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AD

ATTO VANNUCCI.


Tu hai tutte le qualità ond'io ti dedichi questo volumetto. Sei Atto Vannucci. Sei autore di quelle opere. Sei contemporaneo dei dolori ch'io descrivo. Sei d'intelletto sovranamente penetrativo da distinguere la verità fra le ambagi della infermità umana. E sei sacerdote della Virtù, che non può mai perire. Addio.

ANTONIO RANIERI.


SETTE ANNI DI SODALIZIO.

Tacendum enim semper est, nisi quum
taciturnitas tibi noceat.                            
VIRGILIO.

I.

Mi apparve, e mi appare ancora, bello, il disparire compiutamente dalla vita di Giacomo Leopardi, dopo aver fatto, mia sorella Paolina ed io, il più gran sacrifizio che (salvo una morte scenica, dove questa potesse elevarsi a tanto onore) due mortali possano fare per un altro.
Non apparve così all'invidia, che non contrasta solo ai belli principii, ma ancora ai belli mezzi ed alle belle fini, e, in somma, al bello, dovunque le sembri di scorgerne un raggio.
In un fatto evidente, del quale tutti erano stati spettatori e testimoni, essa non negò, anzi si unì con tutti a far plauso. Ma, secondo che il perfidissimo vecchio, che s'è chiamato Tempo, trascorreva l'inesorabile sua via, e gli spettatori e i testimoni si diradavano, cominciò a procedere per insinuazione. Questo procedere giunse a tale, da far consacrare notabili inesattezze insino sul marmo; e, dopo presso che mezzo secolo, e tre vite, due spente e la terza non lungi dallo spegnersi, m'è parso che mi sia lecito di dire, non tutta la verità (che a questo punto non v'ha insinuazione al mondo che possa sospingermi), ma quella parte che, senza detrarre chicchessia, basti, appresso le anime bennate, a non consentire che sia detratta la santa virtù, ed, in già tanto gran deserto morale, svolta, forse, la gioventù, per quasi certezza d'ingratitudine, dal ben fare (1).



II.

Io avevo già conosciuto Leopardi in Italia, e qualche lampo d'ingegno, grande in lui, piccolissimo in me, s'era già scontrato fra noi. Volsi poi per oltremonti; e, dopo qualche lettera, non ne seppi, come accade, più altro.
Dopo lunga assenza e lunghi viaggi, tornai, nell'autunno del Trenta, a Firenze, dove lo trovai in un suo piccolo quartierino, in Via del Fosso, malatissimo ed inconsolabile.
Cominciai a visitarlo, preferendo, come feci sempre dalla mia prima giovinezza, la conversazione di un qualche malinconico ricetto d'un grande uomo a quella, che m'era allora facilissima, degli allegri salotti delle belle donne.
La sua immedicabile tristezza cresceva di dì in dì; ed una sera, che mi parve giunta al suo colmo, non seppi astenermi dallo spingermi, con vellutate parole, insino alla viva preghiera di palesarmene la cagione.
Cessa, egli mi disse, allora, dalla vana impresa di consolare un disperato.
Io, appunto da quella disperata parola, tolsi il destro di non me ne disperare. E tanto feci e tanto dissi, che, finalmente, il suo cuore ne intenerì, e proruppe, quasi lacrimando, nelle seguenti parole:
Recanati e morte sono per me tutt'uno: e fra qualche dì andrò a morire in Recanati. Tutti i miei lunghi sforzi si rompono alla fine incontro al Fato, che mi conduce a quel mio odiato sepolcro. Il generale Colletta volle trarmene; e, raccogliendo intorno a se molti di questi signori, mi fece un peculio per un anno. Si aspettava che io componessi e dedicassi. Non ho potuto la prima cosa, e non ho mai voluto la seconda; ed il peculio non sarà rinnovato.
Io non ho mai, per sette anni, veduto piangere Leopardi. Ma quella sera, anche al fiochissimo lume della sua tetra lucerna, mi accorsi che piangeva: e, nella inenarrabile commozione che quelle parole e quelle lacrime mi cagionarono, gli dissi ciò che solo a quella età l'uomo dice:
Leopardi, tu non andrai a Recanati! Quel poco onde so di poter disporre, basta a due come ad uno; e, come dono che tu fai a me, e non io a te, non ci separeremo più mai.
Questa parola, onde la iniquità degli uomini ancora non è giunta, e non giungerà, fin ch'io viva, a farmi pentire, fu tenuta con rara costanza: ma non posso negare ch'essa fu cagione, a me ed alla mia angelica Paolina, di lunghi, immedicabili ed incomprensibili dolori.



III.

Sì fatta ed accettata la fraterna profferta, io mi posi, con religione senza pari, alla sua incarnazione subbiettiva; ma, con non minore religione, non volli mai saper nulla della obbiettiva. Leopardi potette essere, nella realtà, o quale fu veramente, massime dopo i doni dei Feáci, Ulisse, o quale volle apparire ad Euméo; allora, a me solo, e poscia, a me ed alla mia angelica Paolina, egli non fu mai altro se non l'ospite sacrosanto.



IV.

Dopo quella sera solenne, ebbe inizio per me la vita nuova.
Il libraio Piatti stampava, o piuttosto, ristampava, quel piccolo volumetto di poesie: ma Leopardi non aveva nè occhi per correggere le bozze, nè forza e sanità per combattere le difficoltà che incontrava il Padre Mauro; eccellente e dabbene scolopio, ma pur finalmente, censore.
Il vecchio libraio strabiliava e tempestava dell'uno e dell'altro indugio. Io mi messi all'opera. Corressi le bozze; attesi, non so quante volte, il buon Padre alla sua cella; svolsi, più io a lui ch'egli a me, tutta la Regola di San Giuseppe Calasanzio; mi venne fatto di dileguargli presso che tutti i suoi, più o meno serii, terrori teologici: ed il volumetto fu stampato o, piuttosto, ristampato.
Come di tutte le simiglianti cose, non seppi mai nulla del premio di quella ristampa. I conti li faceva il generale Colletta, che ne aveva, durante l'anno del peculio, iniziata la pratica.



V.

L'infermo, intanto, sputava sangue. Ebbe una fiera vomica; e la sua cameruccia era più che mai deserta.
Corsi allora pei medici; e pregai, di mano in mano, l'ospitale Targioni, insigne botanico ed insigne medico; il Nespoli, che mi apparve gran medico perchè, a somiglianza del nostro Prudente, non medicava; il Caramelli, ed il Mágheri, se non erro, perchè di quest'ultimo ho innanzi la figura, ma non mi si ricorda troppo chiaramente il nome.
Tutti si stringevano nelle spalle; tutti accennavano, benchè con delicato garbo, alla doppia e deforme curvatura, ed alla conseguente discrasia; tutti si protestavano che nè la scienza nè l'arte potevano nulla; tutti concludevano che la vernata di Firenze era poco fatta per lui: ma tutti, in pari tempo, convenivano, che s'era troppo innanzi nella stagione, e che al buon consiglio di scrollarlo di là non sarebbe stato possibile di appigliarsi, se non (vinta la dura prova di quell'anno) l'anno seguente.
Non mi rimase allora altro partito, se non quello di non abbandonarlo, presso che mai, nè dì nè notte.



VI.

Al mio ritorno di oltremonti, e prima della sera solenne, io aveva già fermato, e per più mesi, un gentile quartierino, in Via Ghibellina, accanto casa Targioni. Gustato il dolce assenzio del curare un carissimo infermo, pensai di valermi del mio quartierino per solo uso di svestirmi e rivestire; di far le nottate appresso l'amico; e quando la stanchezza mi vincesse, adagiarmi sur un canapè ch'era nella camera contigua. Nè feci altrimenti, insino che le buone albergatrici, per la partenza d'un, come dicono colà, dozzinante, potettero disporre d'un lettino.
Tutto è poesia nella gioventù, e la gioventù stessa non è che una poesia; mi soleva poi dire la mia angelica Paolina, quando mi accadeva di narrarle quelle mie giornate!...
Così, fra un malato, due case, i rumori (cui non potevo esser tenuto straniero) di Romagna e di Toscana, e le fastidiose conseguenze che ne seguirono, afferrai, miracolosamente, la riva della buona stagione, chiamato di sabato in sabato al palazzo Nonfinito (2): ma, forse per le affettuose e perentorie cure in cui era un notorio che io mi trovavo immerso, non del tutto bistrattato da un Governo, del quale, alla fine, ero io stesso debitore di una ospitalità onde ho serbato sempre un profondo sentimento di riconoscenza.



VII.

Non ostante il caldo insopportabile di Firenze, vi regnava allora, e credo, vi regni ancora, l'adagio, che non vi si possa nè vivere il verno, nè morire la state. Il malato andava, in un certo modo, al meglio; e, com'era sua natura, cominciava a presumere un poco troppo del fatto suo. Di che seguì che, mentre gli si leggevano apertamente, sulla fronte e sulla persona tutta, i segni più tristi di malvagissimi umori, ed i messi inclementi di più o meno immatura morte, egli si spingesse a vani ed inavvertiti soliloquii d'amore, che, non senza mio grande rammarico, oltrepassavano di gran lunga i confini imposti alla dignità di un tanto uomo. Per congiunture, ch'è assai bello il tacere, io me ne trovavo spesso, e con grande mia angoscia, tra i più scabrosi anfratti. Ma, con assai maggiore mia angoscia, sopraggiunse l'autunno a illuminare le carte.
Adunque, a mezzo settembre, gli sputi sanguigni ricominciarono. Io ebbi novamente ricorso a' miei dottori; e costoro mi riaffermarono tutti, che, a volerlo salvare, bisognava menarlo, nell'autunno, o a Napoli, o, almeno, a Roma. A Napoli io non poteva tornare. Mi risolsi di menarlo, a qualsiesi costo, in Roma.



VIII.

L'impresa, alla quale io mi accingeva, non era da pigliare a gabbo. In quale stato io m'ebbi Leopardi nell'autunno del Trenta, l'aveva detto egli stesso nella lettera agli amici di Toscana, posta innanzi al volumetto accennato. Quivi egli definiva se stesso un tronco che sente e pena; e, per dilicato e indiretto modo, tentava un'ultima, benchè vana, prova, che il peculio gli fosse rinnovato (3).
Un anno è qualche cosa nella vita mortale. E se si aggiungano le percosse del triste verno, a grande stento valicato, si potrà, di leggieri, comprendere di che gravità fosse la ricaduta che m'era a fronte.
Già, insino dal Trenta, quando fu saputa per Firenze la ragione onde Leopardi non si riduceva altrimenti in Recanati, più d'uno spassionato amico mi aveva posto in considerazione la gravità del sottentrare alle sorti d'un infermo cronico, manifestamente incurabile, e, come porta la natura stessa del male, infesto e crudele, per ingenito, contro a chi più lo assiste e l'adora. Ed un baleno di sinistra luce mi solcò, non una volta, la commossa fantasia.
Vinse, nondimeno, l'immenso affetto e la promessa fede; e scrissi agli amici miei di Roma, in particolare, alla esimia Donna Margherita dei Duchi d'Altemps, della cui nobile benevolenza serbo la più cara memoria, ed il cui germano, conte Eduardo Fabbri, autore di maschie tragedie, quando studiai lingue in Bologna, sotto gli alti auspicii del Mezzofanti, io andava, tutte le domeniche, venti miglia lontano, a visitare nella Torre d'Imola, dove si trovava, senza processo, e per mera libidine teocratica, rinchiuso.
Essa, per quanto posso ricordarmi, mandò sua gente attorno; e fu ritrovato un gentile quartiere in Via delle Carrozze.
Ma la gran difficoltà, era il menare a salvamento il malato.
Noleggiai, a grave prezzo, tutta per me, una spaziosissima vettura, con abbondanti ed ottimi muli, valendomi di tutto il coupé, per respirare talvolta; poichè Leopardi voleva una chiusura tale, da non potere nè anche rinnovare l'aria consumata e corrotta.
Il padrone si chiamava il Minchioni. Il cortese e netto vetturino che ci condusse, aveva nome Sabatino. E, presi tutti gli acconci acciocchè il carissimo infermo si potesse adagiare, distendere, situare in tutte quelle, per così dire, sue segrete giaciture, onde ha tanta necessità il malato cronico, si partì, Sabatino, Leopardi ed io, verso il declinare dell'ottobre, ed a piccole giornate, per Roma.



IX.

Io non dubiterò di affermare, che si compì quel viaggio:

Portandomene lui sopra il mio petto
Come mio figlio e non come compagno.

Fui contentissimo del quartiere, che consisteva in tre belle stanze a fronte di strada, ed altre stanzette d'uso.
La stanza di mezzo servì, naturalmente, di salotto. La stanza da letto, a sinistra, come la più bella e riguardata, fu per Leopardi; l'altra a destra, per me. Di pensione non fu mai fiatato. La casa aveva due usci da strada, uno dei quali dava in Via dei Condotti. Proprio di rimpetto v'era lo storico Lepri, il più frequentato, il più acconcio, il più salubre Ristoratore di Roma, dove, in quei tempi (calamitosi per altri assai versi), in fatto di nutrimento, si dava manzo e mongana, e non cavallo e mulo. Io scendeva giù a desinare, e provvedevo che fosse mandato su tutto quanto poteva più giovare alla sanità dell'infermo.



X.

Quivi mi seguì un fatto, che mi duole insino al più intimo fondo dell'animo di narrare; ma che, dopo mezzo secolo del più religioso silenzio, non mi è più possibile di tacere: colpa le più inopinate e le più indiscrete pubblicazioni, che, per giunta, senza necessità, e quasi excusatio non petita, sieno state mai fatte al mondo! Infauste pubblicazioni, delle quali, se la notizia delle nostre miserie oltrepassa i confini di questo granello di sabbia, quel grande e sublime spirito sarà, certo, il più contristato.
Insino dalla mia primissima permanenza in Roma, io m'era fatto tosare i capelli da un parrucchiere, assai famoso a quei dì, per nome Piersantelli. Questi era, soprappiù, un patriotta; ed aveva la sua sala in Via dei Condotti, prossimissima al mio quartiere. Arruffato un poco dal non breve viaggio, io, dopo qualche dì, mandai per lui, e mi sedetti nel salotto a farmi tosare. Com'è facile questa gente a entrare, come si dice, in brache:
Io sono, mi disse, di Recanati; anzi ne sono tornato, non ha guari, dalla mia gita dell'ottobre. Com'è ch'ella ha con se il figliuolo del conte Monaldo?
Percosso dalla improvvisa ed inattesa interrogazione, io levai su il capo, e lo guardai! E scorgendogli una certa ciera maliziosa, n'ebbi un momento di stupore! Poscia, raccolto l'animo:
Con me?... risposi, con severità. Non so che cosa vogliate intendere. Vuol dire, che siamo due amici che s'è preso un quartiere insieme.
Ignaro che s'era prossimi alla camera del mio amico, e però non parlando basso quanto avrebbe dovuto, egli replicò, sorridendo:
Ho detto così, perchè conosco assai bene le cose di colà, gli umori del padre e del figliuolo; l'odio implacabile di costui al clima ed agli abitatori di quel paese:...
E soggiunse, con importuna loquacità, ch'io repressi raddoppiando di severità, assai altri particolari, i quali o io conosceva assai meglio di lui, o non m'importava nè punto nè poco di conoscere.
Appena tosato, lo congedai. Ed egli non era ancora al primo pianerottolo della scala, che Leopardi aveva fatto già capolino dall'uscio della sua stanza.
Come? diss'io. Sei già levato?
Ed entrato che fui:
Ti ricordi, mi disse: le Ricordanze (4)?...
intendendo di quella sua poesia che porta questo titolo.
Diavolo! risposi. Ne ho corrette e ricorrette, non ha guari, le bozze in Firenze; e la so a mente.
E gliene recitai un certo brano.
Bene!... sappi, ch'io divento un forsennato, al solo sognare di andarne per le bocche di quella gente; sappi, che io inventai, invento ed inventerò tutte le favole, tutti i romanzi di questa terra, per salvarmi da questa orribile sciagura; e sappi, che di questa libertà io fo un patto espresso dell'accettata profferta!...
Allora, stringendogli la mano, ed imprimendo due forti baci su quelle scarne guance:
Leopardi! gli dissi, purchè io non ti perda mai, inventa tutte le favole e tutti i romanzi dell'età di mezzo. Che importa a me di Recanati? Se tu mi hai ricordato: le Ricordanze: io ti ricordo il brano di Seneca che ti leggevo pur ieri sera, dove, parlando di certa maniera di essere amico, grida: ista... negotiatio est, non amicitia: e sai che il sentimento che ci legò per sempre, è: amicitia, non negotiatio.
Egli imbambolò gli occhi; e fu contentissimo della libertà che gli parve di aver legittimamente acquistata.
Ma, io confesso, che non avrei mai inteso di concedergli quella che mi si riferisce leggersi in alcune sue lettere. E dico: mi si riferisce: perchè, insino da una prima pubblicazione di questa specie, io, tre volte tentai di farne lettura, e tre fui preso dalla febbre; e feci sacramento a me stesso, e me ne feci fare un simile dalla mia angelica Paolina, che mai gli occhi nostri non si farebbero più violare, nè i nostri cuori cincischiare, da letture sì fatte.



XI.

Intanto i rigori del verno stringevano; e se l'aria di Roma era incommensurabilmente più dolce di quella di Firenze, non però non ricominciava la tempesta degli sputi sanguigni e delle bronchiti purulente.
Eccomi novamente in volta per medici; ora Bomba, ora Concióli, ora Morichini, ora, se la memoria non mi tradisce, Decrollis o Lupi. Solite strette di spalle; soliti accenni alla rachìtide; solita impotenza della medicina; solite speranze nella primavera. A ogni modo, vomiche non ve ne fu. Ed io ho l'intimo convincimento che, se l'infermo avesse passata quella stagione in Firenze, l'avrei, e con me l'Italia e il mondo, irreparabilmente perduto.
Così, fra i più angosciosi palpiti, che non oso sperare sieno da molti adeguatamente estimati, approdammo al lido della sospirata primavera. Ed, a mezzo marzo, si partì di Roma per Firenze, nel medesimissimo modo, e con le medesimissime precauzioni, che s'era partiti di Firenze per Roma.
Ecco i cinque mesi di Via delle Carrozze, trasformati in OLTRE DUE ANNI da una lapide marmorea che il SENATO E IL POPOLO ROMANO FA MONUMENTO A NOI ED AI POSTERI di quella dimora.
L'illustre autore della epigrafe, che mi degnò pur sempre della più nobile amicizia, fu innocentemente tratto nell'errore. Ma, con l'altissima autorità che gli appartiene, sarà esso il primo a farlo correggere.



XII.

Giunti a Firenze, si potette avere, immediate, o quasi, lo stesso quartierino che s'era lasciato. E, sia perchè la vernata di Roma era, tutta insieme, stata assai meno inclemente dell'anteriore di Firenze, sia perchè la primavera toscana, e quei giardini, e quelle vie odorate, diventano allora un incantesimo, sia, in fine, perchè amendue ci appagavamo assai più di Firenze che di Roma, l'infermo cominciò, relativamente, a migliorare.
La mia santa madre, ch'io aveva tanto crudelmente perduta durante il mio esilio, non era più da più anni. Essa, con vere viscere di madre, mi aveva munito di una credenziale di Meuricoffre per tutti i banchieri di Europa. Ma io, salvo poche volte, nè anche oltremonti ne aveva fatto grande uso; tanta era l'affettuosa esattezza onde mi perveniva dovunque il mio bisogno. In Parigi, per esempio, la credenziale era sulla Casa Pillet Will. Ma io ne feci uso una sola volta, perchè il danaro mi veniva a mezzo del cavalier Navarro, segretario della Duchessa d'Orléans, quella gentile e santa
principessa napoletana, Amalia di Borbone, che fu, poi, regina dei Francesi. In Firenze, la credenziale era, se la memoria non mi tradisce, sulla Casa Giuntini; ed io aveva il mio bisogno per mezzo della Casa Castelnuovo, uno de' cui componenti, Amodio, veniva più volte l'anno a Napoli, ed era assai conoscente della mia famiglia.
Ma, debbo pur dirlo, la vita nuova non comportava più l'antica vita bancaria. La credenziale cominciò a romoreggiare con inusitata frequenza. E la Casa Castelnuovo aveva oltrepassato di gran lunga la somma di quelle somministrazioni, che, senza un limite determinato, avevano nondimeno constituita una delicata consuetudine, da me, insino alla fine del Trenta, religiosamente serbata verso la mia famiglia.
Tutte queste novità, riuscendo alle respettive rivalse su Napoli, e sopravvenendo appunto dopo ch'era stata fatta facoltà a tutti gli esuli di rimpatriare (come, nell'effetto, erano tutti rimpatriati), destarono dolorosi, ma non ingiusti, sospetti nell'animo di tutti i miei, che, conoscendo con quanta ordinata e costante dilicatezza io m'ero governato insino ne' miei viaggi e nelle mie permanenze oltremonti, non sapevano come esplicarsi il mio nuovo ed inaspettato procedere, ed il mio ostinato rifiuto di ritornare, dopo tanti anni, a casa mia. E ciò tanto maggiormente, in quanto alla predetta facoltà del ritorno era stato aggiunto il minaccioso corollario di un secondo esilio, dove non si fosse, in un determinato perentorio, tornati a rendere le dovute azioni di grazie alla clemenza del giovane Sovrano, Ferdinando Secondo.
Mi parve, alla fine, di non potermi più onestamente indugiare, ed, incoraggito, d'altra parte, sia dall'essersi l'adorato amico grandemente vantaggiato della dimora di Roma e della sopravvenuta state, sia dai messi benigni che già si sentivano della vernata sopravvegnente, mi risolsi di muovere per Napoli, lasciando le mie cose in Firenze come se io non fossi assente; e:

... disposto
E fermo, di due cose una a finire:

o tornare a riprendere l'amico e menarlo per sempre a Napoli, o ritornare io per sempre a Firenze.



XIII.

Non v'era allora nè anche diligenza tra Firenze e Roma; nè tra Firenze e Bologna. A voler cansare l'indugio e la noia della così detta vettura, mi fu forza prendere il corriere postale da Firenze a Bologna; e quindi prendere la diligenza romana, che, trascorrendo il lungo giro delle Romagne e delle Marche, conduceva, finalmente, a Roma.
Pervenuto, a forza di buoi, su Recanati, mi nacque desiderio di vedere il patrio tetto delle Ricordanze. Ma spuntava appena l'aurora; e la fermata era brevissima. Scesi frettoloso, e dissi a un fanciullo che mi venne innanzi:
Dov'è la casa del conte Leopardi?
Il fanciullo mi mostrò a dito una piccola via a sinistra di quella dove s'era fermato, ch'era, credo, la via di mezzo del paese. Lo pregai di guidarmi; e, dopo non molti passi, giunti ad un uscio:
Ecco il conte Leopardi:
disse il fanciullo, mostrandomi un uomo che ne veniva fuori.
Com'era naturale, egli maravigliò un momento. Ma, giovine e svelto, io lo trassi in un attimo d'imbarazzo, dicendogli:
Signor conte, io sono un amicissimo del suo figliuolo Giacomo; e sento per lui un amore ed un'ammirazione ineffabile. Passando di Recanati, ho colto il destro della momentanea fermata, per gettare uno sguardo sulle mura fra le quali egli nacque.
Mi duole, egli rispose, che io sia per andare a sant'Agostino a dir mattutino: accennando ad una chiesetta ch'era appunto sulla cantonata per la quale io aveva
svoltato.
Io non potrei indugiarmi, gli risposi, nè anche d'un altro momento, perchè la diligenza riparte immediate. Sono lietissimo d'aver conosciuto il padre di un tanto uomo
Mi accorsi che il tanto uomo non gli piacque, perchè si credeva in gara col figliuolo pei famosi Dialoghetti, nei quali propugnava le più strane dottrine dell'età di mezzo, e pei quali il figliuolo fu costretto a protestare per le stampe.
Il dialogo fu cortese, ma freddo e breve, com'era breve la distanza fra la casa e la chiesetta; giunti ai gradini della quale, egli mi si accommiatò, e ne andò in mattutino.
Aveva un cappello a larghissime falde, calzoni corti a ginocchio, scarpe con sopra grosse fibbie di metallo bianco, era da capo a pie' tutto a nero, e portava sotto il braccio sinistro una maniera di grosso Breviario.
Così, non avendo, forse, potuto vedere la casa di fronte poichè il muro, assai poco appariscente, che vidi, doveva, credo, esser laterale o postico, ebbi appena il tempo di raggiungere a furia gli altri viaggiatori, impazientissimi di vendicarsi dell'orribile fastidio della salita e della poveraglia, con la facilità e lo sgombero della discesa.
Di Roma mossi col corriere postale per Napoli, le cui aure leggiere, poichè non erano più respirate dalla mia santa madre, dal cui giovane seno la tirannide mi aveva strappato ancora imberbe, insino dalle prossime colline mi sciolsero il duro ghiaccio dell'esilio in una calda fonte di lacrime.



XIV.

La minaccia di un secondo esilio, dove indugiato il ritorno, aveva partorito i suoi effetti. Al Reclusorio, il Commissario (come allora si diceva) di quel posto, fattomi scendere della vettura, m'intimò l'arresto. Ho ancora innanzi gli occhi le lacrime in cui proruppe il corriere, col quale avevo viaggiato solo, perchè d'un posto solo era capace quella maniera di vettura, ottimo vecchio (parmi si chiamasse Mastroianni), affezionatissimo alla mia famiglia (allora in Portici e da me a studio non avvertita), alla quale egli aveva, con senile gioia, pensato di menarmi immediate a dare la sorpresa.
Così quel reggimento, dopo un lungo ed incomprensibile esilio, e la madre perduta senza potersele inginocchiare innanzi e baciarle la mano, asciugava le lacrime di tenerezza del mio come Omero chiamò il sospirato dì del ritorno.



XV.

Il Commissario Vitelli, così si chiamava quel brav'uomo, piangeva ancor esso del caso mio. Mi condusse in carrozza a casa il Prefetto Piscopo, ch'io mi ricordai per conoscente della mia famiglia. Ma il Prefetto giudicò che il caso mio fosse caso da Ministro. Si attese di poter vedere Delcarretto, il quale, per una particolare deferenza a mio padre, ordinò che, in luogo di secondo esilio, mi si fosse, interim, imposto un semplice mandato per urbem.
La mia famiglia fu avvertita. Sopravvennero parenti ed amici, fra gli altri l'illustre Carlo Troya, che, tornato prima di me dall'esilio, non era stato sottoposto al mandato predetto.
Con lui, con Giuseppe Ferrigni, mio cognato, e con mia sorella Enrichetta, sua moglie, ed altri congiunti, il dì seguente s'andò tutti in villa a desinare co' miei, e, poichè Portici era extra moenia, in violazione, quanto a me, del divieto.
S'io dovessi essere indegnato dell'accoglienza del dì dinanzi:

Credo l'intenda ogni gentil persona.

Me ne spassionai per via con Carlo Troya; e gli confidai che, non essendomi possibile di abbandonar Leopardi; fra il menare lui qui, o il fermarmi io per sempre in Firenze, m'ero risoluto al secondo partito: e lo pregai di propugnare la mia risoluzione presso mio padre.
Ma tu non hai ancora riveduta la Paolina, egli mi disse! Rivedila; intrattienti un tantino con lei; e poi mi confiderai la tua finale risoluzione.
Mi ricordo proprio il luogo cui dicono Pietra Bianca, sulla via che va a Portici, dove queste parole mi risuonarono, come armonia da organo, sul cuore. Esse mi rimenarono, come per incantesimo, a quei giorni ineffabili della vita mortale, fra la puerizia e l'adolescenza, quando ne udii il primo vagito, quando la sostenni, quasi figliuola, sulle mie braccia, quando, cominciata a reggersi sopra i suoi piccoli piedi, facendo capolino dall'uscio del mio scrittoio, dopo buona pezza, mi chiamava; ed io mi levava a carezzarla, e le diceva:
Che fai costì?...
ed essa mi rispondeva, quasi ancora balbettando: Ti veggo studiare:
quando, in fine, volgendo nell'inopinato esilio, non la destai, ma la baciai assopita sul suo letticciuolo.
Sentii, a queste sacre memorie, non so che di arcano e di predestinato. E, fra questi pensieri, mi apparve innanzi, in forma di eterea giovinetta, quasi fiore che allora sbocciasse.
Ma quale fu la mia maraviglia, il mio stupore, la mia inenarrabile commozione, quando, iterate, più e più volte, le tenere e liete accoglienze, le sue sante labbra accennarono a sentimenti dilicati e pietosi che non sogliono intendersi a quell'età; quando scorsi sul suo quasi ancora fanciullesco viso i manifesti segni d'una predestinazione all'apostolato?
Si desinò con letizia alquanto grave, perchè mancava la diva della famiglia, ch'è sempre la madre; o, piuttosto, desinarono gli altri, poichè Paolina ed io pregustammo solo d'un cibo ch'essa, benchè meno di me innanzi negli anni, s'è avviata a gustare colà dove solo può gustarsi nella sua interezza.
Quale latente, ma terribile, battaglia fervesse nell'anima mia, fra Paolina e Leopardi, lo seppe solo Colui che sa e vede tutto di Colassù; poichè lingua umana non può ridirlo.
Levati, sull'imbrunire, di tavola, ed appunto nell'ora dei più profondi, e quasi divini, sentimenti, essa, se bene quasi più mesta di me:
Perchè sei tanto mesto?... mi disse.
Io ho lasciato, le risposi, in Firenze, un immortale uomo, ma un mortale malato, a protrarre la cui vita le mie fraterne cure sono di assoluta necessità!...
Ed ancor io ti sono sorella, essa replicò. Tu intendi di Leopardi. Come sai il suo nome?... io le dissi.
Il suo nome? essa rispose. Carlo Mele, ha ristampate qui le sue canzoni nella strenna; ed io le so a mente. Non sognare nè anche di separarti più da me. Va a riprenderlo; e menalo qui: ed io ti prometto di fargli da suora di carità.
E papà?... Io le dissi, fra lieto e mesto. E papà... vedremo.
Io l'abbracciai e la baciai, versando amendue le più tenere e cocenti e sante lacrime che sieno mai sgorgate da occhi umani.
E fattosi buio, me ne tornai col fatidico Carlo Troya, al quale, con sempre rinascenti lacrime, confidai, quella sera stessa, su quella stessa via di Pietra Bianca, la mia eterna risoluzione di non dividermi mai più nè da Paolina nè da Leopardi.
Egli me ne strinse forte al seno, di gioia. Ed io rientrai nella città, donde ero uscito il mattino contraddivieto.



XVI.

Adunque, rividi Delcarretto, e gli apersi, francamente, risolutamente, l'animo mio. Come al Prefetto quel mio primo caso era parso caso da Ministro, così al Ministro questo mio secondo caso parve caso da Re; al quale mi consigliò di chiedere una udienza. La chiesi, ed, a mezzo della gentile duchessa d'Ascoli, finalmente, la ottenni. L'accoglienza fu assai umana, anzi, ospitale. Esposi, con giovanile affetto e verità, e però con persuasiva eloquenza, il caso mio. Ferdinando (del quale i cortigiani
potevano fare il migliore degli uomini, e ne fecero il peggiore), negli inizi, allora, non punto spregevoli, del suo regno, ne fu non leggermente commosso; e ruppe in queste sacramentali parole:
Ella è libera, da questo momento, e del godersi in villa le gioie della famiglia, e dell'andare a riprendere a Firenze il suo amico, e del menarlo qui a rifarsi di quest'aria; e n'abbia, per pegno, la mia parola.
E parole sacramentali furono veramente; poichè la sera stessa ne corsero i più recisi ordini a Delcarretto.



XVII.

Per narrare tutto questo fatto con celere unità, ho sorvolato tutti gl'indugi che le sue gravi difficoltà necessitarono. Vedere il Ministro della Polizia, il Re, e tutti quei personaggi senza l'ospitale soccorso dei quali sarebbe stato inutilissimo di veder l'uno e l'altro, non fu cosa, massime in quei tempi, facilissima.
Durante questi indispensabili indugi, io ero sempre a conversare co' miei, ed, in ispezialità, con colei, che mi era già divenuta madre, sorella, figliuola, e, per giunta, compagna di studi. Le prime conversazioni furono tutte intorno alla morte della nostra santa madre.
Per ventuno dì, essa mi narrava, che durò la sua febbre infiammatoria, ti chiamava, e tu non rispondendo, ti scriveva lettere inintelligibili che noi ti mandavamo. L'ultimo dì, chiamò intorno tutti noi, ci chiamò a nome tutti, e quando giunse al nome tuo, e tu non rispondesti, si volse di lato, e spirò.
Io conservava, come conservo ancora, quelle lettere, gliele recavo; le narravo le mie quotidiane instanze, gittate da don Luigi Medici, come poscia avevo saputo, nel camminetto; le forti cauzioni profferte da un ricco banchiere, purchè mi si concedesse di tornare per soli cinque dì: e si piangeva, si piangeva, insieme, come se non fossero già scorsi cinque anni. Ancora sento su gli occhi la cara pezzuola onde essa mi asciugava le lacrime che venivano giù a fiumi.
Poi si parlava della gioia che le sarebbe stata l'assistere Leopardi. Poi, de' suoi studi, di Margáris, dell'altro maestro di lingue, Smitte; e diceva cose, e faceva considerazioni, che se mi facessi a rammentare ed a ripetere, troverei poca fede, e sarebbero credute esagerazioni fraterne.
Indi, come fu instituto di tutta la sua angelica vita, passava all'ago, alla calza, alla granata; e soggiungeva, che quelle, e non le lettere, erano la vera missione della donna.
Spesso si andava per le chiese, dove sono qui bellissimi monumenti, in quei tempi, non tanto estimati quanto meritavano; ed allora essa, per instinto pietosa ai bimbi (onde doveva poi inspirarmi la Ginevra), s'innamorò di quel bimbo angioino, ch'è in Santa Chiara, alla svoltata dell'arco a sinistra di chi guarda l'altare maggiore; e ristava lungamente a contemplarlo; non presaga che, un giorno, il derelitto germano avrebbe, appunto colà presso, eretto un monumento alle sue virtù!



XVIII.

Ed ancor io, non punto presago del premio che la sciagurata natura umana ne serbava a lei ed a me, ebbi la trista forza di staccarmi da tanta dolcezza, da tanto celeste balsamo che quell'angelo versava sulla piaga fieramente riaperta nel mio povero cuore per la morte della madre comune; e, crudelmente stretto dalle condizioni ch'io stesso m'ero create, volgerle le spalle per menare in Napoli Leopardi!
La separazione, anche per brev'ora, m'era così mortale ch'io meditai, non una volta, di condurla meco. Ma, poichè nelle consuetudini napoletane, allora vie più rigorose, il recare ad atto questo pensiero sarebbe stato un impossibile, nè il vecchio padre l'avrebbe consentito, la raccomandai a mia sorella Ferrigni ed a tutti i miei, come si raccomanda il più prezioso tesoro di ogni ingegno e d'ogni virtù; e mossi in posta col corriere, così di Napoli a Roma, come di Roma a Firenze, perchè le nuove che mi venivano di lui, e, sopra un cencio di carta (tanto egli stentava a scrivere in quei giorni) un suo:

Vieni (sic), ϖ πολυ επικαλουμενε. (5)

troncarono in un subito ogni mia mora.



XIX.

Arrivai di notte in Firenze, ed apersi gli usci da via e da scala con le semplici chiavettine che ne avevo (così allora si viveva colà), e mi posi a letto senza destare chicchessia, nè anche Leopardi.
Io non istarò a narrare lo stato in cui trovai l'infermo. Trattandosi del mezzo tempo della mia assenza, le mie parole potrebbero essere volgarmente interpretate dalle anime volgari, onde non fu mai penuria in questo mondo. Ma non istava punto bene.
Io mi rimessi al mio solito meschino apostolato, anelando a ricondurlo nello stato da venire in Napoli a ritrovarne un assai maggiore. Ebbi ricorso ai soliti acconci di medici e di medicine, dai quali e dalle quali egli era abborrentissimo, come sono sempre i malati cronici. Ed oltre i già consultati, parmi si consultasse ancora lo Zanetti, onde già era un elogio il solo nome. In somma, per non ripetere a parola per parola tutto quanto era seguíto nella state precedente, ci conducemmo, fra le stesse vicende di sanità, ora mediocri, ora ree, insino all'autunno, nel quale queste ultime ricominciarono, giusta il solito, ad abbondare.
Lo menai di Firenze a Roma, e di Roma a Napoli, nello stessissimo modo e con le stessissime precauzioni onde lo avevo già menato di Firenze a Roma, e di Roma a Firenze. E, poichè la mia angelica Paolina mi aveva già avvertito per lettere, che, per
gl'inesorabili dissidii religiosi, al sogno dorato d'averlo in casa fra noi non era più da pensare, colto anche il destro che la mia famiglia era ancora in villa, scendemmo ad un bel quartiere, con mobili e letti nettissimi, provvedutomi anticipatamente dall'aureo e vecchio Greco, Costantino Margáris, che, per oltre quarant'anni, fu come un altro individuo della mia famiglia, ch'era, come dissi, uno dei maestri di Paolina; uomo di antica sapienza, di antiche virtù, e del quale ho scritta e pubblicata, già tre volte, la vita, con quello affetto e quella carità che la sua bell'anima richiedeva.
Il quartiere era, credo, secondo piano, alla cantonata della Via San Mattia, dava sulla così detta Loggia di Berio, ad un oriente ed un mezzodì saluberrimi, a pochissimi passi da Toledo, a pochi dal palazzo Reale. E, nella mia sventura del non averlo potuto condurre a dirittura a casa mia, fu quanto di più acconcio poteva seguirmi.
Quivi Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da ravviare i capelli, e le cesoie; poichè di rasoi non ebbe mai mestieri, non avendo punti peli sul mento.
Margáris, che veniva a passar quasi la giornata con noi, e che conosceva di lunga mano l'onestissima ed agiatissima signora, sganasciò, la mattina, delle risa. Ma, appunto nel tempo che Leopardi sognava quel sogno, io ebbi a sopportare una realità, onde, dopo quarantacinque anni, serbo ancora una dolorosissima memoria.
Visitato un dì dalla signora di casa nella mia stanza, essa mi dichiarò: ch'io le aveva introdotto un tisico in casa; che, amandolo tanto da fargli le nottate, non altra poteva essere la cagione onde non gliele facessi in casa mia; ch'essa voleva, ad ogni costo, essere sciolta dall'affitto; e tutta la serie delle cose che si dicono da chi è compreso di simiglianti timori. Tutto ciò che io potetti dirle, tutto ciò che potette dirle Margáris, l'antico suo conoscente da me chiamato in mio aiuto, furono indarno; ed io non sapeva in qual muro dar più del capo, quando mi soccorse un supremo pensiero.
Signora, le dissi con alquanto di severità: ella non è medichessa. Ha ella fede nel dottor Nicola Mannella, medico di Sua Altezza Reale il vecchio Principe di Salerno?
Al nome dello zio del Sovrano, principe, d'altra parte, differente da molti de' suoi, e veramente benefico ed amato, la signora cangiò stile. E, divenuta presso che pallida:
Quando il dottor Mannella, mi disse, mi darà la sua parola che non si tratta di tisi, io le chiederò scusa del fastidio che le ho dato; e mi terrò contenta ed onorata d'aver avuti, per un mese, signori come loro a casa mia.
Mi gettai di volo in una carrozza per menare il Mannella, che aveva un quartiere appunto nel palazzo del vecchio Principe, ch'è quello a destra di chi guarda il Palazzo Reale. Ma mi batte ancora il cuore alla memoria dei crudeli palpiti ch'ebbi per via.
Il Mannella (6) era un dotto e coscienzioso calabrese, affettuosissimo alla mia famiglia, ma incapace dell'ombra sola d'una dislealtà. Egli aveva già visitato due volte Leopardi, e della natura del male di lui aveva già, fra se stesso, e senza troppo manifestarsi, rugumato.
Se questi mi si apre troppo più ch'io non vorrei, con che cuore potrò pregarlo di venire a rassicurar la signora!
Cosi rugumavo ancor io, fra me e me, salendo per quelle ampissime scale.
Lo colsi che allora allora andava fuori, lo messi in carrozza, e gli narrai, come meglio seppi, il caso mio. Gli dissi che, alla fine, si trattava d'un mese; che, dopo il mese, io avrei avuto un quartierino in Via Nuova Capodimonte, contiguo all'appartamento di nostro zio paterno, don Domenico, e, corredatolo delle masserizie di casa nostra, non avrei avuto a sopportare più i fastidi di albergatore di sorte.
Così, rotto un certo smalto, che m'era parso, da principio, di scorgergli sulla timorata coscienza, montò su meco, visitò novamente il malato, disse che, quale che fosse potuta essere l'indole della malattia, essa non sarebbe mai potuta ancora entrare in un periodo contagioso. E, fra le mie inusitate salamelecche, quelle di Margáris, i soggiuntivi condizionali del Mannella, il fantasma del principe di Salerno, e, più d'ogni altra cosa, il poco tempo che doveva trascorrere acciocchè il mese si compiesse, dileguammo, alla fine, gl'importuni terrori dell'albergatrice.



XX.

Già, ne' primi momenti che l'infermo s'era sentito rinascere alla bellezza ed ai tepori del nuovo clima, io aveva colto il destro di presentarlo alla sua futura e spontanea spedalinga. E quanta, per così dire, virtuale cura ella avesse già cominciato a prenderne, è cosa che si può meglio intendere che narrare.
A lei, dunque, io feci ricorso nella dolorosa impressione che avevo presa dei fastidi dell'albergatrice. E poichè ancora non m'era possibile d'ottenere l'accennato quartierino in Via Capodimonte, fummo, insieme, solleciti di pregare l'ottimo Margáris, grande scopritore di simili acconci, acciocchè scovasse, infra annum, come s'era, un recipiente quartiere senza mobili, ai quali una discreta abbondanza che n'era in casa nostra avrebbe facilmente sopperito.
Margáris se ne adoperò con quel cuore (mi si conceda il paragone) di Aristide che aveva. Ed, aiutato dal professor Francesco Fuoco, e dalla costui nipote, Signora Vicenza Farnerari, donna di affettuosa ed operosa serietà, ci scoprì un grande appartamento nel palazzo Cammarota, in Via Nuova Santa Maria Ogni Bene, il quale, appunto per la sua ampiezza, era rimasto non allogato. Si ottenne che il buon proprietario ne cedesse a mese una parte con cucina separata. E furono (con altre d'uso) le più vaste e belle stanze ch'io vedessi al mondo; le quali, a poca distanza di Toledo, dominavano tutto il Golfo.
Per le affettuose e giudiziose cure della mia angelica Paolina, vi furono immediatamente recate tutte le masserizie necessarie, cassettoni, seggiole, tavolini (ve n'era uno sul quale io avevo, bambino, festeggiato il Presepe di Ceppo), e letti con materassi di vera e soffice lana tunisina, onde la nostra santa e perduta madre ebbe ab antico gran cura di tenere abbondantemente fornita la famiglia, e della cui non comune morbidezza Paolina ebbe particolare intenzione che le sofferenze spinali dell'infermo se ne potessero, quanto era possibile, scemare.
Ma il mobile migliore fu Pasquale Ignarra, anzi che familiare, amico di casa nostra, ed avo paterno di quella Francesca che, per quarantun anno non s'è mai disgiunta dalla mia angelica Paolina, che, insieme con un'altra meno antica compagna, Carmela, le ha chiusi gli occhi, e che, amendue, li chiuderanno, in brev'ora, anche a me, quando Iddio mi vorrà far degno d'una prossima liberazione.
Questo brav'uomo era, innanzi tutto, un patriotta. S'era battuto, con gli sgherri di Ruffo, al novantanove. Era, per giunta, un finissimo cuoco; e ci assistette Leopardi insino all'ora suprema.



XXI.

Non però io persi un giorno solo di mira l'accennato quartierino in Via Capodimonte, sia per l'aria veramente unica, sia perchè, contiguo, ad uscio ad uscio, col quartiere del mentovato nostro zio paterno (uomo per ogni verso riguardevole, magistrato di proverbiale probità, capace della mia dilicata posizione, amatissimo da nostro padre, ed, insino dal mio primo ritorno, suo nobile consigliere di satisfare immediatissime Casa Castelnuovo d'un ultimo assai forte straordinario) offeriva, per sì fatta provvidenziale vicinanza, il solo modo d'ottenere dal buon vecchio il permesso che la suora di carità venisse a compiere la santa promessa.
La proprietaria era la Signora Giuditta Giura, sorella del celebre costruttore del ponte sul Garigliano; ma, in quel momento, si trovava di avervi ricevuta ospite una gentile famiglia di Barletta, amica e paesana della famiglia sua. Nondimeno, i sentimenti affettuosi muovono tutti i cuori, e sanno far via di tutti gli ostacoli. Un carissimo nostro amico, Michele Ivone, che abitava un terzo quartiere del medesimo piano, e che faceva una breve gita ad una sua terra, ne profferse cortesemente l'uso alla buona famiglia barlettana, che di corto ripatriava. E, finalmente, l'agognato quartiere fu mio.
Quivi trasportai i mobili che di casa mia avevo trasportati al quartiere Cammarota; quivi mi ritrassi con Leopardi e col mio bravo Pasquale; quivi, dopo un certo po' di tempo e un certo po' di garbo, fu, in fine, permesso alla suora di carità il tanto ambíto apostolato; e quivi, per poco meno di quattro anni, si passarono non so se i più lieti, ma, certo, i più ineffabili giorni che la santa e pura amicizia possa annoverare, s'ella è una Deità, fra i suoi atti.



XXII.

Appena si fu un poco rassettati, la vita nuova, già da tre anni cominciata in me, si ampliò, ma più lieta, in tutti quattro. La mia Paolina era sì fatta, che dovunque arrivava, recava seco la tranquillità e la gioia; quanta maggiore, almeno, se ne può avere sulla terra da chi sente e pensa. Insino dalla sua puerizia, tutti, nel parentado, l'avevano sempre desiderata, tutti erano stati lietissimi d'averla qualche giorno con loro. Se l'affetto, la carità, l'innocenza, la serenità, la conseguente festività, fossero potute divenir persone, poi spiritualizzarsi, poi ridivenire tutte insieme una creatura umana, questa creatura sarebbe stata la mia angelica Paolina. Non voler mai il male, voler sempre il bene, non voler per altri ciò che non voleva per se, voler per altri ciò che voleva per se, non voler nulla per se, e voler tutto per altri, tale era l'esempio di quasi divina letizia onde il Sommo Fattore volle che splendesse un raggio in lei sopra l'umana mestizia.
Nè, a voler dire tutto, erano mancati coscienziosi avvertimenti di parenti e di amici, e dello stesso Mannella, intorno a' pericoli che potevano sovrastare alla sanità di una troppo tenera giovinetta per la vicinanza di una tanta infermità. Ma il vero ardore della carità predomina e spiritualizza tutto e tutti; e (massime in questa privilegiata creazione che si chiama donna) trasforma il terrore di qualunque più grave infezione materiale nel terrore di qualunque più leggiera tiepidezza spirituale.
Gli uomini sono fatti per combattere sui campi, e per concionare dalla ringhiera; ma non per nutrire il padre dai cancelli d'un carcere, o per assistere a un malato. E però, quando un alto deputato di parte mia voleva vietare le Suore della Carità agli ospedali, io mi opposi recisamente, e, pronto a votare con gli avversari, feci che la proposta fosse ritratta.
Io, dopo tre anni dalla vita nuova, cominciai a non essere più sgomento della mia giornata. L'angelica creatura infondeva la vita in tutti noi tre. Su gli occhi di Leopardi vidi apparire un barlume di letizia che non gli avevo mai scorto dal dì che lo ritrovai tanto mesto in Firenze; e insino il bravo Pasquale si sentì, finalmente, compreso nella rara nettezza e salubrità delle sue vivande, e nella rarissima sua solerzia in tutto quanto altro poteva rendere contento un ospite adorato.



XXIII.

Salvo qualche lettera che di rado gli perveniva, Leopardi non potette mai leggere nei sett'anni. Scrisse solamente alcune lettere, a tre o quattro versi il dì, come egli ci diceva; e spesso a molto più grandi distanze. Noi, dunque, gli si leggeva, leggeva, leggeva; e, su per giù, e l'un per l'altro, eravamo non dispregevoli lettori in tutte le lingue ch'egli conosceva; servigio, che allora, per verità, ci pareva di niun momento, ma del quale ora, che ho gli occhi stracchi ancor'io, sento tutta l'inestimabile importanza.
L'adorabile Margáris passava spessissimo la seconda parte del giorno con noi, la sera, quasi sempre. Si ragionava degli autori antichi, intorno ai quali la suora di carità già cominciava a darci, come si dice, suggezione. E mi sovviene, e mi par di udir ancora dalle labbra dell'aureo maestro quel grazioso (7), ch'era il suo ritornello per farsi udire, e correggere i nostri spropositi, quando ci veniva fatto di cinguettare il greco odierno.
Leopardi si rifaceva ogni dì più di quell'aria, forse unica a' suoi malanni. Ne acquistò il benefizio quotidiano del ventre, che mi narrava non aver mai avuto se non una volta, e, spesso, nè anche una volta, la settimana.
E, in somma, fra l'angelo che la Provvidenza mi aveva alla fine concesso, l'afflato della vicinanza dell'ottimo zio, l'acconcio del bravo Pasquale, la facilità d'avere tutto quanto mi facesse mestieri dalla non lontana mia casa paterna, la quasi quotidiana compagnia dell'aureo Margáris, il sopravvenire del giovinetto anno, e l'approdare, in somma, di tante nostre cure al gran DESIDERATUM di salvare Leopardi dallo stato in cui era, e si era egli stesso descritto, presso che tre anni e mezzo prima, nella precitata sua lettera a' suoi amici di Toscana, mi stillarono una certa pace nel cuore onde non avevo sentita mai più la dolcezza insino dal primo dì del mio imberbe esilio.
Il premio delle nostre (voglio pur dirlo) ineffabili cure, era cresciuto a tal segno, che, incredibile dictu, si poteva, non di rado, benchè con ogni possibile precauzione, condurlo la sera al teatro detto allora del Fondo, ora Mercadante, nel palco di mia sorella Ferrigni, dove mi par di vederlo ancora, appoggiato del gomito destro sul parapetto, farsi il solecchio pe' lumi che lo ferivano, ed, insieme con Margáris, che gli era in piedi alle spalle, godersi amendue il famoso Socrate Immaginario dell'abate Galiani, musicato da Paisiello e cantato da Lablache, ed il famoso coro, veramente aristofanéo:

Aυδρωυ απαυτωυ
Σωχροτηζ σοφοτατοζ (8)

del quale i racconti miei e di Margáris lo avevano renduto ghiottissimo.



XXIV.

Ma, come se il fato li tirasse, i gravi malati cronici, attentano, quasi sempre e senza avvedersene, ai loro giorni. Ed anche al nostro carissimo infermo faceva guerra fatale più d'una sinistra ed immedicabile impressione, che risorgeva ostinata a guastare tutta la salubrità dell'aria e della stagione, e tutta la gioia del nuovo sodalizio.
Una delle più deplorabili era il mostruoso disordine delle sue ore. Durante tutta la sua vita, egli fece, appresso a poco, della notte giorno, e viceversa; e ne lasciò,
dovunque stette, una non amabile memoria. La pugna di questi, per così dire, due mondi avversi, di tenebre e di luce, che si combattono le ventiquattr'ore della trista giornata umana, se non moderata, e quasi governata, dalla umana prudenza, diventa causa di gravi ed irreparabili disordini e fisici e morali. Quando gli uomini e gli animali tutti si adagiavano al riposo, Leopardi si levava; quando gli uomini e gli animali tutti si levavano, Leopardi si adagiava al riposo!
Io non credo che sia mestieri di oratore latino o greco per fare intendere il supplizio cui un vivere sì fatto sottoponeva chiunque avesse veramente a cuore la cura delle sue infermità e la minore tetraggine de' suoi pensieri.
Per ridurre le molte parole in una, io sempre, Paolina spessissimo, si faceva anche noi di notte giorno, e si leggeva, e si studiava, e si ragionava. Ma:

Nell'ora che comincia i tristi lai
La rondinella presso del mattino:

e Leopardi si preparava al suo sonno, a noi era forza di prepararci, come tutto il resto della specie umana, e come ogni uomo di leggieri intenderà, alla pugnace veglia della giornata.
Non è certo di notte che il servente o il cuoco può provvedere ai cibi, nè la massaia o la suora di carità al governo della famiglia, nè il capo qualsiesi della medesima, a tutte le necessità della vita civile.
Tutte le considerazioni zoologiche e botaniche sulla materia organica, tutti i ragionamenti fisiologici e patologici dei medici, tutti i nostri cordiali consigli, tutte le rimembranze che ci sforzavamo di ridestargli degli stessi suoi pensieri, della stessa:

... pura
Luce del giorno:...

da lui tanto amorosamente cantata, furono indarno a guarirlo d'un così letale vezzo e d'un così strano turbamento dell'abitudine umana. E, per alleviargli il fascio de' suoi patimenti non ci rimase altro partito che accompagnarlo insino a quel limite dove la discrezione, ed il rispetto stesso della sua libertà, ci fermava.
Questa maniera di troppo frequenti e troppo protratte vigilie, messero, più me, meno Paolina, ma, in somma, amendue, a ripentaglio di perire volontariamente del supplizio onde gli antichi Orientali uccidevano i prigionieri: captivos insomniis occidebant.
Nè al buon Pasquale sovrastava un pericolo minore. Lo spostamento delle ore gli riusciva, per così dire, terribile. Doveva dargli di colezione alle tre, le quattro, le cinque della sera; di pranzo, alle dieci, le undici, le dodici. E manco male che si trattava di cibi specifici; il che mi rimena ad un altro inconveniente, minimo quanto al fastidio, amorosamente accettato dai circostanti, ma non punto tale quanto alle conseguenze che ne derivavano alla sua sanità.



XXV.

Leopardi, certamente veritiero nel desiderare e cantare la morte nelle sue altissime poesie, era, nondimeno, nella pratica del vivere, il più apprensivo, e, quel ch'era peggio, il più eccessivo, degli uomini.
Il medico ordinario della nostra famiglia, era il non mai bastantemente lodato dottor Mannella. Quanto ai consulti, ci prevalevamo del celebre professor Postiglione.
Questi abitava nel suo proprio palazzo, in Via Atri, dove abitava ancora la famiglia Poerio. E tuttavia mi sovviene quante volte sono montato su da lui con Alessandro Poerio per ottenerne, a forze unite, la posta d'un consulto col minor possibile indugio.
Questi aurei uomini, fedeli alle patrie tradizioni di Cotugno, di Cirillo e di tanti grandi loro predecessori, avevano mantenuta una nobile, cordata ed autonoma temperanza; e non erano nè brauniani nè rasoriani. Ma, appena uno di loro trovava che la carne era troppa e il brodo troppo denso, Leopardi non voleva più sapere di carne, e voleva perire di pesce e di vegetabile, alla rasoriana; appena uno di loro trovava che la carne era pur necessaria, Leopardi non voleva più sapere di pesce nè di vegetabile, e voleva perire di carne e di brodi densi come la panna, alla brauniana. Il medico trovava che nella stanza era poca luce, che le imposte erano troppo socchiuse; Leopardi apriva la finestra e si poneva col capo nudo al sole. Il medico diceva che per una discreta luce nella stanza non si doveva intendere stare a capo scoverto al sole; Leopardi chiudeva ogni cosa, e ritornava alle sue tenebre eterne. Il medico consigliava di menarlo talvolta a spasso: e Leopardi voleva trascorrere un lungo tratto, ansante ed alla stracca. Il medico trovava che non bisognava sforzarsi: e Leopardi novamente si appollaiava.
In somma tutta la vita sua altro non fu che una serie, non mai discontinuata, di subite ed opposte vicende; se non che le apprensioni e le vicende cessavano, quando i medici vietavano, con maraviglioso accordo, fino ad un certo punto, le cose dolci, ed assolutamente, i gelati. Bramosissimo delle une e degli altri, egli, lasciata dall'un dei lati ogni apprensione, perseverava i più incredibili eccessi: il caffè, sciroppo di caffè; la limonea, sciroppo di limone; il cioccolatte, sciroppo di cioccolatte (e non senza le vainiglie, rigorosamente vietategli); e così via via. E quanto ai gelati, era un furore: forse che il morbo stesso lo spingeva! Più i medici minacciavano sputi sanguigni, bronchiti e vomiche, e più il furore cresceva: talchè spesso la povera infermiera se ne trovò fra l'uscio ed il muro, insino che, disperatasi d'un'angoscia sì fatta, si risolse di cedere al sentimento anzi che alla ragione, e dismise qualsiesi altra opposizione nel proposito.
Quando stava manco male, andava fuori solo, per sottrarsi alla temperanza di un gelato o due. Ed una fra le sere che l'andavo a riprendere al Caffè al canto di Taverna Penta, a Toledo, allora delle Due Sicilie, ora d'Italia, l'eccesso era stato tale, che ne trovai raccolto dall'un de' lati un capannello beffardo, e, caldo e giovane, ne fui in pericolo d'una sfida.



XXVI.

La facilità delle impressioni e delle opposte ed eccessive vicende, predominava maravigliosamente Leopardi, non soltanto nel mondo materiale, ma eziandio nel mondo morale. Sensitivissimo, come niuno fu mai tanto, alla lode ed al biasimo, sarebbe un impossibile il fare intendere a quali eccessi di amore corrivo o di odio furibondo potesse sospingerlo o l'una o l'altro.
Potrei narrare esempi numerosissimi. Ma, per sobrietà, e per non uscire dai tempi che sono costretto, con tanta mia angoscia, di trascorrere, ne riporterò un solo per tutti.
Alessandro Poerio l'aveva conosciuto ancor egli prima di andarne oltremonti, e, com'era naturale, ammirato e lodato. Tornato, poi, qui di Parigi, gli si mostrò grande ammiratore di Tommaseo, il quale si era mostrato, nella stampa parigina, poco ammiratore di Leopardi.
Appena scorto il nuovo sentimento di Alessandro, Leopardi non lo accolse più di buona voglia, anzi non gli fece più motto.
Io non potevo in verun modo patire un broncio tale, sia perchè amavo teneramente Alessandro, sia perchè gli dovevo la vita per la pietosa e cavalleresca cura che aveva presa di me quando mi morì la mia giovane e santa madre durante l'esilio, sia, in fine, perchè Alessandro era egli stesso d'indole subita ed impetuosa, e poteva nascerne un qualche scandalo doloroso.
Io non sapevo più come riparare a questa inopinata incidenza, che prendeva oramai le forme d'una sventura; quando un giorno, passeggiando con Alessandro, e parlando del più e del meno, fra le molte lodi che gli uscivan di bocca del Tommaseo, ne provocai qualcuna anche del Leopardi.
Dopo la passeggiata, tornai difilato a casa; e tacendo le prime, spontanee ed abbondanti, ampliai, a studio, le seconde, provocate e scarse.
Dopo mezz'ora, Leopardi mi disse, con viso lieto e serenissimo: Vogliamo fare, oggi stesso, una visitina a Sandrino?
Io non glielo feci ripetere. Mandai immediate per una vettura, e lo condussi immediate a casa Poerio, dove, senza fiatare altrimenti nè di Tommaseo nè di Parigi:

... le accoglienze oneste e liete
Furo iterate tre e quattro volte.

E così mi venne fatto di salvare la mia angelica Paolina, e me stesso, da quella nuova, inattesa e non leggerissima, molestia.



XXVII.

Ma non però scemava il furore contra il Tommaseo.
Salvo le lettere, che scriveva nel modo stentato che ho descritto, egli dettò, presso che sempre a me o alla Paolina, ciò che gli accadde di comporre nei sett'anni.
Una sera ch'io avevo lasciata la Paolina col vecchio padre: Vorrei, mi disse, dettarti qualche periodo intorno al Tommaseo.
Io credetti fosse qualche pensiero filologico o filosofico; ma era, in vece, una maniera di vita o, com'oggi si dice, di biografia contemporanea. Quando intesi di che si trattava, cominciai a scrivere di mala voglia. Dopo molte cose, che, o non ho o non voglio avere a mente, mi dettò, spiattellatamente, che Vincenzo Monti usava d'esclamare, in un significato singolarissimo: mi dolgono i tommasei.
Levatomi allora:
Leopardi, gli dissi, tu sai s'io sono devoto a te ed alla tua gloria. Io ti prego di non continuare; e ti chiedo, anzi, arditamente il permesso di lacerare ciò che hai dettato.
Egli stette un poco sopra di se. Poi, finalmente, consentì; ed in un attimo, io strappai il foglio in mille pezzi.



XXVIII.

Tale fu Leopardi, e tale ho ragion di credere che si lasciasse prender sempre di fianco e giuntare, per non usar parole anche più gravi, da chiunque sapesse assalirlo con astuti ed interessati biasimi d'altrui, o con astute ed interessate lodi di lui, le quali egli tanto più innocentemente credeva sincere, quanto più erano da credere, per se stesse, sincerissime.
Di ciò che gli fosse seguíto, in proposito, prima della fine del Trenta, non so nè punto nè poco; salvo qualche motto che, se bene di radissimo, pure gli scappava talvolta dalle labbra. Ma non direi tutta la verità, se non soggiungessi, che, oltre la inezia de' gelati, rammentata al solo solissimo proposito dell'aspra e continua guerra ch'egli stesso moveva alla sua sanità, mi parve di scorgere, prima, in Roma, poscia, assai più di frequente, qui, che altre ragioni gli destavano l'inesplicabile desiderio di andar fuori solo, e che queste fossero certe più libere confabulazioni con certa gente verso la quale, prima io, da solo, in Roma, poscia, insieme con l'aureo Margáris, qui, non si era mancato di dire la mente nostra. Ma ciò era niente. Il veleno de' biasimi e delle lodi predette era assai più potente che l'antídoto de' nostri, d'altra parte, poco o nulla richiesti consigli. Leopardi era tenerissimo, gelosissimo, de' suoi segreti, massime in questo fatto d'aggiustar fede a biasimi o a lodi interessate, e di affrontarne, quali che potessero essere, le conseguenze. Noi d'altra parte, s'era sdegnosissimi di saper novelle de' fatti altrui, e rispettosissimi della sua libertà. E non ci avanzò altro partito, se non, ad amendue, in generale, di astenerci da qualunque altro motto in proposito; ed a me, in particolare, di uscire costantemente della stanza quando qualche innominato sopravveniva.



XXIX.

Le mie povere cure, e quelle veramente angeliche della suora di carità, ch'ora non è più, e che, se negli Spazi Eterni è alcun premio alla virtù, non può non averlo già quivi ottenuto, avevano, insieme con la vita, ridestato l'ingegno e la vena nel grande scrittore. E, dopo aver affermata, al termine del peculio fiorentino, l'impossibilità di qualsiesi altro suo lavoro e la fine della sua vita letteraria, nei sett'anni che fu con noi, egli compose (oltre i Paralipomeni (9) della Batracomiomachía, ch'è un poemetto bello e buono, e quegli sparsi frammenti ch'io poscia chiamai Pensieri), quasi poco meno d'un'altra metà dei suoi Canti, forse la più bella, perchè, quattro o cinque di essi, sono veramente quanto di più nuovo e di non ancora tentato, possa trovarsi nella poesia italiana.
Di questi secondi Canti (credo montino a tredici) egli ne aveva in pronto undici nel Trentacinque; e giustamente smaniava di pubblicarli. Ma nel fatto pratico della pubblicazione, non credo che ponesse in giusto luogo la sua fiducia. Anzi, credo che non trattasse mai direttamente con editore o tipografo di sorte; bensì, con inframmettenti pseudoletterati, per giunta, miei acerrimi avversari politici, e però, forse, creduti da lui più acconci a propiziare le Deità Censorie del tempo. Ma il grande scrittore ignorava allora, che sì fatti propiziatori propiziano per proprio, e non per altrui, conto.
Per tutte queste ragioni, e per la naturale disposizione dell'animo mio, io mi tenni rigorosamente al di fuori di ogni relativo trattato economico o tipografico; e mi restrinsi, come alla fine del Trenta, nei soli termini, o di correzione delle bozze, o di modesto ed affettuoso aiuto quando egli usava d'interrogarmi sia intorno ad alcun ricordo letterario, sia (per la mia giovenile e lunga dimora in Firenze), intorno a qualche atticismo fiorentino.
Si stamparono i Canti (fra i quali non erano, perchè non per anco nati, i due più belli); e si cominciarono a stampare le Operette Morali; quando un giorno Leopardi mi venne innanzi con un piccolo bastone, che conservo ancora come cara memoria, e mi disse ex abrupto:
Io vado fuori a bastonare qualcuno.
Sorridemmo l'angelo mio ed io, d'un mesto sorriso. Io lo accompagnai a fare una spasseggiata:

E non si ragionò più del bastone.

L'edizione ne rimase interrotta; ed egli troppo tardi edificato de' buoni consigli che Margáris ed io gli s'era dati in tempo utile, e troppo tardi chiarito della fedeltà de' propiziatori.



XXX.

Le cure della suora di carità, l'aria di Napoli, in generale, quella di Capodimonte, in particolare, la pace e la tranquillità del sentirsi nel seno della più santa amicizia, e l'aver trovato il più compiuto rimedio:

Contra i fastidi onde la vita è piena:

gli avevano, non ostante la sua disordinata abitudine, come mutata la complessione. Le vomiche, le bronchiti, gli sputi sanguigni, sembravano esiccati. Ma, come segue nei mali cronici, quando sono letali, la natura variava di continuo le forme del suo mortifero processo. Nel verno, fra il Trentacinque e il Trentasei, apparve qualche enfiagione alle gambe, qualche minaccia di affanno, ch'egli chiamava asma nervoso, e, finalmente, una spaventevole ftiríasi.
Noi ce ne accorgemmo per segni non meno dolorosi che innominabili. Ed il peggio era la resistenza indomita ch'egli opponeva al mutarsi, di camicia e d'ogni altra biancheria, con quella assiduità che un simigliante morbo necessitava. E per farlo entrare, con tutte le possibili precauzioni, nel bagno, ci era forza affrontare i suoi fastidi, che, per verità, oltrepassavano, non di rado, i giusti confini. Ma tutto ciò era niente; e nulla potevano i più appropriati ed efficaci rimedi, esterni aiuti all'incurabile male ch'era dentro.
La povera suora di carità non sapeva più a qual santo botarsi; e, finalmente, i due dottori, di pieno accordo, consigliarono, come supremo rimedio, l'aria di Torre del Greco, dove tutte le nazioni traggono per la cura delle idropisie, e per (come i medici dicono) la riconstituzione dell'organismo.



XXXI.

Mio cognato Giuseppe Ferrigni, esimio giureconsulto, ed elegante scrittore, morto, poi, in Torino Vicepresidente del Senato, aveva una villetta sulle falde proprio del Vesuvio, non lungi da quel delizioso colle che insino di Napoli si vede, quasi un bernoccolo, sull'estrema coda meridionale del monte. La villetta, col podere intorno, gli veniva dal suo antenato materno Monsignor Simioli, l'amico dottissimo di Tanucci, di Lambertini e di Ganganelli; ed era fornita di tutte le masserizie convenienti a gente bennata, e, per giunta, alcune fra esse d'una certa forma ampia ed antiquata, che riusciva di speciale comodità all'affezione rachítica onde l'ospite nostro era travagliato.
Lo scontro di simili condizioni parve, ancor esso, quasi provvidenziale. E non ebbi appena aperta la bocca con la sorella Enrichetta e col cognato, che la villetta mi fu profferta col migliore garbo del mondo.
Quivi, col bravo Pasquale, e, per giunta, con la compagnia di un'antica, savia e fidatissima familiare di casa Ferrigni, a nome Costanza, menammo l'infermo nella primavera del Trentasei, non portandovi di nostro che qualche materassa a suo esclusivo uso; e quivi l'adagiammo in una allegra e saluberrima stanza ad oriente, per la quale il parentado ebbe poi sempre una maniera di culto. Quivi egli ascoltava, con piacevole attenzione, i racconti e le leggende vulcaniche del fattore, Giuseppe, della moglie, Angiola Rosa, dei figliuoli e delle figliuole, gente patriarcale, ed antica di quei luoghi e di quel podere, della quale è oramai rotta la stampa; e quivi egli andò vie più sempre non mediocremente migliorando.
La sopravveniente state ci mandò via verso l'aria più fresca di Capodimonte. Ma non fu guari tempo passato, che i medici opinarono che nell'autunno fosse da ritornare all'azione vivificante, e prodigiosamente diuretica insieme, dell'aria vesuviana. E così fu fatto.



XXXII.

La villetta era a cavaliere di Torre del Greco e di Torre dell'Annunziata. Lo menavamo ora all'una ora all'altra, ora al delizioso lido, e, non di rado, a Pompei: e, sempre con le più affettuose e profilattiche cure. Spesso, ancora, si montava, a piedi, verso le falde superiori del monte, dove, al bordone di un telaio, si compiaceva di udire il canto di una giovinetta, fidanzata ad un figliuolo del fattore, e che aveva ancor essa il nome di Silvia. E, in somma, tutto andava per lo meglio... quando scoppiò il primo e più feroce cholera onde Napoli sia stato assalito.
Divenne impressione generale, in quella terribile epidemia, che, sorpresi una volta dalla invasione, non si dovesse mutar aria nè dalla città alla campagna, nè dalla campagna alla città. Paolina ed io non s'aveva gran fede in questa credenza, come mostrammo poi, con l'effetto, in tante invasioni posteriori. Ma il terrore che Leopardi aveva del cholera oltrepassava tutti i confini del credibile; e dove che, a malgrado del quasi risorgere onde quell'aria miracolosa gli era cagione, gli s'era dovuto promettere, per l'odio ingenito che portava alla campagna, di ricondurlo presto a Napoli; ora, per contentarlo, bisognò promettergli per l'appunto il contrario, ed affrontare un modo di vivere di una difficoltà veramente straordinaria.



XXXIII.

Cosa tanto vera quanto incredibile a chi legge le poesie del Leopardi!... Nessun uomo al mondo ha tanto odiato la campagna quanto Leopardi la odiava, dopo averla tanto inimitabilmente cantata.
La campagna recanatese sarà bellissima; nè, certo (salvo l'acerbissimo dolore che ci avrebbe cagionato la separazione), s'era noi l'ostacolo che Leopardi non si fosse recato a goderne. Ma bellissima era anche quella che noi ora si abitava, e, per giunta, come vesuviana, asciuttissima tanto, che di Napoli stesso si va dagl'infermi, e non di rado anche dai sani, a passar quivi la vernata. Ma, come non s'era dilettato della prima, egli non si dilettava nè anche della seconda, e, forse, le Ricordanze lo inseguivano.
Egli, nondimeno, di nulla aveva difetto colà, nè anche di medico, poichè il Mannella era alla prossima Favorita, Delizia Reale spettata appunto al Principe di Salerno; e l'ebbe quando il volle; e Palladoro (tal era il soprannome del nostro consueto cocchiere di Torre del Greco), era sempre in pronto per menarlo. Ma n'ebbe assai di rado mestieri, perchè, salvo qualche non lunga alterazione acuta, a' suoi veri e terribili mali cronici, ed ai conseguenti sintomi delle enfiagioni sierose, provvedeva, nei limiti, s'intende, del possibile, la Magna Medicatrix, ch'era l'aria, ond'ebbe forza e quiete da comporre sia il Tramonto della Luna e la Ginestra, che sono le bellissime fra le sue belle cose, sia i Paralipomeni e que' frammenti o pensieri che dissi.
Ma per noi, se la cura della sua ftiríasi era più facile, se sull'aprico verone potevano più facilmente spandersi e ripurgare le camicie e le altre biancherie, tempestate tutte degli orribili parassiti, per ridurle meno inaccettabili alla lavandaia; la lontananza dalla nostra famiglia, dallo zio e dalla Città, dove mi conveniva di far continue gite, il dispendio gravissimo onde m'era cagione Palladoro, non sognandosi, in quei tempi, nè diligenze, nè omnibus, nè ferrovia, nè tramways; il fastidio di essere, per espressa volontà dell'infermo, disinfettato al mio ritorno, e tanti altri fastidi e necessità, che si possono meglio intendere che annoverare; fecero del prolungamento di quella dimora uno dei più grandi sacrifizi che si potessero mai fare al terrore, che l'ospite aveva del cholera, e noi, del possibile rimorso d'avergli fatto, a controggenio, mutar d'aria.



XXXIV.

Io ho sempre giudicato a contrariis, che chi nasce nel silenzio della solitudine, venga su amante delle grandi città, come chi nasce nel fragore d'una gran città, venga su amante delle solitudini. Ed ho sempre trovato in Leopardi ed in me, il respettivo riscontro di questo giudizio. Napoli l'attraeva come la stella attrae il pianeta. E così tornammo a casa appena il cholera ebbe fatte le lustre di partire.
Ma s'era di corto arrivati, che i messi di morte, fugati da quell'aria veramente unica al mondo, da quella generosa riparatrice alla quale l'infermo non aveva mostrata tutta la riconoscenza che le doveva, gli si affacciarono più severi e più letali.
Se l'angelica suora di carità, se il suo germano, raddoppiassero, senza l'ombra sola d'un fastidio, cure sopra cure, non tocca a me di narrarlo. Il mondo lo seppe, lo sa e lo saprà. La tradizione lo predica. Nè credo che i nobili e santi testimoni sieno tutti tutti spariti. Il Mannella era sempre, il Postiglione spesso, con noi. Ma nè l'affetto, nè la scienza, potevano più salvarlo altrimenti che ritentando la Torre, al che egli opponeva la consueta repugnanza.
Ma come? io gli diceva, credo, fra l'aprile e il maggio. Se tu mi hai narrato, maravigliando, che poche ore solamente dopo l'arrivo in quella casina, tu hai data, le due volte, tant'acqua fuori, da sgomberare, non uno, ma dieci petti, perchè non ritentare la terza prova in così propizia stagione?
Io non ho che un semplice asma nervoso, replicò recisamente: segno certissimo di longevità.
E volgendosi un poco più verso la Paolina, ch'era sopravvenuta:
Non dubitate, che amendue ne avrete ancora per quarant?anni da assistermi.
Noi ci si guardava in viso con l'angelica sorella, maravigliati, ad ora ad ora, d'una sì cieca ed esiziale ostinazione.



XXXV.

Certo, a distanza di otto o nove miglia, non era possibile d'aver tutte le minute delicatezze, tutte le piccole ghiottornie di una gran città, e d'una Napoli. Nondimeno, a quanto può giungere una modesta, ma non manchevole, possibilità, a tanto noi s'era sollecitissimi di sopperire.
Ne recherò qualche esempio.
La vicinanza dei molini del Sarno rendette ab antico Torre dell'Annunziata famosa per la squisitezza del pane. E di quella non piccola città si potette sempre dire ciò che Orazio potette dire del piccolo borgo di Equotuzio:

... panis longe pulcherrimus, ultra
Callidus ut soleat humeris portare viator.

Io ero tutto contento del gran buon pane che l'amico avrebbe gustato. Ma fui del tutto errato!
Sulla Via Nuova di Santa Teresa o di Capodimonte, dove noi si abitava in Napoli, v'era un fine negozio di pane, condotto da un'ottima donna genovese, che tutti chiamavano Madama Girolama. Quivi si lavoravano certi bastoni, credo, alla genovese, dei quali Leopardi si contentava tanto che non voleva altro pane. Fu impossibile di fargli fare amicizia con l'arcifinissimo di Torre dell'Annunziata. E bisognò che il paziente messo, per nome Antonio il Massese, il quale già veniva ogni giorno in Napoli per procacciare quanto mai egli desiderava di non reperibile nelle due Torri del Greco e dell'Annunziata, e che poteva dalla Carità tornare per via più scorciatoia in villa, si distendesse quotidianamente insino a Via Capodimonte per procacciare i liguri bastoni.
Dei così detti tarallini (piccole ciambelline) zuccherati, non parlo. Non dovevano essere altri che quelli di Vito Pinto, famoso sorbettaio alla Carità, divenuto ricchissimo e barone a furia di ottimi gelati. Questi tarallini potevano reggere qualche ora alla lunga via senza divenir vecchi, com'egli chiamava quelli del dì dinanzi, e poco incomodavano. Ma, quanto ai gelati, il problema era insolubile!... Io me ne acconciai con un sorbettaio di Torre del Greco. Ma a Leopardi si rizzavano i capelli al solo pensiero che non fossero proprio di Napoli, anzi, proprio del Sì Vito, che così dicevano qui tuttavia al già divenuto barone; al quale, nelle frottole che ci scappavano la sera a veglia, aveva consacrato, in lode dei gelati, un terzetto, onde mi ricordo ancora questo verso:
Quella grand'arte onde barone è Vito.
E questo punto, che solo forse toccò, fra tutti gli altri, l'impossibile, fu, a creder mio (cosa che parrà forte a chi non conobbe gl'intimi costumi di Leopardi) una delle principali, forse la principalissima, ragione onde non voleva mai allontanarsi da Napoli.



XXXVI.

Intanto, tutti i sughi di cipolla, squilla, tutti i farmachi più diuretici, non facevano l'effetto di sola mezza giornata dell'aria della Torre, la terza volta riconsigliata dai medici. Le orine mancavano, l'affanno cresceva, e le nostre preghiere (ch'erano, d'altra parte, a testimonianza della più grande delle annegazioni) riuscivano mal gradite e presso che tenute a vile. E quando si chiamava in soccorso il Postiglione, ch'era l'autorità medica più inappellabile di quei tempi, Leopardi rispondeva, al solito, con ciera oramai poco meno che beffarda: che il suo male era di nervi, e che l'aria della Torre a nulla avrebbe giovato.
Alla fine, un giorno, il vecchio professore ne sdegnò, come già aveva fatto il vecchio Bomba in Roma per simili risposte bisbetiche; e gli disse, con grande serietà:
Signor conte, la diágnosi la fa il medico e non il malato. Le ho detto e ridetto più volte, che qui non entrano i nervi, ch'Ella dee recarsi alla Torre, se le piace. Quando no, faccia il comodo suo.
E, levandosi, ci volle il bello e il buono per farlo rimanere e poi andar via un pocomeno crucciato.
Gl'infermi a morte somigliano talvolta ai bambini, ed un rabbuffo a tempo, gli raumilia e persuade. Leopardi si persuase alla fine: quando il cholera ricominciò novamente ad imperversare.
Così il sempre adorato ospite si rimase come:

... un agno intra due brame
Di fieri lupi:

fra la paura del cholera, se partiva, e la paura dell'idrotorace, se restava. Ma, come il Mannella affermava, la prima era un dubbio, e la seconda una certezza. Onde che io corsi di nuovo per Postiglione, che, in sulle prime, mi si negava a venire; ma, alla fine, lo spetrai: e venne. E venuto, opinò recisamente per la partenza, che fu finalmente risoluta.



XXXVII.

S'era oramai già ai primi del giugno, e Leopardi mi mercanteggiava i giorni e l'ore. S'andrà domani, s'andrà doman l'altro. Io non so quante volte diedi posta al cocchiere, che aveva soprannome di Danzica, perchè era pieno di margini per aver combattuto da valoroso sotto l'eroico nostro colonnello Cianciulli nella memoranda difesa della città di quel nome, e che serviva di lunga mano la mia famiglia. Ai nove, ai dieci, agli undici. Si fermò, finalmente, pe' dodici di giugno.
Danzica era per venire. Margáris era con noi per accommiatarsi e poi, giusta l'usanza, raggiungerci.
Lasciami passare qui il tuo nome, mi disse. Andremo doman l'altro.
Condiscesi: ma ancora mi pento di quella condiscendenza. Sopraggiunse il dì tredici, la malagurata festa di Sant'Antonio da Padova; giorno funesto, nel quale gli antropófagi del Cardinal Ruffo, salariati ed aiutati dagl'Inglesi, sgozzarono qui i patriotti a migliaia.
Si preparò ogni cosa; e Paolina ed io ne andammo un momento dal vecchio padre, per toglierne un'altra volta commiato, e baciargli un'altra volta la mano. Egli non vedeva mai la suora di carità, che non la empisse di dolci. Quella sera le diede, tra l'altro, due cartocci di confetti cannellini, di Sulmona.
Questi cartocci, che venivano belli e fatti dalla patria di Ovidio, pesavano una libbra e mezzo ciascuno. La suora li recò difilata al suo infermo, che n'era ghiottissimo. Il dì seguente, che fu quello della grande sventura, erano stati già del tutto, in poche ore, consumati. Tale era l'obbedienza medica di Leopardi!
S'era alle ventun'ora, come si diceva allora qui, cioè, alle ore cinque pomeridiane del dì quattordici. Danzica era da pezza giù con la vettura, e Leopardi, stato supplicato, insino dal dì dinanzi, di mutare, per un giorno solo, le sue ore, e di far colezione prestino, acciocchè non gli accadesse di desinar troppo tardi, appena appena allora si disponeva a desinare.
Dopo qualche cucchiaiata di quel suo denso brodo, si fermò; e chiese alla suora una abbondante (sic) limonea gelata, che qui chiamano granita. Paolina gliene fece recare una doppia. Ed egli, sorbitala con la consueta avidità onde sorbì sempre simili bevande, volle, poco di poi, ritentare la prova del brodo. Ma indarno!
Onde che noi, impensieriti, non della stranezza della granita in mezzo al brodo, che di altrettali ne faceva a dovizia, ma della prova ritentata in vano, gli si sedette a canto amendue e gli si veniva dicendo tutto ciò che poteva più confortarlo quando, rivoltosi a me:
Non mi sento bene, mi disse. Si potrebbe riavere il Dottore?
La gente cadeva morta a migliaia; e non era giorno da spedir messi.
Mi convenne correr di persona con Danzica, e lasciar la povera suora nelle più crudeli e palpitanti angosce. E togliendo l'instancabile Mannella di tavola, fummo di volo a casa.
Leopardi se ne rallegrò: ma non così il Mannella, che, per non parer di sfidarlo, riconsigliato il già in vano consigliato latte d'asina (contro al quale anche in quell'ora suprema l'infermo si ribellò come di cosa inutile all'asma nervoso), mi chiamò in disparte, e mi avvertì, con dolorosa commozione, che mandassi per il prete.
Povera mia angelica Paolina!... che sgomento, e che forza, insieme, fu la tua! E come, insin d'allora, non ti schiantò quel tuo nobile ed affettuosissimo cuore!
La state sparpaglia, come il verno riunisce. E quella state sparpagliò più che altra. La mia famiglia, mio zio, il parentado tutto, erano, chi di qua e chi di là, per la campagna. Si mandò per chi si potette. Sopraggiunse chi fu trovato; la prima, mia sorella Ferrigni; l'ultimo, il prete. Ma tardi tutti...
E qui mi arresto.
Narrai quelle ore tremende, prima, brevemente, nella Vita che scrissi nel Quarantacinque per l'edizione di Lemonnier; poscia, con più particolari, nel Supplemento che scrissi nel Quarantasette per le pazze calunnie dei Gesuiti.
E, poichè mi manca la forza di continuare più oltre, si potranno leggere, in meno incolta forma ch'ora non potrei, nelle due predette scritture, le quali, benchè scritte assai prima, fanno necessario seguito a queste più tumultuarie, ma più schiette, parole, che sono stato tratto a scrivere da quella medesima dignità che mi aveva consigliato il, forse incauto, ma, certo, generoso, silenzio di quarantott'anni.
Mi resterebbe solo a narrare i concitati affanni e la ingente spesa che ci valse il salvare il cadavere dall'infando cimitero cholerico dove, grandissimi e piccolissimi, morti, o non, di cholera, erano tutti inesorabilmente e confusamente gittati, con sopra un alto strato di calce viva, ed un lastricato di pietra vesuviana. Ma me ne taccio, per la fiera stracchezza, per quella semisecolare modestia che ancora non sento, non so se la forza o la debolezza, di vincere interamente, e, in fine, perchè la enormità di quegli affanni e di quella spesa non può trovar facile fede in questi così diversi e così facili tempi.
Composta (10) la sacra spoglia in sacro luogo, Ci ritraemmo alla paterna casina in Portici per qualche mese, e, pagato fino al maggio del Trentotto, senza mai più vederlo, il quartierino di Napoli, che non aveva più ragion d'essere, ritornammo, finalmente, in casa nostra, al dirimpetto, dove dimorammo per ben dodici altri anni, insino che la famiglia si disciolse.



XXXVIII.

Quei sette anni, incontaminati ed invulnerabili, come erano stati nel fatto, io li credetti altrettali anche nella parola; e, quanto a me, non ostante le più volgari provocazioni, tenni con rara costanza la fede. Essi furono, per se stessi, una triplice poesia, ed una triplice risposta al dolor mondiale di Byron, di Schopenhauer e di Leopardi stesso, che ce ne parve, un tratto, risanato. Gli uomini non potettero sopportare in pace un così pacifico trionfo della eterna Idea del Bello, e le indissero aspra guerra.
Essi giunsero insino ad affermare, che, al riferirmisi di certe frasi, io mi esclamassi:
Oh Dio! mi hanno uccisa la mia idea!
Io non so qual accento di dolore mi si sia potuto, in uno spietato momento, sprigionare dalle labbra. Ma l'Idea, come forma divina, non può essere uccisa. E, dove essi sieno pervenuti ad ucciderla come forma mortale, si rallegrino pure, se il possono, di questo loro gran fatto!...



XXXIX.

Dopo l'inenarrabile dolore onde mi è stata cagione la morte della mia angelica Paolina, il secondo, e poco meno inenarrabile, è quello onde mi e stata cagione il riandare le memorie di quei sette anni, e l'olocausto che, per non vedermi andar novamente lontano da se e dalla famiglia, fece del più bel fiore degli anni suoi, quella sublime giovanetta. Quando sono stato tratto a considerare la profonda infermità della natura umana, per la quale un più che altissimo spirito ha potuto scendere, senza ombra d'una necessità, nè anche d'una occasione, e per sola illaudabile tema di fantasticati cicalecci da Campanile, a camuffare, nelle più strane e studiate guise, una verità tanto più sacra, quanto più con inviolata fede taciuta, quell'ineffabile olocausto mi ha destato crudeli rimorsi, che l'arcana eloquenza di una tomba mi ridesta ogni dì vie più mordaci. E se potetti lungamente consentire, che fosse o dissimulato, o insino bistrattato, il mio qualsiesi sacrifizio, non mi era più lecito di consentire che s'insinuasse di fare altrettanto di quello, quasi più che umano, della mia santa sorella.



XLI.

Il marchese Giuseppe Melchiorri, cugino di Giacomo, ed intimissimo di lui e di me, sapeva il tutto. Capitato qui, dopo la prima strana pubblicazione, mi fece il dono di trovarsi ad un'agape fraterna nella nostra casina in Portici. V'era Macedonio Melloni, v'era Margáris ed altri assai degni amici. Non saprei dire chi accennasse alla pubblicazione. Certo, non io. Forse, Margáris, il cui irrefrenabile scattare contra qualunque cosa non retta, è rimasto qui proverbiale. L'innocente Melchiorri grondò tutto. Allora Paolina, con quell'angelico suo garbo, tuffò il doloroso accenno in Lete, e mise il discorso sulle antichità romane, delle quali Melchiorri aveva stampato più d'un volume.
Ma, in questo momento, non più di modesto e rispettoso velame, bensì di non meno modesta e rispettosa verità, io affermo, a viso aperto, e con la profonda coscienza di tutta una vita intemerata e veritiera, che: Giacomo Leopardi ci fu, per sette anni, fin dove le nostre oneste fortune potevano, ed anche al di là, sacro e venerato ospite, e non altro; che non sognammo pur l'ombra d'una ingerenza nelle sue relazioni personali ed economiche con la sua famiglia o con chicchessia; ch'io non ebbi mai a patire sospensione di assegni durante il mio lungo esilio ed i miei lunghi viaggi, perchè non ebbi mai assegno dal mio buon padre, ma credito abbondantissimo, del quale non mi accadde mai di abusare, e mi accadde solo di usare un poco fuori del solito, nei primi tre dei sett'anni; e che di tutti i sette anni la coscienza timorata del vecchio padre volle fare, per la suora e per me, una rigida imputazione sul censo avito, la quale, sospingendomi nel Foro, nocque a qualche serio lavoro storico ch'io divisava di condurre, ed al quale, assai prima di conoscere Leopardi, m'ero preparato con pellegrine ricerche e lunghi viaggi in compagnia di Carlo Troya, ma non agli onesti agi di Paolina e miei, non alla nostra immaculata, forse unica, indipendenza da tutte le sette e da tutti i reggimenti, e non alla viva ed instancabile parte che prendemmo sempre, amendue, con le sostanze, con l'opere, e con ogni sorta ardimenti e pericoli, alla rigenerazione della gran patria italiana.
Tutte le favole, tutti i romanzi, storici o non istorici, che mi si riferiscono leggersi in non so quanti epistolarii, hanno che fare con la santa mia germana e con me, come il gennaio con le more. E se Leopardi, per inesplicabili sue mire, e, certo, non punto presago della postuma pubblicità, si lasciò cadere sì strane visioni dalla penna, io griderò ad alta voce:
Ombra ancora adorata! Come, e perchè, ed a quale incomprensibile fine, hai potuto sognare sì torbidi sogni?... ed in premio d'averti amato quanto mai, forse, un mortale non amò un altro, condannarmi a scrivere, nelle mie estreme giornate, e sull'orlo tu sai di qual sepolcro, queste lacrime anzi che parole?...
Le tue repugnanze verso Recanati, le tue convenienze verso la famiglia, la libertà che, tardamente, mi chiedesti in Via delle Carrozze, dovevano pur avere i loro confini!...
Ma, se io ho maculata d'un'ombra sola la verità, tu lo sai!...
Ora, dei tre del santo sodalizio, tu precedesti me e la santa tua suora di carità, la santa tua suora di carità precedette me, ed io la seguirò di cortissimo. E quando c'incontreremo in quegli Spazi Eterni, dove volontà e verità sono tutt'uno, correremo in tre ad abbracciarci, in tre sorridendo, tu, della fraterna verecondia d'aver di gran lunga oltrepassati i termini della richiesta libertà, noi, della consolazione di averti già, nel fondo dei nostri cuori, perdonato.


MDCCCLXXX.


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NOTE.

(1) Questo libricciuolo altro non è che un grido di dolore e di rivendicazione della verità. Esso narra ciò che veramente furono i tre del sodalizio, e non ha nulla a comune con qualsiesi maniera di critica estetica, filologica, filosofica, storica o somiglianti, all'altezza delle quali l'autore si dichiara del tutto impari ed insufficiente.

(2) Così dicevano allora, e dicono ancora, a quel Palazzo in Via del Proconsole, dove era la Presidenza del Buon Governo, cioè, la Questura, dove, poi, fu il Consiglio di Stato, e dove, ora, è la gentilissima fra le Deità, la Solitudine.

(3) Agli amici suoi di Toscana.

La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni.

PETRARCA.

Amici miei cari!

Firenze 15 dicembre 1830.

Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (nè posso già dirlo senza lacrime) prendo commiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostentata la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene che da nessuna forza, da nessuna sventura, mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent'anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m'è convenuto servirmi degli occhi e della mano d'altri. Non mi so dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l'uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m'è in luogo degli studi, e in luogo di ogni diletto e d'ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant'io vorrei, e s'io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L'amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio.

Il vostro
LEOPARDI.

(4) Brano, al quale alludeva, della canzone che ha per titolo: le Ricordanze:

                                                       . . .
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.

Nè mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumar in questo
Natío borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, chè non mi tiene
Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degl'uomini mi rendo,
Per la greggia c'ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar; ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O de l'arida vita unico fiore.

Viene il vento recando il suon de l'ora,
Dalla torre del borgo. . . .

(5) ω πολυ ξπιχαλουμευε. O molto invocato: frase frequentissima negli autori greci.

(6) Nei giorni in cui, per inspirazione dell'unica mia Paolina, io scrissi la Ginevra, rammentandosi del Mannella:
Consacriamo, ella mi disse, una parola a questo esempio di scienza e di bontà, che ci prestò sì lunghe ed assidue cure nell'assistere al nostro adorato infermo. Ed allora, non perdendo di mira che il libro avrebbe partorito, come partorì veramente, inquisizione, prigionia e simiglianti, nè potendo parlar chiaro, come avremmo desiderato, immaginammo un cerusico dell'Ospizio, in proposito del quale ponemmo, sulle labbra della nostra innocentina, le parole che seguono:
Questi, la Dio mercè, era una persona di senno, e mai non m'uscirà dalla mente la sua amorevole presenza. Era un uomo di forse cinquant'anni, di vista corta e caliginosa, ma di quella caligine che annunzia l'ingegno e il lungo studio; era di Monteleone, e gli dicevano Niccolò, e per semplicità di costume parlava quel suo dialetto natío non ingiocondo sulle sue labbra, ove sonava cordialità e fiducia di se stesso. E sedendomisi accanto al letto, e con quella sua grossa e buona voce, e con un sorriso che pareva la probità stessa, confortandomi a stare di buona voglia, non m'aveva ancora slegata la piaga, ed a me già pareva ch'ella cominciasse a guarire. La sciolse, la medicò e la rilegò con un garbo e una pianezza ch'era tutta sua, ed in pochi giorni m'ebbe risanata, anzi ridonata la mano, anzi tutta me stessa, che tornai liscia e lustra, come la serpe che si rinnova a primavera. L'ultima volta ch'egli venne, Suora Geltrude volle dargli della sua immensa gratitudine qualche lieve pegno, ch'egli, come pagato dall'Ospizio, rifiutò con una naturalezza, che mostrava il nessun sforzo che quel rifiuto gli costava. Quest'uomo vive ancora, perchè, per entro la gelosia di questa mia misera celletta, lo vidi pochi dì sono ch'entrava tutto pio nella chiesa. O onore della specie umana, anzi più che uomo, angelo di consolazione! Io ti vidi e non potetti caderti ginocchioni ai piedi, ed abbracciare le tue ginocchia, e bagnarle delle mie lacrime, e adorarti come la virtù stessa, come la più certa rivelazione del tuo divino Fattore!

(7) Παραχαλω, da Παραχαλεω, antico, vuol dire, in greco odierno, prego; e si usa quasi come interiezione per interrompere con cortesia colui che parla, ed ottenerne che ti ascolti. Nei colloquii concitati, i Greci odierni l'usano con maravigliosa frequenza.

(8)

Αυδρωυ απαυτωυ
Σωχρατηζ σοφοτατοζ
Andron apanton
Socrates sofótatos:
cioè:
Degli uomini tutti
Socrate il più sapiente
.

(9) Questo poemetto, nel quale l'autore, secondo certi suoi personali criterii, per Topi intese gl'Italiani, per Rane, i Preti, per Granchi, gli Austriaci, non fu potuto stampare in Firenze. Per religione verso il perduto amico, io mi sobbarcai a stamparlo, a mie spese, in Parigi; non senza gran fastidio, e danno economico, poichè, naturalmente, in Parigi non fu venduto, e bisognò farne pervenire nascostamente gli esemplari in Firenze al Lemonnier che li acquistò a quarantacinque centesimi l'uno!

(10) Questi due brani si riportano a solo fine di rammentare la continuazione, in ispirito, nei due superstiti, del santo e giurato sodalizio.

I.

Brano di un'opera in folio, con undici grandi tavole, pubblicata in Napoli nell'anno 1851, e ch'ebbe per titolo: Alcuni monumenti sepolcrali fatti in Napoli da Michele Ruggiero, architetto direttore degli scavamenti di Pozzuoli, Ispettore del Camposanto di Napoli.
Egli è quel desso ch'ora è Ingegnere capo degli scavi del Regno e che fu, non ha guari, presidente del Centenario di Pompei.

___

Di Giacomo Leopardi, la cui fama e le cui opere sono notissime al mondo, sarebbe superfluo dire altro dopo quello che molti ne hanno scritto, e soprattutto Antonio Ranieri che praticò dimesticamente anzi visse con lui più di sette anni, prolungandogli d'ora in ora l'infermissima vita con cure e con affetto appena credibili. Il giorno dunque che seguì quello della sua morte, stata ai 14 di giugno del 1837, fu il cadavere accompagnato alla sepoltura da esso Ranieri che lo ripose con le sue mani nella chiesetta di San Vitale sulla via di Pozzuoli, dentro ad una tomba sotterranea presso alla sacrestia. Dalla qual tomba indi a poco fu dal detto Ranieri in mia presenza fatta cavare la cassa e murata sotto al portico che precede la chiesa, appiedi del muro dove a spese di lui fu innalzata la lapide con l'ornamento che qui si vede ritratta, e con l'epigrafe dettata da Pietro Giordani:

AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE
FILOLOGO AMMIRATO FUORI D'ITALIA
SCRITTORE Dl FILOSOFIA E Dl POESIE ALTISSIMO
DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI
CHE FlNÌ Dl XXXIX ANNI LA VITA
PER CONTINUE MALATTIE MISERISSIMA
FECE ANTONIO RANIERI
PER VII ANNI FINO ALL'ESTREMA ORA CONGIUNTO
ALL'AMICO ADORATO MDCCCXXXVII.

Nel piccolo basamento ho voluto figurare i simboli dello studio, dell'umana sapienza e dell'eternità, dinotati dalla lucerna, dall'animale di Minerva e dal serpente avvolto in cerchio, che son segni notissimi e non di rado adoperati dagli antichi. In cima alla lapide ho espresso con la farfalla l'anima che ascende in alto con i segni di onore meritati in vita; che sono il ramo di lauro come poeta, ed il ramo di quercia proprio dei filosofi e di coloro che in qualunque altro modo hanno recato qualche beneficio all'umanità; poichè gli antichi tenevano la quercia come sacra e benefica tra tutti gli alberi, in memoria di aver dato alimento ai primi uomini in mezzo alle selve; onde la dedicarono a Giove autore e datore di ogni bene, ed i Romani davano corone di quercia in premio a chi avesse salvato un loro cittadino dalla morte.

II.

Brano di una memoria dell'autore, per la morte della germana Paolina, recitata da Giulio Minervini, segretario, all'Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, che l'adottò per sorella.

___

Confidandomi, non solo nella vostra benevolenza, che non mi mancò mai, ma ancora nella vostra fraterna ed ardente carità, che nè anche mi mancherà in una occasione suprema, io mi ardisco di risollevarmi alle nobili usanze dell'antichità, la quale, per fiducia nella virtù, trovava bello l'elogio del parente sulle labbra del parente.
Adolescente ancora, mi nacque una sorellina, levata dal sacro fonte col nome di Paolina. Le sue piccole membra erano un'armonia celeste. Bambina ancora, fu soprappresa da un ascesso al fianco. Il famoso cerusico del tempo, Gaspare Pensa, aprì l'ascesso: ed io la tenni sulle mie braccia. Ancora ho vivissima l'immagine dei movimenti del suo dolore, armonizzati ancor essi, se il dolore può ammettere armonia.
Volsi, di poi, negli amari passi dell'esilio, che Intonti chiamava: paterno consiglio. E, partendo in sull'aurora, non la destai; ma le lasciai un bacio, mentre, sul suo lettuccio, dormiva il sonno dell'innocenza.
Durante quell'esilio feroce, ci morì la giovanissima madre, chiamandomi, con lunghi gemiti, al letto di morte, senza che i tiranni del tempo l'ascoltassero.
Imparai la sua morte su i cancelli della Posta di Firenze, presente Alessandro Poerio, che mi sostenne nel mio svenire; e, per due lunghi mesi, non mi lasciò mai più solo.
Richiamato, dopo molti anni, fui stranamente salutato, al Reclusorio, dai cagnotti!
Questi mi menarono a Delcarretto, che mi mutò, improvviso, il già assoluto esilio in confine. Violai il confine, per abbracciare i miei, ch'erano in villa: dove trovai l'angelica bimba che, divenuta una rosa allora sbocciata, già intendeva del sentimento squisito ciò che non s'intende di leggeri a quell'età, e, sul cui giovanetto viso, già il Sommo Iddio aveva stampati gl'inenarrabili segni dell'apostolato.
Scorgendomi assai mesto, volle conoscerne la cagione. E, quando seppe che io aveva lasciato Leopardi presso che moribondo in Firenze, mi disse:
Se ti dà il cuore di menarlo qui, io ti prometto di fargli da Suora di Carità. Io ripartii; e lo menai. Ed essa tenne, per quattro lunghi anni, la santa parola.

E se il mondo sapesse il cuor ch'ella ebbe:

infondendo, per così dire, la vita a stilla a stilla in quel corpo maculoso, ftírico e, per ogni verso, miserando:

Assai la loda, e più la loderebbe.

Io, dopo sette, ed essa, dopo quattro, anni, raccogliemmo l'ultimo suo respiro; e, fra difficoltà che la parola non dice, lo chiudemmo nella tomba, presso a Virgilio e Sannazzaro, in quel dì stesso nel quale i più alti potenti della Città, morti o non di cholera, erano gittati nel camposanto cholerico.
Consacrato, su quella tomba, il nostro incomprensibile affetto, essa non volle più separarsi da me, nè io da lei. Si visse l'uno nell'altro, impossibile all'uno ed all'altro di concepire la vita l'uno senza dell'altro, insino che la morte ci separò, nella notte degli XI di ottobre MDCCCLXXVIII: ma non per molto; s'egli è da credere che le leggi eterne dell'Universo, mosse tutte dal Primo e Sommo Amore, non possano consentire, altro che per fugaci momenti, il martirio di una separazione sì fatta.
Compiuti, intanto, verso l'ospite adorato, tutti i più sacri doveri del sodalizio; edificatogli, secondo la modesta possibilità nostra, il sepolcro, architetto Michele Ruggiero, ora nostro onorandissimo collega; volgemmo, inspiratrice sempre Paolina, ogni nostra cura nello edificargli un assai più grande monumento, i due primi volumi di Lemonnier.
Durante il sodalizio, erano state innumerevoli quelle notti che si era vegliato in tre sull'ordinamento di quei due volumi. Leopardi disponeva, io chiariva, Paolina, con la vivacità dei suoi occhi, segnava. E chi balbettò ch'io aveva male ordinato quegli scritti, non seppe quel che si disse.
Preparati i due volumi, cominciò un fiero combattimento. Tre volte fu mestieri di recarsi in Firenze; tre volte disputare più mesi acciocchè si ottenesse una patente di passaggio; ed altrettante, acciocchè, poi, la gita non si mutasse in nuovo esilio.
Tutto, in quella laboriosissima edizione, è dovuto a Paolina. Essa m'inspirò i pensieri che io manifestai nella Vita che le precede. Essa mi aiutò a correggere, anzi corresse, le bozze. Essa mi aiutò, insino, a disputare col revisore, canonico Bini, ed a persuadergli, col solo rimedio di qualche nota, di lasciare intatta la parola del grande scrittore. Ci recavamo, quasi sempre insieme, al palazzo Strozzi, e parmi ancora impossibile come una parola finale, uscita dal cuore inesausto di quella donna, fermava e dileguava le difficoltà che pullulavano sulle labbra di quel bravo, ma timorato, sacerdote.
Vinta quella battaglia, onde Paolina fu la vera trionfatrice, contemplammo, finalmente, edificato il gran piedestallo della gloria di Leopardi: di Leopardi, predicato, insino allora, nè da moltissimi, per la forma piuttosto che per l'altezza del pensiero e del sentimento: altezza alla quale nè anche quei non moltissimi avevano avuto lena di levarsi.
Quei due volumi sono Leopardi. Tutto ciò che si è aggiunto, o mescolato, anche abusando, assai volte, e scandalosamente, il nome mio, era stato, in quelle sacre notti, categoricamente rifiutato dall'autore; appartiene al volgare commercio librario, o alla più nera ingratitudine; e la posterità saprà farne la dovuta giustizia.

. . .

(E qui, assoluta la parte che riguardava al Leopardi, si passava a narrare, con qualche particolare, l'ineffabile amore della peregrina donna alla patria, agli studi, ai malati, ai poveri ed agl'innocentini).


MDCCCLXXVIII.

EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi", di Antonio Ranieri, Tipografia Giannini, 6. Cisterna dell'Olio. 6., Napoli, 1880  ( Vedi )







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