signore le sigarette. A meno che il signore non sia fumatore?

- Eh bé, - ritorco - sono piuttosto fumatore.

- Allora si tenga le sigarette, - dice lui - se le tenga. Lo spirito della circolare lo autorizza a farlo. Haroux guarda a destra e a sinistra, nel vuoto. Cerca di ritrovare lo spirito della circolare, forse......Camminiamo nel gran viale del campo di rimpatrio. Ma il fatto è che io non sono rimpatriato, ne sono quasi riconoscente alla donna bionda, di avermelo ricordato. Arrivo da un paese straniero in un altro paese straniero. Cioè, sono io che sono uno straniero. Sono quasi contento». [31]

 

L'ultima testimonianza della tragica esperienza dei campi di sterminio nazisti è tratta dal libro Ces Femmes Espanoles de la Résistance à la Déportation con il sottotitolo Témoignages vivants de Barcellone à Ravensbruck in cui una donna spagnola - Neus Català - raccolse i ricordi di cinquantasette donne spagnole che parteciparono alla Resistenza francese, delle quali quindici deportate in Germania

La testimonianza dell'autrice del libro ripercorre per intero il dramma della fine della Repubblica spagnola, l'espatrio, l'internamento in Francia, le umiliazioni, la partecipazione alla Resistenza, la cattura, le torture e infine la deportazione.

«Ciò che io ho vissuto, ciò che io ho sofferto, io l'ho cercato».

Queste parole si ripeté durante il viaggio di cinque giorni e cinque notti interminabili da Compiègne, campo d'internamento a nord di Parigi, a Ravensbruck, campo di concentramento per donne a nord di Berlino.

Ravensbruck, duemilacinquecento chilometri di distanza dalla sua terra natale del Priorat in Catalogna, rappresentò l'esperienza più tragica della sua vita dal colpo di stato del 18 luglio 1936.

Faceva parte del convoglio 27.000, che partito il 29 gennaio 1944 arrivò a destinazione il 3 febbraio 1944 alle tre del mattino con una temperatura di 22 gradi sotto zero, comprendeva circa mille donne provenienti da tutta la Francia, di cui diverse cecoslovacche, polacche e spagnole.

L'allucinante arrivo nella notte gelida sotto la luce dei riflettori, i colpi delle S. S., i latrati dei cani, le baracche, l'odore nauseabondo che veniva dai forni crematori. Poi tutta l'inumana vita dei campi: la svestizione, la visita umiliante, la divisa, la matricola (n° 27.534) tatuata sull'avambraccio, gli appelli, il cibo insufficiente, la mancanza d’igiene ed intimità, il lavoro nelle officine dell’I.G. Farben, Thyssen, Siemens, e la paura.....

La rabbia di portare sulla divisa il triangolo rosso dei deportati politici con la lettera "F" come Francia disconoscendo così la loro nazionalità spagnola.

Ma in quest’inferno nacque la solidarietà tra detenute d’ogni nazionalità e ogni ordine sociale (tra loro vi era Geneviéve De Gaulle, nipote del generale), le piccole attenzioni che potevano salvare una vita, la disperazione per un'amica che non ce l’aveva fatta.

Il trasferimento all'approssimarsi dell'armata Rossa fino a Holleischen nella Boemia-Moravia dopo quattro giorni di viaggio allucinante ed infine la liberazione il 5 maggio 1945 da parte delle truppe americane.[32]

Sullo stesso metro le testimonianze delle altre quattordici donne intervistate (furono circa quattrocento le spagnole, provenienti da venticinque dipartimenti, deportate però registrate dai tedeschi come francesi).[33]

 

 

LAVORO OBBLIGATORIO

 

 

L'esigenza di fortificare le coste dell'Atlantico ed il richiamo alle armi di altre classi nell'imminenza della guerra contro l'Unione Sovietica determinò per la Germania la necessità di intensificare il prelievo di lavoratori dai paesi occupati. Questa fu una delle più difficili pretese che le autorità collaborazioniste francesi dovettero affrontare.

I tedeschi, avendo stabilito il fermo dell'industria bellica francese puntavano ad impadronirsi della sua mano d'opera specializzata nonché di quanti con la legge 27 settembre 1940 erano stati inquadrati nei G.T.E. che erano nella zona libera. Essi da parte loro avevano già avviato al lavoro forzato quanti delle disciolte C.T.E. si trovavano nella zona occupata. Per soddisfare queste richieste, oltre ai citati G.T.E., furono requisiti i membri dei Cantieri della Gioventù, che erano sorti nel luglio 1940 per impiegare centomila giovani che richiamati alle armi con il sopraggiungere dell'armistizio non era stato possibile istruire, armare ed inquadrare e che bighellonavano nei centri di raccolta. La finalità di questi Cantieri della Gioventù era di impiegare questa massa d’inattivi in lavori utili alla comunità nazionale e nello stesso tempo temprarla alle idee della Francia Immortale, proprie del vincitore di Verdun.

L'incarico della loro organizzazione fu affidato al generale De la Pourte du Theil, comandante della VII Armata, che utilizzando ufficiali, sottufficiali e soldati alle sue dipendenze diede il via al progetto. Figlio di un ingegnere delle Acque e Foreste, ritenendo che la vita all'aperto fosse la più sana, la più semplice e la più adatta ai giovani, istituì dei cantieri in tutte le foreste della zona libera sul fianco delle montagne. La sveglia era data alle sei del mattino, dopo la toilette personale, il saluto alla bandiera e la colazione i giovani passavano la mattinata nella sistemazione dei campi; nel pomeriggio abbattevano gli alberi che nel frattempo erano stati selezionati e da cui ricavano legna da ardere e carbone di legna. Altri erano impiegati in lavori agricoli nelle fattorie private specie quando era il periodo della raccolta dell'uva e della frutta. Alla sera seguivano poi delle conferenze in cui discutevano del progetto di una rivoluzione ideale basata sulla fraternità delle classi sociali, lontana dall'influenza del nazismo e del comunismo.[34]

 

Nel giugno del 1942 fu sollevato, da parte francese, il problema del milione e mezzo di prigionieri di guerra, che si trovavano sempre in mani tedesche. All'atto dell'armistizio si era, infatti, convenuto che essi sarebbero stati liberati con la firma del trattato di pace. All'epoca la norma non aveva suscitato particolari eccezioni perché, secondo quanto credeva Pétain, la Gran Bretagna sarebbe stata sconfitta nel giro di poche settimane, la guerra sarebbe finita, la pace conclusa e i prigionieri francesi sarebbero ritornati a casa. Ma le cose andarono diversamente, l'Inghilterra fece fronte da sola ai tedeschi, sopportò, combatté e vinse la battaglia aerea che avrebbe dovuto prima fiaccarne il morale e poi favorire l'invasione dell'isola; mentre il generale De Gaulle, superate le prime delusioni, riuscì ad aggregare attorno alla sua persona la Francia che non si riconosceva vinta. L'anno seguente fu decisivo per le sorti del conflitto, infatti, Hitler il 22 giugno iniziava l'invasione dell'U.R.S.S. e il 7 dicembre il Giappone attaccava gli Stati Uniti dando così al conflitto un carattere di guerra totale che allontanava ogni speranza di pace procrastinando il ritorno a casa dei prigionieri.

 

Il 16 giugno 1942 fu stipulato tra il gauleiter Sauckel, rappresentante di Hitler in Francia ed il Primo Ministro Laval il seguente accordo, che andò sotto il nome di Relève (scambio) : per ogni tre lavoratori inviati in Germania sarà rimpatriato un prigioniero di guerra.[35]

Erano due le esigenze cui i tedeschi dovevano contemporaneamente far fronte:

-          i lavori per la costruzione di fortificazioni atte a contrastare un eventuale sbarco alleato sulle coste francesi o di supporto alle installazioni militari (riparazioni d’aerodromi, porti, linee ferroviarie, strade, ecc. danneggiati dai bombardamenti aerei), cui provvedeva l’Organizzazione Todt, e

-          l'impiego in Germania nelle industrie belliche in sostituzione dei tedeschi richiamati sotto le armi.

 

L’ Organizzazione Todt prendeva il nome dell'ingegnere tedesco che l'aveva creata fin dal 1933 per combattere la disoccupazione in Germania. Aveva dapprima costruito grandi opere pubbliche (rete d’autostrade), poi la linea di fortificazioni Sigfrido sul confine francese - in cui erano stati impiegati fino a trecentoventimila uomini - ora, come detto, doveva innalzare il cosiddetto Vallo Atlantico, un'opera immensa difensiva che partendo dai Paesi Bassi arrivava fino a Bordeaux. Comprendeva oltre a trincee, fortini, installazioni di batterie d’artiglieria anche basi per sottomarini che operavano nell'Atlantico contro i convogli provenienti dall'America e diretti in Inghilterra. Nell'aprile del 1941 reclutò 217.000 lavoratori, nell'agosto dello stesso anno 450.000 fino ad un massimo di 558.000 nel 1944.[36]

A Bordeaux su cinquemila stranieri che costruivano le basi di sottomarini, tremila erano spagnoli, complessivamente saranno quindicimila gli spagnoli impiegati nei diversi cantieri del Vallo Atlantico. Di tutti i lavoratori al servizio dell'occupante quelli dell'Organizzazione Todt erano quelli soggetti alle condizioni peggiori. Di più , per ironia della sorte, essi rischiavano di essere uccisi dai ripetuti bombardamenti della R.A.F. I lavori proseguivano senza soste: due squadre si davano il cambio ogni dodici ore (équipe del giorno dalle 6 alle 18, èquipe della notte dalle 18 alle 6) alternandosi una settimana di giorno e una settimana di notte. Sottoposti ad una disciplina militare erano alloggiati nella caserma Neil o nel campo di Saint-Medard a dodici chilometri da Bordeaux ed erano accompagnati al lavoro da soldati tedeschi e soggetti ad appelli ripetuti. I loro documenti erano stati ritirati e sostituiti da un ausweis numerato, specie di carta d’identità provvista di fotografia, la cui validità era rinnovata di mese in mese con un apposito timbro. Erano redatti in tre lingue (tedesco, francese, spagnolo) e portavano la dicitura: «Il titolare del presente salvacondotto è autorizzato ad entrare liberamente nei cantieri dell'Organizzazione Todt. Per essere valido deve essere provvisto, oltre della fotografia, del timbro mensile di controllo. Una volta che il contratto di lavoro sia terminato, questo ausweis dovrà essere obbligatoriamente reso, l'utilizzo di salvacondotto privo dei requisiti previsti comporterà l'arresto immediato».[37]

Faceva opera di reclutamento nei dipartimenti della Gironda un certo José María Otto, nato a Barcellona da genitori tedeschi, che all'epoca dell' Alzamiento era emtrato nelle Milizie Popolari, per poi arruolarsi alla loro costituzione nelle Brigate Internazionali. Con la Retirada si era rifugiato in Francia e aveva condiviso la vita dei campi di concentramento con gli altri profughi, ma qui era entrato in contatto con la Gestapo rivelato la sua vera identità di nazista fino allora mascherato.

L'autorità hitleriana gli appunto affidò il compito di reclutare la mano d'opera per il Reich. Otto divenne uno dei capi dell'Organizzazione Todt e si attorniò di alcuni rifugiati spagnoli che volevano godere dei privilegi che la posizione offriva. S’installò nella caserma Niel di Bordeaux e giornalmente visitava i campi o le C.T.E. per cercare di sfruttare il malcontento dei rifugiati. Egli qui si lanciava in invettive contro la Francia che secondo lui «sfrutta, ..... e maltratta gli spagnoli». Aggiungeva che solo la grande Germania vittoriosa, alla quale nessuno può resistere, quella che forgia con il suo sacrificio il futuro d'Europa avrebbe potuto restituire la libertà agli spagnoli. Alcuni esiliati si lasciarono sedurre dal messaggio nazista dimenticando che era meglio essere perseguitati dagli sbirri di Pétain piuttosto che essere collaboratori di Hitler. Otto impiegò migliaia di spagnoli nei lavori di fortificazione del Vallo Atlantico e fece deportare tutti quelli che non accettarono le sue proposte, mentre fu generoso con quanti lo servirono permettendo loro libera circolazione e tolleranza nell'esercizio del mercato nero. Questi individui forti della protezione tedesca ebbero un comportamento deplorevole verso la popolazione di Bordeaux tanto che arrivarono ad organizzare delle squadre per espellere e picchiare quanti trovavano nei bar, caffè o altri luoghi pubblici della città. La Resistenza della Gironda li definì: «il secondo Corpo d’occupazione». Al momento della Liberazione Otto con una parte dei suoi rinnegati ottenne, tramite l'appoggio tedesco, un salvacondotto per la Spagna cosicché egli sfuggì alla resa dei conti e alla condanna a morte per collaborazione e crimini perpetrati al servizio della Germania nazista. Quelli che non riuscirono a fuggire pagarono per tutti.[38]

 

 

La legge del 4 settembre 1942 relativa all'organizzazione del lavoro stabiliva: «Tutti gli uomini da 18 a 55 anni, tutte le donne da 21 a 35 anni, possono essere assoggettati ad effettuare i lavori che il governo giudicherà utili nel superiore interesse della nazione». Oltre alla carta d’identità, alla carta annonaria gli interessati sono dotati di una carta di lavoro.[39]

Qualche mese più tardi, la legge del 15 febbraio 1943, istituì il Service du Travail Obligatoire - S.T.O. che dal settembre fu esteso anche alle donne. La temuta convocazione precisava:

«Oggetto: Assegnazione al Servizio di Lavoro obbligatorio.

Ho l'onore di informarvi che la Commissione franco-tedesca, incaricata di assegnare i giovani designati per il S.T.O., vi ha designato per andare a lavorare nell'Organizzazione Todt (o in Germania).Di conseguenza, secondo le istruzioni della Feldkommandantur, ho il piacere di invitarvi a presentarvi all'Agenzia di Collocamento tedesca, via..... il............, alle ore....., per prendere conoscenza delle condizioni di lavoro oltre che della data e dell'ora di partenza.

Vi preciso che la mancata esecuzione da parte vostra di quest'ordine d’assegnazione è soggetta alle pene previste dalla legge 15 febbraio 1943».

Le autorità amministrative francesi si sforzarono di ostacolare le richieste tedesche che disorganizzavano la vita sociale, rovinavano la produzione, mettevano a rischio l'agricoltura. I medici cercarono di esonerare quanti più potevano, molti furono arruolati nei corpi esentati dalla chiamata come polizia, vigili del fuoco, ferrovie o nella Todt, che almeno lavoravano in territorio francese. Molti s’iscrissero all'Università, altri s’impiegarono in fattorie agricole, o anche in miniere... o si arruolarono nel servizio di sorveglianza di strade, ponti e ferrovie, per evitare eventuali sabotaggi da parte dei partigiani. Ma si trattava di una guardia proforma infatti appena si profilava un intervento dei resistenti contro l'installazione controllata erano pronti ad unirsi a loro e a darsi alla macchia.[40]

Ma tutti questi esoneri, anche se corredati da un crisma di regolarità, non fecero che irritare le autorità d’occupazione che aumentarono la pressione sul governo francese, quasi ormai privo d’ogni autorità, dopo che i tedeschi avevano occupato in seguito agli sbarchi americani nel Nord Africa del novembre 1942, anche la zona libera e dopo l’8 settembre 1943 la parte della Francia prima controllata dagli italiani.

 

Il governo collaborazionista chiuse 1.400 imprese e ne licenziò le maestranze che pose a disposizione dei tedeschi. I direttori delle fabbriche furono invitati a consigliare gli operai senza lavoro di andare volontariamente in Germania dove avrebbero percepito paghe più alte. Alla fine dell'ottobre 1943 la relève aveva portato in Germania 670.000 lavoratori contro il rientro di 110.000 prigionieri, ma il gauleiter Sauckel pretese per la fine dell'anno un milione d’uomini per l'economia di guerra tedesca in Francia e mezzo milione da inviare in Germania.[41]

Da Vichy, l'Occupation Nazie et la Résistance Catalane - Chronologie des années noires (1939/1944) pubblicato dal Centro di ricerche e studi catalani dell'Università di Perpignan, che riporta tutti i fatti avvenuti sotto il regime di Vichy, si può rilevare che le partenze, dapprima volontarie, divennero con il passare del tempo sempre più costrittive:

« 29/6/1942 - 24 uomini volontari partono per la Germania au titre de la relève.

6/7/1942 - 24 idem 13/7 - 39 idem 2/7 - 33 idem 29/7 - 43 idem

11/8/1942 - arrivo a Compiègne del primo convoglio di prigionieri liberati

23/9/1942 - appaiono i primi manifesti contrari allo scambio.

Alla fine dell'anno trapelano le prime notizie di refractaires, vale a dire di precettati, che avevano tentato l'espatrio in Spagna ma che erano stati arrestati e riconsegnati dalle autorità franchiste o d’imboscati in Francia che erano stati scoperti. Essi divenivano requis.

La composizione dei gruppi in partenza per la Germania da allora variò:

23/2/1943 - 45 lavoratori di cui 37 requis sono diretti in Germania

2/3/1943 - 62 lavoratori di cui 53 requis

9/3/1943 - 414 lavoratori di cui 396 requis

13/3/1943 - 101 lavoratori di cui 95 requis,

e così via diminuendo fino a cessare quasi del tutto nel 1944».[42]

 

Le cattive notizie, che filtravano attraverso la censura, circa la pericolosità della vita nel Reich e la propaganda della radio inglese e dei giornali clandestini, che ripetevano slogan quali:

«Un uomo che parte è un ostaggio nelle mani del nemico, un uomo nel maquis è un soldato contro il nemico. Se non volete subire angherie né morire sotto le bombe inglesi non partite per la Germania», indussero molti a non rispondere alle chiamate e a darsi alla macchia. La repressione tedesca fu come sempre dura e non fece che accentuare l'ostilità della popolazione nei confronti dell'occupante e dei collaborazionisti. Vi furono manifestazioni di protesta alla partenza dei treni per la Germania, i canti della Marsigliese e dell'Internazionale, le lacrime dei familiari, i pugni levati, le scritte con il gesso sulle porte dei vagoni: Laval assassino, Laval al muro, viva De Gaulle. A Montlucon i precettati fuggirono dal treno, protetti dalla folla e dai ferrovieri che ne avevano ritardata la partenza. A Lione nel marzo 1943 le proteste furono così violente che la polizia vietò l'accesso alla stazione dei familiari. La misura fu presto generalizzata, infatti, il Ministero degli Interni inviò a tutti i prefetti un telegramma che prescriveva: «Vietare accesso stazioni e luoghi limitrofi al pubblico e alle famiglie al momento partenza o passaggio treni scambio».

D'altronde lo stesso governo francese si trovò in difficoltà perché questi continui prelievi di mano d'opera mettevano in crisi le attività francesi anche quelle di necessità quotidiana, come ad esempio nel comune di Vrigny (Loiret) dove mancava il pane, poiché l'unico panettiere era stato precettato. Il sindaco si lamentò con la Prefettura, così come i comuni di Dommarie sur Loing e di Courtenay dove erano partiti il maniscalco ed il salumiere.[43]

Alla lunga il Servizio di Lavoro Obbligatorio divenne il principale fornitore del Maquis e in questo scenario i profughi spagnoli ebbero una parte decisiva, infatti, grazie ad una complessa rete di contatti che si estendeva su tutta la Francia, provvedevano a prendere in carico i fuggitivi e a condurli in un luogo sicuro. Tuttavia si calcola che circa 48.000 spagnoli non riuscirono ad evitare il trasferimento forzoso a lavorare nelle industrie tedesche.

 

A dimostrazione che anche a livello internazionale la situazione si stava evolvendo a favore degli Alleati all'inizio del 1944 i consolati spagnoli del Sud-Ovest (Montpellier, Tolosa e Perpignan) incitarono gli spagnoli a rifiutare di firmare contratti di lavoro con le autorità tedesche. Fu loro proposto di sottoscrivere con urgenza un certificato di nazionalità che dimostrava che il titolare «gode della protezione dello Stato spagnolo e, per conseguenza, è esente da qualsiasi precettazione o richiesta di prestazione personale». Un accordo franco-spagnolo del 25 febbraio 1944, notificato alle autorità tedesche il 17 marzo 1944, stabiliva che i mobilitati avanti tale data (25/2) potevano proseguire nel lavoro attuale, quelli titolari di un certificato posteriore a tale data non potevano in ogni caso essere precettati per lavorare in un'impresa che lavorasse direttamente per l'esercito tedesco.[44]

 

Mentre questo avveniva il movimento di Resistenza si era messo in moto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 


 

X II I

 

LA RESISTENZA

 

 

 

 

Ils ont dormi dans le sable

Ils ont crevé sur nos plages

Entre les vagues inlassables

Et les piquants des grillages

Eux qui n'avaient plus de terre.

Orphelins sans étendard.

Ils ont compris votre guerre

Il se sont faits maquisards

Espagnol, Espagnol.

 

Antoine Candelas

 

 

 

 

 

 

 

 

PASSEURS D'HOMMES

 

 

L'inizio della Resistenza in Francia non coincise con la firma dell'armistizio, infatti, il governo Pétain rappresentò per la maggioranza dei Francesi la prosecuzione del governo legittimo, che vista l'impossibilità di contrastare lo strapotere militare tedesco aveva preferito scegliere il male minore. Il messaggio di De Gaulle non suscitò l’immediato nascere d’iniziative volte a contrastare l'occupante, che per il momento non aveva ancora mostrato il suo aspetto peggiore. Restava cocente la delusione della sconfitta, ma il ricordo delle stragi della prima guerra mondiale e una certa acquiescenza della destra, rese accettabile lo status quo.

Prima della lotta armata si sviluppò, dettata da un umano senso di solidarietà, l'offerta d’aiuto a quanti volevano lasciare per motivi politici e razziali la Francia. Molti partirono via mare raggiungendo l'Africa o l'Inghilterra, altri raggiunsero la Svizzera, ma la gran maggioranza dei fuggiaschi transitò per i Pirenei, specie nella parte orientale, non ancora occupata, e in quest'opera furono in prima linea gli spagnoli, che sin dalla caduta della loro Repubblica si erano attivati per far compiere il tragitto inverso a quanti tentavano di fuggire il terrore franchista.

L’Intelligence Service inglese, quando ormai la defezione francese era apparsa ineluttabile, aveva predisposto la costituzione di reti di passaggio soprattutto per gli aviatori degli aerei abbattuti sul suolo francese o per i suoi agenti che ultimate le operazioni assegnate rientravano alle basi. A questi, si aggiunsero in seguito molti francesi che, non volendo sottostare al servizio di lavoro obbligatorio imposto dal governo di Vichy, tentarono di raggiungere le Forze della Francia Libera per riprendere la lotta e molti ebrei in fuga dalle persecuzioni naziste.[1]

Si ritiene che abbiano operato in tempi diversi nei Pirenei almeno venti reti non tutte però animate da motivazioni umanitarie o politiche, alcune, costituite in prevalenza da andorrani chiedevano del denaro per i loro servigi. Il lavoro dei passeurs era pieno d’insidie, oltre alle condizioni atmosferiche che in montagna potevano peggiorare in ogni momento occorreva fare i conti con le guardie di frontiera francesi e spagnole. Nel caso si fosse intercettati c'era il rischio per i fuggiaschi di finire nel malfamato campo di Miranda de Ebro (Burgos) e per le guide di cadere nelle mani dei franchisti o di essere riconsegnati alle autorità francesi. Si desume da Vichy, L'Occupation Nazie e la Résistance Catalane che nel 1940 i clandestini riconsegnati dagli Spagnoli furono 20, mentre furono 31 quelli arrestati dai francesi in procinto di passare il confine.[2] Tutti erano condannati per tentato espatrio clandestino di regola ad un mese di carcere e a 100 franchi di multa per poi essere avviati ai campi di disciplina o al S. T. O.

Naturalmente la traversata dei Pirenei non era che uno dei momenti dell'operazione, occorreva anzitutto predisporre delle basi sicure in cui i clandestini potessero attendere il momento propizio e dotarli di documenti per eventuali controlli da parte della gendarmeria resa particolarmente attenta dall'intensificarsi del fenomeno. Inoltre, poiché la traversata non poteva avvenire in una sola giornata, si trattava talora di salire a quote anche superiori ai 3.000 metri, erano necessari dei pernottamenti in montagna perciò nella stagione fredda ci si appoggiava agli operai impegnati nei cantieri per la costruzione di centrali elettriche e nella buona stagione ai boscaioli e carbonai, in massima parte spagnoli.

La rete più celebre fu quella denominata Pat o Pat O'Leary, creata dal capitano scozzese Ian Garrow nel dicembre 1940 a Marsiglia e diretta dall'aragonese Francisco Ponzan Vidal, meglio conosciuto fra i resistenti con gli pseudomini di Francisco Vidal o Vidal.

Entrato in Francia il 10 febbraio 1939 F. Ponzan era stato internato a Le Vernet d'Ariège, da cui evase frequentemente con l'aiuto di militanti comunisti di Varihles per rientrare clandestinamente in Spagna, dove organizzava l'espatrio di ricercati dalla polizia franchista o evasi dal campo di concentramento d’Albatera. Militante anarchico, membro della C.N.T., aveva fatto parte durante la guerra civile dell’Ufficio Informazioni dell'Esercito repubblicano (S.I.E.P.) specializzato nelle operazioni di spionaggio o di sabotaggio oltre le linee nemiche. Nel giugno 1940, egli era in Spagna per tentare di liberare un compagno condannato a morte, ma il tentativo d'evasione non riuscì, egli fu ferito nei pressi di Boltana (Huesca) e si salvò grazie all'aiuto d’amici che lo nascosero e lo curarono. Una volta ristabilito rientrò in Francia. Ormai alla macchia si nascondeva a Tolosa, ove entrò in contatto con i primi gruppi di resistenti, in particolare con Camille Soula, professore della Facoltà di Medicina e agente dell’Intelligence Service inglese, che a sua volta lo presentò al capitano Garrow con il quale concordò di creare una rete d’evasione attraverso i Pirenei. Ponzan si avvalse della collaborazione di Roberto Terres, luogotenente Tessier, da lui soprannominato il Padre, di Pascual Lopéz Laguarta detto Sixto e di Juan Catala Balana, tutti evasi da Le Vernet e guide di montagna esperte. Il gruppo riuscì in circa tre anni d’attività a far passare almeno 1.500 persone, tra cui 700 aviatori alleati, nonché documenti ed istruzioni per conto del Bureau Central de Renseignements et d'ActionB. C. R. A. (Ufficio Informazioni della Francia Libera) utilizzando almeno tre diverse linee di passaggio: Tolosa - Osseja, Tolosa - Banyuls, Tolosa - Andorra.[9] Le autorità di Vichy per stroncare il fenomeno, non fidandosi completamente delle guardie di frontiera, dislocarono in zona dei corpi speciali. Gli effetti non tardarono a farsi sentire, infatti, il 14 ottobre 1942 i poliziotti irruppero nell'appartamento della sorella di Ponzan e lo arrestarono con altri cinque compagni, di cui tre guide. Essi furono portati al campo di Le Vernet d'Ariège e sottoposti a stretta sorveglianza, ma il Padre riuscì grazie a falsi documenti a farli rilasciare il 22 dicembre, quando tutta la Francia, a seguito dello sbarco angloamericano nell'Africa del Nord, era ormai occupata dalle truppe tedesche. L'intensificarsi della sorveglianza avrebbe consigliato maggior prudenza, ma Ponzan riprese con vigore l'attività forzatamente sospesa. S’installò a Tolosa all'Hotel Paris, gestito da una coppia di resistenti suoi amici, i coniugi Mongelard. Qui erano organizzate le spedizioni e i fuggiaschi attendevano il passeur che li avrebbe portati oltre frontiera. La Gestapo, grazie ad un delatore, individuò la base della rete e nel febbraio 1943 arrestò i coniugi Mongelard; dei due solo la moglie, dopo un lungo calvario, riuscì a ritornare dalla deportazione. Il gruppo dovette cambiare base logistica, ma anche questa fu individuata, ormai braccati era difficile operare e nascondersi, mentre si susseguivano gli arresti. Il gruppo era ormai disarticolato e Ponzan progettò, prima di passare ai maquis, di liberare la sorella Pilar, detenuta al campo di Brens. Una sera, mentre credeva di essere protetto dall'oscurità, incappò in un controllo di polizia e riconosciuto da un ispettore fu arrestato. Accusato di possesso di documenti falsi fu processato nel settembre 1943 per evasione e condannato ad una pena di sei mesi di carcere, già in pratica scontati. Il giudice Plantier-Cazejus lo accusò di complotto antinazionale e il 5 giugno 1944 lo condannò ad altri otto mesi di prigione, pena anche questa largamente scontata. Nel frattempo la Gestapo, messa sulle sue tracce dall'intendente di polizia Pierre Marty, lo prelevò e lo trasferì nel braccio del carcere sotto la sua giurisdizione. Da questo momento di lui si perse ogni traccia, fino al 17 agosto 1944, quando i nazisti, che stavano evacuando Tolosa, lo prelevarono dalle carceri insieme ai detenuti politici, uomini e donne, che portati nel piccolo villaggio di Buzet-sur-Tarn furono massacrati.

Francisco Ponzan Vidal, per i servizi resi, sarà decorato alla memoria dai governi americano, inglese, belga e francese I suoi compagni pur tra mille difficoltà continuarono, sotto la direzione di Marie-Luise Dissart Francesca la sua opera, fintantoché il moltiplicarsi degli arresti e la paura di rappresaglie, che aveva fatto chiudere molte porte, altre volte amiche, indussero i superstiti del gruppo a confluire in altre reti o a prendere la via dei maquis.[3]

 

Accanto alla rete Pat O'Leary, operarono sui Pirenei altre gruppi, alcuni facenti capo ad organizzazioni della Resistenza come il Combat, altri invece composti da contrabbandieri e guide che operavano per il proprio tornaconto. Alcune di queste si macchiarono d’efferati delitti.

Con lo sbarco alleato in Africa del Nord aumentò il numero di quanti tentarono di raggiungere le Forze della Francia Libera e quindi i passaggi ebbero un marcato incremento con il corrispondente aumento d’arresti e di perdite dovute sia agli incidenti (cadute in precipizi o in torrenti in piena) sia alle intemperie (freddo, neve, valanghe). Si stima che dal luglio 1940 al luglio 1944 sulla base dei dati della Croce Rossa Francese, i cui uffici a Madrid fornivano assistenza ai compatrioti entrati in Spagna, i clandestini fortunati siano stati circa 30.000. In maggioranza francesi, ma anche piloti inglesi, americani, polacchi e cecoslovacchi, nonché diverse migliaia d’ebrei. Si calcola che essi rappresentino il 30% di quanti tentarono la fuga, per molti questa si concluse alle stazioni di Bordeaux, di Tolosa, di Pau o di Foix o magari in qualche sentiero di montagna ormai vicini alla sospirata libertà, come sei aviatori americani periti con il loro "passeur", un giovane di Bagneres, sotto una valanga.[4]

È nel 1943 che si ebbe il maggior numero di passaggi andati a buon fine: almeno 15.000 persone, 16.000 furono gli arrestati, mentre è impossibile determinare il numero di quanti il cui viaggio si concluse tragicamente.Con il passare del tempo e il susseguirsi delle sconfitte dell'Asse le autorità spagnole mutarono atteggiamento e furono meno intransigenti, sollecitate da un tacito accordo con gli Stati Uniti che si erano impegnati a fornire grano alla Spagna, baratto denominato un sac de blé, vale a dire un sacco di grano per ogni persona lasciata passare.

 

Differente fu la situazione legata alla fuga degli ebrei. Dopo il 1942, che segnò l'inizio delle deportazioni, il numero delle famiglie d’israeliti che tentarono di fuggire fu in costante aumento. Si trattava perlopiù di persone fornite di mezzi che, non conoscendo le reti clandestine, si affidavano a guide che offrivano i loro servizi dietro pagamento di compensi che andavano dai 5.000 ai 50.000 franchi. Molti di loro non arrivarono mai in Spagna, in quanto furono assassinati o abbandonati in alta montagna dopo essere stati depredati. Il 28 agosto 1943 il comandante della 3ª brigata di guerriglieri, Oria, partito con il suo gruppo per recuperare degli esplosivi allo sbarramento di Gnoure incontrò sulla montagna di Siguer, 21 uomini e 2 donne ebrei, abbandonati dalle guide dopo essere stati derubati d’ogni loro avere. Dopo la Liberazione furono scoperti i miseri resti di molti fuggiaschi tragicamente eliminati, ma in massima parte questi delitti rimasero impuniti. Su Vichy, l'Occupation Nazie e la Résistance Catalane - più volte citato - sono cronologicamente riportati numerosi passaggi andati a buon fine, anche se molti comportarono il provvisorio internamento dei fuggiaschi in Spagna, mentre sono elencati, forse con maggior precisione, quelli falliti per arresti da parte dei doganieri francesi o intercettamenti in territorio spagnolo comportanti l’espulsione. Sono riportati nazionalità dei passeurs e dei fuggiaschi, i referenti francesi nonché le diverse vie d’evasione, atti d’abnegazione e di vigliaccheria.[5]

 

 

PRENDRE LE MAQUIS

 

 

Gli esuli spagnoli lungi dal rappresentare un'entità monolitica, rassomigliavano piuttosto ad un prisma a molte facce, una comunità continuamente scossa da scissioni, con fratture talora molto profonde, sopravvissute alla guerra civile ed in gran parte non ben disposta verso il paese d’accoglienza per il trattamento finora ricevuto. Sparsi per tutta la Francia, falcidiati della parte culturalmente più preparata dall'emigrazione, si preoccuparono anzitutto della riorganizzazione interna dei diversi gruppi politici mantenendo vivi contatti con i militanti più attivi rinchiusi nei campi di disciplina francesi o africani. I comunisti, sempre condizionati dal patto di non aggressione russo-tedesco, non effettuavano azioni di guerriglia contro l'esercito occupante, mentre i libertari si sentivano estranei alla guerra e alle sue conseguenze, in quanto ritenuto un conflitto tra interessi nazionalistici al di fuori d’ogni progetto rivoluzionario.[6]

 

Il governo di Vichy non fu molto tenero con questi rivoluzionari antinazionali e proseguì nella sua azione di repressione che si concretizzò in 911 arresti, 610 internamenti, 1.420 perquisizioni e 177 espulsioni. Tutti i gruppi politici furono colpiti. Il 17 novembre 1941, furono processati presso la sezione speciale del tribunale militare della 17ª regione di Tolosa (sezioni costituite con legge 14 agosto 1941 per la repressione delle attività comuniste o anarchiche), tutti i dirigenti del P.O.U.M., che furono condannati a pesanti pene di lavori forzati per «ricostituzione di società disciolte - distribuzione di volantini d'ispirazione straniera tali da nuocere all'interesse nazionale - attività comunista».

Toccò quindi ai libertari. L'inchiesta partì dal commissariato di Marsiglia che segnalò alla polizia speciale di Périgueux che un membro del M.L.E. (Mouvement Libertaire Espagnol), residente a Salon in Dordogna, si faceva spedire la corrispondenza a Périgueux sotto il nome di Bleynil. Le indagini accertarono che si trattava di Germinal Esgleas (il cui vero nome era Jaime Esgleas, marito di Federica Montseny, Ministro della Sanità della Repubblica Spagnola). Controllandone i contatti, seguendone gli spostamenti o intercettandone la corrispondenza la polizia individuò gli altri membri del M.L.E. ed agli inizi del 1942 attuò una vasta operazione d’arresti e perquisizioni in venti dipartimenti della zona libera ed in Nord Africa, infatti, una delle basi anarchiche più attive era Casablanca. Il M.L.E. fu annientato. Con Germinal Esgleas, furono processati dal tribunale militare di Tolosa numerosi anarchici colpevoli di violazione dell'art. 80 del Codice Penale che puniva «intrighi anarchici contro la sicurezza dello stato». Le pene variarono da uno a tre anni di reclusione, tutti furono dapprima internati al campo di Vernet d'Ariège per poi essere trasferiti ai campi dell'Africa del Nord.[7]

 

I comunisti si erano finora limitati, dopo che il Comitato Centrale si era trasferito in Messico, a riorganizzare le cellule in Francia. Si ha notizia di una riunione dei membri del P.C.E. il 30 ottobre 1940 al campo d’Argèles sur Mer. La loro politica, diretta dal Komintern, era ambigua, i loro volantini propugnavano:

Ni soldats de l'Angleterre avec De Gaulle!

ni soldats de l'Allemagne avec Pétain!

Vive l'Union de la Nation Francaise!

 

La campagna di proselitismo proseguì nei campi e nei G.T.E., fu diffuso un giornale stampato con il ciclostile Reconquista de España, che conteneva attacchi al maresciallo Pétain e propugnava la fine del colonialismo con la conseguente indipendenza per tutti i territori d'oltre mare francesi. Il 26 agosto 1941 - l'U.R.S.S. era ormai invasa dalla Whermacht - il P.C.E. lanciò un appello per la costituzione di un fronte antifascista: l’Union Nacional Española, cui gli anarchici contrapposero l’Alianza Democratica Española cui aderirono il M.L.E., la C.N.T., il P.S.O.E., la U.G.T., la F.A.I., L' Izaquierda Republicana de Manuel Azaña, il Partido Nacionalista Vasco e l’Esquerra Republicana de Cataluña. Sul numero di novembre-dicembre 1942 di Reconquista de España l’U.N.E. proclamò la costituzione di un comitato composto da delegati di tutte le ideologie, tendenze e condizioni sociali. Nel numero figurava un importante documento intitolato Doctrina, programa y acción de la Unión Nacional che poneva l'accento sulla necessità dell'unità di tutte le forze antifasciste per sconfiggere prima il nazismo e di conseguenza subito dopo il franchismo. Di fronte ad un programma che aveva come fine ultimo il ritorno della democrazia di Spagna, le altre aggregazioni politiche furono divise, lacerate da contrasti interni. Specie i libertari che in un plenum del 6 giugno 1943 affrontarono per la prima volta la questione di una collaborazione con la Resistenza francese. La tensione tra le due tendenze si accentuarono fino ad una completa rottura in dicembre. Mentre l'anima politica, favorevole alla partecipazione del M.L.E. ad una futura Assemblea Costituente della Spagna liberata, maggioritaria, consigliava i militanti di raggiungere la Resistenza francese piuttosto che lasciarsi passivamente deportare in Germania, la tendenza apolitica manteneva sino alla fine la sua posizione di rifiuto affermando che: «non bisognava intervenire in nessun’azione armata contro l'esercito d'occupazione, né contro le autorità civili finché non si attua una sollevazione in chiave libertaria dell'intero popolo francese». Erano rimasti fermi alla visione utopica della rivoluzione generale.

Così progressivamente l’U.N.E. s’impose come organizzazione dei rifugiati spagnoli e li accolse tra le file dei F.T.P. (Francs Tireurs et Partisans). Ma la struttura agile dei maquis, le cui unità erano di norma formate da poche decine d’uomini, favorì la costituzione, pur sempre sotto il comando centrale dei F.T.P., di gruppi di militanti con le stesse idee politiche. [8]

 

D'altra parte i seguaci di De Gaulle in Francia avevano cominciato verso la fine del 1940 a tessere le fila del movimento clandestino, che assumeva caratteristiche diverse nella zona libera rispetto a quell’occupata. Nella prima nacquero delle formazioni paramilitari, Combat con a capo il capitano Henri Frenay, Libération guidato da Emmanuel d'Astier de la Vigerie, Franc Tireur comandata da Jean-Pierre Lévy, che erano appoggiate da elementi dei sindacati o dei vecchi partiti (socialista, democratico popolare e repubblicano) e si opponevano al regime di Vichy dovendo fare i conti con la polizia ed i tribunali. L'intesa e l'azione comune dei dirigenti di questi movimenti lasciava molto a desiderare. La maggior parte degli aderenti e dei simpatizzanti non si preoccupava molto del programma che la Resistenza avrebbe dovuto applicare, voleva solo prepararsi a combattere. Procurare armi, trovare nascondigli, aiutare chi voleva passare la frontiera, diffondere la stampa clandestina, distribuire volantini e a volte, mettere in atto dei colpi di mano, questo era importante. Se all'interno dei movimenti l'ispirazione era relativamente unitaria, l'azione invece si suddivideva in gruppi separati, ognuno aveva un capo ed operava per suo conto, e si disputavano tra loro armi e denaro, assolutamente insufficienti. Nella zona occupata, tale concorrenza scompariva di fronte al pericolo immediato: si era a contatto diretto con la potenza schiacciante e brutale del nemico. Si aveva a che fare con la Gestapo. Era difficile spostarsi, comunicare, cercare un rifugio, senza subire rigorosi controlli. Ogni sospetto era imprigionato nell’attesa di essere deportato. Era incombente il pericolo della tortura e dell'esecuzione capitale. In tali condizioni, ogni attività era frammentata all'estremo, così i movimenti in questa parte della Francia assumevano un carattere teso di guerriglia e di congiura. L’Organisation civile et militaire fondata dal colonnello Touny, Ceux de la Résistance reclutati da Lecompte-Boinet, Libération-Nord formata da Cavaillès, e infine nella zona mineraria dell'Hainaut La Voix du Nord diretta da Houcke, escludevano ogni tendenza politica, suddivisi in piccoli gruppi clandestini, isolati gli uni dagli altri si preoccupavano solo di sabotaggi ad installazioni militari od attentati a soldati tedeschi.

 

Si è in precedenza accennato come l'aggressione della Germania all’U.R.S.S. fece rompere gli indugi ai capi comunisti che chiamarono i militanti alla lotta contro il comune nemico e i suoi collaboratori. Il 28 marzo 1942 in una riunione del Front National fu decisa l'organizzazione dei F.T.P. in cui i non francesi costituirono la Organisation Speciale - braccio armato della M.O.I. (Main d’Oeuvre Immigreé). Il 25 novembre 1942 per dimostrare il carattere d’unità nazionale della lotta contro l'invasore riconobbero il generale De Gaulle capo della Resistenza all'interno e all'estero. Nel 1943 la struttura del movimento di Resistenza prese corpo soprattutto per merito di Jean Moulin, ex Prefetto dell'Eure-et-Loire, che paracadutato l'anno prima nel Mezzogiorno aveva messo in atto le direttive del governo della Francia Libera per dare unità d’azione alle diverse formazioni partigiane e aveva creato le basi per i necessari rifornimenti d’armi e denaro. Il 26 gennaio i gruppi Combat, Franc Tireur e Libération si fusero nei M.U.R. (Mouvements Unis de la Résistance) di cui l'organizzazione paramilitare era la Armèe Secrète (A.S.) e nel marzo pubblicarono una dichiarazione dal titolo «Una sola lotta, un solo capo», in cui s’impegnavano all'unità d’azione, proclamando che conducevano la battaglia per la libertà sotto l'autorità del generale De Gaulle. Poco dopo psu proposta di Léon Blum, imprigionato a Riom, fu creato il Consiglio Nazionale della Resistenza, di cui fu Presidente Jean Moulin fino al suo arresto da parte della Gestapo, avvenuto il 21 giugno a Caluire (Rodano) in circostanze che diedero adito ad inquietanti interrogativi.[9]

 

Ma anche nell'ambito di una unità d’intenti due furono le strategie di conduzione della guerra partigiana, una fondata sulla mobilità e flessibilità di piccole unità, pronte ad attaccare o a ritirarsi secondo le situazioni, l'altra più statica al contrario favorevole a forti concentrazioni d’uomini con la creazione di campi trincerati in zone facilmente difendibili. Gli spagnoli per esperienza e carattere furono più favorevoli ai maquis mobili ma dove previsto dall'organizzazione centrale, come nei maquis del Vercors, dei Glières e di Mount-Mouchet, si adeguarono alle disposizioni superiori. Cadranno anche loro in gran numero quando le forze congiunte tedesche e collaborazioniste attaccheranno dal febbraio al luglio 1944 questi altipiani ed infliggeranno alle forze della Resistenza una delle più pesanti sconfitte della loro breve storia.

 

La lotta partigiana si era sviluppata su tutto il territorio francese specie nelle zone di montagna: le Alpi, il Massiccio Centrale ed il Sud-Ovest. Alle prime disarticolate formazioni erano subentrate le brigate, i battaglioni, le divisioni, ora con la creazione del S.T.O. molti, prima reticenti furono indotti a prendre les maquis, esisteva un comando centrale, erano paracadutati dagli Alleati armi, denaro ed ufficiali di collegamento. Attacchi, attentati, sabotaggi si moltiplicarono. Ma tutto ciò fu pagato a caro prezzo. Il nemico era crudele e duro: morti negli scontri, torture, uccisioni d’ostaggi, deportazioni, incendi di case e villaggi ne furono la tragica conseguenza. In molte di queste operazioni gli spagnoli furono in prima linea pagando il loro tributo di sangue.

 

A titolo d’esempio sono citati due degli episodi di cui essi furono protagonisti e che si conclusero ambedue tragicamente:

-          il gruppo F.T.P. - M.O.I. di Massik Manouchian a Parigi,

-          la rivolta del carcere d’Eysses.

 

Il gruppo Manouchian agiva nella città di Parigi e dal 1942 si era reso responsabile di molti attentati a tedeschi e collaborazionisti, del deragliamento di treni, della distruzione di depositi d’armi e benzina. Era costituito da stranieri da cui la sigla M.O.I. (main d’œuvre immigré), tra gli spagnoli il più attivo era Celestino Alfonso "Pierrot", cui era stato attribuito l'attentato del 28 settembre 1943 contro il generale delle S.S. Ritter, amico personale del Fuhrer e collaboratore del gauleiter Sauckel, responsabile dell'invio in Germania dei precettati del S.T.O. La gravità del fatto inasprì la repressione e in particolare la Brigata Speciale 2 dei R.G. portò a buon esito una serie di colpi che segnarono la fine della lotta armata in Parigi fino alla Liberazione. Gli arresti portarono al fermo di sessantotto resistenti, di cui ventuno donne, nel novembre 1943, mentre altri quaranta furono arrestati nel gennaio 1944. Di questi ventinove furono fucilati a Mont Saint Valerien nel marzo-aprile, cinquantasei furono deportati o condannati a pene variabili, mentre contro ventitré F.T.P.- M.O.I.[10] ritenuti i maggiori responsabili dei numerosi attentati venne istruito un processo pubblico. Esso diede luogo ad una gigantesca operazione di propaganda da parte dei tedeschi e di Vichy, che dimostrò il nuovo periodo di collaborazione in cui era entrata la Francia con la nomina di Joseph Darnand a segretario generale della Milice Française. La stampa diede ampio risalto al processo contro questi stranieri e migliaia di copie di un manifesto l'affiche rouge, che riproduceva il volto di alcuni dei processati (tra cui Celestino Alfonso e l’italiano Spartaco Fontanot) ed il numero degli attentati a loro attribuiti, furono infissi in tutta la Francia per destabilizzare la Resistenza ed impressionare l'opinione pubblica così da sollecitarla a condannare gli atti terroristici. I ventitré vennero condannati a morte dal tribunale militare tedesco: i ventidue uomini furono fucilati a Mont-Valerien il 21 febbraio 1944 mentre la sola donna processata, Olga Bancic, fu decapitata nel carcere di Stoccarda il 10 maggio. Louis Aragon ricordò gli stranieri del gruppo Manouchian nella poesia L'Affiche Rouge:

Ventitré stranieri e pertanto nostri fratelli,

Ventitré che volevano vivere vanno a morire,

Ventitré che invocavano nel cadere la Francia! » [10]

 

La rivolta del 19 febbraio 1944 della Maison Centrale de Force d’Eysses a Villeneuve-sur-Lot (Lot et Garonne) fu un altro degli episodi della Resistenza francese, che vide impegnati in prima persona i rifugiati spagnoli.

Verso la fine del 1943 le carceri erano diventate uno degli obiettivi principali dei maquis, gli attacchi alle prigioni di Nontron, Nimes, Gaillac, Foix...... avevano consentito la liberazione di molti resistenti. Il governo di Vichy decise allora di trasferire i prigionieri più pericolosi nel carcere di Eysses, considerato inattaccabile. I responsabili F.T.P. informati progettarono una grande operazione per liberarli. I trasferimenti iniziati il 15 ottobre si conclusero il 9 dicembre senza intoppi. L’11 novembre l'Ispettore Generale delle carceri e dei campi d’internamento visitò la prigione e rimase impressionato per le cattive condizioni d’alloggiamento e di salute dei detenuti. Nel corso dell'ispezione essi inscenarono una manifestazione patriottica in ricordo della vittoria del 1918, appendendo alle finestre delle celle dei tricolori francesi e cantando la Marsigliese. All’epoca nella fortezza erano rinchiusi più di milleduecento prigionieri, quasi tutti politici in maggioranza francesi, tra gli stranieri si contavano ventisei italiani o figli di italiani ed ottantadue spagnoli. Centocinquantasei formarono il battaglione d'Eysses per organizzare l'evasione, ne fu nominato comandante François Bernard, ex combattente delle Brigate Internazionali. Delle armi, fornite dal Front National locale, furono introdotte grazie alla complicità delle guardie carcerarie e nascoste nell’attesa del giorno della rivolta che sarebbe dovuta essere sostenuta dall'esterno dalle formazioni partigiane. Il 19 febbraio il direttore della prigione, colonnello Schivo, amico personale di Joseph Darnand, segretario generale della Milice Française, accompagnò un ispettore venuto da Vichy per una nuova ispezione alla prigione; era l'occasione tanto attesa e i prescelti all'azione furono messi in stato d’allarme. Il piano agli inizi funzionò, il direttore e l’ispettore furono presi in ostaggio con gli uomini della scorta cui furono tolte, oltre alle armi, le divise che furono indossate da alcuni rivoltosi per tentare di introdursi nei posti di guardia e neutralizzarli. All'improvviso qualcosa andò storto, un gruppo di prigionieri comuni, usciti per lavorare all'esterno, rientrarono prima del previsto ed uno di loro si accorse che stava avvenendo qualcosa d’insolito e lanciò un grido imitato dagli altri. Il fatto allarmò le guardie e tolse ai rivoltosi il vantaggio della sorpresa. Il piano era fallito, si sarebbe dovuto far saltare il muro di cinta ma mancavano gli esplosivi, gli spagnoli allora si proposero per tentare la conquista del posto di guardia di Nord-Ovest. Era una dozzina di uomini, castigliani, asturiani e catalani, che per cinque volte con armi automatiche e granate si slanciarono all'assalto, molti furono feriti, tra loro Jaume Serot, uno dei capi dell'insurrezione, ma il tentativo fallì. I partigiani di Villenueuve, all'esterno, non poterono intervenire per il forte spiegamento di forze franco-tedesche giunte in rinforzo e non ci fu tempo per far intervenire i gruppi dei comandanti Soleil e Carlos, che erano a circa settanta chilometri. Gli scontri durarono fino alle 15 del 20 febbraio, quando senza munizioni i rivoltosi si arresero e liberarono gli ostaggi che erano stati trattati con umanità, tanto che il colonnello Schivo diede la sua parola che si sarebbe adoperato affinché non vi fossero rappresaglie. Joseph Darnand, giunto sul posto, prese in mano la situazione ed interrogò personalmente i prigionieri ottenendo da uno di questi i nomi dei capi. Una corte marziale, prontamente costituita, condannò a morte mediante fucilazione dodici insorti, tra cui gli spagnoli Jaume Serot e Doménec Serveto Beltrán; la sentenza fu immediatamente eseguita. Le salme dei condannati vennero sepolte nel cimitero di Villeneuve sur Lot e malgrado il divieto ed il controllo della Milice i tumuli furono coperti di fiori dai cittadini. Dopo la Liberazione vi è stato eretto un monumento che riproduce i contorni geografici della Francia, su cui è stata posta una lapide con i nomi dei martiri, in basso un’altra lapide con la scritta: “Possa l’esempio di quelli che furono sterminati nella lotta contro il nazismo, far si che i viventi si uniscano per difendere la pace, la libertà ed il rispetto della persona umana”. Altri trentasei elementi del battaglione furono condannati al carcere a vita e deportati il 18 maggio. Il 30 dello stesso mese la Divisione S.S. Das Reich, che ritroveremo in seguito, fornì il servizio d'ordine per il trasferimento alla stazione di Penne di 1.116 condannati, che caricati su un treno piombato furono mandati, via Compiegne, al campo di Dachau, da cui 649 di loro non tornarono. Non raggiunse mai tale tragica destinazione lo spagnolo Huergas Fierro Ángel, che caduto a terra durante il trasferimento alla stazione, stremato per le percosse delle S.S., fu finito con un colpo alla testa sotto gli occhi dei suoi compagni impossibilitati ad aiutarlo.[11]

 

 

FORCES FRANÇAISES DE L' INTÉRIEUR (F.F.I.)

 

Nel marzo 1944, in previsione dell'imminente sbarco alleato sulle coste francesi, il gen. De Gaulle d'autorità militarizzò le forze della clandestinità raggruppandole nelle Forces Françaises de l’Intérieur - F.F.I. sotto il comando del gen. Koenig. Dove fu possibile, ufficiali di carriera assunsero il comando dei vari settori, come il maggiore Valette d’Ozia nell'Alta Savoia, il colonnello Romans-Petit nell'Ain, il generale Audibert in Bretagna, il colonnello Guillaudot nell'Alvernia e Limosino, il generale Bertand nel Berri. In altri settori furono dei civili, fatti esperti dalla guerra di Spagna, come André Malraux (col. Berger) nella Corrèze ed Henri Tanguy (colonnello Rol) a Parigi. Non appena iniziato lo sbarco, occorreva che tutte queste forze disperse cooperassero con il comando alleato per bloccare o rallentare i movimenti del nemico, che avrebbe cercato di far affluire rinforzi nelle zone costiere. Erano stati elaborati da tempo d'intesa con specialisti piani diversi:

-          verde per bloccare il traffico ferroviario (ricordata come la bataile du rail),

-          violetto per interrompere le comunicazioni telefoniche e telegrafiche,

-          tartaruga per interruzioni stradali,

-          celeste per neutralizzare le centrali elettriche.

 

In questa gran lotta, che stava per decidere le sorti della guerra all’Ovest, s’inserirono da protagonisti i rifugiati spagnoli; soprattutto quelli del Sud della Francia ove sin dalla fine del 1941 si erano radunati i primi maquis. Si trattava per lo più di fuggitivi del campo di Le Vernet d'Ariège o di ricercati dalla polizia, che si nascondevano in zone impervie appoggiandosi per supporto ai vari G.T.E. impegnati nelle imprese forestali, idroelettriche, minerarie, ...

Nacque la 3ª Brigata Guerrilleros Españoles sotto il comando di Vicuna Vitorio, alias Julio Oria, che agli inizi si limitò a contatti con la Resistenza francese, al sostegno di quanti tentavano la via della Spagna e all'organizzazione d’altri gruppi simili nei dipartimenti vicini. Si ricercarono nel frattempo le armi, nascoste durante la "Retirada" da quanti erano entrati clandestinamente in Francia e si sottrassero esplosivi, detonatori e micce dalle cave e dalle miniere della zona. Nell’aprile 1942 fu costituito il XIV Cuerpo Guerrilleros Españoles che man mano ampliò la sua zona d'influenza inserendovi delle brigate:

-          la 1ª nell' Ariège (Anton-les-Cabanes ed Aix-les-Thermes),

-          la 2ª nell' Haute et Garonne,

-          la 3ª nell'Ariège,

-          la 4ª nel Tarn et Garonne,

-          la 9ª nell' Hautes Pyrénées,

-          la 35ª nel Gers.

 

Il Corpo operò in stretto contatto con i F.T.P. - M.O.I., fino al maggio 1944 quando fu sciolto per formare l’ Agrupación de guerrilleros españoles (A.G.E.) sotto il comando di Luiz Fernández ed integrarsi nelle F.F.I. Prima di passare alla seconda fase della lotta che prevedeva l’attacco frontale all'esercito tedesco ed ai collaborazionisti i maquis avevano operato numerose azioni di sabotaggio, liberazione di prigionieri, attentati a militari e gendarmi. Il bilancio del 1943 fu di centosettantasei azioni, tra cui il sabotaggio d’ottantasei centrali elettriche e linee dell'alta tensione e sessantaquattro interruzioni stradali, nonché attacchi a posti di guardia e prigioni. La constatazione delle autorità germaniche e di quelle di Vichy fu concorde: «Le industrie chiave della produzione di guerra sono state ostacolate dalla riduzione dell'energia messa a loro disposizione, mentre le comunicazioni ferroviarie hanno risentito della diminuzione catastrofica del carbone». Fu inasprito il coprifuoco, dei civili furono precettati per accompagnare i convogli, i controlli furono rinforzati ed intensificata la repressione.

 

All'alba del 22 aprile miliziani, l’8ª brigata speciale ed agenti della Gestapo accerchiarono l'accampamento di Anton-les-Cabanes dove si era rifugiato un battaglione di sessantatre guerriglieri e n’arrestarono trentaquattro tra cui il comandante del XIV Corpo Jesus Rios, che riuscì a fuggire dal treno che lo deportava in Germania. Questa fu una delle tante azioni antipartigiane, ma, nonostante le perdite e le rappresaglie, i guerilleros non demorsero, per loro questa non era che l'inizio della lotta che li avrebbe portati a scontrarsi con Franco e a riconquistare la Spagna. Soprattutto, dopo lo sbarco alleato in Normandia del 6 giugno 1944, le F.F.I. furono attive nel bloccare con ogni mezzo l'afflusso di rinforzi alle truppe tedesche impegnate nel contenere le teste di ponte angloamericane.

Una di queste azioni ebbe un seguito oltremodo drammatico, infatti, passò alla storia come una delle più feroci rappresaglie operate dai nazisti contro le popolazioni civili nel corso della seconda guerra mondiale. Operava nell’Haute-Vienne una compagnia del maquis de Rochechouart composta quasi esclusivamente da libertari spagnoli al comando di Ramón Vila Capdevila Raymond, specializzata in distruzioni con il dinamite. Ai primi di giugno nei pressi di Saint-Junien essi fecero saltare un ponte sulla Vienne sul quale stava transitando un treno blindato della Divisione S.S. Das Reich, che acquartierata a Mountauban (Tarn et Garonne) stava raggiungendo il fronte della Normandia. L'attentato causò numerosi morti e feriti nonché la distruzione d’ingente materiale bellico.[11] Il comandante della Divisione gen. Lammerding ordinò che per rappresaglia fosse sterminata la popolazione del paese più vicino: Oradour-sur-Vayres. Per un tragico gioco del destino vi era nelle vicinanze un'altra comunità che portava lo stesso nome: Oradour-sur-Glane e fu su questa che si abbatté il 10 giugno 1944 la furia nazista. Nel paese erano rimasti seicentoquarantadue persone: gli uomini furono radunati in piazza e fucilati, le donne ed i bambini vennero rinchiusi nella chiesa cui fu appiccato il fuoco dove tutti morirono bruciati ed asfissiati. Tra le vittime si contarono diciotto spagnoli, di cui undici bambini, ricordati uin una stele dedicata aux martyrs espagnols. Il nome d’Oradour-sur-Glane divenne simbolo della barbarie nazista come Varsavia, Marzabotto e Lidice. [12]

Quest’orribile crimine colpì l'animo di Vercors, scrittore mito della Resistenza francese, cui partecipò attivamente, (nella realtà si chiamava Jean Bruller), che assumendo le sembianze di Luc, un poeta testimone del massacro, che finora non si era impegnato, affrontò in Les Mots l'interrogativo se è meglio non dimenticare e perdonare come insegna la morale cristiana o piuttosto dimenticare per continuare a vivere ma non perdonare mai, per nessuna ragione? Nella sua prima opera della clandestinità del 1942 Il Silenzio del Mare raccontò una vicenda di resistenza privata in cui tacere ad oltranza era stata la forma simbolica di rifiuto dell'occupante tedesco, rappresentato da un ufficiale gentile: il silenzio come scelta di non compromesso, in quest'opera Vercors urlò, è impossibile tacere oltre: «I morti non possono più tacere. Devono continuare i vivi a stare in silenzio?». Vercors morì nel 1991, il 10 giugno, lo stesso giorno dell'atroce strage che, dal 1944, aveva continuato a non perdonare.[13]

 

Dopo il 15 agosto 1944 quando gli Alleati, tra cui forze della Francia Libera, erano sbarcati in Provenza, tutto il Sud divenne una polveriera, le F.F.I. passarono all'offensiva ed i tedeschi iniziarono una precipitosa ritirata per non essere tagliati fuori. Dei numerosi scontri con le forze partigiane il più importante avvenne a La Madeleine (Gard) ed ebbe ancora per protagonisti i guerriglieri spagnoli. Il 23 agosto la 3ª Divisione agli ordini di Cristino García Grandas, che comprendeva la 21ª brigata G.E. comandata da Gabriel Peréz, vecchio minatore delle Cévennes, bloccò la strada ad una colonna tedesca forte di millecinquecento uomini all'incrocio tra Saint-Hypolite, Anduze e Nimes. Dopo tre ore di duri scontri i tedeschi chiesero di parlamentare, ma quando si accorsero che i capi nemici erano spagnoli, si rifiutarono di trattare proponendo una tregua, accettata, di due ore. Prima dello scadere della stessa tentarono di sorprendere i partigiani, ma questi che nel frattempo avevano ricevuto rinforzi d’uomini e munizioni respinsero gli assalti e passarono al contrattacco. Consapevoli di essere circondati, i tedeschi, che avevano avuto più di cento morti, si arresero senza condizioni, dopo che il loro comandante luogotenente-generale Konrad Zietzeche si era tolto la vita. Trentaquattro soldati della notte erano rimasti sul terreno e saranno tumulati ad Albi in quello diverrà il cimitero di La Madleine. Sulla lapide che ricorda questi Enfants Morts pour la France si leggono i nomi di Augustin García, José Fernández, Francisco Perera e Ramón Porta.

L'offensiva partigiana proseguì e ventisei dipartimenti del Sud ed otto del Nord passarono sotto il controllo delle F.F.I. Soprattutto nell'Ariège i guerriglieri spagnoli presero l'iniziativa e liberarono Foix e tutto il territorio del dipartimento suscitando l'ammirazione della missione alleata che li aveva raggiunti poco giorni prima dell'inizio dell'offensiva. Essa si complimentò con la 3ª brigata per il coraggio dimostrato nei combattimenti: «E' difficile citare tutti i gesti d’eroismo compiuti da questi soldati. I membri della missione alleata sono fieri di aver lottato a fianco dei repubblicani spagnoli». Il luogotenente colonnello Aubert, comandante delle F.F.I. dell'Ariège, dichiarò di fronte ai reparti schierati: «Sono fiero ed orgoglioso di salutare e felicitarmi con questi valorosi spagnoli, che in stretta collaborazione con le F.F.I. hanno liberato l'Ariège». Dopo un rapido accenno all'inospitalità della Francia, cinque anni prima, concluse: «L'Ariège non dimenticherà mai che la sua capitale è stata liberata da guerriglieri spagnoli. I soldati della 3ª brigata sono morti affinché i Francesi fossero nuovamente liberi. Noi, le F.F.I. dell'Ariège, assicuriamo questi valorosi che l'ideale che ci ha unito ci obbliga ad aiutarli a riconquistare immediatamente la libertà per il popolo spagnolo. Se sarà necessario siamo pronti a prendere la via per Madrid e combattere insieme contro i franchisti e i resti del nazismo». Molti spagnoli furono decorati per atti di valore compiuti nel corso d’azioni partigiane. Come simbolo sono ricordate le parole pronunciate dal generale De Gaulle sul finire del 1944 nel decorare lo spagnolo García Calero, per il suo comportamento nei combattimenti nell'Ariège in cui fu gravemente ferito:

«Guerrillero spagnolo: in te io onoro i tuoi compatrioti, per il valore, per il sangue versato per la Libertà e per la Francia. Per le tue sofferenze sei un eroe francese e spagnolo».[14]

Non potendo riferire tutti i fatti d’arme e le azioni di cui i rifugiati spagnoli furono protagonisti si riportano i dati dello Stato Maggiore delle F.F.I. - zona Sud relativi all'intero periodo della Resistenza:

-          prigionieri liberati n. 702

-          prigionieri nemici n. 9.800

-          nemici uccisi n. 3.000

-          sabotaggi di fabbriche e miniere n. 42

-          interruzioni di linee elettriche n. 606

 

I comunicati del XIV Corpo (poi A.G.E.) riferiti alla zona Sud, - suddivisi per anni - riportarono:

1942 1943 1944 Totale

-          combattimenti 3 7 151 161

-          azioni di recupero armi 8 9 32 49

-          locomotive distrutte 76 76

-          treni deragliati 6 3 39 48

-          centrali e linee distrutte 7 86 165 258

-          fabbriche e miniere attaccati 1 7 43 51

-          strade interrotte 3 64 216 283

-          città importanti liberate 21 21

-          località liberate 100 100

 

Le perdite inflitte e subite furono:

-          prigionieri tedeschi o francesi (miliziani) n. 6.634

-          morti tedeschi o miliziani n. 1.918

-          feriti tedeschi o miliziani n. 999

-          partigiani spagnoli morti n. 234

-          partigiani spagnoli feriti n. 186

-          partigiani spagnoli prigionieri n. 349 [15]

 

Liberato il Sud, i guerriglieri spagnoli inquadrati nei battaglioni Libertad (anarchici), e Gudaris (Baschi), parteciparono con le F.F.I., integrate nelle forze armate alleate, nell'inverno 1944 -1945 ai durissimi combattimenti contro la sacca dell'estuario della Gironda, dove novantamila tedeschi si difesero ferocemente fino al 18 aprile 1945.

 

Le pagine sulla Resistenza non possono chiudersi senza un doveroso ricordo delle tante donne, che lottarono a fianco degli uomini, svolgendo i compiti più gravosi e pericolosi, subendo umiliazioni e torture e rischiando la deportazione nei campi di sterminio nazisti. Queste donne, temprate dalla guerra civile, dalle mille difficoltà dell'esilio, continuarono ad essere mogli o compagne, madri e figlie svolgendo tuttavia un ruolo essenziale per la vittoria sul nazismo.

André Malraux, commemorando sul sagrato della cattedrale di Chartres il 30° anniversario della liberazione dai campi di sterminio nel maggio 1975 le ricordò con queste parole:

«Quelli che hanno voluto relegare la donna al semplice ruolo d’ausiliaria nella Resistenza sbagliano guerra».[16]

É' oltremodo difficile quantificare la parte da loro svolta. Anche se sovente essenziale, essa è passata completamente sotto silenzio, nell' Armèe de l'ombre sono misconosciute e le loro azioni disistimate. Sono state: agenti di collegamento, sabotatrici, affittacamere, addette al trasporto d’armi e documenti, accompagnatrici, ....ma è solo in occasione dell’arresto, della morte o della deportazione che si sente parlare di loro.[18]

È per ricordare il sacrificio di tante donne spagnole, che una di loro Neus Català raccolse cinquantasette testimonianze nel volume Ces Femmes Espagnoles de la Résistance à la Deportation della colonna Ces oubliés de l'Histoire. Nell'introduzione Geneviève De Gaulle Anthonioz, Presidente dell'Associazione delle ex Deportate ed Internate, affermò che, a poco a poco, le loro voci scompaiono ed è essenziale ricordare che delle donne d’ogni età, censo e convinzione misero a rischio non solo la loro vita ma anche quella dei loro figli, delle loro famiglie per divenire combattenti della Libertà.[18]

Dopo la Liberazione la Francia volle onorare il sacrificio dei guerriglieri spagnoli e numerosi monumenti furono eretti nei diversi dipartimenti della Francia dove erano stati protagonisti nella lotta per la Libertà. Imponente quello eretto nel cimitero di Pére-Lachaise di Parigi, altri vennero collocati sui luoghi delle battaglie, come ad Annecy e in Val d’Enfer (Alta Savoia), a Vira, La Crouzette e Roquefixade (Ariége), a Bonadoux (Loréze), Sainte Regonde (Aveyron), Berves (Dordogne), ecc.

 

 

X I V

 

FORCES FRANÇAISES LIBRES E SOTTO ALTRE BANDIERE

 

 

 

 

Paris!

Paris outragé!

Paris brisé!

Paris martyrisé!

Mais Paris libéré!

Libéré par lui meme,

libéré par son peuple avec le

concours des armées de la France.

 

Generale De Gaulle (25.8.44)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA 13ª DEMI - BRIGADE DE LA LEGION ÉTRANGERE

- Première Unité Compagnon de la Liberation -

 

L'arruolamento dei rifugiati spagnoli nell'esercito regolare francese, le Forces Françaises Libres - F.F.L., create dopo l'appello di De Gaulle del giugno 1940 avvenne in momenti successivi. Dapprima furono i superstiti della spedizione in Norvegia, cui si aggregarono nell'estate del 1941 quanti erano stati mandati in Siria, quindi nel 1943 quelli inquadrati nei Reggimenti di Fanteria Straniera o internati nei campi di lavoro forzato nell'Africa del Nord. Successivamente, nel corso dei combattimenti per la liberazione della Francia, le F.F.L. furono integrate da elementi provenienti dai maquis. I circa milleottocento superstiti della 13ª Mezza Brigata della Legione Straniera (13ª D.B.L.E.), reduci dalla sfortunata campagna di Norvegia, il 18 giugno 1940, all'approssimarsi delle colonne corazzate tedesche, s’imbarcarono a Brest per l'Inghilterra, dove furono sistemati dalle autorità militari inglesi a Trentham Park, nel Surrey.[1]

Il 30 giugno il gen. De Gaulle, che stava raccogliendo effettivi per il suo costituendo esercito tra tutti i militari francesi rifugiatisi in Inghilterra, si recò al campo per convincerli a continuare a combattere sotto il suo comando. Le altre scelte erano rientrare alle basi del Marocco o, se non francesi, essere internati in Inghilterra. Nelle sue memorie il generale ricordò:

«Parlai ai reparti riuniti e potei così ottenere l'adesione di gran parte dei due battaglioni della 13ª D.B.L.E., con il loro comandante tenente colonnello Magrin-Verneret, detto Monclar, e il suo aiutante capitano Koenig, di duecento Cacciatori delle Alpi, di due terzi di una compagnia carristi, del genio, delle trasmissioni, di parecchi ufficiali di stato maggiore e dei servizi, tra i quali il maggiore De Conchard e i capitani Dewavrin e Tissier».[12][2]

Dagli archivi della Legione il resoconto dell’adesione risulta meno entusiastico. Dei 2.100 uomini partiti per la Norvegia 102 morirono negli scontri, 140 feriti, malati o disertori non partirono da Brest, 160 (tutti spagnoli) rimasero in Inghilterra, 800 raggiunsero le basi del Marocco e 900 aderirono all’appello di De Gaulle.[3]

 

Le campagne della ricostituita 13ª D.B.L.E. fino alla fine del 1942 furono:

 

1.        la sfortunata spedizione contro Dakar del settembre 1940 quando le forze di De Gaulle tentarono di occupare il Senegal dopo aver ottenuto l'adesione delle colonie dell'Africa Equatoriale, ma furono bloccate dalle forze fedeli a Vichy,

2.        la partecipazione alla conquista dell'Eritrea Italiana del febbraio 1941, dove combatté coraggiosamente a Keren, prima d’essere determinante nella conquista di Massaua.

A proposito di quest’azione l'operato delle truppe francesi fu più volte citato in Eritrea 1941 di A. J. Barker, in particolare sono ricordati nove legionari italiani caduti in combattimento contro i propri connazionali.[4]

Dovrebbe trattarsi di parte dei quattordici reduci delle Brigate Internazionali, arruolatisi nella Legione Straniera ricordati su L'Antifascista, mensile dell'Associazione Nazionale dei Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, che furono fucilati dopo esser stati catturati da una brigata eritrea al servizio degli italiani.[5]

Altro episodio ricordato nel libro fu il saccheggio perpetrato nella città di Massaua al momento della conquista da parte delle truppe francesi, fatto che indusse il generale inglese Platt, comandante in capo delle forze alleate, ad allontanarle immediatamente dalla città.[6]

3.        l'occupazione nel luglio 1941 dei territori francesi del Medio Oriente (Libano e Siria). Dove con l'incorporazione di circa duemila disertori del 6° reggimento straniero di fanteria la 13ª D.B.L.E. raggiunse la forza di tre battaglioni, raddoppiando il numero degli spagnoli.[7]

4.        Incorporata nella 1ª Brigata Francese Libera sotto il comando del generale Koenig partecipò alle seguenti campagne in Libia:

Bir-Hakeim (Libia) – 27 maggio / 9 giugno 1942 -dove con una resistenza accanita riuscì ad evitare l'accerchiamento delle truppe inglesi in rotta. Attaccati dalla 90ª Divisione corazzata tedesca dell'Afrika-Korps e dalla Divisione italiana Trieste resistette fino all'esaurimento delle munizioni e poi nella notte dal 10 all'11 giugno si sganciò: duemilaquattrocento uomini su tremilaseicento raggiunsero El Gobi fuori della portata del nemico. Più della metà degli automezzi e del materiale fu salvato; quasi tutti i feriti furono evacuati. Lo stesso Rommel, che di fronte ad una resistenza così tenace aveva assunto di persona il comando delle forze d’attacco, ebbe a dire: «In nessun'altra occasione in Africa mi accadde di dover lottare così duramente». Bir Hakeim si risolse in una sconfitta per gli Alleati, ma essa costò molto cara alla Germania, infatti, Rommel compì uno dei rari errori della sua folgorante carriera militare, ostinato ad occupare ad ogni costo il caposaldo, impiegò per una settimana l'aviazione quando sarebbe stato più efficace colpire l’VIII Armata ormai in rotta e non darle così modo di riorganizzarsi ad El Alamein.[8]

Il gen. Simon, all'epoca luogotenente, ricordò il coraggio e la combattività degli spagnoli: «Il 27 maggio quando la posizione era gravemente minacciata essi balzarono fuori delle trincee per affrontare con i bazooka i carri armati nemici».

Ne ricordò la passione politica, l'acceso anticlericalismo e la profonda fedeltà alla Spagna. Ogni tumulo di terra, che raccoglieva le spoglie di un commilitone morto lontano dalla patria, era contrassegnato da una piccola bandiera della Repubblica spagnola.[9]

 

Per le perdite subite, la 13ª D.B.L.E. fu ricostituita con una forza di due soli battaglioni agli ordini del principe georgiano Amilakvari, caduto poco dopo con un centinaio dei suoi soldati in uno scontro a Quaret-el -Himeimat. [10]

 

5.        dal settembre 1942 al maggio 1943 nelle offensive in Libia che porteranno le truppe del generale Montgomery da El Alamein fino alla Tunisia.

All'epoca dello sbarco alleato in Africa del Nord (novembre 1942) erano dislocati in Algeria e in Marocco il 10°, 13°, 14° e 15° reggimento di fanteria straniera, costituiti con rifugiati prelevati dai campi d’internamento francesi e la Legione Straniera, costituita da reduci della spedizione norvegese e da profughi che avevano preferito arruolarsi piuttosto che finire nei terribili campi di lavoro del Sahara. Fino al novembre 1942 gli spagnoli fornirono circa il quaranta per cento delle nuove reclute, diventando così la nazionalità più rappresentata.

Con l'arrivo degli Alleati, il generale Giraud, riparato in Africa dopo essere fuggito da una prigione tedesca, costituì il Corpo Franco d'Africa, in cui si arruolarono quanti volevano battersi contro i tedeschi. Raccolti cinquemila volontari costituì i primi battaglioni, di cui tre d'urto, formati da giovani ebrei e spagnoli, considerati tra i più ardenti a battersi.

Antonio Ortiz, che firmò l'ingaggio il 29 dicembre 1942, fu aggregato alla 3ª compagnia di cui era responsabile Miguel Buiza Fernandez Palacios ex capitano della flotta repubblicana spagnola rifugiatasi a Biserta; che, fatto eccezionale, conservava lo stesso grado che aveva in Spagna. Gli spagnoli integrati da compatrioti che avevano disertato dalla Legione Straniera Spagnola, rappresentarono il trenta per cento degli effettivi che dal dicembre 1942 al marzo 1943 contribuirono alla conquista alleata della Tunisia. La 3ª compagnia fu citata all'ordine del giorno della Brigata dal gen. Giraud con attribuzione della Croce di guerra con palme.[11]

 

Liberata tutta l'Africa del Nord e superata la diatriba tra i generali Giraud e De Gaulle con il riconoscimento del Comitato di Liberazione presieduto da quest'ultimo da parte dei Governi alleati, si procedette a riorganizzare le forze armate francesi che erano rappresentate:

-          dalla 1ª Brigata Francese Libera agli ordini del gen. Koenig,

-          dalla colonna del gen. Leclerc che partendo dal Ciad aveva conquistato Koufra e il Fezzan e

-          dal 1° reggimento di fanteria della Legione Straniera costituito dal gen. Giraud con i superstiti del Corpo Franco.

 

Con questi effettivi furono costituite due Divisioni, la 1ª D.F.L. (Division Française Libre) agli ordini di Koenig e la 2ª D.B. (Divisione Blindata) agli ordini di Leclerc. Gli spagnoli della 13ª D.B.L.E. rimasero agli ordini del primo, mentre altri, prima inquadrati nelle truppe di Giraud, passarono agli ordini di Leclerc e seguirono strade diverse per l'attacco alla fortezza nazista. La 13ª D.B.L.E. l’11 maggio 1944, alle ore 23, partecipò all'offensiva generale sul fronte del Garigliano in Italia destinata ad infrangere la Linea Gustav contro di cui gli Alleati si erano accaniti senza successo per circa sei mesi. Prima ancora di entrare in combattimento essa perse ottanta uomini, di cui venti morti, per un violento bombardamento aereo nemico, ma dopo furiosi scontri anche all'arma bianca le difese tedesche furono infrante e la strada di Roma aperta. Dopo aver sfilato con le altre truppe vittoriose nelle vie della capitale italiana riprese l'avanzata verso Nord fino a Radicofani. Aggregatasi alla 1ª Divisione Blindata agli ordini del gen. De Lattre de Tassigny, di recente costituzione, partecipò alla liberazione della Corsica, quindi in 15 agosto 1944 sbarcò in Provenza e liberò Lione, Digione, Besançon, Belfort, Colmar e Strasburgo. Dopo di che fu trasferita sul confine italiano, qui attraverso il Colle della Lombarda penetrò in Italia spingendosi fino a Borgo San Dalmazzo. Il 28 aprile 1945 fu fermata dal Comando alleato mentre si apprestava a marciare su Torino ormai insorta.

Complessivamente ebbe ottocentoottantadue caduti, circa un terzo dei suoi effettivi, fu insignita dell’ Ordre de la Libération e decorata della Croce di guerra con quattro palme e della Croce di guerra norvegese.[12]

 

 

DA PARIGI ALLA GERMANIA

 

 

La 2ª Divisione Blindata agli ordini del gen. Leclerc, comprendeva circa trecentocinquanta spagnoli, inquadrati nel 3° battaglione motorizzato del Tchad, agli ordini di un francese, veterano delle Brigate Internazionali, il comandante Putz. Esso era composto da quattro compagnie: la 9ª, la 10ª, l’11ª e la 12ª, nelle ultime tre circa un terzo degli effettivi era spagnolo, mentre la 9ª era a larga maggioranza spagnola, tanto che la lingua ufficiale era lo spagnolo, parlato anche dal suo comandante il capitano francese Raymond Dronne. I quadri erano spagnoli, il luogotenente Granell, come ufficiale aggiunto, e poi a capo delle due sezioni il sottotenente, ex carabinero, Montoya e l'aiutante capo, anarchico delle Canarie, Campos. Gli altri sottufficiali erano ugualmente spagnoli: Elias, Bamba, Federico e Bernardo Moreno.[13]

Uomini fortemente politicizzati con forte prevalenza anarchica. Il loro passato poteva essere letto sui veicoli della compagnia: Gernika, Madrid, Guadalajara, Estremadura, Teruel, Ebro, ....

Dronne conservò un giudizio e un ricordo molto positivo di questi soldati.

Egli trovò gli spagnoli ora difficili ora facili da comandare. Individualisti, idealisti, coraggiosi fornirono talvolta prova di una bravura un po’ folle, non erano indisciplinati ma volevano discutere gli ordini per capire cosa era loro chiesto. Un comandante doveva guadagnarsi la loro stima, finché egli non aveva fornito la prova del suo valore essi restarono molto freddi dei suoi confronti, ma quando si era guadagnato la loro considerazione allora la stima fu completa ed assoluta.

«Stimano avanti tutto il coraggio e soppesano i loro capi con gli occhi e il cuore di uno spettatore di una corrida. Non dimostravano spirito militare - erano, infatti, quasi tutti anarchici antimilitaristi - ma in battaglia erano magnifici soldati, valorosi ed esperti».[14]

 

Dopo un intenso periodo d’addestramento nella zona di Orano nel maggio 1944 la 2ª DB fu trasferita in Inghilterra, quindi tra il 31 luglio e il 4 agosto sbarcò in Francia nella regione d’Ecouché (Normandia). Il 9 agosto partecipò alla conquista di Les Mans, dal 14 al 20 a quella di Alencon, il 21 cadde Argentan, quando Leclerc fu raggiunto dalla notizia che Parigi era insorta, egli spedì immediatamente un distaccamento leggero verso la città ma il generale americano Gerow, da cui la 2ª DB dipendeva, lo bloccò, infatti, gli americani non avevano intenzione di occupare la capitale, in quanto tale occupazione avrebbe comportato un grosso sforzo logistico per rifornirla. Leclerc, sollecitato da De Gaulle, non mollò si recò al comando del generale Bradley, comandante del 12° gruppo di armate americane da cui Gerow dipendeva, e finalmente alle 19 e 30 del 22 agosto ottenne l'ordine di marciare su Parigi.[15]

Il capitano Dronne era fermo con la sua 9ª compagnia a qualche chilometro dalla Place d'Italie quando fu raggiunto dal gen. Leclerc. «Dronne, cosa fate qui?» Egli spiegò che si era fermato per ordine del generale Gerow. «Voi non siete obbligato ad ubbidire a degli ordini idioti" gridò Leclerc e puntando la canna di bambù che sempre lo accompagnava lanciò il suo proclama: <Soldati della Francia Libera e voi combattenti stranieri per la libertà della Francia, la vostra Divisione che si è coperta di gloria in migliaia di scontri, dovrà essere la prima ad entrare in Parigi. So che non arretrerete e terrete alto l'onore della 2ª Divisione delle Forze Francesi Libere, a voi volontari stranieri della 9ª compagnia l'onore e l'onere di essere in testa e di essere i primi a liberare Parigi».[16]

Dronne aveva ai suoi ordini due terzi della Neuve, la 2ª e la 3ª sezione, mentre la 1ª era bloccata a La Croix de Berny da un ridotto fortificato tedesco. Quest’avanguardia comprendeva ventidue veicoli e centoventi uomini. Il primo carro che entrò nella piazza dell'Hotel de Ville si chiamava Guadalajara seguito da Madrid, Teruel,Ebro..». Su un muro del giardino de Les Tuileries nella Place de La Concorde vi è una lapide dedicata: "A López Ros soldato della 2ª caduto un giorno di agosto 1944 nella liberazione di Parigi".

Alcuni parigini si precipitarono verso i primi carri americani convinti di scambiare qualche parola d'inglese dopo tanti anni di occupazione. Un avvocato di origine americana, Robert Miller, corse verso il primo mezzo cingolato e diede il benvenuto ai soldati in inglese, poi, non ottenendo risposta, parlò in francese ma senza maggior successo. Stupito Miller si domandò se erano sordomuti, ma scoprì poi che erano spagnoli, vecchi soldati dell'esercito repubblicano.[17]

I membri del Comitato Nazionale della Resistenza con a capo Georges Bidault diedero il benvenuto ai primi soldati della Francia Libera, ma anch’essi - ricordò Lèo Hamon - ebbero difficoltà a parlare con la truppa.

 

I tedeschi si difesero tenacemente e l'intera 2ª DB fu impegnata nei combattimenti a fianco della 4ª Divisione di fanteria americana e dei partigiani delle F.F.I., tra cui quattromila spagnoli. Gli scontri si susseguirono senza sosta e uno dopo l'altro tutti i capisaldi nazisti furono occupati. La liberazione di Parigi costò alla 2ª DB la perdita di ventotto ufficiali e seicento soldati.[18]

La nazionalità dei memorialisti diede versioni diverse dei combattimenti e delle azioni succedutesi, gli scrittori francesi ignorarono quasi del tutto l'apporto degli spagnoli, mentre quelli spagnoli attribuirono ai loro connazionali le imprese più importanti, come la cattura del generale tedesco von Choltitz, comandante del Gros Paris, all'Hotel Meurice. Così ad esempio per gli scrittori e giornalisti francesi i carri della 2ª DB portarono nomi cari alla storia d'oltralpe: Montmirail, Champaubert, Romilly (i carri di Dronne), Austerlitz, Verdun, Saint-Cry, ...

Alla sfilata della vittoria dall'Arco di Trionfo a Notre Dame, guidata da De Gaulle il 26 agosto, un reparto della Neuve prestò il servizio d'onore alla tomba del Milite Ignoto, mentre quattro suoi carri armati, di cui uno occupato da Dronne, gli altri tre da equipaggi spagnoli, affiancavano il corteo. Dopo un breve periodo di riposo, durante il quale le perdite umane (147 morti, 425 feriti e 21 dispersi) furono reintegrate da volontari delle F.F.I., la Neuve l’8 settembre partì per il fronte del Nord. Tra i rincalzi furono incorporati sei ex miliziani della colonna Durruti, che si erano arruolati per raccogliere armi abbandonate sui campi di battaglia e costituire dei depositi clandestini cui attingere per la futura guerriglia in Spagna. Il 16 settembre 1944 a Chatel sur Moselle, nel corso di un violento contrattacco tedesco cadde un capo sezione il cui posto fu preso da Federico Moreno, che guidò l'azione con tanto coraggio da meritarsi la croce di guerra con stella d'argento. Dopo Nancy, fu liberata il 23 novembre Strasburgo. L'avanzata verso il territorio tedesco proseguì ed il 27 aprile 1945 attraversato il Reno conquistò Augsburg e Monaco, occupò Sigmaringen dove fino a poco prima si era rifugiato il governo di Vichy. Il 4 maggio raggiunse Berchtesgaden e occupò Berghof, il nido d'aquila di Hitler, la gioia degli spagnoli fu oltremodo grande, avevano violato il santuario, di chi un tempo concorse a privarli della loro libertà. La prima parte del grande progetto si chiudeva, ora toccava alla Spagna.[20]

 

Terminato il conflitto la 13ªD.M.B.L.E. venne trasferita in Indocina dove partecipò alle operazioni belliche contro i Vietcong che combattevano per l’indipendenza del loro paese. Il primo periodo della guerra fu caratterizzato dal predominio delle forze francesi impegnate a contrastare un'aspra guerriglia, ma dopo la vittoria in Cina di Mao Tse Tung nel 1949, i Viets, ottenuti dai cinesi rinforzi in uomini e materiale, passarono decisamente all'offensiva. Dopo una serie di sanguinosi scontri, la guerra si concluse con l'ultima e definitiva sconfitta francese a Dien Bien Phu il 7 maggio1954. In questo conflitto La Francia impiegò essenzialmente reparti della Legione Straniera, che più volte fu reintegrata con nuove reclute per le pesanti perdite subite.[21]

Tra questi combattenti vi furono anche dei superstiti della Retirada e secondo quanto riportato da Juan Carrasco sull’ Album-souvenir de l'exil republican espanol en France (pagine corredate da rare fotografie dell'epoca) centinaia di questi legionari disertarono e si unirono alle forze di Ho Chi-min costituendo le Brigadas Internacionales divenute poi il battaglione Combattenti per la pace.[22]

 

 

NUMBER ONE SPANISH COMPANY (N. 1 S.C.)

 

 

Se in larga maggioranza gli spagnoli che presero parte come militari alla Seconda Guerra Mondiale furono incorporati nell'esercito gaullista, molti combatterono sotto la bandiera britannica ed in minor misura sotto quella statunitense e sovietica. In particolare con gli angloamericani si arruolarono quanti vedevano nei francesi i responsabili della caduta della Repubblica spagnola per la miope applicazione delle norme della politica di non intervento ed i colpevoli della disumana accoglienza e sistemazione dei fuggiaschi della Catalogna.

Quando il 30 giugno 1940 il generale De Gaulle incitò i reduci della 13ª D.B.L.E. di stanza a Trentham Park a seguirlo nella lotta contro il nazismo essi si divisero in tre gruppi. Il più numeroso, circa novecento uomini (tra cui 300 spagnoli) aderì all'invito, un altro (composto in prevalenza da francesi ed africani) preferì ritornare alle caserme in Nord Africa sotto la giurisdizione del governo di Vichy, mentre un terzo (composto in prevalenza da spagnoli: 160 o 250 a seconda delle fonti) si rifiutò di servire ancora sotto la bandiera francese. Questi ultimi diedero vita ad una singolare forma di protesta: quando fu impartito l'ordine di presentare le armi si sedettero per terra creando un notevole imbarazzo al generale, ai suoi ufficiali ed agli inglesi che li accompagnavano. Intervenne la Polizia Militare inglese che li trasferì a forza nelle carceri di Stafford e poiché essi erano militari francesi chiese istruzioni alla missione francese a Londra che ordinò di trasferirli via mare in Nord Africa, sotto la minaccia di fucilarne uno su tre. Ma una volta raggiunta la stazione successero nuovamente dei tumulti perciò gli inglesi, sensibilizzati dai viaggiatori, fecero intervenire un ufficiale che parlava spagnolo per capire le ragioni della protesta dopo di che trattennero quanti si rifiutavano di partire alloggiandoli provvisoriamente in un campo di addestramento vicino.

Agli spagnoli gli inglesi offrirono due possibilità o arruolarsi nei servizi ausiliari non combattenti dell'Esercito Britannico o lavorare nelle industrie belliche. Questa soluzione fu preferita da quanti per motivi d’età o di salute non erano in grado di affrontare il servizio militare. L'arruolamento non fu immediato, perché prima furono consigliati di ottenere il congedo dalle autorità consolari francesi facendo presente che poiché la loro ferma era per la durata della guerra, e la Francia aveva firmato un armistizio, essi si ritenevano sciolti da ogni impegno. Inaspettatamente i francesi non fecero obiezioni e acconsentirono al congedo.

Il 24 agosto 1940 a Westward Ho fu costituita la N.1S.C. Number One Spanish Company incorporata nel Territorial Pioneer Corp, in cui si arruolarono ex legionari della 13ª D.B.L.E. ed elementi della 185ª C. T. E., aggregata in Francia al Corpo di Spedizione Britannico, che dalle spiagge di Dunkerque avevano raggiunto l'Inghilterra, ottenendo contrariamente agli altri elementi delle C.T.E. di fermarsi nel Regno Unito. Le compagnie dei pionieri erano, di norma, composte da 280/300 uomini, divise in dieci sezioni con a capo un sergente, due caporali e due soldati di prima classe. La struttura di comando era costituita da un maggiore, un capitano e quattro tenenti. Per evitare complicazioni nelle relazioni con Madrid le autorità inglesi non fecero cenno agli spagnoli arruolati, che in pubblico dovevano farsi passare per latino-americani. Sotterfugio di scarso valore in quanto l'ambasciata spagnola di Londra era stata prontamente messa al corrente dei fatti dai suoi informatori. Dopo tre mesi d’intenso addestramento militare, malgrado fossero quasi tutti veterani della Guerra Civile e della Norvegia, la N.1 S.C. fu trasferita a Plymouth dove eseguì opere di forticazione della costa Sud dell'isola e cooperò all'opera di sgombero delle macerie, quando la città fu sottoposta a violenti bombardamenti. Quando iniziarono i preparativi dello sbarco in Normandia, venne utilizzata nell'ampliamento di strade, nella costruzione di parcheggi per automezzi o carri armati e nel trasporto di materiali. In questo periodo per il loro carattere allegro riuscirono ad accattivarsi la simpatia degli abitanti della zona. Il 13 agosto 1944. gli uomini della N.1 S.C. sbarcarono in Normandia con più di due mesi di ritardo, rispetto al previsto D + 2, in quanto il loro equipaggiamento era andato perduto a causa di una forte tempesta. Utilizzando il porto artificiale Mulberry arrivarono a Caen, dove ricorda il pioniere Emilio Borras: «In una falegnameria fabbricavo, dipingevo ed intestavo croci di legno per i soldati morti al fronte e sepolti nel cimitero di Bayeux». Seguendo l'avanzata delle truppe di prima linea giunsero a Rouen, dove collaborarono a stanare i franchi tiratori, proseguirono per Lille, fino ad acquartierarsi nell'ottobre 1944 a Saint Joris Weert nella zona fiamminga del Belgio, settore di competenza degli americani. Qui, dopo aver reciso gli alberi, preparavano legname, assi e travi, per la costruzione di ponti sui fiumi per le truppe alleate che puntavano al cuore della Germania. Trascorsero un mese di completa tranquillità in cui si dedicarono alla caccia dei conigli selvatici, ignari che di lì a poco sarebbero stati coinvolti nell'ultimo gran contrattacco tedesco sul fronte occidentale: l'offensiva delle Ardenne, il "canto del cigno del Terzo Reich". La N.1 S.C. passò agli ordini del Comando della 1ª Divisione americana e fu impegnata a preparare un dispositivo di difesa e scarsamente coinvolta nei combattimenti in quanto nel suo settore la penetrazione nemica fu molto limitata. Fece parte del servizio di vigilanza predisposto soprattutto per bloccare eventuali infiltrazioni di soldati tedeschi che portavano la divisa americana e che tentavano di creare confusione nelle retrovie alleate. Il sergente Balguè ricorda che «un giorno andavo di pattuglia con il caporale Gomez ed il soldato Melis quando giungemmo nelle vicinanze di un piccolo ponte alle cui estremità vi erano da una parte due americani e dall'altra sei o sette. Per un momento ci diedero l'impressione di parlare inglese con accento yankee, ma poi ci sembrò che si esprimessero in tedesco. Gomez senza pensarci sparò sui due che stavano nella parte del ponte a noi più vicina, abbattendoli, al che quelli sull'altra parte risposero al fuoco.

Retrocedemmo a tutta velocità verso la nostra unità, dove informammo gli ufficiali dell'accaduto. Ma questi non presero alcun’iniziativa, sembrava non avessero interesse a diffondere l'accaduto. Non fu mai chiarito se avevamo ferito o ucciso dei tedeschi travestiti o degli americani veri soprattutto tenendo conto che tra questi ve n’erano di origini molto diverse, per cui non era impossibile che avessimo preso un abbaglio».

Ricacciati i tedeschi, gli spagnoli ripresero il solito lavoro di disboscamento e preparazione di legname, soprattutto per le miniere di carbone della zona di cui era in corso la riattivazione. Nel frattempo incorporarono altri 60 spagnoli provenienti dalla 361ª Compagnia reclutata in Algeria.

La fine della guerra li sorprese a Givet. Il 17 settembre 1945 furono imbarcati nel porto d’Ostenda con destinazione Gran Bretagna. Mancavano alcuni disertarono per fermarsi in Belgio, dove nel frattempo si erano legati sentimentalmente a ragazze del luogo o per tentare di raggiungere la Francia, in cui vivevano le loro famiglie. Sbarcati a Dover andarono a Seaton e Sidmouth per collaborare alla demolizione delle opere di difesa costruite anni prima per contrastare la prevista invasione tedesca. Nel marzo 1946 la Compagnia fu sciolta nell’Albert Hall di Londra e le autorità britanniche d’emigrazione autorizzarono gli smobilitati a fissare la loro residenza in Gran Bretagna. Sul Bollettino pubblicato dalla Royal Pioneer Corps Associations un ufficiale inglese a proposito della N.1 S.C. scrisse: «Durante gli anni di servizio nell'Esercito Inglese portarono con orgoglio i distintivi del Corpo dei Pionieri e la loro lealtà si evidenzia nello stendardo della loro Compagnia su cui vennero ricamate le parole: 1940 - until Victory».

Vedremo in seguito che altre Compagnie di Pionieri furono formate in Nord Africa dopo l'occupazione americana delle colonie francesi.[23]

 

COMMANDOS

 

 

L'entrata in guerra dell'Italia ripropose, mentre le armi tacevano su tutti i fronti d'Europa dopo la resa della Francia, lo scontro armato fra eserciti contrapposti in Africa Settentrionale ed Orientale. Il 10 luglio 1940 l'Alto Commando Britannico decise la formazione d’unità particolarmente addestrate ad eseguire rapide incursioni nel territorio nemico per distruggere centri di rifornimento, sabotare impianti militari o acquisire informazioni sui movimenti dell'avversario: i cosiddetti commandos. Erano reparti costituiti da volontari d’ogni nazionalità, infatti, tra i primi si arruolarono degli italiani ex soldati delle Brigate Internazionali e degli spagnoli che avevano disertato dall’11° Battallion de Marche, il battaglione d'Oltremare, costituito a Le Barcarès e trasferito in Libano nell'aprile del 1940, dove era stato aggregato ai reparti della Legione Straniera costituenti parte del dispositivo di difesa creato per prevenire un eventuale attacco dei sovietici (all'epoca legati dal patto di non aggressione ai tedeschi) dal Caucaso o dalle Repubbliche dell'Asia Centrale. Quando giunse la notizia dell'armistizio franco-tedesco, numerosi appartenenti al battaglione cercarono di raggiungere la Palestina per arruolarsi nelle forze inglesi; molti furono ripresi e ricondotti ai reparti sorvegliati dalla Legione Straniera con pendente la minaccia di fucilarli come disertori. Furono salvati dal decreto del governo di Vichy dell'agosto 1940 che smobilitava i Battallions de Marche ed incorporava gli ex militari nei Groupements de Travailleurs Etrangers. Arruolamento che durò fino al giugno 1941 quando le truppe inglesi e quelle francesi gaulliste occuparono la Siria ed il Libano.

Quelli che raggiunsero la Palestina furono mandati in Egitto dove si stava costituendo il 50° Commando del Medio Oriente. Era un'unità eterogenea costituita da elementi delle nazionalità più diverse, infatti, oltre ai britannici vi erano i già citati italiani e spagnoli e poi ebrei di Palestina, polacchi, cechi, ..... Per superare le difficoltà linguistiche furono raggruppati per nazionalità ed a capo d’ogni gruppo furono posti dei militari inglesi o del Commonwealth che parlavano le diverse lingue. Agli spagnoli furono assegnati un sergente maggiore neozelandese che aveva combattuto con i repubblicani in Spagna, un uruguayano d’origine inglese, che allo scoppio della guerra aveva raggiunto le isole Falkland per arruolarsi, e un tenente di Gibilterra, Jame Russo, non molto amato dai soldati in quanto aveva combattuto con Franco nella Guerra Civile. L'addestramento era molto duro, consisteva in marce e manovre ed era uguale per tutti i gradi militari. Appresero a costruire zattere, tecniche di sabotaggio con esplosivi, montare e guidare cammelli. Nell'aprile del 1941 il Commando 50 si unì ai 30.000 inglesi, che insieme a 75.000 greci, costituivano il presidio di difesa di Creta, ultima parte della Grecia non ancora caduta in mano tedesca. Il 20 maggio 1941 iniziarono le operazioni per la conquista dell'isola da parte di paracadutisti e truppe aviotrasportate con alianti, le cui sorti volsero rapidamente a favore dei tedeschi, tanto che appena dieci giorni dopo fu dato l'ordine di evacuare e gli uomini del commando 50 costituirono con le brigate 4ª e 5ª neozelandesi e la 19ª australiana, l’estrema linea di difesa. Dopo aver resistito tenacemente per diversi giorni, dando tempo alle forze del Commonwealth di reimbarcarsi raggiunsero il porto di Sphakia da cui i superstiti furono trasferiti in Egitto. Un piccolo gruppo che era rimasto isolato raggiunse Alessandria qualche giorno dopo grazie all'aiuto della popolazione e di pescatori cretesi. Complessivamente i britannici persero nella battaglia di Creta 13.000 uomini, tra morti, dispersi e prigionieri e tra questi una fonte storica comprende circa 500 spagnoli. Una quarantina caddero prigionieri, che, essendosi fatti passare per spagnoli di Gibilterra (per non essere estradati in Spagna), furono considerati dai tedeschi come militari inglesi ed internati in campi di prigionia in Polonia o nella Germania dell'Est. Trentacinque di loro raggiunsero la Gran Bretagna alla fine della guerra. I reduci del Commando 50 vennero incorporati nel Queens Royal Regiment, cui si aggiunsero in seguito elementi del Battaglione d'Oltremare di stanza in Siria che, come prima citato, nel giugno 1941 era stata occupata dagli inglesi e dai francesi di De Gaulle. Aggregato alla 7ª Divisione Corazzata partecipò alla campagna di Libia e fu la prima unità alleata ad entrare in Tunisi. In questo periodo si arruolarono numerosi spagnoli liberati dai campi di lavoro forzato o provenienti da forze francesi o dalla Legione Straniera spagnola di stanza in Marocco.

La 7ª Divisione non partecipò allo sbarco in Sicilia, ma ebbe tre mesi di riposo nel corso dei quali fu riorganizzata, dopo di che partecipò il 15 settembre 1943 allo sbarco di Salerno. Combatté per circa due mesi in Italia poi il 19 novembre s’imbarcò per l'Inghilterra per prepararsi all'operazione Overlord. Il 7 giugno 1944 sbarcò ad Arromanches ed aggregata all’VIII Corpo d’Armata partecipò alle battaglie di Caen, Lisieux e Gand, dove si trovò alla fine della guerra.[24]

 

 

ARRUOLAMENTO IN NORD AFRICA

 

 

Lo sbarco americano dell' 8 novembre 1942 nel Nord Africa sarà il punto di partenza di un arruolamento massiccio nelle file alleate. In questi territori risiedevano importanti colonie d’emigranti spagnoli nonché molte migliaia di rifugiati della Guerra Civile, una parte dei quali arruolata nella Legione Straniera o internata nei campi di concentramento, trattati in precedenza al capitolo VII e XI. Secondo un rapporto del console spagnolo di Orano i suoi compatrioti, non contando i legionari, erano all'incirca 14.000. Politicamente attivi furono così classificati: 7.000 del P.S.O.E. e della U.G.T., 4.000 del P.C.E., 2.400 della F.A.I. e della C.N.T. e 400 repubblicani. Altri 7.000 erano emigranti economici di prima della guerra o loro discendenti.

 

Nel gennaio 1943, fu creata ad Algeri una Commissione Interalleata per gli internati politici, formata dai Consoli Generali di Gran Bretagna e Stati Uniti, da un rappresentante dell'Ufficio Affari Civili dello Stato Maggiore di Eisenhower e due degli Stati Maggiori inglese e francese. Le soluzioni prospettate sono quelle già riportate in precedenza, vale a dire:

-          emigrare in Messico,

-          arruolarsi nelle forze francesi, in specie nella Legione Straniera.

-          arruolarsi nel Pioneer Corp britannico,

-          lavorare come civili o per l'amministrazione francese o per l'esercito americano.

 

Anche se la questione più controversa restava quella del riconoscimento del diritto alla residenza, infatti, inglesi ed americani non prendevano impegni in proposito, molti non dimenticarono le umiliazioni subite nel 1939 all’epoca della Retirada ed il disumano trattamento dei campi d’internamento e scelsero gli angloamericani. I quali tuttavia attuavano una politica molto diversa, mentre gli inglesi continuavano a cercare di non inimicarsi maggiormente Franco per evitarne l'entrata in guerra a fianco dell'Asse, gli americani erano invece nettamente ostili al governo di Madrid ed iniziarono l'addestramento di 60 ex repubblicani spagnoli sulle montagne di Orano in previsione del loro utilizzo in Spagna in caso di conflitto.

Indicativo fu il travaso che avvenne tra le diverse forze militari, a centinaia lasciarono i Corpi Franchi del gen. Giraud per arruolarsi sotto le bandiere di Leclerc, altri lasciarono i francesi per passare con gli inglesi. Talvolta tali diserzioni erano semplicemente la conseguenza dell'incontro con amici o paesani che facevano parte di altre unità. Poiché quasi tutti si erano arruolati con nomi di fantasia era impossibile rintracciarli, il che creò una situazione di disagio fra gli Alleati.

Si è in precedenza parlato delle esperienze belliche di quanti combatterono sotto bandiera francese, occorre ora un breve cenno a quelle di quanti (un giornale francese riportò la cifra esagerata di 2.000) scelsero l’Union Jack. Gli inglesi formarono nel dicembre 1942 la 337ª Compagnia, in gran parte formata da ex legionari che avevano terminato il periodo di ferma e successivamente la 338ª, la 361ª, la 362ª e la 364ª. Non erano naturalmente formate esclusivamente da spagnoli ma vi anche erano uomini di altre nazionalità in cui predominavano austriaci, tedeschi, polacchi, ungheresi, rumeni e italiani. Tra l’8 novembre 1942 (data dello sbarco americano) e il 13 maggio 1943 (resa delle truppe dell'Asse) gli effetti dei Pionieri toccarono il numero di 20.000, sommando quelli arrivati dall'Inghilterra e quelli reclutati sul posto. Prima della campagna d'Italia operavano in Nord Africa 70 compagnie di Pionieri, le cui funzioni più importanti erano la vigilanza di polveriere e magazzini, carico e scarico di navi, sorveglianza di treni. Gli spagnoli sorpresero gli inglesi per la rapidità con cui lavoravano, ma la ragione di ciò non era dovuta a fervore lavorativo bensì alla possibilità di godere di maggior tempo libero poiché il lavoro non era vincolato ad un orario ma al completamento di un incarico, ad esempio caricare o scaricare un treno od una nave. Era anche dovuto al fatto che in questo modo diminuiva il rischio di essere coinvolti in bombardamenti da parte degli aerei dell'Asse.

Una volta avvenuto lo sbarco in Sicilia, una parte delle compagnie seguì le truppe combattenti in Italia, mentre le altre furono assegnate alla sorveglianza di magazzini e treni, attaccati da malviventi locali o saccheggiati da uomini dell'Intendenza per rifornire il mercato nero.

Nel settembre del 1944 tre compagnie, formate quasi esclusivamente da spagnoli, vennero mandate in Gran Bretagna e sbarcate a Glasgow. Qui lavorarono in polveriere prima alla preparazione e spedizione di proiettili e, poi una volta sopraggiunta la pace, al loro immagazzinamento in grandi caverne sotterranee. Arrivò infine l'ordine di prepararsi a partire e la cosa non parve normale, infatti, stavano per essere smobilitati e secondo le regole dell'esercito britannico ciò doveva avvenire nel luogo in cui erano stati arruolati. Il trasferimento in Nord Africa significava per gli spagnoli, che non avevano nessuna possibilità di ritornare in patria come gli altri rifugiati, il congedo in una terra inospitale e senza prospettive. Una loro delegazione andò a Londra dove si pose in contatto con deputati laburisti e giornalisti di tendenza liberale per cercare di far modificare l'ordine. Ottennero di essere trasferiti ad un lavoro civile presso una fabbrica tessile che preparava vestiario per i militari smobilitati ricevendo lo stesso trattamento degli inglesi, compresa la perquisizione all'uscita dallo stabilimento per evitare furti.

Ma la burocrazia militare non li aveva dimenticati e giunse un nuovo ordine di partenza. Essi allora dichiararono sciopero ed ottennero la solidarietà degli altri operai. Ai rappresentanti del Ministero della Guerra affermarono che volevano avere lo stesso trattamento riservato dagli inglesi ad altri stranieri, specie ai polacchi del gen. Anders che non erano stati obbligati a rientrare in patria. Del fatto s’interessò anche la stampa e si trovò un compromesso nel fatto che sarebbero partiti solo quelli che volevano essere congedati, gli altri avrebbero proseguito il servizio militare in Gran Bretagna. Si fermarono praticamente tutti e furono poi congedati verso la metà del 1946. Ritornati alla vita civile ebbero riconosciuti gli stessi diritti dei cittadini inglesi, anche se in maggioranza mantennero la cittadinanza spagnola, ed in seguito poterono farsi raggiungere dalle famiglie. Anche se non avevano combattuto in prima linea a quasi tutti fu concessa la British Medal conferita ai combattenti inglesi della seconda Guerra Mondiale, ebbero inoltre l’Africa Star, che corrispondeva alla Territorial Medal concessa a quanti avevano subito bombardamenti tedeschi in Inghilterra. Gli spagnoli fatti prigionieri nel corso dei combattimenti in Nord Africa erano sotto la giurisdizione italiana che normalmente li internava nel campo di Laterina, presso Arezzo, separandoli dai commilitoni inglesi e del Commonwealth. Il trattamento in questo campo era alquanto duro; essi ritornavano ad essere i rossi di Spagna, nemici giurati dei fascisti. Fortunatamente erano sotto il comando d’ufficiali inglesi che inoltrarono proteste alla Croce Rossa Internazionale che predispose un controllo del campo e l'invio di pacchi di conforto come a tutti gli altri prigionieri. Questi pacchi di circa dodici libbre furono la loro ancora di salvezza, infatti, non solo integrarono lo scarso cibo fornito dagli italiani ma consentì loro di scambiare con i contadini latte in polvere, caffè e sigarette con verdure fresche, frutta e vino. Quando l’8 settembre 1943 l'Italia firmò l'armistizio con gli Alleati, i prigionieri ebbero la sorpresa di trovare il campo senza vigilanza in quanto i militari di guardia si erano dileguati. La maggioranza decise di restare nel campo tanto era sicura che l'avanzata delle truppe alleate sarebbe stata rapida una volta cessata la resistenza degli italiani mentre altri marciarono verso il sud. Molti furono catturati dai tedeschi che li spedirono ai campi di prigionia in Germania dove il trattamento era duro, ma nel rispetto delle norme della convenzione di Ginevra. Parte di quelli che avevano lasciato il campo di Laterina si unirono ai partigiani italiani operanti tra Arezzo e Monte San Savino o sul Monte Amiata e combatterono con loro finché nel luglio 1944 si congiunsero con le truppe alleate.[25]

Va infine ricordato l'apporto delle centinaia di marinai spagnoli imbarcati su navi inglesi di cui molti pagarono con la vita la loro scelta, di quanti tramite la B.B.C. fecero trasmissioni radio in lingua castigliana e catalana rivolte verso la Spagna, di quanti operarono nello spionaggio ed eseguirono attentati a navi tedesche in Irlanda.

 

Un’importante figura civile della diaspora spagnola fu infine il dottor Josep Trueta, nazionalista catalano ex direttore dell'Ospedale Generale della Catalogna di Barcellona durante la Guerra Civile, dove aveva messo a punto un'efficace tecnica di cura delle ferite di guerra, che riduceva drasticamente il ricorso alle amputazioni. Il dottor Trueta fu invitato dalle autorità sanitarie inglesi a raggiungere l'Inghilterra dal suo esilio di Perpignan per mettere la sua esperienza a profitto dei colleghi britannici e soprattutto per coordinare il sistema di Difesa Passiva, che doveva assistere i feriti dei bombardamenti. Per superare il divieto che un medico straniero esercitasse in Gran Bretagna fu appositamente creato un posto di assistente di chirurgia di guerra al Wingfield Morris Orthopaedic Hospital di Oxford, dal quale dipendevano ventidue cliniche esterne. Il 15 gennaio 1940 fu accolto nella Royal Society of Medicine e nello stesso anno nominato membro onorario della British Orthopaedic Association. L'Università d’Oxford gli conferì la Laurea honoris causa e gli assegnò la cattedra d’Ortopedia, divenendo così il dottor Trueta il primo cattedratico straniero in una disciplina scientifica.[26]

 

 

FRONTE RUSSO

 

 

Abbiamo visto nelle pagine che precedono (cap. IX) che erano emigrati in U.R.S.S. circa quattromila reduci della Guerra Civile Spagnola, quando questa fu attaccata dalla Germania. Ottocento di loro si arruolarono nell'esercito sovietico o combatterono con le forze partigiane e centottantatre di loro caddero sui diversi fronti. Tra gli spagnoli alcuni erano piloti che, sorpresi nell’U.R.S.S. dal crollo della Repubblica mentre stavano completando il loro addestramento, entrarono nell'aviazione sovietica. Tra questi il madrileno Alfonso García Martin, che volava sotto il nome d’Alexander Guerasimov, che combatté sui fronti di Voronezh, Stalingrado, Kursk, e ricevette numerose citazioni per il valore dimostrato. Per un crudele destino sarebbe stato abbattuto l'ultimo giorno della guerra, l'8 maggio 1945. Altro aviatore Carlos Aguirre che dopo duecentosettantuno duelli aerei fu abbattuto nelle operazioni di conquista di Berlino. Altri si arruolarono nell'esercito, raggiunsero i gradi d’ufficiale ed ottennero alte onorificenze militari per i coraggio dimostrato, tra questi Ruben Ruiz Ibarruri (figlio della Passionaria) morto nel 1942 sul fronte di Stalingrado decorato dell’Ordine di Eroe dell'Unione Sovietica e Paul Nelken (figlio di Margherita Nelken) morto a ventitrè anni al comando della sua batteria. Settantaquattro giovani di Bilbao che si erano arruolati alla fine del 1941 nella difesa di Leningrado riuscirono a cacciare i tedeschi da un'importante postazione e la tennero nonostante la violenta reazione nemica fino a quando giunsero i rinforzi subendo gravissime perdite: ne restavano in vita, infatti, solo sette. Francisco Gullon e José Pascual furono decorati con l'Ordine di Lenin, mentre altri settanta ottennero l'Ordine della Bandiera Rossa, La Stella Rossa ed altre onorificenze, tra questi l'infermiera spagnola Maria Pardinas decorata per lo sprezzo della vita dimostrato nel recuperare e assistere oltre cento feriti nell'assedio di Leningrado.

Quando le avanguardie delle truppe sovietiche e quelle americane si incontrarono a Torgau sulle rive dell'Elba comunicarono tra loro in spagnolo, tramite Alberto Roya che funse da interprete con dei californiani che parlavano tale lingua. Il 22 giugno 1999, nel 58° anniversario dell’Operazione Barbarossa (invasione tedesca dell’U.R.S.S.) è stato inaugurato a Novoduguinó, nella regione di Smolensk, un monumento a ricordo dei caduti spagnoli. Sul monumento sventolavano le bandiere dell’U.R.S.S. e quella rosso e gialla del Regno di Spagna anche se avevano combattuto per la Repubblica durante la Guerra Civile. Due anni prima, nel 1997, i resti dei 4.500 caduti della Divisione Azul, morti combattendo in Russia a fianco dei nazisti, erano stati tumulati nel cimitero tedesco di Novgorod, dove sorge un monumento alla loro memoria (El Pais 24.6.1999 n. 1147).

Oltre agli spagnoli l’Unione Sovietica accolse molti stranieri, di massima comunisti, che avevano combattutto nelle Brigate Internazionali od operato nei servizi della Repubblica Spagnola, tra cui numerosi mutilati ed invalidi bisognosi di cure. Come gli spagnoli, gli stranieri in grado di combattere parteciparono alla guerra di resistenza contro l’aggressore, ed asumendo come campione i nominativi degli italiani riportati su “La Spagna nel Cuore” (ediz. AICVAS 1996) risulta che dei trentasei nominativi riportati.:

-          quattro erano autorevoli membri del Partito Comunista,

-          quindici erano invalidi e mutilati, accolti per spirito umanitario,

-          dodici si arruolarono nell’Armata Rossa o tra i partigiani (due caddero e tre furono decorati

per atti di valore),

- tre furono addetti alle trasmissioni radio e di propaganda,

- due furono imprigionati nei gulag staliniani e vi morirono.

 

 

 

Giunti al termine di questa lunga e sanguinosa epopea militare resta da determinare quanti spagnoli vi parteciparono e quanti caddero. Il numero dei profughi in età di prendere le armi sarebbero stati circa duecentomila, gli altri settantamila erano civili che non rientravano in una classe di potenziali combattenti. Secondo J. L. Abellán abbastanza vicino alla realtà sarebbe il numero di ventunomila partecipanti alla Resistenza nelle file delle F.F.I. mentre gli sembra eccessivo il numero di quindicimila spagnoli di Leclerc. Infatti, al momento della sua riorganizzazione in Marocco, la 2ª DB nell'agosto del 1943 contava sedicimila uomini che con le unità di servizio, trasmissione, riparazioni, ecc. poteva raggiungere le ventimila unità. Considerando che quasi tutti gli spagnoli erano inquadrati nel 3° battaglione del reggimento del Tchad, perciò sarebbero stati poco più di mille. Pons Prades calcolò invece circa duemila.

Parrebbe invece prossimo alla realtà il numero di cinquemila arruolati nella Legione (considerando gli ingaggiati in Francia dopo il 1939 e nell'Africa del Nord all'inizio del 1943).

I Reggimenti di fanteria n° 10°, 11°, 12°, 13°, 15°, 21°, 22° e 23°, formati nel 1939-1940 contarono non meno di diecimila spagnoli. Riassumendo, sembra attendibile valutare in oltre quarantamila i combattenti spagnoli; se poi sono considerati quelli delle C.T.E. che furono mandati al fuoco (in gran parte fatti prigionieri ed internati in Germania), il numero supera le cinquantamila unità, cioè il venticinque per cento dei rifugiati in grado di prendere un'arma.[27]

 

Le perdite, con una certa approssimazione, possono essere così riassunte:

 

-          seimila caduti nell'esercito regolare francese (da Narvik alla Germania),

-          mille caduti nelle forze britanniche,

-          seicento caduti nelle formazioni partigiane,

-          diecimila morti nei campi di sterminio.

 

Un tributo di sangue che interessò il 30% dei profughi spagnoli coinvolti nella seconda guerra mondiale, morti che vedremo non ebbero peso nelle successive vicende della storia spagnola e mondiale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

X V

 

LA GUERRIGLIA IN SPAGNA

 

 

 

 

Nosotros no somos bandoleros,

somos la vanguardia de la lucha

de un pueblo por la libertad.

 

Cristino García Grandas[13]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OLTRE I PIRENEI

 

 

Il 21 agosto 1944, quando in Europa il nazifascismo non era ancora stato liquidato, l'U.N.E. lanciò un appello all'insurrezione in Spagna: «E' urgente finirla con Franco e la sua Falange, prima della vittoria delle Nazioni Unite, affinché la Spagna occupi in piena sovranità il posto che le spetta fra i popoli liberi. In marcia per l'insurrezione nazionale liberatrice!» e ordinò ai guerriglieri spagnoli di radunarsi nella zona di Tolosa.

 

Circa settemilacinquecento uomini, di cui un terzo armato, secondo la stima del generale Chevance Bertin, comandante in capo delle F.F.I. della zona Sud, si concentrarono nei dipartimenti limitrofi. I guerriglieri, giovani per la maggior parte, bruciavano del desiderio di continuare la lotta per liberare la Spagna e rientrare in patria, ma tra le unità non regnava la dovuta armonia per i soliti contrasti ideologici, che durante la guerra partigiana avevano indotto l'U.N.E. ad eliminare diversi libertari tanto che il Comitato nazionale della C.N.T. indirizzò un ultimatum al Comitato centrale del P.C.E. in cui si dichiarava senza equivoci:

«A partire da questa comunicazione non siamo più disposti a tollerare alcuna brutalità o attentato ai nostri militanti. Riterremo direttamente responsabile la direzione del P.C.E. nelle persone dei suoi dirigenti per quanto potrà succedere». I crimini cessarono, non le diatribe.

 

Il governo provvisorio francese non aveva ancora autorità sufficiente per imporsi e nonostante i rapporti dei servizi d’informazione circa la concentrazione d’armati lungo la frontiera, fossero allarmistici, si limitò ad emanare contro i guerriglieri spagnoli le stesse misure messe in atto dal governo di Vichy gli anni precedenti: «Divieto di avvicinarsi alla frontiera per una fascia di venti chilometri», disposizione che non trovò pratica attuazione perché erano le F.F.I. che controllavano la zona ed erano solidali con i loro compagni d'arme spagnoli. Le aspirazioni dei guerriglieri spagnoli contrastavano inoltre con i progetti politici sia del governo provvisorio francese sia degli Alleati, questi soprattutto non avevano alcun’intenzione di rompere le relazioni diplomatiche con la Spagna franchista. Il fatto poi che una parte consistente del territorio francese fosse sotto il controllo di forze rivoluzionarie, preoccupava il generale De Gaulle, che intendeva creare uno Stato centralizzato sotto la sua autorità incontrastata e temeva la concorrenza del P.C.F., di cui gli uomini dei F.T.P. erano il potente braccio armato. Era nata a Parigi la leggenda della Repubblica Rossa di Tolosa in cui erano tollerati furti, violenze e giudizi sommari. Per meglio controllarli il governo offrì dapprima ai guerriglieri la cittadinanza, a condizione accettassero l'integrazione nell'esercito, trasformandosi così da indesiderabili in cittadini francesi a tutti gli effetti.[1]

Quindi, poiché la presenza dell'esercito regolare nelle regioni in cui il potere della Stato sembrava più debole sembrò costituire la miglior garanzia per ristabilirne l'autorità, fu inviato un reggimento di zuavi nella regione di Bordeaux, col pretesto di partecipare alla conquista di Royan, ancora occupata dai tedeschi, ma in realtà per impressionare la popolazione dei dipartimenti ancora sotto il controllo di guerriglieri e partigiani. Contemporaneamente fu inviato un reggimento di nordafricani tra Tolosa e la frontiera dei Pirenei, dove appunto si erano raggruppati i repubblicani spagnoli mentre le F.F.I. furono mandate a combattere le ultime sacche di resistenza tedesche sull'Atlantico.[2]

 

Il 19 ottobre, i guerriglieri penetrarono in territorio spagnolo attraverso la valle d'Aran, ma non vi fu tuttavia alcuna reazione immediata da parte delle autorità francesi per bloccare l'operazione. Solo in un secondo tempo il Ministero degli Interni intervenne presso quello della Guerra che diede disposizioni al comando militare della zona dei Pirenei, che aveva sede a Pau, affinché fossero bloccati i passaggi d’uomini e mezzi, i raggruppamenti spagnoli allontanati dalla frontiera, disarmati e radunati in campi o zone speciali sotto il controllo dell'esercito. La storia si ripeteva. Da diecimila a quindicimila guerriglieri, chiamati dai paesani con l'appellativo in uso nel XIX secolo di bandoleros (banditi - briganti), entrati in Spagna al comando del colonnello Lopez Tovar, con l'obiettivo di stabilire una solida testa di ponte nella regione montagnosa della Valle d'Aran, conseguirono alcuni successi contro le piccole guarnigioni locali dell'esercito e della Guardia Civil, ma furono bloccati davanti al tunnel di Viella - la capitale della provincia - dall'intervento una Divisione di navarresi comandata dal generale Solchaga.

La popolazione che avrebbe dovuto appoggiarli si dimostrò molto tiepida nei loro confronti se non ostile. Dichiarò il colonnello Tovar: «L'errore fu di aver creduto che gente che aveva sopportato cinque anni di repressione franchista, che aveva visto tutti gli oppositori del regime essere ridotti al silenzio avesse ancora la forza di sollevarsi». Qualcuno disse:

«L'altra volta il sangue arrivava ai gomiti, questa volta sarebbe arrivato alle spalle».[3]

Dopo i primi scontri ed i morti, sepolti in fretta, i guerriglieri che portavano con se 175 feriti riattraversarono i Pirenei il 29 agosto. L'incursione non era durata che undici giorni e lasciò la maggior parte dei protagonisti traumatizzati; essi poterono costatare come tutto fosse stato lasciato al caso e come la popolazione, con cui avrebbero dovuto realizzare un gran movimento insurrezionale, fosse talmente terrorizzata, che rimase inerte, perciò le loro forze risultarono troppo modeste per far fronte a circa ottantamila tra poliziotti e soldati

Se le perdite furono nel complesso modeste, qualche autore parla di tremila guerriglieri fatti prigionieri dai franchisti, il morale andò sotto terra e si ebbero diserzioni in massa.

Apparve chiaro che non era pensabile una sollevazione generale in Spagna contro Franco perciò si ripiegò su azioni di guerriglia operate da piccole bande nella Sierra Nevada, nella Sierra Morena, nelle montagne delle Asturie e del Léon ed in Catalogna.

 

Le conoscenze storiche circa l'azione di guerriglia è alquanto frammentarie anche perché il governo spagnolo forniva informazioni solo sulle catture, processi ed esecuzioni, mai degli scontri o dei sabotaggi. Secondo una fonte ministeriale le vittime della Guardia Civil e dell'Esercito ammontarono a 256 poliziotti e 254 soldati, tra cui 10 ufficiali, per contro il quotidiano ABC riportò che tra il 1943 e il 1952 i circa 15.000 ribelli effettuarono 8.275 "azioni illegali" ed ebbero 5.548 morti e 634 prigionieri, dei quali 256 deceduti in seguito per le ferite riportate negli scontri.[4]

Alcuni di questi guerriglieri avevano fatto parte durante la guerra civile del XIV Cuerpo de Ejercito, che istruito dal colonnello sovietico Ilya Grigorievich Starinov operò dietro le linee franchiste in azioni di sabotaggio. Da fonti nordamericane, in quanto in esso si arruolarono tre statunitensi, sappiamo di alcune azioni compiute in Andalusia quali il deragliamento di treni nei pressi di Cordoba, tra cui uno che trasportava di soldati ed aviatori italiani, la liberazione di trecento prigionieri dalla fortezza di Motril e la distruzione del ponte sul fiume Guadalaviar nei pressi di Albarracin, in preparazione all'offensiva per la conquista di Teruel. A quest’azione s’ispirò Hemingway per il romanzo Per chi suona la campana, anche se poi ambientò l'operazione più ad est vicino a Segovia.[5] [6]

Dopo il 1945 riprese l'immigrazione, specie politica.

Javier Rubio in La emigración española a Francia stimò che, dal 1946 al 1949, 30.000 spagnoli richiesero lo status di rifugiato contro 12.000, dal 1950 al 1956. Guy Hermet in Les Españoles en France segnalò fino al 1951 un'aumento di 80.000 rifugiati, mentre Jacques Vernant in Les réfugiés dans l'après-guerre parlò di un aumento, dal 1946 al 1952, di 22.000 secondo le fonti spagnole o di 70.000 secondo quelle francesi.

La profonda miseria che colpiva le classi sociali non risparmiava le forze dell'ordine e le rendeva inclini alla corruzione di fronte ai tentativi d’espatrio ed al disimpegno di fronte alla guerriglia. Questo stato di cose preoccupò seriamente le autorità franchiste, tanto che il Caudillo incaricò il Ministro degli Interni Blas Pérez Gonzalez di prendere in mano la situazione, coadiuvato dai generali Yagüe e García Valiño. L'apparato repressivo fu perfezionato, furono impiegati alla frontiera soldati marocchini, incentivati con un premio di cento pesetas per ogni fuggiasco catturato vivo o la metà se ucciso. Alle guardie di frontiera fu inoltre ordinato di sparare a vista contro quanti tentavano l'espatrio. Il 10 agosto 1947, a Bourg Madame, esse spararono contro un gruppo di cinque persone, uccisero una donna ed arrestarono le altre quattro, tra cui un bambino di dieci anni. Fu potenziata una rete d’informatori oltre frontiera. Il 20 aprile 1945 un rapporto del servizio d’informazioni della Marina americana segnalò che venti guerriglieri, appena arrivati dalla Francia per raggiungere le diverse bande operanti nel paese, erano caduti in un'imboscata della polizia che n’aveva ucciso due, feriti due e catturati quattro. L'autore del rapporto dichiarò: «Il Servizio d’Informazioni dell'Esercito spagnolo è sempre ben informato riguardo agli Spagnoli in Francia. C'è chi commette l'errore di fidarsi di Francesi, che poi informano le autorità spagnole». Appoggiandosi ad agenti infiltrati, facilmente mimetizzati tra le migliaia di profughi, la polizia franchista non esitò a sconfinare in territorio francese per prelevare dei rifugiati. Dal 1945 al 1948 sono segnalati molti casi, come quello di due boscaioli, Fibla Anastasio e Florenza Ramón, militanti della C.N.T., vecchi partigiani del colle dell'Ouillat, prelevati presso Plac de l'Arc.[7]

Il sistema repressivo funzionò e molti guerriglieri furono uccisi o catturati, per essere sottoposti al giudizio di un tribunale militare, la cui condanna a morte era scontata. Trattandosi perlopiù di ex appartenenti alle sue formazioni partigiane la Francia ne prese le difese dichiarando ufficialmente il suo antifranchismo. La Spagna da parte sua non nascose l'avversione per la Francia, che proteggeva i suoi nemici, e alimentò una violenta campagna di stampa antifrancese: «Questi banditi venuti dalla Francia» titolò l’Avanguardia il 3 dicembre 1946 dopo un attentato esplosivo a Madrid. Le pesanti pene che colpivano questi eroi della Resistenza francese provocarono tanta indignazione che generalmente Parigi, malgrado avesse rotto le relazioni diplomatiche dal 1° marzo 1946, intercedeva per loro presso le autorità di Madrid. In rari casi la pena capitale fu commutata nell'ergastolo, ma molto sovente i rappresentanti stranieri furono trattati con disprezzo dal Caudillo.

 

Il 15 aprile 1945, Josè Vitini, ex luogotenente- colonnello del maquis dell'Aude e liberatore di Gard fu arrestato con dei compagni nel corso dell'attacco alla sede della Falange a Madrid: uno di loro fu condannato al carcere a vita, gli altri a morte. Erano tutti ex resistenti: José Vitini, Victoriano Huerta, Francisco Bejar, Julio Nava, comandante F.F.I. decorato per fatti di guerra, Julio Rodriguez, colonnello F.F.I., che, nonostante le proteste, furono fucilati nel giugno 1945. L'intervento delle autorità di Parigi salvò invece la vita ad Enrique Marco Nadal, che era ritornato in Spagna, il 1° maggio 1946 per rimpiazzare il delegato interno della C.N.T. che era stato arrestato, quando fu a sua volta catturato a Barcellona in 18 maggio 1947. A questa notizia, il conte di Benyton, ex comandante della compagnia anticarro dove aveva militato Nadal durante la guerra, si recò all'ambasciata di Spagna a Parigi per testimoniare in suo favore e sollecitò l'aiuto di De Gaulle. L'intervento del generale e del Papa Pio XII ebbero buon esito, la pena di morte fu commutata in quella dell'ergastolo. In occasione dei venticinque anni di pace il Caudillo, magnanimo, accordò un'amnistia nel 1963, e Enrique Marco Nadal fu liberato dopo diciassette anni, un mese e sette giorni di prigione.

 

Un altro eroe della Resistenza francese assassinato da Franco, fu il già citato Cristino García Grandas, ricordato in una stele a La Madeleine (Gard), come capo del maquis che nello scontro del 23/8/1944 sbaragliò una colonna tedesca di 1.500 uomini.[8]

Alla fine della guerra, il governo provvisorio offrì a Cristino García onori e decorazioni, il riconoscimento del suo grado di luogotenente colonnello, la nazionalità francese, ... Egli rifiutò tutto: non era un militare ma un rivoluzionario, e ritornò in Spagna per proseguire la lotta. Nel corso di un'operazione di polizia, fu circondato con altri compagni, tra cui Manuel Castro Rodriguez, ex luogotenente colonnello, comandante la 3ª brigata della 26ª Divisione delle F.F.I. e Antonio Medina Vega, comandante della 2ª compagnia della 5ª brigata della stessa divisione. Il 22 febbraio 1946, la sbrigativa giustizia franchista li condannò tutti a morte. Nonostante le manifestazioni a loro favore e gli appelli alla clemenza la sentenza fu eseguita nella prigione di Carabanchel a Madrid.

«Noi non siamo dei banditi, noi siamo l'avanguardia della lotta di un popolo per la libertà» dichiarò solennemente nell'aula del tribunale Cristino García a quelli che lo giudicavano e lo condannavano a morte. Nell'agosto 1946 la città di Saint Denis (Seine) gli dedicò una strada e a La Madeleine una stele lo ricordò: «Honneur à Cristino García, chef du maquis». Il 25 ottobre 1946 il generale di divisione Olleris, comandante della 9ª regione militare, lo fece citare alla memoria all'ordine dell'Esercito francese con attribuzione della croce di guerra con stella d'argento. Il 15 marzo 1947, al Velodromo d’Inverno di Parigi il Ministro della Guerra gli conferì sempre alla memoria, la più alta decorazione francese.

Altri noti resistenti subirono la stessa sorte: Francisco Carrangué Munoz, Gonzalo Gonzalez, Francisco Esteve, Luix Fernández Avila, Joaquin Almazán, Eduardo Gonzalez, Alejandro Moreno Gomez, Eduardo Fuentes....... Le proteste ufficiali del governo francese rimasero inascoltate, queste sentenze suonavano offesa per la Francia, che aveva elevato questi uomini al rango d’eroi.

Alla stessa data, secondo un rapporto di polizia, centocinquanta repubblicani arrestati ad Alicante nel giugno furono fucilati, come pure a Barcellona... Gli anni passarono e la repressione si rinforzò. Negli anni 1950 una parte della popolazione spagnola osò insorgere contro lo Stato di polizia. Al di fuori della guerriglia, la propaganda clandestina circolava, fino a penetrare anche negli angoli più remoti della penisola iberica, e gli scioperi proibiti si moltiplicarono, in particolare nel nord della Spagna: Catalogna e Paesi Baschi, ugualmente gli atti di sabotaggio.

Ma talvolta l'assassinio puro e semplice prevalse sulla parodia della giustizia. Nell'ottobre 1951, undici comunisti entrati clandestinamente a Barcellona a bordo di una nave italiana, furono arrestati e fucilati sul posto. Il 14 marzo 1952, trentuno militanti della C.N.T. furono condannati: venti al carcere da sei mesi a trent'anni e undici a morte, a sei di questi la pena fu commutata in trent'anni di prigione mentre gli altri furono giustiziati. Il 2 aprile un nuovo consiglio di guerra si riunì, doveva giudicare ventisette altri militanti anarchici sotto l'accusa di sabotaggio e di attentati dinamitardi a linee dell'alta tensione. Le pene richieste furono di tre condanne a morte, tredici tra i quindici e i trent'anni di prigione, le altre a pene minori. Il giorno stesso, trentaquattro militanti del P.S.U.C. comparirono a loro volta davanti ad un tribunale militare Di fronte a quest'ecatombe le manifestazioni e le campagne di stampa si moltiplicarono. I più attivi furono i comunisti. Essi lanciarono degli appelli all'unità d’azione, ma la C.N.T. e l'insieme dei movimenti libertari rifiutò ancora una volta di fare campagne con i loro avversari irriducibili.

Le prigioni non si vuotarono mai, esse imprigionarono uomini con una stessa caratteristica: ex rifugiati, ex partigiani e futuri condannati. Tra il 1952 e il 1953 al carcere Modelo a Barcellona erano detenuti tremila prigionieri. Agli inizi del 1953 un rapporto dei Servizi Generali d’Informazione francesi contò quasi quattrocento detenuti per lo più comunisti, tutti vecchi rifugiati del 1939, di cui diversi furono incorporati nel giro d’alcuni mesi nei battaglioni di lavoro forzato che lavoravano alla costruzione del mausoleo della Valle dei Caduti. A questi reparti venivano assegnati quanti non erano stati condannati al carcere duro, bastava far richiesta sulla base della formula: «Un giorno di carcere contro due di lavoro» per cui praticamente al pena si raddoppiava.

Diversi militanti francesi si unirono ai compagni spagnoli e molti di essi vennero arrestati. Nel 1953, su quarantadue stranieri detenuti nel carcere di Gerona vi erano trenta francesi quasi tutti incarcerati per delitti politici e centosessanta spagnoli fra i quali sessanta politici.

In quel tempo fu creato il temibile Despacho de Investigacion Social (D.I.S.) il cui compito era la ricerca d’informazioni interessanti tanto il campo politico che sociale, benché la sua missione centrale fosse l'individuazione di agenti dell'Est. Il 1° gennaio 1954, la sua giurisdizione si estese su tutto il territorio nazionale e per conseguenza aumentarono gli arresti.[9]

 

Di tutta la Spagna, la Catalogna fu sicuramente la regione più straziata. Terra tradizionale di guerriglia, la lotta armata si sviluppò più che in altre parti e per lungo tempo essa conservò questa posizione di rilievo. Il campo della Bota, riservato alle esecuzioni capitali, fu regolarmente arrossato dal sangue dei condannati. In questa culla dell'anarchismo che fu la Catalogna i combattenti antifascisti più conosciuti furono libertari. Negli anni 50, la maggior parte proseguì la lotta nonostante i rischi, la mancanza di prospettiva e il disconoscimento di una parte del movimento. I più famosi e più braccati furono El Quico e Caraquemada. Il primo, il cui vero nome era Francisco Sabaté Lloppart, classificato Nemico Pubblico n°1, fu assassinato nel giugno del 1960. Egli cadde in un tranello, crivellato di colpi riuscì a fuggire ma fu ripreso dai suoi aggressori e finito nelle vie della piccola città di San Celoni.

Il secondo, era una figura leggendaria della Resistenza francese: si trattava di Ramón Vila Capdevila, più conosciuto in Francia sotto lo pseudonimo di Raymond.[10]

Egli aveva messo la sua esperienza di guerrigliero e il suo ardore al servizio della Francia e aveva combattuto fino all'ultimo nella sacca atlantica. Aveva rifiutato tutte le decorazioni francesi ed era rientrato in Spagna. Durante diciotto anni egli aveva proseguito senza soste la guerra dell'ombra (sabotaggi di linee d’alta tensione, di treni, d’installazioni elettriche.....) e condotto attraverso i Pirenei, che conosceva perfettamente, i gruppi d’azione anarcosindacalisti. «La lotta è la lotta" - dichiarò - ma la violenza ed il sangue mi ripugnano sempre. Un uomo senza difesa non è più un nemico» Verosimilmente la polizia non condivideva questi sentimenti! Il 7 agosto 1963, nel villaggio di Creu de Perello, tra Berga e Ripoll, egli cadde in un'imboscata. Il medico legale José María Reguant dichiarò più tardi che Ramón non era morto subito ma che era stato lasciato agonizzare, senza soccorso, per diverse ore.[11]

L’ultima vittima illustre di questo periodo di repressione fu Julian Grimau, membro del P.C.E., che arrestato il 7 novermbre 1962 fu processato per fatti compiuti durante la guerra spagnola e condannato a morte. Durante un interrogatorio nella Direcion General de Seguridad il prigioniero fece un salto nel vuoto, ma poiché il fatto era accaduto di fronte a numerosi testimoni fu raccolto, ricomposto e presentato davanti al tribunale con le tracce della caduta sul volto sfigurato.[12] Nonostante l'imponente mobilitazione pubblica mondiale, tra cui il cardinale Montini, futuro Papa, e Kruscev, egli fu fucilato il 20 aprile 1963.

 

Due nuove organizzazioni clandestine apparvero sulla scena spagnola a seminare terrore: l'E.T.A. (Euzkadi Ta Azkatasuna = il Paese Basco e la sua Libertà) e il F.R.A.P. (Frente Rivolucionario Armato Popular) di ispirazione marxista-leninista. L'azione più clamorosa degli uomini dell'E.T.A. fu l'attentato che il 20 dicembre 1973 costò la vita al Primo Ministro Carrero Blanco. Agli attacchi contro militari, poliziotti e politici lo stato rispose con condanne a morte mediante fucilazioni o la vil garrote. Numerosi furono i terroristi arrestati, processati e condannati a morte. Gli ultimi furono tre catalani del F.R.A.P. garrotati il 27 settembre 1975, cinquantaquattro giorni prima della morte di Francisco Franco, avvenuta nella notte tra il 19 e il 20 novembre.

La spirale di violenza animata da questi movimenti non è cessata neanche dopo il ripristino della legalità democratica in Spagna, ma questa è un'altra tragica pagina della Storia contemporanea.

 

 


 

 

 

 


 

X V I

 

CONCLUSIONI

 

 

 

Como estaba feliz

nuestra Revolución!

 

 

 

 

 

 

 

Eventi che interessarono la Spagna dal 1946 al 1977 per i riflessi che essi ebbero sulla vita dei rifugiati.

 

1 marzo 1946 La Francia rompe le relazioni diplomatiche con la Spagna

e chiude la frontiera Sud.

12 dicembre 1946 L'Assemblea dell’O.N.U., approvata una mozione di censura,

invita gli stati aderenti a rompere le relazioni diplomatiche

con la Spagna.

9 febbraio 1948 La Francia riapre la frontiera.

4 novembre 1950 L' O.N.U. revoca la mozione del 1946

Riprendono i contatti con gli U.S.A.

1951 Riallacciati rapporti diplomatici con stati europei e U.S.A.

19 novembre 1952 La Spagna è ammessa all'Unesco.

27 agosto 1953 Nuovo Concordato con la Santa Sede

20 settembre 1953 Stipula accordo difensivo con gli U.S.A. con la cessione di

di basi aeree, navali e radar

14 dicembre 1955 La Spagna è ammessa all’O.N.U.

1967/1970 Allacciati rapporti diplomatici con paesi dell'Est europeo,

ultima l’U.R.S.S.

20 novembre 1975 Muore Francisco Franco.

15 giugno 1977 Prime elezioni libere.

 

 

La lunga e tragica odissea dei superstiti della Retirada può essere sintetizzata in un sentimento di sconforto ed amarezza derivante dalle dolorose cicatrici che a sessant’anni di distanza ancora li tormentano, in un profondo senso di delusione dai molteplici aspetti passati ed attuali per:

 

-          la rigida politica di non intervento praticata durante la guerra civile. Inoltre mentre erano smistati ai centri d’accoglienza ebbero modo di vedere i lunghi convogli di materiale bellico bloccati nelle stazioni francesi.

-          l'accoglienza indegna d’esseri umani. Le umiliazioni e il pernottamento senza ripari nonostante la temperatura rigida imposti anche a feriti, vecchi, donne e bambini.

-          il saluto ai franchisti alla frontiera e il pronto riconoscimento del governo di Burgos.

-          la vita nei campi d’internamento dove furono sottoposti ad una disciplina degna di criminali.

-          lo sfruttamento subito nelle Compagnie di lavoro.

-          la scarsa considerazione data alla loro partecipazione alla guerra con i partigiani e le F. F. L.

-          la politica estera francese e delle nazioni alleate che fecero prevalere la ragion di Stato agli impegni presi alla fine della guerra verso la Spagna.

-          l'evolversi della situazione politica ed economica spagnola dopo la morte di Franco ed il ritorno della democrazia.

Fu soprattutto con la nuova Spagna che gli ultimi idealisti, questi Don Chisciotte dei tempi moderni, che avevano proseguito la lotta consci di terminarla in fondo ad una prigione o in una fossa comune, non si riconobbero. Umiliati dopo la drammatica esperienza della spedizione in Valle d’Aran tornarono in Francia, doppiamente vinti, cominciò un secondo esilio ancora più tragico e più doloroso del precedente. La Francia riconobbe loro il 24 aprile 1945 lo status di rifugiato politico, titolo che avevano a lungo rivendicato con fierezza, ma non tutti accettarono l'integrazione, molti rimasero con gli occhi rivolti aldilà dei Pirenei e continuarono un'intensa attività politica di cui il punto centrale era la Spagna. I conflitti ideologici e i contrasti interni non diminuirono cosicché, mentre il loro sostegno alla causa rivoluzionaria conservava la stessa autenticità, l'esilio che si prolungava provocò un vero scisma tra l’ esilio e l'interno. Per questa generazione sacrificata, la dicotomia fu reale, tra quelli dell'interno che subivano il terrore franchista e quelli dell'estero che vivevano ripiegati sulla comunità esiliata rifiutando l'avanzata inesorabile dei tempi, l'incomprensione fu totale, talvolta fino alla rottura. Dalla terra d'esilio, quelli che vivevano nel ricordo della Spagna e sostenevano, sempre attivamente, la lotta, si sclerotizzarono per troppa purezza ideologica e per la mancanza di chiaroveggenza nell'analisi politica della situazione contemporanea e dell'evoluzione della società.

«Uomini di Spagna il passato non è morto!» aveva detto Antonio Machado.

Per averlo troppo ripetuto, troppo vissuto i vecchi ignorarono le realtà del presente. Stranieri in Francia, proscritti in Spagna, essi vissero nel loro mondo, nei loro ricordi che rivivevano secondo le circostanze, mantennero i tempi fermi a quel fatidico anno 1936, ripetendosi:

«Com’era felice la nostra Rivoluzione!».

 

Negli anni Sessanta in Spagna una nuova generazione cominciò ad opporsi attivamente alla dittatura, ma con aspirazioni diverse. I giovani che lottarono contro Franco erano i figli del franchismo. Lessero, aggirando la censura, Marx, Bakunin, Gramsci.., ma anche Orwell, Marcuse, Schumpeter, Sartre....e dimostrarono un certo disprezzo per la vecchia guardia che si riteneva depositaria della Rivoluzione. Le dimostrazioni studentesche e gli scioperi scossero la Spagna nonostante la dura repressione delle forze dell’ordine e le condanne al carcere. La Chiesa spagnola che tanto aveva sostenuto Franco così da legittimarlo, nel 1971 domandò perdono per il suo atteggiamento fazioso durante la guerra civile. Vescovi e sacerdoti riconobbero di “non essersi comportati come veri ministri di Dio, mentre il nostro popolo era diviso da una guerra tra fratelli”.

Il 20 novembre 1975 il Caudillo si spense e fu dimenticato in fretta, sepolto sotto una pietra di marmo del peso di una tonnellata nella cappella bianca della basilica della Valle de los Caidos. In questa valle severa, ai piedi della Guadarrama, la strada che si arrampica su, verso l'alto, tagliata dal vento aspro della Sierra, è fatta di sudore e di sangue, ogni pietra, ogni sasso, ogni filo d'erba furono calati dentro la terra dal lavoro forzato dei vinti della Guerra Civile, i rossi che avevano resistito nell'assedio di Madrid. Venti mesi dopo gli spagnoli furono chiamati alle urne per le prime elezioni libere dopo quarant’anni. Nel frattempo erano tornati le grandi figure della Repubblica, ancora in vita, prima tra tutti la Pasionaria, accolta da una folla di centomila persone, che fu nuovamente eletta alle Cortes, di cui divenne Vice Presidente. Alla fine di una dittatura si abbattono le statue e si cambiano i nomi alle strade, a volte persino a delle città. E' un modo per tirare una riga su ciò che è diventato vecchio, superato e sconfitto. In Spagna accadde qualcosa di simile. Alcune località erano state poste in relazione a Franco per mezzo d’aggiunte ai nomi geografici, come ad esempio El Ferrol del Caudillo o Barbate de Franco; in ogni città, anche nella più piccola, la via principale doveva portare il nome del generalissimo, e i monumenti in suo onore spaziavano dalle più semplici statue al colossalismo della Valle de los Caidos, ipogeo egiziano nello stile dell'estetica totalitaria di Stalin, Hitler e Mussolini. Da un giorno all'altro le strade persero il nome di Franco (e dei suoi generali), e così pure sparirono i monumenti, quasi sempre di notte. Altri, che celebravano la vittoria nazionalista sono rimasti, ma ora dedicati ai combattenti delle due parti, come la brutta stele sorgente dalle acque dell'Ebro a Tortosa che ricorda i «Valorosi combattenti della battaglia dell'Ebro» franchisti e repubblicani. Qualche alcade ha fatto aggiungere sulle lapidi commemorative a quelli dei vincitori i nomi degli sconfitti.

Questi con i superstiti delle migliaia di stranieri che accorsero a difendere la democrazia spagnola vollero onorare i compagni caduti. Al cimitero di Fuencarral presso Madrid venne ricollocata la lapide che ricordava i morti delle Brigate Internazionali fatta distruggere da Franco. Essa porta la scritta:

Voluntaires des Brigades Internationales tombes en heros pour la liberté du peuple espagnol le bien etre et le progresse de l'humanitè.

 

A fianco sono state ricollocate le lapidi ai caduti ebrei e polacchi nonché quella di Primo Gibelli, lo sfortunato aviatore atterrato nelle linee nemiche e il cui cadavere, orrendamente maciullato, fu paracadutato dai franchisti a Madrid. Nello stesso cimitero i russi hanno eretto un imponente monumento funebre a ricordo dei compatrioti morti in Spagna. A Flix i combattenti antifascisti italiani hanno portato una stele in memoria dei tanti compagni rimasti sulle - ora tranquille - rive dell'Ebro, mentre a Barcellona un monumento ricorda i volontari nordamericani della Brigata Lincoln. Sempre a Barcellona nel cimitero di Fossar de la Pedrera, nella sconvolgente atmosfera della cava di pietre utilizzata dai franchisti per le esecuzioni di massa e come fossa comune, accanto alle colonne che ricordano i 58.000 catalani uccisi dopo la fine della guerra, sono state collocate la tomba di Lluis Companys, le steli dedicate ai combattenti austriaci e a quelli ebrei delle Brigate Internazionali e ai guerrilleros españoles morti per la libertà della Spagna. Sulla collina del Montjuic è stato eretto un monumento che ricorda gli spagnoli morti nella Seconda Guerra Mondiale combattendo sotto le bandiere francesi, che si accompagna a quello del citato cimitero di Fuencarral dedicato En memoria de los Españoles que combatieron por la libertad en Europa 1939 - 1945. Nel sessantesimo anniversario della Guerra Civile la Spagna democratica ed antifascista ha reso omaggio ai circa 450 superstiti delle Brigate Internazionali convenuti da tutto il mondo con toccanti manifestazioni culminate nell’inaugurazione di monumenti ad Arganda, Albacete, San Pedro de Cardeña, Mostóles, Leganés.

Oggi alla Valle dei Caduti non sale quasi più nessuno, il piazzale predisposto per macchine e pullman è pressoché vuoto, gli unici visitatori sono turisti giapponesi, le cui agenzie di viaggio ancora inseriscono la località negli itinerari dei frettolosi tours per l'Europa.

 

Per gli spagnoli, il passaggio alla democrazia coincise con il massimo sviluppo del boom economico ed il benessere ha come esorcizzato il passato, così quando gli esiliati ritornarono in Spagna trovarono un paese sconosciuto che aveva senza traumi accettato un re, quasi senza memoria storica e molti, delusi, ne ripartirono.

Occorre invece riconoscere che la Spagna ha riscoperto la storia e vi è un fervore di iniziative, con scevre da polemiche, per rivisitare gli avvenimenti da 1936 al ritorno della Libertà. La più importante di queste è la creazione un Archivio Generale della Guerra Civile in Salamanca, soprattutto grazie all’accesso informatico agli archivi dell’Internazionale Comunista a Mosca. Con l’utilizzo di questi documenti il Ministero della Cultura si è fatto promotore di studi per conoscere la storia dei vinti, in particolare quanto riguarda l’esilio repubblicano, i cosiddetti niños de la guerra e le Brigate Internazionali È un fiorire di iniziative di ogni tipo, ad esempio a Gandesa è stato inaugurato il Centro de Estudios de la Batalla del Ebro che conta un’emeroteca, una biblioteca e documenti diversi (piani, fotografie, carte personali dei combattenti) e una raccolta di 80 tipi diversi di granate, come quelle rimaste interrate e che nel dopoguerra uccisero un centinaio di abitanti che raccoglievano materiale bellico da vendere. Intenzione del Centro è inoltre la protezione delle rovine del vecchio villaggio di Corbera d’Ebre e del monoliti di Quatre Camins de Vilalba o del Pic de la Muerte così da formare un grande ecomuseo simile a quello che esiste in Normandia a ricordo dello sbarco alleato, mentre ad Albacete sta sorgendo un museo a ricordo delle Brigate Internazionali. Tutto questo non è scevro da polemiche come quella generata dal fatto che il Partito Popolare del Primo Ministro José Maria Aznar che non ha voluto sottoscrivere un documento presentato da tutti gli altri gruppi parlamentari in cui nel commemorare i sessanta anni dell’esilio dei repubblicani nel 1939 si condannava espressamente il «golpe fascista militare contro la legalità repubblicana». Questo ha innescato una violenta diatriba in cui i partiti di tradizione antifranchista venivano accusati di voler far rivivere las dos Españas. Altro motivo di contrasto è che alla concessione della pensione agli ex soldati dell’esercito repubblicano non ha corrisposto la riabilitazione dei guerriglieri che lottarono contro Franco dal 1939 al 1961.

Tutto questo mentre la Chiesa cattolica continua la beatificazione dei religiosi e dei laici cristiani uccisi durante la Rivolta delle Asturie e la Guerra Civile, su 1.229 canonizzati dall’attuale Pontefice 471 sono vittime del conflitto spagnolo.

 

Così la Francia, uscita lacerata dall'esperienza di Vichy, ha non neppure tentato una giustificazione, ha semplicemente cercato di ovattare quanto era stato. Risolta in fretta l'epurazione, eseguite poche condanne a morte ai responsabili dei delitti più gravi, la normalità ripristinata. I processi a Barbie e a Papon o il necrologio pubblicato nel luglio di ogni anno su Le Monde dagli israeliti a ricordo dei loro correligionari internati al Velodromo d'Inverno ed a Drancy, e poi deportati ad Auschwitz:

«Il 16-17 Juillet 1942, la police française de Vichy rafle 13.152 etres humains parce qu'il étaient nés juifs. Français, souvien-toi de cette ignominie perpétrée avec la complicité criminelle du régime de Vichy»,

non scuotono più l'opinione pubblica francese se non per un certo senso di fastidio. I testimoni stanno scomparendo e se parlano sono noiosi, sempre la stessa storia: la guerra.

 

Sono passati cinquantasei anni dalla Liberazione, da quelli che, come ho accennato nell'introduzione furono, giorni indimenticabili. Rinacque improvvisa e gioiosa la voglia di vivere, fu due volte primavera, quella della stagione e quella della vita che riprendeva. Cessò la paura, l'oscuramento, il coprifuoco, la restrizione di muoversi, in parte la fame, si ballava in tutti i cortili di Torino, ci si sentiva partecipi della gioia di quelli che si ritrovavano e del dolore di quelli che perdevano la speranza del ritorno di una persona cara. Poi tutto fu diverso, e la primavera finì, venne una lunga estate che portò il benessere: la seconda auto, la seconda casa, le vacanze esotiche, le griffe. Ma venne l'autunno e si cessò di ballare, di partecipare, ci si chiuse in casa, la televisione si impadronì di noi e del nostro tempo, e poi l'inverno: le bombe, il terrorismo, la

corruzione e risuscitati dall’ambizione di potere di un uomo sostenuto dall’arroganza del denaro

«sono tornati da remote caligini/ i fantasmi della vergogna»

per ricordare uno dei miei maestri, Piero Calamandrei.

 

Un vecchio partigiano della VI Divisione Alpina G. L. mi confessò di rimpiangere di aver patito per venti mesi la paura, il freddo e la fame considerando come gli ideali che lo avevano spinto a salire in montagna siano stati in gran parte inattuati.

Amarezza non significa però capitolazione, io non voglio cedere al pessimismo estremo, voglio sperare che da questo lavoro Marta, Pietro e Paolo e gli altri nipoti che verranno, sappiano trarre testimonianza per una vita migliore, perdonandomi per il mondo che ho lasciato loro e comprendere come nel mio rigore di azionista abbia sempre negato ogni pacificazione con chi volle negare l'irrinunciabile valore della Libertà.

Mi viene naturale una considerazione sul tentativo di revisionismo della Storia in atto. Non è possibile porre sulla bilancia della Storia due Mali e soppesarli, un Male non può essere paragonato ad un altro. È vero, in Spagna la Repubblica espose le mummie dei morti, incendiò chiese e conventi, uccise religiosi ed avversari, ma città inermi furono bombardate dal cielo e dal mare, decine di migliaia di militari e civili furono massacrati durante la “Cruzada” e poi dopo la vittoria fucilati o garrotati, condannati al carcere duro o costretti schiavi. Ora secondo una pubblicistica, allineata alle tesi del “revisionismo”, se Franco non avesse vinto la Spagna sarebbe diventata una Repubblica Democratica Popolare, eufemismo per non dire comunista, con tutte le conseguenze tragiche che lo stalinismo produsse. Si è però dimenticato che la Spagna repubblicana, democratica e popolare lo era già per libera scelta del suo popolo alle elezioni del febbraio 1936. Occorrerebbe chiedersi con quali forze il Partito Comunista Spagnolo avrebbe potuto impadronirsi del potere dato il limitato radicamento nella realtà spagnola (16 deputati alle Cortes e 300.000 iscritti nel gennaio 1937). Pur considerando che i migliori ufficiali dell’esercito repubblicano Lister, Modesto, El Campesino erano comunisti, come pure molti comandanti di brigata e di divisione, essi non sarebbero stati certo in grado di condizionare tutto l’apparato militare, come dimostra il fatto che all’atto del colpo di stato del colonnello Casado nel marzo 1939, i reparti a guida comunista furono sconfitti. Meno che mai le Brigate Internazionali avrebbero potuto sostenere tale progetto poiché il numero dei reparti di linea non superò mai, per tutta la durata del conflitto, la forza di 15.000 effettivi. L’affermare, infine, che il regime di Franco non ebbe le caratteristiche di uno stato fascista è una menzogna storica, basti pensare che, oltre alla privazione d’ogni elementare diritto di voto, stampa, associazione, parola e pensiero, occorsero più di trent’anni perché fosse promulgata un’amnistia completa. La repressione fu la componente più duratura del franchismo, che, in tempo di pace, mietè più vittime di nazismo e fascismo. In Italia l’amnistia per i reati compiuti dai repubblichini fu varata dal Guardasigilli Palmiro Togliatti nel giugno 1946, poco più di un anno dopo la fine della guerra. E mentre erano stati colpiti dalla giustizia, fatti salvi i diritti dell’imputato, i torturatori, gli assassini, i delatori, i servi dei tedeschi che avevano mandato nei campi di sterminio nazisti i propri connazionali di razza ebraica e se n’erano spartiti i beni, in Spagna bastava aver appartenuto ad un sindacato, ad un’amministrazione democratica o aver servito come soldato di leva nell’Esercito repubblicano per essere condannati da tribunali militari, che non consideravano le prove a discarico, a morte, a lunghi anni di carcere o di lavoro forzato.

Prima che il Secolo Breve si chiuda forse qualcuno dichiarerà che Hitler non fu parte del Male (Auschwitz uno spiacevole incidente) perché appunto impedì all’intera Europa di diventare una Repubblica Popolare. D’altronde, qualcuno in Italia ha già dichiarato che il fascismo non fu sanguinario, dimenticando i morti della rivoluzione (1919/1922), della dittatura (1922/1943), della repressione in Libia, della guerra d’Etiopia, della guerra di Spagna e della seconda guerra mondiale (Francia, Africa orientale, Africa settentrionale, Grecia, Jugoslavia, Russia, Italia); considerando fascisti ed antifascisti, militari e civili, italiani e stranieri.

Qualcuno dovrà assumersi la responsabilità di queste morti davanti alla Storia.

 

L’età ha fatto di me un testimone non un protagonista, ma se avessi potuto scegliere sarei stato:

 

con la Repubblica in Spagna nel 1936/1939

contro la repubblica in Italia nel 1943/1945.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

N O T E

 

 

I) La Guerra Civile Spagnola

 

1.        Cfr. R. CARR, Storia della Spagna, 1808-1939, La Nuova Italia, Firenze, 1978, pag. 756.

2.        Cfr. G. RANZATO, Rivoluzione e guerra civile in Spagna, Loescher editore, Torino, 1975, pag. 25

3.        Cfr. H. THOMAS, La guerra civile spagnola, Einaudi, Torino, 1963, pag. 50.

4.        Cfr. G. RIZZONI, Pro e contro Franco, Mondadori, Milano, 1972, pag. 54.

5.        ibidem, pag. 52.

6.        Cfr. G. HERMET, La guerre d'Espagne, Editions du Seuil, Parigi, 1989, pag. 57.

7.        ibidem, pag. 65.

8.        Cfr. G. GAETA, Democrazia e totalitarismi dalla prima alla seconda guerra mondiale

Profili di storia contemporanea (1914/1945), Il Mulino, Bologna , 1982, pag. 406.

9.        Cfr. G. HERMET, La guerre d'Espagne, cit., pag. 72.

10.     Cfr. H. THOMAS, La guerra civile spagnola, cit., pag. 99.

11.     Cfr. G. RIZZONI, Pro e contro Franco, cit., pag. 75.

12.     Cfr. P. NENNI, Spagna, Sugar Co, Milano, 1976, pag. 21.

13.     Cfr. A. MALRAUX, L' Espoir, Mondadori, Milano, 1966, pagg. 30/42.

14.     Cfr. O. CONFORTI, Guadalajara - La prima sconfitta del fascismo, Mursia, Milano, 1967.

15.     Cfr. L. CEVA, Ripensare Guadalajara, in Italia Contemporanea, Ist. naz. mov. liberazione in Italia, Milano, settembre 1993 - n. 192, pag. 473.

16.     Cfr. M. SIGNORINO, Il massacro di Barcellona, F.lli Fabbri, Milano, 1973, pagg. 83-136.

17.     Cfr. G. ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano, 1982, pag. 145-213.

18.     Cfr. P. SPRIANO, Storia del Partito Comunista Italiano V°, Einaudi, Torino, 1970, pag. 270.

19.     Crf. G. RIZZONI, Pro e contro Franco, cit., pag. 117.

 

II) Le cause dell' esodo

 

1.        Cfr. H. THOMAS, La guerra civile spagnola, Einaudi, Torino,1963, pag. 658.

2.        Cfr. G. JACKSON, The Spanish Republic and the Civil War 1931-1939, Princeton University Press, Princeton New Jersey, 1967, pag. 539

3.        Cfr. H. THOMAS, La guerra civile spagnola, cit., pag. 181.

4.        ibidem, pag. 187.

5.        Cfr. G. HERMET, La guerre d'Espagne, Editions du Seuil, Parigi, 1989, pag. 276.

6.        Cfr. P. PRESTON, Francisco Franco, la lunga vita del Caudillo, Mondadori, Milano 1995,

pag.168.

7.        Cfr. L. CEVA, Francisco Franco 'novio de la muerte', In Italia Contemporanea, Ist. naz. mov. liberazione in Italia, Milano dicembre 1994, n. 194, pag. 761.

8.        Cfr. E. HEMINGWAY, Per chi suona la campana, Mondadori, Milano, 1945, pag. 122.

9.        Cfr. G. BERNANOS, I grandi cimiteri sotto la luna, Mondadori, Milano, 1992, pag. 79.

10.     ibidem, pag. 131.

11.     Cfr. J. P. SARTRE, Il Muro, Einaudi, Torino, 1974, pag. 11.

12.     Cfr. A. KOESTLER, Dialogo con la morte, Il Mulino, Bologna, 1993, pag. 198.

13.     Cfr. G. RIZZONI, Pro e contro Franco, Mondadori, Milano, pag. 96-98.

14.     Cfr. H. THOMAS, La guerra civile spagnola, cit., pag. 176.

15.     Cfr. E. ROSSI, Il manganello e l’aspersorio, Laterza, Bari, 1968, pag. 310.

16.     Cfr. G. RIZZONI, Pro e contro Franco, cit., 1972, pag. 120.

17.     Cfr. M. GALLO, Storia della Spagna Franchista, Laterza, Bari, 1972, pag. 105.

18.     Cfr. S. JULIÁ, Victimas de la Guerra Civil, Ediciones Tema de Hoy, Madrid, 1999, pag. 336-342.

19.     Cfr. S. JULIÁ, Victimas de la Guerra Civil, cit., pag. 278.

 

 

 

III) L'agonia della Catalogna e la "Retirada"

 

1.        Cfr. H. THOMAS, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino, 1963, pag. 596.

2.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 33.

3.        ibidem, pag. 35-40.

4.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 36.

5.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 42-43.

6.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 32.

7.        ibidem, pag. 27.

8.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 45.

 

 

IV) L' accoglienza

 

1.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi,1993, pag. 51.

2.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, Camps du mepris, Llibres del Trabucaire, Perpignan, 1991, pag. 40-44.

3.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 49-51.

4.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 63.

5.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 52-53.

6.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 39.

7.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 54.

8.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag.37.

9.        ibidem, pag. 51.

10.     ibidem, pag. 45.

11.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 55-59.

12.     ibidem, pag. 116.

13.     ibidem, pag. 59.

14.     Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit. pag. 70.

15.     ibidem, pag. 68-69.

16.     Cfr. M. MONTALBAN, Io, Franco, Frassinelli, Milano, 1993, pag. 331.

 

 

V) Les Camps du Mepris

 

1.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, Camps du mepris, Llibres del Trabucaire Perpignan, 1991, pag. 78.

2.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 117.

3.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 81.

4.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 118-119.

5.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag.124.

6.        ibidem, pag. 86.

7.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 127.

8.        ibidem, pag. 124

9.        ibidem, pag. 137

10.     Cfr. I. RIBAS, 1939 - J'ai Vécu le Camp d'Argelès, Ed. Massana, Perpignan, 1992.

11.     Cfr. F. PONS, Barbelés à Argelès et autour d'autres camps, L'Harmattan, Parigi, 1993, pag. 260

12.     Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 105.

13.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 122.

14.     Cfr. R. GRANDO – J. QUERALT – X. FEBRES, cit. pag. 91.

15.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit. pag. 128/129.

16.     Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 212.

17.     Cfr. M. L. CHOEN - E. MALO, Les camps du Sud-Ovest de la France - 1939/1944, Privat, Tolosa, 1994, pag. 38.

18.     Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 130.

19.     Cfr. F. PONS, cit., pag. 68.

20.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 135.

21.     Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 138.

22.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 139

23.     ibidem, pag. 142.

 

 

VI)            Vita quotidiana nei campi

 

1.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, Camps du mepris, Libres del Trabucaire,

Perpignan, 1991, pag. 135.

2.        ibidem, pag. 137.

3.        ibidem, pag. 132.

4.        Cfr. F. PONS, Barbelés à Argelès et autour d'autres camps, L'Harmattan, Parigi, 1993 ,

pag. 197.

5.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 133.

6.        Cfr. B.D.I.C., Plages d'exile - Les camps des réfugiés espanoles en France 1939, La

Decouverte, Digione, 1989, pag. 68.

7.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT.- X. FEBRES, cit., pag. 130-131.

8.        ibidem, pag. 134.

9.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 181-184.

10.     ibidem, pag. 187/188.

11.     Cfr. G. BRENAN, Il labirinto spagnolo, Cambridge, 1943, citato da V. RICHARDS, Ensei- gnement de la Révolution Espanole, (1936/39) Un. Gen.Editions, Parigi, 1975, pag. 68-75

12.     ibidem, pag. 159.

13.     ibidem, pag. 372.

14.     Cfr.H. THOMAS, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino, 1963, pag. 306.

15.     Cfr. M. SIGNORINI, Il massacro di Barcellona, F.lli Fabbri Editori, Milano, 1973, pag. 77.

16.     Cfr. G. ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano, 1982, pag. 31-32.

17.     Cfr. M. SIGNORINI, cit., pag. 133.

18.     Cfr. V. RICHARD, cit., pag. 380-383.

 

VII) I campi di punizione

 

1.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 151-156.

2.        ibidem, pag. 159-161.

3.        ibidem, pag. 145-147.

4.        ibidem, pag. 148-150.

 

 

VIII) Vigilia di guerra

 

1.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 134.

2.        ibidem, pag. 136.

3.        ibidem, pag. 164.

4.        J. RUBIO, La emigración de la guerra civil 1936/1939, vol. III, Madrid, 1977, pag. 334-335.

5.        Cfr. L. CEVA, L'ultima vittoria del fascismo - Spagna 1938/39, su Italia Contemporanea, Ist.naz.storia movimento liberazione in Italia, Milano, settembre 1994, n. 196, pag. 52

6.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, Camps du mepris, Libres del Trabucaire, Perpignan, 1991, pag. 181.

7.        ibidem, pag. 143.

8.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 169-175.

9.        Cfr. R. GRANDO - J. QUERALT - X. FEBRES, cit., pag. 142.

10.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 173-180.

 

 

 

 

IX) America Latina

 

1.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odissée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 139.

2.        Cfr. P. W. FAGEN, Exiles and Citizens, University of Texas Press, Austin, 1973, pag. 37.

3.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 140.

4.        Cfr. P. W. FAGEN, cit., pag. 40.

5.        Cfr. J. L. ABELLAN, El exilio español de 1939, Vol. I, Taurus , Madrid, 1976, pag. 100.

6.        ibidem, Vol. III, pag. 281.

7.        ibidem, Vol. III, pag. 151.

8.        ibidem, Vol. V, pag. 91.

9.        Cfr. B.D.I.C. e Hispanistica XX, Plage d'exile - Les camps des refugiés espanol en France 1939, La Decouverte, Digione, 1989, pag. 82.

 

 

X) La "drole de guerre" e l'armistizio

 

1.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 194.

2.        Cfr. B. SAINT HILLIER, Lègion ètrangere, Le Figaro, 6 marzo 1995, Parigi.

3.        Cfr. H. LE MIRE, Histoire de la Legion, Editions Michel, Parigi, 1978, pag. 20-28.

4.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 196.

5.        Cfr. J. L. ABELLAN, El exilio español de 1939, Vol. IV, Taurus, Madrid, 1976, pag. 11.

6.        Cfr. H. LE MIRE, cit., pag. 29-31.

7.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 197-198.

8.        Cfr. R. COLLIER, Le bianche sabbie di Dunkerque, Longanesi, Milano, 1963, pag. 379-380.

9.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 199.

 

 

XI) Il regime di Vichy

 

1.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la Liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 205.

2.        ibidem, pag. 202.

3.        Cfr. J. L. ABELLAN, El exilio español en 1939, Vol. II, Taurus, Madrid, 1976, pag. 23.

4.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 205.

5.        ibidem, pag. 201.

6.        ibidem, pag. 206.

7.        ibidem, pag. 208-211.

8.        ibidem, pag. 221-223.

9.        ibidem, pag. 225-226.

10.     Cfr. M. L. CHOEN - E. MALO, Les camps du Sud-Ovest de la France1939/1944, Privat, Tolosa, 1994, pag. 47-57.

11.     Cfr. P. SPRIANO, Storia del Partito Comunista Italiano, V°, Einaudi, Torino, 1970, p. 329.

12.     Cfr. A. KOESTLER, Schiuma della Terra, Il Mulino, Bologna, 1989, pag. 81/126.

13.     Cfr. M. L. CHOEN - E. MALO, cit., pag. 56-59.

14.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 228-232.

 

 

 

 

XII) L'occupazione tedesca

 

1.        Cfr. W. SHIRER, La caduta della Francia, Einaudi, Torino, 1971, pag. 1.038.

2.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la Liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 203.

3.        Cfr. M.V. MONTALBAN, Io, Franco, Frassinelli, Milano, 1993, pag. 331

4.        Cfr. H. MARŠÁLEK, La storia del campo di Mauthausen, La Nuova Tipolito, Felina, 1999, pag. 345.

5.        Cfr. G. HORTWITZ, Mauthausen - Ville d'Autriche 1938-1945, Editions du Seuil, Parigi, 1992, pag. 30.

6.        Cfr. S. JULIÁ, Victimas de la Guerra Civil, Ediciones Temas de Hoy S. A., Madrid, 1999, pag. 287

7.        Cfr. L. STEIN, Beyond Death and Exiles – The Spanish Republicans in France, 1939 – 1955, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1979, pag 242.

8.        Cfr. H. MARŠÁLEK, cit. pag. 116.

9.        Cfr. H. MARŠÁLEK, Mauthausen, La Pietra, Milano, 1977. Pag. 90.

10.     Cfr. A. CARPI, Diario di Gusen, Garzanti, Milano, 1971, pag. 14.

11.     ibidem, pag. 43.

12.     ibidem, pag. 56.

13.     ibidem, pag. 75.

14.     ibidem, pag. 150.

15.     ibidem, pag. 170.

16.     Cfr. V. PAPPALETTERA, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965, pag. 3.

17.     ibidem, pag. 7.

18.     ibidem, pag. 8.

19.     ibidem, pag. 11.

20.     ibidem, pag. 14.

21.     ibidem, pag. 76.

22.     ibidem, pag. 87.

23.     ibidem, pag. 114.

24.     ibidem, pag. 159.

25.     ibidem, pag. 184.

26.     Cfr. P. CALEFFI, Si fa presto a dire fame, Mursia, Milano, 1968, pag. 142.

27.     ibidem, pag. 146-154.

28.     Cfr. J. SEMPRUN, Il grande viaggio, Einaudi, Torino, 1964, pag. 95/98.

29.     ibidem, pag. 171.

30.     ibidem, pag. 73.

31.     ibidem, pag. 102-107.

32.     Cfr. N. CATALÀ, Ces Femmes Espanoles de la Résistance à la Déportation, Tirésias, Parigi, 1994, pag. 15-54.

33.     ibidem, pag. 81 e seg.

34.     Cfr. H. AMOUROUX, La vie des Français sous l'Occupation, Librairie Fayard, Parigi, 1961, pag. 292/296.

35.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 235.

36.     Cfr. H. AMOUROUX, cit., pag. 313.

37.     Cfr. M.C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 238-239.

38.     Cfr. J. CARRASCO, Album-souvenir de l'exil Republicain espagnol en France, pag. 196.

39.     Cfr. M.C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 235.

40.     Cfr. H. AMOUROUX, cit., pag. 310-311.

41.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 240.

42.     Cfr. CENTRE DE RECERQUES I D'ESTUDIS CATALANS, Vichy -L'Occupation Nazi e la Résistance Catalane, Terra Nostra, Università di Perpignan,1994, pag. 121/173.

43.     Cfr. H. HAMOUROUX, cit., pag. 309-314.

44.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 238.

 

 

 

XIII)       La Resistenza

 

1.        Cfr. M.C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 244.

2.        Cfr. CENTRE DE RECERQUES I D'ESTUDIS CATALANS, Vichy - L'Occupation Nazi et la Résistance Catalane, Terra Nostra, Università di Perpignan, 1994, pag. 69,

3.        Cfr. M.C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 244-249.

4.        Cfr. H. AMOUROUX, La vie des Français sous l'Occupation, Librairie Fayard, Parigi, 1961,pag. 112.

5.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 250-251.

6.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 241.

7.        ibidem, pag. 257-259.

8.        ibidem, pag. 266.

9.        Cfr. C. DE GAULLE, L'Appello 1940-1942, Garzanti, Milano, 1959, pag. 261-262.

10.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 255-256.

11.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 287-289.

12.     Cfr. S. JULIÁ, Victimas de la Guerra Civil, Ed. Temas de Hoy S. A., Madrid, 1999, pag. 287.

13.     Cfr. G. BOSCO, Vercors, dal silenzio all'urlo, La Stampa, Torino, 5 marzo 1995.

14.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 282-284

15.     Cfr. J. L. ABELLAN, cit. pag. 80-81.

16.     Cfr. N. CATALÀ, Ces femmes espagnoles de la Résistance a la Déportation, Ed. Tirésias,

Parigi, 1994, pag.13.

17.     Cfr. M. C. RAFANEAU-BOJ, cit., pag. 315.

18.     Cfr. N. CATALÀ, cit., pag. 10.

 

 

XIV) Forces Français Libres e sotto altre bandiere

 

1.        Cfr. Supra, cap. X, pag. 76.

2.        Cfr. C. DE GAULLE, L'appello 1940/1942, Garzanti, Milano, 1959, pag. 89.

3.        Cfr. E. BERGOT, La Legion au Combat, Presse de la Cité, Paris, 1975, pag.101.

4.        Cfr. A. J. BARKER, Eritrea 1941, Baldini & Castoldi, Milano, 1968, pag. 154.

5.        Cfr. L’Antifascista, n. 11/12, novembre/dicembre 1994

6.        Cfr. A. J. BARKER, cit., pag. 230.

7.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 303.

8.        Cfr. H. LE MIRE, Histoire de la Legion, Editions Michel, Parigi, 1978, pag. 39-41.

9.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 304.

10.     Cfr. H. LE MIRE, cit., pag. 49-51.

11.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 306.

12.     Cfr. H. LE MIRE, cit., pag. 71-78.

13.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 307.

14.     Cfr. R. DRONNE, Le Serment de Koufra, Editions du Temps, Parigi, 1985, pag. 373.

15.     Cfr. A. DANSETTE, Leclerc, Flammarion, Parigi, 1952, pag. 188.

16.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 309.

17.     Cfr. D. LAPIERRE - L. COLLINS, Parigi brucia?, Mondadori, Milano, 1966, pag. 381.

18.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 311.

19.     Cfr. J. P. BRUNET, Le combats de la banlieue, Le Figaro, 25 agosto 1994, Parigi.

20.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 312-313.

21.     Cfr. J. CARRASCO, Album-souvenir de l’exil Republicain espagnol en France, pag. 201.

22.     Cfr. H. Le MIRE, Histoire de la Legion, Edition Michel, Parigi, 1978, pag. 236.

23.     Cfr. D. ARASA, Los Españoles de Churchill, Edit. Armonia, Barcellona, 1991, pag. 18-54,

24.     ibidem, pag. 130-145,

25.     ibidem, pag. 190-224,

26.     ibidem, pag. 77-86,

27.     Cfr. J. L. ABELLAN, El exilio español de 1939, Vol. II, Taurus, Madrid, 1976, pag. 81-83

 

 

 

 

XV) Guerriglia in Spagna

 

1.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la Liberté, Denoel, Parigi, 1993, pag. 298-299.

2.        Cfr. P. M. DE LA GORCE, Le armi e il potere, Il Saggiatore, Torino, 1967, pag. 367.

3.        Cfr. G. RIZZONI, Pro e contro Franco, F.lli Fabbri, Milano, 1972, pag. 132.

4.        Cfr. M. V. MONTALBAN, Io, Franco, Frassinelli, Milano, 1993, pag. 380.

5.        Cfr. P. N. CARROL, The Odyssey of the Abraham Lincoln Brigade, Stanford University Press, Stanford, Cal. 1994, pag. 167.

6.        Cfr. P. WYDEN, La Guerra Apasionada, Ed. Martinez Roca S.A., Barcelona, 1997, pag. 304.

7.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 325.

8.        Cfr. Supra, Cap. XIII, pag. 111.

9.        Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 326-328.

10.     Cfr. Supra, Cap. XIII, pag. 110.

11.     Cfr. M. C. RAFANEAU BOJ, cit., pag. 330.

12.     Cfr. M. V. MONTALBAN, cit., pag. 402.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

B I B L I O G R A F I A

 

Fonti Primarie

 

Stampa

-          Le Flambeau du Midi - Tolosa 1/1/1939 - 31/3/1939.

-          L' Indépendant - Perpignan " "

-          Le Midi Socialiste - Perpignan " "

-          Le Roussillon - Perpignan " "

-          Le Travailleur Catalan - Perpignan " "

 

Testimonianze orali

 

Francia

- Mr. Andreu Capeille, Direttore del Museo Catalano di Argelès sur Mer.

- gennaio 1993 - luglio 1994.

-          Mr. Jacques-Gaspard Deloncle, Conservatore del Museo Catalano, Perpignan.

- gennaio 1995.

-          Mr. Albert Got, Sindaco di Le Barcarès.

- gennaio 1995.

-          Mr. Richard Granier, Segretario del Sindaco di Parigi

- settembre 1993.

-          Insegnante della scuola secondaria di Cannet Village.

- gennaio 1993.

-          Bibliotecari di Argelès sur Mer, S. Cyprien, Perpignan (Francia), Tarragona (Spagna).

- gennaio 1993, luglio 1994 - gennaio 1995

-          Responsabili Musei di Argelès sur Mer, S. Cyprien, Riversaltes, Prades.

- gennaio 1993 - luglio 1994 - gennaio 1995.

 

Italia

- Alvaro Lopéz, Ass. It. Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna, Roma.

-          M. O. Giovanni Pesce, Anello Poma, Vincenzo Tonelli, combattenti del Battaglione "Garibaldi” della XII Brigata Internazionale.

 

Opere di Carattere Specifico

 

-          J. L. ABELLÁN, El exilio español de 1939, vol. I /VI, Taurus, Madrid, 1976.

-          D. ARASA, Los españoles de Churchill, Editorial Armonia, Barcellona, 1991.

-          B.D.I.C. HISPANISTICA XX, a cura di J. C. Villegas, Plage d'exile, Les camps des refugiés

espagnoles en France 1939, La Decouverte, Digione, 1989.

-          N. CALDERON, El exilio de las Españas de 1939 en las Américas, Anthropos Ed.Hombre, Madrid, 1991.

-          N. CATALA', Ces femmes espagnoles de la rèsistance à la dèportation, Editions Tiresias, Parigi, 1994.

-          M. L. CHOEN, E. MALO, Les camps du Sud-Ovest de la France 1939/44, Privat, Tolosa, 1994.

-          C. R. E. C. UNIVERSITE' DE PERPIGNAN, Vichy, l'occupation nazi et la résistance catalane, Terra Nostra, Perpignan, 1994.

-          R. GRANDO, J. QUERALT, X. FEBRES, Camps du mepris, Llibres de Trabucaire, Perpignan, 1991.

-          IST. RECHERQUES MARXISTES, Les communistes et la résistance dans le Pyrénées Orientales 1939/1942, Ed. Marxisme, Lilla,1992.

-          F. PONS, Barbéles à Argèles et autour d'autres camps, Harmattan, Parigi,1993.

-          M. C. RAFANEAU BOJ, Odyssée pour la liberté, Denoel, Parigi, 1993.

-          I. RIBAS, 1939 - J'ai vécu le camp d'Argèles, Massana, Perpignan, 1992

 
Opere di Carattere Generale

 

-          A. BRYANT, Tempo di guerra, Longanesi, Milano, 1966.

-          F. GAETA, Democrazie e totalitarismi dalla prima alla seconda guerra mondiale, Profili di Storia contemporanea 1918/45, il Mulino, Bologna, 1989.

-          A. GIARDINA, G. SABBATUCCI, V. VIDOTTO, L'età contemporanea, Manuale di Storia, Laterza, Roma -Bari, 1992

-          H. LIDDELL HART, Storia militare della seconda guerra mondiale, Mondadori, Mi., 1970.

-          P. ORTOLEVA, M. REVELLI, Storia dell'età contemporanea, Edizioni Scolastastiche Bruno, Mondadori, Milano, 1982.

-          R. VILLARI, Storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 1978.

-         J. L. ALCOFAR NASSAES, Spansky – Los extranjeros que lucharon en la guerra civil española, Dopesa, Barcelona, 1973.

-         AMICALE DES ANCIENS GUERRILLEROS, Guerrilleros en terre de France, Le Temps des Cerises, Pantin, 2000.

-         M. ANGEL, Los guerrilleros españoles en Francia 1940-1945, Istituto Cubano del Libro, La Habana, 1971.

-          H. AMOUROUX, La vie de Français sous l'occupation, A. Fayard, Parigi, 1961.

-          J. BARKER, Eritrea 1941, Baldini & Castoldi, Milano, 1968.

-          C. BERNADAC, Tra i morti viventi di Mauthausen, Libritalia, Città di Castello, 1996.

-          E. BERGOT, La Legion au combat, Presse de la Cité, Paris, 1975

-          G. BERNANOS, I grandi cimiteri sotto la luna, Mondadori, Milano, 1953.

-          G. BONET, Les Pyrénées Orientales dans la guerre 1939 -1944, Horvarth, Tolosa,1992.

-          P. CALEFFI, Si fa presto a dire fame, Mursia, Milano 1968.

-          G. CALANDRONE, La Spagna brucia, Editori Riuniti, Roma, 1962.

-          A. CARPI, Il diario di Gusen, Garzanti, Milano, 1971.

-          R. CARR, Storia della Spagna 1808-1939, La Nuova Italia, Firenze, 1978.

-          R. CARR e J.P. FUSI, La Spagna da Franco a oggi, Laterza, Roma - Bari, 1981.

-          P. N. CARROL, The Odyssey of the Abraham Lincoln Brigade, Stanford University Press, Stanford, 1994.

-          F. CAUDET, Hipóthesis sobre El Exilio Republicano de 1939, Fundación Universitaria Española, Madrid, 1997.

-          L. CEVA, Ripensare Guadalajara, Italia Contemporanea, Milano, n. 192, settembre 1993.

-          L. CEVA, L'ultima vittoria del fascismo - Spagna 1938/1939, Italia Contemporanea, Milano, n. 196, sett. 1994.

-          L. CEVA, Francisco Franco 'novio de la muerte', Italia Contemporanea, Milano, n. 197, dicembre 1994.

-          R. COLLIER, Le bianche sabbie di Dunkerque, Longanesi, Milano, 1963.

-          E. COLLOTTI, Fascismo, fascismi, Sansoni, Milano, 1989.

-          E. COLOTTI, A cinquant'anni dalla guerra di Spagna, Italia Contemporanea, Milano, n. 166, marzo 1987.

-          O. CONFORTI, Guadalajara, prima sconfitta del fascismo, Mursia, Milano, 1967.

-          J. F. CORDEVALE, I fascisti italiani alla guerra di Spagna, Laterza, Bari, 1977.

-          N. MACDONALD, Homage to the spanish exiles, Human Sciences Press., N. York, 1987.

-          A. DANSETTE, Leclerc, Flammarion, Parigi, 1952.

-          C. DE GAULLE, Memorie di guerra 1940/1944, Garzanti, Milano, 1959.

-          P. M. DE LA GORCE, Le armi e il potere, Il Saggiatore, Torino, 1967.

-          E. FALDELLA, Venti mesi di guerra in Spagna, Le Monnier, Firenze. 1939.

-          P. W. FAGEN, Exiles and Citizens, Institute of Latin American Studies, University of Texas Press, Austin, 1973.

-          M. GALLO, Storia della Spagna franchista, Laterza, Bari, 1972.

-          A. GAROSCI, Gli intellettuali e la guerra di Spagna, Einaudi, Torino, 1959.

-          H. DE MONTHERLANT, Il caos e la notte, Bompiani, Milano, 1963.

-          H. HEMINGWAY, Dal nostro inviato, Mondadori, Milano 1967.

-          H. HEMINGWAY, Per chi suona la campana, Mondadori, Milano, 1945.

-          H. HEMINGWAY, Storie della guerra di Spagna, Mondadori, Milano,1972.

-          G. HERMET, La guerre d'Espagne, Ed. Seuil, Parigi, 1989.

-          G. J. HORWITZ, Mauthausen, ville d'Autriche, Ed. Seuil, Parigi, 1992.

-          S. JULIÁ (a cura di), Las victimas de la Guerra Civil, Ediciones Tema de Hoy, Madrid, 1999.

-          F. KERSAUDY, Norway 1940, St. Martin’s Press, New York, 1987

-          H. KESTEN, I ragazzi di Guernica, Giunti, Firenze, 1993.

-          A. KOESTLER, Schiuma della terra, Il Mulino, Bologna, 1989.

-          A. KOESTLER, Dialogo con la morte, Il Mulino, Bologna, 1993.

-          D. LAJOLO, Il voltagabbana, Rizzoli, Milano, 1981.

-          D. LAPIERRE - L. COLLINS, Parigi brucia?, Mondadori, Milano, 1966.

-          L. LONGO, Le Brigate Internazionali in Spagna, Editori Riuniti, Roma, 1956.

-          P. MARQUÉS, La Croix-Rouge pendant la Guerre d’Espagne, l’Harmattan, Paris, 2000

-          H. MARŠÁLEK, Mauthausen, La Pietra, Milano, 1997.

-          H. MARŠÁLEK, Storia del campo di concentramento di Mauthausen, La Nuova Tipolito, Felina, 1999.

-          H. LE MIRE, Histoire de la Legion, A. Michel, Parigi, 1978.

-          MALRAUX, L' Espoir, Mondadori, Milano, 1966.

-          M. MONTAGNANA, Ricordi di un operaio torinese, Ed. Rinascita, Roma, 1952.

-          M. V. MONTALBAN, Io, Franco, Frassinelli, Milano, 1993.

-          M. V. MONTALBAN, Pasionaria e i sette nani, Frassinelli, Milano, 1993.

-          NATOLI - L. RAPONE, A cinquant'anni dalla guerra di Spagna, Angeli, 1987.

-          P. NENNI, Spagna, Sugar Co., Milano, 1976.

-          G. ORWELL, Omaggio alla Catalogna, Mondadori, Milano, 1982.

-          R. PACCIARDI, Il Battaglione Garibaldi, La Lanterna, Roma, 1945.

-          V. PAPPALETTERA, Tu passerai per il camino, Mursia, Milano, 1965.

-          G. PESCE, Senza tregua, Feltrinelli, Milano, 1967,

-          G. PESCE, Un garibaldino in Spagna, Editori Riuniti, Roma, 1955.

-          P. PRESTON, Francisco Franco, Mondadori, Milano, 1995.

-          P. PRESTON, La guerra civile spagnola, Mondadori, Milano 1999.

-          D. PUCCINI, Romancero della resistenza spagnola, Laterza, Bari, 1970.

-          G. RANZATO, Guerre fratricide, Bollati & Boringhieri, Torino, 1994.

-          G. RANZATO, Rivoluzione e guerra civile in Spagna 1931-1939, Loescher, Torino, 1975.

-          V. RICHARDS, Enseignement de la revolution espagnole, Un. Gén. Editions, Parigi, 1975

-          G. RIZZONI, Pro e contro Franco, Mondadori, Milano, 1972.

-          E. ROSSI, Il manganello e l’aspersorio, Laterza, Bari, 1968.

-          R. SALAS LARRAZÁBAL, Pérdidas de la guerra, Planeta, Barcelona, 1977.

-          J. P. SARTRE, Il muro, Einaudi, Torino, 1947.

-          J. SEMPRUN, Il grande viaggio, Einaudi, Torino, 1974.

-          L. W. SHIRER, La caduta della Francia, Einaudi, Torino, 1971.

-          M. SIGNORINO, Il massacro di Barcellona, F.lli Fabbri, Milano, 1973.

-          P. SPRIANO, Storia del Partito Comunista Italiano, vol. V, Einaudi, Torino, 1970.

-          L. STEIN, Beyond Death and Exile The Spanish Republicans in France 1939 – 1955, Harvard University Press, Cambridge Mass., 1979,

-          J. TORBADO, The Forgotten Men, Holt Rinehart & Winston, New York, 1977.

-          H. THOMAS, Storia della guerra civile spagnola, Einaudi, Torino, 1963.

-          N. TRANFAGLIA - M. FIRPO, La Storia - vol. IX, Utet, Torino, 1986.

-          M. TUÑON DE LARA, La Guerra civil española – 50 años después, Editorial Labor, Barcelona, 1989.

-          L. VALIANI, Tutte le strade portano a Roma, Il Mulino, Bologna, 1983.

-          L. VALIANI, Sessant'anni di avventure e di battaglie, Rizzoli, Milano, 1983.

-          V. VIDALI, Il Quinto Reggimento, La Pietra, Milano, 1973.

-          P. WYDEN, La Guerra Apasionada, Ed. Martínez Roca S.A., Barcelona, 1997.

 

Pagine WEB

 

-          Spagna: http://www.arrakis.es/~javrub/emigracion/index.html

-          Francia: http://www.citeweb.net/espana36/exil/exil/htm




 


 

INDICE DEI NOMI

 

Abad De Santillán, Diego; 70

Abellán, José Luis; 69; 117

Aguirre, Carlos; 117

Aguirre y Lecube, José Antonio; 26; 70

Alberti, Rafael; 28; 35; 44; 53; 67; 70; 71

Alcalá Zamora y Torres, Niceto; 4; 70

Alfonso, Celestino; 103;

Alfonso XIII; 3

Alliende, Salvador; 70

Almazán, Joaquin; 121

Alvarez, Emilio; 82

Álvarez Del Vayo, Julio; 23

Amilakvari, Dimitri; 109

Anders, Wladislaw; 117

Anton, Francisco; 82

Aparicio, Antonio ; 73

Aragon, Louis; 103

Ascaso, Francisco; 9; 49

Aub, Max; 70; 81

Aubert, Florian; 106

Audibert, Georges Louis; 104

Axen, Hermann; 82

Azaña y Diaz, Manuel; 4; 5; 7; 19; 26; 35; 87; 101

Aznar, José María; 126

Bahamonde, Antonio; 21

Bakunin, Michajl; 125

Balguè, serg.; 113

Bamba, sottuff.; 110

Bancic, Olga; 103

Barbie, Klaus; 126

Barker, A. J., col; 109

Barsky, Eduard; 43

Bassols, Narciso; 68

Batra, Agusti; 36

Bejar, Francisco; 120

Benyton, conte di; 120

Béraud, Henri; 24

Berenguer Fusté, Dámaso; 4

Bergmann, Rudolf; 82

Bergson, André; 24

Bernanos, Georges; 19; 24

Bernard, François; 104

Berneri, Giovanna; 49

Berneri, Camillo; 51

Bertand, René; 104

Béthouart, Antoine, Marie; 73

Bidault, Georges; 111

Billoux, François; 29

Blank Azéma,Yves; 48

Blasquez, Juan; 82

Blum, Léon; 23; 102

Bonaccorsi, Arconovaldo; 19

Bonnet, Georges; 23; 28; 33; 43

Borin, capo sq.; 32

Borras, Emilio; 113

Bourgeois, Paul; 57

Bowers, Claude. G; 19

Braccialarghe, Giorgio; 82

Bradley, Omar; 111

Bravo Tellado, A. A.; 39

Brecht, Bertolt; 81

Brenan, Gerald; 50

Bru, Roser; 48

Bruller, Jean "Vercors"; 106

Buiza Fernandez Palacios, Miguel; 110

Buñuel, Luis; 70

Caamaño, Antonio; 82

Cabrera, Sergio; 70

Calamandrei, Piero; 127

Caleffi, Piero; 92

Callico, Fernando; 48

Calvo Sotelo, Josè; 5; 8

Campesino, El (vedi Valentín Gonzáles)

Campos, aiut.; 110

Camus, Albert; 35

Candelas, Antoine; 98

Capdevila, Andres; 32;

Cárdenas, Lázaro; 67; 69; 70; 77

Carpi, Aldo; 90

Carrangué Munoz, Francisco; 121

Carrasco, Juan; 38; 64; 88; 123

Carrero Blanco, Luis; 122

Carrol, Peter N.;13;120

Casado López, Segismundo; 14

Casals, Pablo; 35; 39

Casares Quiroga, Santiago; 8

Castejon Ara, José; 33

Castillo, Armano; 82

Castillo y Sáenz de Tejada, José; 8

Castro Delgado, Enrique; 70

Castro Rodriguez, Manuel; 121

Català, Neus; 94; 107

Catalá Balana, Juan; 99

Cathoulie, cap.; 32

Cavaillès, Jean; 102

Cavoche, comand.; 85

Cazes, ing.; 36

Ceva, Lucio; 2; 18; 61

Chauvet, Jean; 57

Cheimol, isp.; 45

Chevance, Bertin; 118

Choltitz, Dietrich; 111

Ciano, Costanzo; 21

Cirici, Alexandre; 48

Claudel, Paul; 15

Claudin, Fernando; 82

Clavè, Antoni; 48

Comorera, Juan; 67

Companys y Jovier, Lluis; 6; 26; 78; 87; 125

Conforti, Olao; 21

Corrales; 45

Corredor, Josep Maria; 35

Corteyoso y Rodriguez; 90

Culdiere; 40

Dahlem, Franz; 82; 84

Daladier, Édouard; 23; 24; 28; 38; 72

Dalmau y Ferrer, R.; 47

Damaso Guerriero, Rafael; 49

Darlan, François; 77

Darnand, Joseph; 103; 104

Daub, Philip; 82

Daudet, Léon; 24

Dauphin, serg. mag.; 85

D'Astier de la Vigeire, Emmanuel, 102

De Conchard, magg.; 108

De Gaulle, André Joseph Marie; 29; 72; 75;95; 97; 98; 101; 102; 104; 106; 108; 109; 110; 111; 112; 114; 119; 120

De Gaulle Anthonioz, Geneviève; 94;107

Déat, Marcel; 60

Degrelle, Léon; 80

Del Rosal; 67

Dellezey, col.; 36; 54

Deprade; 40

Descossy, Camille; 48

Detter, Adolf; 82

Dewavrin Passè, André; 108

Didkowski, Raoul; 26; 57

Dissart, Marie Luise "Francesca"; 100

Dominique; 24

Don Chisciotte de La Mancia; 124

Dos Santos, Aureliano José; 49

Dourmenoff; 85

Dronne, Raymond; 110; 111

Durmayer, Heinrich; 92

Durruti, Buenaventura; 10; 30; 40; 50; 51; 53; 56; 63; 80; 82; 111

Eildermann, Wilhem; 82

Eisler, Gerhart; 82

Elias, sottuff.; 110

Eluard, Paul; 2

Emrich, Louis; 81

Esgleas, Jaime (Germinal); 101

Esteve, Francisco; 121

Falcade, gen.; 35

Faldella, Emilio; 18

Faliu, col.; 30

Faure, cons.; 32;

Faure, André Jean; 80; 81

Faure, Sébastian 52;

Fernández, José; 106

Fernández Avila, Luis; 121

Ferrer y Guardia, Francisco; 3

Fibla, Anastasio; 120

Finidori, aiut.; 85

Florenza, Ramón; 120

Flurscheim, Michel; 81

Fontanot, Spartaco; 103

Francis, François; 31

Franco y Bahamonde, Francisco; 4; 6; 7; 8; 15; 17; 18; 21; 23; 24; 25; 26; 27; 33; 35; 38; 39; 42; 47; 49; 51; 52; 59; 60; 61; 66; 68; 69; 73; 77; 86; 87; 88; 89; 92; 105;114; 115; 118; 119; 121; 122; 123; 124; 125; 126

Frenay, Henri; 102

Fuentes, Eduardo; 121

Gabriel, Roger; 33

Galán Rodriguez, Firmín; 4

Galarza; 77

Gamelín, Maurice Gustave ; 74

Gandia, Rafael; 82

García, Augustin; 106

García, Calero; 106

García Grandas, Cristino; 106; 121

García Hernández, Ángel; 4

García Lorca, Federico; 19; 35; 71

García Martin, Alfonso (Alexander Guerasimov); 117

García Morente; 18

García Valiño, Rafael, 120

Garibaldi; 11; 47; 82

Garosci, Aldo, 16

Garrow, Ian; 99

Gauthier, col.; 30; 36

Gerow, Leonard; 111

Ghini, Vittorio; 49

Giambone, Eusebio; 82

Gibelli, Primo; 125

Gide, André; 24; 71

Gil Robles y Quiñones de Léon, José María; 5; 8

Giono, Jean; 47

Giovanni Paolo II; 16

Giraud, Henri; 109; 110; 115

Godard, Justin; 24

Goded Llopis, Manuel; 6; 7; 9

Gomez, caporale; 113

Gonzales Martin, Manuel, 82

Gonzales, Valentín (El Campesino); 10; 51; 70

Gonzalez, Eduardo; 121

Gonzalez, Gonzalo; 121

Goursolas, med.; 55

Goya, y Lucientes, Francisco José; 90

Goytisolo, Juan; 71

Gramsci, Antonio; 125

Granell, Armando; 110

Grigorievich Starinov, Ilya; 119

Grimau, Julian; 122

Grunstein, Herbert; 82

Guerrero, Tomas (Camilo); 82

Guillaudot, Maurice; 104

Gullon, Francisco; 117

Haik, Jacques; 81

Hamon, Léo; 111

Hemingway, Ernest; 16; 19; 120

Hermet, Guy; 13; 61; 120

Hitler; 10; 29; 50; 62; 81; 86; 87; 95; 112; 123; 125

Ho Chi-min; 123

Houcke, Jules; 102

Huerga Fierro, Ángel; 104

Huerta, Victoriano; 120

Ibarruri, Dolores (La Pasionaria); 13; 39; 125

Ibarruri Ruiz, Rubens; 117

Ilich, Ljoubomir; 84

Ingres, Jean Auguste Dominique; 48

Isgleas, Francisco; 82

Izquierdo, U.; 45

Jackson, Gabriel; 13; 15; 17

Janka, Walter; 82

Juliá, Santos; 16; 17

Jungmann, Eric; 82

Kirn, Alfred; 82

Keitel, Wilhelm; 86

Koenig, Pierre Joseph.; 104; 108; 109; 110

Koestler, Arthur; 19; 20; 76; 81; 83

Kruscev, Nikita; 122

Kuhns, Otto; 81

Laharie, Claude; 80

Lammerding, Heinz; 105

Lamoneda, Ramón; 67

Landa, Matilde; 18

La Pourte du Theil, Jean de; 95

Largo Caballero, Francisco; 70; 88

Larrañaga, Jésus; 82

Lattre de Tassigny, Jean Marie Gabriel de; 110

Laval, Pierre; 80; 95; 97

Lavigne-Delville, gen.; 57

Leclerc, Philippe (de Hauteclocque Adrien); 110; 111; 115; 117

Lecompte-Boinet, Jacques; 102

Lenin, Nikolaj (Vladimir Il'ic Ul'janov); 47; 117

Leonhard, Rudolf; 81

Leontiev, Wassilli; 47

Lerroux García, Alejandro; 5; 6

Lévy, Jean Pierre, 102

Liebray, col.; 85

Lillers, marchese d i; 24

Lincoln, Abraham; 16; 43; 125

Lister, Enrique; 10; 22; 51

Lodigiani, Piero; 90

Longo, Luigi; 82; 83

Lopéz, Alvaro; 56; 77

Lopéz Laguarta, Pasqual (Sixto); 99

López, Ros; 111

Lopez Tovar, col.; 119

Lovati, Egidio; 90

Machado, Antonio; 3; 15; 35; 125

Maginot, André; 64; 65; 72; 73

Magrin-Verneret, Raoul Charles ( Monclar); 108

Malraux, André; 9; 13; 17; 35; 104; 107

Manouchian, Massik; 103

Mantecón, José ; 77

Mao Tse Tung;123

Marcuse, Herbert; 125

Maritain, Jacques; 20; 24

Martínez Barrio, Diego; 26

Marty, Pierre; 100

Marx, Heinrich Karl; 33; 125

Mas, Valerio; 82

Maršálek, Hans; 89

Mascarenc, maresc.; 32

Mauriac, François; 21; 24; 43

Mazzini, Giuseppe; 82

Medina Vega, Antonio; 121

Melis, soldato; 113

Ménard, gen.; 36; 64

Merker, Paul; 82

Miallet, serg.; 57

Miller, Robert; 111

Mintz-Meinard, Serge; 81

Mirabel; 45

Miralles Sbert, vesc.; 18; 19

Mirò, Antonio; 31

Mistler, Jean; 30

Mogueres, Louis; 33

Mola Vidal, Emilio; 8

Mongelard; 99

Montagnana, Mario; 82; 83; 84

Montero, Antonio; 16

Montgomery, Bernard; 109

Montini, Giovanni Battista; 122

Montoya, sottoten.; 110

Montseny, Federica; 51; 67; 68; 101

Morandi, Aldo (Formica Riccardo); 41

Moreno, Bernardo; 110

Moreno, Federico; 110; 112

Moreno Gomez, Alejandro; 121

Mosca; 85

Moulin, Jean; 64; 102

Mussolini, Benito; 10; 21; 62; 125

Musteros, J. M:, 47

Nadal, Enrique Marco; 120

Naharro Calderon, José María; 61

Nasi, Guglielmo; 21

Nautissa Bernal, Christobal; 89

Nava, Julio; 120

Negrín, Lopéz, Juan; 22; 30; 42; 67; 68

Nelken, Margherita; 117

Nelken, Paul; 117

Neruda, Pablo; 68; 70; 71

Neves, Mario; 19

Nitti, Francesco Fausto; 82

Nogueres, Louis; 31

Olleris, gen; 121

Ortega y Gasset, José; 18; 69

Ortiz, Antonio; 110

Orwell, George; 12; 51; 125

Otto, José María; 123

Pajetta, Giuliano (Camen Giorgio); 82

Palaqui, M.; 63

Papon, Maurice; 126

Pappalettera, Vincenzo; 90

Pardinas, María; 117

Parodi, Giovanni; 82

Parrot, Coll; 73

Pascual, José; 117

Pasionaria, La (vedi Ibarruri Dolores)

Pasqual, Lluis; 71

Pavone, Claudio; 2

Peiró, Juan; 87

Peiser, Bruno; 81

Peloquin, gen. med.; 38

Perera, Francisco; 106

Pérez, Gabriel; 106

Pérez González, Blas; 106

Perrin, Jean; 24

Pétain, Henri Philippe Omer; 75; 80; 84; 95; 98; 101; 123

Piaf, Edith; 71

Picasso, Pablo; 81

Picot, Henri; 24

Pinochet, Augusto; 70

Pio XII (Pacelli Eugenio); 120

Piques, Jaume; 48

Pitoum, Paul; 81

Pla-Justafré, Lucette; 31

Plantier-Cazejus, giud.; 99

Platone, Felice; 82

Platt, William; 109

Poma, Anello; 47

Pons, Francisco; 39; 45

Pons Prades, Eduardo; 117

Ponzan Vidal, Francisco; 86; 99; 100

Porta, Ramón; 106

Portela Valladares, Manuel; 7

Pratt, Hugo; 70

Preston, Paul; 17; 18

Prieto y Tuero, Indalecio; 8; 67

Primo de Rivera y Orbaneja, Miguel; 3; 4; 7

Primo de Rivera y Sáenz de Heredia, José Antonio; 5

Prug, Diego; 90

Putz, Joseph; 110

Queipo de Llano, Gonzalo; 21

Quintana, Pauline; 36

Radvany, Ladislas; 81

Rajk, Laszló; 82

Rau, Heinrich; 82; 84

Razola, Manuel; 92

Reale, Eugenio; 82

Rebull, Teresa; 32

Reguant, José María; 122

Renner, Heinz; 82

Reynaud, Paul; 62; 72; 75

Ribas, Isidore; 39; 40

Riepp, Otto; 85

Rios, Jesus; 105

Ritter, Julius; 105

Rivas Cherif, Cipriano; 19; 87

Roatta, Mario; 18

Rodriguez, Julio; 120

Rojo Lluch, Vicente; 30

Rojo, Mariano; 67

Rollet, cap.; 57

Romans-Petit, Henri; 104

Rommel, Erwin; 74; 109

Rosenberg, Moise; 81

Rous, Joseph; 48

Rovira y Virgili, Antoni; 48

Roya, Alberto; 117

Rosescu; 80

Rubio, Javier; 30; 61; 120

Ruiz Vera, Francisco; 82

Russo, Jame; 114

Sabaté Lloppart, Francisco; 122

Saderra, J.; 45

Salas Larrazábal, Ramón; 15; 16; 17

San, Juan; 45

Sanjurjo Sacanell, José; 5; 8

Santucci, luog.; 85

Sanz, Ricardo; 41

Sarraut, Albert; 33; 37; 55; 60

Sarti,Tommaso; 81

Sartre, Jean Paul; 20; 71; 125

Sauckel; 95; 96; 103

Schivo, col.; 104

Schmidt, Eberhard; 81

Schmidt, Lorenz; 81

Schumpeter, Joseph Alois; 125

Semprun, Jorge; 92

Serot, Bernard Jaime; 109

Serra, Manuel; 30

Serrano Suñer, Ramón; 88

Serveto, Bertrand; 109

Simon, Jean; 109

Solchaga Zala, Josè; 35; 119

Soos, Joseph; 81

Soria, Georges; 13

Soula, Camille; 99

Spriano, Paolo; 82

Stender, Rudolf; 82

Stalin (Dzugašvili, Josif Vissarionivic ) 50; 125

Sztal, Felix; 81

Tanguy , Henri (Rol); 104

Tarradellas, Henri; 47

Terres, Roberto; 99

Tesoro, Marina; 2

Thomas, Hugh; 13; 15; 17

Tissier, cap.; 108

Todt, Fritz; 95; 96; 123

Touny, Alfred; 102

Trueta, Josep; 116

Trujillo y Molina, Rafael Léonidas; 77

Tschape, Herbert; 82

Vaello; 45

Vago, Parisien; 66

Val Bascos, Eduardo; 82

Valdes, Miguel; 82

Valery, Paul; 35; 47

Valette d’Ozia, magg.; 104

Valiani, Leo (Weiczan Leo); 82; 84

Valiente, Manolo; 26; 47

Valiente, P.; 45

Velazquez, Diego Rodriguez; 90

Venturi, Franco; 83

Vercors vedi Bruller Jean

Verdier, arciv.; 24

Vernant, Jacques; 120

Viciot, col.; 85

VicunaVitorio (Julio Oria); 105

Vila Capdevila, Ramon "Raymond"; 105; 122

Vilanova, Antonio; 40; 74

Villaroya y Font, Joan; 61

Vitini, José; 120

Weiss, Isidore; 81

Welzech, Johannes, von; 77

Weygand, Maxime; 74; 86

Widen, Peter; 12

Wolf, Friedrich; 81

Yagüe Blanco, José de; 25; 120

Zietzeche, Konrad; 106

Zugazagoitia, Julián; 87

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


 

 

I N D I C E

 

PREMESSA Pag. 2

 

Capitolo I LA GUERRA CIVILE SPAGNOLA " 3

- Dal “Desastre del ’98 alla Repubblica

- La Niña Bonita (1931/33)

- El Bienio Negro (1934/35)

- Vittoria elettorale del Frente Populare

- L' Alzamiento

 

Capitolo II LE CAUSE DELL'ESODO " 15

- Eccidi di parte repubblicana

- Eccidi di parte franchista

 

Capitolo III L'AGONIA DELLA CATALOGNA E LA RETIRADA " 23

- La caduta della Catalogna

- Reazioni in Francia

- La "Retirada"

 

Capitolo IV L' ACCOGLIENZA " 29

- Camps de Collectage (Campi di raccolta)

- L'Internazionale

- Centres d' hébergement (Centri di accoglienza)

- Rafael Alberti - Pablo Casals - Antonio Machado

 

Capitolo V LES CAMPS DU MEPRIS " 37

- I campi di concentramento

- Verso la normalità

 

Capitolo VI VITA QUOTIDIANA NEI CAMPI " 45

- L' Università della sabbia

- La politica nei campi

Capitolo VII I CAMPI DI PUNIZIONE " 55

- Le Vernet d' Ariège

- Fort Collioure

- Africa del Nord

Capitolo VIII VIGILIA DI GUERRA " 61

- Rimpatrio in Spagna

- Compagnies de Travailleurs Étrangers (C.T.E.)

- La Legione e i Battaillons de Marche

 

Capitolo IX AMERICA LATINA " 69

- Emigrazione

 

Capitolo X LA "DROLE DE GUERRE" E L'ARMISTIZIO " 75

- Narvik (Norvegia)

- Disfatta in Francia

Capitolo XI IL REGIME DI VICHY " 79 - Il Governo collaborazionista e le estradizioni

- I campi riaprono

Capitolo XII L' OCCUPAZIONE TEDESCA " 89

- Riconsegne forzate ai franchisti

- Deportazioni in Germania

- Lavoro obbligatorio

 

Capitolo XIII LA RESISTENZA " 103

- Passeurs d' hommes

- Prendre le maquis

- Forces Françaises de l' Intérieur (F. F. I.)

Capitolo XIV FORCES FRANÇAISES LIBRES E SOTTO ALTRE

BANDIERE Pag. 113

- La 13ª Demi Brigade de Legion Étrangere

- Da Parigi alla Germania

- Number One Spanish Company N.1 S.C.

- Commandos

- Arruolamenti in N. Africa

- Fronte russo

Capitolo XV GUERRIGLIA IN SPAGNA " 125

- Oltre i Pirenei

 

Capitolo XVI CONCLUSIONI " 131

 

NOTE " 135

 

BIBLIOGRAFIA " 141

 

INDICE DEI NOMI " 145

 

APPENDICE FOTOGRAFICA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 


 


 


 


 


 


 


 




 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 


 



[1] 40.000 stranieri combatterono per la Repubblica (10.000 caduti). Provenivano da 53 paesi dei cinque continenti. Altre migliaia servirono nella Sanità, nei trasporti, nelle industrie e in altri servizi.

[2] Secondo G. Soria, P. Wyden, P. Carrol, G. Calandrone ed altri. Secondo H. Thomas, G. Jackson, G. Hermet, A. Bessie avvenne il 15 novembre, ma dovrebbe trattarsi di più sfilate.

[3] Parteciparono alla Guerra di Spagna 78.846 italiani (caduti 6.ooo – 15.000 feriti).

[4] Attuale vescovo di Badajoz.

[5] Organizzazione Volontaria Repressione Antifascismo (servizi segreti di polizia politica fascista).

[6] Rifugiato libertario spagnolo “passeur” ucciso dai nazisti il 17 agosto 1944 a Buzet sur Tarn

[7] Gli spagnoli venivano anche identificati dalle S.S. e dagli altri detenuti con l’espressione di Spaniak.

[8] Nell’ottobre 1940 arrivarono al campo dei medici ebrei che erano stati in Spagna nei servizi sanitari delle B.I., ma che furono massacrati pochi giorni dopo.

[9] Ne fece parte l’italiano Amedeo Azzi. Commissario Politico del Battaglione Garibaldi della XII Brigata Internazionale nella guerra di Spagna. Ferito nel febbraio 1937 durante la battaglia del Jarama.

[10] 5 italiani, 8 polacchi, 3 francesi, 2 armeni, 2 ungheresi e 1 spagnolo. Cinque erano ex combattenti della Guerra Civile Spagnola.

[11] Per altri studiosi a causare la rappresaglia fu la cattura da parte dei maquisards del maggiore Kämfe. Il giorno prima militari della stessa Divisione avevano impiccato a Tulle (Corréze) 99 ostaggi.

[12] 24 ufficiali il 3.12.1941 furono condannati a morte dal Tribunale Militare di Orano costituito in Corte Marziale per "diserzione difronte al nemico in tempo di guerra".

[13] Libertario fucilato dai franchisti il 22/2/1946.


 [P1]

 [P2]