Giacomo Leopardi - Opera Omnia >> Zibaldone di pensieri (da 4001 a 4526) |
[4001 - 4200]Alla p. 3995. princ. Coccolone, o coccoloni da coccare, penzolone o penzoloni (v. il pens. precedente), rotolone ec. Tutte forme frequentative. E questa forma è usitatissima in cotali avverbi in one o oni propri della nostra lingua, che equivalgono a’ gerundi de’ rispettivi verbi (sieno frequentativi o diminutivi ec. in olare o comunque, o non lo sieno punto) da cui sono formati (se sono formati da verbo). Dunque la forma in ol breve, è ben propria della nostra lingua, e vi è frequentativa, diminutiva ec. come in latino ec. Ruotolo o rotolo. Coccola, coccolina. Concola (i romani A proposito delle divinità benefiche, che altrove ho detto essere ed essere state venerate, inventate ec. dalle nazioni civili, e più quanto più civili, si aggiunga che non solo benefiche, ma graziose, amabili ec. ancorchè non benefiche, o indifferenti ec. come tante divinità, allegorici personaggi, personificazioni di qualità o soggetti ec. naturali, umani ec. nella mitologia greca ec. ec. (24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.). Delle colonie greche in Italia, Sicilia ec. e antico commercio ec. greco in Italia, avanti il dominio de’ romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo, cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel volgare latino in quelle parti, e quindi ne’ volgari moderni in quelle parti, e quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di questo ebbe principio in Sicilia e nel regno, come mostra il Perticari nell’Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel modo che altrove s’è discorso delle Colonie greco-galliche, di Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.). Diminutivi greci positivati. Dico altrove del nostro cangiar talora il Volere per potere, idiotismo greco e italiano, di cui altrove. Ippocrate o chiunque sia l’autore del libro de morbo sacro a lui attribuito, ediz. del Mercuriale Ven. 1588. opp. d’Ippocr. classe 3. p. 347. D. terza pag. del detto libello. Alla p. 4001. Nótisi che la desinenza in olare, dove l’ol è breve ec., sia diminutiva, sia frequentativa ec. si dà presso noi a moltissime voci che non hanno nè poterono avere a far col latino. Si unisce eziandio ad altre desinenze e forme affatto italiane e per nulla latine, come da ballonzare, formazione italiana (o toscana) da ballare, si fa ballonzolare (anche la forma in olare sembra essere propriamente o più particolarmente toscana che altro). Così da pallotta pallottola, e simili. Collottola, frottola. Viottolo, viottola (questa è veramente una diminuzione in ottolo tutta italiana tanto è vero che l’olo breve è italiano ec.) diminutivi di via, e molti simili ec. L’uolo poi accoppiasi in mille modi ec. non mi par però che possa esser sopraddiminutivo (al contrario mi par dell’olo), bensì riceverlo ec. (25. Dec. 1823.). V. qui sotto. Vedi il pensiero precedente, e osserva che la formazione in olare è anche oggi, fra l’altre, al discreto arbitrio dello scrittore, o parlatore ec. e di questo arbitrio se ne prevalgono anche i volgari, specialmente in Toscana ec. che non conoscono il latino ec. (25. Dec. 1823. dì del S. Natale.). Frequentativi italiani ec. Vedi nell’anteced. pensiero un verbo sopraffrequentativo o sopraddiminutivo ec., come anche altri ve ne sono, o ne possiamo formare a piacere e giudizio dello scrittore parlatore ec. (25. Dec. 1823.). V. la p. seg. Diminutivi greci positivati. Alla p. preced. — In icare, come verzicare o verdicare (inverzicare attivo a quel che pare) per verdeggiare ed altri molti (qua spetta dimenticare). Questa forma di frequentativi è affatto latina. V. la p. 2996. marg., ec. Ed altri molti esempi ve n’hanno, oltre i quivi citati[a] . [Chiudi]. Particolarmente poi s’usa nel latino appunto in fatto di colori, come quivi altresì puoi conoscere. V. appunto nel Forc.Tetta tettare — Usi familiari del lat. Setola per il lat. Diminutivi greci positivati. Verbi diminutivi positivati. Ringhiare cioè ringulare da Diminutivi positivati. Vasello. V. la Crusca, co’ suoi derivati, e in Vagello co’ derivati. (28. Dec. 1823.). Plurali italiani in a. Vasella plur. di vasello. (28. Dec. 1823.). Vasa plur. di vaso. Crus. e Arios. Sat. 3. Participii passivi in senso att. o neut. ec. Alla p. 3955. marg. — di questo però particolarmente. — Coltellinaio ec. ec. (29. Dec. 1823.). Avvisato, Participii passati in senso attivo o neutro, aggettivato. V. Forc. in Diminutivi greci positivati. Diminutivi positivati. Alla p. 4004. Dicesi anche tettola, che la Crus. chiama espressamente diminutivo di tetta, come in lat. Diminutivi positivati. Porcello ec. V. Crus. e nota che questa positivazione è massimamente propria de’ nostri antichi e trecentisti più che del moderno linguaggio. Forc. ec. (2. Gen. 1824.). V. Forc. in Sopraddiminutivi latini. Alle varie alterazioni de’ verbi greci quanto alla forma (sia nel tema, sia altrove ec.)
senz’alterar punto il significato, delle quali altrove, aggiungi in Participii passati in senso attivo o neutro ec. Trascurato, tracutato, tracotato, straccurato ec. V. la Crus. in Tracotare, sebbene quell’etimologia è falsissima perchè tracotare è da Diminutivi greci positivati. Alla p. 3969. Appunto hanno anche gli spagnuoli il diminutivo in uelo, che come il nostro uolo vale olo e viene dal latino in olus o ulus. (5. Gen. Vigilia della Santa Epifania. 1824.). Diminutivi greci positivati: Participi italiani in ito ed uto, del che altrove. Apparito e apparuto (Machiav. Istor. l. 7. opp. 1550. par. 1. p. 268. mezzo). Questo secondo però, oltre a non avere, ch’io sappia, altra autorità che di uno scrittore molto poco diligente nella lingua, in particolare nella Storia, dov’anche potrebb’esser fallo di stampa, può essere da apparere (laddove il primo da apparire), onde anche apparso, come da parere, paruto e parso. Comparere non si trova, almeno nella Crus., bensì però comparso, oggi assai più frequente di comparito ch’è di comparire, da cui però non viene comparso, il quale forse è moderno e fatto solo per analogia di apparso e parso, che sono oggi i più usitati. (5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.). Verbi frequentativi ec. italiani. Sputacchiare, stiracchiare da sputare, stirareù. Questa forma in acchiare, e in occhiare, icchiare, ecchiare, ucchiare e in ghiare ec. (v. il pens. ult. di questa pag.) e simili, han tutte origine dal buon latino (essendo equivalenti al lat. Al detto altrove d’ Quel che altrove si è detto in più luoghi, cangiarsi nell’italiano regolarmente il cul de’ latini in chi, dicasi pur del gul in ghi ec. V. la pag. 4005. capoverso 2. (6. Gen. 1824. dì della S. Epifania.). V. p. 4109. Diminutivi positivati. Fragola da Scambio del v e del g. V. il pensiero precedente. (7. Gen. 1824.). Diminutivi greci positivati. Verbi frequentativi o diminutivi ec. ital. Morsecchiare, morseggiare (coi derivati ec.) che la Crusca chiama quello diminutivo e questo frequentativo di mordere. Aggrumolare da aggrumare che non è della Crus., bensì aggrumato, digrumare ec. (8. Gen. 1824.). V aspirazione. Tardivo ital. Al detto altrove sopra la frase Al detto altrove di Alla p. 3979. Al detto di Grecismo. Per parte mia, per la mia parte ec. ec. V. la seconda annot. del Gronov. al Nigrino di Luciano , opp. Luc. Amst. 1687. t. 1. p. 1005. init. (8. Gen. 1824.). Participii passati in senso attivo o neutro ec. Male per non ec. di cui altrove. V. il pensiero precedente e gli spagnuoli ec. (10. Gen. 1824.). Avvi due sorte di coraggio ben contrarie fra loro. L’una che dirittamente e propriamente nasce dalla riflessione, l’altra dall’irriflessione. Quello è sempre e malgrado qualunque sforzo, debole, incerto, breve e da farci poco fondamento sì dagli altri, sì da quello in cui esso si trova ec. (10. Gen. 1824.). Diminutivi greci positivati. Al detto altrove circa la ridondanza del pronome Diminutivi positivati. Scintilla e suoi deriv. ec. V. l’etimolog. di scintilla nel Forcell. e nelle note al Timone di Luciano principio, opp. ed. Amstel. 1687. t. 1. p. 55. not. 7. (11. Gen. Domenica. 1824.). Al detto altrove dell’antico Non mi ricordo a qual proposito, ho detto altrove che noi siam soliti di usare gli aggettivi singolari mascolini in forma di avverbi. Così anche gli spagnuoli, p. e. Uso di porre i genitivi plurali, in vece de’ nominativi, col pronome alcuni, ovvero di questo pronome co’ detti genitivi, nel qual caso quest’uso verrebbe a essere ellittico. Proprissimo de’ francesi, proprio ancor sommamente degli italiani, non solo moderni e francesizzati, come si crede, ma antichi, di tutti i tempi, ed ottimi e purissimi. Credo ancora degli spagnuoli. Mi pare aver detto altrove come quest’uso è un pretto grecismo. Aggiungici ora l’esempio di Luciano, Nigrin. opp. Amstel. 1687. t. 1. p. 34. lin.15-6. e vedi i grammatici greci dove parlano della Sintassi, che certo denno aver qualche cosa sopra questo genere di frasi ec. (12. Gen. 1824.). Nel cit. esempio Diminutivi greci positivati. A proposito del detto altrove circa il vario modo di significare la probità e bontà degli uomini usato nelle varie nazioni e lingue e tempi, secondo le differenze de’ costumi, opinioni, caratteri, istituti e vita e costituzione loro, osserva che come i romani dissero Che i perfetti in ui sien fatti da quelli in avi o evi o ivi ancorchè ignoti, come ho detto altrove, e ciò anche nella terza coniugazione, in cui tal desinenza (come pur quella in ivi, o qualunqu’altra in vi), è sempre anomala, vedi Forcell. in Al detto altrove di mescolare ec. aggiungi rimescolare ec. e composti e derivati dell’uno e dell’altro ec. (13. Gen. 1824.). Digamma eolico. Verbi italiani frequentativi o diminutivi ec. Abbrostire abbrostolire, abbrustolare, abbrustiare. (14. Gen. 1824.). Bezzicare. Diminut. greci positivati. Tacendo Un gran piacer (cioè, s’egli è taciuto), non è piacer intero . Machiavelli Asino d’oro, Capitolo 4. verso 86-7 (14. Gen. 1824.). Senz’altro puntello per senz’alcun puntello. Machiav. Asino d’oro, cap. 5. v. penult. Di tal modo di dire, altrove. (14. Gen. 1824.). Senz’altra (senz’alcuna) disciplina . ibid. capitolo 8. verso 4 (15. Gen. 1824.). Digamma eolico. A quel che ho detto altrove, che talora il cul latino si cangia in gli italiano (come Alla p. 2779. lin. 1. Da Intorno al verbo italiano rotolare frequentativo o diminutivo ec. di rotare, (rotolone ec.) del quale mi pare aver detto altrove, osservisi il francese Come la preposizione Errato per errante, come andar errato ec. V. la Crusca. E in ispagn. Ridondanza del pronome altro, ed Al detto altrove di avvedere-avvisare ec. aggiungi Alla p. 4011. Rammentare, ammentare ec. di cui altrove, si paragonino co’ verbi latini Nascere per avvenire, grecismo proprio anche dell’antico latino, come in quello o Non solo in italiano e in latino, come altrove in più luoghi è detto, ma in ispagnuolo altresì ed in francese adopransi spessissimo i participii, non solo aggettivamente, ma in significazione non propria loro, e propria di aggettivi a loro propinqui o simili, per catacresi o abusione (ch’è l’ Bisavolo ec. aggiungasi al detto altrove di avolo, Grecismo dell’italiano. Lucian. Timon. opp. 1687. t. 1. p. 77-79
Alla p. anteced. capoverso 2. La frase Alla p. 3176. marg. fin. Vedi la Storia del Guicciardini, ediz. di Friburgo, lib. 1. tom.1. p. 23. 27-28. 49. 55. 56. 64-5. 105-6. l. 2. p. 138-9. 142. l. 5. p. 422. 430. 431. da’ quali luoghi si rileva che Carlo ottavo di Francia ebbe inutilmente, come Filippo contro i Persiani, il disegno di passare contro i turchi, e far la grande impresa dell’Asia e Grecia ec. Principe non comparabile per altro a Filippo nè di valore nè di fortuna, la qual ebbe infelicissima all’Italia, anzi indegno di pure esser proposto a tal paragone. (17. Gen. 1824.). V. p. 4025. Esperimentato per che ha fatto esperienza, perito. Guicciard. t. i. p. 128. mezzo circa, ediz. di Friburgo, t. 2. p. 240. principio. e altrove spessissimo e vedi la Crus. Esperimentato nelle guerre, nel governo, a ec. Sperimentato ib. p. 131. mezzo circa ec. (17. Gen. 1824.). Sopraddiminut. greci. Spagn. I participii passivi di verbi transitivi usati in forma attiva, sì in lat. sì quelli massime delle lingue moderne, s’usano per lo più (e nelle lingue moderne forse tutti) assolutamente, o almeno senz’accusativo, insomma intransitivamente, sia che s’usino in forma aggettiva o di participio o comunque. (18. Gen. 1824. Domenica.). Altro per nessuno o alcuno o ridondante, del che altrove. Non sì ch’io speri averne altra corona . Macchiavelli, Capitolo della ingratitudine v. 7. cioè averne corona, o averne nessuna o alcuna corona. (18. Gen. 1824.). Nascere per avvenire, del che altrove non molto addietro. Dunque se spesso qualche cosa è vista Nascere impetuosa ed importuna Che ’l petto di ciascun turba e contrista, Non ne pigliare ammiration alcuna . (qualche tristo avvenimento). Macchiavelli Capitolo dell’Ambitione, v. 172-5. (18. Gen. 1824. Domenica.). Latinismi dell’ortografia italiana nel 500. del che altrove. Macchiavelli opp. 1550. par. 5. p. 47. fin. adverso; p. 49. fin. admiration, e cento simili scritture. (18. Gen. Domenica. 1824.). Plurali in a. Urla, strida. (18. Gen. Domenica. 1824.). Alla p. 3998. marg. fine. Diminutivi positivati. Diminutivi positivati. Gragnuola. V. Crus. franc. spagn. Gloss. Forc. ec. (20. Gen. 1824.). Passava un pescivendolo, con un paniere di pesci sul capo, vicino a un filare d’alberi che costeggiava la sua strada, e da un ramo d’olmo che sporgeva in fuori, fugli infilzato un pesce. Al detto altrove di Della differenza naturale e artificiale del gusto e del bello presso le varie nazioni e tempi, nelle arti, letterature, fattezze del corpo ec. ec. vedi il primo capitolo del Saggio sull’epica poesia del Voltaire ne’ suoi opuscoli tradotti e stampati in Venezia appresso il Milocco colla data di Londra nel 1760 (volumi 3), volume 2.o principio. (21. Gen. 1824.). Grecismo. Diminutivi positivati greci. Diminutivi positivati. V. Forcell. in A proposito di Figliuolo per figlio, diminutivo o vezzeggiativo positivato, di cui altrove. Credo anche in greco si dica talora Rinnovellare, innovellare, Quanto allo stile e al bene scrivere, immensa fatica è bisogno per saper fare, ed ottenuto questo, non meno grande si richiede sempre per fare. E tanto è lungi che il saper fare tolga la fatica del fare, che anzi quanto quello è maggiore, con maggior fatica si compone, perchè tanto meglio si vuol fare e si fa, il che costa tanto di più a proporzione. Così nelle arti belle e in altre faccende d’ingegno ec. (23. Gen. 1824.). Non così riguardo all’invenzione sì nello scrivere sì nelle arti. ec. ec. Piacere della vita. Una statua, una pittura ec. con un gesto, un portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito, ancorchè non bello questo, nè bene eseguita quella, ci rapisce subito gli occhi a se, ancorchè in una galleria d’altre mille, e ci diletta, almeno a prima vista, più che tutte queste altre, s’elle sono di atto riposato ec., sieno pure perfettissime. E in parità di perfezione, quella, anche in seguito, ci diletta più di queste. Così non la pensa la Staël nella Corinna dove pretende che sia debito e proprio della pittura e scultura il riposo delle figure, ma s’inganna, testimonio l’esperienza. ec. ec. (24. Gen. 1824.). Alla p. 4017. Composti spagnuoli. I participii passivi di verbi attivi o neutri usati nelle lingue moderne in senso att. o neutro, sono quelli per lo più o tutti e questi molte volte nell’italiano, e massime nello spagn. ec. di senso non passato, ma presente o significante abitudine di quella tal cosa che è significata dal verbo. Così Al detto altrove di Sopraddiminut. franc. Verbi frequentativi o diminutivi o frequentativi-diminutivi o diminutivi positivati, italiani. Rinfocolare, rinfocolamento, da rinfocare ec. (27. Gen. 1824.). Diceva il tale che da giovanetto quando da principio entrò nel mondo aveva proposto di non mai adulare, ma che presto se n’era rimosso, perchè essendo stato più tempo senza lodar mai nessuna persona e nessuna cosa, e vedendo che non troverebbe nulla a lodare se voleva durare nel suo proposito, temette disimparare per difetto d’esercizio quella parte della rettorica che tratta dell’encomiastica, la qual cosa, come fresco ch’egli era allora di studi, gli era a cuore che non succedesse, premendogli di conservarsi coll’esercizio le cose che aveva recentemente imparate. (27. Gen. 1824.). Alla osservazione del Mai sopra il modo in cui ne’ codici è scritto il gn indicante esser più vera la pronunzia spagnuola, tedesca ec. cioè g-n, che l’italiana, osservisi, oltre il detto altrove, che molte voci latine o dal latino venute che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono ñ, cioè pronunziansi gn all’italiana, come parmi aver detto altrove coll’esempio di Frequentativo o diminut. positivato ec. I nostri viaggiatori hanno raccolto un dizionario delle loro parole (degli esquimesi popolo verso la Groenlandia, il meno stupido di tutti i selvaggi del Nord ), che son più di 500. Quanto ai numeri le loro cognizioni sono molto limitate . Notizia del secondo viaggio (1821-3.) e ritorno del Cap. Parry, estratta dalla gazzetta letteraria di Londra del 25. Ott. e dell’1. Nov. 1824. nell’Antologia di Firenze. num. 36. p. 120. (29. Gen. 1824.). Dice per dicono, ovvero per un dice ( Al detto altrove di Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e compatire, e i malinconici in contrario, o certo meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo. (31. Gen. 1824.). Qual cosa più snaturata che il non allattare le madri i propri figliuoli? Ma egli è certo per mille esperienze che le donne civilmente nutrite di radissimo possono sostenere senza gran detrimento della salute loro, e pericolo eziandio della vita, il travaglio dell’allattare. Il che è lo stesso quanto a loro che se fossero impotenti a generare. E questo costume è antichissimo (a quel che credo), sin da quando incominciarono le donne nobili o benestanti a far vita sedentaria e non faticata. Raccolgasene se lo stato civile convenga all’uomo. (1. Feb. 1824.). Abbraciare, bragia, brage, brace ec. co’ derivati (e v. i franc. spagn. Forc. Gloss.) aggiungansi al detto altrove in proposito delle lettere br usitate nelle nostre lingue nelle voci significanti arsione ec. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.). Alla p. 4017. V. pure il Guicc. l. 3. p. 271. sopra Massimiliano Imp. in cui quel voler fare l’impresa degl’Infedeli pare fosse un semplice pretesto, e mostra che questo pretesto o discorso qualunque era allora e in simili tempi uno degli spedienti della politica, o diplomatica, un luogo comune, usitato e valevole con tutte le corti o potentati cristiani e con tutti i popoli cristiani. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.). V. p. 4044. Altro per niuno ec. come altrove. Guicc. 1. 274. ed. di Friburgo lib.3. senza cercare altra risposta per senza più cercare la risposta. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.). Divisato per Alla p. 4024. Del resto anche Diminutivi positivati. Gergo- Nascere per Altro per niuno, del che altrove. V. il med. ib. p. 340. lin.13. (7. Feb. 1824.). E notisi il nostro uso del pronome altri sing. nel significato di cui v. la pag. 4024. capoverso 3., significato che spetta a questo proposito, e talora è anche de’ francesi, i quali dicono per es. (credo in linguaggio familiare o burlesco) La eccessiva potenza di attenzione è al tempo stesso e per se medesima, potenza di distrazione, perchè ogni oggetto vi rapisce facilmente e potentemente la attenzione distogliendola dagli altri, e l’attenzione si divide; sicchè è anche, per se medesima, impotenza o difficoltà di attenzione, e facilità di attenzione, cose contrarie dirittamente a lei, onde sembra impossibile ch’ella sia insieme l’uno e l’altro, ma il troppo è sempre padre del nulla o volge al suo contrario, come altrove. Quindi principalmente nasce la incapacità di attenzione ne’ fanciulli ec. ec. (9. Feb. 1824.). Dico altrove[a] che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di necessità ne’ secoli inferiori, alterandone l’armonia, alterarne la costruzione l’ordine e l’indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente pronunziato, non risultava più o niuna, o certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente da questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de’ secoli inferiori (come pure i latini, gl’italiani, e tutti gli altri ne’ tempi di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un’armonia diversa per se ed assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta, sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche de’ migliori, ed anch’essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec. Tanto che questo numero, diverso dall’antico e della qualità predetta, che quasi in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, è un certo e de’ principali e più appariscenti segni, almeno a un vero intendente, per discernere gl’imitatori e più recenti, che spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da’ classici originali e de’ buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto nell’armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri, occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e l’ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi sottilmente, per es. in Longino, perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si conosce ch’è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell’alterazione cagionata ne’ costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l’alterazione e corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e diverso da quello de’ loro antichi. Si conosce a prima vista, e indubbiamente, (almen da un intendente ed esercitato) per la differenza e per la detta qualità del numero, un secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de’ migliori, ed anche conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico altrove) del numero, alla quale subito si riconosce il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all’estrinseco, cioè astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai concetti, come appunto si chiamano) da’ nostri antichi, da lui tanto studiati, e tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cicerone e di Livio? non che di Cesare, e de’ più antichi e semplici, che Cicerone nell’Oratore dice mancar tutti del numero, s’intende del colto, perchè senza un numero non possono essere. V. p. seg. Che dirò di Lucano, dell’autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una delle maggiori cagioni dell’alterazione della lingua sì greca, sì latina e italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l’ordine, e quindi alla frase e frasi, e quindi all’indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar le semplici parole per servire al numero, e grattar l’orecchio avido di nuovi e spiccati suoni, o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l’uso de’ troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de’ secentisti e de’ più moderni da loro in poi), avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto altrove su d’alcuni sforzati costrutti d’Isocrate per evitare il concorso (conflitto) delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.). (Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto altrove sul vario gusto de’ greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso, l’abbondanza ec. delle vocali). Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto [a] migliaia d’altri tali, e scrivente per piacere a essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne’ secoli bassi ne’ quali ec. fra gl’imitatori ec. la più parte, com’era allora non greci di patria, ma dell’Asia, e questa anche alta, non la minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb. 1824.). Alla p. preced. marg. In verità ed essi, e i greci ripresi da Cicerone ibid. di mancar di numero, che sono molti e classici, e i nostri trecentisti, e i cinquecentisti, (la più parte non numerosi, e tutti, [salvo lo Speroni, in ciò affettato e falso, ma diversamente da’ posteri,] poco solleciti del numero) hanno pure un numero benchè incolto più o meno, e casuale, pur proprio e certo e riconoscibile, o loro, o della lingua ec. e da questo è diverso quello degl’inferiori corrotti ec. ec. (10. Feb. 1824.). V. p. 4034. Grecismo. Colla — Plurali in a. Mantella plur. di mantello. (11. Feb. 1824.). Peccata. Uscia. (Machiavelli par. 5. p. 151.). Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare o abbarbicarsi. Al detto altrove sopra i nostri verbi in icare, fatti da verbi originali usati o no, o pur da nomi ec. (11. Feb. 1824.). Barbare-barbicare. Diminutivi greci positivati. Vedi Diminutivi positivati. Clientolo. Nascere per accadere. ec. Se altro di meglio non nasce . Machiav. Clitia At. 5. sc. 2. fine. (13. Feb. 1824.). Altro per nulla o alcuna cosa ec. V. il pens. preced. e le molte nostre frasi simili. (13. Feb. 1824.). Raddoppiamenti greci, del che altrove. Cangiamento del cul lat. in chi ital. Bernoccolo (voce affatto italiana, v. però il Gloss. e i vari dizionari) co’ suoi derivati bernocchio che vale lo stesso. (15. Feb. Domenica di Settuagesima. 1824.). Diminutivi greci positivati. Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il dialetto ionico (a proposito del detto altrove), a quanto osservo nella nota del Palmerio al principio dell’Herodotus sive Aetion di Luciano. (15. Febbraio. 1824.). Certo le condizioni sociali e i governi e ogni sorta di circostanze della vita influiscono sommamente e modificano il carattere e i costumi delle varie nazioni, anche contro quello che porterebbe il rispettivo loro clima e l’altre circostanze naturali, ma in tal caso quello stato o non è durevole, o debole, o cattivo, o poco contrario al clima, o poco esteso nella nazione, o ec. ec. E generalmente si vede che i principali caratteri o costumi nazionali, anche quando paiono non aver niente a fare col clima, o ne derivano, o quando anche non ne derivino, e vengano da cagioni affatto diverse, pur corrispondono mirabilmente alla qualità d’esso clima o dell’altre condizioni naturali d’essa nazione o popolo o cittadinanza ec. Per es. io non dirò che il modo della vita sociale rispetto alla conversazione e all’altre infinite cose che da questa dipendono o sono influite, proceda assolutamente e sia determinato nelle varie nazioni d’Europa dal loro clima, ma certo ne’ vari modi tenuti da ciascuna, e propri di ciascuna quasi fin da quando furono ridotte a precisa civiltà e distinta forma nazionale, ovvero da più o men tempo, si scopre una curiosissima conformità generale col rispettivo clima in generale considerato. Il clima d’Italia e di Spagna è clima da passeggiate e massime nelle lor parti più meridionali. Ora queste nazioni non hanno conversazione affatto, nè se ne dilettano: e quel poco che ve n’è in Italia, è nella sua parte più settentrionale, in Lombardia, dove certo si conversa assai più che in Toscana, a Napoli, nel Marchegiano, in Romagna, dove si villeggia e si fanno tuttodì partite di piacere, ma non di conversazione, e si chiacchiera assai, e si donneggia assaissimo, ma non si conversa; in Roma ec. Il clima d’Inghilterra e di Germania chiude gli uomini in casa propria, quindi è loro nazionale e caratteristica la vita domestica, con tutte l’altre infinite qualità di carattere e di costume e di opinione, che nascono o sono modificate da tale abitudine. Pur vi si conversa più assai che in Italia e Spagna (che son l’eccesso contrario alla conversazione) perchè il clima è per tale sua natura meno nemico alla conversazione, poichè obbligandoli a vivere il più del tempo sotto tetto e privandoli de’ piaceri della natura, ispira loro il desiderio di stare insieme, per supplire a quelli, e riparare al vôto del tempo ec. Il clima della Francia ch’è il centro della conversazione, e la cui vita e carattere e costumi e opinioni è tutto conversazione, tiene appunto il mezzo tra quelli d’Italia e Spagna, Inghilterra e Germania, non vietando il sortire, e il trasferirsi da luogo a luogo, e rendendo aggradevole il soggiornare al coperto: siccome la vita d’Inghilterra e Germania tiene appunto il mezzo, massime in quest’ultimi tempi, per rispetto alla conversazione, tra la vita d’Italia e Spagna e quella di Francia, e così il carattere ec. che ne dipende. E già in mille altre cose la Francia, siccome il suo clima, tiene il mezzo fra’ meridionali e settentrionali, del che altrove in più luoghi. Non parlo delle meno estrinseche e più spirituali influenze del clima sulla complessione e abitudine del corpo e dello spirito, anche fin dalla nascita, che pur grandissimamente contribuiscono a cagionare e determinare la varietà che si vede nella vita delle nazioni, popolazioni, individui tutti partecipi (come son oggi) di una stessa sorta di civiltà, circa il genio e l’uso della conversazione. (15. Feb. 1824.). Appartiene al detto altrove sopra lo spagn. Fiorito, Giuntare per truffare ec. viene da Imprenta, imprentare ec. impronta, improntare ec. quasi imprimita, imprimitare da Diminutivi positivati. Diminutivi positivati. Alla p. 4029. Il numero o suono del periodo de’ trecentisti è un tale proprio loro, e ben diverso generalmente da quello de’ Cinquecentisti; e così non solo tutte le lingue, ma ciascun secolo di esse, anche quelli in cui non si coltiva il numero, hanno un periodo loro proprio quanto al suono, e diverso da quello degli altri secoli, anzi tanto più proprio loro e più diverso dagli altri, quanto il numero v’è meno studiato, perchè l’arte, sempre la stessa, induce conformità, onde due secoli studiosi del numero, ancorchè distanti, possono facilmente rassomigliarsi insieme, più che gli altri: quando infatti veggiamo anche tra diverse lingue tal somiglianza, come tra greco e latino e tra latino e italiano negli scrittori che sono studiosi del numero. (21. Feb. 1824.). Diminutivi positivati. Genitivo plurale in vece dell’accusativo col pronome alcuni o alcuno del che altrove. Luciano in Scytha, opp. 1687. t. I. p. 598. init. Grecismo dell’italiano. Se non quanto o in quanto o quanto che, o in quanto che- Accortare, scortare. Al detto altrove di Faventini, del che altrove. Guicc. t. 2. p. 34-36. (25. Feb. 1824.). Rilevato per che rileva, cioè pesa, cioè importa. Nardi spesso nella Vita del Giacomini. (25. Feb. 1824.). Al detto altrove di suppeditare aggiungi che nel D. Quij. par. 2. cap. 18. fine, io trovo L’uso della sinizesi da me altrove in moltissimi luoghi distesamente notato ne’ latini e dimostrata volgare fra loro e familiare ec. osservisi essere un’altra delle conformità del volgar latino colle nostre lingue, in cui essa sinizesi non è pur volgare, ma regolare ec. ec. (28. Feb. 1824.). Diminutivi positivati. Struzzo-struzzolo. (28. Feb. 1824.). Verbi frequentativi o diminutivi ital. Balzare balzellare. (28. Feb. 1824.). Pelle per donna ec. nostro modo osceno. V. il Forc. in
Alla p. preced. Qua spetta quel luogo del Guicc. lib.6. t. 2. ed. Friburgo p. 74. Ai Veneziani non pareva piccola grazia se non fossero molestati dagli altri . Cioè semplicemente non fossero molestati. Quel dagli altri ha relazione ai Veneziani medesimi, e vale insomma da nessuno, cioè infine ridonda affatto. Questo modo è ordinarissimo massime nel dir familiare[a] . E così credo che sia anche in greco e in latino[b] ed altresì in francese e spagnuolo le quali due lingue si osservino ancora circa gli altri modi notati di sopra ed altrove a questo proposito ec. (29. Feb. Domenica di Quinquagesima. 1824.). Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario per la contraria cagione, cioè per aver poca cura e poco concetto di se, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l’amor proprio degli altri, e n’hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell’amor proprio, dov’esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone sensibili e immaginose, le quali restano sovente fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a molte altre cose, sì quanto a questa della timidità nel consorzio umano, che in esse è sempre difficile a vincere più assai che negli altri, e in alcune è assolutamente invincibile, come fu in Rousseau. La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai veramente spenta in loro, nè anche quando pare affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire alcun piacere all’individuo medesimo, continuamente, secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e irrepugnabile timidità, anzi Diminutivi positivati. Lucerta-lucertola, lucertolone. (3. Marzo. 1824.). Diminutivi positivati. Spiare-spieggiare. (3. Marzo, dì delle S. Ceneri. 1824.). Scoppiare, scoppiata sustantivo — scoppiettare, scoppiettata, scoppiettio. (4. Marzo. 1824.). Incrociare-incrocicchiare, croce-crocicchio ec. Al detto altrove di Senz’altro patto per senza niun patto. Guicc. l. 7. ed. Friburgo t. 2. p. 124. principio. ed aggiunge assolutamente ch’è l’interpretazione espressa dell’anzidette parole. (5. Marzo 1824.). L’ Vischio, succhio sost. e molti simili, sembrano esser tutti diminutivi positivati, fatti nel modo detto nel pensiero precedente, e però venuti certo dal latino e probabilmente stati usati nel volgar latino in luogo de’ loro positivi Al detto altrove di apparecchiare, Diminutivi greci positivati. Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera intenzione, non cercasse di farli tali, usando a questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l’unico mezzo che convenga si è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch’è più prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi de’ filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di Quaresima. 1824.). Altro per nessuno o ridondante. Guicc. t. 2. ed. Friburgo p. 144. lin. penult. (7. Marzo. I. Domenica di Quaresima. 1824.). Indigesto per indigeribile o difficile a digerire. — Indigesto per che non ha digerito o che non digerisce. (8. Marzo. 1824.). Nè la occupazione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o divertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna. Perchè? se nè questi nè quelli sono punto superiori gli uni agli altri nel godimento e nel piacere, ch’è l’unico bene dell’uomo? Ciò vuol dire che la vita è per se stessa un male. Occupata o divertita, ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma per maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità (apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun altro male particolare. Il sentir meno la vita, e l’abbreviarne l’apparenza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di male e d’infelicità, che l’uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male nè dolore particolare, (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per se ed assolutamente alla vita ec. (8. Marzo. 1824.). V. p. 4074. Forse diminutivo positivato: Alla p. 4025. Vedilo pure tom.2. lib.7. p. 18. l. 8. p. 219. analoghi a’ quali v’ha diversi altri luoghi nello stesso autore. (9. Marzo. 1824.). V. qui sotto. Menare, portare, tirare ec. pel naso — Al detto altrove dei verbali in bilis in ilis ec. ec. si aggiungano quelli formati da essi in ilitas, bilitas, e altri generi, siano del buono o del barbaro latino o delle lingue moderne, sia che i verbali da cui essi sono formati sieno individualmente noti o ignoti ec. ec., sia pure che tali nomi sostantivi verbali, derivino immediatamente dai verbi, e in tal caso bisogna vedere da che voce dei verbi e in che modo, secondo i rispettivi generi d’essi verbali. (10. Marzo. 1824.). Al capoverso 2. di questa pagina. Anche nella lega di Cambrai contro i Veneziani fu presa per pretesto, o maggior coonestazione, secondo l’uso di quelli e de’ passati tempi, il voler far guerra contro i Turchi. V. il Guicc. t. 2. p. 180. e quivi le note, e p. 186. sulla fine. Ed è notabile in questo caso tanto più questo pretesto, quanto per distruggere i Veneziani allegavano la necessità di farlo a volere opprimere i Turchi, de’ quali i Veneziani erano i maggiori nemici, e quelli che avevano avuti seco maggiori guerre (come pur n’ebbero appresso), e fatti loro e riportatine maggiori danni. (10. Marzo. 1824.). V. p. 4073. Non ne fece altro per non ne fece nulla; non se ne fece altro; non se ne farà, se ne fa altro; modi consueti del nostro favellare. Non volle farne altro cioè nulla: nelle note al Guicciard. t. 2. p. 183. 191. 363. (10. Marzo. 1824.). In tutta l’Europa (massime in Italia, dove tutti gli assurdi e gl’inconvenienti sociali sono maggiori che altrove) non reca infamia l’essere o essere stato vizioso, nè l’aver commesso delitti (massime trattandosi di alcuni tali vizi e delitti, certi dei quali, anche atroci, fanno piuttosto onore, stima, e rispetto, che altro); ma bensì l’essere o l’essere stato punito di qualsivoglia vizio o misfatto, anzi pure della virtù o di azioni virtuose e degne di lode e di premio[a] . Negli Stati Uniti d’America l’opinione pubblica non attacca veruna infamia alla punizione, e il colpevole che è stato punito e rientra nella società, v’è tanto più esente da obbrobrio che l’impunito che in essa si aggira, quanto che 1. si considera ch’egli ha espiato colla pena subita il suo fallo, e riparato e data soddisfazione del torto fatto alla società, e pagato il debito contratto seco lei: 2. si giudica, come in fatti ordinariamente succede, che la pena, la quale colà si considera e si chiama penitenza (le prigioni si chiamano case di penitenza), e le cure che nel tempo di essa espressamente si usano per curare con rimedi sì fisici che morali il morale del colpevole, abbiano corretto e riformato il suo carattere, i suoi costumi, le sue inclinazioni, i suoi principii, e ridottolo alla buona strada, con che e di diritto e di fatto e di opinione egli torna intieramente a paro e a livello degli altri cittadini o forestieri. Vedi il racconto sulle prigioni di Nuova York nell’Antologia di Firenze num. 37. Gen. 1824. e in particolare la pag. 54. (11. Marzo. 1824.).
Il nostro pronome si, massime nel dir toscano, spessissimo ridonda per grazia e proprietà di lingua e per idiotismo, contro le leggi grammaticali delle favelle. Così fra’ latini il pronome Essere in se ( Carra plur. di carro. (14. Marzo. 2.a Domenica di Quaresima. 1824.). Al capoverso 3. di questa pag. Dubito che anche in franc. e in ispagn. anche più vi sieno usi simili. V. per esempio il fine del pensiero preced. (14. Marzo. 1824.). I nostri nomi diminutivi o disprezzativi ec. in acchio ecchio ec. e i verbi diminutivi o frequentativi o disprezzativi ec. in acchiare ecchiare ec. sono di una forma espressamente originata dal latino, cioè dalla forma diminutiva o frequentativa ec. in culus e culare. Lo stesso dico de’ nomi e verbi francesi diminutivi o frequentativi o disprezzativi ec. in Alle altre barbarie umane da me altrove notate si aggiunga la pederastia, snaturatezza infame che fu pure ed è comunissima in Oriente (per non dir altro) e non fu solo propria de’ barbari ma di tutta una nazione così civile come la greca, e per tanto tempo (lasciando i romani), e sì propria che sempre che i greci scrivono d’amore in verso o in prosa, intendono (eccetto ben rade volte) di parlar di questo siffatto, voluto fino ridurre in sentimentale da Platone massimamente, nel Convivio e più nel Fedro, e altrove, e da Senofonte poi nel Convivio. E Saffo con tanta tenerezza canta la sua innamorata. Quanto noccia questo infame vizio alla società ed alla moltiplicazione del genere umano, è manifesto ec. ec. Aggiungansi similmente gli spettacoli de’ gladiatori, e l’altre barbarie romane ec. ec. (15. Marzo. 1824.). Diminutivi greci positivati. Luciano nel Dialogo di Doride e di Teti dice prima Duplicazioni greche. Luciano nel Dialogo di Menippo Amfiloco e Trofonio. M. Diminutivi greci positivati. Alterazioni de’ temi greci, senza mutazione di significato. Una nuova prova dell’antica tradizione, di cui altrove, che la popolazione del mondo, o certo quella d’Europa, venisse dall’Asia, si deduce dalla favola (o storia) che l’Europa pigliasse il nome da una donna d’Asia così chiamata. V. il sogno d’Europa nel 2.do idillio di Mosco ec. (20. Marzo. 1824.). V. ancora i mitologi e critici ec. Troia per scrofa, del che altrove. In franc. Fante per uomo adulto con tutti i suoi derivati e diminutivi ec. (tra’ quali è fancello per fanciullo che n’è forse una corruzione, onde fanciullo sarebbe propriamente piccolo uomo, seppur non è corruzione d’infanticello, che non credo; e così dicasi degli altri diminutivi di fante) opposto d’infante, è proprio non solo de’ nostri antichi, (v. la Crus.) ma eziandio del volgare e familiar moderno, in cui resta ancora per proverbio lesto fante (il che si trova anche nell’Alberti.). Or questa voce e questo suo significato è certamente affatto latino, poichè fante non è che il partic. Diminutivi positivati. Dell’antiche opinioni circa i semidei e gli eroi, delle quali altrove, vedi ancora il Dialogo di Diogene ed Ercole ne’ Dial. de’ morti di Luciano. (21. Marzo. 1824.). Delle cause della universalità della lingua francese, vedi Voltaire delle Lingue, nelle sue opere scelte Londra (Venezia) a spese del Milocco, tomi 3. in italiano, 1760. tom. 3. o p. 136-9. (21. Marzo. 1824.). Come anticamente i francesi pronunziassero conforme scrivevano e in parte scrivono, vedi il cit. luogo del Voltaire p. 139-140. (21. Marzo. 1824.). Povertà di parole nella lingua francese appetto all’italiana. V. il cit. tomo di Voltaire p. 207. nella nota, numero 3. (21 Marzo. 1824.). Della superiorità della lingua latina sulla greca per certe parti e qualità, del che ho detto in proposito dei continuativi di cui i greci mancano, cioè non ne hanno un genere determinato, si può dire lo stesso rispetto agl’incoativi, di cui i greci non hanno un genere e forma così determinata e assegnata come i latini, sebbene si servono molto spesso, a significar l’incoazione, di verbi in Molti di quelli che io chiamo diminutivi positivati, si potranno chiamare in vece disprezzativi o vezzeggiativi o frequentativi ec. positivati, sì verbi che nomi, sì sostantivi che aggettivi ec. Ma chiamarli generalmente diminutivi non è da potersi riprendere, perchè tali sono propriamente tutti, e la diminuzione è il mezzo con cui essi significano disprezzo, vezzeggiamento ec. secondo che ella è applicata ed intesa. (21. Marzo 1824.). Imperfezione dell’ortografia italiana ne’ passati secoli. È noto che i manoscritti originali anche de’ più dotti uomini de’ migliori secoli, e in particolare e nominatamente quelli dell’Ariosto e del Tasso, che son pur tanto ripieni di correzioni, presentano una stortissima e scorrettissima ortografia, con errori tali che oggi non commetterebbe il più imperito scrivano o fanciullo principiante, e una stessa voce v’è scritta ora con una ora con altra ora con altra ortografia. (21. Marzo. Domenica terza di Quaresima. 1824.). La ricchezza e varietà e potenza e fecondità della lingua italiana non solo s’ha a considerare nella copia de’ suoi vocaboli e modi e nella gran facoltà di formarne, ma eziandio nella gran moltitudine e varietà di tipi per così dire o coni che ella ha per poter formare voci e modi di uno stesso genere di significazione. (formati già moltissimi, e da potersene formar con giudizio, sempre che si voglia e bisogni). Servano di esempio le tante desinenze frequentative o diminutive o disprezzative ec. de’ verbi, da me annoverate altrove. Le tante diminutive de’ nomi ec. ec. Nella quale abbondanza di coni la lingua nostra vince d’assai, non che le lingue sorelle, ma la latina e la greca, e forse qualunque lingua del mondo antica o moderna. Nè questa abbondanza produce confusione nè indeterminazione, perchè detti coni sebbene sommamente moltiplici in ciascun genere, sono però di qualità e di valore ben determinato ed applicato e appropriato al suo genere di significazione. (21. Marzo. 1824.). Diminutivi positivati. Tomba da Venire per essere a modo di verbo ausiliare, congiunto co’ participii passivi degli altri verbi, s’usa non solo in italiano, anche antico, del che mi pare aver detto altrove, ma anche in ispagn., forse a imitazione dell’italiano. Vedi D. Quij. par. 2. (la qual parte è straordinariamente sparsa di manifestissimi italianismi, più assai che la prima ec.) cap. 32. ed. Madrid 1765. tomo 3. p. 370. (23. Marzo. 1824.). La galanteria degli antichi italiani può esser dimostrata dall’etimologia del nome generico di donna, etimologia che in nessun’altra lingua cred’io, nè moderna nè antica si troverà nel corrispondente nome. (24. Marzo. Vigilia della SS. Annunziata. 1824.). V. p. 4067. Al detto altrove di Origliare, origliere da Participii in us di verbi neutri. Alla p. 4050. Noi diciamo eccetto se non, se pure non, se però non, fuorchè se o se non, quando non, salvo se non ec. E queste frasi e la greca rispondono alla latina Diminutivi positivati Diminutivi greci positivati. Plurali in a. Martella. Crusca in Asce. (29. Marzo. 1824.). Diminutivi positivati. Dita plur. di dito. Nota che il corrispondente nome latino non è neutro ma mascolino. (1. Aprile. 1824.). Nocca, Uova. Come in italiano l’uomo per on franc. , per si ec., del che altrove, così anche in ispagn. La lingua spagnuola è già conformissima all’italiana per indole (oltre all’estrinseco) quanto possa esser lingua a lingua. Ma più conforme sarebbe, se ella fosse stata egualmente coltivata, formata e perfezionata, cioè avesse avuto ugual numero e varietà e capacità di scrittori che ebbe l’italiana. Dalla piega che ella prese effettivamente si raccoglie che quando avesse progredito, la forma e l’indole che avrebbe avuta in uno stato di perfezione non sarebbe stata punto diversa dall’italiana, alla quale per conseguenza la lingua spagnuola sarebbe stata tanta più conforme che ora per la maggior conformità di grado e di perfezione, perchè ora la maggiore, anzi forse unica differenza che passi tra il genio o piuttosto la forma intrinseca di queste due lingue, si è che l’una è molto meno formata e perfezionata dell’altra, e anche men ricca, il che con la copia degli scrittori e delle materie non sarebbe stato. (1. Aprile. 1824.). Al detto di acquistare in proposito di Grandissima, e forse la maggior prova e segno del progresso che ha fatto negli ultimi tempi lo spirito e il sapere umano in generale e le scienze fisiche in particolare, è che per ispazio di quasi un secolo e mezzo, quanto ha dalla pubblicazione de’ Principii matematici di filosofia naturale a’ dì nostri (1687), non è sorto sistema alcuno di fisica che sia prevaluto a quello di Newton, o quasi niun altro sistema di fisica assolutamente, almeno che abbia pur bilanciato nella opinione per un momento quello di Newton, benchè questo sia tutt’altro che certo e perfetto, anzi riconosciuto ben difettoso in molte parti, oltre alla insufficienza generale de’ suoi principii per ispiegare veramente a fondo i fenomeni naturali. Nondimeno i fisici e filosofi moderni, anche spento il primo calor della fama e della scuola e partito di Newton, si sono contentati e contentansi di questo sistema, servendosene in quanto ipotesi opportuna e comoda nelle parti e occasioni de’ loro studi che hanno bisogno, o alle quali è utile una ipotesi. Ciò nasce e dimostra che gli spiriti e nella fisica e nell’altre scienze e in ogni ricerca del vero e in ogni andamento dell’intelletto si sono volti all’esame fondato dei particolari (senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e alla pratica ed esperienza e alle cose certe, rinunziando all’immaginazione, all’incerto, allo splendido, ai generali arbitrarii, tanto del gusto de’ secoli antecedenti e padri di tanti sistemi a quei tempi, che rapidamente brillavano e si spegnevano, e succedevansi e distruggeansi l’un l’altro. (4. Aprile 1824. Domenica di Passione. Nevica.). Altro per alcuno o ridondante, del che altrove. Aggiungasi quell’uso dell’avv. altrimenti o altramente ec., uso frequentissimo appresso i nostri, massime de’ buoni secoli, e non raro neanche oggidì, nel qual uso quell’avverbio sembra un assoluto pleonasmo, quando cioè egli è congiunto alla negazione, p. e. così: non v’andò altrimenti, cioè non v’andò. (In altro modo egli può esser congiunto alla negazione con significati diversi, come quando si dice non altrimenti per parimente, non altrimenti che per come.) Par ch’esso avv. in tali casi equivalga al punto, al guari e simili italiani e francesii ec. aggiunti sì spesso alla negazione senz’alcuna maggior forza. In fatti spesso, o il più delle volte esso avverbio in questo caso non importa nulla, ma originariamente e veramente, e forse talvolta effettivamente massime presso gli antichi, vale in alcun modo. Gli altri l’usarono e l’usano senza certo aver mai neppure immaginato o sospettato quel che ei significhi in tali casi. Nei quali egli ha alcun chè a fare con quell’uso dell’avverbio È un grand’errore di quelli che hanno a congetturare o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d’altri, sia nelle cose private sia nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con dati o senza dati, il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza quello che sia più utile a quei tali di risolvere o di fare, più conveniente, più secondo lo stato loro e delle cose, più giusto, più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o determineranno, ovvero fanno e determinano appunto questa o queste cose o l’una di queste in ogni modo. Diamo uno sguardo all’intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli uomini, e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le fanno, ve n’ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime, dannosissime a essi medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a quello che avrebbe risoluto o fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel caso loro. Vedremo che gli uomini il più delle volte non deliberano maturamente quando v’ha bisogno di maturità, non conoscono l’importanza delle cose che hanno a risolvere o a fare, non sospettano nemmeno che sia loro utile o necessario di consultare intorno ad esse, e non entrano affatto in alcuna consulta. Parlo egualmente de’ grandi e de’ piccoli, delle cose pubbliche e delle private, piccole relativamente e grandi. È certissimo che gli affari degli uomini qualunque, che vanno male, non vanno così (se non di rado) senza loro colpa o insufficienza; or come dunque dovrà essere regola per indovinare le opere o risoluzioni loro, il cercare quello che lor sia più utile e conveniente? Il numero o degli sciocchi assolutamente, o degl’inetti ai carichi e alle cose che hanno a maneggiare, benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro carico sono adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle azioni mal prese e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese, sconvenienti al caso, o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le migliori; il numero dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha sempre soverchiato di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed uomini loro contrarii, come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì civili sì militari sì private, e dall’osservazione della vita e avvenimenti giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla probabilità dell’indovinare, conduce chi la segue ad avere cento probabilità per una, contro quella o quelle cose che egli sceglie e quel giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando, è falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel caso proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti fuori di esso, e pensino e sentano e sieno disposti allo stesso modo. Onde ancorchè pognamo in due persone perfetta parità di prudenza, di esperienza, insomma di attitudine a risolvere e fare in un dato caso quello che si conviene, è certissimo che se di queste due persone l’una si troverà nel caso e l’altra fuori considerandolo senza comunicare con quella, il più delle volte la risoluzione o il modo dell’azione dell’una sarà diversissima più o meno da quello che all’altra parrà si fosse convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle abitudini e di mille altre cose anche minime che diversificando gli spiriti (giacchè non si dà spirito perfettamente uguale ad un altro, più che si dieno due fisonomie al tutto conformi), diversificano altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni di uno da quelle di un altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e parità di caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa in casi uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni e circostanze del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e sovente cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre che l’altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si può il carattere, le abitudini, le qualità della data persona, applicarle al caso di cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi ne’ piedi di quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar quello ch’egli è per fare o risolvere, anzi risolvere, per così dire, in vece sua, come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un dato carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in persona di esso. (5. Aprile. 1824.). V. il Guicc. ed. Friburgo. t. 4. p. 106. L’uomo (per l’amor della vita) ama naturalmente e desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque purchè sia vivamente (la qual vivezza qualunque, non può essere senza positivo diletto, nè sensazione indifferente veramente). Sì il sentire dispiacevolmente come il non sentire sono cose assolutamente penose per lui. E talora è men penosa, anzi più grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la privazion di sensazioni. Se l’uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere si fosse tal sensazione, purchè non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice, perchè la sensazione è così viva, il vivo (non dispiacevole in se) è piacevole all’uomo per se stesso e qualunque ei sia. Dunque l’uomo proverebbe in quel momento un piacere infinito, e quella sensazione, benchè d’altronde indifferente, sarebbe un piacere infinito, quindi perfetto, quindi l’uomo ne saria pago, quindi felice. Segue dal sopraddetto che universalmente non si dà sensazione indifferente. Questo pensiero si sviluppi. (5. Aprile 1824.). Una sensazione (interna o esterna) è necessariamente per se e in quanto sensazione, o piacevole o dispiacevole, e in quanto sensazione senz’altro, è necessariamente e insitamente ed essenzialmente piacere. (5. Aprile 1824.). Diminutivi positivati. Ghiotto- In tanto, gr. Moggia plur. Lat. Al detto di Chiunque gode molta fama e la merita, è stimato più dagli altri che da se stesso. E così tutti quei che già furono, e lasciarono degnamente agli uomini la lor gloria, sono più stimati che essi non si stimarono. (7. Apr. 1824.). Alla p. preced. Finattanto, finattantochè, fin tanto, infinoattantochè ec. — Il costume latino di servirsi de’ participii in us de’ verbi neutri e anche attivi in significato neutro o attivo, aggettivato, e ridotto anche a dinotar consuetudine e qualità abituale nel soggetto, come La vita degli orientali e di coloro che vivono ne’ paesi assai caldi è più breve di quella dei popoli che abitano ne’ paesi freddi o temperati. Ma ciò non impedisce che la somma della vita di quelli non sia, non che uguale, ma superiore alla somma della vita di questi. Anzi non per altro è più breve la vita degli orientali se non perchè ella è molto più intensa, tanto che in pari spazio di tempo è maggiore la somma della vita che provano gli orientali che non è quella che provano gli altri popoli. Ora generalmente parlando, si scuopre nella natura quest’ordine che la durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in ragione inversa della sua intensità ed attività. La testuggine, l’elefante e altri animali tardissimi hanno lunghissima vita. I più veloci ed attivi, ancorchè più forti degli altri (come è per es. il cavallo rispetto all’uomo) hanno vita più corta. Ed è ben naturale, perchè quell’attività e intensità di vita importa maggiore rapidità di sviluppo della medesima, e quindi di decadenza. Infatti lo sviluppo sì degli uomini, sì degli animali, sì delle piante ne’ paesi assai caldi è molto più rapido che negli altri. Or dunque considerando queste condizioni fisiche della vita per rapporto al morale, si può ragionevolmente affermare che la sorte di quelli che vivono ne’ paesi assai caldi è preferibile quanto alla felicità a quella degli altri popoli. Primieramente la somma della loro vitalità, quantunque minore nella durata, è però assolutamente maggiore di quella degli altri, presa l’una e l’altra nel totale. Secondariamente, posto ancora che ella fosse uguale, a me par molto preferibile il consumare p. e. in 40 anni una data quantità di vita che il consumarla in 80. Ella riempie i 40, e lascia negli ottanta mille intervalli, gran vuoto, gran freddezza, gran languore. La vita assolutamente non ha nulla di desiderabile sicchè la più lunga sia da preferirsi. Da preferirsi è la meno infelice, e la meno infelice è la più viva. Or la vita degli orientali, pognamola di 40 anni, è molto più viva che quella degli altri, pognamola di 80, quando bene la somma della vivacità dell’una vita e dell’altra sia la stessa. Or questo paragone di climi io lo applico ai tempi, e mettendo gli antichi in luogo de’ popoli di clima caldo e i moderni in cambio de’ popoli di clima freddo, dico che sebben la vita degli antichi era forse generalmente più breve che quella dei moderni, per le turbolenze sociali e i continui pericoli dello stato antico, nondimeno perchè molto più intensa, ella è da preferirsi, contenendo nella sua minore durata maggior somma di vitalità, o quando anche in minore spazio contenesse ugual somma che la moderna in ispazio maggiore. Del che, senza il surriferito esempio, ho discorso particolarmente in altro pensiero. (8. Aprile 1824.). V. p. 4092. e v. la pag. 4069. Ciascuno, e massimamente gli spiriti più delicati, sensibili e suscettibili, pervenuto a una certa età ha fatto esperienza in se stesso di più e più caratteri. Le circostanze fisiche, morali e intellettuali, cambiandosi continuamente nello spazio della vita di un uomo, e nelle sue diverse età, cambiandosi, dico, per rispetto a lui, cambiano continuamente il suo carattere, di modo che di tempo in tempo egli è uomo veramente nuovo di spirito, come dicono i fisici che di sette in sette anni (se non erro) egli è rinnovato di corpo. Gli uomini sensibili in particolare non solo cambiano carattere e più rapidamente degli altri, ma facilmente e ordinariamente acquistano caratteri contrari tra se, e massime a quel primo carattere che si sviluppò in essi, a quello più conforme alla loro natura, a quello che il primo potè in loro esser chiamato carattere. La coltura dell’intelletto fra l’altre cose cagiona in una persona stessa a proporzione de’ suoi progressi, e coll’andar del tempo, una variazione singolarmente rapida e singolarmente grande. Chi non sa quanto i principii, le opinioni e le persuasioni influiscano e determinino i caratteri degli uomini? Ora ciascuno individuo quando nasce è precisamente, quanto all’intelletto nello stato medesimo in cui fu il primo uomo. Quegl’individui che coll’andar del tempo si sono posti a livello delle cognizioni del nostro tempo, sono necessariamente passati per tutti quegli stati per cui lo spirito umano è passato dal principio del mondo fino al dì d’oggi (almeno per quei gradi per cui egli è passato progredendo e avanzando), e ha sperimentato in se tutti gli avvenimenti dell’intelletto che il genere umano ha sperimentato in tanti secoli quanti sono corsi dalla sua origine insino a ora. La storia del suo intelletto è quella appunto di tutti questi secoli ristretta e compresa in venti o trent’anni di tempo. Laonde da tutti i cambiamenti che il suo intelletto ha provati, cambiamenti che più volte l’hanno portato a persuasioni e stati contrarissimi ai passati, e in ultimo a un sistema di persuasioni ed a uno stato contrarissimo al suo primitivo; da tutti questi cambiamenti, dico, deggiono di necessità essere risultate in lui tante diversità e successivi cambiamenti di carattere, quanti ne sono stati prodotti nelle nazioni e nel genere umano in generale dai diversi principii e opinioni e dal diverso progresso e stato di cognizioni in tutto il tempo che ci è bisognato per portarlo dal suo primitivo stato al presente. (8. Aprile. 1824.). Onde questo tale individuo rinchiude e compendia in se, non solo la storia dello spirito umano, ma quella eziandio de’ caratteri successivi delle nazioni, in quanto essi ebbero origine e dipendenza dalle opinioni e conoscenze, che certo è grandissima e forse la massima parte. (8. Aprile. 1824.). La maniera familiare che come più volte ho detto, fu necessariamente scelta da’ nostri classici antichi, o necessariamente v’incorsero senz’avvedersene ed anche fuggendola, può ora in parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel gusto dell’antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l’altre cose, perchè quello che allora fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall’usuale, si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che sceglievano e usavano, e sovente anche intendendo, credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi eleganti, onde n’è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere modellate sull’antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale dello stile antico da essi imitato necessariamente ne aveva anche indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e corrispondere ad esse forme che allora erano necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì la familiarità imitata sì quella che adoperavano ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall’usuale, perciò appunto che la familiarità in genere non era e non è più usuale, e l’uso della medesima è proprio degli antichi. Il terzo modo, che sarebbe quello di usar l’antico e il moderno e tutte le risorse della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto, quale è appunto quello di Cicerone nella prosa e di Virgilio nella poesia (stile usato quando la lingua latina era appunto in quelle circostanze e quello stato di capacità in cui è ora la lingua nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e convenevole a una lingua e letteratura già perfetta. (8. Aprile. 1824.). Alla p. 4053. Vedi però i Diz. spagn. buoni, alla voce Al detto di Conforme per conformemente, avv. e preposiz. spagn. e italiano, forse di origine spagnuola. Al detto degli aggettivi usati avverbialmente. (13. Apr. 1824.). Diminutivi positivati. Al detto altrove d’ A un giovane sventatello che per iscusarsi di molti errori e cattive riuscite e vergogne e male figure fatte nella società e nel mondo, diceva e ripeteva sovente che la vita è una commedia, replicò un giorno N.N., anche nella commedia è meglio essere applaudito che fischiato, e un commediante che non sappia fare il suo mestiere (professione), all’ultimo si muor di fame. (17. Aprile 1824.). Le persone avvezze a versarsi sempre al di fuori, esclamano naturalmente anche quando sono solissime, se una mosca le punge, o si versa loro un vaso o si spezza; quelle assuefatte a convivere con se medesime, e ritenersi tutte al di dentro, anche in grande compagnia, se si sentono cogliere da un accidente non aprono bocca per lamentarsi o chiedere aiuto. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.). Non molto addietro ho notato in questi pensieri p. 4062. segg. la maggior disposizione naturale alla felicità che hanno i popoli di clima assai caldo e gli orientali, rispetto agli altri. Notisi ora che in verità questi erano i climi destinati dalla natura alla specie umana, come si dimostra quanto all’oriente, dalle antiche tradizioni che provano l’origine del genere umano essere stata in quei paesi, secondo il detto da me altrove in più luoghi, e quanto ai climi assai caldi in generale, dall’essere essi i soli in cui l’uomo possa viver nudo, come la natura lo ha posto, e senza altri soccorsi contro gli elementi, di cui la natura l’ha lasciato sfornitissimo, e che in altri paesi gli sono di prima necessità e non pochi nè facili a procacciare, nè insegnati dalla natura, ma bisognosi di molte esperienze, casi ec. La costruzione ec. degli altri animali qualunque, e delle piante, ci fa conoscere chiaramente la natura de’ paesi, de’ luoghi, dell’elemento ec. in cui la natura lo ha destinato a vivere, perchè se in diverso clima, luogo, ec. quella costruzione, quella parte, membro ec. e la forma di esso ec. non gli serve, gli è incomoda ec. non si dubita punto che esso naturalmente non è destinato a vivervi, anzi è destinato a non vivervi. Ora perchè simili argomenti saranno invalidi nell’uomo solo? quasi ei non fosse un figlio della natura, come ogni altra cosa creata, ma di se stesso, come Dio. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.). Gli uomini governati in pubblico o in privato da altri, e tanto più quanto il governo è più stretto, (i fanciulli, i giovani ec.) accusano sempre, o tendono naturalmente ad accusare de’ loro mali o della mancanza de’ beni, delle noie e scontentezze loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima l’innocenza di questi, e la impossibilità o d’impedire o rimediare a quei mali o di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose con loro. La cagione è che l’uomo essendo sempre infelice, naturalmente tende ad incolparne altresì sempre non la natura delle cose e degli uomini, molto meno ad astenersi dall’incolpare alcuno, ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa particolare in cui possa sfogar l’amarezza che gli cagionano i suoi mali, e che egli possa per cagione di questi fare oggetto e di odio e di querele, le quali sarebbero assai men dolci di quello che sono a chi soffre se non cadessero contro alcuno riputato in colpa del suo soffrire. Questa naturale tendenza opera poi che il misero si persuade anche effettivamente di quello che egli immagina, e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli ha immaginato i nomi e le persone di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in mancanza d’altri oggetti, rivolgiamo seriamente l’odio e le querele delle nostre sventure. Ma molto più dolce fu agli antichi ed è a’ moderni l’incolpare qualche cosa sensibile, e massime qualche altro uomo, non solo per la maggior verisimiglianza, e quindi facilità di persuaderci della sua colpa, che è quello che ci bisogna, ma più ancora perchè l’odio e le querele sono più dolci quando si rivolgono sopra cose presenti che ne possano essere testimoni, e sottoposte alla vendetta che noi con esso odio vano e con esse vane querele intendiamo fare di loro. Massimamente poi è dolce l’odio e il lamento quando è rivolto sui nostri simili, sì per altre cagioni, sì perchè la colpa non può veramente appartenere se non a esseri intelligenti. Quelli che ci governano sono da noi facilmente scelti a far questa persona di rei de’ nostri mali, che non hanno altro reo manifesto o accusabile, e a servir di soggetto e scopo della vana vendetta che ci è dolce fare de’ medesimi mali. Essi sono in fatti in tali casi i più adattati, e quelli di cui ci possiamo dolere esteriormente e interiormente con più di verisimilitudine. Quindi è che chi governa in pubblico o in privato è sempre oggetto d’odio e di querele de’ governati. Gli uomini sono sempre scontenti perchè sono sempre infelici. Perciò sono scontenti del loro stato, perciò medesimo di chi li governa. (Essi sentono e sanno bene di essere infelici, di patire, di non godere, e in ciò non s’ingannano. Essi pensano aver diritto di esser felici, di godere, di non patire, e in ciò ancora non avrebbero il torto, se non fosse che in fatto questo che essi pretendono è, non che altro, impossibile.) E come non si può fare che gli uomini sieno mai felici, e però nè anche che sieno contenti, così niun governante nè pubblico nè privato, qualunque amore abbia a’ soggetti, qualunque cura del loro bene, qualunque sollecitudine di scamparli o sollevarli dai mali, qualunque merito insomma verso di loro, non può mai ragionevolmente sperare che essi non l’odino e non lo querelino, anche i più savi, perchè è natura nell’uomo il lagnarsi di qualcuno, quasi altrettanto che l’essere infelice, e questo qualcuno è per l’ordinario e molto naturalmente quello che li governa. Però circa il governare non v’ha pur troppo che due partiti veramente savi, o astenersi dal governo, sia pubblico sia privato, o amministrarlo totalmente a vantaggio proprio e non de’ governati. (17. Aprile. 1824. Sabato Santo.). Diminutivi positivati. Alla p. 4044. Ferdinando il Cattolico non solamente al tempo della lega di Cambrai, ma anche più anni dopo, e sciolta già la lega, seguitò sempre a spacciare di volere andar contro gl’infedeli, non pur Mori d’Affrica, come diceva altresì, ma eziandio contro i turchi a Gerusalemme. Vedi Guicc. t. 3. p. 109. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1824.). Del resto v. ancora ivi p. 128. fine. V. p. 4081. Senza per oltre (vedi i franc. e gli spagn. i quali dicono anche nel senso stesso a men de, oltre di, e viene a essere il medesimo). V. p. 4081. — Così i greci Diminutivi positivati. Alla p. 4043. Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co’ sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co’ sentimenti formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d’ogni cosa. E generalmente non v’ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà! Tant’è, il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un’imitazione della insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore. Onde è piacevole l’esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e senz’altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario. Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda, qualche turbamento, e ciò annesso cagionato e dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile Lunedì di Pasqua 1824.). Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichè naturalmente priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non v’è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). Massimamente poi quando da una parte colla civilizzazione è accresciuta la vita interna, la finezza delle facoltà dell’anima e del sentimento, e quindi l’amor proprio e il desiderio della felicità, da altra parte moltiplicata l’impossibilità di conseguirla, i mali fisici e morali, e finalmente diminuita l’occupazione, l’azione fisica, la distrazione viva e continua. (20. Apr. 1824.). Percussare da Quelli che non hanno bisogni sono ordinariamente molto più bisognosi di coloro che ne hanno. Uno de’ grandissimi e principalissimi bisogni dell’uomo è quello di occupare la vita. Questo è altrettanto reale quanto qualunque di quelli a’ quali occupandola si provvede; anzi è più reale, e maggiore eziandio assai, perchè il soddisfare a questo bisogno è l’unico o il principal mezzo di far la vita meno infelice che sia possibile, laddove il soddisfare a qualsivoglia di quegli altri per se, non è che un mezzo di mantenere la vita, la qual per se stessa nulla importa. Importa sibbene la felicità, o posta la vita, il menarla meno infelicemente che si possa. Ora al detto massimo bisogno, che è continuo ed inseparabile dalla vita umana, quelli che non hanno bisogni, o che per dir meglio non sono necessitati di provvedere essi medesimi a’ bisogni che hanno, gli suppliscono molto più difficilmente, e più di rado, e per lo più per molto minore spazio della loro vita, e in generale molto più incompletamente di quelli che hanno a provvedere da se a’ propri bisogni naturali e della vita. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). Alla p. 4053. Nel Secolo di Luigi 14. di Voltaire ed. della Haye 1752. tome 2. fine del cap. 33. du jansénisme, p. 254. trovo A proposito del detto altrove circa i semidei dimostranti l’alta opinione che gli antichi avevano della natura umana, osservisi con quanta facilità si divinizzavano appresso i romani gl’imperatori o altri della loro famiglia, o loro liberti e favoriti, o vivi ancora, o morti al tempo e sotto gli occhi di quelli che li divinizzavano, anzi allora allora[a] . Non dirò già io che nè quelli che li divinizzavano, nè le altre persone intelligenti, nè forse anche la più ignorante feccia del popolo e la più superstiziosa, massime in quei tempi già illuminati e disingannati in tante cose (sebbene anche a quei tempi v’aveano persone, eziandio tra’ nobili e senatori, di maravigliosa superstizione, come e più che non fu Senofonte, spirito sì colto e istruito, fra’ greci in tempi simili)
credessero veramente alla divinità di quei tali imperatori o parenti o favoriti di essi, vivi o morti. Ma quest’uso solo di divinizzare delle persone contemporanee, cosa che poichè era tanto ricercata da un canto dall’ambizione, dall’altro dall’adulazione, non doveva essere al tutto senza qualche effetto di persuasione in qualche parte del popolo, dimostra quanto poca distanza e diversità di natura ponessero gli antichi fra il divino e l’umano, senza di che non sarebbe stato possibile che una tale assurdità fosse pur venuta loro nella mente. Certo nè anche a’ più barbari, ignoranti e superstiziosi tempi del Cristianesimo, niuno pensò nè avrebbe potuto pensare o di far credere ad alcuno o solamente di dire per adulazione o per altro qualunque motivo che una persona non solo contemporanea, non solo viva, ma morta ed antica e famosa pure per santità e per qualsivoglia virtù o dignità, potenza ed opere vere o credute, fosse stato trasformato o dovesse trasformarsi, non dirò nella natura divina, ma neanche nell’angelica. E qual Cristiano avrebbe osato fare sopra qualsivoglia Principe Cristiano o no, fosse stato anche molto più grande e formidabile e più despotico di Augusto, ed esso molto più adulatore e più vile di tutti gli uomini di quel secolo, un distico simile a quello attribuito a Virgilio: Diminutivi positivati. Non solo in franc. Alla p. 3106. Niuna cosa è forse più atta di questa a mostrare la differenza del pensar moderno e del pensare antico (massime molto antico, al qual tempo appartiene Frinico e più che mai Omero) intorno a questi punti di cui qui discorriamo, differenza che tiene strettamente alla diversità generale dello stato dello spirito umano a’ tempi antichi e a’ moderni. Quando negli ultimi anni, dopo il ritorno de’ Borboni, fu rappresentata a Parigi la Tragedia del Vespro Siciliano, tragedia che ebbe un successo distinto, qual mai o francese o straniero, pensò ad accusare il poeta di poco amor nazionale o di mancamento alcuno verso la patria, per aver commosso o cercato di commuovere sopra una sventura de’ suoi nazionali seguìta per opera di stranieri? Anzi chi non riputò e questo proposito e la scelta del soggetto nazionalissima e degnissima quanto qualunque altra di un buon cittadino? perocchè il poeta non volle far piangere sopra i nemici della Francia, ma sopra i Francesi sventurati. Or questo appunto fece Frinico, il quale non commosse le lagrime sopra i barbari nè per li barbari, ma sopra i greci e per li greci. E per questo medesimo fu condannato, e sarebbe stato applaudito per lo contrario, e stimato buon cittadino, se avesse fatto piangere e rivolta la compassione e pietà degli uditori sopra i nemici della nazione, come fece Eschilo ne’ Persiani tragedia che ha per soggetto e per materia unica di pietà e di terrore i mali de’ nemici della Grecia, nè però fu condannata da alcuno, nè stimata altro che nazionalissima. Tale appunto nè più nè meno si è il caso della Iliade, che fa piangere quasi unicamente o certo principalmente sopra e per li troiani nemici de’ suoi. (23. Aprile. 1824.). Nel Dialogo della Natura e dell’Anima ho considerato come la ragione e l’immaginazione e in somma le facoltà mentali eccellenti nell’uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno causa di non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue forze naturali, come fanno tutto dì e senza difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte l’altre infermità. Non è egli chiaro che ciò procede dal non aver essi in se medesimi niuno impedimento a usare tutte le loro forze naturali? che i pazzi hanno più forza degli altri, solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior parte che gli altri non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti dell’uomo, in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute l’uomo per i progressi del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per essere impedito a usare quelle che gli rimangono! quanto è più forte l’uomo, anche corrotto e indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi lo dimostrano, che sovente superano di forze fisiche persone molto più robuste di loro, ed animali creduti ordinariamente più forti dell’uomo a corpo a corpo. L’ubbriachezza accresce le forze non solo radicalmente, ma eziandio negativamente per l’uso, che ella impedisce o turba, della ragione. Senza un’assoluta mancanza o sospensione di quest’uso, niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che hanno o piuttosto mostrano di avere a proporzione molta più forza de’ loro contrari), non usa, nè anche ne’ maggiori bisogni, ne’ maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi risparmiano infinitamente minor parte delle loro forze, anche ne’ menomi pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non risparmia l’uomo, anche il più disperato ec., ne’ maggiori. (23. Apr. 1824.). Il detto de’ pazzi dicasi proporzionatamente de’ disperati. V. p. 4090. Alla p. 4073. capoverso 2. Così i franc. Alla p. 4073. capoverso 1. È noto che per lunghissimo tempo, almeno sino alla fine del 400 e ai principii del 500, si continuò in Ispagna, in Germania, e credo in tutta la Cristianità (che allora era o tutta o quasi tutta Cattolica) a fare questue annue per le crociate da farsi quando che fosse, le quali questue si chiamavano anche crociate, e montavano a grossissime somme (considerata specialmente la maggiore rarità della moneta a quei tempi), che i Pontefici, a cui disposizione pare che esse rimanessero, concedevano talvolta, ma con grandissime difficultà (e non di rado lo negavano) ai rispettivi Re di potere usare ne’ loro bisogni, massime quando erano loro collegati aperti od occulti, favoriti, per qualche impresa che premeva al Pontefice ec.[a] Così il Guicc. più volte, e fra l’altre t. 3. p. 143. (24. Aprile. Sabato in Albis. 1824.). Io non so però bene se fossero questue o taglie determinate, e forzose, con obblighi di coscienza, o altro. V. gli Storici. (24. Aprile. 1824.). V. p. 4083. A proposito dei verbi in are fatti da quelli della 3., del che altrove, v. il Meurs. t. 5. opp. p. 419. dove però erra deducendo da vellicare che v’abbia a essere stato un vellare, mentre quello è frequentativo di Diminutivi positivati. Anche i latini nominavano be ce ec. non bi ci, come confessa il Corticelli nel principio della Gramm. Toscana, il qual vedi, e v. anche il Buommattei e gli altri grammatici latini italiani francesi spagnuoli ec. (26. Apr. 1824.). Ser-v-ente — ser-g-ente. V. la Crus. Compagnon, di cui altrove è anche antico italiano e spagnuolo (D. Quij.) per compagno, forse l’uno e l’altro dal francese. (28. Aprile 1824.). Alla p. 4081. V. pure il Guicc. 3. 216. e che cosa fosse la decima di cui quivi parla, vedilo ib. p. 96. 209. 254. (30. Aprile 1824.). V. pure il Guicc. 3. 248-53. 395. 397./4. 154. 172-4. Al detto altrove circa il nostro uso italiano di adoperare pleonasticamente e per idiotismo e grazia di lingua il pronome si, mi, ti, dativo, uso che abbiamo pur trovato nell’antico e familiare latino, aggiungi che noi italiani adoperiamo detto pronome in molti verbi neutri, o attivi, che quando sono congiunti con esso, mal si chiamano da’ grammatici e vocabolaristi, neutri passivi, come dimenticare che anche si dice dimenticarsi col genitivo o accusativo o col che ec., immaginare che anche si dice immaginarsi coll’accusat. o col che ec. Questi verbi col si che sono moltissimi, non sono punto neutri passivi, perchè il si in essi non è accusativo, e però non indica passione nè transizione dell’azione nel suggetto stesso che la fa, ma è dativo e assolutamente ridondante per grazia di lingua, come in lat. il Come la fisonomia degli uomini, e animali sia determinata dagli occhi, secondo il detto altrove, osserva che se tu disegni un volto umano o animalesco e non vi poni gli occhi, tu non vedi punto che fisonomia abbia quel volto, e appena senti (se ben conosci) che sia un volto. Così i ritratti levati dall’ombra in profilo non paiono ritratti finchè non vi si aggiunga convenientemente quello che dall’ombra non si può ricavare, dico l’occhio. Al contrario se ponendovi gli occhi, lasci qualche altro membro, tu senti benissimo che quello è un volto e ne comprendi la fisonomia; solamente ti parrà mostruosa, ma sempre ti riuscirà un volto e una fisonomia. E così dico a proporzione, del disegnare o accennar gli occhi più o meno imperfettamente, paragonando l’effetto di questa imperfezione in ordine al determinar la fisonomia, coll’effetto di una simile imperfezione in altra qualunque parte del volto. (30. Aprile 1824.). Ignominia per innominia. Come Nascere per accadere del che altrove. 3 Guicc. 3. 255. (2. Maggio. 1824. Domenica.). Che da’ partic. pass. della prima si facciano i continuativi o frequentativi in itare piuttosto che in atare, non dee parer maraviglia quando si consideri l’uso lat. di scambiare per regola l’a in i breve, in tante altre cose, come ne’ composti ( Il verbo stare, che ha tanta relazione al verbo g omire-v omire. Crus. (6. Maggio. 1824.). g olpe co’ derivati, composti ec. Gomita plur. di Gomito. (6. Maggio. 1824.). Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta che per il piacere, poichè non è fatta se non per la felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perchè manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura? (11. Maggio. 1824.). L’infinito in luogo dell’imperativo, del che ho detto altrove, si usa in greco massimamente colla negazione, il che è al tutto conforme all’uso italiano. Vedi per es. alcuni pseudoracoli in versi nel Pseudomantis di Luciano, opp. 1687. t. i pag. 765. lin. 14. 28. 778. fin. in due de’ quali luoghi notisi il nominativo coll’infinito, come in italiano. (12. Maggio. 1824.). Ai frequentatativi in esso altrove notati, aggiungi Nei frammenti delle poesie di Cicerone massime in quelli delle sue traduzioni di Arato, che si trovano principalmente citati da lui, come nei libri de Divinat. ec., sono abbondantissimi i composti, e in particolare quelli fatti di più nomi, alla greca (come Diminutivi positivati. Ai composti di Il diminuimento spagnuolo in ico ica dee venire dal lat. Cosa cioè causa per Altro per niuno, del che altrove. Senz’altro mezzo. Speroni Dialoghi, Ven. 1596. p. 275. verso il fine. (20. Maggio. 1824.). Nel Petrarca Canz. Una donna più bella ec. strofe 3. Altro volere o disvoler m’è tolto ; altro sta per alcuna cosa, nulla, Si riprende l’uomo che non sia mai contento del suo stato. Ma in vero questo non è che la sua natura sia incontentabile, ma incapace di esser felice. Se fossero veramente felici, il povero, il ricco, il Re, il suddito si contenterebbero egualmente del loro stato, e l’uomo sarebbe contento come possa essere qualunque altra creatura, perch’egli è altrettanto contentabile. (20. Maggio. 1824.). Alla p. 4081. L’uomo sarebbe onnipotente se potesse esser disperato tutta la sua vita, o almeno per lungo tempo, cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse durare. (21. Maggio. 1824.). S’è veduto altrove come la irregolarità e i vizi palpabili delle ortografie straniere vengano in gran parte dall’aver voluto accomodare le loro scritture alla latina. Ora egli è pur curioso che gli stranieri vogliano poi pronunziare la scrittura latina nel modo in cui pronunziano la propria. Questa non corrisponde alla parola pronunziata perchè l’hanno voluta scrivere alla latina, e le parole latine le vogliono poi pronunziare colla stessa differenza dalla scrittura, che usano nel pronunziar le loro parole, perchè sono male scritte. Ma se esse sono male scritte, le latine sono scritte bene; però s’hanno a pronunziar come sono scritte e non altrimenti; e gli stranieri mostrano di non ricordarsi che essi non pronunziano diversamente da quel che scrivono, se non perchè vollero scrivere alla latina, e che l’origine di questa differenza tra il loro scritto e il parlato, e della loro scrittura falsa, fu l’aver voluto scrivere alla latina mentre parlavano in altro modo, e l’aver voluto seguitare materialmente la scrittura latina, non falsa ma vera. Ora avendola malamente voluta prendere per modello, e con ciò falsificata la loro scrittura, pretendono poi per questa cagione medesima che quella sia falsa come la loro, e perchè la loro è falsa perciocchè segue quella; il che è ben lepido. (21. Maggio. 1824.). Quelli poi che non hanno tolta l’ortografia loro da’ latini (sebben tutti in parte l’han tolta o immediatamente o mediatamente), e quelli che l’han tolta, in quelle cose in cui la loro non deriva da quella, ma è pur viziosa manifestamente perchè ripugna al lor proprio alfabeto, tralascia lettere e sillabe che s’hanno a profferire, ne scrive che non s’hanno a pronunziare; come mai, dico, questi tali hanno da credere che l’ortografia latina sia e viziosa perchè la loro lo è, e macchiata di quei vizi appunto che ha la loro, diversissimi poi in ciascuna, di modo che ciascuna nazione straniera pronunzia il latino diversamente? (21. Mag. 1824.). Alla p. 4064. Da questo ragionamento segue che la maggior parte degli altri animali (poichè la vita naturale dell’uomo è delle più lunghe, e il suo sviluppo corporale è de’ più tardi)[a] sono anche per questa parte naturalmente più felici di noi, tanto più quanto il loro sviluppo è più rapido, al che corrisponde in ragion diretta la brevità della vita, perchè il Buffon osserva ch’ella è tanto più breve quanto più rapida è la vegetazione dell’animale (s’intende del genere, e spesso anche degl’individui rispetto al genere) l’accrescimento del suo corpo e facoltà, le sue funzioni animali per conseguenza, e il giungere allo stato di perfezione e maturità; e viceversa. Questo si osserva per lo meno in quasi tutti i generi anche vegetali. (Buffon, nel capitolo, se non erro, della Vecchiezza). Ond’è che p. e. i cavalli e poi di mano in mano gli altri di sviluppo più rapido, sino a quegl’insetti che non vivono più d’un giorno (v. il mio Dial. d’un Fisico e di un Metafisico) sieno tutti di mano in mano più e più disposti naturalmente alla felicità che non è l’uomo, nonostante che la brevità della vita loro sia nella stessa proporzione; la qual brevità o lunghezza non aggiunge e non toglie nè cangia un apice nella felicità d’alcun genere di animali (nè anche negl’individui), come ho dimostrato nel Dial. succitato e nel pensiero a cui questo si riferisce. (21. Maggio. 1824.). Le mulina. Crus. e Guicc. t. 3. p. 361. bis. (23. Maggio. Domenica. 1824.). Diminutivi positivati. Non solo gli antichi avevano tanto alta idea della natura umana che la stimavano poco inferiore alla divina, come ho detto altrove parlando de’ semidei, ma credevano ancora le anime nostre parenti, emanazioni, parti della divinità, divine esse stesse, e quasi dee ( Diminutivi greci positivati. Il tale rassomigliava i piaceri umani a un carcioffo, dicendo che conveniva roderne prima e inghiottirne tutte le foglie per arrivare a dar di morso alla castagna. E che anche di questi carcioffi era grandissima carestia, e la più parte di loro senza castagna. E soggiungeva che esso non volendosi accomodare a roder le foglie si era contentato e contentavasi di non gustarne alcuna castagna. (30. Maggio. Domenica. 1824.). Rassomigliava qualunque (Comparava ogni) piacere umano a un carcioffo dicendo che ne bisogna rodere e trangugiare tutte le foglie volendo arrivare a dar di morso nella castagna, e che di questi carcioffi è carestia grandissima, ed anche la maggior parte di loro è sole foglie senza castagna. E soggiungeva che esso non si potendo accomodare a ingoiarsi le foglie ec. (31. Maggio. 1824.). Diminutivi positivati. Vedi Creuzer Meletemata e Disciplina antiquitatis Lips. 1817. sqq. par. 3. p. 112. lin.28. p. 130. lin.23-24. dove però s’inganna quanto al supporlo necessario, perchè non sempre questi tali sono diminutivi, come ho provato altrove coll’esempio di Il tale diceva non esser ben detto quel che si afferma comunemente che basta l’apparenza p. e. a un letterato per essere stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l’apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza senza l’apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l’apparenza colla sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza. (1. Giugno. 1824.). Chi vuol vedere la differenza che passa tra l’antica filosofia e la moderna, e quel che di questa ci possiamo promettere, le consideri ambedue sul trono, cioè Alla p. 4085. Qua si dee riferire il nostro elegante uso di aggiungere il pronome pleonastico nelle frasi indeterminate, coll’ottativo, come, che che egli si voglia, comunque ciò si accada, per quanto egli si dica, non meno che me le sia servitore Caro, lettera a nome del Guidiccioni lett. 35. o neutri o attivi che sieno i verbi. Ne’ quali casi il pronome è sempre dativo ed accidentale al verbo, e s’inganna a partito chi sopra alcuno esempio sì fatto, battezza quel tal verbo per neutro passivo, come par che voglia fare il Rabbi o il Bandiera ne’ Sinonimi v. Affermare, dove allegando il Bocc. Nov. 19. quantunque tu te l’affermi (cioè per quanto tu te lo affermi, maniera indeterminata) e chiamandolo modo toscano, ne cava il verbo affermarselo, verbo nullo, perchè in tale e simili frasi indeterminate tutti o quasi tutti i verbi attivi o neutri passivi possono ricevere questa forma e ricevonla elegantemente (sia ciò proprietà toscana o altrimenti), ma fuor di tali casi in niun modo si direbbe affermarselo o affermarsi, come io mi affermo che tu ec. o egli se lo afferma asseverantemente, (1. Giugno. 1824.); e il luogo del Boccaccio non prova che ciò si possa dire. Chi che si fosse, qual o qualche se ne fosse la cagione, qual si sia o qualsisia, non so chi si fosse che ec. non so che o quello che si faccia o si voglia ec. (2. Giugno. 1824.). V. p. 4103. Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale (v. il mio Dialogo della Natura e di un Islandese, massime in fine) che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio. Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno all’uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza. Or l’essere, unito all’infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio inimico. Dunque l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere infelice, e compresa in lei); cioè nell’essere, ed essere per necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria. Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e principio di essere malamente, come può stare, se il male per sua natura è contrario all’essenza rispettiva delle cose e perciò solo è male? Se l’essere infelicemente non è essere malamente, l’infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemica al suo subbietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che si contiene nella propria essenza e natura di un ente dev’essere un bene per quell’ente. Chi può comprendere queste mostruosità? Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa? L’amor proprio è incompatibile colla felicità, causa della infelicità necessariamente, se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la felicità non può aver luogo senz’amor proprio, come ho provato altrove, e l’idea di quella suppone l’idea e l’esistenza di questo. Del resto e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e di mille qualità, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i lumi e l’esattezza la più geometrica della metafisica e della logica; e tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione. (2. Giugno. 1824.). — Vedi un’altra evidente contraddizione della natura, e si può dire, in cose fisiche, notata alla p. 4087. e anche nel citato dialogo. (3. Giugno. 1824.). Diminutivi positivati. A proposito di quel che ho scritto altrove sopra un luogo di Donato ad Terent. relativo al digamma, dove si parla di In quanto per poichè alla greca, del che altrove in più luoghi. Vedi Bembo opp. t. 3. p. 129. col. 2. fine e Rabbi Sinonimi v. poichè, e Crusca se ha nulla. (9. Giugno. 1824.). Altro per nulla ec. V. Caro Lettera a nome del Guidiccioni, lett. 15. fine. finchè non ho altro in contrario (modo comunissimo: avere o non avere altro in contrario, coll’interrogazione o positivo ec.), lett. 7. fine. senza darne altra (niuna) notizia al Padrone . (10. Giugno. 1824.). Rilevato per rilevante, e così Il tale negava che si potesse amare senza rivale. E domandato del perchè, rispondeva: perchè sempre l’amato o l’amata è rivale ardentissimo dell’amante (del proprio amante). (13. Giugno. Domenica della SS. Trinità. 1824.). Al detto altrove della somma facoltà e fecondità della lingua greca, non ancora esaurita nè spenta, aggiungi che oggidì chi vuol sostituire al suo proprio qualche nome finto espressivo di qualche cosa, o dar nome significativo a qualche personaggio immaginario, come Moliere nel Malato immaginario, nei nomi de’ medici, o nominar qualche nuovo essere allegorico, o nuovamente nominare i già consueti ec. ec. non ricorre ordinariamente ad altra lingua (qualunque sia la sua propria, in tutta l’Europa e America civile) che alla greca. (15. Giugno. Festa di S. Vito Protettore di Recanati. 1824.). Tutto quanto, tutti quanti — Alla p. 4099. Qua spetta il nostro idiotismo sempre comune tra noi, massime nello scritto, dal 300 a oggi, di aggiungere il si (dativo) al verbo essere. Questo si è, questa si fu la cagione ec. (21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga. 1824.). Altro per nulla, cosa alcuna. Guicc. t. 4. p. 50. ediz. di Friburgo: innanzi tentasse altro : e non aveva ancora tentato niente. (23. Giugno. Vigilia di S. Giovanni Battista. 1824.). Il tale diceva che noi venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che sentendovisi star male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte da ogni parte, e proccura in vari modi di appianare, ammollire ec. il letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno, finchè senz’aver dormito nè riposato vien l’ora di alzarsi. Tale e da simil cagione è la nostra inquietudine nella vita, naturale e giusta scontentezza d’ogni stato; cure, studi ec. di mille generi per accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicità o almen di riposo, e morte che previen l’effetto della speranza. (25. Giugno. 1824.). Dilettare- L’infelicità abituale, ed anche il solo essere abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l’amor proprio, estingue a lungo andare nell’anima la più squisita ogn’immaginazione, ogni virtù di sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l’amor proprio, perchè l’infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma. Quindi un’indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile. Or questa è una perfetta morte dell’animo e delle sue facoltà. L’uomo che non s’interessa a se stesso, non e capace d’interessarsi a nulla, perchè nulla può interessar l’uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli altri, di capacissimo ch’egli era. La vita è finita quando l’amor proprio ha perduto il suo Questo medesimo effetto che produce la infelicità, lo produce, come ho detto, l’abito di non provare o non vedersi d’innanzi alcuna apparenza di felicità, alcun dolce futuro, alcun piacere grande o piccolo, alcuna fortuna della giornata o durevole, alcuna carezza e lusinga degli uomini o delle cose. L’amor proprio non mai lusingato, si distacca inevitabilmente dalle cose e dagli uomini (fosse pur sommamente filantropo e tenero), e l’uomo abituandosi a non veder nella vita e nel mondo nulla per se, si abitua a non interessarvisi, e tutto divenendogli indifferente, il più gran genio diventa sterile e incapace anche di quello di cui sono capacissimi gli animi per natura più poveri, infecondi, secchi ed inetti. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.). Il che sempre più privandolo d’ogni illusione e successo dell’amor proprio, sempre più conferma in lui l’abito di noncuranza, e d’inettitudine e spiacevolezza. Trista condizione del genio, tanto più facile a cadere in questo stato (che certo non è strettamente proprio se non di lui), quanto da principio il suo amor proprio è più vivo, e quindi più avido e bisognoso di lusinghe e piaceri e speranze, meno facile ad apprezzare e soddisfarsi di quelle e quelli che agli altri bastano, e più sensibile alle offese e punture che i volgari non sentono. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. dì mio natalizio. 1824.). V. p. 4109. Della lingua universale, o piuttosto scrittura universale progettata da alcuni filosofi, vedi Thomas Éloge de Descartes, Oeuvres, Amsterdam 1774, t. 4. p. 72. (2. Luglio, Festa della Visitazione di Maria Vergine Santissima. 1824.). Come tutte le facoltà dell’uomo siano acquisite per mezzo dell’assuefazione, e nessuna innata, fin quella di far uso de’ sensi, da’ quali ci vengono tutte le facoltà; insomma, come l’uomo impari a vedere, e nascendo non abbia questa facoltà, benchè egli non si accorga mai d’impararla, e naturalmente creda che ella sia nata con lui, vedi fra gli altri il Thomas loc. cit. qui sopra, p. 59-60. (2. Luglio. dì della S. Visitazione di Maria. 1824.). Alla p. 2811. marg. E così anche Alla p. 4008. fine. Così il bul in bbi, ( Alla p. 4108. Come l’uomo non è capace d’imprender nulla che non abbia in qualunque modo per fine se stesso, così i cattivi successi continui in quanto a se stesso, o la continua mancanza di successi qualunque dell’amor proprio, scoraggisce naturalmente l’uomo dall’intraprender più nulla, nè anche il sacrifizio di se stesso, e lo rende incapace e inabile a tutto per la mancanza di coraggio. Lo scoraggimento è proprio e facile sopra tutto agli animi dilicati e grandi. (3. Luglio. 1824.). V. p. seg. Anche tra i greci fu in uso in certi luoghi lo spettacolo di combattenti mercenarii. V. Luciano sulla fine del Toxaris sive de Amicitia, opp. 1687. t. 2. p. 72. Furono poi introdotti a’ tempi romani in alcune città greche (d’Asia o d’Europa) i circhi e i ludi gladiatorii usati in Roma. E forse di questi tempi intende Luciano di parlare, anzi certo, poichè dal resto del Dialogo apparisce che egli finge il Dialogo a’ tempi romani. Del rimanente, v. Fusconi Dissertat. de Monomachia Rom. 1821. p. 9. not. 43. (4. Luglio. Domenica. 1824. infraottava della Visitazione di Maria Vergine Santissima.). V. anche Luciano 2. iii . Calcagna (4. Luglio. 1824.). Alla per antecedente. Un tal uomo ha tanto coraggio a operare o a risolversi di operare quanto chi è certo o quasi certo di non conseguire il fine di una operazione particolare. (4. Luglio. Domenica infraottava della Visitazione. 1824.). Il titolo di divino (divinamente ec.) solito darsi in greco, in latino e nelle lingue moderne per una conseguenza dell’uso di quelle, agli uomini e alle cose singolari, eccellenti ec. ancorchè in niente sacre nè appartenenti alla Divinità, non avrebbe certamente avuto mai principio nè luogo nel Cristianesimo. Esso uso è un residuo dell’antica opinione che innalzava gli uomini poco più sotto degli Dei ec., del che altrove in più luoghi. (6. Luglio. 1824.). Al detto altrove circa l’uso latino conforme all’italiano di usare pleonasticamente il pronome dativo Diminutivi positivati. Sommolo. V. la Crusca . (7. Luglio. 1824.). Diminutivi positivati. Quando noi diciamo che l’anima è spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo in sostanza una negazione, non un’affermazione. Il che è quanto dire che spirito è una parola senza idea, come tante altre. Ma perocchè noi abbiamo trovato questa parola grammaticalmente positiva, crediamo, come accade, avere anche un’idea positiva della natura dell’anima che con quella voce si esprime. Nel metterci però a definire questo spirito, potremo bene accumulare mille negazioni o visibili o nascoste, tratte dalle idee e proprietà della materia, che si negano nello spirito, ma non potremo aggiungervi niuna vera affermazione, niuna qualità positiva, se non tratta dagli effetti sensibili, e quindi in certa guisa materiali, (il pensiero, il senso ec.) che noi gratis ascriviamo esclusivamente a esso spirito. E quel che dico dell’anima dico degli altri enti immateriali, compreso il Supremo. (11. Luglio. Domenica. 1824.). — Tanto è dire spirituale, quanto immateriale; questa, voce affatto negativa grammaticalmente, quella ideologicamente. (11. Luglio. Domenica. 1824.). Diminutivi greci positivati. Sensato per sentito o per sensibile (come invitto per invincibile ec. del che altrove) quasi da un Al detto altrove che i derivativi latini si formano dagli obbliqui e non dal retto dei nomi originali, aggiungi una prova evidente più che mai Diminutivi positivati. Diminutivi positivati.
Del bello esterno come sia relativo vedi un luogo insigne di Cicerone De Natura Deorum 1. 27-29.(19. Luglio. 1824.). Diminutivi greci positivati. Frequentativo. Diminutivi positivati. Capella, capretta coi derivati, metafore ec. Così Diminutivi greci positivati. Al detto altrove delle porpore ec. in proposito di vermiglio, aggiungi Coltare, coltato da Amaricare frequentativo alla latina, come fodicare ec. V. Crus. Forcell. ec. ec. (24. Luglio. 1824. Vigilia di S. Giacomo Apost.). Diminutivi greci positivati. Verbo diminutivo. Diminutivi positivati. Un notabile esempio di verbo continuativo usato in senso affatto continuativo ec. vedilo in Cic. de Nat. Deor. 2. 49. fine, Alla p. 4114. principio. Così cornacchia, Percussare. Crusca. (6. Agosto. 1824.). Alla p. 4089. Dell’amor dei vecchi alla vita v. il capo 118. di Stobeo (ed. Gesn.)
Vermiglione, Verbo diminutivo o frequentativo. Scappare-scapolare. Uomo ben considerato , per savio, prudente ec. Tacit. Davanz. Stor. l. 3. c. 3. (18. Agos. 1824.). Della pretesa Delle idee concomitanti annesse a certe parole, del che dico altrove, v. Thomas, Essai sur les Éloges, chap. 7. fin. p. 78. oeuvres t. 1. Amst. 1774. Dell’influenza della letteratura e filosofia sulla lingua, e della formazione della lingua latina ib. p. 112-6. chap. 10. (25. Agosto. Festa di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.). e p. 214-215. Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser sempre un giudice giusto. Vedi Thomas loc. cit. qui dietro, chapitre 26. p. 46-47. (26. Agos. 1824.). Delle vicende della lingua francese, v. Thomas l. c. chap. 28. p. 85-97. (26. Agosto. 1824.). Dispettare, rispettare, Osservato per osservante. V. la Crusca. (5. Sett. 1824. Domenica.). A quello che ho detto altrove sul proposito che tra gli antichi felicità e bontà si stimavano per lo più o sempre congiunte, e per lo contrario infelicità e malvagità, v. fra l’altre cose Senofonte nel fine dei Memorabili e dell’Apologia dove prova che Socrate fu fortunato nella morte, mostrando che il provare la sua felicità anche a’ suoi tempi era parte e forma di apologia e di lode. E mille altri esempi se ne trovano negli antichi, chi ha pratica di loro ed osserva bene. (7. Sett. 1824.). Curato, Della stolta opinione che negli animali la natura sia stata più larga di bellezza a’ maschi che alle femmine, come è ragione, ma negli uomini per lo contrario, il che è assurdo, e nasce questa opinione dalla idea del bello assoluto, e dal credere che assolutamente sia bellezza maggiore quella che a noi per cagioni relative par tale, onde il donnesco è chiamato il bel sesso, laddove se le sole donne giudicassero, o chi non fosse donna nè uomo, chiamerebbe senza dubbio bello il sesso degli uomini maschi, come negli altri animali, vedi il Tasso Dial. del Padre di famiglia, opp. Venezia 1735. ec. vol. 7. p. 379. che è prima del mezzo del Dialogo. (15. Sett. 1824.). Diminutivi greci positivati. Sentimenta. (20. Sett. 1824.). Vizia, moggia. Lucian. 2. 385. Diciamo volgarmente quanto per solo, come un po’ d’acqua quanto per estinguere la sete ec. Così in greco Simulato, dissimulato, Storno-stornello, Non solo, come ho detto altrove, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si credette e si crede essere il Sfidato per diffidente. Crusca. (22. Ottobre. 1824.). Provveduto per provvido, provvidente. Pandolfini, Mil. 1811. p. 114. 169. e altrove, sebbene non così formalmente o evidentemente. V. la Crusca. (22. Ott. 1824.). Biasimato per biasimevole. Pandolfini p. 194. (24. Ottobre. Domenica. 1824.). Della pretesa Della invenzione dell’uso del fuoco, della quale ho parlato altrove, quanto fosse difficile e tarda ec. v. Goguet loc. cit. qui sopra, p. 58-60. (7. Nov. Domenica. 1824.). Diminutivi positivati. Risentito, sentito in senso neutro. V. la Crus. Issuto, essuto, antichi participii italiani per stato del verbo essere. Aggiungansi al detto altrove di suto, sido ec. (14. Nov. Festa della B. Vergine del Patrocinio. 1824. Domenica.). Diminutivi positivati. Scossare da scuotere. Poliziano Orfeo atto I, ed. dell’Affò, verso 14. Esoso in senso attivo. Guicciard. 4. p. 373. V. Forc.ec. (17. Nov. 1824.). Altro per niuno. Guicciard. 4. 378. 389. Casa Galateo capo 1. fine. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 239. Diminutivi positivati. Altro per nessuno o ridondante. Guicc. 4. 398. Di quella altra (cioè niuna) dichiarazione v. la pag. preced. di esso Guicc. Vilipeso per disprezzabile. Crusca. Dell’italianismo Gli occhi infra ’l mare sospinse (stando sul lido), cioè nel mare. Bocc. Novella di Mad. Beritola e dei cavriuoli. 30. nov. scelte, Ven. 1770. p. 68. Andava disposto di fargli vituperosamente morire . Bocc. loc. cit. p. 76. Trasandato per negligente, che trasanda. (8. Dic. Concezione di Maria V. Santiss. 1824.). Pseudo-Luciano nella fine del Philopatris . Altro per alcuna cosa o per nulla in senso di Diminutivi positivati. Diminutivi positivati. Sfondare-sfondolare coi derivati ec. (30. Dic. 1824.). Soverchiare, soperchiare, quasi Che gli uomini siano più inclinati al timore che alla speranza, o provino almeno assai più spesso quello che questa, si può anche dedurre dal considerar la grande abbondanza di parole che hanno le lingue (almeno quelle che io conosco, e in particolare il greco, il latino lo spagnuolo l’italiano e l’inglese) per esprimere il timore, il temere, lo intimorire, lo spaventoso, il timoroso, ec. e i suoi diversi gradi qualità ec. laddove esse lingue non hanno che una parola o al più due per esprimere la speranza, lo sperare ec. e queste stesse voci sono originariamente di significato comune anche al timore, perchè significano solo l’aspettazione del futuro, e però anche del male, in latino in greco, in italiano in ispagnuolo (anche nello spagnuolo moderno) e credo anche in francese e forse pure in inglese antico, del che ho detto altrove. (21. Gennaio. 1825.). Diminutivi positivati. Digiuna ( A proposito di quello che altrove ho detto (p. 4120-1.) della opinione avuta da tutti i secoli (e così dalle nazioni) anche i più barbari, di essere superiori in civiltà, in perfezione, anche in letteratura (benchè ignorantissimi), a tutti i secoli precedenti, e a ciascun d’essi, anche civilissimo e letteratissimo, vedi un bel luogo del Petrarca, citato e tradotto elegantemente da Perticari nel Trattato degli Scrittori del 300, lib. 1. capit. 16. p. 92. 93. (14. Feb. 1825.). Altro ridondante. Ricordano Malespini Cronica o Storia Fiorentina ed. Fir. 1816. di Vincenzio Follini, p. 219. nota 2. al capitolo 12. Ora incomincieremo a dire delle divisioni grandi le quali vennono in Roma tra il popolo minuto e gli ALTRI maggiori (cioè i grandi, i potenti, gli ottimati, i reggenti) di Roma . Appunto alla greca. (17. Feb. primo Giovedì di Quaresima 1825.). Anche i greci dissero (almeno in tempi alquanto bassi) Le prime sillabe di Trovasi nella storia commentizia d’Apollonio Discolo cap. 24. un tratto il quale fa credere che anche gli antichi conoscessero quella razza d’uomini detti mori bianchi, della quale v. Voltaire opere scelte, Londra (Venezia) 1760. in 3. tomi, tom.5, p. 113[a] . e Robertson Stor. d’Amer. Ven. 1794. tom. 2. p. 125. seg. e che questa razza si trovasse anche in Europa. Vi si cita Eudosso rodio. V. anche Plin. Buffon ec. se hanno cosa in proposito. (18. Feb. 1825.). Verbi attivi richiedenti l’accusativo, usati col genitivo al modo italiano, francese ec. (come mangiar del pane, prendere della tersa). V. Antigono Caristio. Hist. mirabil. c. 40. 41. 44. 56. fine. Nel detto Antigono c. 56. pare che si trovi Diminutivi positivati Mille-mila plur. da Altro ridondante. Ricordano Malispini Stor. Fior. Firenze 1816. c. 96. fine. Il Villani nel luogo parallelo lib.5. c. 33. omette altri. (3. Marzo. 1825.). Diminutivi positivati. Ferramenta, vasellamenta, e simili, da’ nomi in ento. Comandamenta. Dalla mia teoria del piacere séguita che l’uomo e il vivente anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha, cioè maggior piacere in infinito, e un infinitamente maggior piacere, perocchè egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere infinito. E che l’uomo in ciascuno istante della sua vita pensante e sentita desidera infinitamente di più o di meglio di ciò ch’egli ha. (12. Marzo. 1825.). Discordato per discordante, discorde. Cinta plurale di cinto. Ricordano Malespini c. 162. Circa l’origine, se non della religione (cioè dell’opinione della divinità), almeno del culto, dal timore v. nell’Abrégé de l’origine de tous les cultes, par Dupuis. Parigi 1821. chap. 4. p. 86-93. come quasi tutti i popoli avendo ammesso due principii, due generi di divinità, le une buone e benefiche, le altre cattive e malefiche, i più selvaggi riducevano o riducono del tutto o principalmente il loro culto alle seconde, ed alcuni anche le stimavano più potenti delle prime, laddove i più civilizzati, (come i Greci nella favola dei Giganti) hanno supposto il principio cattivo vinto e sottomesso dal buono. (19. Marzo. 1825. Festa di S. Giuseppe.). Improvviso per Gioia-gioiello, Sporgere — sportare. (23. Marzo. 1825.). Che Bollito per bollente. Fiorito per fiorente:
florido spagn. Particolare, Ciascun vizio per se senza altra cagione (cioè senza estrinseca cagione, senza cagione alcuna di fuori di lui). Casa Galat. c. 28. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 298. (29. Marzo. Martedì Santo. 1825.). Diminutivi positivati. Senza altro pane o biada per senza punto di pane o biada. G. Villani l. 7. c. 7. Del resto l’argomento di Volney vale egualmente contro quello che egli dice essere Del resto che il fine naturale dell’animale non sia la propria conservazione direttamente e immediatamente cioè per causa di se medesima, si è dimostrato nel Dial. di un Fisico e un Metafisico. L’uomo ama naturalmente e immediatamente solo il suo bene, e il suo maggior bene, e fugge naturalmente e immediatamente solo il suo male e il suo maggior male: cioè quello che per tale egli giudica. Se gli uomini preferiscono la vita a ogni cosa, e fuggono la morte sopra ogni cosa, ciò avviene solo perchè ed in quanto essi giudicano la vita essere il loro maggior bene (o in se, o in quanto senza la vita niun bene si può godere), e la morte essere il loro maggior male. Così l’amor della vita, lo studio della propria conservazione, l’odio e la fuga della morte, il timore di essa e dei pericoli d’incontrarla, non è nell’uomo l’effetto di una tendenza immediata della natura, ma di un raziocinio, di un giudizio formato da essi preliminarmente, sul quale si fondano questo amore e questa fuga; e quindi l’una e l’altra non hanno altro principio naturale e innato, se non l’amore del proprio bene il che viene a dire della propria felicità, e quindi del piacere, principio dal quale derivano similmente tutti gli altri affetti ed atti dell’uomo. (E quel che dico dell’uomo intendasi di tutti i viventi). Questo principio non è un’idea, esso è una tendenza, esso è innato. Quel giudizio è un’idea, per tanto non può essere innato. Bensì egli è universale, e gli uomini e gli animali lo fanno naturalmente, nel qual senso egli si può chiamar naturale. Ma ciò non prova che egli sia nè innato nè vero. P. e. l’uomo crede e giudica naturalmente che il sole vada da oriente a occidente, e che la terra non si muova: tutti i fanciulli, tutti gli uomini che veggano da prima il fenomeno del giorno e che vi pongano mente, (se non sono già preoccupati dalla istruzione) concepiscono questa idea, formano questo giudizio, ciò immantinente, ciò immancabilmente, ciò con loro piena certezza: questo giudizio è dunque naturale e universale, e pure non è nè innato (perocchè è posteriore alla esperienza dei sensi, e da essa deriva), nè vero, perocchè in fatti la cosa è al contrario. Così di mille altri errori e illusioni, mille falsi giudizi, in cose fisiche, e più in cose morali, naturali, universali, immancabilmente concepiti da tutti, e ciò con piena certezza di persuasione, e la cui naturalità e universalità non per tanto non prova per niente la loro verità nè il loro essere innati. Conchiudo che l’amore e studio della propria conservazione non è nell’uomo una qualità ec. immediata, ma derivante dall’amore della propria felicità (che è veramente immediato), e derivantene per mezzo di un’idea, di un giudizio (e questo falso), il quale mancando o cangiandosi, l’uomo manca dell’amore della propria conservazione, lo converte in odio della medesima, fugge la vita, segue la morte; il che egli non fa nè può fare mai, nè pure un momento, verso la sua propria felicità, ossia piacere, da un lato, e la sua propria infelicità dall’altro; nè anche quando egli sia pazzo e furioso; nel quale stato bene egli talvolta volontariamente si uccide, ma non lascia mai di amare sopra ogni cosa e proccurare altresì quello che egli giudica essere sua felicità, e sua maggiore felicità. (5-6. Aprile. 1825.). Sa-v-ona. Molti antichi, come G. Villani (per es. l. 7. c. 23.) Sa-ona, come Faenza anche oggi per Faventia, dicendosi però dal Guicc. e altri antichi Faventino per Faentino, del che altrove. (6. Aprile. 1825.). Diminutivi positivati. Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli animali. E questi soli sono infelici, ed è meglio per essi il non essere che l’essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e viceversa. La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l’ordine eterno del loro essere. Gli enti sensibili sono per natura enti Più tempo per del tempo, frase frequente presso i nostri (p. e. Ricordano, cap. 178. Villani l. 6. c. 88. principio) sì del 300, sì del 500. — Calza-calzetta, calzino. Bruzzo-bruzzolo. Filo-fila. Uova. Senza altra (cioè niuna) considerazione avere dei suoi meriti . Casa Galateo c. 14. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 261. fine. La società contiene ora più che mai facesse, semi di distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa veramente non ha fatto quasi altro, massime nella moltitudine, che insegnare e stabilire verità negative e non positive, cioè distruggere pregiudizi, insomma torre e non dare. Con che ella ha purificato gli animi, e ridottigli quanto alle cognizioni in uno stato simile al naturale, nel quale niuno o ben pochi esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come dunque può ella aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l’assenza di questo o di quell’errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l’esser purificato da un errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino non ha? Rispondo: l’uomo in natura non ha nemmeno società stretta. Quegli errori che non sono necessari all’uomo nello stato naturale, possono ben essergli necessari nello stato sociale; egli non gli aveva per natura; ciò non prova nulla; mille altre cose egli non aveva in natura, che gli sono necessarie per conservar lo stato sociale. Ritornare gli uomini alla condizione naturale in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso nella società, può non esser buono, può esser dannosissimo, perchè quella parte della condizione naturale può essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in natura quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch’elle sieno convenienti all’uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non naturali, ha distrutto l’amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi è nato, anzi rinato, uno universale egoismo. L’egoismo è naturale, proprio dell’uomo: tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono pretti egoisti. Ma l’egoismo è incompatibile colla società. Questo effettivo ritorno allo stato naturale per questa parte, è distruttivo dello stato sociale. Così dicasi della religione, così di mille altre cose. Conchiudo che la filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce gl’intelletti della moltitudine alla purità naturale, e l’uomo alla maniera naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è, dannosa e distruttiva della società, perchè quegli errori possono essere, ed effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società, la quale per l’addietro gli ha sempre avuti in un modo o nell’altro, e presso tutti i popoli; e perchè quella purità e quello stato naturale, ottimi in se, possono esser pessimi all’uomo, posta la società; e questa può non poter sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in fatti al presente. (18. Aprile 1825.). Alla p. 4134. Siccome la felicità non pare possa sussistere se non in esseri senzienti se medesimi, cioè viventi; e il sentimento di se medesimo non si può concepire senza amor proprio; e l’amor proprio necessariamente desidera un bene infinito; e questo non pare possa essere al mondo, resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere nè sia felice, che la felicità (la quale di natura sua non potrebb’essere altro che un bene ossia un piacere infinito) sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene a essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se medesimi importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. (3. Maggio. Festa della Invenzione della Santa Croce. 1825.). V. p. 4168. Una corona d’oro, che, secondo una tradizione degli Ungheri era discesa dal cielo, e che conferiva a chi la portava un diritto incontrastabile al trono. Robertson Stor. del regno dell’Imp. Carlo V. lib.10. traduz. ital. dal franc. Colonia 1788. t. 5. p. 440. Ecco pur finalmente il vero fondamento dei diritti al trono e della legittimità di tutti i Sovrani antichi e moderni. Esso consiste nella corona che portano. E chiunque la toglie loro e se la può mettere in capo, sottentra ipso facto nella pienezza dei loro diritti e legittimità. (3. Mag. 1825.). Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza e di senno, perchè molti sono sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto. Molti in una certa età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere. Le più terribili disgrazie gli affliggeranno, ma non gli potranno trarre una lagrima. Questa è cosa molto ordinaria. Tanta occasione ha l’uomo di farsi familiare il dolore. (12. Maggio 1825.). Ad ogni filosofo, ma più di tutto al metafisico è bisogno la solitudine. L’uomo speculativo e riflessivo, vivendo attualmente, o anche solendo vivere nel mondo, si gitta naturalmente a considerare e speculare sopra gli uomini nei loro rapporti scambievoli, e sopra se stesso nei suoi rapporti cogli uomini. Questo è il soggetto che lo interessa sopra ogni altro, e dal quale non sa staccare le sue riflessioni. Così egli viene naturalmente ad avere un campo molto ristretto, e viste in sostanza molto limitate, perchè alla fine che cosa è tutto il genere umano (considerato solo nei suoi rapporti con se stesso) appetto alla natura, e nella università delle cose? Quegli al contrario che ha l’abito della solitudine, pochissimo s’interessa, pochissimo è mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di se cogli uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario moltissimo l’interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono per lui il primo luogo, come per chi vive nel mondo i più interessanti e quasi soli interessanti rapporti sono quelli cogli uomini; l’interessa la speculazione e cognizion di se stesso come se stesso; degli uomini come parte dell’universo; della natura, del mondo, dell’esistenza, cose per lui (ed effettivamente) ben più gravi che i più profondi soggetti relativi alla società. E in somma si può dire che il filosofo e l’uomo riflessivo coll’abito della vita sociale non può quasi a meno di non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.) coll’abito della solitudine riesce necessariamente un metafisico. E se da prima egli era filosofo di società, da poi, contratto l’abito della solitudine, a lungo andare egli si volge insensibilmente alla metafisica e finalmente ne fa il principale oggetto dei suoi pensieri e il più favorito e grato. (12. Maggio. Festa dell’Ascensione. 1825.). Tetta, tettare ec. — Diminutivi positivati. Senz’altro (niun) fine . Casa Istruz. al Card. Caraffa. opp. t. 2. p. 4. lin.19. ed. Ven. 1752. Grado-gradino. Pisum-pisello. Struffo-strufolo ec. V. Crus. Monosillabi latini. Arrischiato ( Baldi Vita di Federigo di Montefeltro, Roma 1824. tom. 1. p. 89. princ.), arrisicato (Crus.) per che suole arrischiarsi, che si arrischia. Disonorato, Inonorato, Inhonoratus ec. per disonorevole. Stella quasi astella o astellum da Tanto è necessaria l’arte nel viver con gli uomini che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla seco loro con artificio. (Milano. 22. Sett. 1825.). Spasimato per spasimante. Crus. Entendu per intendente. Innamorato per che innamora. Petr. Son. Ma poi che ’l dolce riso. v. penult. e Canz. Poi che per mio destino, stanza 5. v. 9. Sì ch’io vo già della speranza altiero. Petr. Son. Quando fra l’altre dame. V. anche Sestina A qualunque animale, v. penult. e Canz. Sì è debile il filo, stanza 6. v. 2 e Canz. Lasso me, st. 4. v. 9. Gaio, gai franc. ec. — Miglio, Tra via, per in via. Petr. Son. A piè de’ colli. e altrove spessissimo fra via, e tra via, esso Petrarca, ed altri, prosatori e poeti. Poi per Se Dio facesse altro di me, vale, facesse alcuna cosa, nulla . Così, Machiavelli, Commedia in prosa senza titolo, opp. Italia 1819. vol. e 6.o at. 2. sc. 1. p. 328. Io guarderei molto ben chi egli fusse, prima ch’io facessi altro, cioè nulla, cioè cosa alcuna. Senza pensare altro, io mi avvierò là . ib. 2. 7. 337-8. E del vecchio eramo come certissimi che prestatomi indubitata fede, ne dovesse andar la senza pensare altro . Cioè nulla. 3. 1. 340. La padrona subito si spoglia, e senza pensare ad altro (a nulla) nel letto si corica . ib. 341. (Milano.). Dissimulato, Simulato, Dissimulé ec. per dissimulatore ec. V. Forcellini . Nel corso del sesto lustro l’uomo prova tra gli altri un cangiamento sensibile e doloroso nella sua vita, il quale è che laddove egli per lo passato era solito a trattare per lo più con uomini di età o maggiore o almeno uguale alla sua, e di rado con uomini più giovani di se, perchè i più giovani di lui non erano che fanciulli, allora spessissimo si trova a trattare con uomini più giovani, perchè egli ha già molti inferiori di età, che non sono però fanciulli, di modo che egli si trova quasi cangiato il mondo dattorno, e non senza sorpresa, se egli vi pensa, si avvede di essere riguardato da una gran parte dei suoi compagni come più provetto di loro, cosa tanto contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un certo tempo egli non si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi generalmente o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli soleva, e con verità, per l’addietro. (Bologna. 8. Ottobre. 1825.). Chi di noi sarebbe atto a immaginare, non che ad eseguire, il piano dell’universo, l’ordine, la concatenazione, l’artifizio, l’esattezza mirabile delle sue parti ec. ec.? Segno certo che l’universo è opera di un intelletto infinito. — Ma sapete voi che dalla estensione e forza dell’intelletto dell’uomo, a un’estensione e forza infinita ci corre uno spazio infinito? L’intelletto umano non è atto a immaginare un piano come quello dell’universo. Ma un intelletto mille volte più forte ed esteso dell’umano, potrà pure immaginarlo. Non vi pare che possa? Dite dunque un intelletto maggiore dell’umano un millone di volte, un bilione, un trilione, un trilione di trilioni. Non arriverete mai ad un intelletto infinito, e però mai ad un intelletto grande, se non relativamente (giacchè un intelletto anche un trilion di volte maggior del nostro, non sarebbe già un intelletto grande per se, ma solo relativamente al nostro, e sarebbe infinitamente minore di un intelletto infinito), e però mai ad un intelletto divino. Lo stesso dico della potenza. L’uomo non può fare il mondo. Non però il farlo richiede una potenza infinita, ma solo maggiore assai dell’umana. Deducendo dalla esistenza del mondo la infinità e quindi la divinità del suo creatore, voi mostrate supporre che il mondo sia infinito, e d’infinita perfezione, e che manifesti un’arte infinita, il che è falso, e se ciò è falso, niente d’infinito si dee attribuire all’autore della natura. V. p. 4177. Lascio anche stare le innumerabili imperfezioni che si ravvisano, non pur fisicamente, ma metafisicamente e logicamente parlando, nell’universo. Del resto quello che nella struttura ec. del mondo e delle sue parti, p. e. di un animale, a noi pare ammirabile, e di estrema difficoltà ad essere immaginato, non fu infatti niente difficile. Le cose sono come sono perchè così debbono essere, stante la natura loro assoluta, o quella delle forze e dei principii (qualunque essi sieno) che le hanno prodotte. Se questa natura fosse stata diversa, se le cose dovessero essere altrimenti, altrimenti sarebbero, nè però sarebbero men buone e men bene andrebbero (o vogliamo dir più cattive e camminerebbero peggio) di quel che fanno ora che sono così come noi le veggiamo. Anzi allora questo che noi chiamiamo ordine e che ci pare artifizio mirabile, sarebbe (e se noi lo potessimo concepire, ci parrebbe) disordine e inartifizio totale ed estremo. Niuno artifizio insomma è nella natura, perchè la natura stessa è cagione che le cose vadan bene essendo ordinate in un tal modo piuttosto che in un altro, e questo modo non è necessario assolutamente all’andar bene, ma solo relativamente al tale e non altrimenti essere della natura, la quale se altrimenti fosse, le cose non andrebbero bene, non potrebbero conservarsi ec., se non con altro modo ec. (Bologna. 8. Ottobre. 1825.).
Si sa quanto poco fossero considerate le donne presso i Greci e i Romani, e come il servirle e trattarle quasi superiori agli uomini, come si fa oggi, non avesse origine, secondo il Thomas (
Essai sur les femmes ), se non nei tempi cavallereschi dai costumi dei settentrionali conquistatori di Europa, i quali avevano un’antica loro superstizione che riguardava le donne come tante deità. Nondimeno pare che a tempo degl’Imperatori romani la condizione delle donne fosse già molto simile alla presente. Lascio le odi di Orazio e i libri di Ovidio, Tibullo, Properzio ec. Epitteto Enchirid. cap. 62. Somiglianza di costumi antichi e moderni, ovvero antichità di costumi che si credono moderni. — La lucerna di terra cotta (fittile) di cui si era servito Epitteto, fu venduta per 3000 dramme. V. p. 4166. fin. I ricchi Ateniesi per lusso usavano di tener servi negri. Teofrasto Caratteri cap. 21. Terenz. Eunuch. 1. 2. 85. Auctor ad Herenn. IV. 50. Visconti Museo Pio Clem. t. 3. fig. 35. rappresentante la statua di un Negro servente al bagno. Negli spettacoli antichi si gridava da capo ( Alla p. 4144. capoverso 1. In questo senso bisogna intendere quel luogo di Epitteto Enchirid. c. 24. E comandolle che senza altro (nulla) dire, per sua propria l’allevasse. Caro Gli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista, ragionamento primo, p. 6. ediz. di Crisopoli (Pisa) 1814. nel volume 2.do della Collezione degli Erotici greci tradotti in volgare. Ella è cosa forse o poco o nulla o non abbastanza osservata che la speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita, cioè dalla vita propriamente detta, come il pensiero, e come l’amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno ec. Disperazione, rigorosamente parlando, non si dà, ed è così impossibile a ogni vivente, come l’odio vero di se medesimo. Chi si uccide da se, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amor di se stesso. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza, atto che benchè si possa sempre distinguere logicamente, nondimeno in pratica è ordinariamente un tuttuno, quasi, coll’atto di desiderio, e la speranza una quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio. (Bologna. 18. Ottobre. 1825.). Diminutivi greci positivati. Il genitivo per l’accusativo. Teofrasto Caratteri, cap. 16. Vivuola-vivola viola: strumento musico, e fiore. Spagn. Trafelato per che trafela, trafelante. Scialacquato v. Crus. par. 1. e 2. Moscolo, muschio- Ogli si disse anticamente per occhi (come periglio da Ronzino, ronzone, probabilmente diminutivi positivati. Così sillon, sillonner ec. Voglioloso, vogliolosamente. Freddoloso. Strascinare — strascicare, strascico ec. Biasciare biascicare. Nota il Coray (
Notes sur les Caractères de Théophraste, ch. 26. note 9. à Paris 1799. p. 314.) che Soletto diminutivo positivato aggettivo, e così nell’antico francese, Coccola. Rastro-rastrello ec. Fraga-fragola. Cocuzzolo o cucuzzolo. Razzare-razzolare. Curata o corata coratella o curatella o coradella ec. V. la Crusca. Fiasco- Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che più non sente ec. (Bologna. 3. Nov. 1825.). Satollo diminutivo positivato aggettivo da Arrampicare, rampicare, arpicare (forse piuttosto da Variato o vaiato, svariato, disvariato, divariato per vario o vaio (Bologna. 4. Nov. 1825.) o svario, agg. Uva-ugola. Notisi, oltre alla positivazione del diminutivo il cambiamento del v in g. I nostri antichi dissero anche uvola. Rinfocolare. Razzare-Razzolare. Brancolare. Ruzzare ruzzolare. Anche i verbi desiderativi (o comunque li chiamino) si formano dai supini. Agiato, agiatamente, disagiato ec. Burchio-burchiello. Marco, marca-marchio; marcare marchiare. Sarda-sardella, e noi volgarmente sardone. Tratteggiare frequentativo. Atteggiare. Tasteggiare. Aleggiare. Adombrato neutro, per che adombra. V. la Crus. e anche aombrato. Trasognato per che trasogna. Ghignare, sghignare — ghignazzare, sghignazzare. Svolazzare. Ammalazzato. Strombazzare. Strida, grida, pera, mela plur. V. la Crus. Staia (sextaria). Scricchio-scricchiolo. Scricchiolare. Suggere-succhiare, succiare ec. Disgocciolare. Visco, viscoso, vesco, Prezzolare. Trombettare e strombettare, coi derivati. Sacrato per sacro, e così Al detto altrove di Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare. Più tempo per del tempo come più anni per parecchi anni (
Bozzo volg. — bozzolo; e bozzolo in altri significati, coi derivati. V. Crus. Una delle maggiori difficoltà ec. consiste nella soppressione delle vocali e nel non essersi scoperta sin ad ora la regola costante per poterle supplire , dice il Ciampi parlando della lingua etrusca in generale nell’ Antologia di Firenze N. 58. Ottobre 1825. p. 55. Quali regole sicure abbiamo, non per la lezione letterale ma per la grammaticale? (della scrittura etrusca). È certo che le vocali spesso son tralasciate; ma ciò facevasi egli a capriccio degli scarpellini, o per seguitare la pronunzia, ovvero per qualche regola stenografica od ortografica, come la scrittura massoretica degli Ebrei? Nulla ne sappiamo; e molto meno sappiamo in qual modo si abbiano da supplire. Ib. p. 57. Ciò serva per il mio discorso sopra la cagione della soppression delle vocali nelle scritture più antiche e più rozze e imperfette. (Bologna. 15. Nov. 1825.). In questo (in questa) in quello (in quella) ec. avverbi di tempo. — grec. Stobeo, sermone 7. Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far creder al mondo di esser già famoso. (Bologna. 21. Nov. 1825.). Analogo e confermativo di questo detto è quello di Labruyère, che più facile è far passare un’opera mediocre in grazia di una riputazione dell’autore già ottenuta e stabilita, che l’ottenere o stabilire una riputazione con un’opera eccellente. Stefano Bizantino in Eschine, Dialogo 3. Assioco, sezione 8. parlando dei mali della vita nelle diverse età: Rubacchiare. Scrivacchiare. Sforacchiare. Schiamazzare. Mormoracchiare. Crocire-crocitare. V. Forcellini . Sorbire sorsare. V. Crus. e Forc. e Gloss. Vagina-gUaina, eVaginare-sgUainare ec. Spagn. Sopracciglia. Freno-Frenello. V. Crusca. Plutarch. de Exil. t. 8. p. 383. ed. Reiske: (Taso era nome di un’isola aggiacente alla Tracia.) A questo frammento di Archiloco il Jacobs fa questa osservazione. Mercari, it. mercare-mercatare, (spagn. se non fallo, Sfallare, sfalsare, sfallire, aggiungansi al mio discorso sopra falsare ec. Calcagna. Frega-fregola. Dolore antico. Era frase usitata per esprimere le sventure ec. il dire che il tale giaceva in terra, cioè si voltolava tra la polvere, e Archiloco (ap. Stob., serm. 20.
Roma, la prima e più potente città che sia stata al mondo, è stata anche l’unica destinata e quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente, e non per conquista nè per alcuno accidente straordinario. Ciò negli antichi tempi, sotto gl’Impp. (Traiano, Massimino ec. ec.), e ciò di nuovo ne’ moderni sotto i Papi (moltissimi dei quali furono non italiani), e l’una e l’altra volta ciò passò in costumanza ed ordine fondamentale dello Stato, cioè che il Principe di Roma potesse essere non romano e non italiano. Così la prima città del mondo, e così l’Italia, prima provincia del mondo, pare per una strana contraddizione e capriccio della fortuna essere stata (nel tempo medesimo del maggior fiorire del suo impero, sì del temporale e sì dello spirituale) condannata a differenza di tutte le altre ad una legittima e pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista. (Bologna 1. Dec. 1825.). Onestato per onesto. Crus. Curato, curè ec. per che cura, participio sostantivato.
Eustathius Odyss. Perocchè (l’uomo) non era servo se non di Dio, il quale doveva amare con tutto il cuore, senza altro compagno. Cavalca Specchio di croce, capit. 4. verso il fine, ediz. di Brescia, 1822. p. 13. Uomo pesato cioè considerato ec. Crus. e v. la Crus. veron. in posato. Riposato, posato. V. la Crusca. Riserbato ib. Perversato per perverso. Spiare-spieggiare. Sortire-sorteggiare. Stormeggiare, stormeggiata. Divenire-diventare (da Fa v ola-fa o la-fola. Invaghire-invaghicchiare. Notasi che gli antichi greci diedero spesso il nome di Tiglio- Selva per albero cioè per lauro. Petr. Sestina 1. stanza 6. E per legno, ib. chiusa. Sentimenta. Siccome ad essere vero e grande filosofo si richiedono i naturali doni di grande immaginativa e gran sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la più antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all’uso della filosofia nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure, fredde e antifilosofiche teste sono di natura le più disposte all’esercizio pratico della filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso pei suoi tempi quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per natura alla pratica della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle dottrine più illusorie, di quelle dell’entusiasmo ec.? E infatti chi meno filosofo di lui nella pratica, e nell’effetto che gli accidenti della vita producevano nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi spensierati e imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella pratica sono il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica? Veramente, siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla filosofia teorica, sono i più filosofi nell’effetto. E si potrebbe anzi dire che la mira, l’intenzione e la somma della filosofia teorica e de’ suoi precetti ec. non consiste effettivamente in altro che nel proposito di rendere la vita e il carattere di quelli che la posseggono, conforme a quello di coloro che non ne sono capaci per natura. Effetto che ella difficilmente ottiene. (Bologna. 20. Dic. 1825.). Gradito, aggradito ec. per gradevole, grato. (25. Dic. dì del S. Natale. 1825.). Favorito per favorevole. V. le Giunte Veron. alla Crus. in Favoritissimo, e la Crus. in Favorato per prospero. Scaltrito da scaltrire per scaltro. Scalterito; scalteritamente o scaltritamente per scaltramente ec. Degnò mostrar del suo lavoro in terra. Petr. Canz. Gentil mia donna, l’veggio, stanza 2. v. 3. (27. Dic. Festa di S. Giovanni Evangelista. 1825. Bologna.). Demetrio Al detto di Onde per dove, Così avestu riposti De’ bei vestigi sparsi. Petr. Canz. Se ’l pensier che mi strugge. Stanz. 5. v. 7. 8. Smoccare (Crus. Veron.) — Smoccolare, coi derivati. Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere. (Bologna. 17. Gen. 1826.). Torso-torsolo. Bitorzo-bitorsolo, bitortolato, bitortoluto. Incrociare-incrocicchiare ec. Segnalato, Affettato, Alla p. 4162. capoverso 5. Gli spagnuoli dicono Il genitivo per l’accusativo Epitteto cap. 70. Spessissimo noi, come un malato, un convalescente, che si cura, un povero che si procaccia il vitto con gran fatica, usando una infinita pazienza per solo conservarci la vita, non facciamo altro che patire infinitamente per conservarci, per non perdere, la facoltà di patire, ed esercitar la pazienza per preservarci il potere di esercitarla, per continuarla ad esercitare. (Bologna. 4. Feb. 1826.). Alla p. 4163. capoverso 5. Analogo è questo luogo del medesimo Teone, Exempl. progymnasm. chria 1. p. 116. Affidato, sfidato per che si affida o sconfida ec. Confiado, desconfiado ec. Malinteso per male, cioè poco, intendente. V. i franc. ec. Sperimentato, Risentire-risensare. V. Crusca. Alla p. 4164. capoverso penult. Così anche Loc. commun. 1. p. 172. lin. 2. Sbadato coi derivati per che non bada, non suol badare. Accorto, avveduto, malaccorto, malavveduto, inaccorto ec. disavveduto. Saporito per saporoso. Mulina plur. V. le Giunte Veronesi alla Crusca. Le fata, le fondamenta, le pera ec. le prestigia. V. Monti Proposta, in questa voce. Le uova. (
Diminutivi positivati. Chiovo-chiovello coi derivati, chiavo-chiavello coi derivati, chiavare-chiavellare ec. Ratto per rapido è il lat. Vinco-vinciglio. Avvincere — avvinchiare, avvinghiare, avvincigliare. Alla p. 4164. capoverso ult. Non solo noi (Tanto è lungi che ec.) non possiamo sapere nè anche sufficientemente congetturare tutto quello di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana in universale, ma eziandio di un solo individuo, o passato o presente o futuro, noi non possiamo sapere esattamente nè congetturare quanta estensione, in circostanze appropriate, avessero potuto o pur potranno acquistare le sue facoltà. (Bologna. 21. Feb. 1826.). Scempio-scempiato, coi derivati. Diminutivi greci positivati. Alla p. 4164. capoverso penult. Così in Proposito p. 221. lin. 4 a fin. e 225. lin. 3. Ventolare att. e neutro. Sventolare. Bezzicare. Bazzicare. Altro per alcuno, niuno. V. Crus. in Fare contrappunto. Conto, sincope di Fondamenta. Concordato per concorde, o concordante, coi derivati. Accordato, discordato, scordato per che scorda, scordante. V. Crus. Riguardato per che ha riguardo. Frettoloso. Freddoloso. Tigna, tinea-tignuola. Aranea-araneola ec. Alla p. 4145. lin.1. Ciò è riferito da Luciano Senza altrimenti (cioè punto, in niun modo) ordinare sua famiglia. Vit. SS. PP. nelle Giunte Veronesi v. In trasatto. Cutretta-cutrettola. Costa lat. e ital. costola. Ragnolo, ragnuolo. Alla p. 4164. capoverso 9. Così Sbevazzare. Fare con accusativo di tempo, per passare, vedi la Crusca. — Schol. Euripid. ad Hippolyt. v. 35. Serpere lat. e ital. — serpeggiare. Pasteggiare cioè far pasti ec. Riferisce Cicerone de Divinat. un detto di Catone che egli si maravigliava come l’uno aruspice scontrandosi coll’altro si tenesse dal ridere. Applichisi questo detto ai Principi nei loro congressi, e massimamente in quelli degli ultimi tempi. (Bologna. 6. Marzo. 1826.). Scappare-scapolare. Molti divengono insensibili alle lodi, e restano però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che essi perdono assai più tardi o non mai. E ben più difficilmente si perde questa sensibilità che quella. Certamente poi niuno si trova che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile ai biasimi, alle censure, alle male voci o calunnie, ai motteggi; bensì viceversa si trovano molti. Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la facoltà di provar piacere è nell’uomo più caduca e più limitata che quella di sentir dispiacere. (Bologna. 9. Marzo. 1826.). Pece-pegola, impegolare ec. Maledetto, esecrato, odiato, abbominato, abborrito ec. per degno di maledizione ec., o che suole essere maledetto ec. e V. Forcell. E per contrario amato, desiderato, sospirato ec. Alla p. 4137. L’uomo tende ad un fine principale e unico. Ogni suo atto volontario o di pensiero o d’opera è indirizzato a questo fine. Questo fine è dunque il suo sommo bene. E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui tutti i filosofi sono d’accordo, antichi e moderni. Ma che è, ed in che consiste, e di che natura è la felicità conveniente e propria alla natura dell’uomo, desiderata sommamente e supremamente, anzi per verità unicamente, dall’uomo, cercata e procacciata continuamente dall’uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo bene dell’uomo, il fine dell’uomo? Qui non v’è setta, non v’è filosofo, nè tra gli antichi nè tra i moderni, che non discordi dagli altri. Sonovi alcuni che si maravigliano di tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta loro concordia nel rimanente. Ma che maraviglia? Come trovare, come determinare, quello che non esiste, che non ha natura nè essenza alcuna, ch’è un ente di ragione? Il fine dell’uomo, il sommo suo bene, la sua felicità, non esistono. Ed egli cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose, ma le cerca senza sapere di che natura sieno, in che consistano, nè mai lo saprà, perchè infatti queste cose non esistono, benchè per natura dell’uomo sieno il necessario fine dell’uomo. Ecco spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il sommo bene è voluto, desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi unicamente, dall’uomo; ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai saputo nè mai saprà che cosa esso sia (le dette controversie medesime ne sono prova); e ciò perchè il suo sommo bene non esiste in niun modo. Il fine della natura dell’uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine cercato dalla natura dell’uomo. Questo fine non esiste in natura, e non può esistere per natura. E questo discorso debbe estendersi al sommo bene di tutti gli animali e viventi. (11. Marzo. Vigil. della Domenica di Passione. 1826. Bologna.). L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. — Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, nè il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l’esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione nè la felicità degl’individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, nè per gl’individui nè per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta di sopra. (Bologna 11. Marzo. 1826.). Negletto, Puretto diminutivo positivato, aggettivo per puro, come pretto. V. Crusca. Inconcusso per inconcutibile. V. Forc. ec. Poco restò per poco mancò o manca ec. V. Monti Proposta , in Restare. Corona-corolla, lat. diminut. come da asinus, asellus, ec. Abbreviato per breve. Febbricare o febricare per febricitare. V. Crus. in febbricare, febbricante, febricante ec. Sembra esser la radice di febricito. V. Forc. Per poco è o fu ec. che non. V. Dante Inf. c. 30. Rocco-Rocchetto. V. Monti Proposta , v. Rocco. Pelliccia da Infamato per infame. Crus. Incolpato per incolpabile o per colpevole ec. V. Crus. e Monti Proposta v. Incolpato, e nella Bibliot. ital. Dial. di Matteo, Taddeo ec. Temuto, Alla p. 4145. lin. 4. La civiltà moderna non deve esser considerata come una semplice continuazione dell’antica, come un progresso della medesima. Questo è il punto di vista sotto cui e gli scrittori e gli uomini generalmente la sogliono riguardare; e da ciò segue che si considera la civiltà degli Ateniesi e dei Romani nei loro più floridi tempi, come incompleta, e per ogni sua parte inferiore alla nostra. Ma qualunque sia la filiazione che, istoricamente parlando, abbia la civiltà moderna verso l’antica, e l’influenza esercitata da questa sopra quella, massime nel suo nascimento e nei suoi primi sviluppi; logicamente parlando però, queste due civiltà, avendo essenziali differenze tra loro, sono, e debbono essere considerate come due civiltà diverse, o vogliamo dire due diverse e distinte specie di civiltà, ambedue realmente complete in se stesse. Sotto questo punto di vista, diviene più che mai utile e interessante il parallelo tra l’una e l’altra. E veramente l’uomo e le nazioni sono capaci, come di stato selvaggio, di barbarie, di civiltà, tutti stati ben distinti tra loro per genere, così di diverse specie di civiltà, distinte non solo per semplici Colpire-colpeggiare. Eruca-ruchetta, Attorcere — attorcigliare, attortigliare, intorticciato. Squartare- Corata-coratella, curatella, coradella ec. Grattare-grattugiare. Sciorinare verbo diminut. V. Monti Proposta. Macinare, macerare, macina-maciullare, maciulla. Spilluzzicare (da spelare). Sarmata, stando all’etimologia del nome, significa carrettiere da Piaggia, spiaggia, diminutivi positivati di plaga, da plagula, come nebbia da nebula, ec. ec. Elevato, sollevato, per alto. V. Crus. in Elevatissimo e Sollevatissimo. A voler che uno possa esser buon comico o buon satirico, è di tutta necessità che questo tale sia, o sia stato degno di satira e di commedia, e ciò per non poco tempo, e in quelle cose medesime che egli ha da porre in riso. (Bologna. Domenica in Albis. 2. Aprile. 1826.). Sappiamo da Plinio che chiamavansi Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla. Questo sistema, benchè urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità? Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec. Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi. Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di Il piacere delle odi di Anacreonte è tanto fuggitivo, e così ribelle ad ogni analisi, che per gustarlo, bisogna espressamente leggerle con una certa rapidità, e con poca o ben leggera attenzione. Chi le legge posatamente, chi si ferma sulle parti, chi esamina, chi attende, non vede nessuna bellezza, non sente nessun piacere. La bellezza non istà che nel tutto, sì fattamente che ella non è nelle parti per modo alcuno. Il piacere non risulta che dall’insieme, dall’impressione improvvisa e indefinibile dell’intero. (Bologna. 22. Aprile. 1826.). Poi che s’accorse chiusa dalla spera Dell’amico più bello. Petrar. Son. 79. della I. Parte: In mezzo di duo amanti onesta, altera. Grecismo manifesto. Notisi che il Petrarca non sapeva il greco. Alla p. 4142. Niente infatti nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. Noi abbiam veduto delle cose inconcepibilmente maggiori di noi, del nostro mondo ec., delle forze inconcepibilmente maggiori delle nostre, dei mondi maggiori del nostro ec. Ciò non vuol dire che esse sieno grandi, ma che noi siamo minimi a rispetto loro. Or quelle grandezze (sia d’intelligenza, sia di forza, sia d’estensione ec.) che noi non possiamo concepire, noi le abbiam credute infinite; quello che era incomparabilmente maggior di noi e delle cose nostre che sono minime, noi l’abbiam creduto infinito; quasi che al di sopra di noi non vi sia che l’infinito, questo solo non possa esser abbracciato dalla nostra concettiva, questo solo possa essere maggior di noi. Ma l’infinito è un’idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppur per analogia, e possiam dire di essere a un’infinita distanza dalla cognizione e dalla dimostrazione di tale esistenza: si potrebbe anche disputare non poco se l’infinito sia possibile (cosa che alcuni moderni hanno ben negato), e se questa idea, figlia della nostra immaginazione, non sia contraddittoria in se stessa, cioè falsa in metafisica. Certo secondo le leggi dell’esistenza che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che noi conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, l’infinito cioè una cosa senza limiti, non può esistere, non sarebbe cosa ec. (Bologna 1. Maggio. Festa dei SS. Filippo e Giacomo. 1826.). Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esserlo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti. (2. Maggio 1826.). V. p. 4181. e p. 4274. capoverso ult. Tetta-teton (come da mamma, mammella ec.). Fammi sentir di quell’aura gentile. Petr. Canz. Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo antico. v. 31. cioè stanza 3. v. 1. Il genitivo per l’accusativo. V. ancora Canz. Quando il soave, stanza 4. v. 4 e Son. S’io fossi, v. ult. (3. Maggio. Festa della S. Croce. Vigilia dell’Ascensione. Bolog. 1826.). Scorto per accorto, da scorgere per vedere ec. ovvero da scorgere per guidare, avvisare ec. come Già è gran tempo che nè i principi nominano, nè ai principi si nomina, sia lodandoli, sia consigliandoli, sia in qualsivoglia discorso, la loro patria. È gran tempo che le città e le nazioni hanno cessato di esser le patrie dei principi. Esse sono i loro stati, o nativi o no che i principi sieno. Ciò è tanto vero che anche in Inghilterra, anche in Francia, dove, ed esiste una patria, ed i principi, vogliano o non vogliano, sono per li sudditi, e non i sudditi pel principe, pure nè essi nè altri parlando o scrivendo ad essi (e di raro anche, di essi), chiamano o l’Inghilterra o la Francia, loro patria. Si crederebbe abbassarli, offenderli, se si pronunziasse loro questo nome che mostra di avere una certa superiorità sopra di essi. I principi già da gran tempo si stimano, e da molti sono stimati essere, la patria essi medesimi. Distinguendoli dalla patria, si crederebbe oltraggiarli. Non così gli antichi. I Neroni e i Domiziani con nome falso, e di più superbo, ma che pur conservava l’idea della patria, s’intitolavano P. P. Del digamma eolico vedi Casaubon. animadv. in Athenae. lib.2. cap. 16. Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione rassegnata. (Bologna. 3. Giugno. 1826.). Che guadagno fa l’uomo perfezionandosi? Incorrere ogni giorno in nuovi patimenti (i bisogni non sono per lo più altro che patimenti) che prima non aveva, e poi trovarvi il rimedio, il quale senza il perfezionamento dell’uomo non saria stato necessario nè utile, perchè quei patimenti non avrebbero avuto luogo. Proccurarsi nuovi piaceri, forse più vivi che i naturali, non però altrettanto 1. comuni, 2. durevoli, 3. facili ad acquistarsi, anzi i più, difficilissimi, perchè, se non altro, esigono una studiatissima educazione, e una lunga formazione dell’animo, e per ciò stesso non possono esser comuni a tutti, anzi ristretti a certe classi solamente, ed alcuni a certi individui. Nel tempo stesso distruggere in se la facoltà di provare, almeno durevolmente, i piaceri naturali. Lo stato naturale dell’uomo ha veramente dei piaceri, facili, comuni a tutti, durevoli, che non sono men veri perciò che noi non li possiamo più sentire, e però non concepiamo come sieno piaceri. Il solo stato di quiete e d’inazione sì frequente e lungo nel selvaggio (insopportabile al civile) è certamente un piacere, non vivo, ma atto e sufficiente a riempiere una grande e forse massima parte della vita del selvaggio. Vedesi ciò anche negli altri animali. Vedesi (tra i domestici, e più a portata della nostra osservazione) nei cani, che se non sono turbati o forzati a muoversi, passano volentierissimo le ore intiere, sdraiati con gran placidezza e serenità di atti e di viso, sulle loro zampe. (Bologna. 3. Giugno. 1826.). Moltissimi patimenti poi, massime morali, che senza la civilizzazione non avrebbero luogo, quantunque abbiano il loro rimedio, proccurato dalla stessa civilizzazione, p. e. la filosofia pratica, è ben noto che sono senza comparazione più facili, più frequenti, più comuni essi, che l’applicazione effettiva e l’uso efficace di tali rimedi. (Bologna. 3. Giugno. 1826.). Alla p. 4178. fine. L’ipotesi dell’eternità della materia non sarebbe un’obbiezione a queste proposizioni. L’eternità, il tempo, cose sulle quali tanto disputarono gli antichi, non sono, come hanno osservato i metafisici moderni, non altrimenti che lo spazio, altro che un’espressione di una nostra idea, relativa al modo di essere delle cose, e non già cose nè enti, come parvero stimare gli antichi, anzi i filosofi fino ai nostri giorni. La materia sarebbe eterna, e nulla perciò vi sarebbe d’infinito. Ciò non vorrebbe dire altro, se non che la materia, cosa finita, non avrebbe mai cominciato ad essere, nè mai lascerebbe di essere; che il finito è sempre stato e sempre sarà. Qui non vi avrebbe d’infinito che il tempo, il quale non è cosa alcuna, è nulla, e però la infinità del tempo non proverebbe nè l’esistenza nè la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del nulla, infinità che non esiste nè può esistere se non nella immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria ed inseparabile dalla idea o dalla parola nulla, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua. (Bologna. 4. Giugno. 1826. Domenica.). Litterato per letterario. Petr. Tr. della Fama, cap. 3. v. 102. V. Crusca. Tasso opp. ed. del Mauro, tom.4. p. 304. t. 10. p. 297. t. 9. p. 419. Oreglia, origliare, origliere, per orecchia, orecchiare, orecchiere. Fallir la promessa . Petr. Tr. d. Divinità. v. 4-5. Senz’altra pompa , per senza niuna. ib. V. 120. V. anche Son. Il successor di Carlo, v. 7. e Canz. Una donna più bella, st. 3. v. 12. Mantua, Genua, Mantuanus ec. — Mantova, Genova, ec. Vergheggiare. V. Crus. Vagheggiare. Burchiellesco. Genere burchiellesco, Frottole, in uso anche tra i greci. Demetr. de elocut., sect. 153. Esempio curioso di costanza spartana mista di Il mangiar soli, La barbarie suppone un principio di civiltà, una civiltà incoata, imperfetta; anzi l’include. Lo stato selvaggio puro, non è punto barbaro. Le tribù selvagge d’America che si distruggono scambievolmente con guerre micidiali, e si spengono altresì da se medesime a forza di ebrietà, non fanno questo perchè sono selvagge, ma perchè hanno un principio di civiltà, una civiltà imperfettissima e rozzissima; perchè sono incominciate ad incivilire, insomma perchè sono barbare. Lo stato naturale non insegna questo, e non è il loro. I loro mali provengono da un principio di civiltà. Niente di peggio certamente, che una civiltà o incoata, o più che matura, degenerata, corrotta. L’una e l’altra sono stati barbari, ma nè l’una nè l’altra sono stato selvaggio puro e propriamente detto. (Bologna. 7. Luglio. 1826.). Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l’inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll’esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l’una che l’altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl’individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell’animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl’individui che nei popoli, l’impedirne il progresso. Gl’individui e le nazioni d’Europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l’animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio è impossibile. Intanto dallo sviluppo e dalla vita del loro animo, segue una maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell’animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall’equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l’uomo è incivilito. — Questo delle nazioni. Degl’individui similmente. P. e. il più felice italiano è quello che per natura e per abito è più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l’animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua sensibilità. — Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all’attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati, gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l’animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile per la felicità umana. (Bologna 13. Luglio 1826.). Tabacco. Sua utilità. Suoi piaceri: più innocenti di tutti gli altri al corpo e all’animo; meno vergognosi a confessarsi, immuni dal lato dell’opinione; più facili a conseguirsi, di poco prezzo e adattati a tutte le fortune; più durevoli, più replicabili. (Bologna 13. Lug. 1826.). Smiris — smeriglio. Lampare-lampeggiare. Volgere-voltare-volteggiare, voltiger. Avvolticchiare. Smiracchiare. V. Monti Proposta p. XXXIV. v. not. Malastroso , cioè infelice, per ribaldo. V. Monti Proposta t. 6. p. XLIX. not. Caro Eneide l. 4. v. 452. E più non disse, Nè più (nè altra, cioè nè alcuna) risposta attese; anzi dicendo, Uscìo d’umana forma e dileguossi. (Bologna. 15. Luglio. 1826.). V. Sclamare-schiamazzare. E ciò che forse potrebbe sorprendere si è che l’insalubrità dell’aria è quasi sempre sicuro indizio di straordinaria fertilità del suolo. Gioia, Filosofia della statistica, Milano 1826. tom.1. ap. l’Antologia di Fir. Giugno 1826. N. 66. p. 84. Narra (il Gioia) dell’Harmattan, vento soffiante sopra una parte della costa d’Affrica fra il capo Verde e il capo Lopez, pestifero a’ vegetabili e saluberrimo agli animali. Quelli che sono travagliati dal flusso di ventre, dalle febbri intermittenti, guariscono al soffio dell’Harmattan. Quelli le cui forze furono esauste da eccessive cavate di sangue, ricuperano le loro forze a dispetto e con grande sorpresa del medico. Questo vento discaccia le epidemie, fa sparire il vaiuolo affatto, e non si riesce a comunicarne il contagio neanche col soccorso dell’arte. Tanto è vero che ciò che nuoce alla vita vegetativa è utilissimo alla vita animale, ed all’opposto. ( Journal des voyages t. 19, p. 111.) Ivi, p. 85. Questa opposizione tra due regni così analoghi, così vicini, anzi prossimi, nell’ordine naturale; e così necessarii reciprocamente; così inevitabilmente, per dir così, conviventi; è una nuova prova della somma provvidenza, bontà, benevolenza della Natura verso i suoi parti. (28. Luglio. 1826. Bologna.). Nominiamo francamente tutto giorno le leggi della natura (anche per rigettare come impossibile questo o quel fatto) quasi che noi conoscessimo della natura altro che fatti, e pochi fatti. Le pretese leggi della natura non sono altro che i fatti che noi conosciamo. — Oggi, con molta ragione, i veri filosofi, all’udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità. Così accade p. e. nel Mesmerismo, che tempo addietro, ogni filosofo avrebbe rigettato come assurdo, senz’altro esame, come contrario alle leggi della natura. Oggi si sa abbastanza generalmente che le leggi della natura non si sanno. Tanto è vero che il progresso dello spirito umano consiste, o certo ha consistito finora, non nell’imparare ma nel disimparare principalmente, nel conoscere sempre più di non conoscere, nell’avvedersi di saper sempre meno, nel diminuire il numero delle cognizioni, ristringere l’ampiezza della scienza umana. Questo è veramente lo spirito e la sostanza principale dei nostri progressi dal 1700 in qua, benchè non tutti, anzi non molti, se ne avveggano. (Bologna. 28. Luglio. 1826.). Smerletto, diminutivo positivato di smerlo o forse di merlo. Folgore da S. Geminiano, Corona 1. di Sonetti, Sonetto di Settembre, v. 2. nei Poeti del primo secolo della lingua italiana, Firenze 1816. ap. il Monti, Proposta, vol. ult. p. CXCIX. (Bologna 31. Luglio. 1826.). Concordanza delle antiche filosofie pratiche (anche discordi) nella mia; p. e. della Socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ec. (Bologna 1. Agosto, Giorno del Perdono. 1826.). Le destina, plur. V. Monti Proposta vol. ult. p. CCXIV. col. 2. lin. 3. Alla p. 4164. capoverso 3. Luogo notabile di Fazio degli Uberti presso il Monti loc. cit. qui sopra, p. CCXVII. col. 2. lin. 6. Che mi vendrei se fosse chi comprare , cioè chi mi comperasse. Parla Roma, che riferisce il detto di Giugurta sopra di lei:
Altro è che una lingua sia pieghevole, adattabile, duttile; altro ch’ella sia molle come una pasta. Quello è un pregio, questo non può essere senza informità, voglio dire, senza che la lingua manchi di una forma e di un carattere determinato, di compimento, di perfezione. Questa informe mollezza pare che si debba necessariamente attribuire alla presente lingua tedesca, se è vero, come per modo di elogio predicano gli alemanni, che ella possa nelle traduzioni prendere tutte le possibili forme delle lingue e degli autori i più disparati tra se, senza ricevere alcuna violenza. Ciò vuol dire ch’ella è una pasta informe e senza consistenza alcuna; per conseguente, priva di tutte le bellezze e di tutti i pregi che risultano dalla determinata proprietà, e dall’indole e forma compiuta, naturale, nativa, caratteristica di una lingua. La pieghevolezza, la duttilità, la elasticità (per così dire), non escludono nè la forma determinata e compiuta nè la consistenza; ma certo non ammettono i vantati miracoli delle traduzioni tedesche. La lingua italiana possiede questa pieghevolezza in sommo grado fra le moderne colte. La greca non possedeva quella vantata facoltà della tedesca. (Bologna 26. Agosto. 1826.). Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci d’altronde di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perchè il suo amor proprio non cesserà, e perchè quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice, (30. Agosto. 1826. Bologna.) nè in questo mondo, nè in un altro. Il detto del Bayle, che la ragione è piuttosto uno strumento di distruzione che di costruzione, si applica molto bene, anzi ritorna a quello che mi par di avere osservato altrove, che il progresso dello spirito umano dal risorgimento in poi, e massime in questi ultimi tempi, è consistito, e consiste tutto giorno principalmente, non nella scoperta di verità positive, ma negative in sostanza; ossia, in altri termini, nel conoscere la falsità di quello che per lo passato, da più o men tempo addietro, si era tenuto per fermo, ovvero l’ignoranza di quello che si era creduto conoscere: benchè del resto, faute de bien observer ou raisonner, molte di siffatte scoperte negative, si abbiano per positive. E che gli antichi, in metafisica e in morale principalmente, ed anche in politica (uno de’ cui più veri principii è quello di lasciar fare più che si può, libertà più che si può), erano o al pari, o più avanzati di noi, unicamente perchè ed in quanto anteriori alle pretese scoperte e cognizioni di verità positive, alle quali noi lentamente e a gran fatica, siamo venuti e veniamo di continuo rinunziando, e scoprendone, conoscendone la falsità, e persuadendocene, e promulgando tali nuove scoperte e popolarizzandole. (Bologna 1. Settembre. 1826.). Alla p. 4153. Questo passo di Agatarchide è un nuovo esempio di quello che la critica osserva o deve osservar nella storia, cioè che spessissimo la storia d’una nazione s’è appropriata i fatti, veri o finti, narrati dagli storici di un’altra. Tale è ancor quello di Suetonio, Octav. Caes. Augustus, cap. 94. La condotta di Tiberio nell’impero, da principio non pur affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che Dove parlo di Gerere-belligerare, morigerare, Alla p. 4193.
Diminutivi positivati aggettivi. Alla p. 4194 — il quale frattanto attribuisce anch’esso a politica e simulazione la sua moderazione nel principio del suo governo (cap. 57.). Alla p. 4195. Teodoro Gadareno, suo maestro di rettorica in fanciullezza, Che gli uomini abbiano trovate e pongano in opera delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il resto della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che abbiano trovato ed usino arti e regole per combattere e vincere gli uomini stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti ugualmente le apprendano ed usino, o le possano apprendere e usare, questo ha dell’assurdo; perchè se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la loro arte a ciascuno de’ due? che superiorità ne riceve l’uno sopra l’altro? non sarebbe per ambedue lo stesso, che ambedue fossero ignoranti della scherma, o che tutti e due combattessero alla naturale? V. p. 4214. Un libro, una scoperta di Tattica o di strategica o di poliorcetica ec. pubblicata ed esposta all’uso comune, a che giova? se l’amico e il nemico l’apprendono del pari, ambedue con più arte e più fatica di prima, si trovano nella stessissima condizione rispettiva di prima. Il coltivare queste tali arti, o scienze che si vogliano dire, il proccurarne l’incremento, e molto più il diffonderne la coltura e la conoscenza, è la più inutile e strana cosa che si possa fare; è propriamente il metodo di ottener con fatica e spesa quello che si può ottenere senza fatica nè spesa; di eseguire artificialmente e di render necessaria l’arte laddove la natura bastava, e laddove col metodo artificiale non si ottiene il menomo vantaggio sopra il naturale. Insomma è il metodo di moltiplicare e complicar le ruote e le molle di un orologio, e di far con più quel medesimo che si poteva fare e già si faceva con meno. Il simile dico della politica, del macchiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e superchiare i nostri simili. (Bologna. 10. Sett. 1826.). Se una volta in processo di tempo l’invenzione p. e. dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto poca utilità), piglierà più consistenza ed estensione, diverrà di uso più sicuro, più considerabile e più generale; se i palloni aereostatici, e l’aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l’uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare e sopportar la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare e comunicar coi lontani essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l’uso dei telegrafi ec., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro incertezza ec. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l’uso del fuoco, della navigazione ec. ec. quegli uomini che noi, specialmente in questo secolo, con magnifiche dicerie rettoriche predichiamo come esposti a continui pericoli, continui ed immensi disagi, bestie feroci, intemperie, fame, sete; come continuamente palpitanti e tremanti dalla paura, e tra perpetui patimenti ec. E credete a me che la considerazione detta di sopra è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione. (Bologna. 10. Settembre. Domenica. 1826.). Paragrandini, parafulmini ec. Fozio, Biblioteca, cod. 72. analizzando Inesorato ec. per inesorabile. Il genitivo per l’accusativo. Petr. Sestina 6. Anzi tre dì, v. 3. Di state vi sono DE’ papaveri, DELLE pere e DI quante mele si trovano (genitivo pel nominativo). Caro, Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, lib. 2. non lungi dal principio, p. 8. ediz. di Pisa 1814. Presentando loro per primizia della vendemmia a ciascuna statua il suo tralcio con DI molti grappoli e con DE’ pampini suvvi . (genitivo per l’ablativo). ib. p. 27. E così assai spesso il medesimo ed altri classici. V. p. 4214. È stato negli eserciti e provveduto capitano e coraggioso guerriero. ib. p. 41.
Riavere per ricreare, ristorare, fare riavere. Vedi Crus. par. 1. Caro l. c. lib. 2. p. 38. poichè col cibo l’ebbe alquanto confortato, con saporitissimi baci ed altre dolcissime accoglienze tutto lo riebbe. Cioè lo ristorò, non come dice il Monti nella Proposta, lo fece tornare nei sensi, chè Dafni non era punto venuto meno, ma percosso, battuto e malconcio da alcuni giovani. — Similmente dicono i greci [4201 - 4400]
Volere per Incespitare per incespicare di cui altrove. Caro loc. sup. cit. lib. 2. p. 48. fin. Risicato per che si arrischia, che si suole arrischiare. Caro. ib. l. 3. p. 53. 59. Arreticato ( Insertare ghirlande. Caro. ib. l. 1. p. 25.a ed ult. Con le foglie tessute e consertate in modo che facevano come una grotta. ib. l. 3. p. 53. I rami si toccavano e s’inframmettevano insieme insertando le chiome. lib. 4. principio. p. 77. Grufare, grufolare. Caro l. c. lib. 4. p. 80. Mele appie — Mele appiole, o appiuole. Diminutivo aggettivo. V. Crus. in Mela, Appio, Appiola. Mele appiole , Caro l. c. lib.1. p. 20. mele appiuole , l. 3. fin. p. 74. Spesse volte in occasioni di miei dispiaceri, anche grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non affliggermi di questa cosa? E l’esperienza avutane già più volte, mi sforzava a risponder di sì, che io poteva. Ma il non affliggersene sarebbe contro ragione: non vedi tu il male come è grave, come è serio e vero? — Lasciamo star che nessun male è vero per se, poichè se uno non lo conosce o non se ne affligge, ei non è più male. Ma l’affliggertene può forse rimediarvi o diminuirlo? — No. — Il non affliggertene può forse nuocerti? — No certo. — E non è meglio assai per te il non pensarne, il non pigliarne dolore, che il pigliarlo? — Meglio assai. — Come dunque sarà contro ragione? Anzi sarà ragionevolissimo. E se egli è ragionevole, se utile, se tu lo puoi, perchè non lo fai? che ti manca se non il volerlo? — Io vi giuro che queste considerazioni mi giovavano veramente, ed avevano reale effetto, sicchè io ricusando di affliggermi di una mia sventura, per notabile ch’ella fosse, non me ne affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai poco. (Bologna 25. Sett. 1826.). V. p. 4225. La ricchezza della lingua greca, e la decisa differenza di stili che ella ammetteva, differenza così grande, che faceva quasi di ciascuno stile una lingua diversa, si può conoscere anche dal veder che gli antichi ebbero dei lessici voluminosi dedicati a un qualche stile in particolare, come noi potremmo far lessici a parte per la nostra lingua poetica o prosaica (due divisioni che la nostra lingua ammette, ma la greca assai più). Eccovi in Fozio Bibliot. i capi o codici 146. 147. Ebbero i Greci, come i moderni, anche delle voluminose storie teatrali e drammatiche (come ne ebbero delle filosofiche, geometriche, pittoriche, statuarie, e d’ogni genere di discipline). Fozio nella Bibliot. cod. 161. dando conto dei libri di Ecloghe o Estratti di Sopatro sofista, dice che il quarto suo libro contiene degli estratti, fra gli altri, Contraddizioni innumerabili, evidenti e continue si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente, ma anche materialmente. La natura ha dato ai tali animali l’istinto, le arti, le armi da perseguitare e assalire i tali altri, a questi le armi da difendersi, l’istinto di preveder l’attacco, di fuggire, di usar mille diverse astuzie per salvarsi. La natura ha dato agli uni la tendenza a distruggere, agli altri la tendenza a conservarsi. La natura ha dato ad alcuni animali l’istinto e il bisogno di pascersi di certe tali piante, frutta ec., ed ha armato queste tali piante di spine per allontanar gli animali, queste tali frutta di gusci, di bucce, d’inviluppi d’ogni genere, artificiosissimi e diligentissimi, o le ha collocate nell’alto delle piante ec. La natura ha creato le pulci e le cimici perchè ci succino il sangue, ed a noi ha dato l’istinto di cercarle e di farne strage. L’enumerazione di tali ed analoghe contrarietà si estenderebbe in infinito, ed abbraccierebbe ciascun regno, ciascuno elemento, e tutto il sistema della natura. Io avrò torto senza dubbio, ma la vista di tali fenomeni mi fa ridere. Qual è il fine, qual è il voler sincero e l’intenzione vera della natura? Vuol ella che il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perchè l’ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no, perchè ha dato ai tali animali l’istinto e l’appetito e forse anche il bisogno di procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali offese? che essa medesima è l’autrice unica delle difese e delle offese, del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel modo di vedere della natura, non si sa. Si sa ben che le offese non sono meno artificiosamente e diligentemente condotte dalla natura che le difese; che il nibbio o il ragno non è meno sagace di quel che la gallina o la mosca sia amorosa o avveduta. Intanto che i naturalisti e gli ascetici esaminando le anatomie de’ corpi organizzati, andranno in estasi di ammirazione verso la provvidenza per la infinita artificiosità ed accortezza delle difese di cui li troverà forniti, io finchè non mi si spieghi meglio la cosa, paragonerò la condotta della natura a quella di un medico, il quale mi trattava con purganti continui, ed intendendo che lo stomaco ne era molto debilitato, mi ordinava l’uso di decozioni di china e di altri attonanti per fortificarlo e minorare l’azione dei purganti, senza però interromper l’uso di questi. Ma, diceva io umilmente, l’azione dei purganti non sarebbe minorata senz’altro, se io ne prendessi de’ meno efficaci o in minor dose, quando pur debba continuare d’usarli? (Bologna. 25. Sett. 1826.). V. p. seg. Relativo ai Mori bianchi, dei quali dico altrove, può essere anche quel luogo dell’antico romanziere Antonio Diogene (Fozio lo crede non molto posteriore ad Alessandro), il quale presso Fozio cod. 166. col. 357. introduce la viaggiatrice Dercillide a raccontare Alla p. preced. Si ammiri quanto si vuole la provvidenza e la benignità della natura per aver creati gli antidoti, per averli, diciam così, posti allato ai veleni, per aver collocati i rimedi nel paese che produce la malattia. Ma perchè creare i veleni? perchè ordinare le malattie? E se i veleni e i morbi sono necessari o utili all’economia dell’universo, perchè creare gli antidoti? perchè apparecchiare e porre alla mano i rimedi? (Bologna. 1826. 26. Sett.). Alla p. 4183. Questa novelletta, poichè per tale io la tengo, mi fa ravvisare una nuova somiglianza tra i costumi antichi e i moderni; cioè mi fa credere che i greci antichi inventassero degli esempi di ridicola e bestiale costanza da apporre agli spartani, come noi ne inventiamo di È chiaro e noto che l’idea e la voce spirito non si può in somma e in conclusione definire altrimenti che sostanza che non è materia, giacchè niuna sua qualità positiva possiamo noi nè conoscere, nè nominare, nè anco pure immaginare. Ora il nome e l’idea di materia, idea e nome anch’essa astratta, cioè ch’esprime collettivamente un’infinità di oggetti, tra se differentissimi in verità (e noi poi non sappiamo se la materia sia omogenea, e quindi una sola sostanza identica, o vero distinta in elementi, e quindi in altrettante sostanze, di natura ed essenza differentissimi, com’ella è distinta in diversissime forme), l’idea dico ed il nome di materia abbraccia tutto quello che cade o può cader sotto i nostri sensi, tutto quello che noi conosciamo, e che noi possiamo conoscere e concepire; ed essa idea ed esso nome non si può veramente definire che in questo modo, o almeno questa è la definizione che più gli conviene, in vece dell’altra dedotta dall’enumerazione di certe sue qualità comuni, come divisibilità, larghezza, lunghezza, profondità e simili. Per tanto il definire lo spirito, sostanza che non è materia, è precisamente lo stesso che definirla sostanza che non è di quelle che noi conosciamo o possiamo conoscere o concepire, e questo è quel solo che noi venghiamo a dire e a pensare ogni volta che diciamo spirito, o che pensiamo a questa idea, la quale non si può, come ho detto, definire altrimenti. Frattanto questo spirito, non essendo altro che quello che abbiam veduto, è stato per lunghissimo spazio di secoli creduto contenere in se tutta la realtà delle cose; e la materia, cioè quanto noi conosciamo e concepiamo, e quanto possiamo conoscere e concepire, è stata creduta non essere altro che apparenza, sogno, vanità appetto allo spirito. È impossibile non deplorar la miseria dell’intelletto umano considerando un così fatto delirio. Ma se pensiamo poi che questo delirio si rinnuova oggi completamente; che nel secolo 19.o risorge da tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche più spirituale, per dir così, che in addietro; che i filosofi più illuminati della più illuminata nazione moderna, si congratulano di riconoscere per caratteristica di questo secolo, l’essere esso Ovidio Metam. l. 4. parlando delle anime che sono nell’Eliso: Alla p. 4196. fin. Conone appresso Fozio, Bibliot. cod. 186. narrat. 10. chiama Alla p. 4194. Fozio, Bibliot. cod. 186. dando il sommario delle Alla p. 4208. fin. Tè, voce popolare per tieni, prendi. V. Crusca. — Alla p. qui dietro. Che questo sia il valor della frase Alla p. 4208. capoverso 1. Nè ciò solo; ma credevano anche che le anime s’innamorassero, e usassero insieme e avessero figliuoli. Tolomeo Efestione nel quarto libro Alla p. 4167. Aristides, Orat. Fare per giovare, servire. Phot. cod. 190. fin. col. 493. ed. gr. lat. Così ridondante. Alla p. 4165. capoverso 5. Similmente da Aristide Orat. Alla p. 4166. Usasi la stessa locuzione, Alla p. qui dietro. Così cod. 240. col. 993. L’autor greco della Vita di S. Gregorio Papa, detto il Magno, avendo parlato delle opere di questo Santo, e particolarmente de’ suoi Dialoghi, soggiunge (appresso Fozio. cod. 252. col. 1400. ed. grec. lat. Credo però che questa Vita si trovi stampata intera, e sarà in fronte alle opp. di S. Gregorio): Alla p. qui dietro. Proclo nella Crestomazia, appresso lo stesso Fozio, cod. 239. init. col. 981., dice Alla p. 4163. Phot. cod.279. col. 1588. ex Helladii Besantinoi Chrestomathiis, ed. gr. lat. Dell’uso del verbo Alla p. 4210. Il fatto riferito da Agatarchide presso Stobeo, trovasi anche presso Plutarco nel principio del Parallelo dei fatti greci e romani (operetta da consultarsi al nostro proposito), il qual Plutarco lo paragona a quello di Muzio Scevola, e cita Agatarchide Samio Alla p. 4211. E cod. 224. col. 708. Alla p. 4197. In inghilterra vi sono da qualche tempo scuole di pugilato (boxing), e vi vanno ad apprender l’arte, non già solo quelli che hanno intenzione di fare il mestier di boxer per guadagno, ma galantuomini d’ogni condizione in gran numero, per servirsene nell’uso della vita, la quale in quel paese offre assai spesso l’occasione di adoperar le pugna; e per difendersi dalle pugna degli altri. Alla p. 4200. Solevano portar le donne intorno al collo e alle maniche de’ bottoncelli d’ariento indorato. Franc. da Buti ap. la Crus. in Bottoncello. I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l’antico nel verso niente più che nella prosa: e senza l’antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che rigettarono, ad eccezione di pochissime e piccolissime parti conservate nel verso, quella poca antichità che avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro[a] . Del resto l’avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl’italiani, rigettata ne’ loro buoni e perfetti secoli l’antichità della lingua, venne, fra l’altre cose, dal non aver essi avuto nelle loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl’italiani, ch’ebbero Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma (come i greci) la letteratura già stabilita, fissata e formata prima della lingua e della maturità della civilizzazione. (Bolog. 12. Ott. 1826.). Istoria naturale. Curioso è l’osservare da quanto piccole, quanto disparate e lontane cause sieno determinate le assuefazioni e le idee degli uomini le più costanti, e le più universali. La così chiamata istoria naturale è una vera scienza, perocch’ella definisce, distingue in classi, ha principii e risultati. Se la si dovesse chiamare storia perch’ella narra le proprietà degli animali, delle piante ec., il medesimo nome si dovrebbe dare alla chimica, alla fisica, all’astronomia, a tutte le scienze non astratte. Tutte queste scienze narrano, cioè insegnano quello che si apprende dall’osservazione, la quale è il loro soggetto, come altresì della istoria naturale. Solo le arti possono dispensarsi dal narrare, bastando loro il dar precetti. Anche l’ideologia narra, benchè scienza astratta. Oltre che il nome di storia, secondo la sua generale accezione, significa racconto di avvenimenti successivi e susseguenti gli uni agli altri, non di quel che sempre accadde ed accade ad un modo. Questo racconto appartiene alle scienze. Esso è insegnamento. Or tale è il raccontar che fa la storia naturale. Perchè dunque si dà a questa scienza il nome di storia? Perocch’essa fu fondata da Aristotele: il quale la chiamò istoria, perchè questo nome in greco viene da istor (conoscente, intendente dotto), verbale fatto dal verbo isémi (scio) e vale conoscenza, notizia, erudizione, sapere, dottrina, scienza, Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di filosofia de’ rettorici. Demetrio (rettorico de’ più stimati) Alla p. 4206. Quell’altra storiella nota, dello Spartano: Alla p. 4200. Dicono anche i greci nello stesso senso Nuovamente, novellamente, di novello, di nuovo, per di fresco, di poco, poco innanzi, poco fa — Non ha molti anni (1823) che si è udito parlare nelle gazzette, di persone che emettevano scintille dal loro corpo, le cui mani o altre membra ardevano senza abbruciarsi, nè potersi estinguere il fuoco coll’acqua ec. E si ricordò a quel proposito il caso della celebre Bandi. Ora, qualunque fede meritassero ed ottenessero quei racconti, eccone dei paralleli presso gli antichi. Damascio, nella vita d’Isidoro filosofo, appresso Fozio, cod. 242. colonna 1040. ediz. graec. lat. scrive: Alla p. 4208. Damascio nel luogo citato nel pensiero antecedente, colonna 1033. dice del suo maestro ed eroe Isidoro filosofo: Alla p. 4217. Lo stesso Demetrio ha nondimeno una bella osservazione sect. 197. Bella proprietà della lingua italiana, massime antica, proprietà in mille casi utilissima al dir breve, anzi all’evitare un lunghissimo circuito di parole, proprietà d’altronde comune anche al francese (nonchalance, nonchaloir, v. Pougens, Archéologie française), all’inglese (nonsense, nonsensical ec.) ec., è quella di certi negativi, sia nomi, sia verbi, avverbi ec. fatti dal positivo, premessavi la non, congiunta o disgiunta da essa voce; come noncuranza, non cale, non calere ec. V. la Crusca in Non... e la Proposta del Monti , se non erro, in Non, o in Non... — Damascio nella Vita d’Isidoro filosofo (Damascio fu molto studioso dell’eleganza della lingua in essa opera e ricercatore di modi antichi e di voci) appresso Fozio, cod. 242. parlando di un certo Asclepiodoto, il quale per moltissimi tentativi che facesse a tal uopo, non potè ritrovare il genere di musica detto enarmonio ( Alla p. 4162. Id. sect. 240. p. 134. fin. Alla p. 4223. Demetrio, ib. sect. 285. Alla p. 4211. Arato Alla p. 4210. lin.1. Questa inclinazione e quest’uso di applicare a luoghi e persone ben note e prossime i racconti (veri o finti) appartenenti a persone e luoghi lontani, ed anche di rimodernarli, cioè applicar de’ racconti vecchi, e talora vecchissimi, a tempi e persone moderne, ha mille esempi, che si possono notare anche giornalmente: ed io ho udito in città d’Italia, molto tra se distanti, raccontare varie novellette, varie pretese origini di proverbi, varie goffaggini insigni ec. come accadute nominatamente ad una tal persona di quella tal città; e così in ciascuna città; e per tutto la stessa novelletta con nome diverso; e molte di tali novellette io le aveva già sin dalla puerizia sentite raccontare nella mia patria e da’ miei, sotto i nomi di persone della mia città stessa o della provincia: ed alcune ne ho anche trovate negli antichi novellieri italiani, sotto altri nomi, le quali ora si raccontano come di poco tempo addietro, e di persone conosciute dagli stessi che le raccontano, o da quelli da cui essi le hanno udite. (Bolog. 23. Ottob. 1826.). Altra conformità degli antichi coi moderni, poichè anche gli antichi ebbero lo stesso vezzo, come si è veduto. Alla p. 4202. Spesse volte in occasioni di gran travaglio e afflizione d’animo, io mi sono consolato così. Ho dimandato a me stesso: Certo questa è una sventura grande: ma posso io non affliggermi di questa cosa? L’esperienza mia propria, di più altre volte, mi obbligava a risponder di sì, che io poteva: ma il non affliggersene sarebbe cosa irragionevole: la sventura è grande e vera. — Lasciamo star che sia vera: ma affliggendomene la posso io dissipare o scemare? — Nulla. — Non affliggendomene, crescerà ella punto, o me ne verrà punto di danno? — Punto. — Dunque come sarà irragionevole il non affliggermene? E se questo è ragionevole, se mi è utilissimo (il che è manifesto), se io lo posso, perchè non lo vorrò? — Vi giuro che questo discorso era efficace; che la mia volontà si determinava secondo esso, ed otteneva il suo effetto; e che io mi consolava e non pativa. (Bologna. Domenica, 29. Ottob. 1826.). Alla p. 4211. Nicias de Lapidibus, ap. Stob. serm. 98. Alla p. 4210. lin.1. Timica, donna Pitagorica, fatta tormentare da Dionigi tiranno di Siracusa, perchè rivelasse i secreti o misteri della sua setta, si tagliò co’ denti la lingua, e la sputò in faccia al tiranno. Giamblico, Vita di Pitagora, cap. 31. Imitazione della storia di Leena amica di Armodio e Aristogitone, come osserva il Menagio, il quale vedi, Hist. Mulier. philosopharum, segm. 94-98. E molte di siffatte narrazioni parallele si debbono interamente agli scrittori imitanti in altra materia le tradizioni e storie antiche ec. (Recanati 16. Nov. 1826.). Alla p. 4212. fin. Alla p. 4165. È usato pur da Hierocles, lib. de Amore fraterno , ap. Stob. serm. 82. Bellissima è l’osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno , ap. Stobeo serm. Senza porvi altro studio (cioè alcuno). Varchi, Ercolano, Venez. Giunti 1570. p. 94. verso la fine. Io ho veduto delle Commedie più sporche e più disoneste che quelle d’Aristofane; ho veduto de’ Sonetti disonestissimi e sporchissimi; ho veduto delle Stanze che si posson chiamare la sporchezza e disonestà medesima. Id. ib. p. 245. E gran parte della lingua spagnuola ritiene ancora oggi della lingua de’ Mori. Ib. p. 260. (Recanati. 26. Nov. Domenica. 1826.). I Francesi, per qualificare un uomo che stimino, soglion dire Molto impropriamente la questione del sommo bene è stata chiamata la questione dei fini. Il fine dell’uomo è noto e certo a ciascuno che interroghi se medesimo: un piacere perfetto, non dico in se, e però non importa se sommo o non sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere che lo contenti del tutto. Questo è il nostro fine, notissimo a tutti, benchè poi non si possa conoscere di qual natura sia o possa essere questo piacere perfetto, niuno avendolo sperimentato mai; e per conseguenza che cosa e di qual natura sia o possa essere la felicità umana. Se la virtù, o la voluttà del corpo, o altre cose tali, possano proccurare all’uomo il piacere perfetto; o qual di loro più; o in somma donde possa o debba l’uomo conseguire il piacer perfetto che egli desidera, e che è il suo fine, questo può ben cadere e cade in questione; ma tal questione è dei mezzi, non già dei fini. Il fine è certo, il mezzo s’ignora, e la cagione di questa ignoranza è in pronto. La cagione, dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine, che niuno ha mai ottenuto, non esistono al mondo; che per conseguenza il sommo bene, che ci possa o debba dare il piacer perfetto che cerchiamo, non si trova, è un’immaginazione, come lo è questo piacer perfetto esso stesso, quanto alla sua natura; e che infine l’uomo sa e saprà ben sempre che cosa desiderare, ma non mai che cosa cercare, cioè che mezzo che cosa possa soddisfare il suo desiderio, dargli il piacer perfetto, cioè che cosa sia il suo sommo bene, dal quale debba nascere la sua felicità. (Recanati. 28. Nov. 1826.). Ritorta-ritortola. Anticato per antico. V. Crusca. Far le corna a uno — Datti de’ polli, latte, capretti, giuncate, e delle altre delizie, che tutto l’anno ti serba. Pandolfini Tratt. del governo della famiglia, ed. Milano 1811. p. 81. (Recanati 30. Nov. Festa di S. Andrea. 1826.). Vi si allegheranno degli altri. Caro Apologia, Parma 1558. p. 26. In Esiodo non sono delle voci che non sono in Omero? Ib. p. 26-27. E così spessissimo. Senza fargli altra risposta, cioè niuna. Sannazz. Arcadia, prosa 11. fine. È naturale all’uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, una perspicacia, una esperienza superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz’altra ragione; spessissimo eziandio, ne’ più gravi pericoli e ne’ più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la buona speranza e opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s’immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l’opinione e il giudizio che egli portava della cosa; nè più nè meno come s’io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo o veramente o nell’apparenza non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d’animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di tal rifugio. Ed è cosa mille volte osservata e veduta per prova come gli uomini di guerra, anche esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti, nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d’animo, e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov’è sommamente da temere o dolersi. E questa qualità dell’uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell’esito delle cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d’ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza cieca nell’autorità, nel senno, e nel provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.). Dilettare-dileticare, co’ derivati. Intermittenza morale. Passioni e qualità morali intermittenti. — Aggiungerò che quest’odiosa passione (l’avarizia) provenendo sovente dalla debolezza della nostra costituzione, avviene che le infermità corporali talvolta la sviluppino. Una dama che per sei mesi dell’anno era soggetta ai vapori e alla malinconia, era pur anche durante quel tempo d’una sordida parsimonia; ma come appena le funzioni corporee ripigliavano la loro armonia, ella si faceva adorare per la sua grande generosità. Alibert, Physiologie des passions, nel N. Ricoglitore di Milano, quaderno 23. p. 788. — Questa osservazione si può sommamente estendere. Ciascuno di noi, se bene osserva, troverà in se questa sì fatta intermittenza. Io, inclinato all’egoismo, perchè debole e infermo, sono mille volte più egoista l’inverno che la buona stagione; nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza dell’avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico. — Quante cose poi non si potrebbero dire sopra questa medesima intermittenza, considerata, non nelle qualità, ma nelle facoltà intellettuali e sociali, sia ingenite, sia acquisite! (Recanati. 10. Dic. Festa della Venuta. 1826.). Assai meglio scrisse (il Boccaccio) quando si lassò guidar solamente dall’ingegno ed instinto suo naturale, senza altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenza e fatica si sforzò d’esser più culto e castigato. Castiglione prefaz. del Cortegiano . Senza altro (cioè alcuno) impedimento. Ib. lib.2. ed. Venez. 1541. carta 79. p. 2. principio, ed. Venez. 1565. p. 198. fin. E così il medesimo autore nella citata opera altre più volte. Senz’altro strepito (cioè niuno). Ib. lib. 3. carta 126. principio. — p. 310. Pare che la fanciullezza e la gioventù abbia ingenita e naturale una inclinazione a distruggere, e la età matura e avanzata, a conservare. Nè voglio io dedur questo dal vedere che i giovani sogliono scialacquare e mandare a male i patrimoni, dove che i provetti gli accumulano, conservano e accrescono[a] ; la qual cosa facilmente si spiega, e nasce perchè i giovani sono confidenti, e poco riflettono, nè pensano all’avvenire, in vece che i vecchi sono timidi, cauti, e sempre solleciti del futuro. Ma vedesi quel che io ho detto, eziandio in cose dove non ha luogo alcuno nè il timore o la fiducia, nè la provvidenza o la improvvidenza dell’avvenire. Un fanciullo e un giovane spessissime volte si piglierà piacere di uccidere una mosca o altro animaletto, cacciandolo anco con fatica, senza altra ragione o altro fine che di prendersi gusto; rarissime volte si compiacerà, o gli verrà pure in capo, di salvar qualche animale, vedendolo in pericolo, e potendolo salvar senza affaticarsi. Un uomo maturo o un vecchio rare volte si piglierà diletto di uccidere, spesso si compiacerà di salvare tali creature, vedendole in qualche pericolo di perdersi, e potendo massimamente soccorrerle senza suo disagio. E ciò faranno gli uni e gli altri, come per instinto, e senza ragionarvi sopra. È manifesto poi come i giovani tendano alla novità, e non solo sieno vogliosi d’innovar propriamente, ma eziandio semplicemente di spegner l’antico, o di vederlo spento; e i provetti, per lo contrario, gelosi della conservazione delle cose che sono. Onde si potrebbe dire che la natura, sempre intenta e studiosa non meno a distruggere che a conservare o produrre, avesse dato stimolo e incarico a quelli che crescono e vengono innanzi nel mondo, di distruggere, quasi per farsi luogo; e a quelli che declinano, e si avviano alla partenza, di conservare e produrre, quasi per lasciar pieno il luogo loro, per lasciar cose che restino in loro scambio, per supplire il posto che essi son per lasciare. (Recanati. 12. Dic. 1826.). Fare e dire ciò che lor occorre, così, senza pensarvi. Castiglione Cortegiano lib. 2. ed. Ven. 1541. carta 69. ed. Ven. 1565. p. 174. Cielo detto di camere, di carrozze ec. — Così in greco Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da oriuolo sono un’ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e non esiste, nè da se medesima, nè nel tempo, come membro di esso, non più di quel che ella esistesse prima dell’invenzione dell’oriuolo. In somma l’esser del tempo non è altro che un modo, un lato, per dir così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, o che possono o si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia o non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una proprietà del nulla l’esser luogo: proprietà negativa, giacchè anche l’esser di luogo è negativo puramente e non altro. Sicchè, come il tempo è un modo o un lato del considerar la esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi è spazio, e il nulla senza spazio non si può dare. Per tanto è manifesto che eziandio fuori degli ultimissimi confini dell’universo esistente, v’è spazio, poichè nulla v’è. E se qualche cosa potesse essere o creata o spinta di là da quegli estremi confini, troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla che la impedisse di andarvi o di starvi. La conclusione si è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi. E quelle innumerabili e immense quistioni agitate dalla origine della metafisica in qua, dai primi metafisici d’ogni secolo, circa il tempo e lo spazio, non sono che logomachie, nate da malintesi, e da poca chiarezza d’idee e poca facoltà di analizzare il nostro intelletto, che è il solo luogo dove il tempo e lo spazio, come tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e per se medesimi, e sian qualche cosa. (Recanati. 14. Dic. 1826.). Uso di porre il g avanti la n (come in Quanta fosse fin nel principio del secolo addietro la fama della letteratura italiana, e lo studio che vi mettevano gli stranieri si può conoscere anche da questo fatto, poco noto oggidì, che come nel fine di detto secolo si pubblicò in Ginevra il famoso Giornale della Bibliothèque britannique, espressamente per far conoscere e tenere al corrente l’Europa, dei progressi ec. della letteratura inglese, così nel principio di esso secolo, usciva a Ginevra altresì, un Giornale intitolato Bibliothèque italique, ou histoire littéraire de l’Italie, il quale aveva lo stesso scopo, rispetto all’Italia. Di tanto ancora era stimata degna la nostra letteratura. V. le opp. del Maffei ed. del Rubbi vol. 4. p. 7. segg. dove questo Giornale è chiamato un’opera che nacque in Francia con sommo credito, perchè composta da sette sapienti , e se ne citano gli estratti della Verona illustrata presi dal tomo 15. 16. e 17. di esso giornale; e il tomo 21. p. 8. dove si cita l’anno 1728. del medesimo Giornale. V. p. 4264. fin. Alla p. 4216. marg. Così il Maffei intitolò Storia diplomatica, o piuttosto, come voleva egli, Storia de’ Diplomi (v. le sue opp. ed. del Rubbi, t. 21. p. 7. fin.), la sua opera contenente la scienza o notizia de’ diplomi. La poesia, quanto a’ generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d’ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo. L’epico nacque dopo questo e da questo; non è in certo modo che un’amplificazione del lirico, o vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha assunta principalmente e scelta la narrazione, poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch’esso sulla lira o con musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno in onor degli eroi o delle nazioni o eserciti; solamente un inno prolungato. Però anch’esso è proprio d’ogni nazione anche incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in gran parte, e quelli ancora de’ bardi, partecipar tanto dell’epico e del lirico, che non si saprebbe a qual de’ due generi attribuirli. Ma essi son veramente dell’uno e dell’altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività dell’epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un’ispirazione, ma un’invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con regola e con misura, anzi n’esclude la misura affatto, n’esclude affatto l’armonia; giacchè il pregio e il diletto di tali imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di modo ch’ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze, i difetti. E tali imitazioni naturali poi, non sono mai d’un avvenimento, ma d’un’azione semplicissima, voglio dir d’un atto, senza parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura, è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell’ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l’epica, che è sua vera nepote. — Gli altri che si chiamano generi di poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L’elegiaco è nome di metro. Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci lirici, massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto lirici, detti Alla p. 3177. Noterò qui, come cosa solamente poco nota oggidì, e curiosa da sapersi che lo stesso argomento della Gerusalemme, nello stesso tempo del Tasso fu trattato in un poema latino di 12 libri, intitolato la Siriade, da un altro Italiano, cioè da Pietro Angelio, o degli Angeli, da Barga (Castello di Toscana 20. miglia lontano da Lucca), nato del 1517. e morto del 1596. a’ 29. Febbraio (non un intero anno dopo il Tasso, morto a’ 25 Aprile 1595.), versificatore e prosatore italiano e latino, certo non indotto, e a’ suoi tempi, ed anche appresso, molto stimato, il quale aveva viaggiato in Levante, per la Grecia e per l’Asia, andato a Costantinopoli in compagnia d’uno inviato del Re di Francia, ed aveva per zelo ed onore della nazione italiana ucciso un francese chè parlavane con disprezzo, onde incorse poi in gravi pericoli. V. Tiraboschi secolo 16.o libro 3. capo 4. par. 5.o e Dati Prefaz. alle prose fiorent. nella Raccolta di prose a uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753. p. 633. Non saprei dire qual de’ due, il Tasso o l’Angelio, fosse primo a concepire questo bell’argomento, o se l’uno senza saputa dell’altro. Ciò solo interesserebbe in questo particolare. (19. Dic. 1826.). Vedi l’oraz. in lode dell’Angelio, recitata da Francesco Sanleolini fiorentino nell’Accademia della Crusca l’anno 1597. Prose fior. parte 1. vol. 1. oraz. 7. particolarmente verso la fine, ediz. di Venez., Occhi, 1730-1735. p. 105-106. dove l’oratore afferma e vuol provare che il primo a concepire il detto argomento fu il degli Angeli. V. il Tasso Apologia agli Accad. della Crusca, opp. ed. del Mauro. t. 2. p. 309. e le Lettere poetiche, dove si vede che il Tasso veniva facendo comunicare al Barga i pezzi del suo poema in iscriverlo, per avere il suo parere. (20. Dic. 1826. Vigilia di S. Tommaso apost.). Dice ( Tenacità dei greci verso la loro lingua, e loro ignoranza delle altre, in ispecie della latina. V. Dati, pref. alle prose fiorentine, nella Raccolta di prose ad uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753. p. 620. segg. Universalità della lingua greca anticamente. V. Dati, loc. citato qui sopra, p. 627. fin. e segg. Studio e pregio in cui era la lingua italiana presso gli stranieri nel Secolo 17.o V. Dati, loc. citato qui sopra, p. 630: e nella medesima Raccolta cit. qui sopra, v. le Orazioni del Lollio e del Buommattei e del Salvini in lode della lingua toscana. (Recanati. 20. Dic. 1826.). Zocco-zoccolo. Scultare da Sminuzzare-sminuzzolare. Quell’idiotismo nostro e latino del Senz’altro fiato (cioè nessuno). Galilei, Saggiatore, opp. ed. di Padova, t. 2. p. 284. luogo molto insigne e notabile al proposito. Alla p. 4204. Bellissimo, e da vedersi e leggersi attentamente, è il capo 7. del libro VI. di Casaubono ad Athenaeum, dove parla degli antichi libri intitolati Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime e le ultime, mitologie. Gl’inventori delle prime mitologie (individui o popoli) non cercavano l’oscuro per tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il chiaro nell’oscuro; volevano spiegare e non mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quelle cose che l’uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora. Gl’inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi secoli della nostra era, decisamente cercavano l’oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove, altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create. Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic. 1826.). Vi-g-ore coi derivati — vi-v-ore coi derivati. V. Crusca. Violato per violaceo, violetto, o appartenente a viole. V. Crusca. Violetto. Diminutivo aggettivo positivato. Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata da me in quell’assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826. in Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente colla impazienza, e colla inquietezza. Consiste in una non resistenza, una rassegnazione d’animo, una certa quiete dell’animo nel patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e chiamata vile: ella è pur necessaria all’uomo, nato e destinato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente, coll’abitudine del sopportare un travaglio o una noia. La pazienza e la quiete, è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende così tollerabile, p. e. a un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l’uomo fa a quella noia, e l’impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale passata, e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri. E in ciò consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che altrimenti. (30. Dic. 1826. Recanati.). V. p. 4267. Circa la stima che gli antichi facevano della felicità, e il contarla come una delle principali doti dei loro eroi, e come soggetto principalissimo di lode, è curioso vedere come Giorgio Gemisto Pletone, nella sua breve ed elegantissima orazione in morte della imperatrice Elena, poi fatta monaca e detta Ipomone, pubblicata da Mustoxidi e Scinà nella loro Chi scrivendo oggi, cerca o consegue la perfezion dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni dell’arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettissimi degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico. Tanto è oggi (e sarà forse in futuro) cercare con quanto si sia successo, la perfezion dello stile nelle lingue vive, quanto cercarla ed anco trovarla nelle morte, come facevano molti illustri italiani del cinquecento nella latina. (2. 1827.). Brancicare. Zoppicare. Spruzzolare. Avvolticchiare. Svolticchiare. Magalotti Lett. familiari, lett. 8. circa fin. par. 1. Non so s’io m’inganno, ma certo mi par di scorgere nella maniera sì di pensare e sì di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura, e non forzata, la stessa non disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una fiducia ed estimazion lodevole di se stesso, una generosità d’animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perchè avuta fin dal principio della vita, e nata dalla considerazione altrui riscossa fin da’ primi anni ed abituata. Io credo che questa tale magnanimità e di pensare e di scrivere, dico questa tale, e che non sia nè feroce, nè satirica, o mista dell’uno e dell’altro, non si troverà facilmente in iscrittori o uomini non nati nobili o di buon grado; se egli si guarderà bene. Vi si troverà sempre una differenza. Simili considerazioni si potrebbero fare intorno alla ricchezza, che suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse scialacquo. Simili intorno alla potenza, dignità, fortuna. Simili intorno ai contrarii. Vedi Alfieri Vita sua, capo 1. principio. Dispetto e despetto, cioè disprezzato, per dispregevole. Egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi son più, e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre che in sua gioventù a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d’impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno. Magalotti, Lettere familiari, parte I. lett. 28. Belmonte 9. Febbraio 1683. (cento e quarantaquattr’anni fa!!). (7. 1827. Recanati.). Se i sostenitori del raffreddamento progressivo ed ancor durante del globo, se il bravo Dott. Paoli (nelle sue belle e dottissime Ricerche sul moto molecolare dei solidi) non avessero avuto o avessero da assegnare altre prove di questa loro opinione, che la testimonianza dei nostri vecchi, i quali affermano la stessissima cosa che quello del Magalotti, allegando la stessa pretesa usanza, e fissandola allo stesso tempo dell’anno; si può veder da questo passo, che non farebbero grand’effetto con questo argomento. Il vecchio, L’amor della vita e il timor della morte non sono innati per se: altrimenti niuno s’ammazzerebbe. Innato è l’amor di se, e quindi del proprio bene, e l’odio del proprio male: e però niun può non amarsi, nè amare il suo creduto male ec. È però naturale che ogni vivente giudichi la vita il suo maggior bene e la morte il maggior male. E infatti così egli giudica infallibilmente, se non è molto allontanato dallo stato di natura. Ecco dunque che la natura ha veramente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo error di giudizio; benchè non abbia ingenerato un amor della vita. Esso è un ragionamento, non un sentimento: però non può essere innato. Sentimento è l’amor proprio, di cui l’amor della vita è una naturale, benchè falsa conclusione. Ma di esso altresì è conclusione (bensì non naturale) quella di chi risolve uccidersi da se stesso. (8. 1827.). Senza più oltre o più avanti o innanzi pensare, e simili, vagliono spesse volte semplicemente senza punto pensare. Così senza pensar più là. Così senza più, o solo, o accompagnato con verbi (senza più pensare) o con nomi, equivale spesso a senza nulla o niuno, appunto come in ispagn. Della diffusione della lingua italiana presso gli stranieri nel 500. v. anche Speroni Oraz. in lode del Bembo. Tasso opp. ed. del Mauro, t. 9. p. 148. lett. 238. Lettere di Principi o a Principi Ven. 1573. carta 226. versa. Disprezzo e ignoranza dei greci per la letteratura latina. V. Speroni Diall. ed. Ven. 1596. p. 420. — Si potrebbero in ciò i greci assomigliare ai francesi. Trovasi anco in inglese lo scambio della s coll’aspirazione. Altro per niuno o niente. Firenzuola Ragionamenti, ed. dei Classici ital. p. 89. lin.2. p. 230. cioè ult. Tu profferisti chiunque con due sillabe; la qual parola non mi voglio ricordare che si truovi se non con tre. Firenzuola loc. cit. qui sopra, p. 84. Vuol dire non mi vuol venire alla mente, non mi posso ricordare. Grecismo. Simile alla p. 162. Lucrezia, chè così mi voglio ricordar che fusse il nome della vedova. Cioè così mi vuol dire, così mi dice, la memoria; così mi pare, mi vien fatto, di ricordarmi. (Domenica 14. 1827.). Mia, tua, sua plurali fiorentini, e antichi. Alla p. 4156. A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo, le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall’assuefazione. Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella resistenza che l’animo fa naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le disavventure, è il maggior dolore che prova l’uomo. Quando l’animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l’animo, questo ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma lo fa con lunghezza; e quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è dell’animo all’animo. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono più vive, così ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però travaglia assai meno l’animo; bensì perchè col corpo anco l’animo è abbattuto, perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l’animo e ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo; onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l’animo accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicchè quegli sfoghi sono veramente una medicina quasi un narcotico preparata dalla natura medesima, perchè l’uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro. V. p. 4283. (Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.). Alla p. 4184. Molte cose si trovano presso gli antichi, come sarebbe questa opinione sopraddetta, che appartengono e fanno fede ad una squisita umanità, molto superiore ad ogn’idea moderna. Di tal genere era l’uso di quegli Melato, mellitus, per melleus o dulcis. Spedito, espedito, expeditus ec. Spigliato. Sforzato, sforzatamente (esforzado). Crusca. Strascicare. Attero, attritum-attritare, contritare. Crusca. V. Forcell. Gloss. ec. Taranta. Speroni Dial. ed. Ven. 1596. p. 135. — Tarantola. Tarantella. Salvini. V. Diz. dell’Alberti. Tarande-tarantule. Tarantolato. V. gli spagn. ec. In proposito del Sassetti, primo notificatore della lingua sascrita, come ho detto altrove, osservo che anche qui si verifica quella osservazione, che agl’italiani par destinato il trovare, e il lasciar poi agli altri l’usare e il perfezionare, e il raccoglier la gloria e l’opinione ancora della scoperta. (19. 1827.). Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove ec. V. nelle opp. del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spirto, leggiadre rime ec. e la Risposta del Tasso. (ed. del Mauro, t. 6.). V. ancora il Guidiccioni nelle Lett. di div. eccellentiss. uom. Ven. Giolito. 1554. p. 43-48. Trasognato per trasognante. Straboccato, traboccato per traboccante, o che suol traboccare. Vittuaglia, vittuaria-vittovaglia, vettovaglia, vettuvaglia. Vettuaglia, Ricordano cap. 125. 133. M. Vill. ap. Crus. in Casale. Capua, Padua, Mantua, coi derivati Capova, Padova, Mantova ec. ec. Balduino e Baldovino. Menovare, cioè menuare. v. Crus. Auto, riceuto ec. negli antichi, come Ricordano ec. omesso il v, per avuto ec. Monte Guarchi, in Ricordano spesso, per Montevarchi. Da mutolo per muto, ammutolare, ammutolire per ammutare, ammutire disusati. Nutrire per avere (io nutro speranza ec.). V. Crus. franc. spagn. ec. — Disguizzolare. Parlottare. Borbottare. Digiuna plur. per quattro tempora. Dino Comp. lib. 3. princip. La Crus. ha Digiune. Ragionato per ragionevole, ragionatamente ec. V. Crusca. Sfondare-sfondolare, sfondolato. Aratro arato voce antica — aratolo. Alla p. 4144. Io credo certo ch’Epitteto (il quale viveva in Roma) alluda in questo luogo al costume romano di chiamar le donne Magistrato [a] da bene. Magistrato malvagio. Qual è il segno da riconoscerlo? Di tutte le altre cose non ne troverete una, dove stabilito ancora e confessato il fatto, non sieno vari e opposti giudizi, o interpretazioni qual buona qual sinistra. Rigoroso, severo: se tu lo lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele, ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati sotto specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione. Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vizi e dei malvagi, complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere. Se vi sono partiti, ed egli ne favorisce uno, l’altro o gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile, almeno un furbo. Così dell’ambizione; ec. ec. Ma quanto all’astinenza o all’appetenza dell’altrui o del pubblico, voi non troverete due persone che concordato il fatto, discordino nel lodarlo o nel biasimarlo, o anche nell’interpretarlo. E questo è quasi il solo capo dal quale in verità suol dipendere il nome che uno acquista nei magistrati di uomo da bene, o di tristo. Da bene è sinonimo di disinteressato, malvagio di cupido; integrità di disinteresse ec. Da ciò parrebbe che gli uomini non fossero d’accordo se non nel concetto della roba, e che l’ufficiale pubblico potesse a suo modo dispor della vita, dell’onore, della libertà, di tutti gli altri beni dei cittadini, purchè rispettasse i danari e le possessioni. (4. Feb. Domenica. 1827.).
Del digamma eolico v. Casaub. ad Athenae. l. 8. c. 11. due volte. Al detto altrove di Capperi. Origine greca di questa esclamazione. V. Menag. ad Laert. l. 7. segm. 32. Sottosopra, sossopra, sozzopra ec. — Assegnato per parco ec. V. Crusca, e Caro. Lett. 175. vol. 1. Certo molte cose nella natura vanno bene, cioè vanno in modo che esse cose si possono conservare e durare, che altrimenti non potrebbero. Ma infinite (e forse in più numero che quelle) vanno male, e sono combinate male, sì morali sì fisiche, con estremo incomodo delle creature; le quali cose di leggieri si sarebbono potute combinar bene. Pure perch’elle non distruggono l’ordine presente delle cose, vanno naturalmente e regolarmente male, e sono mali naturali e regolari. Ma noi da queste non argomentiamo già che la fabbrica dell’universo sia opera di causa non intelligente; benchè da quelle cose che vanno bene crediamo poter con certezza argomentare che l’universo sia fattura di una intelligenza. Noi diciamo che questi mali sono misteri; che paiono mali a noi, ma non sono;, benchè non ci cade in mente di dubitare che anche quei beni sieno misteri, e che ci paiano beni e non siano. Queste considerazioni confermano il sistema di Stratone da Lampsaco, spiegato da me in un’operetta a posta. (18. Febbraio. Domenica di Sessagesima. 1827.). Alla p. 4184. Del resto io posso per la mia inclinazione alla monofagia, esser paragonato all’uccello che i greci chiamavano porfirione, se è vero quel che ne raccontano Ateneo ed Eliano, che quando esso mangia, abbia a male i testimoni. V. Casaub. ad Athenae. 9. c. 10. sotto il principio. V. p. 4422.
Giuoco di mano, giuoco di villano, Ultimatamente per ultimamente, Crusca. L’usa anco il Bembo nelle Lettere. Il Bembo fu un Cesari del 500, il Cesari è un Bembo dell’800. Simili negli effetti che hanno operati, e nelle circostanze dei tempi quanto alla lingua, e nei mezzi usati e nelle opinioni, cioè nella divozione al 300. ec. Ma similissimi anco nell’esser loro naturale (lasciando l’esser vicini di patria, e d’una provincia stessa). Molta lettura e studio: nessuno ingegno da natura; nessuna sembianza di esso, acquistata per l’arte. Mai niun barlume, niuna scintilla di genio, di felice vena, ne’ loro scritti. Aridità, sterilità, nudità e deserto universalmente. Pochi o niuno de’ nostri autori e libri che hanno avuto fama e che si stampano ancora, furono mai così poveri per questa parte, come il Bembo e gli scritti suoi. (27. Feb. 1827.). Pel Manuale di filosofia pratica. Desiderio naturale, necessario, e perpetuo nell’uomo, di un futuro miglior del presente, per buono che il presente possa essere. Importanza quindi dell’avere una prospettiva e una speranza, per esser felice. Importanza del sapersi fare, comporre e propor da se stesso tal prospettiva. Non sempre le circostanze, l’età ec. permettono una prospettiva di miglioramento e di avanzamento nello stato ec. Oltracciò gli avanzamenti e miglioramenti grandi sono di difficile conseguimento, e non conseguendosi, e ingannata la speranza, restiamo turbati. Utilità somma del sapersi proporre di giorno in giorno un futuro facile, o anche certo, ad ottenere; dei beni che avvengono d’ora in ora; godimenti giornalieri, di cui non v’ha condizione che non sia fornita o capace: il tutto sta sapersene pascere, e formarne la propria espettativa, prospettiva e speranza, ora per ora: questo è ufficio di filosofo, ed è pratica incomparabilmente utile al viver felice. (Recanati. 1.o dì di Quaresima. 28. Feb. 1827.). Ho detto altrove che nella primavera l’uomo suole sentirsi più scontento del suo stato, che negli altri tempi. Così ancora nella state più che nel verno. La cagione è che allora l’uomo patisce meno. Però desidera più il godimento e il piacere diretto. Nella primavera poi tanto più sensibile è questo desiderio, quanto è più sensibile la privazione del patimento e dell’incomodità che reca il freddo, la qual cessa allora appunto. La infermità, il timore, il patimento di qualunque sorta volgono l’amor del piacere nell’amor del non patire, o del fuggire il pericolo. l’animo in quello stato, è meno esigente. Il non patire è più possibile ad ottenersi che il godere. Però nell’inverno si sente meno la scontentezza del proprio essere, che nella buona stagione. Nella quale l’animo ripiglia la sua avidità del piacere; e, come è naturale, nol ritrova mai. (Recanati 2. Marzo. 1827. I. Venerdì di Marzo.). A vóto per frustra. — Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose Isocrate circa la collocazione delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l’avesse egli posta, fuorchè a proccurare la più perfetta, la più squisita, la maggior possibile, la più singolare chiarezza. Questa dote non si osserva negli altri autori che l’hanno, se non in quanto nel leggerli non si patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva, perchè non solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere. Negli altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un sapore proprio. Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di sentirvi quel gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e volontà di far moto, si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata. Io non credo che si trovi autor così chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è Isocrate (e certo senza compagni) nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è pur la più difficile (se non prevale in ciò la tedesca) di tutte le lingue del mondo. Tanto più mirabile in questo, quanto che si sa bene con quanto studio Isocrate cercasse gli altri pregi della dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; (il che egli ha fatto effettivamente e conseguito quasi da per tutto ed interamente) difficoltà certo grandissima, ed inceppamento; come ognun vedrebbe provandovisi; il quale però non ha punto impedito quella maravigliosa facilità. (7. Marzo. Mercordì di quattro tempora. 1827.). Grispignolo. Lappa-lappula. lat. , lappola. ital. Parrebbe che secondo ogni ragione, secondo l’andamento naturale dell’intelletto e del discorso, noi avessimo dovuto dire e tenere per indubitato, la materia può pensare, la materia pensa e sente. Se io non conoscessi alcun corpo elastico, forse io direi: la materia non può, in dispetto della sua gravità, muoversi in tale o tal direzione ec. Così se io non conoscessi la elettricità, la proprietà dell’aria di essere instrumento del suono; io direi la materia non è capace di tali e tali azioni e fenomeni, l’aria non può fare i tali effetti. Ma perchè io conosco dei corpi elastici, elettrici ec. io dico, e nessuno me lo contrasta; la materia può far questo e questo, è capace di tali e tali fenomeni. Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi; cioè uomini ed animali; che io non veggo, non sento, non so nè posso sapere che sieno altro che corpi. Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente. — Signor no; anzi voi direte: la materia non può, in nessun modo mai, nè pensare nè sentire. — Oh perchè? — Perchè noi non intendiamo come lo faccia. — Bellissima: intendiamo noi come attiri i corpi, come faccia quei mirabili effetti dell’elettricità, come l’aria faccia il suono? anzi intendiamo forse punto che cosa sia la forza di attrazione, di gravità, di elasticità; che cosa sia elettricità; che cosa sia forza della materia? E se non l’intendiamo, nè potremo intenderlo mai, neghiamo noi per questo che la materia non sia capace di queste cose, quando noi vediamo che lo è? — Provatemi che la materia possa pensare e sentire. — Che ho io da provarlo? Il fatto lo prova. Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono; e voi, che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. — Quei corpi non sono essi che pensano. — E che cos’è? — È un’altra sostanza ch’è in loro. — Chi ve lo dice? — Nessuno: ma è necessario supporla, perchè la materia non può pensare. — Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare. — Oh la cosa è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra di se: la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza più. In fatti noi non possiamo giustificare altrimenti le nostre tante chimeriche opinioni, sistemi, ragionamenti, fabbriche in aria, sopra lo spirito e l’anima, se non riducendoci a questo: che la impossibilità di pensare e sentire nella materia, sia un assioma, un principio innato di ragione, che non ha bisogno di prove. Noi siamo effettivamente partiti dalla supposizione assoluta e gratuita di questa impossibilità per provare l’esistenza dello spirito. Sarebbe infinito il rilevare tutte le assurdità e i ragionamenti le contraddizioni al nostro medesimo usato metodo e andamento di discorrere che si sono dovuti fare per ragionare sopra questa supposta sostanza, e per arrivare alla conclusione della sua esistenza. Qui davvero che il povero intelletto umano si è portato da fanciullo quanto mai in alcuna cosa. E pur la verità gli era innanzi agli occhi. Il fatto gli diceva: la materia pensa e sente; perchè tu vedi al mondo cose che pensano e sentono, e tu non conosci cose che non sieno materia; non conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire, altro che materia. Ma non conoscendo il come la materia pensasse e sentisse, ha negato alla materia questo potere, e ha spiegato poi chiarissimamente e compreso benissimo il fenomeno, attribuendolo allo spirito: il che è una parola, senza idea possibile; o vogliam dire un’idea meramente negativa e privativa, e però non idea; come non è idea il niente, o un corpo che non sia largo nè profondo nè lungo [a] , e simili immaginazioni della lingua piuttosto che del pensiero. Che se noi abbiamo conchiuso non poter la materia pensare e sentire, perchè le altre cose materiali, fuori dell’uomo e delle bestie, non pensano nè sentono (o almeno così crediamo noi); per simil ragione avremmo dovuto dire che gli effetti della elasticità non possono esser della materia, perchè solo i corpi elastici sono atti a farli, e gli altri no; e così discorretela. (9. Marzo. 1827. 2.o Venerdì di Marzo.). Il bambino, quasi appena nato, farà dei moti, per li quali si potrebbe intender benissimo che egli conosce l’esistenza della forza di gravità dei corpi, in conseguenza della qual cognizione egli agisce. Così di moltissime altre cognizioni fisiche che tutti gli uomini hanno, e che il bambino manifesta quasi subito. Forse che queste cognizioni e idee sono in lui innate? Non già: ma egli sente in se ben tosto, e nelle cose che lo circondano, che i corpi son gravi. Questa esperienza, in un batter d’occhio, gli dà l’idea della gravità, e gliene forma in testa un principio: del quale di là a pochi momenti gli parrebbe assurdo il dubitare, e il quale ei non si ricorda poi punto come gli sia nato nella testa. Il simile accade appunto nei principii e morali e intellettuali. Ma le idee fisiche ognun concede e afferma non essere innate: le morali, signor sì, sono. Buona pasqua alle signorie vostre. (9. Marzo. 1827. Recanati.). Pregiudicato, spregiudicato. Volgare ital. Gratito, as, avi, atum. Mutito. Mutuito. V. Forcell. Ho notato che i continuativi dai verbi della prima coniugazione si fanno in ito, e possono perciò essere insieme o parimente frequentativi, come Uomo ordinato e assegnato in ogni cosa. Guicciard. ed. Friburgo, t. 4. p. 67. Brevetti d’invenzione non ignoti alle antiche repubbliche. V. Casaub. ad Athenae. l. 12. cap. 4. Androcoto e Sandrocoto (nome proprio) appresso i greci. V. Casaub. ibid. Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli altri, un’altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l’altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie: tanta è la scarsezza e l’oscurità delle notizie che abbiamo in questo particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di scriverne del medesimo Tasso. Ma noi veggiamo in Dante un uomo d’animo forte, d’animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all’avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie e vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice. (Recanati. 14. Marzo. 1827.). (Si può applicare all’epopea, drammatica ec.). È molto notabile nella considerazione comparativa delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono tutte quante di situazione meridionali. Dell’Italia non era ben civile che la parte meridionale. Del resto dell’Europa, la Grecia sola. Dell’Asia, solo il mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì l’India, la Persia ec. Dell’Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta. Or questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima differenza, sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle instituzioni pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà moderna. Perchè, secondo quella verissima osservazione già fatta da altri, che la civiltà è andata sempre, e va tuttavia progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello; i popoli civili moderni sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli antichi; o certo risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel settentrione (ciò si vede anche in America), il resto dei popoli più o manco civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor civiltà. E in somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra è una civiltà settentrionale. Proposizione che siccome a prima vista si riconosce per verissima moralmente, così nè più nè meno è vera letteralmente presa, e geograficamente. Differenza del resto grandissima e sostanzialissima, se non principale, e includente in se tutte le altre. L’antichità medesima e la maggior naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo. (14. Marzo. 1827. Recanati.). Alla p. 4253. Appunto, se noi diciamo un corpo che non sia nè largo nè lungo nè profondo, noi non ci pensiamo punto di avere perciò una menoma idea, nè chiara nè oscura, di tal cosa. Cambiamo la parola; diciamo uno spirito; a noi par di avere un’idea. E pur che altro abbiamo che una parola? Formica-formicola. Crusca. Segneri, Incred. senza scusa, par. 1. c. 5. par. 5. V. Forcell. Caprea-capreolus ec. Caprio cavrio (Segneri, ib. c. 13. par. 1.) — cavriuolo, capriuolo, capriatto ec. Inviolato per inviolabile. V. Forcell. Efferatus, efferato, per fiero. Undatus — undulatus. Ondato — ondeggiato, ondare — ondeggiare, coi derivati ec. ondazione (Segneri ib. c. 16. par. 2.) ondulazione, undulazione (Alberti). Ondoyer, ondoyé. Ondulation. Osservate in qualunque letteratura, antica o moderna, quali sieno le opere più insigni e più grandi, e troverete sempre che sono quelle che furono fatte in tempo che la nazione non aveva ancora una letteratura; quelle che furono dagli autori immaginate e composte con tutt’altra mira, con tutt’altro spirito (almen principale) che il desiderio di fama letteraria (non ancora in uso, nè desiderata), o pur di altre ricompense letterarie; il desiderio di fare una bella opera di letteratura, di arte di scrivere. (Recanati. 17. Marzo. 1827.). Sugo is — sugare. Crus. V. Forcell. Uomo o cosa aggiustata, aggiustatamente, aggiustatezza ec. Falco-faucon, falcone ec. V. spagn. Forcell. ec. Mugir meugler, meuglement; o beugler, beuglement. Flocon. Violette. Uscia, plurale. Noi diciamo rondinella (o rondinetta) per vezzo, e in verso e in prosa: così i nostri antichi scrittori: e val quanto rondine nè più nè meno. Non è ancor positivato, cioè non ha perduto il suo sentimento vezzeggiativo: ma può esser esempio di come l’hanno perduto gli altri diminutivi di animali e di piante, a forza di usarsi così semplicemente in cambio del positivo, andato a poco a poco, bene spesso, in disuso. (19. Marzo. Festa di S. Giuseppe. 1827.). Così pecorella ec. ec. i francesi dicono già Lodasi senza fine il gran magisterio della natura, l’ordine incomparabile dell’universo. Non si hanno parole sufficienti a commendarlo. Or che ha egli, perch’ei possa dirsi lodevole? Almen tanti mali, quanti beni; almen tanto di cattivo, quanto di buono; tante cose che vanno male, quante che camminan bene. Dico così per non offender le orecchie, e non urtar troppo le opinioni: per altro, io son persuaso, e si potrebbe mostrare, che il male v’è di gran lunga più che il bene. Ora un tal magisterio, sarà poi tanto grande? un tal ordine tanto commendevole? Ma il male par male a noi, non è veramente. E il bene, chi ci ha detto che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare dei fini, nè aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell’universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perchè vorremo noi dire che l’universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo, ch’è almeno altrettanto? Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e ciascuno di noi per questo conto l’avria saputo far meglio, avendo la materia, l’onnipotenza in mano. Cattivo è ancora per tutte le altre creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perchè tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch’è peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo. Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi (o se dal mal essere di tutte le parti, risulti il ben essere del tutto; il qual tutto non esiste altrimenti nè altrove che nelle parti; poichè la sua esistenza, altrimenti presa, è una pura idea o parola); se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest’ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende nè pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle. Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili. — Quel che ho detto di bontà e di cattività, dicasi eziandio di bellezza e bruttezza di questo ordine ec. (21. Marzo. 1827.). A veder se sia più il bene o il male nell’universo, guardi ciascuno la propria vita; se più il bello o il brutto, guardi il genere umano, guardi una moltitudine di gente adunata. Ognun sa e dice che i belli son rari, e che raro è il bello. Graziato, aggraziato, disgraziato ec. per grazioso, mal grazioso ec. Purgato, épuré ec. per puro. Scappare-scapolare. Saltabellare. Scartabellare. Entro a pochi dì, per fra pochi dì. Bartoli, Missione al gran Mogol, ed. Roma 1714. p. 72. Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili. Pel manuale di filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire una sillaba) tanto meno io era quieto nell’animo. Ogni menomo accidente che turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n’accadevano ogni giorno, perchè tali minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran differenza dalla tranquillità all’ozio. Le persone massimamente di una certa immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito Lord Nelvil); e le quali perciò appunto tendono all’amor del metodo, e alla fuga dell’azione e della società, e alla solitudine; s’ingannano in ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all’amor del metodo, della solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a temperarle co’ lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani. Ma certo un uom d’affari (senz’ombra di filosofia) ha l’animo più tranquillo nella continua folla e nell’affanno delle cure e delle faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di quello che l’abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e nell’ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo. 1827.). Quanto più, in questo tal modo, si fuggono le sollecitudini e i dispiaceri, tanto più vi s’incorre: perchè mancandone le cause reali (o vogliamo dir di momento) e che sopravvengono di fuori, noi ce ne fingiamo e facciamo da noi medesimi e, per così dire, del nostro capitale proprio, assai più, ed infinite. E queste sollecitudini e questi dispiaceri così prodotti, non solo sono per noi di ugual momento che sarebbero i reali; ma si sentono, e travagliano molto più, per la mancanza di distrazioni e la monotonia della vita, di quel che fanno i grandissimi e sommi, nella vita agitata e attiva. Che è quanto dir che sono maggiori assai. E si sentono tutti, dove che nella vita attiva, moltissimi non si sentono, e però non sono nè pur dispiaceri. (Recanati 25. Marzo. Domenica. Festa dell’Annunziazione di Maria. 1827.). Quanto, in quanto, per poichè, perocchè ec. — Dimonia. Demonia. Mulina. plurali. Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl’inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra quel degli altri fuor di modo e ragione. Questo è natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un’altra sorgente d’orgoglio e di disistima altrui, sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l’assuefazione incominciata sin dall’infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl’Inglesi la stima della propria nazione. Tant’è: il più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo, più o meno, non dimostri esteriormente questa sua opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte ben distinta di orgoglio, e di stima di se, in pregiudizio o abbassamento d’altrui della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl’inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno, l’hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl’italiani forse l’ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d’Europa. Degl’italiani d’oggi non parlo; non so ben se ve n’abbia. Questo sentimento della inferiorità dei forestieri, questo riguardarli e trattarli come d’alto in basso, è ai francesi e agl’inglesi, per l’abitudine, così naturalizzato e immedesimato, come è ad un uomo nato nobile e ricco, il parlare e trattare co’ poveri e co’ plebei, come con gente naturalmente inferiore: che anche l’uomo del più buon cuore del mondo, e il più filosofo, essendo nella detta condizione, li tratterà così, se non attenderà e non si sforzerà di proposito per fare altrimenti: perchè quell’opinione di sua superiorità sopra questi tali, è in lui non dipendente dal raziocinio, nè dalla volontà. Molto utile può essere ed è senza fallo questa opinione che hanno i francesi e gl’inglesi di se. Sarebbe utile anche a chi l’avesse senza ragione. La stima grande di se stesso è il primo fondamento sì della moralità, sì delle mire ed azioni nobili e onorate. Pure, perchè il conoscere in altri un’opinione della inferiorità propria, e un certo disprezzo di se in qualunque cosa, è sempre dispiacevole; non è dubbio che il veder questo tale orgoglio nazionale nei francesi e inglesi, non riesca assai dispiacevole e odioso ai forestieri. E perchè la civiltà e la creanza comandano, e sopra tutto, che si nasconda il sentimento della superiorità propria, e il disprezzo di quelli con cui trattiamo, per ragionevole e fondato che ei sia; pare che i francesi e gl’inglesi dovrebbero nascondere quel lor sentimento tra forestieri. Gl’inglesi non si piccano di buona creanza; piuttosto di non averla, piuttosto di mala creanza: però di loro non ci maraviglieremo. I francesi non solo se ne piccano, ma vogliono essere, credono essere, e certo sono, la meglio educata gente del mondo. Anzi in questo fondano per gran parte quella loro opinione di superiorità. Perciò pare strano che al più ben creato francese non riesca o non cada in mente di tenersi, parlando o scrivendo a forestieri, dal dar loro ad intendere in qualche modo (ma chiaro), che esso li tiene senza controversia per da meno di se. Molto meno poi negli scritti che pubblicano. Anco pare strana questa cosa, considerata la gran sensibilità e paura che hanno i francesi del ridicolo. Perchè se quella lor pretensione riesce ridicola a chi la stima giusta, e d’altronde utile e lodevole, come sono io; quanto non dovrà parere a quei che non pensano più che tanto, o che la stimano assolutamente vana, esagerata ec.? Il che dee naturalmente accadere con molti, ma con gl’inglesi accade di necessità. E già ogni pretension che si dimostra, ancorchè giusta, è soggetta a ridicolo, perchè il mostrar pretensione è ridicolo. E manco strano sarebbe che eglino non si guardassero co’ forestieri da questo ridicolo in casa propria; dove essi sono i più forti, perchè l’opinion comune è per loro, la lor superiorità è ricevuta come assioma, e l’uditorio è tutto dalla lor parte. Ma che non se ne guardino (come non se ne guardano punto) in casa dei medesimi forestieri, viaggiando tra loro, co’ loro medesimi ospiti? Questo veramente è strano assai ne’ francesi; ma molto più strano, che alla fin de’ fatti, essi viaggiano tra noi trionfalmente, dimostrandoci il lor disprezzo, mettendoci in ridicolo in faccia nostra propria e parlando a noi (non che tornati che sono a casa); e che da noi non ricevono il menomo colpo, il più piccolo spruzzo, di ridicolo nè in parole, quando noi trattiamo qui con loro, nè in lettere, nè in istampa. Da che vien questo? da bontà degl’Italiani, o da dabbenaggine, o da paura, o da che altro? (25. Marzo. 1827.). Pennelleggiare. Tratteggiare. Alla p. 4249. fin. Il medesimo Chesterfield nota più volte come pregi distintivi e dei principali della letteratura nostra, e come di quelli che principalmente la possono far degna della curiosità degli stranieri, l’aver degli eccellenti storici, e delle eccellenti traduzioni dal latino e dal greco, mostrando poi di aver l’occhio particolarmente a quelle della Collana. Va bene il primo capo. Il secondo non può servire ad altro che a mostrar l’ignoranza grande dei forestieri circa le cose nostre. Perchè se la nostra letteratura è povera in alcuno articolo, lo è certamente in quel delle buone traduzioni dal latino e dal greco. Di quelle specialmente della Collana non ve n’è appena una che si possa leggere, quanto alla lingua e allo stile, e per se; e che non dica poi, almeno per la metà, il rovescio di quel che volle dire e disse l’autor greco e latino. Tutte le letterature (eccetto forse la tedesca da poco in qua) sono povere di traduzioni veramente buone: ma l’italiana in questo, se non si distingue dall’altre come più povera, non si distingue in modo alcuno. Solamente è vero che noi cominciammo ad aver traduzioni dal latino e dal greco classico (non buone, ma traduzioni semplicemente), molto prima di tutte le altre nazioni. Il che è naturale perchè anche risorse prima in Italia che altrove, la letteratura classica, e lo studio del vero latino, e del greco. E n’avemmo anche in gran copia. E queste furono forse le cagioni che produssero tra gli stranieri superficialmente Ed ecco dagli stranieri negato agl’italiani formalmente, e trasferito alla letteratura francese quel medesimo pregio (e circa il medesimo tempo) che altri stranieri come il Chesterfield attribuivano alla italiana. Nella qual prefazione il Maffei afferma aver gl’italiani tradotto prima, più, e meglio delle altre nazioni . Per provar la qual proposizione, assunse di comporre, e compose quel suo catalogo dei nostri volgarizzatori. E quanto a me concedo e credo vere le due prime parti di essa proposizione, almen relativamente al tempo in cui il Maffei la scriveva. Concederò anche la terza, relativamente allo stesso tempo, purchè quel meglio delle altre , non escluda il male e il pessimamente assoluto. (Recanati. 27. Marzo. 1827.). V. p. 4304. fine. Alla p. 4234. V. ancora la lettera del Manfredi, nelle Considerazioni sopra la Maniera di ben pensare ec. dell’Orsi, Modena 1735. tom.1. p. 686. fin. e l’Orazione di Girolamo Gigli in lode della toscana favella, che sta colle sue Lezioni di lingua toscana, Ven. 1744. 3.a ediz. Alla p. 4194. A questo genere appartiene, cred’io, quell’aneddoto della femmina spagnuola di Buenos-Ayres in America, per nome Maldonata (avrà voluto dir Maldonada) alimentata lungo tempo, e poi casualmente salvata da una leonessa, da lei già beneficata, nel secolo decimosesto. Benchè questa istorietta sia riferita seriamente e con belle riflessioni filosofiche dal Raynal ( Leçons de littérature et de morale, cioè Antologia francese, par MM. Noël et Delaplace, 4.me édit. Paris 1810. tome 1. p. 16-18.) Ma essa, Noi italiani siamo derisi per le nostre cerimonie e i nostri titoli (che noi abbiamo avuti dagli spagnuoli) specialmente dai francesi, che hanno fama d’essere in ciò i più disinvolti. Frattanto noi non abbiamo il costume che hanno i francesi, che il Se era intenzione della natura, facendo l’uomo così debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben essere suo coll’ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè tante centinaia di nazioni selvagge e barbare dell’America, dell’Africa, dell’Asia dell’Oceanica, non vi sono arrivate ancora, non hanno fatto alcun passo per arrivarvi, e certo non vi arriveranno mai, nè saranno mai civili in niun modo (o non sarebbero mai state), se noi non ve li ridurremo (o non ve gli avessimo ridotti)? Le quali nazioni sono pure una buona metà, e più, del genere umano in natura. Perchè dato ancora che le popolazioni civili, nella somma loro, vincano di numero d’uomini la somma delle non civili nè state mai civilizzate, questa moltitudine di quelle è posteriore alla civilizzazione, ed effetto di essa: la quale favorisce la moltiplicazion della specie e l’aumento della popolazione. È stata dunque la natura così sciocca, e così mal provvidente, che ella abbia In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo. 1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi. V. p. 4273. E forse per questa ragione gli spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l’uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell’impeto, e cominciata la freddezza, e ridotto l’uomo a curarsi poco e a disperare omai del piacere. (30. Marzo. 1827.). Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale quanto più si cerca e si desidera per se e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro. Il desiderio stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco lei. Alla p. 4240. La sopraddetta utilità della pazienza, non si ristringe al solo dolore, ma si stende anche ad altre mille occasioni; come se tu hai da aspettare, da fare un’operazione lunga, monotona e fastidiosa; da soffrire una compagnia noiosa, mentre hai altro da fare; ascoltare un discorso lungo di cosa che nulla t’importa, un poeta o scrittore che ti reciti una sua composizione; e così discorrendo: dove l’impazienza, la fretta, l’ansietà di finire, l’inquietudine ti raddoppiano la molestia. In somma si stende a tutte le occasioni e stati dove può aver luogo quello che noi chiamiamo pazienza e impazienza; a tutti i dispiaceri; o sieno dolori o noie. (Recanati. 31. Marzo. 1827.). Quegli tra gli stranieri che più onorano l’Italia della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra classica, non considerano l’Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci hanno quella stima che si suole avere a questo genere di persone; quella che noi abbiamo in Roma agli usufruttuarii per così dire, delle diverse antichità, luoghi, ruine, musei ec. (31. Marzo. 1827.). Vespa — Serpyllum, serpillo, serpollo-sermollino, serpolet. Tubo, tube-tuyau. Benda, bande-bandeau. È notabile ancora e caratteristico delle antiche nazioni il modo come essi nominavano l’opposto dell’uomo di garbo, cioè il malvagio. È osservazione antica che quanto decrescono nelle repubbliche e negli stati le virtù vere, tanto crescono le vantate, e le adulazioni; e similmente, che a misura che decadono le lettere e i buoni studi, si aumentano di magnificenza i titoli di lode che si danno agli scienziati e a’ letterati, o a quelli che in sì fatti tempi sono tenuti per tali. Il somigliante par che avvenga circa il modo della pubblicazione dei libri. Quanto lo stile peggiora, e divien più vile, più incolto, più (Anche le stampe italiane d’oggi, benchè non possano sostenere il paragone delle francesi e inglesi, non temono pero quello di tutte l’altre, anzi sono sicure di uscirne vittoriose; e molte stampe italiane che oggi non paiono più che ordinarie, sarebbono parute splendide nel secolo passato, magnifiche e principesche nei precedenti.) Noi però abbiamo buonissima ragione di non porre più che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso la brevità della vita che essi in ogni modo (non ostante la bontà della stampa) sono per avere. Se mai fu chimerica la speranza dell’immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti. Tutti i posti dell’immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli antichi classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero degl’immortali; oh questo io non credo che sia più possibile. La sorte dei libri oggi, è come quella degl’insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi:
esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più longevi che la memoria di noi. Oggi si può dire con verità maggiore che mai: Del resto, come la impossibilità di divenire immortali, giustifica la odierna negligenza dello stile nei libri; così questa negligenza dal canto suo, inabilita, e fa impossibile ai libri, il conseguimento della immortalità. Notabili e vere parole di Buffon (Discours de réception à l’Académie française): E con questa osservazione di Buffon chiudo questo discorso non troppo lieto, e piuttosto malinconico che altrimenti. (Recanati 2. Aprile. 1827.). (Similmente poi, per altra parte, la negligenza universale intorno allo stile, rende inutile la diligenza individuale, se alcuno sapesse e volesse usarne, intorno al medesimo. Perchè, in sì fatti generi, le cose quanto sono più rare, tanto meno si apprezzano. Il pubblico, appunto perchè in ciò negligente, ed assuefatto a trascurar tale studio, non ha nè gusto nè capacità nè per sentire nè per giudicare le bellezze degli stili, nè per esserne dilettato. Perchè certi diletti, e non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non innato; di una capacità di sentirli acquisita. A chi non l’ha, non sono diletti in niun modo. L’arte più sopraffina non sarebbe conosciuta: l’ottimo stile non sarebbe distinto dal pessimo. Così l’eccellenza medesima dello stile non sarebbe più una via all’immortalità, che senza essa, tuttavia, non si può dai libri conseguire.) (Recanati. 2. Aprile. 1827.). (Molti libri oggi, anche dei beni accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili agli efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispazio di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi per arrivare a quello d’insetti alati, nel quale non durano più di due, di tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di una sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una, di due o di tre ore). (Encyclopéd. art. éphémères). (2. Apr. 1827.). Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e di forze uguale a lui, p. e. con un grosso cane, difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l’uomo riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L’uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, se non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà volontariamente. Il fanciullo, e più il bambino, adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non trovo niente d’inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le sue braccia, come nell’altra battaglia, cioè in quella de’ serpenti. (3. Aprile. 1827.).
Metrodoro epicureo ap. Ateneo l. 12. p. 546. f. Nella version latina di quel passaggio del Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della Alla p. 4266. Io stesso, che pur non ho maggior piacere che il leggere, anzi non ne ho altri, ed in cui il piacer della lettura è tanto più grande, quanto che dalla primissima fanciullezza sono sempre vissuto in questa abitudine (e l’abitudine è quella che fa i piaceri) quando talvolta per ozio, mi son posto a leggere qualche libro per semplice passatempo, ed a fine solo ed espresso di trovar piacere e dilettarmi; non senza maraviglia e rammarico, ho trovato sempre che non solo io non provava diletto alcuno, ma sentiva noia e disgusto fin dalle prime pagine. E però io andava cangiando subito libri, senza però niun frutto; finchè disperato, lasciava la lettura, con timore che ella mi fosse divenuta insipida e dispiacevole per sempre, e di non aver più a trovarci diletto: il quale mi tornava però subito che io la ripigliava per occupazione, e per modo di studio, e con fin d’imparare qualche cosa, o di avanzarmi generalmente nelle cognizioni, senza alcuna mira particolare al diletto. Onde i libri che mi hanno dilettato meno, e che perciò da qualche tempo io non soglio più leggere, sono stati sempre quelli che si chiamano come per proprio nome, dilettevoli e di passatempo. (6. Aprile. 1827.). Pel manuale di filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell’amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi coll’amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di non discolpar l’amico, e di non conoscere che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.). Perchè l’esistenza dell’universo fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe provare che l’universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza infinita l’avesse potuto creare. La quale infinità dell’universo, nessuna cosa ce la può nè provare, nè darcela a congetturare probabilmente. E quando poi l’universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell’universo, non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell’essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l’universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinosisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l’universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro. Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe sempre ignoto e nascosto: dove che l’universo è palese e sensibile. (7. Apr. Sabato di Passione. 1827. Recanati.). Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione? Alla p. 4245. Un’altra cagione per la quale io amo la Allegano in favore della immortalità dell’animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch’io sono per dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un’opinione. Se l’uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l’egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c’inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l’offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl’infelici non s’ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l’odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore o avversione, nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita e l’essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto, non sia più. Ma se crediamo questo, perchè lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è più? — Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui. In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c’intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch’io ho notato altrove; che il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l’ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o vero: questo è passato per sempre. V. p. 4282. Di modo che nel dolore che si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla rimembranza e su di essa fondato, il pensiero della caducità umana. Pensiero veramente non troppo simile nè analogo nè concorde a quello della nostra immortalità. Alla quale noi siamo così alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi dicessimo allora a noi stessi: io rivedrò però questo tale dopo la mia morte: io non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di non rivederlo mai più: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener fermo quel mai più; noi non piangeremmo mai per morti. Ma venga pure innanzi chi che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur una sola volta, accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e dall’aspettativa di rivedere una volta il suo caro defonto: che pur ragionevolmente, poste le opinioni che abbiamo della immortalità dell’uomo, e dello stato suo dopo morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si dovrebbe offrire alla mente. Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce, quali si sieno le nostre opinioni, la natura e il sentimento in simili occasioni ci portano senza nostro consenso o sconsenso a giudicare e tenere per dato, che il morto sia spento e passato del tutto e per sempre. Concludo che per quanto permette la infinita diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla morte; noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura e semplice natura, che essi in sostanza, e nel fondo del loro cuore, piuttosto consentono in credere la estinzione totale dell’uomo, che la immortalità dell’animo: senza che, nella detta diversità ed assurdità, io pretenda che tal consentimento sia di gran peso. (Recanati. 9. Apr. Lunedì Santo. 1827.). Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del 20.o secolo. Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v’abbia un’altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6. Ciò accade anche nei nostri bambini. V. Roberti Lettera di un bambino di 16 mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!! (Recanati. 13. Apr. Venerdì Santo. 1827.). V. p. 4419. Badare-badigliare, sbadigliare ec.; badaluccare, badalucco ec. V. N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra, p. 162-3. Rosecchiare, rosicchiare. Presso gli Spagnuoli, i quali si dicono essere quelli che nelle colonie meglio trattano gli schiavi, i Neri nell’isola di Cuba hanno diritto di forzar per giudizio i loro padroni a venderli ad altri, in caso di mali trattamenti. V. il N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra, p. 175. Così appunto gli schiavi aveano il diritto Dico altrove che la moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l’imitativo che aveva il suono della parola in latino, e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola. Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che la latina, ovvero sue proprie ed originali. Upupa lat. e italiano — bubbola. Alla p. 4255. principio. Uomo, viso, contegno, stile (ec.) sostenuto. Volg. ital. Onde è sostenutezza, usato dal Salvini, e registrato dalla Crusca. Anche i francesi nel dir familiare usano Homme, esprit, dissipé. Disapplicato. Nae-v-us — Ne-o. V. franc. spagn. ec. Culter, cultrum-cultellus, coltello, couteau ec. ec. V. Forcell. , gli Spagnuoli ec. Alla p. 4278. Il qual dolore si prova anche lasciando uno stato penoso, e il fine del quale sia stato da noi desideratissimo, e ci sia attualmente oltremodo caro. Il carcerato posto in libertà, piangerà nell’uscir della sua prigione, non per altro che pensando alla fine del suo stato passato: Filottete, partendo per l’assedio di Troia, dà un addio doloroso all’isola disabitata e all’antro de’ suoi patimenti. L’estate, oltrechè liberandoci dai patimenti, produce in noi il desiderio de’ piaceri, ci dà anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell’aria. Dalla qual sicurezza d’animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza che produce il freddo, nasce l’egoismo, l’indifferenza per gli altri ec. Alla p. 4245. Aggiungi a queste cose la voluttà (ben conosciuta e notata dagli antichi) del piangere, del gemere, dello stridere, dell’ululare nelle disgrazie; della quale noi siamo privati. (Recanati. Domenica in Albis. 22. Aprile. 1827.). Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi per gli altri, è la stima di se medesimo e l’aversi in pregio; siccome il primo fondamento dell’interessarsi per altrui, è l’aver buona speranza per se medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.). Anticipare, posticipare, participare ec. da Bucherare. Spicciolato. Fra giorno, cioè di giorno, nel giorno, dentro giorno, dentro il corso del giorno. Innumerato per innumerabile. Palmieri (scrittore del sec. 15.), Della vita civile. V. Crus. Forcell. ec. Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta. L’ho dimandato anco sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti (e così, io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti gli uomini. Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s’ignora quel della vita che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti. (Firenze. 1. Luglio. 1827.). È ben trista quella età nella quale l’uomo sente di non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell’uomo, il gran mobile de’ suoi atti, delle sue parole, de’ suoi sguardi, de’ suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d’inspirare, di communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio. 1827.). Una delle cause della imperfezione e confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette all’alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha quell’alfabeto. Ciò si vede specialmente nell’inglese, dove per conseguenza uno stesso segno vocale deve esprimere ora uno ora un altro suono, senza regola fissa, e servire a più suoni. I caratteri dell’alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne. E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue sono più distanti per origine e per proprietà dal latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado di ogni repugnanza, furono architettate. Le contrazioni greche (sì quelle in uso ne’ vari dialetti, e sì quelle attiche, e passate nel greco comune) non sono che modi di pronunziare certi dittonghi o trittonghi ec.: come appunto in francese au, ai ec. che si pronunziano o, e ec.; in inglese ea, ee ec. che si pronunziano i, e ec. ec. Così in greco Avvengachè tra gli scrittori che io ho visti, non si trovi in maniera alcuna chi altrimenti (ridondante) costui si fosse. Giambullari, Istoria dell’Europa, lib.7. principio, Pisa, Capurro. 1822. t. 2. p. 173. Sull’orlo d’un laghetto, ch’era vicino a certe balze sopra le coste di Agnano, stavano una testuggine, e due altri uccelli pur d’acqua. Firenzuola, Discorsi degli animali . (Firenze. 1. Luglio. 1827.). L’amore e la stima che un letterato porta alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in ragione inversa dell’amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta a se stesso. (Firenze. 5. Luglio. 1827.). Alla p. 4245. Di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ec. quei diritti d’ospizio ec. affinità d’ospizio ec. Ben diversi in ciò dai moderni. (5. Luglio. 1827.). Cuna, cunula, culla. Favonius-Faunus. V. The Monthly Repertory of english literature, Paris, N. 51. June 1811. vol. 13. p. 331. Vino. Il piacer del vino è misto di corporale e di spirituale. Non è corporale semplicemente. Anzi consiste principalmente nello spirito ec. ec. (Firenze. 17. Luglio. 1827.). Uno che costretto dai debiti, aveva venduto per cinquantamila scudi il suo patrimonio, non volendo dire di aver venduto, diceva (e certo con altrettanta verità) di aver comperato cinquantamila scudi. (Firenze. 19. Luglio. 1827.). Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m’avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll’andar del tempo mi trovava sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio. 1827.). Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio. Veramente e perfettamente compassionevoli, non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri, quando sono nel fior dell’età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d’un altro mondo, perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche. Ma non v’ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d’altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell’appassimento del fiore de’ giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù. (Firenze. 23. Lugl. 1827.). Vagheggiare, bellissimo verbo. Naufragato, Fra, infra, tra, intra tanto; Come La materia pensante si considera come un paradosso. Si parte dalla persuasione della sua impossibilità, e per questo molti grandi spiriti, come Bayle, nella considerazione di questo problema, non hanno saputo determinar la loro mente a quello che si chiama, e che per lo innanzi era lor sempre paruto, un’assurdità enorme. Diversamente andrebbe la cosa, se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia. Or così appunto dovrebbe esser disposto l’animo degli uomini verso questo problema. Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo. (Firenze. 18. Sett. 1827.). Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de’ greci e de’ romani. Vedesi appunto da quel tanto d’instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l’uso della ginnastica, l’uso dei bagni e simili. Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d’ogni età dell’uomo, in ogni parte dell’igiene pratica, in tutto il fisico della civiltà, v. p. 4291. gli antichi ci sono ancora d’assai superiori: parte, se io non m’inganno, non piccola e non di poco momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto. (18. Sett. 1827.). Addolcendosi i costumi, diffondendosi le cognizioni e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà, veggiamo che i grandi delitti o spariscono, o si fanno più rari. Se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l’effetto e l’esperienza della civilizzazion presente deciderà per la prima volta. — Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaro o semicivile piuttosto, una quantità di delitti atroci che vincono l’immaginazione, una quantità di azioni eroiche di virtù (spesso occasionate da quei medesimi delitti), che esaltano l’anima la più fredda (come è la mia). Certo niente o ben poco di simile nelle parti men barbare dell’Italia, e nel resto d’Europa, nè per l’una nè per l’altra parte. (Firenze. 18. Sett. 1827.). Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l’u vocale. Credo che il vau dell’alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V
non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l’avessero nella lingua. Considerato come un’aspirazione (non altrimenti che l’f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il Alla p. 4289 — nella civiltà insomma del corpo, per dir così, o vogliamo dire, che spetta al perfezionamento o alla perfezione del corpo, — Dice la Staël che la lingua tedesca è una scienza, e lo stesso si può, e con più ragione ancora, dir della greca. Quindi è accaduto che siccome le scienze si perfezionano, e i moderni sono in esse superiori agli antichi, per le più numerose e accurate osservazioni, così e per lo stesso mezzo la notizia del greco, dal rinascimento degli studi, si è accresciuta e si accresce tuttavia, e che i moderni sono in essa d’assai superiori a quelli del 5 o del 4 cento, e forse in alcune parti (come in quella delle etimologie, parte così favolosamente trattata da Platone), agli stessi greci antichi; anzi, che gli scolari di greco oggidì, ne sappiano più de’ maestri de’ passati tempi. E come le scienze non hanno limiti conosciuti nè forse arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, nè si può conoscere se e quando arriverà al Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l’analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di que’ corpi ch’io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là, ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all’ignorante, che guarda intorno da un’alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v’è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito. Ma come poi si è trovato per esperienza che il globo terracqueo, il qual pare infinito, e certamente per lungo tempo fu tenuto tale, ha pure i suoi limiti, così, secondo ogni analogia, si dee credere che la mole intera dell’universo, l’ L’estrema imperfezione dell’ortografia francese è confessata in modo Se fosse possibile che io m’innamorassi, ciò potrebbe accadere piuttosto con una straniera che con un’italiana. Quel tanto o di nuovo o d’ignoto che v’ha ne’ costumi, nel modo di pensare, nelle inclinazioni, nei gusti, nelle maniere esteriori, nella lingua di una straniera, è molto a proposito per far nascere o per mantenere in un amante quella immaginazion di mistero, quella opinione di vedere e di conoscere nella persona amata assai meno di quello che essa nasconde in se stessa, di quel ch’ella è, quella idea di profondità, di animo recondito e segreto, ch’è il primo e necessario fondamento dell’amor più che sensuale. Oltre alla grazia che accompagna naturalmente ciò ch’è straniero, come straordinario. (Firenze, 21. Sett. 1827.). Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec. il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze. (21. Sett. 1827.). La differenza tra le voci di origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo, un’altra, tutta differente, e si considera come un altra voce da tutti, salvo solo i pochissimi che s’intendono delle origini della lingua. P. e. Alla p. 4238. Ebbero i Greci ancora, come i moderni, degl’Itinerari, delle Descrizioni di città e di provincie, anche con dettagli appartenenti a storia, arti, monumenti, costumi, prodotti, statistica insomma (come quella di Pausania, e la Descriz. della Grecia di Dicearco, contemporaneo di Teofrasto, della quale son da vedere i frammenti nei Meletemata del Creuzer); delle Relazioni di Viaggi per mare e per terra (come i Peripli, il Viaggio di Nearco, di Arriano nell’Indica, quello di Megastene all’India, ed altri simili sotto titolo di Persone la cui compagnia e conversazione ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di sforzarci e adoperarci d’essere stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la compagnia e conversazione delle donne non può esser durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima. (Firenze. Domenica 14. Ottobre. 1827.). ———————— Fin qui si stende l’Indice di questo zibaldone di
Pensieri cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 Ottobre 1827 in Firenze. ———————— Bisogna guardarsi dal giudicare dell’ingegno, dello spirito, e soprattutto delle cognizioni di un forestiere, da’ discorsi che si udranno da lui ne’ primi abboccamenti. Ogni uomo, per comune e mediocre che sia il suo spirito e il suo intendimento, ha qualche cosa di proprio suo, e per conseguenza di originale, ne’ suoi pensieri, nelle sue maniere, nel modo di discorrere e di trattare. Massime poi uno straniere, voglio dire uno d’altra nazione, ne’ cui pensieri, nelle parole, nei modi, è impossibile che non si trovi tanta novità che basti per fermar l’attenzione di chi conversa seco le prime volte. Ogni uomo poi di qualche coltura, ha un sufficiente numero di cognizioni per somministrar lauta materia ad uno o due Da queste osservazioni si possono cavar parecchie riflessioni utili, ma fra l’altre, due ben diverse, ed utili a due ben diversi generi di persone. La prima: che i viaggiatori, per quanto sieno intendenti e di buona fede, debbono restar facilmente ingannati nel giudicar dello spirito, ingegno, erudizione e dottrina delle persone che vedono. Questa sarà utile per chi legge le Relazioni di Viaggi fatti in Europa, che ora sono tanto alla moda. L’altra: che un viaggiatore, per poco capitale ch’egli abbia di spirito e di sapere, dev’essere ben povero d’arte conversativa, se dovunque egli passa, non si fa passare per un grand’uomo. E questa sarà utile a chi viaggia. Come anche sarà utile per un altro lato a chi viaggia, l’esempio dell’accaduto a me, come ho detto di sopra ec. (Pisa. 13. Novembre. 1827.).
Alla p. 4115. Persio Sat. 1. v. 112-14. Cader dalla padella nella brace ec. V. Crusca. — Platone nel fine del libro 8. Alla p. qui dietro. Del resto, questo scompisciamento generale di Firenze procede da quell’eccessiva libertà individuale che vi regna, per la quale Firenze potrebbe molto bene paragonarsi ad Atene del tempo il più democratico, ed applicarsi a lei quello che, alludendo ad Atene, dice di una città eccessivamente democratica Platone nell’ottavo della Repubblica, opp. ed. Astii, tom. 4. p. 478. (Pisa. 5. Dic. 1827.). Alla p. 4164. capoverso 3. Epicuro Epist. ad Herodot. , ap. Laert. X. segm. 37. D’Alembert nel Discours préliminaire de l’Encyclopédie, avendo parlato delle cure, delle fatiche prese, e delle grandissime difficoltà incontrate dagli enciclopedisti, e particolarmente da Diderot per acquistare intorno alle arti, mestieri e manifatture i lumi e le notizie necessarie a trattarne nella enciclopedia, soggiunge: S’andrà schernendo il giovinetto altero Senz’altra (alcuna) pena l’amoroso foco, Chi sarà poi che ’l tuo schernito impero, Voto d’ogni timor non prenda in gioco? Alamanni, Favola di Narcisso, stanza 17. (30. Dic. 1827. Domenica.). Altronde per altrove. Angelo di Costanzo, Sonetto 44. Mancheran prima ec. Avale-aguale. Tallo- Frugare — Frugolare. Malm. racq. 10.mo cantare, stanza 44. Spruzzo — Spruzzolo. Menzini, Satira 9. verso 48. Cosa curiosa, e notabile per chi vuol conoscere la storia, e dalla storia inferire il valore, delle opinioni degli uomini intorno ai diritti e ai doveri, si è che ne’ secoli passati, i Negri erano creduti d’una origine e quindi d’una famiglia stessa co’ bianchi, e pur quei medesimi che li tenevano per tali, sostenevano la ineguaglianza naturale di diritti tra i bianchi e loro, la inferiorità dei Negri, e la giustizia della loro servitù, anzi schiavitù ed oppressione: oggi i Negri sono conosciuti di origine, e però di famiglia, onninamente diversa dai bianchi, e quelli che gli hanno per tali, sostengono la loro uguaglianza sociale rispetto a noi, e la parità de’ loro diritti, e la totale ingiustizia del farli schiavi, o maltrattarli, o dominarli, e l’assurdità dell’opinione antica in tal proposito. (Pisa 14. Gen. 1828.). Alla p. 4298. Oh gente santa, Che non piscia lì dove vede impresso Segno di croce! Menzini, Sat. 9. vers.56-8. Al detto altrove di Altronde per altrove. Giusto de’ Conti, Bella Mano, Canz. 2. st. 5. Capit. 4. v. 8. Infamato per infame. Id. ib. Capit. 3. v. 88. Dannata (per dannevole) vista, e di mirarsi indegna . Chiabr. Canz. Cosmo, sì lungo stuol, lieto in sembianza. v. 25. stanz. 4. v. 1. Patito. Viso patito. Uomo, cavallo, panno patito ec. Si dice anche in Toscana. Memorie della mia vita. La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio, e più speranze che desiderii ec. (Pisa. 19. 1828.). V’è di quelli ostinati, Che per un blittri (della qual voce, derivata dal greco, dico altrove: vuol dire per un nulla) categorematico Lascerian stare la broda e ’l companatico. Magalotti, Sonetto colla coda; che incomincia: Acciò conosca ognun quanto diverso. vers.27-29. Parla de’ fanatici scolastici e peripatetici del suo tempo. (Pisa. 22. 1828.). Raperonzo — raperonzolo. Cotogno — cotognolo. V. Crus. E disse fra suo core: l’ho mal fatto. Pulci Morg. maggiore, XII. 28. Disse Rinaldo: A te, sanza altre scorte, (nessuna scorta) Venuti siam per l’oscura foresta. Ib. canto 17. st. 35. E disse fra suo cor: costui fia quello. Ib. c. 22. st. 228. Sottosopra fu buon sempre l’ardire: Ha la fortuna in odio un uom da poco, Ed è nimica de gli sbigottiti (soliti a sbigottirsi ec.). Berni, Orl. inn. c. 35. st. 3. Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacchè gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a se, ec. (Pisa. 5. Feb. 1828.). Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri: (Pisa. 15. Apr. 1828.) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa. 15. Feb. ult. Venerdì di Carnevale. 1828.). Pelo matto, pasta matta ec. — Ciascuna stella negli occhi mi piove Della sua luce e della sua vertute. Dante Rime, lib. 2. Ballata 3. Io mi son pargoletta bella e nova. (Pisa. 19. Marzo Festa di S. Giuseppe. 1828.). Alla p. 4264. Alla p. 4298. fine. In Pisa, su un canto della piazza dello Stellino, oltre la croce dipinta, v’è la leggenda: Rispetto alla Croce. V. p. 4307. E molte forti a Pluto alme d’eroi Spinse anzi tempo, abbandonando i corpi Preda a sbranarsi a’ cani ed agli augelli. Foscolo. Molte anzi tempo all’Orco Generose travolse alme d’eroi, E di cani e d’augelli orrido pasto Lor salme abbandonò. Monti. E così gli altri. Ma Omero dice le anime ( Alla p. 4305. Pietro Aretino dice in una delle sue commedie: un cavalier senz’entrata è un muro senza croci, scompisciato da ognuno . Ginguené, t. 6. p. 229. not. (Pisa. 19. Maggio. 1828.). Il codice frontoniano ha M. Aurelio nelle lett. a Frontone chiama costantemente Faustina sua moglie, Leggendo la curiosa lettera di Vero a Frontone (ad Ver. imp. ep. 3. ed. Rom.) in cui lo prega di scrivere la storia delle gesta di esso Vero nella guerra partica, mi par proprio di leggere una lettera di qualche moderno scrittore a un giornalista sopra qualche sua opera. Lo stesso amor proprio, esagerazione, noncuranza del vero ec. E in verità quella lettera (v. anche quella di Cic. a Lucceio) ci mostra quanto dobbiamo fidarci di storie, anche contemporanee. Ma che differenza tra gli antichi e i moderni ancor qui! Questi raccomandano 1. delle operucce, 2. a un giornalista, 3. per un articolo; quelli 1. de’ fatti militari o civili, 2. a uomini famosi, 3. per una storia ec. ec. La lett. di Vero è senza niuna diversità nell’ediz. milanese e meriterebbe di esser citata tradotta. (Firenze. 21. Giugno, anniversario del mio primo arrivo a Firenze. 1828.). Tanto è vero che tra gli antichi la prima lode era quella della felicità, che noi vediamo nelle Orazioni funebri, e in simili casi, gli Oratori dovendo lodare, p. e. de’ soldati morti per la patria, cominciar dal mostrare che essi non sono stati infelici, che la loro morte non è stata una sventura. Oggi al contrario: si cercherebbe d’intenerir gli uditori sopra il loro caso: il muover la compassione in tali circostanze era cosa al tutto ignota, era un vero controsenso presso gli antichi. Le loro Oraz. fun. sono tutte consolatorie. Dionigi D’Alic. nei giudizi sopra gli scrittori antichi biasima Tucidide per aver preso un argomento di storia che conteneva le sventure della sua patria (Atene), e loda al paragone Erodoto per aver preso a tema le vittorie de’ greci sui barbari. Anche nelle storie questi rispetti, e a’ tempi di Dionigi. (Firenze 29. Giugno, dì di S. Pietro, e mio natalizio. 1828.). Solone appo Erodoto 1. c. 32. parlando a Creso della costui prosperità chiama la divinità invidiosa Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d’ Da applicarsi alle mie riflessioni sopra Omero e l’epopea. Dalle mie riflessioni sopra Omero ec. si vede quanto male dai costumi fieri e selvaggi, dallo spirito di vendetta, dai vantaggi puramente fisici attribuiti da Omero ai Greci, e dalla compassione attaccata alla sorte dei Troiani, si arguisca che l’Iliade e l’Odissea furono composti in ispirito troiano e non greco, e quindi apparentemente per li Troiani, o nati sul suolo troiano, e non per li Greci di Jonia. Anzi si vede che appunto da queste cose medesime si dee concludere il contrario. (24 6. Lug. 1828.). V. p. 4447. Da applicarsi pure alle mie riflessioni sopra Omero e l’epopea. Homerische Vorschule, etc. Introduction à l’étude de l’Iliade et de l’Odyssée; par W. Müller. 192. p. in 8. Leipzig; 1824.
In questa ipotesi, che è quasi una transazione coll’opinion comune, poichè riconosce l’esistenza di Omero, ed ammette in qualche modo l’unità di autore dell’Iliade e dell’Odissea, a differenza di Wolf che attribuisce quei poemi a vari autori, e di B. Constant, che li attribuisce a due; io ammetto assai volentieri che Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, nè anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno, cioè di fare una lunga poesia che avesse un principio, mezzo e fine corrispondenti, che formasse un tutto rispondente ad un certo disegno, che avesse una qualunque circoscritta e determinata unità. Credo che incominciasse le sue narrazioni dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta, le terminasse quando fu sazio di cantare, senza immaginarsi di esser giunto a uno scopo, senza intender di dare una conclusione al suo canto, nè di aver esaurita la materia o de’ fatti, o del suo piano, che nessuno egli n’ebbe. Aggiungo che credo ancora che i suoi versi fossero ritmici, non metrici, fatti cioè ad un certo suono, non ad una regolata e costante misura; alla quale (mediante però l’ammissione di quelle loro infinite irregolarità ed anomalie, che furono chiamate e si chiamano eccezioni, licenze, ed ancora regole) fossero ridotti in séguito dai diascheuasti ec. Così è probabile che originalmente e nell’intenzione dell’autore fossero ritmici i versi di Dante, ridotti poi per lo più metrici nello stesso secolo, 14.o. E così, come ha provato un loro dotto editore, il Dott. Nott, che mi ha eruditamente parlato di questa materia, furono puramente ritmici i versi dell’inglese Chaucer. Lo furono ancora certamente quelli de’ più antichi verseggiatori nostri, provenzali, spagnuoli, francesi. V. p. 4334.4362. Ma quello in cui la mia ragione non può trovare una probabilità, non solo nel caso di Omero, ma nè anche in quelli di Ossian e di qualunque altro si possa addurre in proposito, è che dei canti, certo in ogni modo assai lunghi, improvvisati p. e. a un convito o ad una festa pubblica, in mezzo a gente ubbriaca o dal vino o dalla gioia ec., da un poeta, forse ancor esso Ma se il Müller vuol persuadermi che i poemi d’Omero non fossero scritti (al che non farò resistenza, tanto più che è conforme alla tradizione ricevuta fra gli antichi stessi, a quel che si dice di Licurgo ec.), mi trovi qualche altro mezzo probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli d’inspirazioni e d’improvvisazioni; mi dica almeno che Omero prima di cantare i suoi versi, li componeva; che li cantava poi più e più volte (a diversi uditorii, o in varie occasioni), colle stesse parole, e quali gli aveva composti e cantati; che gl’insegnava ad altre persone, fossero del volgo, o fossero cantori e genti del mestiere, che solessero impararne da altri, non sapendo farne del loro, e col cantarli si guadagnassero il vitto. Allora, considerata anche la superiorità della memoria avanti l’uso della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e confermata dall’esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la conservazione di canti non scritti, sieno d’Omero o de’ Bardi ec. Ma posto che Omero componesse veramente e meditatamente i suoi canti, in modo da ricordarsene esso poi sempre, e da insegnarli altrui, allora, esclusa anche ogn’idea di piano, non sarà poi fuor di luogo il supporre tra questi canti una certa tal qual relazione; il pensare che Omero nel compor gli uni, si ricordasse degli altri che aveva composti, e intendesse di continuarli, o vogliamo dire, di continuare la narrazione, senza (torno a dire) tendere perciò ad una meta. Anzi questa supposizione è più che naturale, trattandosi di canti che hanno un argomento comune: è certo che Omero nel compor gli uni di mano in mano, si ricordava de’ precedenti. E non è egli verisimile che li cantasse sovente tutti ad uno stesso uditorio, oggi un canto, domani un altro? che l’uditorio s’invogliasse di ascoltar domani la continuazione della storia d’oggi? (ricordiamoci che allora non v’erano altre storie che in versi) che Omero nel cantare i suoi diversi componimenti seguisse un ordine, quello de’ fatti? (sia il medesimo o altro da quello che si trova oggi ne’ suoi poemi) che seguisse anche quest’ordine nel comporli, cioè, che dopo aver cominciato dove il caso volle, andasse avanti immaginando e narrando, soggiungendo oggi al racconto di ieri, senza (ripeto ancora) mirar mai ad altro, che a tirare innanzi la narrazione? Così sarà spiegata plausibilmente quella tal quale unità, quanto si voglia larga, ma sempre unità, che si trova ne’ suoi poemi, e massime nell’Odissea, nella quale bisogna pur convenire che è ben difficile il non riconoscere un legame qualunque tra le parti, una continuità nel racconto, un insieme, ed anche un principio e fine, nelle avventure romanzesche di quell’eroe. Ed osservo di più, che nell’uno e nell’altro poema, ma più nell’Iliade, moltissimi sono quei tratti di considerabile lunghezza, ai quali non si potrebbe mai dare un titolo a parte, che non fosse frivolo; staccati dal rimanente, non hanno nessuna ragionevole importanza, e riuscirebbero noiosissimi; essi non possono interessare che dipendentemente dalla relazione e connessione che hanno col resto del racconto, come accade ne’ poemi scritti con piano determinato; e in se stessi non offrono un argomento che potesse mai parer degno d’esser cantato isolatamente. Questi tratti sono troppo numerosi, troppo lunghi, e formano troppo gran parte de’ due poemi, perchè si possano credere interpolati appostatamente da’ diascheuasti per mettere Le ripetizioni, le cose inutili, le contraddizioni, oltre che a niuno potrebbero far meraviglia in poemi fatti, com’io dico, senza intenzione e senza piano, non annunziano che l’infanzia dell’arte, e non possono parere obbiezioni valevoli, anzi appena obbiezioni, a chi ha pratica e familiarità cogli scrittori antichi; dico assai meno antichi, assai più artifiziosi e dotti che non fu Omero; dico non solo poeti, ma prosatori. Quanto, e come spesso, debbono sudar gli eruditi commentatori per conciliare e por d’accordo seco stesso p. e. qualche antico storico, la cui opera fu certamente scritta, e con piano, e con materiali di fatti scritti da altri, o conservati da tradizione! V. p. 4330. L’infanzia dell’arte in Omero, è annunziata ancora p. e. dalla sterile soprabbondanza degli epiteti, usati fuor di luogo, senza causa o proposito, e spessissimo, com’è noto, a sproposito. Lo stesso per l’appunto fanno i fanciulli quando scrivono i loro esercizi di rettorica: essi non sono mai semplici, anzi più lontani che alcun altro dalla semplicità. Così la maniera di Omero ha una certa naturalezza, ma non semplicità. Quella era effetto del tempo, non dell’autore: i fanciulli non l’hanno, perchè hanno letto, hanno che imitare, ed imitano. Ma la semplicità, come ho detto e sviluppato altrove, è sempre effetto dell’arte; sempre opera dell’autore e non del tempo. Chi scrive senz’arte, non è semplice. Omero anzi cercava tutt’altro che il semplice, cercava l’ornato, e quella sua naturalezza che noi sentiamo, fu contro sua voglia. I poeti greci posteriori hanno abbondanza di epiteti per imitazione di Omero: i più antichi però ne hanno meno, e più a proposito. V. p. 4328. capoverso 2., e la pag. 4350. fin. Questa mia ipotesi, come si vede, sarebbe una nuova transazione fra l’opinione di Wolf e di Müller, e la comune. Secondo ambe le ipotesi, la mia e quella de’ due tedeschi, Omero sarebbe stato poeta epico senza volerlo; e sarebbe interessante e curioso il notare il modo della nascita del genere epico, nascita che verrebbe ad essere immaginaria, e pur questa semplice immaginazione avrebbe dato luogo ai lavori epici in che hanno speso la vita eccellentissimi ingegni, come Virgilio e il Tasso: non sarebbe questo il solo caso ridicolo che sarebbe stato originato dalla inclinazione dell’uomo a imitare, ed a sottomettere a regole e a forme il proprio genio. Del resto, ammessa la mia ipotesi, riman sempre luogo a qualche degna lode dell’arte di Omero per l’effetto dell’insieme dell’Iliade, benchè composta senza piano preliminare; l’effetto, dico, osservato nelle mie riflessioni sul poema epico. Ammessa però, in vece, l’ipotesi di Wolf o di Müller, tutta la lode sarà dovuta al solo caso, e risulterà dalle predette mie riflessioni che il caso è molto meglio riuscito nel formare e ordinare un corpo di poema epico, che l’arte de’ successori. E al caso si attribuiranno quelle lodi che io ho date all’arte di Omero per l’insieme del suo poema. Altra circostanza umiliante per lo spirito umano. (Firenze. 26 31. Luglio. 1828.). V. p. 4354. fine. Alla p. 4318. Infatti Femio e Demodoco nell’Odissea cantano i loro versi narrativi accompagnandosi colla lira. Del resto queste mie osservazioni tendono a rivendicar come antica la differenza ora e da gran tempo riconosciuta fra le poesie lodative, passionate ec. dette liriche, meliche ec. e le narrative, dette epiche. (31. Lug. 1828.). Alla p. 4326. La mancanza dell’arte necessaria per ottenere il semplice, fu una delle cause che ritardarono nella letteratura greca, già ricca di versi, la produzione di buone prose. Chi non voleva scriver plebeo, chi non era affatto ignorante, sapeva scrivere ornatamente (come sta bene in poesia), ma non (come vuolsi alla prosa) pianamente. La lingua de’ numi, dice il Courier (pref. al Sag. dell’Erodoto), era benissimo posseduta, mentre la lingua degli uomini non si sapeva ancora usare. I primi saggi di prosa greca, come quelli di Ecateo Milesio e di Ferecide, peccano principalmente, come osserva esso Courier, per il poetico che hanno, anche nella dizione. Lo stile riusciva gonfio, non se ne sapevano guardare: in poesia si trovavan più a loro agio, perchè quivi non era gonfiezza quel che lo era nella prosa. Anche Erodoto, a ben guardarlo, ha del poetico e del gonfio in mezzo alla naturalezza propria del tempo. Così noi avevamo Dante, e nessuna prosa di conto fino al Boccaccio. Le migliori erano le più plebee, scritte da’ più ignoranti, senza pretensione, senza neppure intenzione (per dir così), di scrivere. Ma i prosatori che volevano scrivere, riuscivano stranamente gonfi (in mezzo alla naturalezza effetto del tempo e della pochissima lettura), come Dino Compagni, similissimi per la meschina gonfiezza e declamazione, ai fanciulli di rettorica. (31. Lug. 1828.). Se un buon libro non fa fortuna, il vero mezzo è di dire che l’ha fatta; parlarne come di un libro famoso, noto all’Italia ec. Queste cose diventano vere a forza di affermarle. Molti che l’affermino e lo ripetano, lo rendono vero senz’alcun dubbio. Se, per qualunque ragione, questo mezzo non si può usare, il miglior partito è di tacere, dissimulare, e aspettare se il tempo facesse qualche cosa. Ma niente di peggio che Alfabeti. Ortografia. Difficoltà ed imperfezioni della scrittura de’ dialetti p. es. italiani, abbondanti di suoni mancanti all’alfabeto nazionale scritto ec. Arbitrario dell’applicazione dei segni di questo alfabeto ai detti suoni: due persone che si ponessero a scrivere uno stesso dialetto senza saper l’uno dell’altro, nè seguire un metodo già ricevuto, si può scommettere che non iscriverebbero una parola sola nello stesso modo. La più parte dei nostri dialetti hanno un alfabeto di suoni più ricco assai del comune. (Fir. 10. Agos. 1828.). In letteratura, tutto quello che porta scritto in fronte bellezza, è bellezza falsa, è bruttezza. Verità fecondissima, e ricchissima di applicazioni, che occorrono ad ogni ora. (Fir. 10. Agos. 1828.). Alla p. 4326. e il cui soggetto fu il vero, e non in gran parte il finto, come in Omero e ne’ poeti. (10. Agos. 1828.). Dalle mie osservazioni su quel passo di Agatarchide comparato alla storiella di Muzio Scevola, si può dedurre che una delle principali fonti del favoloso trovato, massimamente dal Niebuhr, nella storia romana de’ primi tempi, sia l’avere i primi storici romani (seguiti poi dagli altri) copiato nella narrazione delle origini e de’ tempi oscuri di Roma, le storie o le favole de’ Greci, mutando i nomi. Così hanno fatto i primi storici di quasi tutte le nazioni, anche più recentemente, e ne’ bassi tempi ec. fra’ quali è insigne esempio quel Saxo nella Historia Danica. (10. Agos.). Alla p. 4323. La presa di Troia, secondo i marmi di Paro, la cui cronologia è ora la più, anzi la generalmente seguìta, si pone nell’anno 108 avanti l’era Cristiana. Bull. de Féruss. ec. loc. cit. alla p. 4312. tom.3. art. 235. p. 275. fin. (10. Agos. 1828.). V. p. 4378. Tutti dicono che la buona gente è rara assai. Questo in generale. Ma quando si viene al particolare, niente di più comune che il sentirsi dire di una famiglia: è buona gente, di un individuo: è un buon uomo, un buonissim’uomo. Rare volte il contrario: non sarà appena come uno a dieci. E nella pratica, io ho trovato buona gente da per tutto, anche per convivere: tanto che ora, di niente sono meno in pena che di trovar buona gente quella con cui debbo o dovrò avere a fare. Io credo che la bontà negli uomini sia men rara assai che non si crede: anzi, che abitualmente quasi tutti sieno buona gente. E credo che per trovar buona gente da per tutto, e senz’altri esami, non bisogni altro che esser buon uomo esso, ed aver buone maniere. (10. Agos. 1828. dì di S. Lorenzo. Firenze.). V. p. 4333. Esse erano ancora in età ben giovanile, ma l’amore era scancellato dal loro volto; si vedeva che la gioventù n’era sparita per sempre. (M.lles Busdraghi). (10. Agos. 1828.). Alla p. 4331. E credo che i cattivi sieno assai più rari che i buoni uomini, purchè non si chiamino cattivi (come si fa sempre) quelli che trattano male noi perchè noi trattiamo male o indiscretamente loro; perchè non vogliamo, o non sappiamo (cosa frequentissima), trattarli bene. La salute è considerata generalmente dalla società come il minimo de’ beni umani, se pur ne è fatto conto in modo veruno. Fra le mille prove (e non parlo qui d’individui, ma di corporazioni), osservate che non troverete mai un luogo, una città che sia cominciata ad abitarsi, che cresca giornalmente di popolazione, per rispetto della salubrità del sito, e neanche della clemenza dell’aria. Opportunità di commercio, vicinanza di mare, centralità, presenza della corte, mille cose fanno e che si scelga a principio un luogo per popolarlo, per fondarvi una città, e che una città cresca via via d’abitanti: ma la salubrità non mai. Non v’è città che debba la sua nascita a questa causa, nessuna che le debba il suo accrescimento. Troverete spesso un sito saluberrimo, con aria comodissima, affatto deserto, in vicinanza d’una o di più città, pessimamente situate e popolatissime. Tra Livorno e Firenze (di scellerata situazione) vedete un sito che par quasi miracolosamente favorito dalla natura; ci trovate anche una città, che è Pisa; una città che fu anche popolatissima. Livorno pel suo mare, Firenze per cento altri vantaggi, si accrescono ogni giorno prodigiosamente di popolo; e sulle loro porte, Pisa, da che ha perduto la sua potenza, il commercio, i vantaggi estranei alla salubrità, si spopola, divien sensibilmente deserta ogni giorno più. (Firenze. 11. Agos. 1828.). Alla p. 4322. fin. Io per me sono persuaso che questo sia il vero e solo modo di render ragione delle irregolarità di misura che malgrado tutte le regole e sopraregole ed eccezioni arbitrariamente stabilite dagli antichi e dai moderni grammatici, malgrado tutti i sistemi, come quello del digamma eolico ec., si trovano sempre ne’ versi omerici. — Sopra il digamma eolico, si trovano delle curiose e non inutili notizie nella breve Memoria di Dugas-Montbel citata nel pensiero precedente. Egli crede che le Digamma Altra difficoltà enorme dell’invenzione della scrittura alfabetica: l’infinita varietà ed incertezza della pronunzia orale di qualunque lingua e parola: infinita sempre, ma più che mai avanti l’invenzione della scrittura alfabetica. La pronunzia non riceve qualche fissità se non dalla scrittura alfabetica, e viceversa l’invenzione di questa non par possibile senza una pronunzia già fissata. V. la p. qui dietro. (12. Agos.). Alla p. 4319. Wertheidigung des Wilhelm Tell.
(Così moltissimi libri giapponesi sono scritti in caratteri cinesi, e questi sono anco della letteratura giapponese, i più noti, anzi quasi i soli noti agli Europei. Bulletin ec. t. 4. art. 197. Al qual proposito il Bull. di Féruss. ib. p. 175, osserva: Dalle bellissime ed acutissime osservazioni del Wolf (
Prolegom. ad Homer. par. 17. Halis Saxonum 1795, vol. I. p. LXX-LXXIII.) dalle quali risulta che, secondo ogni verisimiglianza, il principio della cultura della prosa e le prime opere di prosatori appresso i greci, furono contemporanee all’epoca in cui la scrittura appresso i medesimi divenne di comune uso, e tale da poterne far de’ volumi; anzi che Tutto ciò accadde naturalmente e non già per disegno. Ridicolo è l’attribuire a popoli bambini nella civiltà, l’acutezza di conoscere, e il desiderio di provvedere che la cognizion delle cose si trasmettesse alla posterità pel solo mezzo che allora ci aveva; versi consegnati alla memoria; e di compor versi apposta per questo fine. V. p. 4351. princip. In quella letteratura antiscritturale, il solo modo di pubblicare i propri componimenti, era il cantarli esso, o insegnarli ad altri che li cantassero. Fuitque diu haec (ars rhapsodorum) unica via publice prodendi ingenii (
Wolf par. 23. p. XCVIII) Queste furono per più secoli le edizioni de’ greci. Tanto che anche dopo reso comune l’uso della scrittura, Noi ridiamo di quell’antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. Certo non potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale), e vera pubblicazione. Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla. Pubblicare allora, era dare ed esporre al popolo, che oggi è straniero alle nostre edizioni. Come già Plato (
Phaedr. p. 274. E) Componendo senza scrivere, non fidando i propri componimenti che alla memoria (
E qui è curioso e filosofico, egualmente che tristo, il riflettere che Omero senza desiderare nè aspirare all’immortalità, l’ha ottenuta; e noi che la desideriamo, noi per effetto appunto della scrittura che ci ha ispirato tal desiderio, non l’otterremo. I versi e gli eroi di Omero, fidati alla sola memoria, han varcati quasi 30 secoli, e dureranno quanto, per dir così, la presente stirpe umana, quanto la presente cronologia; i nostri componimenti ed i nostri eroi, fidati alla scrittura, che avrebbe oramai de’ milioni di componimenti e di eroi da conservare, non giungeranno appena alla generazione futura. Altro paradosso verissimo: la scrittura che sola o principalmente ha prodotto l’idea e ’l desiderio della immortalità, la scrittura considerata come istrumento di essa immortalità, la medesima moltiplicando a dismisura gli oggetti consegnati alla tradizione, sola o principalmente, ha reso a quest’ora impossibile il conseguirla. Anche i sommi uomini, scrittori e fatti si pérdono ora necessariamente nella folla: consegnati alla sola memoria, non si confondevano in gran moltitudine, e quell’istrumento in apparenza sì debole, dico la memoria semplice, sapeva ben conservarli a perpetuità. Il che non può più la scrittura. Essa nuoce alla fama, di cui è creduta il fonte e l’organo principalissimo e necessario. V. p. 4354. Quanto alle letterature moderne in cui la poesia precedè la prosa, come l’italiana e l’inglese, la ragione di ciò è d’un altro genere. E prima bisogna distinguere. Se si tratta di versi e di prose qualunque, il fatto non è vero. Noi abbiamo prose, anche di quelle destinate e fatte perchè durassero, e che compongono una qualunque letteratura; abbiamo croniche (Ricordano, Dino ec.), leggende ec., tanto antiche quanto i nostri più antichi versi; o sarà ben difficile il provare ne’ versi un’anteriorità. Se si tratta di classici, certo Dante p. e. precedette ogni nostro classico prosatore. La ragione è che le lingue moderne in principio furono credute inette alla letteratura. E ciò è naturale: prima ch’esse fossero colte, la letteratura era considerata risiedere nella lingua colta, in quella lingua semimorta e semiviva, in cui sola si avevano buoni libri e dottrine. V. p. 4372. Quindi i prosatori che aspiravano ad esser colti, scrivevano nella lingua colta, benchè diversa da quella ch’essi parlavano. Ma il poeta ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti nella lingua nella quale egli pensa, e trova ogni altra lingua incapace di renderli. Si dice che Dante per compor la D. Commedia tentasse prima il latino, ma dovè poi naturalmente ridursi al volgare. Del Petrarca è noto. Ma essendo allora comune l’uso della scrittura, la prosa colta non poteva star troppo a tener dietro alla colta poesia. Il Boccaccio fu pochi anni dopo Dante, e solo più giovane del Petrarca; dove che le prime prose culte che si vedessero in Grecia, non si videro che 400 anni dopo l’epoca omerica. Nè questa era stata forse la prima che producesse alla Grecia delle poesie culte. Anzi tutto persuade il contrario. Alla p. 4344. fin. Quanto pensasse Omero alla conservazione della memoria de’ fatti, e a far le veci di storico, come lo chiama il Courier (v. la pag. 4318.), vedesi dalle favole di divinità, che egli senza necessità alcuna di superstizione, ma per bellezza, e manifestamente di sua invenzione, mescola a’ suoi racconti, sino a comporli di favole per buona parte. V. p. 4367. Alla p. 4346. Sempre, o certo maggiormente e più a lungo d’ogni altra, la letteratura e i letterati greci ricercarono il popolo, lo ebbero in vista nel comporre, mirarono al suo utile e piacere, e si nutrirono all’aura del suo favore; a differenza soprattutto di quel che fece, anche nel suo più bel fiore, la letteratura di una nazione il cui stato politico pur non fu niente men popolare che quel della Grecia. Dico la letteratura romana, la quale in punto di perfezione d’arte superò la stessa greca, e forse supera tutte le letterature conosciute; ma del resto non divenne ma fu sempre essenzialmente impopolarissima. Effetto della sua stessa arte e perfezione e dell’esser essa non nata nel Lazio, ma importata. Siccome per lo contrario non è dubbio che la perpetua popolarità della letteratura greca non derivasse in gran parte da una quasi memoria della sua origine, da un’influenza esercitata da questa continuamente, dall’impulso primitivo, dallo spirito originario e non mai spento, dall’andatura presa in principio. V. p. 4354. La letteratura greca, dice il Courier (préf. du Prospectus d’une nouv. traduct. d’Hérodote) è la sola che sia nata da se nel proprio terreno, dagl’ingegni stessi de’ nazionali, non da altra letteratura. Il che non è vero parlando in universale, perchè molti altri popoli ebbero o hanno letterature autoctone, e queste appunto, come la primitiva greca, consistenti in sole poesie, e poesie non mai scritte, o scritte più secoli dopo composte (v. la p. 4319 e le ivi richiamate.). È vero però il detto del Courier rispetto alle letterature a noi più note, cioè la latina e le più colte delle moderne. Alla p. 4350. fin. Vedi la p. 4326, capoverso 2. — Quanto ad altre nazioni, come quelle accennate nella fine della p. qui dietro, di esse non è esatto il dire che la poesia ha preceduto la prosa, ma che non hanno altra letteratura che poetica. (22. Agos. 1828.). Alla medesima margine. Alla p. 4348. Nè credo io ancora che Milziade a Maratona, nè che i 300 alle Termopoli, aspirassero alla immortalità del nome, come poi, divulgato l’uso delle storie e de’ libri, vi aspirarono Filippo ed Alessandro. Alla p. 4347. Quegli antichi potrebbero dire con gran ragione, che i loro versi, semplicemente cantati, erano pubblicati, e che i nostri libri, stampati, sono sempre inediti. V. la p. 4317, e la p. 4388. capoverso ultimo. Alla p. 4340. Alla p. 4351. Per quanto le cose col progresso si alterino, corrompano, sformino e travisino, sempre conservano qualche segno della loro origine, e qualche poco dello spirito e stato loro primitivo. In Roma dove la letteratura fu impopolare in origine, anche le orazioni al popolo, che certo si pronunziavano in istile e lingua popolare, erano scritte (a differenza delle attiche) in maniera impopolarissima, perchè quando si scrivevano, entravano nel dominio della letteratura, e si scrivevano non pel popolo ma pei letterati. (23. Agos.). Sinizesi. Dittonghi. — Dittonghi greci e vocali lunghe, avanti a vocali brevi, spesso divengono brevi perchè si suppone elisa la 2a vocale del dittongo, e l’una delle due vocali componenti la lunga. Così presso Virg. Alla p. 4344. Divulgato l’uso della scrittura, è ben naturale che si pensasse a comporre e a scrivere nel modo il più naturale, cioè in prosa. Forse però non subito, perchè è anche naturale che le cose e i modi più semplici ed ovvi non si trovino al più presto: massime essendo inveterata, come nel nostro caso, un’usanza diversa. Del resto, riman fermo che le prime composizioni del mondo, e per gran tempo le sole, furono in versi, non per altro, se non perchè si compose assai prima che si scrivesse. V. p. 4390. Alla p. 4349. Oggi più che mai bisogna che gli uomini si contentino della stima de’ contemporanei, o per dir meglio, de’ conoscenti; e i libri, della vita di pochi anni al più. (Oggi veramente ciascuno scrive solo pe’ suoi conoscenti.) Alla p. 4327. Sarebbe questo il caso del Gialiso di Protogene (o di Apelle), dove l’azzardo fece meglio, anzi fece quello, che l’arte non aveva potuto. Del resto, o che Pisistrato, o che alcun altro per suo ordine, o che il suo figlio Ipparco, o che parecchi letterati di quel tempo, amici e aiutatori di questi due o dell’un d’essi (Wolf. p. CLIII-V.), fossero quei che raccolsero i versi omerici, li disposero in quell’ordine che ora hanno, e li dividessero ne’ due corpi dell’Iliade e dell’Odissea, ad essi forse si apparterrebbe tutta la lode dell’effetto che risulta dall’insieme di questi due corpi, e la creazione del poema epico, se non fosse manifesto che anch’essi crearono il poema epico senza saperlo, e non ebbero altra intenzione che di porre quei canti in ordine, di classarli e dividerli secondo i loro argomenti. I In somma il poema epico nelle nostre letterature, non è nato che da un falso presupposto. Omero, e i poeti greci di quello e de’ seguenti secoli non conobbero in tal genere che degl’inni. E in fatti il poema epico è contro la natura della poesia. 1.o Domanda un piano concepito e ordinato con tutta freddezza: 2.o Che può aver a fare colla poesia un lavoro che domanda più e più anni d’esecuzione? la poesia sta essenzialmente in un impeto. È anche contro natura assolutamente impossibile che l’immaginazione, la vena, gli spiriti poetici, durino, bastino, non vengano meno in sì lungo lavoro sopra un medesimo argomento V. p. 4372. È famosa, non meno che manifesta, la stanchezza e lo sforzo di Virgilio negli ultimi 6. libri dell’Eneide scritti veramente per proposito, e non per impulso dell’animo, nè con voglia. V. p. 4460. — Il Furioso è una successione di argomenti diversi, e quasi di diverse poesie; non è fatto sopra un piano concepito e coordinato in principio; il poeta si sentiva libero di terminare quando voleva; continuava di spontanea volontà, e con una elezione, impulso, Si obbietterà la drammatica. Direi che la drammatica spetta alla poesia meno ancora che l’epica. Essa è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, nè le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un carattere ch’ei non ha (cosa necessaria al drammatico) è cosa alienissima dal poeta; non meno che l’osservazione esatta e paziente de’ caratteri e passioni altrui. Il sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta, il solo che egli provi inclinazione ad esprimere. Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico. In fatti i maggiori geni e poeti che hanno coltivata la drammatica, (coltivata perchè l’hanno creduta poesia, ingannati dal verso, come Virgilio fece un poema epico perchè credè che Omero ne avesse fatto), peccano sempre in questo, di dar se stessi più che altrui. V. p. 4367. L’estro del drammatico è finto, perch’ei dee fingere: un che si sente mosso a poetare, non si sente mosso che dal bisogno d’esprimere de’ sentimenti ch’egli prova veramente V. p. 4398. Noi ridiamo delle Esercitazioni de’ sofisti: che avrà detto Medea ec. che direbbe uno il quale ec. Così delle Orazioni di finta occasione, come tante nostre del 500, cominciando dal Casa. Or che altro è la drammatica? meno ridicola perchè in versi? Anzi l’imitazione è cosa prosaica: in prosa, come ne’ romanzi, è più ragionevole: così nella nostra commedia, dramma in prosa, ec. L’imitazione tien sempre molto del servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa, metterla colla pittura ec. Il poeta immagina: l’immaginazione vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta. Ma, lasciando questo discorso ad altra occasione, basta ora rispondere che in origine e presso i greci (come tutte le cose in origine sono più ragionevoli), i drammi furono assai più brevi componimenti che ora, e quasi senza piano, cioè con intreccio semplicissimo. Del resto, vedesi insomma che l’epica, da cui apparentemente derivò la drammatica[a] (anzi piuttosto da’ canti, non ancora epici, ma lirici, de’ rapsodi: Wolf.), si riduce per origine alla lirica, solo primitivo e solo vero genere di poesia: solo, ma tanto vario, quanto è varia la natura dei sentimenti che il poeta e l’uomo può provare, e desiderar di esprimere. (29. Agos. 1828.). V. p. 4412. fine. Quanti errori, assurdi, contraddizioni per aver voluto giudicare Omero secondo i costumi, le opinioni, le instituzioni moderne o più note, ed applicarle a’ suoi poemi! Si è supposta in lui una mostruosa mescolanza di dialetti, perchè il dialetto o lingua ch’egli usò, si divise poi in più dialetti diversi. V. p. 4405. Si è creduto ch’egli fosse esattissimo pittore de’ costumi eroici, greci e troiani, quando in fatti egli non ha dipinto che i costumi de’ suoi propri tempi, ed ai troiani ha dato nomi e costumi greci. V. p. 4408. fin. (
M. Bilderdijk, poeta il più riputato degli Olandesi viventi, ed anche famoso erudito e scienziato (viveva 1826.), in una memoria van het Letterschrift
( Alla p. 4340. Commentatio historico-critica de Rhapsodis. in 4.o. de 22 pag. Vienne 1824. Alla p. 4312. Alla p. 4340 fin. Dissertatio, histor. inaug. de Guilielmo Tellio, libertatis Helveticae vindice, quam examini submittet J.7J. Hisely. In 8.o VIII et 69. pag. Groningen, 1824. (
Bek’s Allg. Repertor., 1825., 1.r vol., p. 213.)... Alla p. 4322. fin —. Alla p. 4170. fin. La casa delle pitture, M. Letronne (Nouvel examen de l’inscription grecque déposée dans le temple de Talmis en Nubie par le roi nubien Silco [a] . (iscrizione illustrata già innanzi da Niebuhr Inscription. Nubiens. Romae 1820.) Journal des Savans, 1825.) Alla p. 4336. marg. Trovo anche ne’ Rusticali caallo, portaa per portava, e infiniti simili, sempre. Di qui viene ancora l’imperf. dicea, sentia ec. per diceva ec. adottato nella lingua scritta, ma che non si ode mai se non in Toscana. Va’hia per vai via, cioè va via (imperativo,): volgo toscano. (2. Sett. 1828.). Chi suppone allegorie in un poema, romanzo ec.; come sì è tanto fatto anticamente e modernamente nell’Iliade e Odissea; come fece il Tasso medesimo nella sua Gerusalemme; come ora il Rossetti nel comento alla Divina Commedia che si stampa in Londra, la vuol tutta allegorica, allegorico il personaggio di Francesca da Rimini, allegorico Ugolino ec.; distrugge tutto l’interesse del poema ec. Noi possiamo interessarci per una persona che sappiamo interamente finta dal poeta, drammatico, novelliere ec.; non possiamo per una che supponghiamo allegorica. Perchè allora la falsità è, e si vede da noi, nell’intenzione stessa dello scrittore. (2. Sett. 1828.). V. p. 4477. Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de’ pregi e de’ piaceri di essi ec. ec., non si torrà dagli studi ogni diletto, perchè anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli. Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno; si scemerà di moltissimo la facoltà di dilettare che ha questo bellissimo trattenimento della vita: quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (e non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile. Alla p. 4362. Alla p. 4347. È cosa dimostrata che il piacer fino, intimo e squisito delle arti, o vogliamo dire il piacere delle arti perfezionate (e fra le arti comprendo la letteratura e la poesia), non può esser sentito se non dagl’intendenti, perch’esso è uno di que’ tanti di cui la natura non ci dà il sensorio; ce lo dà l’assuefazione, che qui consiste in istudio ed esercizio. Perchè il popolo, che non potrà mai aver tale studio ed esercizio, gusti il piacer delle lettere, bisogna che queste sieno meno perfette. Tal piacere sarà sempre minore assai di quello che gl’intendenti riceverebbero dalle lettere perfezionate (altrimenti non sarebbe in verità un perfezionamento quello che le mette a portata de’ soli intendenti); e quindi ci sarà perdita reale; ma a fine che la moltitudine riacquisti il piacere perduto, e del qual solo ella è capace. V. p. 4388. Alla p. 4357. Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è il più alieno di tutti i generi di letteratura, perchè è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro. Alla p. 4351. È anche insufficiente il dire che la lingua dell’immaginazione precede sempre quella della ragione. Nel nostro caso, cioè nella Grecia a’ tempi di Solone, ed anche a’ tempi stessi d’Omero, già molto colti, (e similmente in tutti i casi dove trattasi di poesia e di prosa colta e letteraria), l’immaginazione avea già dato alla ragione tutto il luogo che bisognava perchè questa potesse avere una sua lingua. (5. Sett. 1828.). Col perfezionamento della società, col progresso dell’incivilimento, le masse guadagnano, ma l’individualità perde: perde di forza, di valore, di perfezione, e quindi di felicità: e questo è il caso de’ moderni considerati rispetto agli antichi. Tale è il parere di tutti i veri e profondi savi moderni, anche i più partigiani della civiltà. Or dunque il perfezionamento dell’uomo è quello de’ cappuccini, la via della penitenza. (5. Sett. 1828.). I detti, risposte ec. che Machiavelli attribuisce a Castruccio Castracani (nella Vita di questo), sono tutti o quasi tutti gli stessissimi che il Laerzio ec. riferiscono di filosofi antichi, mutati solo i nomi, i luoghi ec. Machiavelli del resto non sapeva il greco, poco o nulla il latino, ed era poco letterato. Non sarebbe maraviglia ch’egli avesse seguito una tradizione popolare che avesse conservati que’ motti mutando i nomi, e attribuendoli al personaggio nazionale di Castruccio, noto per singolare acutezza e prontezza d’ingegno. Il popolo fiorentino racconta ancora di Dante e dello stesso Machiavello vari tratti che si leggono negli antichi greci e latini, come quello di Esopo che diede un asse a chi gli tirò una sassata ec., il qual tratto (con modificazioni accidentali e non di sostanza) si racconta dal volgo in Firenze di Machiavelli. (Tengo queste cose da Forti e da Capei). Così non solo le nazioni, ma le città, tirano alla storia ed a’ personaggi propri, e in somma alle cose ed alle persone a se più cognite, i fatti delle storie altrui, noti al volgo per antiche tradizioni orali. A Napoli resta ancora in proverbio la sapienza e dottrina di Abelardo: ne sa più di Pietro Abailardo (Capei). In ogni modo quel libro di Machiavelli farebbe sempre al mio proposito molto bene. V. p. 4430. Ed allo stesso proposito spetta quell’uso antichissimo e continuato perpetuamente, di attribuire agli autori più celebri le opere di autori anonimi, o sconosciuti, o di nome poco famoso; le opere, dico, appartenenti a quel tal genere in cui quegli autori hanno primeggiato; e ciò specialmente quando quegli autori sono i modelli e i capi d’opera nel genere loro. Quindi i tanti poemi attribuiti falsamente ad Omero, dialoghi morali ec. a Platone, opere filosofiche ad Aristotele, orazioni a Demostene, omelie, comenti scritturali ec. a S. Crisostomo S. Agostino ec. V. p. 4414. 4416. Quanto un autore è più celebre e primo nel suo genere, tanto è più copiosa la lista de’ suoi libri apocrifi. Raro fra gli antichi o ne’ bassi tempi quell’autore celebre, o riconosciuto per primo nel suo genere o nel suo secolo, che non abbia oppure spurie apocrife, esistenti o perdute. I detti Padri ne hanno quasi altrettante quante sono le genuine. Così Platone ec. Di molte di queste la critica non può scoprire i veri autori; altre si trovano o citate, o anche in alcuni loro esemplari, coi veri nomi, e nondimeno comunemente vanno sotto i nomi falsi, perchè i veri son di persone poco note. — Hordeum — fordeum. V. Forcellini . Alla p. 4350. marg. I sonetti, canzoni ec. ed anche lunghi poemi in istile e forma puerile, di cui abbondavano prima di Dante le lingue volgari, non solo italiana ma francese spagnuola ec., non costituivano e non erano considerati costituire una letteratura. V. p. 4413. Alla p. 4356. L’entusiasmo l’ispirazione, essenziali alla poesia, non sono cose durevoli. Nè si possono troppo a lungo mantenere in chi legge. Alla p. 4361. Di queste poesie serviane sono state fatte, dopo la pubblicazione di Wuk, delle traduzioni ed imitazioni in tedesco. Ib. févr. 1827. art. 156. p. 124. t. 7. V. p. 4399. Alla p. 4362. Alla p. 4358. Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla , ec. vera definizione del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. (10. Sett. 1828.). Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è più poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla. (10. Sett. 1828.). — Alla p. 4345. Quaestiones Herodoteae; par le docteur C. 7G.7L. Heyse. Part. 1. De vitâ et itineribus Herodoti; in 8.o de 141. p.; Berlin, 1827. — sect. 2. De recitatione, quam Olympiae habuisse fertur Herodotus ol. 81. sect. 3. Vitae decursus usque ad ol. 84, de recitatione Athenis habitâ, deque ec. Bull. etc. Déc. 1827. t. 8. art. 425. p. 408. (11. Sett. 1828.). V. p. 4400. — Journal grammatical et didactique de la langue française. rédigé par M. Marle. In 8., n.11 à 22. Paris, 1827 et 1828... Alla p. 4330. I SS. Cirillo e Metodio, fratelli, monaci greci, chiamati Apostoli degli Schiavoni, nel nono secolo, introducendo nella Moravia e nella Pannonia la liturgia schiavona, (
Foscolo, Discorso sul testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante. — Prospetto (cioè sommario) del Discorso. L’abuso delle minime date d’anni, (cioè de’ minimi indizi di tempo ne’ libri antichi), rannuvola più che non illustra la storia letteraria; e il rigettarle tutte, o fondare sistemi sopra le incerte, ha diviso novellamente i tre critici maggiori della età nostra, in Epicurei, Pirronisti, e Stoici. Payne Knight, critico stoico. — Discorso, § 15. Un verso del libro sesto dell’Iliade basta a Wolfio, non solo a dare corpo, forza ed armi alla ipotesi del Vico, che Omero non abbia scritto poemi, ma inoltre a desumere in che epoca della civiltà del genere umano fosse incominciata la Iliade, e in quanti secoli, e per quali accidenti fosse continuata e finita, forse per confederazione del caso e degli atomi d’Epicuro. (apparentemente Foscolo non avea letto Wolfio). Heyne disponendo fatti, tempi e argomenti a cozzar fra di loro, forse per investire la filologia del diritto di asserire e negare ogni cosa, indusse il pirronismo nell’arte critica; e chi lo consulta,
Ivi, par. 150. Senza ritoccare la questione (e ne discorro altrove (forse nell’articolo sull’Odissea di Pindemonte), e la tengo oggimai definita) se i due poemi sgorgavano da un solo ingegno nella medesima età, (
Payne Knight, Carmina Homerica, Prolegomena, sect. LVIII. — e il volumetto, "A History of the text of the Iliad." Nota.) chi non vede che sono dissimili in tutto fra loro, e che tendevano a mire diverse? Perciò nell’Iliade la realtà sta sempre immedesimata alla grandezza ideale, sì che l’una può raramente scevrarsi dall’altra, nè sai ben discernere quale delle due vi predomini; e chi volesse disgiungerle, le annienterebbe. Bensì nell’Odissea la natura reale fu ritratta dalla vita domestica e giornaliera degli uomini, e la descrizione piace per l’esattezza; mentre gli incanti di Circe, e i buoi del Sole, e i Ciclopi,
Ivi, par. 201. Ma quale si fosse il tenore della lingua e della verseggiatura di Dante, non è da trovarlo in codice veruno; e in ciò la Volgata con la dottrina e la pratica dell’Accademia predomina sempre in qualunque edizione ed emendazione. Avvedendosi "Che per difetto comune di quell’età" — e chi mai non se ne avvedrebbe quand’è più o meno difetto delle altre? — "l’ortografia era dura, manchevole, soverchia, confusa, varia, incostante, e finalmente senza molta ragione" ( Salviati, Avvertim. vol. 1. lib.3. cap. 4. Nota) — anzi vedendola migliore di poco nel miracoloso fra’ testi del Decamerone ricopiato dal Mannelli ( Discorso sul Testo del Decam. p. XI. seg. pag. CVI. Nota) — parve agli Accademici di recare tutte le regole in una, ed è: — "che la scrittura segua la pronunzia, e che da essa non s’allontani un minimo che". ( Prefazione al Vocabolario, sez. VIII. Nota). Guardando ora agli avanzi della Volgata Omerica di Aristarco, parrebbe che gli Accademici de’ Tolomei fossero di poco più savj, o meno boriosi de’ nostri. La prosodia d’Omero, per l’amore di tutte le lingue primitive alla melodia, gode di protrarre le modulazioni delle vocali. L’orecchio Ateniese, come avviene ne’ progressi d’ogni poesia, faceva più conto dell’armonia, e la congegnava nelle articolazioni delle consonanti; e tanto era il fastidio delle troppe modulazioni, chiamate iati dagli intendenti, che ne vennero intarsiate fra parole e parole le particelle che hanno suoni senza pensiero. Quindi gli Alessandrini alle strette fra Omero e gli Attici, e non s’attentando di svilupparsene, emendarono l’Iliade così che ne nasceva lingua e verseggiatura la quale non è di poesia nè primitiva, nè raffinata. I Greci ad ogni modo s’ajutavano tanto quanto come i Francesi e gl’Inglesi; ed elidendo uno o più segni alfabetici nel pronunziare, non li sottraevano dalla scrittura; così le apparenze rimanevano quasi le stesse. Ma che non pronunziassero come scrivevano, n’è prova evidentissima che ogni metro ne’ poeti più tardi, e peggio negli Ateniesi, ridonderebbe; nè sarebbero versi, a chi recitandoli dividesse le vocali quanto il metro desidera ne’ libri Omerici: e l’esametro dell’Iliade s’accorcerebbe di più d’uno de’ suoi tempi musicali, se avesse da leggersi al modo de’ Bisantini, snaturando vocali, o costringendole a far da dittonghi. Però i Greci d’oggi a’ quali la pronunzia letteraria venne da Costantinopoli, e serbasi nel canto della loro Chiesa, porgono le consonanti armoniosissime; ma non versi, poichè secondano accenti semplici e circonflessi, e spiriti aspri, e soavi — come che non ne aspirino mai veruno — ed apostrofi ed espedienti parecchi moltiplicatisi da que’ semidigammi ideati in Alessandria, talor utili in quanto provvedono alla etimologia e alle altre faccende della grammatica. Non però è da tenerne conto in poesia, dove la guida vera alla prosodia deriva dal metro; e il metro dipendeva egli fuorchè dalla pronunzia nell’età de’ poeti? Ad ogni modo i grammatici Greci sottosopra lasciarono stare i vocaboli come ve gli avevano trovati, sì che ogni lettore li proferisse o peggio o meglio a sua posta. Ma i Fiorentini non ricordevoli di passati o di posteri, uscirono fuor delle strette medesime con la regola universale — Che la scrittura non s’allontani dalla pronunzia un minimo che; e non trapelando lume, nè cenno di pronunzia certa dalle scritture, pigliarono quella che udivano. Però mozzando vocali, e raddoppiando consonanti, e ajutandosi d’accenti e d’apostrofi, stabilirono un’ortografia, la quale facesse suonare all’orecchio non Io, nè lo Imperio, o lo Inferno; ma I’, lo ’Mpero, lo ’Nferno: e con mille altre delle sconciature del dialetto Fiorentino de’ loro giorni, acconciarono versi scritti tre secoli addietro. par. 202. Queste loro squisitezze erano favorite dalla dottrina, che la lingua letteraria d’Italia fioriva tutta quanta nella loro città. Lasciamo che ove fosse vera s’oppone di tanto alle dottrine di Dante, che non sarebbe mai da applicarla ad alcuna delle opere sue. Ma avrebb’essa potuto applicarsi se non da critici ch’avessero udito recitare i versi di Dante a’ suoi giorni? L’occhio umano, paziente, fedelissimo organo, è agente più libero e più intelligente degli altri, perchè vive più aderente alla memoria; ma non per tanto non può fare che passino cent’anni e che le penne tutte quante non si divezzino dalle forme correnti dell’alfabeto. Così ogni età n’usa di distinte e sue proprie; onde per chiunque ne faccia pratica bastano ad accertarlo del secolo d’ogni scrittura. Ma sono divarj permanenti nelle carte; arrivano a’ posteri; e si lasciano raffrontare dall’occhio. Non così l’orecchio; capricciosissimo, perchè raccoglie involontario, istantaneo e di necessità tutti i suoni; e gli organi della voce gli sono connessi, cooperanti passivi, e meccanici imitatori; e però niun uomo cresce muto se non perchè nasce sordissimo. Di quanto dunque più preste e più varie e più impercettibili che la scrittura non saranno le alterazioni della pronunzia? Ma si rimutano senza che mai lascino, non pure le forme delineate, come ne’ vocaboli scritti, ma nè una lontana reminiscenza. Or chi mai fra’ posteri potrà rintracciarle se non con l’orecchio? e dove le troverà egli? Ridomandandole all’aria, che se le porta? o al tempo che torna a ingombrare l’orecchio di nuovi suoni? Allagheri, com’ei scrivevalo, e poscia Aligieri, Alleghieri, Allighieri, era lungo o breve nella penultima? or è Alighieri; ma in Verona s’è fatto sdrucciolo, Aligeri. Certo se gli arcavoli risuscitassero in qualunque città penerebbero ad intendere i loro nepoti. par. 203. ed ult. Ma perciò che i Fiorentini di padre in figlio continuarono a ingoiare vocali o rincalzarle raddoppiando consonanti, l’Accademia ideò che quel vezzo fosse nato a un parto co’ loro vocaboli. ( Avvertim. della Lingua, Vol. 2. p. 129-160. ed. Mil. de’ Classici. Nota.) Pur è sempre accidente più tardo; anzi comune ed inevitabile a ogni lingua parlata: e tutti i popoli con l’andare degli anni per affrettare e battere la pronunzia scemano modulazioni, perchè sono molli e più lunghe; e le articolazioni riescono vibrate insieme e spedite. De’ Greci è detto; e più numero tuttavia di vocali scrivono gli Inglesi, e pare che parlino quasi non avessero che alfabeto di consonanti: ma chi ne’ loro poeti antichi leggesse all’uso moderno, non troverebbe versi nè rime. Nè credo che altri possa additare poesia di gente veruna ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati di melodia; e che non vi dominassero le vocali; e che poi non si diminuissero digradando. Anche nella prosodia latina, che era meno primitiva e tolta di pianta da’ Greci, e in idioma più forte di consonanti finali, regge l’osservazione; ed anche nelle reliquie di Ennio pochissime, pur le battute de’ ventiquattro tempi dell’esametro su le vocali per via d’iato sono moltissime; e spesse in Lucilio; e parecchie in Lucrezio; non rare in Catullo; non più di sette, che io me ne ricordi, in Virgilio; e una sola in Orazio, nè forse una in Ovidio. Or quante, se pur taluna è da trovarne in Lucano e gli altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo strepitosissimo Claudiano? Ben diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de’ versi, avveniva più presto in Italia che altrove; perchè il Petrarca aveva temprato l’orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche più che la Siciliana che a Dante veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu scritta, nè mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all’occhio. Il danno della parola dissonante dalla scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un tempo (cioè la francese l’inglese ec.), è minore della sciagura che toccò alla Italiana, destinata anzi all’arte degli scrittori, che alla mente della nazione (vuol dire, scritta e non parlata, nè scritta pel popolo). A questo i tempi, quando mai la facciano parlata da un popolo, provvederanno. Per ora il potersi scrivere così che ogni segno alfabetico sia elemento essenziale del senso e del suono in ogni vocabolo, rimane pur quasi vantaggio su le altre sino da’ giorni di Dante. Onde mi proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie primitive, e alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non parlate, si rimane letteraria, permanente nelle apparenze, e svincolata de’ suoni accidentali e mutabili d’età in età nelle lingue popolari (francese inglese ec.), e ne’ dialetti municipali. Forse così la lezione della divina commedia, perdendo i vezzi di Fiorentina ritornerà schietta e Italiana. Fine del Discorso. (Firenze. Domenica. 21. Sett. 1828.). V. p. 4487. Nel principio, e nel risorgimento degli studi, si credeva impossibile un’ortografia volgare, un’ortografia che non fosse latina, nel modo stesso che una letteratura volgare e non latina; e le lingue moderne si credevano incapaci di ortografia propria, così appunto come di letteratura. (21. Sett. Domenica. 1828.). Alla p. 4367. Ci sarebbe ancora un altro partito, e ragionevolissimo. Avere due poesie e letterature, l’una per gl’intendenti, l’altra pel popolo. Così quelli non perderebbero, mentre questo ricupererebbe; non isparirebbero dal mondo i piaceri squisiti e divini (per chi gli può gustare) delle leterature perfezionate; ci potrebbe ancora essere chi provasse de’ trasporti di piacere leggendo Virgilio, come ci sono e saranno intendenti che ne provino mirando un quadro di Raffaello ec. ec. (21. Sett. 1828.). Alla p. 4355. Sorte simile ad Omero ebbe anche in ciò il nostro Dante, il quale fino nello stesso sec. 14. ebbe forse tanti diascheuasti, cioè limatori del suo poema, più o meno arditi, quanti copiatori: onde quelle enormi e continue discrepanze de’ suoi codici e stampe anteriori alla edizione della Crusca. V. p. 4412. Alla p. 4317. marg. Si legge così a Napoli anche l’Orlando innamorato del Berni e soprattutto la Gerusalemme del Tasso, e il popolo prende partito chi per l’uno di quegli eroi, chi per l’altro, e con tanto ardore, che dopo la lettura, discorrendo tra loro sopra quei racconti, e quistionando, talora vengono alle mani, e fino si uccidono. Una notte al tardi, due del volgo di Napoli che disputavano caldamente fra loro, andarono a svegliare il famoso Genovesi per saper da lui chi avesse ragione, se Rinaldo o Gernando (Gerusalemme del Tasso). Tengo tutto ciò dall’Imbriani padre, il quale mi dice che il popolo napoletano non ha bisogno che il lettore gli traduca quei poemi, ma che gl’intende da se. In questo modo quei poemi si possono dir veramente pubblicati. (22. Sett. 1828.). V. p. 4408. Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriamente poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica. (22. Sett. 1828.). Però, chi dice che la letteratura greca fiorì principalmente in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec. (22. Sett. 1828.). Chi presentandomi o raccomandandomi o parlando di me a qualcuno, uomo o donna, ha detto: mio grandissimo amico, grande ingegno, dotto ec. ec., non ha fatto nulla. Ci mancava la gran parola. Chi ha detto: uomo celebre, mi ha proccurato accoglienze e distinzioni e ricerche. Fama ci vuole, e non merito. Anche qui si verifica quello che ho detto altrove, la sola fortuna fa fortuna. Celebre equivale a ricco, nobile, potente, dignitario, ed altre fortune simili. (22. 7.bre 1828.). L’eroismo ci strascina non solo all’ammirazione, all’amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l’amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado quello che aveano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c’innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste. (22. Sett. 1828.). Alla p. 4354. marg. Potrebbe anco essere che i primi libri fossero in prosa, la prima applicazione della scrittura alla letteratura fosse alla prosa, continuando forse intanto a comporsi in versi senza scriverli, e consegnandoli solamente alla memoria, sì per l’inveterata abitudine, e sì per considerarsi la scrittura come non necessaria, anzi inutile, alla conservazione dei versi, e solo utile e necessaria a quella della prosa. In tal modo potrebbe esser passato molto tempo dopo che si scriveva in prosa, prima che si avessero versi scritti, nel qual tempo non si sarebbero avuti libri che in prosa. In tal caso, che mi par naturale, la prosa Alla p. 4318. marg. Ciclo epico, che comprendeva in varie poesie, incluse quelle d’Omero, la storia tutta del mondo, dalle Origini delle cose, cioè dalla teogonia ec. fino ad Ulisse; ciclo raccolto, secondo un critico tedesco, forse vivente (Bull. de Féruss. ec.) che ha fatto sopra di esso ciclo una dissertazione particolare, poco dopo il tempo de’ Pisistratidi. Le poesie comprese in questo ciclo, e i loro argomenti, non erano certamente epici nel senso che noi diamo a questa parola: nondimeno il ciclo si chiamava epico, cioè storico o narrativo. La poesia epica fu distinta dalla lirica, benchè anche Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed Alla p. qui dietro. Tutto ciò in quanto a possibilità o verisimiglianza. Ma in quanto a tradizione, par ch’ella provi che i libri in prosa o non precedettero, o solo di poco tempo, quegli in versi; poichè essa tradizione mette le prime prose greche nel principio del sec. 6. av. G. C. , tempo di Pisistrato che raccolse i versi Omerici, e tempo abbondante di altri poeti, i quali non pare al Wolf che potessero mancar di scrittura. Certo che di essi la tradizione non porta, come di Omero, che i loro versi fossero raccolti e scritti posteriormente. Nondimeno, benchè la tradizione non porti ciò neppur di Esiodo (V. p. 4397) (onde il Vico, lib.3. p. 400. Talchè Esiodo, che lasciò opere di sè scritte, poichè non abbiamo autorità che da’ Rapsodi fusse stato, com’Omero, conservato a memoria, si dee porre dopo de’ Pisistratidi), pure il Wolf pone anche Esiodo fra que’ poeti che non iscrissero, e le poesie esiodee (che egli reputa di vari autori)
fra quelle che furono conservate lungamente per sola memoria. — Il Wolf conosce e cita per averlo preceduto nell’opinione che le poesie omeriche non fossero scritte, se non dopo, oltre Giuseppe ebreo, il Wood (inglese), il Rousseau e il Mairan; per l’opinione che esse da principio non costituissero poemi epici, ma non fossero che canti separati, raccolti poi da altri e ridotti nella presente forma, conosce e cita il Casaubono, il Bentley e l’abate Hedelin d’Aubignac, il cui libro, Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade , Paris 1715. 8.o. egli disprezza altamente. Ma non nomina punto mai il nostro Vico, il quale de’ cinque libri de’ suoi Principj di Scienza nuova, 3.a ediz. Napoli 1744. ne ha uno, cioè il 3.o intitolato Della discoverta del vero Omero, tutto dedicato alle quistioni Wolfiane. Nel qual libro, con minore abbondanza e sviluppamento di prove che il Wolf, ma pure con buone e forti ragioni, alcune delle quali non toccate da esso Wolf, asserisce e dimostra che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi (p. 399.), poichè infin’a’ tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui non si era ritrovata ancora la Scrittura Volgare (p. 394.); "che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria, e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perchè essi popoli greci furono quest’Omero (p. 404.);"
"che perciò varjno cotanto l’oppenioni d’intorno alla di lui età, perchè un tal’Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla Guerra Trojana fin’a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocentosessant’anni (p. 404.)"
(cioè che gli autori de’ versi omerici vivessero e componessero successivamente dalla guerra troiana fino a Numa) che "la cecità, e la povertà d’Omero furono de’ Rapsodi; i quali essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse Omero ( Ecco l’Eroe (Achille), che Omero con l’aggiunto perpetuo d’irreprensibile canta a’ Greci popoli in esempio dell’Eroica Virtù! il qual’aggiunto, acciocchè Omero faccia profitto con l’insegnar dilettando, lo che debbon far’i Poeti, non si può altrimente intendere, che per un’huomo orgoglioso, il qual’or direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e sì predica la Virtù puntigliosa; nella quale a’ tempi barbari ritornati tutta la loro Morale riponevano i Duellisti: dalla quale uscirono le leggi superbe, gli ufizj altieri, e le soddisfazioni vendicative de’ cavalieri erranti, che cantano i Romanzieri. Ib. lib.2. p. 322-3. dopo aver descritto l’eroismo dell’Achille omerico, quanto sia lontano dalle idee nostre, ed anche antiche civili, circa il carattere eroico. (26. Sett. 1828.). Alla p. 4392. marg. Dice per altro il Wolf p. XCVII-III. par. 23: Alla p. 4357. L’imitazione drammatica non può essere spontanea e veramente secondo natura, se non in quanto a un solo personaggio, o 2 al più, e solo in alcune scene, cioè in quelle che corrispondano alla situazione attuale dell’animo del poeta. Ma qui è sempre il poeta egli stesso che si dipinge, o piuttosto parla, sotto altro nome; e quella non è veramente imitazione, ma quasi un travestimento. In tutti gli altri personaggi ed altre scene, la poesia è necessariamente sofistica. Del resto, tali scene, dove il poeta esprimesse i suoi sentimenti, passioni ec. attuali sotto nome di qualche personaggio storico, se si componessero staccate, potrebbero esser buona poesia: il poeta può aver buone ragioni per nascondersi sotto nome altrui; può trovarvisi, se non altro, più a suo agio; ed è anche poetico in qualche modo quel rapporto trovato ed espresso fra la propria situazione attuale, e quella d’alcun personaggio storico ec. (28. Sett. 1828.). Alla p. 4372. Servian Popular Poetry. Poésies populaires des Serviens, traduites en vers anglais par M. Bowring. Londr. 1827. in— 12.
[4400 - 4526]
Alla p. 4375. Il Wesselingio nella Pref. all’Erodoto, in quella parte che riguarda la vita e gli scritti di questo, riportata dallo Schweighaeuser, con sue noterelle, appiè della propria sua pref. all’Erodoto, Argentorati 1816, t. 1., dice, a pag. XXII-III. di questa edizione: Il Wesselingio l. c. p. XXVI. Dialetti greci. Alla p. 4359. Il luogo riportato nel pensiero qui anteced., mostra che tale opinione (oggi però rigettata comunemente dagli eruditi) fu tenuta fino nel 1816. (epoca dell’ed. Argentoraten. d’Erodoto) da un uomo come lo Schweighaeuser. (11. Ott. 1828.). Alla p. 4404. Ecco dunque storico, prosatore, e scrittore o compositore in iscritto ( Alla p. 4389. Simile entusiasmo, del resto, producevano nel popolo greco, anche a’ tempi colti e dopo l’uso della scrittura, e quindi in condizione similissima a quella del popolo napoletano, le poesie recitate da’ rapsodi. V. il dialogo platonico Ione. (13. Ott.) Alla p. 4359.
La morte consideravasi dagli antichi come il maggior de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec. Sopra tutte queste cose da me osservate altrove, v. Constant, ib. liv. 7. ch. 9. t. 3. (14. Ott. 1828.). Gli antichi déi della Grecia ec. erano nell’immaginazione de’ greci, ec. e ne’ loro simulacri, ec. di figura mostruosa e spaventevole; abbellita a poco a poco col progresso della civiltà: segno che l’origine della religione fu il timore ec., come dico altrove. V. ib. ch. 5 (14. Ott. 1828.).
Sopra l’uso di Alla p. 4364. Il vero modo di citare questa Memoria di M. Letronne, è: Nouvel Examen critique et historique de l’Inscription grecque du roi nubien Silco. Partie historique. Sect. II. — Journ. des Savans, 1825, Mai (3.me article, et dernier.) (15. Ott. 1828.). Alla p. 4407. Il vero titolo è: Nomadische Streifereien unter den Kalmüken: (cioè Promenades nomades chez les Kalmuks.) Riga 1804. 4. vol. in 8.o. op. tradotta da M. Moris in francese: Voyage de Benjamin Bergmann chez les Kalmuks (fatto nel 1802 e 1803); Châtillon-sur-Seine, 1825. I. vol. in 8.o. (esso non comprende i 2. ult. vol. dell’op. tedesca, che contengono delle traduzioni dal mongolico ec.) ( Journ. des Savans, 1825. p. 363. sqq. Juin.) Utilità della pazienza ec. Una faccenda noiosa o penosa, un viaggio ec., quando è sulla fine, riesce più molesto che mai, le ultime miglia paiono le più lunghe ec., non già perchè l’uomo allora è più stanco, ma perchè l’impazienza si accresce per quella smania di arrivare, che nasce dal vedere il termine da vicino. (17. Ottob. 1828. Firenze.). Alla p. 4388. Questo es. potrebbe far credere vero che i diascheuasti omerici fossero di poco posteriori a Pisistrato, del che a p. 4355. (17. Ottob. 1828 .). Alla p. 4359. L’epica, non solo per origine, ma totalmente, in quanto essa può esser conforme alla natura, e vera poesia, cioè consistente in brevi canti, come gli omerici, ossianici ec., ed in inni ec., rientra nella lirica. V. p. 4461. Alla p. 4372. Infatti la lingua italiana tra le moderne è considerata per aver la più antica letteratura, perchè ha i più antichi libri veramente letterarii, e che abbiano esercitata ed esercitino ancora un’influenza perpetua sulla lingua e letteratura nazionale; mentre quanto all’antichità semplicemente di scrittura, cioè di versi e prose scritte in lingua volgare (anche lunghi poemi, lunghe Cronache ec.), la lingua italiana cede di gran lunga alla francese e spagnuola ec., per non parlare della tedesca ec. (anzi in ciò la lingua italiana è delle più moderne, se non la più.) Nondimeno è sempre vero che la letteratura italiana è la più antica delle viventi, perchè Dante, Petrarca Boccaccio sono i più antichi classici fra’ moderni, i più antichi che si leggano e nominino, non solo fra gli eruditi nazionali, ma fra tutti i colti d’Europa. Quando io dico: la natura ha voluto, non ha voluto, ha avuto intenzione ec., intendo per natura quella qualunque sia intelligenza o forza o necessità o fortuna, che ha conformato l’occhio a vedere, l’orecchio a udire; che ha coordinati gli effetti alle cause finali parziali che nel mondo sono evidenti. (20. Ott. 1828.). Alla p. 4406. Chi dicesse che i Persiani d’Eschilo sono di un persiano, o composti nel senso e spirito persiano, perchè l’interesse e la compassione quivi è tutta per i Persiani, direbbe bene nel senso de’ moderni, e pure avrebbe torto nel fatto. Essi sono di un greco, nazionale degli autori di quelle disgrazie, ec. (anzi se non erro, Eschilo militò contro i Persiani), e fatti per essere rappresentati ai greci. I Persiani, considerati in questo aspetto, sono propriamente il pendant dell’Iliade (e il comento), e il rovescio della Umbra, ombra — Alla p. 4363. marg. Perocchè i grammatici, diascheuasti ec. non sono giunti di gran lunga a render metrici tutti i versi omerici. Alla p. 4369. Così ad Ossian si attribuirono tutte le poesie caledonie: ad Omero tutte quelle che compongono oggi l’Iliade e l’Odissea; tra le quali, supposta per vera la persona di quest’Omero, è però ben difficile, come appunto nelle ossianiche, il determinare quali sieno sue, quali d’altri; ed anche se ve ne sia alcuna di sue; anzi è veramente impossibile. Taccio poi delle tante altre poesie epiche attribuite ad Omero (e ad Esiodo), compresa la Batracomiomachia, sì manifesta parodia dell’Iliade: e ciò fin dal tempo di Erodoto, che nomina Il vedere che Omero (per usare, come dice Constant, questo nome collettivo) parlando della sua poesia, non dice mai di scrivere, ma sempre cantare o dire, è prova assai maggiore che non si crede, che i suoi versi in fatto non furono scritti. Noi, quantunque i nostri versi si scrivano, diciamo di cantarli, perchè la lingua antica, cioè la lingua di Omero, ha usata questa espressione per il poetare. Ma nella lingua di Omero, non vi poteva essere altra ragione per usarla e per non parlar mai di scrittura, se non, che le poesie in fatti si cantavano senza scriverle. Ho dimostrato altrove che dovunque esiste una lingua poetica formata, questa lingua non è altro che lingua antica. Ma i tempi d’Omero non potevano avere una lingua poetica (se non per lo stile, come i francesi), perchè non avevano antichità di lingua. E in fatti non avevano lingua poetica a parte: e Omero nomina tutti gli usi di que’ tempi, nomina le città, i popoli, i magistrati ec. co’ loro nomi propri e prosaici. Così accade in tutte le poesie primitive, e così Dante è pieno di nomi propri e prosaici, spettanti a geografia (Montereggione ec. ec.), costumi de’ suoi tempi, dignità ec., nomi che ora o sono sbanditi dalla lingua poetica, o non vi sono ammessi se non come usati da Dante. V. p. 4426. Se dunque l’uso del tempo omerico fosse stato che le poesie si scrivessero, Omero avrebbe detto francamente di scriverle. Il veder che nol dice mai, nemmen per perifrasi o metafora (come fa l’autore della Batracomiomachia subito nel bel principio, nell’invocazione; il quale dice il Wolf come cosa provata, essere stato verisimilmente circa i tempi d’Eschilo[a] ), è prova quasi parlante che non le scriveva. (21. Ott. 1828. Firenze.). Perchè il moderno, il nuovo, non è mai, o ben difficilmente romantico; e l’antico, il vecchio, al contrario? Perchè quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente. (22. Ottobre. 1828. Firenze.).
La grazia in somma per lo più non è altro che il brutto nel bello. Il brutto nel brutto, e il bello puro, sono medesimamente alieni dalla grazia. (Firenze. 25. Ott. 1828.). Alla p. 4369. Ho preso un poco di vino, quanto per dormire De’ diascheuasti italiani e latini v. Perticari (Scritt. del 300) dove parla della pessima ortografia autografa del Petrarca Tasso ec., e dove prova che i latini del buon secolo, copiando o citando Ennio e gli altri antichi, li riducevano in gran parte alla moderna. (3. Nov. 1828.). La Divina Commedia non è che una lunga Lirica, dov’è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti. (Firenze. 3. Novembre. 1828.). Fratta — Non saprei come esprimere l’amore che io ho sempre portato a mio fratello Carlo, se non chiamandolo amor di sogno. (30. Nov.). Memorie della mia vita. — Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo. Passar le giornate senza accorgermene; parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle. V. p. 4477. — Piacere, entusiasmo ed emulazione che mi cagionavano nella mia prima gioventù i giuochi e gli spassi ch’io pigliava co’ miei fratelli, dov’entrasse uso e paragone di forze corporali. Quella specie di piccola gloria ecclissava per qualche tempo a’ miei occhi quella di cui io andava continuamente e sì cupidamente in cerca co’ miei abituali studi. (30. Nov.). All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (30. Nov. I.a Domenica dell’Avvento.). V. p. 4502. È cosa notata che il gran dolore (come ogni grande passione) non ha linguaggio esterno. Io aggiungo che non ne ha neppure interno. Vale a dire che l’uomo nel grande dolore non è capace di circoscrivere, di determinare a se stesso nessuna idea, nessun sentimento relativo al suggetto della sua passione, la quale idea o sentimento egli possa esprimere a se medesimo, e intorno ad essa volgere ed esercitare, per dir così, il pensiero nè dolor suo. Egli sente mille sentimenti, vede mille idee confuse insieme, o piuttosto non sente, non vede, che un sentimento, un’idea vastissima, dove la sua facoltà di sentire e di pensare resta assorta, senza potere, nè abbracciarla tutta, nè dividerla in parti, e determinar qualcuna di queste. Quindi egli allora non ha propriamente pensieri, non sa neppur bene la causa del suo dolore; egli è in una specie di letargo; se piange (e l’ho osservato in me stesso), piange come a caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di che. Quei drammatici, e simili, che in circostanze di grandi passioni introducono de’ soliloqui, fondandosi sulla convenzione che permette a’ suoi personaggi di dire alto quello che essi direbbero tra se medesimi se fossero reali, sappiano che in tali circostanze l’uomo tra se non dice nulla, non parla punto neppur seco stesso. E fra tali drammatici ve n’ha de’ sommi (Shakespeare medesimo), se non son tali tutti. (30. Nov. 1828. Recanati.). Alla p. 4280. Ho veduto io stesso un canarino domestico e mansuetissimo, appena presentato a uno specchio, stizzirsi colla propria immagine, ed andarle contro colle ali inarcate e col becco alto. Alla p. 4241. Vedesi l’uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudicata ed originale, ed anche nella ragionevole e spregiudicata morale teologica del marchese Maffei; nello stile originale, nel modo individuale di pensare e di poetare, nel tuono ardito e sicuro, nella stessa fermezza e forza d’opinion religiosa e superstiziosa del Varano. (1. Dicembre. 1828. Recanati.). Memorie della mia vita. — Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna. Io era allora incapace di conciliar l’una vita coll’altra; tanto incapace, che io giudicava questa riunione impossibile, e mi credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti a vivere esternamente, non provassero più vita interna di quella ch’io provava allora, e che i più non l’avessero mai conosciuta. La sola esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su questo articolo. Ma quello stato fu forse il più penoso e il più mortificante che io abbia passato nella mia vita; perch’io, divenuto così inetto all’interno come all’esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita. (1. Dic. 1828.). Il giovane, per la stessa veemenza del desiderio che ne sente è inabile a figurare nella società. Non diviene abile se non dopo sedato e pressochè spento il desiderio, e il rimovimento di quest’ostacolo ha non piccola parte nell’acquisto di tale abilità. Così la natura delle cose porta che i successi sociali, anche i più frivoli, sieno impossibili ad ottenere quando essi cagionerebbero un piacere ineffabile; non si ottengano se non quando il piacere che danno è scarso o nessuno. Ciò si verifica esattamente: perchè se anco una persona arriva ad ottener de’ successi nella prima gioventù, non vi arriva se non perchè il suo animo percorrendo rapidamente lo stadio della vita, è giunto assai tosto (come spesso accade) a quello stato nel quale i successi sociali si desiderano leggermente, e poco o niun piacere cagionano. (1. Dic. 1828.). Nelle mie passeggiate solitarie per le città, suol destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la vista dell’interno delle stanze che io guardo di sotto dalla strada per le loro finestre aperte. Le quali stanze nulla mi desterebbero se io le guardassi stando dentro. Non è questa un’immagine della vita umana, de’ suoi stati, de’ beni e diletti suoi? (1. Dicembre. 1828. Recanati.). La Natura è come un fanciullo: con grandissima cura ella si affatica a produrre, e a condurre il prodotto alla sua perfezione; ma non appena ve l’ha condotto, ch’ella pensa e comincia a distruggerlo, a travagliare alla sua dissoluzione. Così nell’uomo, così negli altri animali, ne’ vegetabili, in ogni genere di cose. E l’uomo la tratta appunto com’egli tratta un fanciullo: i mezzi di preservazione impiegati da lui per prolungar la durata dell’esistenza o di un tale stato, o suo proprio o delle cose che gli servono nella vita, non sono altro che quasi un levar di mano al fanciullo il suo lavoro, tosto ch’ei l’ha compiuto, acciò ch’egli non prenda immantinente a disfarlo. (2. Dic. 1828.). Memorie della mia vita. — Sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole. Credo però nondimeno che non vi sia giovane, qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo quelle stesse parole. (2. Dicembre. 1828. Recanati.). La lingua spagnuola pare e parrà sempre ridicola agl’Italiani per la stessa ragione per cui la scimmia riesce un animale ridicolo all’uomo: estrema similitudine con gravi differenze. Ma questo ridere dello spagnuolo, assolutamente parlando, è per lo meno così irragionevole come il ridere della scimmia; e di più, è soggetto a reciprocità; giacchè è naturale che l’italiano riesca, e con altrettanta ragione, altrettanto ridicolo agli Spagnuoli. Lo spagnuolo ci riesce ridicolo nel modo e per la ragione che ci riesce tale un dialetto dell’italiano. Similmente l’italiano dee riuscire ridicolo agli spagnuoli come un dialetto della lingua spagnuola. Egli è dunque un vero pregiudizio negl’Italiani il considerar lo spagnuolo come lingua o pronunzia che abbia qualcosa di ridicolo in se, argomentando dall’effetto che essa fa in noi. (2. Dic. 1828.). (Vedi la pag. 4506.). Alla p. 4248. fine. I greci molto ragionevolmente, checchè ne dica Cicerone, che preferisce la voce latina convivio, chiamavano il convito simposio, cioè compotazione, perchè in esso non era veramente comune, e fatto in compagnia, se non solo il bere, cosa ragionevolissima, e non il mangiare, come forse tra’ Romani ec. (V. il luogo di Cic. nel Forcell. in Guadagnoli recitante in mia presenza all’Accademia de’ Lunatici in Pisa, presso Mad. Mason, le sue Sestine burlesche sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del soggetto con quello dei gesti e della recitazione. Sentimento doloroso che io provo in casi simili, vedendo un uomo giovane, ponendo in burla se stesso, la propria gioventù, le proprie sventure, e dandosi come in ispettacolo e in oggetto di riso, rinunziare ad ogni cara speranza, al pensiero d’ispirar qualche cosa nell’animo delle donne, pensiero sì naturale ai giovani, e abbracciare e quasi scegliere in sua parte la vecchiezza spontaneamente e in sul fiore degli anni: genere di disperazione de’ più tristi a vedersi, e tanto più tristo quanto è congiunto ad un riso sincero, e ad una perfetta Io abito nel bel mezzo d’Italia, nel clima il più temperato del mondo; esco ogni giorno a passeggiare nelle ore più temperate della giornata; scelgo i luoghi più riparati, più acconci ed opportuni; e dopo tutto questo, appena avverrà due o tre volte l’anno, che io possa dire di passeggiare con tutto il mio comodo per rispetto al caldo, al freddo, al vento, all’umido, al tempo e simili cose. E vedete infatti, che la perfetta comodità dell’aria e del tempo è cosa tanto rara, che quando si trova, anche nelle migliori stagioni, tutti, come naturalmente, sono portati a dire: che bel tempo! che buon’aria dolce! che bel passeggiare! quasi esclamando, e maravigliandosi come di una strana eccezione, di quello che, secondo il mio corto vedere, dovrebbe pur esser la regola, se non altro, nei nostri paesi. Gran benignità e provvidenza della natura verso i viventi! (3. Dic. 1828.). L’esclusione dello straniero e del suddito dai diritti (quantunque naturali e primitivi) del cittadino e della nazion dominante, esclusione caratteristica di tutte le legislazioni antiche, di tutte le legislazioni appartenenti ad una mezza civiltà; esclusione fondata implicitamente in una opinione d’inferiorità di natura delle altre razze d’uomini alla dominante o cittadina, ed esplicitamente basata sopra questo principio, e ridotta a teoria e dottrina scientifica e filosofica per la prima volta che si sappia (come tante altre opinioni e cognizioni del suo tempo) da Aristotele nella Politica (opera citata spesso da Niebuhr nella Storia Romana come genuina d’Aristotele); questa esclusione, dico, è manifestissima in tutte le legislazioni de’ bassi tempi, nelle quali il favor della legge in difesa delle proprietà o delle persone, ed ogni altro diritto, era quasi esclusivamente per li soli nobili. In Francia un nobile che uccidesse un ignobile, non aveva altra pena che di gettare cinque soldi sulla sepoltura dell’ucciso: tale era la legge. (Courier.) Così di tutti gli altri diritti. Ed è ben noto che le legislazioni moderne non sono ancora ben purgate di questo lor vizio originale di distinguere due razze d’uomini, nobili e ignobili ec. Ora i nobili, com’è osservato da’ giurisconsulti e storici, sono per lo più e quasi totalmente, in quelle semibarbare legislazioni, sinonimo di liberi, d’ingenui, di cittadini, di burghers in Germania, ( Niebuhr, Stor. rom. p. 283.) nazionali, appartenenti alla nazion dominante, e per la quale son fatte le leggi; e gl’ignobili non sono in origine che stranieri, sudditi, servi, membri della nazione vinta e conquistata. Tutte le deplorate perversità delle legislazioni de’ bassi tempi e moderne, relative alla nobiltà (sinonimo d’ingenuità, nazionalità) provengono da quel principio di distinzione tra cittadino e straniero relativamente ai diritti dell’uomo, che abbiamo spesso considerata ne’ più antichi popoli. Qua pure appartiene la legislazione turca relativamente ai raja, cioè schiavi, cioè greci, vinti e conquistati, uomini considerati diversi da’ turchi. (4. Dic. 1828.). Conservare la purità della lingua è un’immaginazione, un sogno, un’ipotesi astratta, un’idea, non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso di una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alle dottrine, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto nulla da alcuna nazione straniera. La greca, per una stranissima combinazione di circostanze, si trovò, dopo la formazione della sua lingua e letteratura, per lunghissimo spazio di tempo, nel detto caso. Essa nazione greca (se non vogliamo associarvi la chinese) è fra le nazioni civili la cui storia sia conosciuta, il solo esempio reale di un caso siffatto, e la lingua greca è altresì la sola lingua colta che abbia per lungo spazio conservata una vera ed effettiva purità. La lingua latina fu impura tosto che divenne colta e letteraria. L’italiana fu impurissima nel suo stesso nascere come lingua scritta, piena di provenzalismi e di francesismi: poi, per la rara circostanza che l’Italia, divenuta maestra e lume e fonte alle altre nazioni, si trovò, come la Grecia, nel caso di non ricever nulla di fuori, essa lingua conservò una certa purità; finchè mutata (anzi ridotta all’opposto) la circostanza, essa divenne nuovamente, e rimane, impurissima. Alle nazioni presenti e future (e all’italiana soprattutto) durando il presente stato reciproco delle nazioni e delle letterature, la purità della lingua, presupposto che di questa lingua le nazioni vogliano far uso, è cosa immaginaria e impossibile. (5. Dic. 1828.). Novem — (noundinae) nundinae: quasi novendiales, mercati o fiere che si tenevano ogni nono giorno, cioè ogni otto giorni (ch’era l’antica settimana degli Etruschi) una volta. (Niebuhr, Stor. rom.) (11. Dic. 1828.). Alla p. 4415. Dante, dal quale egli (il Monti) tolse l’arte di ben fissare la fantasia del lettore sul luogo della scena, verseggiando la Geografia spesse volte assai più maestrevolmente che Dante stesso non faccia; e l’arte più notabile ancora, che in Dante stimava Rousseau, di chiamare le cose coi nomi lor propri. Antolog. di Fir. Ottob. 1828. vol. 32. num. 94. p. 177. (Recanati 13. Dic. 1828.). Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Recanati. 14. Dic. Domenica. 1828.). V. p. seg. e p. 4471. Alla p. preced. Il piacere che ci danno un certo stile semplice e naturale (come l’omerico), le immagini fanciullesche, e quindi popolari, circa i fenomeni, la cosmografia ec.; in somma il piacere che ci dà la poesia, dico la poesia antica e d’immagini; tra le sue cagioni, ha per una delle principali, se non la principale assolutamente, la rimembranza confusa della nostra fanciullezza che ci è destata da tal poesia. La qual rimembranza è, fra tutte, la più grata e la più poetica; e ciò, principalmente forse, perchè essa è più rimembranza che le altre, cioè a dire, perchè è la più lontana e più vaga. (1. del 1829.). L’uso, comune a tante antiche (e moderne) nazioni e religioni, di conservare con grandissima gelosia il fuoco ne’ templi, e con tanta cura che non si spegnesse mai; non avrebb’egli per sua origine (come tante altre pratiche religiose dell’antichità, derivate, quali evidentemente, e quali in modo che oggi la loro origine appena si può indovinare, da bisogni o utilità sociali, da tradizioni scientifiche ec.) la rimembranza e la tradizione della difficoltà provata primitivamente per accender fuoco al bisogno, per conservarlo o rinnovarlo a piacere; e la tema di non perdere il fuoco affatto, cioè non poterlo riavere, se si fosse lasciato spegnere? (1. del 1829.). Usarono gli antichi latini di aggiungere un d alla fine delle voci per evitare l’iato, o ne’ versi l’elisione ec. Anche nel mezzo delle voci composte; come in La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi. ec. ec. (Recanati. 2. Gennaio. 1829.). V. pag. 4513. Quanto male, dal vedere che le radici di certe lingue non hanno somiglianza alcuna con quelle di certe altre, si concluda (come fa il Niebuhr, Stor. rom. p. 44. ediz. ingl.) e contro l’affinità istorica di esse lingue, e contro l’unità di origine dei linguaggi umani; si può raccogliere dal considerare le radici di quelle lingue le cui relazioni ci sono note. Figuriamoci che la lingua latina e la francese ci fossero quasi sconosciute; che si sapesse però che nell’una di quelle il giorno si chiamava Quanto presto e facilmente arrivi il fanciullo a cavar conclusioni dal confronto de’ particolari, a generalizzare, ad astrarre, e ad acquistar da se stesso la cognizione di principii e di astrazioni che paiono di acquisto difficilissimo (e certo è mirabile il conseguirlo), si può vedere, fra l’altre, da questa considerazione. Io ho notato, e tutti possono notare, bambini di due anni, profferire i verbi irregolari della lingua colle inflessioni che essi avrebbero dovuto avere se fossero stati regolari: p. e. dire io teno, io veno, io poto, per tengo, vengo, posso. Certamente, da nessuno sentivano essi dire io teno ec.; non dicevano dunque così per imitazione, ma per riflessione, per ragionamento; concludevano essi che se da sentire p. e. si fa io sento, da vedere, io vedo, la prima persona di tenere, potere, doveva essere io teno, io poto; di venire, io veno. E sbagliavano per esattezza di raziocinio e di generalizzazione. Avevano dunque già trovate da se le regole generali delle inflessioni de’ verbi, e formatosi già in mente il tipo, il paradigma, delle loro diverse coniugazioni: ritrovamento che esige tanta infinità di confronti, tanto acume di mente, e che pare uno sforzo dello spirito metafisico de’ primi grammatici: ai quali non è punto inferiore un tal bambino. ec. ec. Quest’osservazione merita grand’attenzione dagli psicologi e ideologi. V. p. 4519. (4. del 1829.). Alla p. 4369. Socrate ancora appartiene a questo discorso. Dico ciò, avendo riguardo, non tanto ai Dialoghi di Platone, o platonici, ed ai Memorabili di Senofonte, quanto alla gran moltitudine di sentenze, similitudini o comparazioni, apoftegmi e detti morali, che sotto nome di Socrate, tratti da diversi autori e compilatori che li riferivano, si leggono nelle collezioni o florilegii di Stobeo, d’Antonio, di Massimo. (4. del 1829.). V. p. 4469. fin. Al nostro da capo è anche analogo il greco Pitagora ap. Jamblich. de vit. Pyth. cap. 18. p. 183. ed. Kiesslingii (editio novissima, la chiama l’Orelli nel 1819): Alla p. 4406. Giuliano, ep. 22. p. 389. B. Spanhem. Alla p. 4353. poemata etc. duntaxat decantata voce, perinde ut: apud veteres Germ. ac Getas carmina antiqua, quae Tac. in lib. de morib. etc. et Jornandes cap. 4 et 5 de reb. Geticis, celebrat. Fabric. B. G. I. I. p. 3-4. (6. 1829.). Digamma. The history of Rome by B. G. Niebuhr, translated by
Julius Charles Hare, M. A. and Connop Thirlwall, M. A. fellows of Trinity college, Cambridge. the first volume. Cambridge, 1828. sezione intitolata: Ancient
Italy; p. 17. not. 33. Ib. sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p. 38-9. l’autore nota e dimostra Ib. p. 40. not. 127. Ib. p. 50-1. Ib. sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p. 57. Discorso sopra Omero, ec. Ateneo, l. 14. p. 619. E. F. 620. A. ricorda certe canzoni (
Orelli, loc. cit. p. 4431. princip.; p. 519. Considerazioni sopra Omero ec. Non solo le poesie omeriche, ma molti altri scritti, e forse tutti quelli della più alta antichità, non solo poesie ma prose ancora, esistenti in oggi o perdute, ebbero probabilmente i loro diascheuasti, che ridussero la loro ortografia e dicitura a forma più moderna e meno rozza ed irregolare: e in tal forma soltanto, cioè diascheuasmenoi più o meno, passarono essi scritti alla posterità. Ed io non posso tenermi dal credere che anche Erodoto, e anche quel che abbiamo di genuino d’Ippocrate, non ci sia pervenuto alterato e riformato da’ diascheuasti (che possiamo tradurre riformatori). Essi hanno ancora nella sintassi, e nella maniera, molta di quella irregolarità e di quella mancanza d’arte che si può aspettare dal loro tempo, ma non tanta: Senofonte ed altri del buon tempo ne hanno forse non meno: e in genere io trovo la costruzione e la dicitura loro molto più formata ed artifiziale di quel che mi paia verisimile in quell’età. Non vi è abbastanza visibile l’infanzia della prosa, sì manifesta nei nostri, non dico Ricordano o suoi coetanei, ma i Villani ec. (Così negli spagnuoli del 13. sec., ne’ francesi ec.) L’infanzia della prosa si vede bensì manifestissima in alcuni dei frammenti che restano di Democrito, contemporaneo all’incirca di Erodoto (morì di più di 100 anni nell’Ol. 94. Erod. fiorì Ol. 84. 440 anni circa av. G. C. Ippocrate morì circa l’Ol. 100: ne’ suoi scritti è citato Democrito). Veggansi specialmente nella collezione (manchevole però ed imperfetta) datane dietro Enrico Stefano dall’Orelli (loc. cit. p. 4431. princip.) p. 91-131. i frammenti morali 43. 50. 70. 73. 121. fisici 1. Una stessa cosa si ripete in uno stesso periodo, non vi è quasi sintassi, parole necessarie, ed intere frasi o periodi, si omettono e sottintendono, l’un membro del periodo non ha corrispondenza coll’altro, il discorso procede per via di quelle forme che i greci chiamano anacoluti (o anacolutie), cioè inconseguenti, che è quanto dire senza forme. Tali frammenti, cioè luoghi Cleobulo (un de’ 7. sapienti) ap. Stobeo, c. 3. Alla p. 4346. È più penoso il distrarre per forza la mente da un pensiero acerbo o terribile che si presenti, di quello che sia il trattenervisi. (17. 1829.). Vivere senza se stesso al mondo, goder cosa alcuna senza se stesso, è impossibile. Però chi si trova senza speranza, chi si vede disprezzato da’ conoscenti e da tutti coloro che lo circondano, e quindi necessariamente è privo della stima di se medesimo, non può provar godimento alcuno, non può vivere, a dir proprio: perchè questo tale veramente manca di se medesimo nella vita. (17. 1829.). V. p. 4488. N. N. legge di rado libri moderni; perchè, dice, io veggo che gli antichi a fare un libro mettevano dieci, venti, trent’anni; e i moderni, un mese o due. Ma per leggere, tanto tempo ci vuole a quel libro ch’è opera di trent’anni, quanto a quello ch’è opera di trenta giorni. E la vita, da altra parte, è cortissima alla quantità de’ libri che si trovano. Onde ec. (17. 1829.). I forti, i fortunati, sentono e s’interessano per altrui In questo secolo sì legislativo, nessuno ha pensato ancora a fare un codice di leggi, civile e criminale, utopico, ma in tutte forme, e tale da servir di tipo di perfezione, al quale si dovessero paragonare tutti gli altri codici, per giudicare della loro bontà, secondo il più o meno che se gli assomigliassero; tale ancora, da potere, con poche modificazioni o aggiunte richieste puramente dalle circostanze di luogo e di tempo, essere adottato da qualunque nazione, almeno sotto una data forma di governo, almeno nel secolo presente, e dalle nazioni civili ec. (17. Gennaio. 1829.). Tomber, tumbar (spagn.) — tombolare. Tumbo (spagn.) tombolo ec. Muggine-mugella. Machiavellismo di società. Chi si crede un coglione al mondo, lo è, e lo comparisce. — Le leggi ec. contenute in questo trattato, non sono già passeggere ec.; sono eterne, almeno quanto le leggi fisiche ec. (18. 1829.). Alla p. 4370. Come in moltissime altre cose, il nostro tempo si riavvicina al primitivo anche in questo: che esso ha in poco pregio la poesia di stile [a] , la poesia virgiliana, oraziana ec., anzi non questa sola, ma anche quella p. e. del Petrarca, ed ogni poesia che Al discorso della eccellente umanità degli antichi paragonati ai moderni, (del che altrove), appartiene ancora il gius d’asilo che avevano presso loro non pure i templi o altri luoghi pubblici, ma eziandio il focolare d’ogni casa privata; e ch’era tanto più venerato che non è da noi. Orelli, loc. sup. cit. , p. 542. Cerebrum — cervello. Alla 4440. Non parlo dei Disticha de moribus assai noti e certamente antichi, che corrono sotto nome di Dionisio Catone; nome che non è fondato in alcuna probabile autorità. (22. Gen. 1829.). Consulere-consilium ec. Exsul, exsulium-exsilium ec. Alla p. 4428. fine. Così Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fine), sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p. 55. Non solo le storie o storielle d’una nazione furono spessissimo, come ho detto altrove in più luoghi, trasportate ed applicate ad un’altra; ma quelle eziandio d’una nazione medesima, cambiati i nomi delle persone, e le circostanze di luogo, tempo, e simili, furono sovente trasportate e applicate da un’epoca della sua storia ad un’altra. Questa cosa è notata negli annali di Roma dal Niebuhr in più e più casi; ed egli ripete tale osservazione in più e più luoghi della sua storia. Fra gli altri, sezione intitolata The War with Porsenna, p. 484 seg., dice: Niebuhr, ib. sez. intit. The Patrician Houses and the Curies, p. 268. Ib. sez. intit. Aeneas and the Trojans in Latium, p. 166-7. Yield, Roman poets, bards of Greece, give way,
The Iliad soon shall own a greater lay;
Alla p. 4316. Ben d’altra qualità e d’altro peso è la congettura del Niebuhr fondata in profondissima dottrina, e scienza dell’antichità, A viver tranquilli nella società degli uomini, bisogna astenersi non solo dall’offendere chi non ci offende, cosa ordinaria; ma eziandio, cosa rarissima, dal proccurare (dal cercare) che altri ci offenda. — Desiderio sincero di viver tranquilli nella società degli uomini, rarissimi sono che l’hanno veramente: avendolo, il conseguire l’effetto è cosa molto più facile che non si crede. (1. Feb. 1829.). Tutti, cominciando dal Pindemonte nella sua Epistola, hanno biasimato l’introduzione di Ettore e delle cose troiane nel Carme dei Sepolcri; e tutti leggono quell’episodio con grande interesse, e segretamente vi provano un vero piacere. Certo, quell’argomento è rancido; ma appunto perch’egli è rancido, perchè la nostra acquaintance con quei personaggi dàta dalla nostra fanciullezza, essi c’interessano sommamente, c’interessano in modo, che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, produrre altrettanto effetto. (1. Feb. 1829.). Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de’ versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta. (1. Feb. 1829.). Nessuno del Monti è tale. Chi non sa circoscrivere, non può produrre. La facoltà della produzione è scarsa o nulla in quell’ingegno dove le altre facoltà sono troppo vaste e soprabbondano. (3. Feb. 1829.). (Vedi la pag. 4484.) Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fine) sezione intitolata Beginning and Nature of the Earliest History, p. 216. segg. Cornélius Lúcius Scípio Barbátus,
Gnáivo (patre) prognátus, fortis vír sapiénsque, Quoius fórma vírtuti paríssuma fuit, Consúl, Censor, Aédilis, qúi fuit apúd vos: Taurásiam, Cesáunam, Sámnio cépit, Subícit omnem Lúcánaam, (cioè Lucaniam) Obsidésque abdúcit. Hunc únum plúrimi conséntiunt Románi
Duonórum optumum fúisse virúm, Lúcium Scipiónem, fílium Barbáti. Consúl, Censor, Aédilis, híc fuit apúd vos. Hic cépit Córsicam, Alériamque úrbem Dédit tempestátibus aédem mérito. Duúmviri pérduelliónem júdicent.
Si a duúmviris provocárit, Provocátióne certáto: Si víncent, caput óbnúbito: Infélici árbore réste suspéndito:
Vérberato íntra vel éxtra pomoérium. – Scripsere alii rem
Versibu’ quos olim Fauni vatesque canebant: Quom neque Musarum scopulos quisquam superarat, Nec dicti studiosus erat. Alla p. 4359. Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fin.) sezione intitolata The Beginning of the Republic and the Treaty with Carthage, not. 1078. p. 456-7. Albino, antico autore, ap. Macrob. II. 16. Storie o storielle trasportate da una nazione a un’altra. Vedi la pag. precedente, lin.10-17. (8. Feb. Domenica. 1829.). Affatto greco è l’uso che noi abbiamo di parecchi aggettivi neutri in significato di sostantivi astratti: lo scarso ( Svariato per vario. Gnaivus per Gnaeus. Vedi la pag. 4454. lin.4. — Achivus p. Achaeus ( Sinizesi. Dittonghi ec. Elisione dell’m finale in latino. Vedi la pag. 4454. lin.17. segg. V. p. 4465. Gli antichissimi scrivevano fut, fusse per Alla p. 4356. Dionisio d’Alicarnasso (vedi la p. 4451. lin.9.), chiama inni gli antichi canti epici de’ Romani in lode de’ loro eroi. Alla stessa pag. lin. ult. Gli antichi poemi epici de’ Romani non consistevano che in pezzi, in canti, di argomenti diversi, benchè coincidenti in un solo fino ad un certo segno. Così il poema epico antico nazionale tedesco, the lay of the Niebelungen. Vedi di sopra il pensiero che comincia p. 4450. capoverso ult. e specialmente le pagg.4455.4456. Alla p. 4413. E vedi, a tal proposito, particolarmente la pag. 4356. capoverso 1. Gli antichi canti nazionali e poemi epici de’ Romani, epici per l’argomento e la forma, erano in metri lirici. Vedi il pensiero citato nella pag. preced. capoverso ult. , e specialmente la p. 4455. e la seguente. Anche il poema della guerra punica di Nevio ( Nelle razionali speculazioni circa la natura delle cose, è da aver sempre avanti gli occhi questo assioma importantissimo: che dal vedere che da certe disposizioni poste dalla natura in certi esseri, facilmente e frequentemente (o anche sempre) nascono certe qualità; che certe qualità, pur date dalla natura, facilmente e frequentemente ricevono certe modificazioni; che certe cause facilmente e spesso producono certi effetti; dal vedere, dico, queste cose, non si può dedurre che ciò segua naturalmente; che quelle qualità, quelle modificazioni, quegli effetti sieno voluti dalla natura; che la intenzione della natura sia stata che essi avessero luogo, allorchè ella pose in quegli esseri quelle disposizioni, qualità o cause. Se uno fa una spada e un altro se ne serve a fettare il pane, non segue che l’intenzione del fabbricatore fosse che quello strumento fettasse il pane, benchè quella spada possa servire, e benchè serva attualmente, a quest’uso. Infiniti sono i disordini nel corso delle cose, non solo possibili, ma facilissimi ad accadere; moltissimi tanto facili, che quasi sono certi ed inevitabili: nondimeno son disordini manifesti, nè si possono attribuire ad intenzione della natura. Per un esempio fra mille: niente è più facile nè più frequente in certe specie di animali, che il veder le madri o i padri mangiarsi i propri figliuoli, bersi le proprie uova o quelle della compagna. Questo disordine orribile, che fa fremere, tende dirittamente e più efficacemente d’ogni altro alla distruzione della specie: è impossibile attribuire ad intenzione della natura, la cui tendenza continua alla conservazione delle specie esistenti, è una delle cose più certe che di lei si possono affermare, e che in lei sembrino manifestarci un’intenzione; attribuirle dico un disordine per cui il produttore stesso distrugge il prodotto, il generante il generato. Se la natura procedesse intenzionalmente in tal modo, già da gran tempo sarebbe finito il mondo. Da queste considerazioni segue, che per quanto il fenomeno dell’incivilimento dell’uomo sia possibile ad accadere; per quanto, considerate le disposizioni e le qualità poste in noi dalla natura e costituenti l’esser nostro, esso fenomeno possa parer facile, inevitabile; per quanto sia comune; noi non abbiamo il diritto di giudicarlo naturale, voluto intenzionalmente dalla natura. Grandissimi e vastissimi avvenimenti, fecondi di conseguenze sommamente moltiplici, importantissime, possono aver luogo a mal grado, per così dire, della natura. (16. Febb. 1829.) V. p. 4467. 4491. L’autore anonimo della vita d’Isocrate pubblicata dal Mustoxidi nella Meride nell’ Rufino nella version latina dell’Enchiridion o Annulus aureus che porta il nome di Sesto o Sisto, num. 372. ed. Orell., loc. cit. p. 4431., t. I. p. 266. S. Nilo vesc. e mart. Il medesimo ap. Io. Damasc. Parallel. Sacr., Opp. ed. Lequien. t. 2. p. 419. et ap. Orell. ib. p. 362. lin.6.
Lysis in Epistola ad Hipparchum p. 52. edit. Epistolarum
Socratis et Socraticorum, Pythagorae et Pythagoreorum, Io. Conr. Orellii, Lips. 1815. Alla p. 4165. Così Callimaco, Gratari — gratulari. Trembler (tremulare). Alla p. 4431. Tucidide, nel proemio, chiama gli storici Alla p. 4440. (la quale, del resto, è anch’essa d’imaginazione, come ho detto altrove, ec.) (19. Feb. 1829.). Tardivo (ital.) — tardío (spagnuolo.). Segnalato, señalado, signalé, per degno di essere segnalato, cioè notato; notevole. Alla p. 4460. Alla p. 4442. Primavera, cioè Alla p. 4437. Ben sono frequentissimi gli esempi di tal genere, non solo quanto a voci, inflessioni e simili, non proprie della lingua scritta, e solamente volgari, ma quanto a sintassi e dicitura affatto sgrammaticata, anzi strana, nelle iscrizioni di gente popolare, sì greche, e sì massimamente latine; come è fra le mille, quella ritrovata in Ostia, e pubblicata ultimamente dall’ Amati. Giorn. arcad. t. 39., 3.zo del 1828., p. 234.
Alla p. 4354. Probabilissimamente nella primitiva e vera scrittura, nella quale le vocali oggi dette lunghe, erano veramente doppie, cioè 2 vocali brevi, in tali casi si scriveva omettendo la 2.da breve: p. es. in vece d’ Alla p. 4403. Senofonte nell’Anabasi, al principio dei libri 2. 3. 4. 5. 7., riepiloga brevissimamente tutto il narrato prima, e dice:
queste cose Alla p. 4462. E già le destinazioni, le cause finali della natura, in molte anco di quelle cose in cui è manifesta la volontà intenzionale di essa natura come loro autrice, o non si possono indovinare, o sono (se pur veramente vi sono) affatto diverse e lontane da quelle che parrebbono dover essere. Per un esempio a che servono in tante specie d’animali quegli organi che i naturalisti chiamano rudimenti, organi imperfetti, incoati solamente, ed insufficienti all’uso dell’animale; in certe specie di serpenti due, in altri quattro piedicelli, che non servono a camminare, anzi non toccano nè pur terra, benchè sieno accompagnati da tutto l’apparato per camminare, cioè pelvi, scapule, clavicole, e simili cose? in certe specie di uccelli, ale che non servono per volare? e così discorrendo. Il sig. Hauch, professore di storia naturale in Danimarca, in una sua dissertazione "Degli organi imperfetti che si osservano in alcuni animali, della loro destinazione nella natura, e della loro utilità riguardo la storia naturale", composta in italiano, e pubblicata in Napoli 1827. (
Giorn. arcad. t. 38., 2.do del 1828. p. 76-81.), crede che siffatti organi servano di nesso tra i diversi ordini di animali (p. e. quei piedicelli, tra i serpenti e le lucerte), di scalino o grado intermedio, per evitare il salto; e che essi sieno quasi abbozzi con cui la natura si provi e si eserciti per poi fare simili organi più sviluppati e perfetti di mano in mano in altri ordini vicini di animali. Non so quanto quest’oggetto, questa causa finale, possa parere utile, e degna della natura e della cosa. V. p. 4472. Ma ricevuta tale ipotesi (ch’è l’argomento e lo scopo di quel libro), vedesi quanto le cause finali della natura sarebbero in tali casi lontane da ogni apparenza, e da tutto il nostro modo di pensare. Giacchè chi di noi non tiene per evidente che i piedi sono fatti per camminare? (come l’occhio per vedere). E pure quei piedicelli con tutto il loro apparato da camminare, non sarebbero fatti per camminare, nè poco nè punto; ma per un tutt’altro fine. E in fatti non camminano; perchè vi sono insufficienti. E quelle ali non volano, benchè per altro perfettamente organizzate (Hauch: il quale nota ancora che in alcuni di quegli uccelli esse non bastano nè anche nè servono punto a bilanciarli ed aiutare il corso, come si dice di quelle dello struzzo): Per un Discorso sopra lo stato attuale della letteratura ec. — Togliere dagli studi, togliere dal mondo civile la letteratura amena, è come toglier dall’anno la primavera, dalla vita la gioventù. (6. Marzo. 1829.). Alla p. 4245. Di questi Sinizesi. V. Forcell. ec. in Alla p. 4467. E così i dittonghi. I quali altresì, quando eran fatti brevi, si doveano scrivere senza l’ultima vocale: Alla p. 4430. Similmente quei tanti motti che sotto nome di Diogene cinico si trovano nel Laerzio, e nello Stobeo, Antonio e Massimo, ed altri, raccolti dall’ Orelli, loc. cit. p. 4431., t. 2. Lips. 1821.; moltissimi de’ quali si trovano attribuiti in altri luoghi ad altri diversissimi personaggi; mostrano che a Diogene si riferivano popolarmente tutti i detti mordaci, arguti ec. non solo morali o filosofici, ma qualunque. (8. Marzo. 1829.). Il luogo del Laerz. ap. l’Orelli, loc. cit. nel pensiero preced., p. 84. num.111. da nessuno inteso, e peggio dal Kuhnio (la cui spiegazione è data per ottima dall’ Orelli, ib. p. 585-6. dove chiama questo luogo difficilissimo ), secondo il quale (v. l’Orelli p. 586.) avremmo dei galli Alla p. 4464. Filone giudeo ha un luogo simile ( Alla p. 4437. fin. Non per ignoranza nè per negligenza, ma volutamente e a bello studio, si accostò a quel dir perplesso ec. a quella maniera democritea, anzi senz’ordine o regola alcuna di frase, e ciò esageratamente e fuor di misura, l’autore di quelle cinque Se gli scrittori conoscessero personalmente a uno a uno i lor futuri lettori, è credibile che non si prenderebbero troppa pena di proccurarsi la loro stima scrivendo accuratamente, nè forse pure scriverebbero. Il considerarli coll’immaginazione confusamente e tutti insieme, è quello che, presentandoli loro sotto il collettivo e indefinito nome e idea di pubblico, rende desiderabile o valutabile la loro lode o stima ec. (10. Marzo. 1829.). Alla p. 4426. Notano quelli che hanno molto viaggiato (Vieusseux parlando meco), che per loro una causa di piacere viaggiando, è questa: che, avendo veduto molti luoghi, facilmente quelli per cui si abbattono a passare di mano in mano, ne richiamano loro alla mente degli altri già veduti innanzi, e questa reminiscenza per se e semplicemente li diletta. (E così li diletta poi, per la stessa causa, l’osservare i luoghi, passeggiando ec., dove fissano il loro soggiorno.) Così accade: un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per se, che non ha nulla di ciò, ma perchè ci desta la memoria di un altro luogo da noi conosciuto, nel quale poi se noi ci troveremo attualmente, non ci riescirà (nè mai ci riuscì) punto romantico nè sentimentale. (10. Marzo. 1829.). Alla p. 4365. Certo, siccome la letteratura e le scienze greche, la filosofia ec., passando in Italia, furono causa che moltissime parole greche, appartenenti a tali rami, acquistassero cittadinanza latina, e di là sien divenute proprietà delle lingue moderne, non solo scritte, ma eziandio parlate; così anche la religione cristiana: e non dico delle voci tecniche della teologia, ma di tante altre voci proprie del cristianesimo traspiantate nel latino, e di là passate nelle lingue moderne (anche non figlie della latina), e in esse volgarissime d’uso, tanto che molte di loro sono sfiguratissime (o di forma o di significato) e appena lasciano scorgere la loro etimologia: come (in italiano) chiesa, clero, chierico, prete, canonico, vescovo, papa, battesimo, battezzare, cresima, eucaristia, catechismo, parroco, parrocchia, epifania, pentecoste, elemosina (limosina, limosinare ec.), accidia ec. (10. Marzo. 1829.), angelo, arcangelo, demonio, diavolo, patriarca, profeta, profezia, apostolo, martire, martirio, martìre, martoro, martoriare ec., cattolico, eretico, eresia (resia ec.), evangelo (vangelo), monaco, monastico, monasterio, eremo (ermo ec. eremita, romito, romitorio, ec.) anacoreta, mistero (trasportato anche ad ogni sorta di cose ignote, e fuor della religione), ec. Molte anche tradotte, come Alla p. 4468. Tale osservazione potrà parere soddisfacente come spiegazione del fenomeno, non del fine di esso. (12. Marzo.). Galateo morale. Mille piacer non vagliono un tormento. Or come può un piacere valer mille tormenti? e pure così è la vita. (14. Marzo. 1829.). Questo verso racchiude una sentenza capitale contro la vita umana, e contro chi consente a vivere, cioè tutti i viventi. Monosillabi latini. In generale la forma diminutiva (o disprezzativa o vezzeggiativa ec.) spagnuola in illo, e ico, ecillo, ecico, cillo, cico, e l’italiana in glio e chio (icchio, ecchio, acchio ec.), e la francese in il, ill; ail, aill; eil, eill ec.; sì de’ nomi, che de’ verbi (ne’ quali suol esser chiamata frequentativa), non è altro (anche nelle voci di origine non latina) che la mera latina in aculus, iculus, culus, iculare, culare, uscul. ec. contratta prima in clus, clum, iclus, clare ec. (27. Marzo. 1829.). V. p. 4486. Monosillabi lat. , opposti alle voci greche corrispondenti. Sufficiente detto di uomo, sufficienza ec. — Alla p. 4442. Eremo sostant. da Error grande, non meno che frequentissimo nella vita, credere gli uomini più astuti e più cattivi, e le azioni e gli andamenti loro più doppi, di quel che sono. Quasi non minore nè meno comune che il suo contrario. (28. Marzo. 1829.). Tanto, Strascicare e strascinare, sono certamente frequentativi corrotti da Alla p. 4446. Verissima osservazione, siccome l’altra analoga, p. 4459., sopra i drammi. Ma tali memorie, leggende e canti, non possono trovarsi se non in popoli che abbiano attualmente una vita e un interesse nazionale; dico vita e interesse che risieda veramente nel popolo: e però non possono trovarsi se non che in istati democratici, o in istati di monarchie popolari o semipopolari, (come le antiche e del medio evo), o in istati di lotta nazionale con gente forestiera odiata popolarmente (come, al tempo del Cid, degli spagnuoli cogli arabi), o finalmente in istati di tirannie combattute al di dentro (come nella Grecia moderna, e in più provincie ed epoche della Grecia antica e sue colonie). Ma nello stato in cui le nazioni d’Europa sono ridotte dalla fine del 18.o secolo, stato di tranquilla monarchia assoluta, i popoli (fuorchè il greco) non hanno potuto nè possono avere di tali tradizioni e poesie. Le nazioni non hanno eroi; se ne avessero, questi non interesserebbero il popolo; e gli antichi che si avevano, sono stati dimenticati da’ popoli, da che questi, divenendo stranieri alla cosa pubblica, sono anche divenuti stranieri alla propria storia. Se però si può chiamare lor propria una storia che non è di popolo ma di principi. In fatti nessuna rimembranza eroica, nessuna affezione, perfetta ignoranza della storia nazionale, sì antica, sì ancora recentissima, ne’ popoli della moderna Europa. In siffatti stati, gli eroi delle leggende popolari non sono altri che Santi o innamorati: argomenti, al più, di novelle, non di poemi o canti eroici, nè di tragedie eroiche. Quindi apparisce che il poema epico, anzi ancora il dramma nazionale eroico, di qualunque sorta, e sia classico o romantico, è quasi impossibile alle letterature moderne. Il vizio notato da Niebuhr nell’Eneide, è comune alle moderne epopee, al Goffredo particolarmente. Meglio, per questo capo, i Lusiadi; i cui fatti anco, benchè recentissimi, abbondavano di poetico popolare, per la gran lontananza, ch’equivale all’antichità, massime trattandosi di regioni oscure, e diversisime dalle nostrali. Meglio ancora l’Enriade, il cui protagonista vivea nella memoria del popolo, non veramente come eroe, ma come principe popolare. Oltracciò quelle tradizioni di cui parla Niebuhr, dubito che possano aver luogo se non in tempi di civiltà men che mezzana (come gli omerici, quei de’ romani sotto i re, de’ bardi, il medio evo); nei quali hanno credito i racconti maravigliosi che corrono dell’antichità, e il moderno diviene antico in poco tempo. Ma in giorni di civiltà provetta, come quei di Virgilio e i nostri, l’antico, per lo contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non corrono altre leggende che quelle che narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno più, non pur dell’eroiche, ma di sorta alcuna; e non v’hanno luogo altre poesie fondate in narrative popolari, se non del genere del Malmantile. (29. Mar. 1829.). Da queste osservazioni risulterebbe che dei 3 generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e l’esperienza de’ poeti moderni lo proverebbe); genere, siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche. (29. Marzo 1829.). — Ed anco in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l’età nostra si riavvicina alla primitiva. — Del resto quel che della poesia epica e drammatica, è anche della storia. Che importerebbe, che impressione, che effetto farebbe al popolo di Milano, di Firenze o di Roma, se oggi un nuovo Erodoto venisse a leggergli la storia d’Italia? (30. Mar.). Alla p. 4418. Anche qui, come in tante altre cose della nostra vita, i mezzi vagliono più che i fini. (29. Mar. 1829.). La felicità si può onninamente definire e far consistere nella contentezza del proprio stato: perchè qualunque massimo grado di ben essere, del quale il vivente non fosse soddisfatto, non sarebbe felicità, nè vero ben essere; e viceversa qualunque minimo grado di bene, del quale il vivente fosse pago, sarebbe uno stato perfettamente conveniente alla sua natura, e felice. Ora la contentezza del proprio modo di essere è incompatibile coll’amor proprio, come ho dimostrato; perchè il vivente si desidera sempre per necessità un esser migliore, un maggior grado di bene. Ecco come la felicità è impossibile in natura, e per natura sua. (30. Marzo. 1829.). Alla p. 4366. Quindi l’aridità, il nessun interesse, la noia delle novelle, narrazioni, poesie allegoriche, come il Mondo morale del Gozzi, la Tavola di Cebete ec. Non parlo delle personificazioni ed enti allegorici introdotti come macchine in poemi, come nell’Enriade: perchè a quelli il poeta mostra di credere veramente, come farebbe ad altri enti favolosi e fittizi, umani o soprumani ec. (30. Marzo. 1829.). Piombato, plombé (del color del piombo), per plumbeo. Dépiter, se dépiter. Errori popolari degli antichi. — Parlerò di quegli errori che furono, o si può creder che fossero, propri de’ volgari, e di quella sorta di persone che in tutte le nazioni vanno considerate come appartenenti al volgo; non già di quegli errori che il popolo ebbe comuni coi saggi; molto meno di quelli che furono proprii de’ saggi; materia che sarebbe infinita. Gli errori de’ saggi, antichi e moderni, sono innumerabili. Il popolo ha pochi errori, perchè poche cognizioni, con poca presunzion di conoscere. Oltre che la natura, voglio dir la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte più rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata. E però non è raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di molte cose opinioni migliori o più ragionevoli che i sapienti; e non è temerario il dire che, generalmente, nelle materie speculative e in tutte le cose il conoscimento delle quali non dipende da osservazione e da esperienza materiale, i filosofi antichi errassero dalla verità, o dalla somiglianza del vero, meno che i filosofi moderni: se non in quanto i moderni, quando scientemente e quando senza avvedersene, sono tornati in queste cose all’antico. (31. Marzo. 1829.). Il dogma dell’invidia degli Dei verso gli uomini, celebrato in Omero, e soprattutto in Erodoto e suoi contemporanei, sembra essere di origine orientale, o divulgato principalmente in oriente. Poichè esso tiene alla dottrina del principio cattivo, ed a quelle idee che rappresentavano le divinità come malefiche e terribili; dottrina e idee aliene dalla religione della Grecia a’ tempi omerici ed erodotei, come ho osservato altrove. Ed esso è l’origine de’ sacrifizi, e delle penitenze, sì comuni in oriente, quasi ignote in Grecia. L’atto di Policrate samio (ap. Erodoto) che getta in mare il suo anello per proccurare a se medesimo una sventura, non è che una penitenza. (31. Marzo. 1829.). Scherzava sul poetar suo in questa forma: diceva ch’egli seguia Cristofaro Colombo, suo cittadino; ch’egli volea trovar nuovo mondo, o affogare. Chiabrera, Vita sua. Questo motto pare oggi una smargiassata, e ci fa ridere. Che grande ardire, che gran novità nel poetar del Chiabrera. Un poco d’imitazione di Pindaro, in luogo dell’imitazione del Petrarca seguita allora da tutti i così detti lirici. E pur tant’è: a que’ tempi questa novità pareva somma, arditissima, facea grand’effetto. Oggi par poco, e basta appena a far impressione poetica tutta la novità e l’ardire che è nel Fausto o nel Manfredo. — Può servire a un Discorso sul romanticismo. (1. Aprile. 1829.). L’imaginazione ha un tal potere sull’uomo (dice Villemain, Cours de littérature française, Paris 1828. nell’Antolog. N.97. p. 125. in proposito del generale entusiasmo destato dai canti ossianici al lor comparire, ed anco al presente), i suoi piaceri gli sono così necessari, che, anche in mezzo allo scetticismo di una società invecchiata, egli è pronto ad abbandonarvisi ogni volta che gli sono offerti con qualche aria di novità. — Verissimo. Il successo delle poesie di Lord Byron, del Werther, del Genio del Cristianesimo, di Paolo e Virginia, Ossian ec., ne sono altri esempi. E quindi si vede che quello che si suol dire, che la poesia non è fatta per questo secolo, è vero piuttosto in quanto agli autori che ai lettori. (1. Aprile. 1829.). Alla p. 4470. Pur quelle Stentato, stentatamente ec. Alla p. 4438. E che altro che una diascheuasi era quella onde o libri interi, o passi e frammenti d’autori greci, dal dialetto in che erano scritti originalmente, venivano ridotti al parlar greco comune, e talora anche a qualche altro dialetto? (
Orelli, ib. t. 2. p. 720. fin.) cosa frequentissima. Così il moderno editore del libro Odio verso i nostri simili. Galateo morale. Umanità degli antichi. — Da che viene quel fenomeno sì incontrastabile, sì universale senza eccezione; che è impossibile essere spettatori di un piacer vivo, provato da altri (non solo uomini, anche animali), massime non partecipandone, senza sperimentare un irresistibile senso di pena, di rabbia, di disgusto, di stomaco? — piaceri sì morali, sì fisici. — piaceri venerei, insoffribili a vedere in altri, sì uomini, sì anche animali: insoffribili anche agli animali, sì in quei della propria specie, sì in altri. — Perchè sì spiacevole in natura la vista del piacer d’altri? — Il Casa nel Galateo prescrive che non si mangi o beva in compagnia o presenza altrui con dimostrazione di troppo gran piacere: Cleobulo ap. Laerz., notato da me altrove, che non si faccia carezze alla moglie in presenza d’altri. V. p. seg. — In fatto di donne generalmente, in fatto di galanteria, la cosa è notissima; insoffribile non solo la vista, ma i discorsi, i vanti, di fortune altrui. Alla p. preced. (V. Orell. Opusc. graec. moral. t. 1. p. 138, e le note) e ciò è anche oggi di creanza universale, e quasi naturale. (3. Apr. 1829.). Dal pensiero precedente apparisce (e l’esperienza lo prova) che vera amicizia difficilmente può essere o durare tra giovani, malgrado il candore, l’entusiasmo ec. proprio dell’età. E ve ne sono anche altre ragioni. Più facile assai l’amicizia tra un giovane e un vecchio o un provetto. — L’odio verso i simili, che essendo di ogni vivente verso ogni vivente, è maggiore verso quei della specie, ancor nella specie stessa è tanto maggiore, quanto un ti è più simile. — Hanno gli Ebrei in un loro libro di sentenze e detti varii (che si dice tradotto di lingua arabica, ma verisimilmente è pur di fattura ebraica) (
Orell. Opusc. graec. moral. t. 2. Lips. 1821., praef. p. XV.), che non so qual sapiente, dicendogli uno: io ti sono amico, rispose: che potria fare che non mi fossi amico? che non sei nè della mia religione, nè vicino mio, nè parente, nè uno che mi mantenga? (sentent. 269. Apophthegm. Ebraeor. et Arabum ed. a Io. Drusio: Franequerae 1651.) — Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non passarli mai. (4. Apr. 1829.). Alla p. 4437. (dove la sgrammaticatura continua e il balbettare, viene dall’esser gli autori forestieri, grecizzanti non greci, o dall’affettare il dir non greco, l’imitazione del linguaggio scritturale dei 70 ec.). L’imperfetto indicativo pel congiuntivo. Se io sapeva (avessi saputo) questo, non andava (non sarei andato) ec. Ch’ogni altra sua voglia Era (sarebbe stata) a me morte, ed a lei infamia rea. Petr. Canz. Vergine bella . Anche il più che perfetto. S’io era ito ec., non mi succedeva ec. E in francese Ebbero anche i greci de’ libri di Mémoires secrets. Tali sono gli Aneddoti o Storia Arcana di Procopio, e gli altri mentovati dal Fabric. a questo proposito. Vedilo, B. Gr. t. 6. p. 253. sqq. e specialmente p. 255. not. (n.) (4. Apr. 1829.). Sinizesi. Dittonghi ec. Deesse dissillabo. Cesare ap. Donat. Vit. Terent. Alla p. 4415. L’interesse nell’epopea, nel dramma, non nasce dal nazionale, ma dal noto, dal familiare. Se le cose e le persone antiche e straniere ci sono (come sono in fatti) tuttavia più note, più familiari, più ricche di rimembranze che le nazionali e le moderne, anzi se le nazionali non ci sono nè familiari nè cognite; la conseguenza è chiara, quanto alla scelta dei soggetti, volendo cercare il piacere. I nazionali nostri sono i Greci, i Romani, gli Ebrei ec. coi quali siamo convissuti fin da fanciulli. (5. Aprile. Domen. di Passione. 1829.). Volendo poi mirare all’utile, è un altro affare; ma in tal caso non bisogna dimenticare quel detto della Staël (
Corinne, liv. 7. ch. 2): Errori popolari degli antichi. Parlerò di questi errori leggermente, come storico, senza entrare a filosofare sopra ciascuno di essi e sopra la materia a cui appartengono; cosa che mi menerebbe in infinito, e vorrebbe non un Trattatello, ma un gran Trattato. In questo secolo, stante la filosofia, e stante la Alla p. 4429. Però io per me, se uno mi chiedesse p. e.: credi tu che Sinizesi, Dittonghi ec. Le contrazioni e circonflessioni de’ greci, che altro sono che sinizesi ec. ec.? (6. Apr. 1829.) Penato per penante. Crus. volg. marchegiano. Seccare, seccatore ec. V. Scapula in Merlo. merlotto. Scricchiolare, scricchiolata. Rattenuto per cauto ec. Affermi, mal affermi per fermo, mal fermo. Del Saggio sopra l’origine unica delle cifre e lettere di tutti i popoli, per M. De Paravey, Paris, 1826., Dissertazioni tre del P. Giacomo Bossi. Torino 1828. St. Reale (sic) 8.o di p. 103. (11. Apr.). Chi ha viaggiato, gode questo vantaggio, che le rimembranze che le sue sensazioni gli destano, sono spessissimo di cose lontane, e però tanto più vaghe, suscettibili di fare illusione, e poetiche. Chi non si è mai mosso, avrà rimembranze di cose lontane di tempo, ma non mai di luogo. Quanto al luogo (che monta pur tanto, che è più assai che nel teatro la scena), le sue rimembranze saranno sempre di cose, per così dir, presenti; però tanto men vaghe, men capaci d’illusione, men soggette all’immaginazione e men dilettevoli. (11. Apr. 1829. Recanati.). La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine. (11. Aprile.). Delle cognizioni enciclopediche degli antichi (massimamente greci), e del loro scrivere sopra ogni ramo dello scibile, del che altrove, possono dare un’idea, e sono un esempio, anche gli scritti di Cicerone (fra superstiti e perduti) imitatore in ciò, come in tante altre cose, de’ greci: il quale a molte delle sue opere (filosofiche, rettoriche ec.) fu mosso, non da alcuna ispirazione Alla p. 4473. Così i nostri diminutivi o disprezzativi o frequentativi ec. in accio acciare [a] — uccio, ucciare (succiare — succhiare, per suggere); azzo, azzare — uzzo, uzzare; aglio agliare — uglio ugliare (plebaglia, Frequentativi o diminutivi italiani, verbi e nomi [a] . V. il pensiero precedente e suoi annessi prima e poi. Coccolone, penzolone ec. ec. (13. Apr.). Alla p. 4388. E pure veggiamo che da 3 secoli che la presente ortografia italiana fu a un di presso introdotta, la pronunzia de’ parlanti è ancora la stessa: dico in chi parla bene, e la cui pronunzia fu voluta con siffatta ortografia rappresentare. Vale a dir che un Toscano parla oggidì e legge la nostra lingua com’ella sta nelle buone stampe del sec. 16., e come la scrivevano allora i corretti scrittori; eccetto gli h inutili, e non mai pronunziati, ed altre tali particolarità, che non rappresentavano la pronunzia neppur d’allora. Del resto, se quel che dice il Foscolo fosse vero, e d’altronde l’ortografia dovesse sempre star ferma, e lasciare andar la pronunzia, ne seguirebbe che prestissimo la lingua parlata e la scritta sarebbero 2. lingue affatto distinte; e la difficoltà dell’imparare a leggere sarebbe enormissima, come è già grande ai francesi inglesi ec., e maggiore senza comparazione che agl’italiani e spagnuoli. Non so che popolarità saria questa: la popolarità di quando la lingua scritta era latina, e la parlata volgare. Fatto sta che non fu ragione, non fu un principio di conservazione di stabilità, di etimologia, quel che produsse e mantenne la pessima e falsissima ortografia francese inglese ec., ma fu solo l’ignoranza e la mala abilità de’ primi che posero in iscrittura i volgari, i quali scrissero la lingua più, per così dire, in latino che in inglese ec.; e il non essersi rimediato poi a questo errore in Inghilterra in Francia ec., come si è fatto in Italia Spagna ec., anzi averlo seguitato. Le discrepanze delle nostre prime ortografie che Foscolo cita, non provano che l’inabilità di que’ primi a rappresentar la parola e la pronunzia stessa d’allora. (13. Apr.). La vera (e naturale) perfezione dell’ortografia è che 1. ogni segno, come si pronunzia nell’alfabeto, così nella lettura sempre; 2. e nell’alfabeto esprima un suono solo. 3. non si scriva mai carattere da non pronunziarsi, nè si ometta lettera da pronunziarsi. (13. Apr.). Alla p. 4439. Quando io mi sono trovato abitualmente disprezzato e vilipeso dalle persone, sempre che mi si dava occasione di qualche sentimento o slancio di entusiasmo, di fantasia, o di compassione, appena cominciato in me qualche moto, restava spento. Analizzando quel ch’io provava in tali occorrenze, ho trovato, che quel che spegneva in me immancabilmente ogni moto, era un’inevitabile occhiata che io allora, confusamente e senza neppure accorgermene, dava a me stesso. E che, pur confusamente, io diceva: che fa, che importa a me questo (la bella natura, una poesia ch’io leggessi, i mali altrui), che non sono nulla, che non esisto al mondo? V. p. 4492. E ciò terminava tutto, e mi rendeva così orribilmente apatico com’io sono stato per tanto tempo. Quindi si vede chiaramente che il fondamento essenziale e necessario della compassione, anche in apparenza la più pura, la più rimota da ogni relazione al proprio stato, passato o presente, e da ogni confronto con esso, è sempre il se stesso. E certamente senza il sentimento e la coscienza di un suo proprio essere e valere qualche cosa al mondo, è impossibile provar mai compassione; anche escluso affatto ogni pensiero o senso di alcuna propria disgrazia speciale, nel qual caso la cosa è notata, ma è ben distinta da ciò ch’io dico. E al detto sentimento e coscienza, come a suo fondamento essenziale, la compassione si riferisce dirittamente sempre; quantunque il compassionante non se n’accorga, e sia necessaria un’intima e difficile osservazione per iscoprirlo. Quel che si dice dei deboli, che non sono compassionevoli, cade sotto questa mia osservazione, ma essa è più generale, e spiega la cosa diversamente Ciò che dico del sentimento di se stesso, e della considerazione e stima propria, vale ancora per la speranza: chi nulla spera, non sente, e non compatisce; anch’egli dice: che importa a me la vita? Fate qualche atto di considerazione a chi si trova spregiato, dategli una speranza; una notizia lieta; poi porgetegli un’occasione di sentire, di compatire: ecco ch’egli sentirà e compatirà. Io ho provato, e provo queste alternative, e di cause e di effetti, sempre rispondenti questi a quelle: alternative attuali, o momentanee; ed alternative abituali e di più mesi, come, da città grande passando a stare in questa infelice patria, e viceversa. Il mio carattere, e la mia potenza immaginativa e sensitiva, si cangiano affatto l’uno e l’altra in tali trasmigrazioni. (Recanati. 14. Aprile. Martedì santo. 1829.). Lattato per latteo. E simili altri aggettivi di colori. Che l’antico Vinciglio ( Romoreggiare. Pavoneggiare. Atteggiare. Veleggiare. Il nostro favorare par dimostrato nel latino da Babil, babiller, babillard ec. Gaspiller, gaspillage ec. Gazouiller ec. Plumasserie, plumassier. Observito as. Beccare — bezzicare. Piccare — pizzicare. Piovizzicare (marchigiano), e pioviccicare (id.). Piluccare — spilluzzicare. Appiccare — appicciare, appiccicare. Scioperato, Perdonare, I participii in us de’ verbi neutri ec. sono comprovati da quelli di forma e senso corrispondente, che hanno i medesimi verbi in italiano francese spagnuolo. Ci paiono poetichissime, ed amiamo a ripetere, moltissime frasi scritturali, che non sappiamo che significhino, anzi che rapporto abbiano quelle voci tra loro, (come l’abominazione della desolazione, ec. ec.): e ciò per quel vago, e perchè appunto non sappiamo precisare a noi stessi, e non intendiamo se non confusissimamente e in generalissimo, che cosa si voglian dire. (19. Aprile. Pasqua.). Amitié, amistà, amistad — amicitas, nell’ignoto latino. V. Forc. Gloss. ec. Così nimistà ec. Altra circostanza che muta alternamente il carattere, è il passare da città grande a piccola, da città forestiera alla patria, e viceversa. In quelle il carattere è più franco, aperto, benevolo; in queste al contrario, per la collisione degl’interessi, invidie de’ conoscenti, amor proprio continuamente punto ec. Esperienza mia propria ec. Quindi, come per tante altre cagioni (v. il mio Discorso sui costumi presenti degl’Italiani) più dabbene generalmente i privati nelle città grandi che ne’ luoghi piccoli ec. ec. Pensiero da molto stendersi e spiegarsi. (19. Apr. Pasqua. 1829.). V. p. 4520. Alla p. 4462. Neanche per rapporto allo stato sociale sarebbe possibile di credere che tutte le qualità degli uomini sieno destinate dalla natura a svilupparsi. Lascio le cattive (come noi diciamo) e visibilmente dannose alia società (che sono infinite): neppur le buone ed utili. Vedi circa i talenti, Rousseau, Pensées, part. I. p. 197. fin. ep. 198. Amsterd. 1786. (19. Apr. 1829.). Continuo — continovo, coi derivati e gli altri simili. Manuale — manovale, Mantua — Mantova. Altro ostacolo alla durata della fama de’ grandi scrittori, sono gl’imitatori, che sembrano favorirla. A forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que’ suoi tanti pensierini pieni di grazia o d’affetto, quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perchè sono in fatti comunissimi. Interviene agl’inventori in letteratura e in cose d’immaginazione, come agl’inventori in iscienze e in filosofia: i loro trovati divengono volgari tanto più facilmente e presto, quanto hanno più merito. (20. Apr. 1829.). Famulus ec. — familia ec. Fabula, fabulor ec. — favella, favellare: diminutivi ec. Prezzolare. Il nostro antico fante per parlante, e di qui per uomo, co’ suoi diminutivi, come fanciullo (cioè uomicciuolo) che ancor s’usa, senza conoscerne la forza e l’etimologia, fantoccio ec. ec. non è egli evidentemente l’antico, e negli scritti perduto o disusato, fans, da La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato, è dolorosa, quando esso è considerato come passato, finito, che non è, non sarà più, Specio-speculor. Alla p. 4488. Ancora: che ardisco io formar de’ pensieri nobili, che da tutti son tenuto per uom da nulla. Il primo fondamento di qualunque o immaginazione o sentimento nobile, grande, sublime (e tali sono i poetici e sentimentali di qualunque natura: anche i dolci, teneri, patetici ec.: tutti inalzano l’anima), è il concetto di una propria nobiltà e dignità. Anzi la facoltà e l’efficacia di esse immaginazione e sentimento, sì abitualmente e sì attualmente sono in proporzione sempre del detto concetto, sì abituale, e sì attuale. Ogni sentimento o pensiero poetico qualunque è, in qualche modo, sublime. Poetico non sublime non si dà. Il bello, e il sentimento morale di esso, è sempre sublime. Ora il concetto di una propria nobiltà, sembra ridicolo, è respinto con dolore, come una illusione perduta, quando uno si trova disprezzato, abitualmente o attualmente, da quei che lo circondano. Però in questi casi, il provar quella quasi tentazione a sentire ec., è penoso, perchè vi rinnuova il pensiero della vostra abiezione. Certo, egli è proprietà ed effetto essenziale d’ogni immaginazione e sentimento di natura poetica, l’inalzar l’anima: al che si oppone direttamente quello stato di spregio ec., quel concetto, quel sentimento di se stessa, che la deprime. (22. Aprile. 1829, Recanati.). V. p. 4499.4515. Indulgenza nelle città grandi verso le persone mediocri in qualunque genere, e verso i difetti e ridicoli (pur d’ogni genere) di queste e delle insigni (difetti che si perdonano in grazia de’ pregi, ed anche della semplice compagnia che quelle persone fanno) maggiore assai che ne’ luoghi piccoli; appunto al contrario di ciò che in questi si crede. ec. ec. (23. Aprile). Affumare, affummare — affumicare. Arsiccio, arsicciare, abbruciacchiare ec. Pallare-palleggiare. Che pallare per quassare, venga da Pigna, dialetto marchegiano — pignatta, pignatto, pignattino ec. V. la p. 4498. Il diminut. pignatta dimostra il suo positivo pigna. Agli uomini paghi in buona fede e pieni di se, gli altri uomini sono quasi tutti amabili; li veggono volentieri, ed amano la lor compagnia. Perocchè si credono stimati, ammirati, Coraggio propriamente detto non si dà in natura, è una qualità immaginaria e di speculazione. Chi nel pericolo non teme, non pensa al pericolo, o abituato a non riflettere, o avvezzo a quei tali casi, o distratto da faccende o da altri pensieri in quel punto. Chi pensa al pericolo, teme; eccetto se la morte, o quel qualunque danno imminente, nell’opinion sua non è male. In tal caso, quel pericolo non è pericolo a’ suoi occhi. Ma creder male una cosa, conoscersi in pericolo d’incorrervi, aver presente al pensiero il pericolo, e non temere; questo è il vero coraggio; e questo è impossibile alla natura. I così detti coraggiosi, rimangono maravigliati quando ne’ pericoli veggono altri che temono; e dimandano perchè. Essi non si erano accorti del rischio, o vi avevano fatto piccolissima attenzione. V. un tratto di Carlo 12 re di Svezia, assediato in Stralsund, ap. Voltaire, liv. 8. ed. Londr. 1735. t. 2. p. 160-1. (26. Aprile. 1829.). Ventare, sventare — ventolare, sventolare, ventilare (lat. ventilo), venteggiare. Pargoleggiare ec. Vanare — vaneggiare. Per esser vano v. vaneggiare anche nel Petr. Tr. del Tempo: E vedrai ’l vaneggiar di questi illustri. (26. Apr.). Tinea (noi tigna), Acutus da acuo, participio aggettivato, e non più riconosciuto per participio. Argutus, cioè qui arguit. ; e participio aggettivato. Desolato per solo (uomo o luogo). V. Crus., Forcell. Pargolo è diminutivo. Pur è già antiquato, e nella prosa non si usa più che il sopraddiminutivo pargoletto. Tanta è la tendenza del popolo a diminuire. Così in Toscana oggi non odi più piccolo, ma piccino. (27. Apr.). In lat. Pina — pinocchio. V. Crus. Innamoracchiare, innamorazzare, amoreggiare. Gravato per grave. Petr. L’aere gravato e l’importuna nebbia. Ci piace e par bella una pittura di paese, perchè ci richiama una veduta reale; un paese reale, perchè ci par da dipingerci, perchè ci richiama le pitture. Il simile di tutte le imitazioni (pensiero notabile). Così sempre nel presente ci piace e par bello solamente il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezion di somiglianze e di rapporti, e in rimembranze. (Recanati. 27. Aprile. 1829.). Dives, divitis, divititae ec. — dis, ditis, Dis Ditis, ditare ec. Recupero — recipero. V. Forc. Covaccio — covacciolo (accovacciare ec.). E simili altri in accio-acciolo, acciare — acciolare. Così in acchio acchiolo ec. Vedi la p. 4473. capoverso 9, coi pensieri annessi, anteriori o posteriori al presente. Notisi che la desinenza in ulus a um, ulare ec. già era compresa nella forma in accio, acchio, aglio ec. (come qui in covaccio, che è un Alla p. 4486. Anche la forma in as asse (crevasse crevasser ec.[a] ) asser (frigo, fricasser [a] ) ace acer spesse volte, non è altro che la latina in acul. .., la nostra in accio acciare, azzo azzare ec. Così la spagnuola in azo aza azar. Minae, minor, minaccia, minacciare, menace ec., amenaza ec. Così fors’anco in êche, eche, ec. ec. esse, isse, ec. oisse, ousse ec. isser ec.; e in ezo, izo (granizo) ec. izar ec. acho, echo ec. achar ec. Così talvolta la nostra in asso, assare, esso ec. Similmente le nostre in olo, olare, olo (gragnòla) ec. uolo uolare, icciuolo, o a-ucciuolo (filiolus, figliuolo) ec. tutte dal latino ul. .., o talvolta ol. .. V. p. 4498. — Così la francese analoga in eul, euil ec. ec. (linceul). Tutte queste forme vengono, dico, dall’unica latina, o che questa abbia forza diminut. ec., o che sia semplice desinenza, del che vedi la pag. 4442-4. — V. ancora il pensiero qui precedente. (30. Apr.). Anche sovente la spagnuola allo allar — ullo ullar; e forse la francese al alle, aller — uller. Così forse spesso anche la nostra in allo (timballo per timpano) allare — ullo ullare (culla da cunula, cullare, colla, collare, da chordula, fanciullo (v. la p. 4492. capoverso 7.), maciulla, maciullare). Notandum però che anco i latini hanno la forma diminutiva ec. in ill. .., ell. .. oll. .. (corolla, v. p. 4505.), ull. .., fors’anche all. .., sì in verbi sì in nomi. — Mirabil cosa in quante maniere diverse si è corrotta la pronunzia latina, anche dentro una stessa nazione; cosa notabile assai nella scienza delle etimologie. E da ciò in gran parte deriva la tanta superiorità dell’italiano sul latino in abbondanza e varietà di forme frequentative, diminutive ec., superiorità notata da me altrove, parlando de’ frequentativi latini. — Vedi anche la p. 4490. capoverso 5. (1. Mag.). V. p. 4500. Piovegginare. Piovigginare. Gergo — jargon. Frego — fregacciolo, sfregacciolo, fregacciolare. Impiastrare — impiastricciare. Ram-mentare — di-menticare, s-menticare ec. Masticare: da un Dello stesso secolo è mancare di poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l’utile, il linguaggio del popolo; bandirne l’eleganza; privarla della maggior parte del bello, ch’è la sua essenza; o, contro la propria natura di essa, subordinare il bello (e quindi il sublime, il grande ec. V. la p. 4492. fin. e sq.) al vero, o al così detto vero. È naturale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o men poetica ch’ei può; anzi una poesia non poesia. (2. Mag.). Alla p. 4273. Così gli stranieri, dopo avere snaturata la loro scrittura per voler esprimer con essa piuttosto la pronunzia latina che la volgare, abituati poi a questo snaturamento, anzi dimenticatolo, e pigliando per naturale e per logico il loro modo di scrivere, vengono a snaturare la pronunzia latina, facendo dal latino scritto al pronunziato quella differenza che sono usati e necessitati a fare dalla pronunzia alla scrittura de’ loro volgari. (2. Mag. 1829. Recanati.). È naturale e conseguente, che chi scrive male la propria lingua, legga male le altre. Massime quelle che non gli sono note se non per iscrittura. (2. Mag.). Alla p. 4496. Come Che L’assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch’è lo stato più ordinario della vita, non è nè indifferente, nè bene, nè piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d’altronde i mali non fossero più che i beni, nè maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia. (4. Maggio. 1829.). Al detto altrove delle bestie e de’ pazzi, che metton fuori tutte le loro forze per ottenere i loro fini, a differenza degli uomini, aggiungi i fanciulli, i quali perciò alle volte vincono di vera e viva forza gli uomini fatti ec. (4. Maggio. 1829. Recanati.). Alla p. 4493. Nessuna dolce e nobile ed alta e forte illusione può stare senza la grande illusione dell’amor proprio, l’illusione della stima di se stesso e della speranza. Togliete via questa, tutte le altre verranno meno immantinente, e potrete conoscere allora che questa era il fondamento e la nutrice, per non dir la radice e la madre di tutte l’altre. — Supponete uno nella più profonda estasi di sentimento o di entusiasmo: fategli un motto, un gesto solo di spregio, o ch’egli interpreti come tale; o ponete che qualche cosa gli richiami alla mente alcun dispregio sofferto altra volta: tutte le illusioni di quel punto spariscono come un lampo, l’entusiasmo si spegne, la persona resta di ghiaccio. (5. Mag. 1829.). Scheda. schedola. V. Crus. Forcell. Viola, lat. ital. ec. — violette, franc. Talus — talon, tallone. Cipolla, cebolla, forse da cepucula o cepulla (v. la p. 4497. princip.), diminutivo come tanti altri nomi d’erbe, piante, animali ec. del che altrove. Anche in francese ha forma diminutiva oignon: anche ciboule, ciboulette, cive (cepe), civette. V. Forcell. ec. Ceniza spagn. [a] , cinigia (v. Alberti )[a] , e noi marchigiani ciniscia, o ceniscia: forse da ciniscula o cinisculus, come pulvisculus. (6. Maggio.). V. Forc. ec. Alla p. 4497. Fors’anche talvolta le nostre forme in a-u-gio, ggio, cio-are. Corrottamente scio ec. Forse talvolta dal lat. ascul. ... — uscul. .. Cinigia. V. la p. qui dietro, fin. V. p. 4504. La stupenda conformità radicale tra i nomi della più parte de’ 10 primi numeri nelle lingue le più disparate, sembra provare unità d’invenzione e d’origine de’ nomi numerali, e conseguentemente della numerazione. (7. Maggio.). La formazione incoativa de’ verbi, sì bella, e di tanto uso in latino, manca essa pure alla lingua greca. (7. Mag.). Aisé, agiato, agiatamente ec. per agevole, agibilis. Falcato, quadrato, carré, quadratus ec., e simili altri participii aggettivati o aggettivi di forma participale, senza verbo; come saranno forse altri dei notati da me in tal proposito esprimenti figura. Uomo ec. ordinato. (7. Mag.). Prolongé. Bacherozzo-bacherozzolo. E simili infiniti in azzo-uzzo. Machiavellismo di società. Alla p. 4478. marg. Machiavellismo sociale. Manuale di filosofia pratica. Alla p. 4418. Guardare per aspettare ec. del che altrove. Aguato, agguato, aguatare, agguatare ec. per insidiare, vagliono propriamente aspettare al passo, e in proprio senso equivalgono all’aguardar spagnuolo. Navita — Forma diminutiva italiana in astro. Pollastro, vincastro ec. Disprezzativa. Giovinastro, medicastro, poetastro. ec. Fors’anche frequentativa, e in astrare. Così in francese: Torreo-tostum-tostar, spagn. Elixus, assus, forse participii; e quindi assare, elixare, forse continuativi. Livio VII. 10. Dal detto altrove sulla poesia di stile, quanta immaginazione richieda ec., apparisce che i veramente poeti di stile, sarebbero stati poeti d’invenzione, o per meglio dire, d’invenzion di cose, in altri tempi; e ch’essi sono i veri poeti de’ loro secoli. ec. (10. Mag.). Per molto che uno abbia letto, è ben difficile che al concepire un pensiero, lo creda suo, essendo d’altri; lo attribuisca all’intelletto, all’immaginazione propria, non appartenendo che alla memoria. Tali concezioni sono accompagnate da certa sensazione che distingue le originali dalle altre; e quel pensiero che porta seco la sensazione, per così dire, dell’originalità, verisimilissimamente non sarà stato mai concepito ugualmente da alcun altro, e sarà proprio e nuovo; dico, non quanto alla sostanza, ma quanto alla forma, che è tutto quel che si può pretendere. Giacchè è noto che la novità della più parte de’ pensieri degli autori più originali e pensatori, consiste nella forma. (10. Mag.). Carduus, cardo ital. — chardon franc. , cardone ec. Juillet. Debolezza amabile al più forte (come la forza al debole, il maschio alla femmina). Su ciò è fondata in gran parte la tenerezza naturale de’ genitori verso i figliuoli, la quale negli animali finisce affatto colla debolezza di questi. Anche l’amabilità de’ fanciulli agli uomini, delle femine ai maschi, degli animaletti piccini e teneri, (uccelli ec.), di tutto ciò (anche piante ec.) dove il senso o l’immaginazione percepisce un’idea di tenerezza, debolezza, inferiorità di forze ec. Anche la malattia, il pallore; e poi l’infelicità ec. ec. e tutto quel ch’è oggetto di compassione, si può ridurre a questo capo. La compassione è fonte d’amore ec. ec. V. p. 4519. fine. (11. Mag.). Nel secolo passato le scienze si collegarono alle lettere; il secolo ebbe una letteratura filosofica (vera letteratura, e veramente propria di esso): nel nostro le hanno ingoiate; letteratura del secolo 19.o, a parlar propriamente, non v’è. Non è l’Italia sola che patisca oggi questo difetto di letteratura contemporanea; esso è comune a tutte le nazioni colte. Solo la Grecia, ed altri tali paesi ancor mezzo civili, avranno forse una letteratura del secolo 19.o: se l’influenza inevitabile delle nazioni convicine non uccide le lettere ancor presso quelli, e prima che si maturino. (11. Mag.). Alla p. 4500. Calderugio per calderino, diminutivo di carduelis (chardonneret), del che altrove. — Raperugiolo — raperino. Fors’anco in cco-are. Piluccare, éplucher. Badalucco. Balocco. E simili disprezzativi o frequentativi — E in onzo-are, dal lat. Ala, mala, velum, palus — axilla, maxilla, vexillum, paxillus. Di questi forse diminutivi positivati, e loro simili, V. Forcell. in dette voci, e in X littera. Similmente Alla p. 4497. Contrazione di La facoltà di sentire è ugualmente e indifferentemente disposta a sentir piaceri e dolori. Or le cose che producono le sensazioni del dolore, sono incomparabilmente più che quelle del piacere. Dunque la facoltà di sentire è un male, per lo stato esistente delle cose, quando pur nol fosse per se. E quanto essa è maggiore, nella specie o nell’individuo, tanto quella o quello è più infelice: e viceversa. Dunque l’uomo è l’ultimo nella scala degli esseri, se i gradi si calcolano dall’infelicità ec. ec. Becqueter. Picoter. Alla p. 4505. Fors’anco in co-are, e Parole greche possono esser venute in italiano ne’ bassi tempi, pel commercio e le conquiste de’ Veneziani, le Crociate, i Greci del Regno di Napoli e di Sicilia, e simili altri mezzi (esse sono, del resto, anteriori molto alla presa di Costantinopoli); ma non già le frasi, i costrutti, gl’idiotismi, vere proprietà di lingua, comuni all’italiano e al greco, da me spesso notate. (13. Mag.). Una cosa, fra l’altre, che rende impossibile agli stranieri il gustar la poesia delle lingue sorelle alla loro propria, o affini (come sarebbe l’inglese alle nostre che vengono dal latino), si è che il linguaggio poetico di tali idiomi essendo, come il prosaico, composto di voci e modi che si ritrovano ancora nelle lingue sorelle, moltisime di tali voci e maniere che lo compongono, e che sono poetiche in quel tale idioma, cioè nobili, eleganti, pellegrine, e così discorrendo; nell’idioma dello straniero che legge, sono o basse, o familiari, o triviali, o prosaiche almeno, spesso ridicole e da beffe; hanno significati analoghi ma diversi; richiamano idee alienissime dalla poesia generalmente, o dal soggetto in particolare. Ciò è soprattutto notabile fra italiani e spagnuoli (v. la p. 4422.). (Un qualunque pezzo di poesia spagnuola potria servirmi di esempio chiarissimo). Ed è applicabile anco alla prosa elevata, oratoria, storica e simili. (13. Mag.). Alla p. 4501. Non solo della ragione, ma anche del sapere, della dottrina, della erudizione, delle cognizioni umane, si può dubitare se facciano progressi reali. Pel moderno si dimentica e si abbandona l’antico. Non voglio già dir l’archeologia, ma la storia civile e politica, la letteraria, la notizia degli uomini insigni, la bibliologia, la letteratura, le scoperte, le scienze stesse degli antichi. Si apprende, si sa quel che sanno i moderni; quel che seppero gli antichi (che forse equivaleva), si trascura e s’ignora. Nè voglio dir solo i greci o i latini, ma i nostri de’ secoli precedenti, non escluso pure il 18.o. Guardate i più dotti ed eruditi moderni: eccetto alcuni pochi mostri di sapere (come qualche Tedesco) che conoscono egualmente l’antico e il moderno, la scienza degli altri enciclopedica, immensa, non si stende, per così dire, che nel presente: del passato hanno una notizia sì superficiale, che non può servire a nulla. In vece di aumentare il nostro sapere, non facciamo che sostituire un sapere a un altro, anco in uno stesso genere (senza che poi uno studio prevale in una età a spese degli altri). Ed è cosa naturalissima; il tempo manca: cresce lo scibile, lo spazio della vita non cresce, ed esso non ammette più che tanto di cognizioni. Anche le scienze materiali non so quanto progrediscano, a ben considerare la cosa. Bastando appena il tempo a conoscere le innumerabili osservazioni che si fanno da’ contemporanei, quanto si può profittare di quelle d’un tempo addietro? I materiali non crescono, si cambiano. E quante cose si scuoprono giornalmente, che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensava più. Ripeto che non parlo solo degli antichissimi; anco de’ recenti. Un’occhiata a’ Dizionarii biografici, agli scritti, alle osservazioni, alle scoperte, alle istituzioni di uomini ignoti o appena noti, e pur vissuti pochi lustri o poche diecine d’anni sono: si avrà il comento e la prova di queste mie considerazioni Gli uomini imparano ogni giorno, ma il genere umano dimentica, e non so se altrettanto. (13. Mag.). Ciondoli, ciondolare ec., dondolare, cinguettare, linguettare, bredouiller, barbouiller, barboter, imbrodolare ec. Trebbiare (tribulare. V. Forc. Gloss. ec.) — Un mio fratellino, quando la Mamma ricusava di fare a suo modo, diceva: ah, capito, capito; cattiva Mamà. Gli uomini discorrono e giudicano degli altri nella stessa guisa, ma non esprimono il loro discorso così nettamente ( Quanto può l’autorità (come in ogni altra passione, p. e. la tristezza, la speranza, il timore, così) nel piacere! Dico ne’ piaceri realistici ec. In galanteria: donne amate da qualcun altro, famose per bellezza, spirito ec., quantunque a voi d’altronde non piacerebbero. In letteratura: se leggete un libro che il pubblico vi dica esser bello, classico ec., ci provate incomparabilmente maggior piacere, che se da voi stesso dovete avvedervi de’ suoi pregi. Il piacer dell’inaspettato, che si può provare in questo secondo caso, non ha nulla di comparabile a quello che nel primo caso ci deriva dall’autorità degli altri. Nè trattasi qui di rimembranze, lontananza, antichità venerabile, voto di secoli ec.; anche un libro nuovo, uscito pur ora ec. Il credito poi dell’autore, benchè vivente, quanto importa al piacere! È classico il detto di La Bruyere: è molto più facile il far passare un libro mediocre al favor di una riputazione già fatta, che acquistarsi una riputazione con un libro eccellente. Ed io ardisco dire che piace veramente più a leggere un libro mediocre (nuovo o antico) d’autor famoso, che un libro eccellente di scrittore non rinomato. (14. Mag.). Barbio, barbo (Alberti) — barbeau. Tâtonner, ec., bourdonner. Brontolare ec. Alla p. 4506. Nutricare però è da nutrico. Mendicare da mendico as ec. Del resto, anche le forme in chio chiare, co care, cio-zo-are, precedute da consonante (mischiare, bufonchiare, ballonchio anche questi, e simili, dal lat. uncul. .. ec. ec.). E così dicasi delle altre sunnotate forme italiane, ed anche francesi e spagnuole, ed anche latine: non solamente precedendo vocale. La forma in onzo, di cui sopra, è veramente in onzo (onzare ec.), e non solamente in onzolo (v. la Crusca in Romitonzolo), ed è corrotta da quella in oncio, e però, come questa, racchiude tutta intera la forma lat. in unculus. (Vedi la pag. 4496. capoverso 8. e la p. 4443.) Odio verso i nostri simili. È proprio ancora, ed essenziale a tutti gli animali. Non si può tenerne due d’una stessa specie (se non sono di sesso diverso) in una medesima gabbia ec., che non si azzuffino continuamente insieme, e che il più forte non ammazzi l’altro, o non lo strazi. Uccelli, grilli ec. E v. il detto altrove, degli animali che si specchiano. (15. Mag.). Ballonzare ballonzolare (Alberti.). Buffoneggiare. Bucacchiare. Bucherare. Fo-sfo-racchiare. Lampeggiare. Torreggiare. Criailler. Rimailler. Rioter. Aguzzo — auzzo ec., sciaura, reina, reine franc. ec. magister-maestro ec. Manco-mancino, diminut. aggett. Pisello. Fagiuolo. V. lat. franc. spagn. Asio, lat. — assiuolo. Quel che si dice degli stupendi ordini dell’universo, e come tutto è mirabilmente congegnato per conservarsi ec., è come quel che si dice che i semi non si depongono, gli animali non nascono, se non in luogo dove si trovi il nutrimento che lor conviene, in luogo che loro convenga per vivere. Milioni di semi (animali o vegetabili) si posano, milioni di piante o d’animali nascono in luoghi dove non hanno di che nutrirsi, non posson vivere. Ma questi periscono ignorati; gli altri, e non so se sieno i più, giungono a perfezione, sussistono, e vengono a cognizione nostra. Sicchè quel che vi è di vero si è, che i soli animali ec. che si conservino, si maturino, e che noi conosciamo, sono quelli che capitano in luoghi dove possan vivere ec. Ovvero, che gli animali che non capitano, ec. non vivono ec. Questo è il vero, ma questo non vale la pena di esser detto. Or così discorrete del sistema della natura, del mondo ec. ap. a poco secondo le idee di Stratone da Lampsaco. (16. Mag.). Trève-tregua. Continuato, continuatamente ec. per continuo ec. V. franc. spagn. lat. ec. Amaricare, ital. V. Forc. Amareggiare. Armeggiare. Pareggiare. Corteggiare. Cumbo is, conservato ne’ suoi composti — cubo as, coi composti ec. Posticipare. Alla p. 4509. fin. Alla forma in olo, olare ec. aggiungi in giolo, ggiolo, ccolo, colo, e specialmente in ucolo (carrucola ec.). Anche occo ec. di cui sopra, è per lo più dal lat. ucul. .. (anitrocco, anitroccolo, bernoccolo, bernoccoluto ec.) siccome occhio (ranocchio, ginocchio ec.). V. p. 4513. In franc. cle, cler, gle, gler ec. E in ispagnuolo ec. — Aggiungi pure in giuolo, ggiuolo, zuolo ec. — La forma in ezzo ezzare può essere non solo da ecci..., ma da eggi... Careggiare carezzare. V. Crus. in amarezzare, marezzare ec. E così l’altre in zo ec. Libycus — libyculus — libeccio (Lebesche franc.); corticula — corteccia, scortecciare ec.; cangiato l’i lat. in e al solito, e come in tante altre diminuzioni (orecchia, pecchia ec., oveja ec. abeille ec. ec.), frequentazioni ec., nominatamente quella in ecchi... (e le corrispondenti franc. e spagn.) sì abbondante. Così, e secondo il detto a p. 4500. princ. , la nostra forma frequentativa ec., sì usitata, in eggio eggiare sarebbe pur dalla forma latina. — In tutte tali forme, se esse comprendono intera la forma latina, il lo lare, se vi si trova, è una giunta toscana. — Del resto, per forme ed esempi ec. v. l’indice di questi pensieri in Frequentativi, Diminutivi ec. (17. Magg.). In una lingua assai ricca, non solo è povera, o limitata, quella di ciascuno scrittore, come dico altrove, ma anche quella del popolo, e generalmente la parlata. P. e. l’italiano parlato, ancora in Toscana, non è punto più ricco del francese, nominatamente in fatto di sinonimi ec. (18. Mag.). A rivederla: solito saluto de’ Toscani, anche passando, senza punto fermarvi, o da lungi. Assurdità di queste nostre adulazioni dette complimenti. (18. Maggio.). Troppe cure assidue insistenti, troppe dimostrazioni di sollecitudine, di premura, di affetto, (come sogliono essere quelle di donne), noiosissime e odiose a chi n’è l’oggetto, anche venendo da persone amorosissime. Recondito. Uomo onorato, disonorato; azione disonorata ec. Verbi in to da nomi femin. in tas. Morve — morveau. Spia — espion, spione (la Crus. lo crede accrescitivo: male: e così d’altri tali, ec. ec.) Il detto intorno ai verbali in bilis, dicasi ancora circa quelli in ivus ( Alla p. 4511. marg. — e in occio: figlioccio ( Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perchè ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie. E i poeti che più hanno di tali concetti (supremamente poetici) ci sono più cari. V. p. 4515. Analizzate bene le vostre sensazioni ed immaginazioni più poetiche, quelle che più vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che esse, e il piacer che ne nasce, (almen dopo la fanciullezza), consistono totalmente o principalmente in rimembranza. (21. Mag.). Alla p. 4428. Chi pratica poco cogli uomini, difficilmente è misantropo. I veri misantropi non si trovano nella solitudine, si trovano nel mondo. Lodan quella, sì bene; ma vivono in questo. E se un che sia tale si ritira dal mondo, perde la misantropia nella solitudine. (21. Mag.). Alla p. 4504. Minuto, participio aggettivato, coi derivati ec. V. lat. franc. spagn. Soperchio soperchiare, superculus superculare: dello stesso genere che parecchio apparecchiare, pariculus appariculare, di cui altrove; dove la desinenza in cul. . . è semplice desinenza e non diminuzione. Puoi vedere la p. 4443. ec. Ruina-rovina ec. Alla p. 4513. Similmente molte immagini, letture ec. ci fanno un’impressione ed un piacer sommo, non per se, ma perchè ci rinnuovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse o da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimamente nella fanciullezza o nella prima gioventù. Questa cosa è frequentissima: ardisco dire che quasi tutte le impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono di questo genere, benchè noi non ce ne accorgiamo, perchè non vi riflettiamo, e le prendiamo per impressioni primitive, dirette e non riflesse. Quindi ancora è manifesto che una poesia ec. dee parere ad un tale assai più bella che un’altra, indipendentemente dal merito intrinseco. ec. ec. Zoppicare. Alla p. 4493. Com’è notato, una gran parte del piacere che i sentimenti poetici ci danno e ci lasciano, consiste in ciò, ch’essi c’ingrandiscono il concetto, e ci lasciano più soddisfatti, di noi medesimi. Appunto come i sentimenti, come le azioni, nobili, magnanime, pietose; come i sacrifizi ec. (e come la conversazione di chi ha la vera arte di esser amabile). E appunto come questi non cadono se non in chi sia felice, contento di se, in chi si stimi ec., così nè più nè meno i sentimenti poetici. (24. Mag.). Alla p. 4514. Lucigno-lo. — In uomicci-uolo, omici-atto, omici-attolo, e simili, la solita moltiplicazione della forma latina in ulus. — Coraggio, per cuore (corazon, coraje, courage): v. Crus., quasi coraculum. Incorare-incoraggiare. Alla p. 4444. Vedi nella p. 4473. capoverso penult. e suoi annessi, l’immenso e svariatissimo uso fatto nel latino volgare o de’ bassi tempi, di questa medesima forma in icul. . . cul. . . ul. . . or con forza diminutiva frequentativa ec., or positivata, or come semplice desinenza. (25. Mag.). V. qui al fine della p. uso manifesto per le quasi infinite forme che ne derivarono nei nostri volgari. Dal che si vede che l’uso antichissimo di quella forma, non cessò mai, nè fu men frequente negli ultimi tempi del latino che nei primitivi. Il detto altrove dell’incontrastabilmente maggior numero di suoni nelle lingue settentrionali che nelle nostre, causa, in parte della lor mala ortografia, per la scarsezza dell’alfabeto latino da loro adottato; è applicabile ai dialetti dell’Italia superiore, perciò difficilissimo ancora a bene scriversi. Mezzofanti diceva che al bolognese bisognerebbe un alfabeto di 40 o 50 o più segni. Non è questa la sola conformità che hanno que’ dialetti colle lingue settentrionali. Del resto, i dialetti generalmente sono più ricchi che l’alfabeto comune. Il toscano parlato ha anch’esso un po’ più suoni che le lettere, ma pochi più. Il marchigiano e il romano quasi nessuno: esse sono veramente (in ciò come in mille altre cose) l’italiano comune e scritto, o il volgare più simile a questo, che sia possibile. (25. Mag.). Gracchiare (da gra gra: v. Forc. in graculus), scorbacchiare, scornacchiare, spennacchiare. Gorgheggiare. Al capoverso 1. Anche qui i toscani abbondano più che gli altri, e spesso dove questi usano il positivo (nome o verbo), essi il diminutivo o frequentativo ec., benchè senza differenza di senso. Noi amiamo p. e. spennare, i toscani spennacchiare ec. ec. (26. Mag.). La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perchè chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno. (27. Mag.). Bollito per bollente. Patito. Indigesto per non digeribile, e per che non ha digerito. Umanità degli antichi ec. Vecchi. Cosa lacrimevole, infame, pur naturalissimo, il disprezzo de’ vecchi, anche nella società più polita. Un vecchio (oggi, in Italia, almeno) in una compagnia, è lo spasso, il soggetto de’ motteggi di tutta la brigata. Nè solo disprezzo: trascuranza, non assisterli, non prestar loro quegli uffizi, quegli aiuti, il cui commercio è il fine e la causa della società umana, de’ quali i vecchi hanno tanto più necessità che gli altri. I giovani sono serviti, i vecchi conviene che si servan da se. In una medesima stanza, se ad una giovane cadrà di mano il fuso, il ventaglio, sarà pronto chi lo raccolga per lei; se ad una vecchia, a cui il levarsi in piedi, l’incurvarsi, sarà penoso veramente, la vecchia dovrà raccorselo essa. E così ancora in casi di malattie ec. ec. Spesso i vecchi, anco in uguaglianza di condizione, hanno ad aiutare e servire i giovani. E parlo d’aiuti e di servigi corporali. Ci scandalizziamo di quei Barbari che si fanno servir dalle donne: ma il fatto nostro è lo stesso, se non peggiore. E viene dallo stesso spietato e brutale, ma naturale principio, che il forte sia servito, il debole serva. (27. Mag.). Alla p. 4516. La forma aiuolo e aiólo in legnaiuolo, erbaiuolo, vignaiuolo, stufaiuolo o stufaiolo, fruttaiuolo o fruttaiolo, calzaiuolo, pesciaiuolo, armaiuolo e simili, è altresì originariamente diminutiva da Manuale di filosofia pratica. Memorie della mia vita. Come i piaceri non dilettano se non hanno un fine fuori di essi, secondo dico altrove, così neanche la vita, per piena che sia di piaceri, se non ha un fine in totale ec. Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice. O gloria letteraria, o fortune, o dignità, una carriera in somma. Io non ho potuto mai concepire che cosa possano godere, come possano viver quegli scioperati e spensierati che (anche maturi o vecchi) passano di godimento in godimento, di trastullo in trastullo, senza aversi mai posto uno scopo a cui mirare abitualmente, senza aver mai detto, fissato, tra se medesimi: a che mi servirà la mia vita? Non ho saputo immaginare che vita sia quella che costoro menano, che morte quella che aspettano. Del resto, tali fini vaglion poco in se, ma molto vagliono i mezzi, le occupazioni, la speranza, l’immaginarseli come gran beni a forza di assuefazione, di pensare ad essi e di procurarli. L’uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de’ beni in tal modo. (31. Mag.). Sfilare — sfilacciare — sfilaccicare (v. Crus. in Spicciare): filaccica (plural.). Anche i verbi lat. in urio si formano da’ supini. Alla p. 4449. Per altro, la conformità di costumi, governo, religione, riti, lingua ec. fra troiani e greci, che apparisce nelle poesie omeriche, nelle tradizioni ec. (e che par favorire la congettura del Niebuhr, la quale ha però altri fondamenti), può essa ancora essere ingannevole, e non significare che la poca arte e istruzione di que’ vecchi poeti, come dico altrove. Simili a quei pittori o artefici de’ tempi bassi, e ad alcuni anche de’ buoni secoli, che rappresentavano personaggi antichi e stranieri vestiti all’uso moderno e nazionale. Fra’ moderni, il Pontedera (
Pésolo, pesolone. (pensulus per penzolo, pendulo ec.) Sentito per sensibile, vivo; o per sensato. V. Crus. Spigolare, ruzzolare. Mugolare, mugghiare. Alla p. 4430. Di tal genere è anco una grandissima parte degli errori e sgrammaticature (sien d’uso generale o individuale) del parlar plebeo, rustico, de’ dialetti ec. Monofagia. Alla p. 4504. marg. Anche il nemico, l’offensore, ridotto all’inferiorità all’impotenza, è, non pur compassionevole, ma amabile, allo stesso offeso. Par che la natura abbia dato alla debolezza l’amabilità come una sorta di difesa e d’aiuto. (17. Giugno.). Succhio (succulus) per succo. Alla p. 4491. In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è. Vale a dire, che delle persone, per trovarsi ciò convenire ai loro interessi, saranno unite e collegate insieme per certo tempo (per lo più contro altre); ma non mai amiche. Amicizia non può essere che in città grandi, o pur fra persone lontane. (8. Luglio.). V. p. 4523. . Alla p. 4512. La forma in accio acciare, azzo azzare, e le corrispondenti francesi e spagnuole (e così in eccio, iccio ec.), vengono veramente, almeno per lo più, dalla latina in Che fosse proprio del volgare latino il dar questa desinenza ai positivi, nomi o verbi, e ciò senz’alterazione di significato, e che da ciò venga il tanto uso della forma in accio ec. nelle lingue figlie, massime dove essa non altera la significazione (come in Molti avverbi e preposizioni delle lingue nostre sono fatte coll’aggiunta di un de affatto pleonastico alle corrispondenti latine. La prosa in verità, parlando assolutamente, precedette da per tutto il verso, come è naturale; ma il verso conservato precedette quasi da per tutto la prosa conservata. (11. Luglio.). L’uso degli antichi filosofi greci, di abbracciar col circolo dei loro Trattati tutte le parti dello scibile (uso notato da me altrove), onde esso circolo veniva ad essere un’enciclopedia, fu seguito anche, ne’ bassi tempi, da’ latini: dico da quelli che scrissero, o in più opere separate o in una sola, de 4.r o de 7.m disciplinis (come Boezio, Cassiodoro, Marziano Capella, Beda, Alcuino) ec.; piccole enciclopedie, dove però si copiavano per lo più tra loro. E dico tra loro: i più antichi o non conoscevano, o non avevano, o non leggevano, o non potevano intendere. (11. Lugl.). Alla p. 4520. fin. Chi non è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi vizi, così le vere e solide virtù sociali. E nel particolare dell’amicizia, la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee proprie della poesia o della storia, che nella vita reale e giornaliera non s’incontrano mai (e certo egli non si aspetta d’incontrarne mai nella sua). E s’inganna. Non dico Piladi e Piritoi, ma amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara. Del resto, i servigi che si possono attendere dagli amici, sono, o di parole (che spesso ti sono utilissime), o di fatti qualche volta; ma di roba non mai, e l’uomo avvertito e prudente non ne dee richiedere di sì fatti (di tal fatta). (21. Luglio.). Il vescovo Ulfila, se non fu il primo introduttore dell’alfabeto presso la sua nazione (i Goti), gli diede almeno quella forma che noi conosciamo. Castiglioni ap. la B. Ital. Maggio 1829. t. 54 p. 201. Non solo noi diveniamo insensibili alla lode, e non mai al biasimo, come dico altrove, ma in qualunque tempo, le lodi di mille persone stimabilissime, non ci consolano, non fanno contrappeso al dolore che ci dà il biasimo, un motteggio, un disprezzo di persona disprezzatissima, di un facchino. (29. Lug.). In un trattenimento, chi si vuol divertire, propongasi di passare il tempo. Chi vi cerca e vi aspetta il divertimento, non vi trova che noia, e passa quel tempo assai male. (29. Lug.).
Luccicare. Burrone, burrato, borro, botro — È curioso a vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito. (Firenze 31. Maggio 1831.). Eccellente umanità degli antichi. Uomini originali men rari che non si crede. Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle fedeli benchè sappiano il contrario. Così chi dee vivere in un paese, ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di credere la vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco, e tenero della sua moglie. (Firenze 23. Maggio. 1832.). Cosa rarissima nella società, un uomo veramente sopportabile. Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte. Grande studio (ambizione) degli uomini mentre sono immaturi, è di parere uomini fatti, e quando sono uomini fatti, di parere immaturi. (16. Settem. 1832.). La cosa più inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessisimo a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria. L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale. (Firenze. 4. Dic. 1832.). Alla p. 2419. Come può esser bella una lingua che non ha proprietà? Non ha proprietà quella lingua che nelle sue forme, ne’ suoi modi, nelle sue facoltà non si distingue dalle forme, modi, facoltà della grammatica generale, e del discorso umano regolato dalla dialettica. Una lingua regolata da questa sola non ha niente di proprio; tutto il suo è comune a tutte le nazioni parlanti, e a tutte le altre lingue; il suo spirito, la sua indole, il suo genio non è suo, ma universale; vale a dire ch’ella non ha veruna originalità, e quindi non può esser bella, cioè non può esser nè forte, nè distintamente nobile, nè espressiva, nè varia (quanto alle forme), nè adattata all’immaginazione, perchè questa è diversissima e moltiplice, e nel tempo stesso ella è la sola facoltà umana capace del bello, e produttrice del bello. Ora che cosa vuol dire una lingua che abbia proprietà? Non altro, se non una lingua ardita, cioè capace di scostarsi nelle forme, nei modi ec. dall’ordine e dalla ragion dialettica del discorso, giacchè dentro i limiti di quest’ordine e di questa ragione, nulla è proprio di nessuna lingua in particolare, ma tutto è comune di tutte. (Parlo in quanto alle forme, facoltà ec. e non in quanto alle nude parole, o alle inflessioni delle medesime, isolatamente considerate.) Dunque se non è, nè può esser bella la forma di una lingua che non ha proprietà, non è nè può esser bella una lingua che nella forma sia tutta o quasi tutta matematica, e conforme alla grammatica universale. E così di nuovo si viene a concludere che la bellezza delle forme di una lingua (tanto delle forme in genere, quanto di ciascuna in particolare) non può non trovarsi in opposizione colla grammatica generale, nè esser altro che una maggiore o minor violazione delle sue leggi. La lingua francese si trova nel caso detto di sopra: poich’ella in quanto alla forma, esattamente parlando, non ha proprietà, vale a dir che non ha qualità sua propria, ma tutte le ha comuni con tutte le lingue, e colla ragione universale della favella. Il che quanto noccia alla originalità, anzi l’escluda, e quanto per conseguenza favorisca la mediocrità, anzi la richieda e la sforzi, resta chiaro per se stesso. (Bossuet, scrittore non mediocre, ebbe bisogno di domare, come gli stessi francesi dicono, la sua lingua; e come dico io, fu domato e forzato alla mediocrità dello stile, dalla sua lingua. E così lo sono tutti quegli scrittori francesi che hanno sortito un ingegno naturalmente superiore al mediocre. Nè più nè meno di quello che la società, e lo spirito della nazion francese, sforzi alla mediocrità in ogni genere di cose gli uomini i più elevati della nazione, e gli spiriti più superiori all’ordinario. Essendo la mediocrità non solo un pregio, ma una legge in quella nazione, dove il supremo dovere dell’uomo civile, è quello d’esser come gli altri). Dalle dette considerazioni segue che la lingua francese, non avendo nessuna o quasi nessuna proprietà, e quindi ripugnando alla vera e decisa originalità dello stile (ben diversa da quelle minime differenze dell’ordinario, che i francesi esaltano come somme originalità), non può aver lingua poetica; e così è nel fatto. Segue ancora, che, non avendo niente di proprio, ma tutto comune a tutte le lingue, e tutto proprio del discorso umano in quanto discorso umano, dev’essere accomodata sopra tutte alla universalità: e così è realmente. (7. Maggio 1822.). A voler esser lodato o stimato dagli altri, bisogna per necessità intuonar sempre altamente e precisamente alle orecchie loro: io vaglio assai più di voi: acciocchè gli altri dicano: colui vale alquanto più di noi, o quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia genere, o propriamente o almeno metaforicamente parlando, è sempre incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel cospetto di quanta gente tu vuoi, un’azione o una produzione ec. la più degna e la più lodevole che si possa immaginare; t’inganni a partito se credi che quell’azione ec. essendo manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima, gli altri debbano aprir la bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se non hai l’arte o il coraggio d’essere il primo a far questo. Ciò massimamente in questi tempi di perfezionato e purificato egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della modestia. (7. Maggio. 1822.). Che società, che amicizia, che commercio potresti tu avere con un cieco e sordo, o egli con te? Al quale nè coi gesti nè colle parole potresti communicare alcuno de’ tuoi sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza qual comunione di spirito, cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui? qual sentimento di te penseresti d’aver destato, o di poter mai destare nell’animo suo? E nondimeno tu sai pur ch’egli vive, ed oltracciò di vita umana e d’un genere medesimo colla tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad intendere i suoi bisogni, e beneficato esteriormente da te, o in altro modo influito, potrebbe aver qualche senso della tua esistenza, e formarsi di te qualche idea; anzi è certo che ti considererebbe come suo simile, non ch’egli n’avesse alcuna prova certa, ma appunto per la scarsezza delle sue idee; come fanno i fanciulli, che sempre inclinano a creder tutto animato, e simile in qualche modo a loro, non conoscendo, nè sapendo neppure insufficientemente concepire altra forma d’esistenza che la propria, nonostante ch’essi pur vedano la differenza della figura, e delle qualità esteriori. Or se contuttociò, tu non crederesti di poter aver con costui nessuna o quasi nessuna società, e non ti soddisfaresti nè ti compiaceresti in alcun modo del suo commercio, che dovremo dire di quella società che i filosofi tedeschi e romantici, vogliono che il poeta supponga, anzi ponga e crei fra l’uomo e il resto della natura? La qual società vogliono che sia tale che tutto per immaginazione si supponga vivo bensì, ma non di vita umana, anzi diversissima secondo ciascun genere di esseri? Non è questa una società peggiore e più nulla di quella col cieco e sordo? Il quale finalmente è uomo. Ma qui sebben tu creda, e poeticamente t’immagini che le cose vivano, non supponendo che questa vita abbia nulla di comune colla tua, che sentimento di te puoi presumere di destare in loro, o qual sentimento della vita loro puoi presumere di ricever da essi, non potendo neppur concepire altra forma di vita se non la propria? Che giova alla tua immaginazione e alla tua sensibilità il figurarti che la natura viva? Che relazione può la tua fantasia fabbricarsi colla natura per questo? Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei. Non basta al sentimento e al desiderio innato di quasi tutti i viventi che li porta verso il loro simile, il figurarsi che le cose vivano, ma solamente che vivano di vita simile per natura alla propria. Tolta questa non v’è società fra viventi, come non vi può esser società fra cose dissimili, e molto meno fra cose che in nessun modo si possono intendere l’une coll’altre, nè comunicarsi alcun sentimento, nè farsi scambievolmente verun segno di se, e neppur concepire o formarsi nessuna idea del genere di vita l’una dell’altra. Fra le bestie e l’uomo non è di gran lunga così, e perciò qualche società può passare e passa fra questo e quelle, e maggiore, quanto più la loro vita, e il loro spirito è simile al nostro, e quanto più esse mostrano di concepire le cose nostre, e noi le loro; e maggiore eziandio generalmente perchè l’immaginazione nostra (e probabilmente anche la loro) entra in questo commercio altresì, e ce le dipinge molto più simili a noi che forse non sono, e noi a loro parimente. Certo è poi che grandissima affinità e somiglianza passa tra la vita degli animali e la nostra, tra le loro passioni (radicalmente parlando) e fra le nostre ec. Affinità e somiglianza che non si trova o non apparisce fra l’esistenza delle cose inanimate e la nostra; che l’immaginazione antica, e fanciullesca, e, più o meno, quella di tutti i tempi, non vedendola, la suppone e la crea; che i bravi tedeschi non vogliono che si supponga, e che non per tanto s’immagini e si conservi un commercio scambievole fra le cose inanimate e l’uomo. (8. Maggio. 1822.). Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale (come dice Cicerone in Lael.). Ed in tanto non l’odia sempre sopra ogni cosa, in quanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; p. e. quando un eccesso di dolor fisico gli fa desiderare anche naturalmente la morte, e preferirla a quel dolore. Vale a dire quando l’amor proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che colla morte. E perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè perchè gli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di liberarsi dal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto puramente dalla speranza. Del resto l’odio della noia, è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita (passione elementare ed essenziale nel vivente) che ho specificati in parecchi di questi pensieri. E l’uomo odia la noia per la stessa ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza. E quest’odio medesimo della noia è padre d’altri moltissimi e diversissimi effetti, e sorgente d’altre molte e varie passioni o modificazioni delle medesime, tutte essenzialmente derivanti da esso odio, delle quali ho pur detto in più luoghi. (8. Maggio 1822.). Che le passioni antiche fossero senza comparazione più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati, più materiali, più furiosi, e che però nell’espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi, ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli antichi, e ciò non per altro se non perch’ella oggidì è appunto più rara e breve che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari più violenti, ed altresì per la stessa ragione più brevi che nell’adulto. Ed è vero ancora che l’abitudine dell’animo de’ moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e nella scienza delle cose e dell’uomo; e intorno a quelle che dall’esperienza e dall’uso della vita, della società, e de’ casi umani non sono stati bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col generale, nè accostumati a quell’apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.). Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell’amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente, si può rassomigliare al sistema dell’aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l’une l’altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e uguale l’uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l’equilibrio, e il sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna. Nè più nè meno accade nel sistema della società presente, dove non ciascuna società o corpo o nazione (come presso gli antichi), ma ciascun uomo individuo continuamente preme a più potere i suoi vicini, e per mezzo di esso i lontani da tutti i lati, e n’è ripremuto da’ vicini e da’ lontani a poter loro nella stessa forma. Dal che risulta un equilibrio prodotto da una qualità distruttiva, cioè dall’odio e invidia e nemicizia scambievole di ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno, e dal perenne esercizio di queste passioni (cioè in somma dell’amor proprio puro) in danno degli altri. Con ciò resta spiegata una specie di fenomeno. Lo stato d’egoismo puro, e quindi di puro odio verso altrui (che ne segue essenzialmente) è lo stato naturale dell’uomo. Ma ciò non è maraviglia, spiegandosi esso, e dovendosi necessariamente spiegare, col negar la pretesa destinazione naturale dell’uomo allo stato sociale stretto (cioè diverso da quello ch’hanno fra loro quasi tutte le bestie, massime le più svegliate); al quale stato ripugnano per natura loro le dette qualità naturalissime e assolutamente proprie dell’uomo (come si può vedere anche nel fanciullo ec.). La maraviglia è ch’essendo tornato l’uomo allo stato naturale per questa parte (mediante l’annichilamento delle antiche opinioni e illusioni, frutto delle prime società e relazioni contratte scambievolmente dagli uomini), la società non venga a distruggersi assolutamente, e possa durare con questi principii distruttivi per natura loro. Il qual fenomeno resta spiegato colla sopraddetta comparazione. E questo equilibrio (certo non naturale, ma artifiziale), cioè questa parità e questa universalità d’attacco e di resistenza, mantiene la società umana, quasi a dispetto di se medesima, e contro l’intenzione e l’azione di ciascuno degl’individui che la compongono, i quali tutti o esplicitamente o implicitamente mirano sempre a distruggerla. Dalla detta comparazione caveremo altresì un corollario morale. Se qualche colonna d’aria viene a rarefarsi, o a premer meno dell’altre, e far meno resistenza per qualunque accidente, ciascuna delle colonne vicine, e ciascuna delle lontane addossandosi alle vicine, senza un istante d’intervallo, corrono ad occupare il luogo suo, e non appena ella ha lasciato di resistere sufficientemente, che il suo luogo è conquistato. Così la campana pneumatica anderebbe in minutissimi pezzi, mancando la sufficiente resistenza dell’aria quivi rinchiusa, se non si provvedesse a questo colla configurazione della campana. Lo stessissimo accade fra gli uomini, ogni volta che la resistenza e reazione di qualcuno manca o scema, sia per impotenza, sia per inavvertenza, sia per volontà o inesperienza. E però son da ammonire i principianti della vita, che se intendono di vivere, e di non vedersi preso il luogo immediatamente, e non esser messi a brani o schiacciati, s’armino di tanta dose d’egoismo quanta possano maggiore, acciocchè la reazion loro sia, per quanto essi potranno, o maggiore o per lo meno uguale all’azione degli altri contro di loro. La quale, vogliano o non vogliano, credano o non credano, avranno infallibilmente a sostenere, e da tutti, amici o nemici che sieno di nome, e tanta quanta maggiore sarà in poter di ciascuno. Chè se il cedere per forza, cioè per causa della propria impotenza (in qual genere ch’ella si sia), è miserabile; il cedere volontariamente, cioè per mancanza di sufficiente egoismo in questo sistema di pressione generale, è ridicolo e da sciocco, e da inesperto o irriflessivo. E si può dire con verità che il sacrifizio di se stesso (in qual si voglia genere o parte) il quale in tutti gli altri tempi fu magnanimità, anzi la somma opera della magnanimità, in questi è viltà, e mancanza di coraggio o d’attività, cioè pigrizia, e dappocaggine; ovvero imbecillità di mente; non solamente secondo l’opinione degli uomini, ma realmente e secondo il retto giudizio, stante l’ordine e la natura effettiva e propria della società presente. (10. Maggio 1822.). V. p. 2653. Non si nomina mai più volentieri, nè più volentieri si sente nominare in altro modo chiunque ha qualche riconosciuto difetto o corporale o morale, che pel nome dello stesso difetto. Il sordo, il zoppo, il gobbo, il matto tale. Anzi queste persone non sono ordinariamente chiamate se non con questi nomi, o chiamandole pel nome loro fuor della loro presenza, è ben raro che non vi si ponga quel tale aggiunto. Chiamandole o udendole chiamar così, pare agli uomini d’esser superiori a questi tali, godono dell’immagine del loro difetto, sentono e si ammoniscono in certo modo della propria superiorità, l’amor proprio n’è lusingato e se ne compiace. Aggiungete l’odio eterno e naturale dell’uomo verso l’uomo che si pasce e si diletta di questi titoli ignominiosi, anche verso gli amici o gl’indifferenti. E da queste ragioni naturali nasce che l’uomo difettoso com’è detto di sopra, muta quasi il suo nome in quello del suo difetto, e gli altri che così lo chiamano intendono e mirano indistintamente nel fondo del cuor loro a levarlo dal numero de’ loro simili, o a metterlo al di sotto della loro specie: tendenza propria (e quanto alla società, prima e somma) d’ogn’individuo sociale. Io mi sono trovato a vedere uno di persona difettosa, uomo del volgo, trattenersi e giocare con gente della sua condizione, e questa non chiamarlo mai con altro nome che del suo difetto, tanto che il suo proprio nome non l’ho mai potuto sentire. E s’io ho veruna cognizione del cuore umano, mi si dee credere com’io comprendeva chiaramente che ciascuno di loro, ogni volta che chiamava quell’uomo disprezzatamente con quel nome, provava una gioia interna, e una compiacenza maligna della propria superiorità sopra quella creatura sua simile, e non tanto dell’esser libero da quel difetto, quanto del vederlo e poterlo deridere e rimproverare in quella creatura, essendone libero esso. E per quanto frequente fosse nelle loro bocche quell’appellazione, io sentiva e conosceva ch’ella non usciva mai dalle loro labbra senza un tuono esterno e un senso e giudizio interno di trionfo e di gusto. (13. Maggio 1822.). Ho detto altrove d’una grande incertezza e di molti scambi che si trovano nell’uso latino circa i tempi dell’ottativo o soggiuntivo, ora scambiati fra se, ora sostituiti a quelli dell’indicativo: ed ho mostrato come questi usi che si tengono per pure eleganze degli scrittori latini, fossero comuni anche al volgare, e si conservino nelle lingue derivate, non certo dal latino elegante, ma da esso volgare. A questo proposito si può notare il presente ottativo latino, usato spessissimo ed elegantemente in vece dell’imperfetto ottativo, e in certo modo anche del futuro indicativo, come in Orazio Sat. 1. v. 19. l. i Di ciò che ho notato altrove che l’uso di fabbricar nuovi composti, e di supplir così al bisogno di esprimer nuove idee, o nuove parti d’idee (ch’è tutt’uno, secondo le osservazioni della moderna ideologia), essendo stato così comune alle lingue antiche, e alle stesse moderne ne’ loro principii, s’è poi quasi dimenticato, per utilissimo che sia; se ne possono dar, fra l’altre, le seguenti ragioni. 1. Che tutte le lingue ne’ loro principii sono per necessità più ardite che nel progresso, e le lingue antiche rispettivamente più ardite delle moderne. Or queste composizioni richiedono un certo ardire, massime trattandosi di farne un grand’uso, e d’applicar questa facoltà a quasi tutti i nuovi bisogni della lingua. 2. Che nelle lingue antiche la necessità di far grand’uso de’ composti, era molto ma molto maggiore che nelle moderne, a causa del tanto minor numero ch’esse avevano di parole originarie. Le radici, come ho detto altrove, e assegnatene le ragioni, son sempre scarsissime in una lingua nascente. Quindi l’assoluto bisogno della composizione, crescendo il numero delle cose da esprimersi, e volendosi perfezionar l’espressione delle cose, e distinguerla meglio; e arrivando gli uomini appoco appoco a staccare un’idea dall’altra, e a suddividerle (ch’è tutto il progresso dello spirito umano), e però avendo mestieri di nuove parole. E infatti si vede che l’incremento e il perfezionamento di qualunque lingua antica è stata ridotta a una certa perfezione, fu sempre compagno, o anch’effetto dell’uso di comporre più parole in una, arricchendo così la lingua: nel qual uso, e in quello dei derivativi (de’ quali parimente intendo qui di ragionare) i greci e latini furono singolari maestri. Ma derivando le lingue moderne da lingue già perfezionate e letterate, la scarsezza delle radici non vi si osserva più, essendo divenute radicali, o in qualunque modo semplici e indipendenti per noi, quelle infinite parole che, p. e. in latino, sono evidentemente composte o derivate da altre, e che son rimaste in uso p. e. nell’italiano. Dove, quantunque la provenienza e dipendenza loro ci sia così manifesta e vicina, pur fanno offizio, ed hanno, relativamente alla lingua nostra, la vera natura di radicali 1. o perchè gli elementi di cui si compongono, separati che sieno, non significano niente in italiano, come significavano in latino, o quando anche l’un d’essi abbia qualche significato da se, l’altro, o gli altri, non l’hanno; 2. o perchè corrotte e travisate in modo che la forma de’ loro elementi è perduta affatto, quando anche essi elementi sussistano ancora per se stessi nell’italiano; 3. o perchè, essendo esse derivative in latino, non sussistono nell’italiano quelle voci latine da cui esse derivano; 4. o perchè, sussistendo anche queste voci, non sussiste più il costume di derivarne le altre parole in quei tali modi latini; e così le originarie e le derivate, quanto al latino, nella lingua nostra sono indipendenti l’une dall’altre, e rispetto alla nostra lingua, non hanno fra loro alcun’affinità (forse neanche di significato, per le solite alterazioni), ma l’une e l’altre quanto all’italiano, si debbono egualmente riconoscere per radicali. Da tutte le quali cose è seguito che abbondando noi sommamente di radicali, abbiamo intermesso, e poi lasciato, e finalmente quasi dimenticato l’uso delle derivazioni, e principalmente delle composizioni di nuove parole; e con ciò resolo assai difficile a chi voglia richiamarlo. Il qual uso, sebbene non tanto quanto in greco e in latino, pur fu comune ai primi scrittori italiani, perciocchè la lingua era ancor povera di radici, come accade a tutte le lingue ne’ loro principii, e quindi si ricorse necessariamente a questo mezzo, a cui tutte le lingue ricorrono col perfezionarsi. Ma impinguata poi la lingua sì con questo mezzo, sì coll’arricchirla d’infinite parole latine, che per noi, come ho detto, vengono ad esser tante radici, si dimenticò l’uso della derivazione e composizione, come suol pure accadere alle altre lingue per cagioni simili; p. e. alla lingua latina accadde quando ella s’impinguò strabocchevolmente di parole greche, le quali per lei divenivan tante radicali, e così cresciuto di moltissimo il numero delle sue radici, dimenticò o scemò l’uso di comporre o derivare nuove parole dalle già esistenti, per li nuovi bisogni, come ho significato di proposito altrove. Nè perciò la lingua latina ne divenne più potente che fosse prima: nè la lingua italiana similmente. Le radici, per quante vogliano essere, son sempre poche al bisogno, essendo infinite le idee, e la memoria e le facoltà degli uomini essendo limitatissime, e però incapaci di ritener precisamente tante parole quante sono le idee, e le parti e diversità loro; se queste parole sono affatto diverse e dissimili e indipendenti l’una dall’altra, come avverrebbe se tutte fossero radicali. E quindi l’uomo è incapace di possedere e di usare una lingua che abbia nel tempo stesso tante parole quante mai sono le cose da esprimersi, e che sia tutta composta di radici sole. La composizione e derivazione sono il mezzo più semplice e vero, riducendo infinite parole sotto pochi elementi, come ho spiegato altrove paragonando questo mezzo alla scrittura nostra, e una lingua tutta composta di radici alla scrittura Cinese. Quindi non potendo mai bastar le radici, e avendo noi lasciato l’uso della derivazione e composizione di nuove parole dalle già esistenti, vediamo infatti che con tanto maggior numero di radici, la lingua nostra è infinitamente meno ricca e potente, e meno esatta e propria nell’espressione delle minime diversità delle idee, di quel che fossero la latina e la greca con tanto meno radici. La conclusione è che bisogna a tutti i patti, e malgrado qualunque difficoltà, riassumer l’uso di spiegar le nuove idee col comporre, derivare, e formare nuove parole dalle radici della propria lingua; essendo questo, per natura delle cose (che tutto opera per modificazione degli elementi, e non per aggiunzione di sempre nuovi elementi, per modificazione o composizione e non per moltiplicazione), l’unico, proprio, ed assoluto mezzo di rendere una lingua sufficiente ed uguale a qualunque numero d’idee, ed a qualunque novità d’idee; e renderla tale non accidentalmente ma per propria essenza, e non per alcuni momenti, come può essere adesso p. e. la francese, ma per sempre finch’ella conserva il suo carattere: come s’è veduto manifestamente nella lingua greca che da’ tempi antichissimi fino a oggidì, è stata ed è eternamente capace di qualunque novità d’idee, antiche o moderne che sieno, e per diversissime che vogliano essere da quelle che correvano quando la lingua greca era in fiore. E simile in ciò credo che le sia la tedesca. Abbia cura di conservarsi tale. Perocchè tali son tutte ne’ loro principii. Ma perfezionandosi, e però civilizzandosi, e pigliando commercio con lingue e letterature e nazioni straniere, e così impinguandosi di parole forestiere che per lei divengono radicali, dismette l’uso della composizione ec.: e per pochi momenti supplisce bene a’ suoi bisogni colle radici pigliate in prestito, ma di lì a poco, o diviene una stalla d’Augia a forza di stranierismi moltiplicati in infinito, o volendosi conservar pura, non può più parlare, perchè s’è lasciato cadere il solo istrumento che avesse per supplire alla novità delle idee conservandosi pura, cioè il coltivare e far fruttare le sue proprie radici. E forse perciò conservarono sempre i greci questa facoltà, perchè poco pigliarono da’ forestieri, o non volendo prenderne per la nota loro superbia nazionale, o perchè realmente non si trovavano intorno altra nazione letterata e civile, dalla quale potessero prendere, sebbene con molte commerciarono, ma la letteratura le scienze e la civiltà de’ greci, da’ tempi noti in poi, furono sempre puramente greche. E così accadde cosa osservabilissima: cioè che la lingua greca per essersi conservata pura, divenne e si mantenne (ed ancora si mantiene) la più potente e ricca e capace di tutte le lingue occidentali. Non per altro se non perch’ella restringendosi in se sola, non lasciò mai di porre a frutto e a moltiplico il proprio capitale. E viceversa per esser divenuta così potente, si mantenne pura più lungo tempo di qualunqu’altra (ancor dopo ch’ebbe a fare con una nazione civile e signora sua, come la latina). Giacchè non ebbe alcun bisogno nè di parole nè di modi stranieri per esprimere qualunque cosa occorresse: e i greci avendo alle mani facile e pronto e spendibile il capitale proprio, non si curarono dell’altrui, il quale sarebbe stato loro più difficile a usare, e manco manuale del proprio. L’opposto di quello che avviene a noi per aver trasandato di porre a frutto il nostro bellissimo e vastissimo capitale, che benchè sia tale (oltre che la maggior parte ce n’è ignota), non basta nè potrà mai bastare al continuo e sempre nuovo bisogno della società favellante, se non lo faremo fruttare, come non solo concede amplissimamente, ma porta e vuole l’indole e la natura sua. (30. Maggio 1822.). V. p. 2455. Beato colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e si contenta de’ piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai far conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco esercitati a riflettere. (30. Maggio 1822.). Alla p. 2252. L’idea dell’eternità entra in quella di ultimo, finito, passato, morte, non meno che in quella d’infinito, interminabile, immortale. E vedi altro mio pensiero già scritto in questo proposito, (30. Maggio 1822.) cioè p. 2242. 2251. Quanto sia più naturale e semplice l’andamento della lingua greca (tuttochè poeticissima), che non è quello della latina; e quindi quanto men proprio suo, e quanto la lingua greca dovesse esser meglio disposta all’universalità che non era la lingua latina, si può vedere anche da questo. Sebben l’italiana e la spagnuola son figlie vere e immediate della latina, pure è molto ma molto più facile di tradurre naturalmente e spontaneamente in italiano o in ispagnuolo gli ottimi autori greci, che gli ottimi latini. E tanto è più facile quanto i detti autori greci son più buoni, cioè più veramente e puramente greci. Siccome per lo contrario, quanto ai latini, è tanto meno difficile, quanto meno son buoni, cioè meno latini, come p. e. Boezio tradotto con molta naturalezza dal Varchi, e le Vite de’ SS. Padri (che non hanno quasi più nulla del latino) tradotte egregiamente dal Cavalca, e gli Ammaestram. degli antichi da F. Bartolomeo da S. Concordio ec. ec. Cicerone, Sallustio, Tito Livio, difficilissimamente pigliano un sapore italiano, se non lasciano affatto l’indole e l’andamento proprio. Al contrario di Erodoto, Senofonte, Demostene, Isocrate ec. Ora essendo l’andamento delle lingue moderne generalmente assai più piano e meno figurato ec. delle antiche, questo è un segno che la lingua greca, adattandosi alle moderne molto più della latina, doveva esser molto più semplice e naturale nella sua costruzione e forma. (30. Maggio 1822.). Se l’uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l’attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana, e il regolamento della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine)[a] , osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più, e più gran cose degli altri; non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii; e per natura ed inclinazione sua primitiva, non fosse più disposto all’azione e all’energia dell’esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell’Alfieri (Corinne, t. 1. liv. dern.), anzi dice ch’egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de’ tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo. Fra’ quali siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare (altro che fagiolate), perciò nessuno o quasi nessuno è vero filosofo, nè letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri, massime degl’inglesi e francesi, i quali (per la natura de’ loro governi e condizioni nazionali) fanno, e sono nati per fare più degli altri. E quanto più fanno, o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente e straordinariamente pensano e scrivono. (30. Maggio 1822.). Grazia dallo straordinario. I nei che altro sono se non difetti, e false produzioni della cute? E non sono stati considerati lungo tempo come bellezze? (Anzi così anche oggi volgarmente si sogliono chiamare). E le donne col porsegli dintorno non facevano insomma altro che fingersi dei difetti, e fabbricarseli appostatamente, per proccurarsi grazia e bellezza. (1. Giugno 1822.). Qual fosse l’opinione di Socrate, o di Senofonte, e anche degli altri antichi, circa quelle arti e mestieri che da gran tempo si stimano e sono veramente necessarii all’uso del viver civile, anzi parte, alimento ec. della civilizzazione, e che intanto nocciono alla salute e al viver fisico, e in oltre all’animo, di chi gli esercita, v. l’Econom. di Senofonte cap. 4. par. 2. 3. e cap. 6. par. 5. 6. 7. (3. Giugno 1822.).
Alla p. 2451. L’Alfieri fu arditissimo e frequentissimo formatore di parole derivate o composte nuovamente dalle nostrali, e sebbene io non credo ch’egli, facendo questo avesse l’occhio alla lingua greca, nondimeno questo suo costume dava alla lingua italiana una facoltà e una forma similissima (materialmente) all’una delle principalissime e più utili facoltà e potenze della lingua greca. Io non cercherò s’egli si servisse di questo mezzo d’espressione colla misura e moderatezza e discrezione che si richiede, nè se guardasse sempre alla necessità o alla molta utilità, nè anche se tutti i suoi derivati e composti, o se la maggior parte di loro sieno ben fatti. Ma li porto per esempio acciocchè, considerandoli, si veda più distintamente e per prova, quante idee sottili o rare o non mai ancora precisamente significate, quante cose difficilissime e quasi impossibili ad esprimersi in altro modo (anche con voci forestiere), si esprimano chiarissimamente e precisamente e facilmente con questo mezzo, senza punto uscire della lingua nostra, e senza quindi nuocere alla purità. Certo è che quando l’Alfieri chiama il Voltaire Disinventore od inventor del nulla, (vere principali e proprie qualità ed attributi della sapienza moderna) quel disinventore dice tanto e tal cosa, quanto e quale appena si potrebbe dire per via d’una lunga circollocuzione, o spiegare e sminuzzare pazientemente, stemperatamente e languidamente in un periodo. (3. Giugno. 1822.). La religion Cristiana fra tutte le antiche e le moderne è la sola che o implicitamente o esplicitamente, ma certo per essenza, istituto, carattere e spirito suo, faccia considerare e consideri come male quello che naturalmente è, fu, e sarà sempre bene (anche negli animali), e sempre male il suo contrario; come la bellezza, la giovanezza, la ricchezza ec. e fino la stessa felicità e prosperità a cui sospirano e sospireranno eternamente e necessariamente tutti gli esseri viventi. E li considera come male effettivamente, perciocchè non si può negare che queste tali cose non sieno molto pericolose all’anima, e che le loro contrarie (come la bruttezza ec.) non liberino da infinite occasioni di peccare. E perciò quelli che fanno professione di devoti chiamano fortunati i brutti ec. e considerano la bruttezza ec. come un bene dell’uomo, una fortuna della società, e come una condizione, una qualità, una sorte desiderabilissima in questa vita. Similmente dico della prosperità, la quale rende naturalmente superbi, confidenti in se stessi e nelle cose, e quindi distratti e poco adattati all’abito di riflettere (ch’è necessarissimo alla cura della salute eterna), e dà molto attaccamento alle cose di questa terra. E quindi l’opinione che le disgrazie (o come le chiamano, le croci), sieno favori di Dio, e segni della benevolenza divina: opinione stranissima e affatto nuova; inaudita in tutta l’antichità e presso tutte le altre religioni moderne (tutte le quali consideravano anzi il fortunato solo, come favorito di Dio, onde fra gli antichi beato, Alla p. 1660. mezzo. Non so bene se il Salviati o il Salvini sia quel che dice dell’antica falsa, e latina ortografia degl’italiani, e particolarmente dell’ Quindi l’ortografia italiana del trecento, anche quella dei primi letterati, era tutta barbaramente latina. Si può vedere il manoscritto della divina Commedia fatto di pugno del Boccaccio e del Petrarca, e pubblicato quest’anno o il passato da una Biblioteca di Roma. Quindi conservato l’h che niun italiano pronunziava più (se non colla g, e c); quindi l’y, lettera inutile, avendo perduta la sua antica pronunzia di u gallico; quindi il k, ec. ec. E siccome per lunghissimo tempo, anche dopo stabilita la nostra letteratura, si durò a credere che il volgare non fosse capace di scrittura e d’uso più che tanto nobile e importante (e per molto tempo realmente non lo fu, perchè non v’era applicata); così fino al cinquecento, e massimamente fino a tutta la sua prima metà, si seguitò a scrivere l’italiano, con ortografia barbaramente latina, o non credendolo capace d’ortografia propria, o non sapendogliela ancora trovare, e ben regolare e comporre, o pedantescamente volendo ritornare il volgare al latino quanto più si potesse. Vedi la edizione della Coltivazione dell’Alamanni fatta in Parigi 1546. da Rob. Stefano, sotto gli occhi dell’autore, e ristampata colla stessa ortografia in Padova, Volpi 1718, e Bologna 1746. e quella delle Api del Rucellai, Venez. 1539, che fu la prima, (per Giananton. de’ Nicolini da Sabio) ristampata parimente ne’ detti luoghi. Dice il Volpi che quella maniera e di scrivere e di puntare che vedesi all’Alamanni esser piacciuta, è alquanto diversa non solo da quella che oggidì s’usa, ma da quella eziandio che a tempi di lui universalmente si costumava . (G. A. V. a’ Lettori). Vedi anche le lettere del Casa al Gualteruzzi, da un ms. originale, nelle sue op. t. 2. Venez. 1752. Io non so se sia vero, nè se quella del Rucellai p. e. se ne diversifichi notabilmente: non mi par che l’edizioni italiane di que’ tempi (come quella delle Rime del Firenzuola in Firenze, cit. nel Voc.) ne vadano molto lungi: ma se ciò fosse, verrebbe dalla dimora dell’Alamanni in Francia. V. p. 2466. In somma la lingua italiana pericolava di stabilirsi e radicarsi irreparabilmente in quella stessa imperfezione d’ortografia, in cui si veniva formando, e poi per sempre si radicò la lingua francese. Fortunatamente non accadde, anzi ell’ebbe la più perfetta ortografia moderna: non lettere scritte le quali non si pronunzino: non lettere che si pronunzino e non si scrivano: ciascuna lettera scritta, pronunziata sempre e in ogni caso, come si pronunzia recitando l’alfabeto ec. V. p. 2464. Cagioni di questo vantaggio furono l’infinita capacità, acutezza e buon gusto d’infinite persone in quel secolo, e l’altre circostanze ch’ho notate altrove. Alle quali si può e si dee forse aggiungere che i suoni della lingua latina, e generalmente la pronunzia e l’uso di essa, sopra la cui ortografia si formava naturalmente la nostra, era molto meno diverso dall’uso e pronunzia nostra e spagnuola, di quel che sia dal francese. Quindi essendo tutte tre queste ortografie formate da principio egualmente sulla latina, le due prime che poco avevano da mutarla per conformarla all’uso loro, facilmente la corressero (massime l’italiana) e ve l’uniformarono; ma la francese che avrebbe dovuto quasi trovare una nuova maniera di scrivere (essendo nella pronunzia, come in ogni altra parte, la più degenere figlia della latina), ed anche trovare in parte un nuovo alfabeto (come per le e mute ec.), fu incorrigibile. Fra tanto queste osservazioni si debbono applicare a dimostrar con un esempio recente, quanto debbano essere state alterate le primitive lingue nell’applicarle alla scrittura e all’alfabeto o proprio o forestiero, e nella creazione della loro ortografia, e quanto poco ci possiamo fidare del modo in cui esse ci ponno essere pervenute, cioè pel solo mezzo della scrittura. (5. Giugno, vigilia del Corpus Domini. 1822.). Alla p. 2457. marg. Qual nazione, se non dopo fatta Cristiana, non riputò per doni di Dio, e segni del favor celeste le prosperità, e per gastighi di Dio, e segni dell’odio suo le sventure? (Onde fra’ più antichi, e fra gli stessi ebrei, come i lebbrosi ec., si fuggiva con orrore l’infelice come scellerato, e quando anche non si sapesse, o non si fosse mai saputa da alcuno la menoma sua colpa, si stimava reo di qualche occulto delitto, noto ai soli Dei, e la sua infelicità s’aveva per segno certo di malvagità in lui, e se l’avevano creduto buono, vedendo una sua sciagura, credevano di disingannarsene.). Al contrario accadde nella nostra religione, la quale, se non altro, definisce per maggior favore, e segno di maggior favore di Dio l’infelicità, che la prosperità. (5. Giugno. 1822.). Alla p. 2462. mezzo — non elementi dell’alfabeto inutili, o che esprimano più d’un suono indarno ec. come p. e. nello spagnuolo è inutile che il suono del j sia espresso anche nè più nè meno dal x avanti vocale, e dal g avanti l’e e l’i. E non solo inutile, ma in ispagnuolo produce ancor molta confusione e varietà biasimevole e inutile nel modo di scrivere una stessa parola, anche appresso un medesimo scrittore, in un medesimo libro: sebbene io credo che la moderna ortografia spagnuola (rettificata e resa più esatta, come tutte le altre, e come tutte le cose moderne) sia emendata in tutto o in parte di questi difetti, e di queste inutilità. Similmente la ç, o zedilla è un elemento inutile, e produce confusione, e varietà dannosa. ec. ec. (6. Giugno, dì del Corpus Domini. 1822.). I greci Alla p. 2462. principio. Si scrivevano ancora (massime più anticamente, chè nel cinquecento la maggior dottrina dava un poco più di regola) le parole italiane o non latine in modo latino, o le parole latine (italianate) in modo non latino, e non conveniente all’italiano, come con lettere non italiane che in quelle tali parole non ci andavano neppure in latino: p. e. ymago o ymagine ec. Effetto dell’ignoranza in cui si era anco riguardo al latino e alla sua buona ortografia, (quando infatti non si sapeva di gran lunga bene nè pur la lingua latina, e i codici poi erano scorrettissimi ec. e pochi confronti s’eran potuti fare ec.) o del cattivo modo di scriver latino a quei tempi, e dell’imperfezione e infanzia dell’ortografia nostrale. Queste osservazioni serviranno a spiegare il perchè p. e. nella lingua francese, le imperfezioni dell’ortografia molte volte non paia ch’abbiano a far niente coll’ortografia latina, scrivendosi malamente anche delle parole non venute dal latino; e altre venute dal latino scrivendosi in maniera discordante così dalla buona ortografia latina, come dalla pronunzia francese. Intendo parlare delle parole francesi ch’erano in uso anche anticamente, perchè le più moderne, di qualunque origine siano, già si sa che nello scriverle s’è seguito il costume di quella tale imperfetta ortografia ch’era già stabilita. Ma la prima causa di questa imperfezione, fu secondo me, quella che ho detta, cioè la cattiva, indebita e puerile applicazione dell’ortografia latina (anch’essa in gran parte falsa e mal conosciuta, come anche la lingua latina, e cattiva) all’ortografia volgare. (10. Giugno 1822.). Nelle annotazioni alle mie Canzoni (Canzone 6. stanza 3. verso 1.) ho detto e mostrato che la metafora raddoppia o moltiplica l’idea rappresentata dal vocabolo. Questa è una delle principali cagioni per cui la metafora è una figura così bella, così poetica, e annoverata da tutti i maestri fra le parti e gl’istrumenti principalissimi dello stile poetico, o anche prosaico ornato e sublime ec. Voglio dire ch’ella è così piacevole perchè rappresenta più idee in un tempo stesso (al contrario dei termini). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno notabilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica, e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore. Perchè grandissima, anzi infinita parte del nostro discorso è metaforica, e non perciò quelle metafore di cui ordinariamente si compone risvegliano più d’una semplice idea. Giacchè l’idea primitiva significata propriamente da quei vocaboli traslati è mangiata a lungo andare dal significato metaforico il quale solo rimane, come ho pur detto l. c. E ciò quando anche la stessa parola non abbia perduto affatto, anzi punto, il suo significato proprio, ma lo conservi e lo porti a suo tempo. P. e. accendere ha tuttavia la forza sua propria. Ma s’io dico accender l’animo, l’ira ec. che sono metafore, l’idea che risvegliano è una, cioè la metaforica, perchè il lungo uso ha fatto che in queste tali metafore non si senta più il significato proprio di accendere, ma solo il traslato. E così queste tali voci vengono ad aver più significazioni quasi al tutto separate l’una dall’altra, quasi affatto semplici, e che tutte si possono omai chiamare ugualmente proprie. Il che non può accadere nelle metafore nuove, nelle quali la moltiplicità delle idee resta, e si sente tutto il diletto della metafora: massime s’ell’è ardita, cioè se non è presa sì da vicino che le idee, benchè diverse, pur quasi si confondano insieme, e la mente del lettore o uditore non sia obbligata a nessun’azione ed energia più che ordinaria per trovare e vedere in un tratto la relazione il legame l’affinità la corrispondenza d’esse idee, e per correr velocemente e come in un punto solo dall’una all’altra; in che consiste il piacere della loro moltiplicità. Siccome per lo contrario le metafore troppo lontane stancano, o il lettore non arriva ad abbracciare lo spazio che è tra l’una e l’altra idea rappresentata dalla metafora; o non ci arriva in un punto, ma dopo un certo tempo; e così la moltiplicità simultanea delle idee, nel che consiste il piacere, non ha più luogo. (10. Giugno 1822.). V. p. 2663. Alla inclinazione da me più volte notata e spiegata, che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria, si dee riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto che s’attribuisce ragionevolmente alle donne e a’ fanciulli, e ch’è propria altresì di qualunque altro è meno capace o per natura o per assuefazione di contrastare e vincere e reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur troppe volte degli uomini prudenti ed esercitati a stare sopra se stessi, i quali ancora provano, se non altro, qualche difficoltà a tenere il segreto, e qualche voglia interna di manifestarlo (anche con danno loro), quando sono sull’andare del confidarsi con altrui, o semplicemente del conversare, o discorrere, o chiaccherare. Dico lo stesso anche di quando il segreto non è d’altrui ma nostro proprio, e quando noi vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o principalmente a noi, e come tale, ci eravamo proposto di tacerlo, e poi lo confidiamo per isboccataggine. Ma che anche questa inclinazione, non sia naturale nè primitiva (come pare), ma effetto delle assuefazioni, e dell’abito di società contratto dagli uomini vivendo cogli altri uomini, lo provo e lo sento io medesimo, che quanto era prima inclinato a comunicare altrui ogni mia sensazione non ordinaria (interiore o esteriore), così oggi fuggo ed odio non solo il discorso, ma spesso anche la presenza altrui nel tempo di queste sensazioni. Non per altro se non per l’abito che ho contratto di dimorar quasi sempre meco stesso, e di tacere quasi tutto il tempo, e di viver tra gli uomini come isolatamente e in solitudine. Lo stesso si dee credere che avvenga ai solitari effettivi, ai selvaggi, a quelli che o non hanno società o poca, e rara, all’uomo naturale insomma, privo del linguaggio, o con poco uso del medesimo, al muto, a chi per qualche accidente ha dovuto per lungo tempo viver lontano dal consorzio degli uomini, come naufragi, pellegrini in luoghi di favella non conosciuta, carcerati ec. frati silenziosi ec. (11. Giugno. 1822.). Alle ragioni da me recate in altri luoghi, per le quali il giovane per natura sensibile, e magnanimo e virtuoso, coll’esperienza della vita, diviene e più presto degli altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch’è destinata in questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l’odio e persecuzione loro per tutto ciò ch’è buono, nè le sventure di quella virtù che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e respingerle, come si trova il virtuoso. In somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli uomini, nè così presto, com’è obbligato a concepirlo il giovane d’animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui medesimo. Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente dall’esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell’eroismo di malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile, immedicabile ed eterna, a cui necessariamente dee giungere (e tosto) l’uomo d’ingegno al tempo stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.). Diciamo tuttogiorno in volgare: venir voglia a uno d’una cosa, venirgli pensiero, talento, desiderio, ec. ec. V. la Crusca e i Diz. francesi e spagnuoli. Or chi ardirebbe di dir questo in latino? Chi non lo stimerebbe un barbaro italianismo o volgarismo? Or ecco appunto una tal frase parola per parola nel poema più perfetto del più perfetto ed elegante poeta latino, e in un luogo che dovea necessariamente esser de’ più nobili, cioè nel principio e invocazione delle Georgiche:
(l. 1. v. 37.) Dell’antica fratellanza della lingua greca colla latina, ossia della comune origine d’ambedue, e come in principio l’una non differisse dall’altra, ma fossero in Italia e in Grecia una lingua sola, vedi un bel luogo di Festo portato dal Forcellini v. Graecus in fine. (14. Giugno. 1822.). Chi negherà che l’arte del comporre non sia oggi e infinitamente meglio e più chiaramente e distintamente considerata, svolta, esposta, conosciuta, dichiarata in tutti i suoi principii, eziandio più intimi, e infinitamente più divulgata fra gli uomini, e più nelle mani degli studiosi, e aiutata oltracciò di molto maggior quantità di esempi e modelli, che non era presso gli antichi? e massime presso quegli antichi e in quei secoli ne’ quali meglio e più perfettamente e immortalmente si scrisse? Eppure dov’è oggi in qualsivoglia nazione o lingua, non dico un Cicerone (quell’eterno e supremo modello d’ogni possibile perfezione in ogni genere di prosa), non dico un Tito Livio, ma uno scrittore che nella lingua e nel gener suo abbia tanto valore quanto n’ha qualunque non degli ottimi, ma pur de’ buoni scrittori greci o latini? E dov’è poi un numero di scrittori, non dico ottimi, ma buoni, uguale a quello che n’hanno i greci e i latini? Trovatemelo, se potete, ponendo insieme tutti i migliori scrittori di tutte le nazioni letterate, dal risorgimento delle lettere sino a oggidì. E dico buoni precisamente in quel che spetta all’arte del comporre, e del saper dire una cosa, e trattare un argomento con tutta la perfezione di quest’arte. Dico buoni quanto alla lingua loro, qualunqu’ella sia, e perfetti in essa e padroni, come fu Cicerone della latina, o come lo furono gli altri scrittori latini e greci, men grandi di Cicerone in questo e nel rimanente, ma pur buonissimi e classici. Dico buoni in questo senso, giacchè non entro nell’arte del pensare, ec. E quel che dico de’ prosatori, dico anche de’ poeti, colle stesse restrizioni, e quanto al modo di trattare e significare le cose immaginate: chè l’invenzione e l’immaginazione in se stesse e assolutamente considerate, appartengono a un altro discorso. Fatto sta che oggi tutti sanno come vada fatto, e niuno sa fare. Niuno sa fare perfettamente, e pochissimi passabilmente. E gli ottimi scrittori moderni di qualunque lingua o tempo, appena si possono paragonare all’ultimo de’ buoni antichi. O se gli agguagliano in qualche parte o qualità, o se anche li vincono, sottostanno loro grandemente in altre parti, e nell’effetto dell’insieme, e nel complesso delle qualità spettanti all’arte del ben comporre, e ben enunziare i propri sentimenti, e formare un discorso. Siccome per l’opposto non è sì mediocre scolare di rettorica, il quale abbia pur letto la rettorica del Blair, e non ne sappia, quanto al modo e alla ragione del ben comporre, più di Cicerone. Tant’è. Secondo l’osservazion del Democrito Britanno Bacon da Verulamio tutte le facoltà ridotte ad arte steriliscono, perchè l’arte le circonscrive . ( Gravina, Della Tragedia, cap. 40. p. 70. principio.). L’arte si trova sempre e perfezionata (ovvero inventata e formata), e divulgata e conosciuta da tutti, in quei tempi nei quali meno si sa metterla in pratica. A tempo d’Aristotele non v’erano grandi poeti greci: l’eloquenza romana era già spirata a tempo di Quintiliano (il quale forse, in quanto al modo di fare, se n’intendeva più di Cicerone). Lo stesso saper quel che va fatto è cagione che questo non si sappia fare. Anche qui si verifica che il troppo è padre del nulla, e che il voler fare è causa di non potere, ec. ec. Gli scrupoli, i dubbi, i timori di cader ne’ difetti già ben conosciuti ec. ec. legano le mani allo scrittore, e i più se ne disperano, e non seguendo nè i precetti dell’arte, nè essendo più a tempo di seguir la natura propria già in mille modi distorta, stravolta, e alterata dall’arte, scrivono, come vediamo, pessimamente, benchè sappiano ottimamente quel che s’abbia da fare a scriver bene. (15. Giugno. 1822.). Quanto prevaglia nell’uomo la materia allo spirito, si può considerare anche dalla comparazione dei dolori. Perocchè i dolori dell’animo non sono mai paragonabili ai dolori del corpo, ragguagliati secondo la stessa proporzione di veemenza relativa. E sebben paia molte volte a chi è travagliato da grave pena dell’animo, che sarebbe più tollerabile altrettanta pena nel corpo; l’esperienza ragguagliata dell’una e dell’altra può convincere facilmente chiunque sa riflettere che tra’ dolori dell’animo e quelli del corpo, supponendoli ancora, relativamente, in un medesimo grado, non v’è alcuna proporzione. E quelli possono esser superati dalla grandezza o forza dell’animo, dalla sapienza ec. (lasciando stare che il tempo consola ogni cosa), ma questi hanno forza d’abbattere e di vincere ogni maggior costanza. (15. Giugno 1822.). Molto ragionevolmente s’ammira la ritirata dei diecimila greci, eseguita per lunghissimo tratto d’un immenso paese nemico, e impegnato invano ad impedirla; dal core del regno, a’ suoi ultimi confini. ec. Or che si dovrà dire di una non ritirata, ma conquista di un regno anch’esso immenso, qual era quello del Messico, eseguita non da diecimila, ma da mille, o poco più spagnuoli, e in tanta maggior lontananza dal loro paese, e questa, di mare, ec. ec.? Quanto più corre il tempo, tanto più cresce la differenza ch’è tra uomini e uomini, e la superiorità degl’inciviliti sui barbari. Non erano così differenti i Persiani dai greci, benchè differentissimi, nè così inferiori, benchè sommamente inferiori, quanto i Messicani (benchè non privi nè di leggi, nè di ordini cittadineschi e sociali, nè di regolato governo, nè anche di scienza politica e militare ridotta a certi principii) per rispetto degli spagnuoli. E principalmente nelle armi, i Persiani e i greci non differivano gran cosa, laddove gli spagnuoli dai Messicani moltissimo. E così rispettivamente nella Tattica. (16. Giugno. Domenica. 1822.). N. N. diceva che gli ossequi ec. e i servigi interessati rade volte conseguiscono l’intento loro, perchè gli uomini sono facili a ricevere e difficili a rendere. (tutti ricevono volentieri, e rendono mal volentieri e poco.) Ma eccettuava da questo numero quelli che i giovani prestano talvolta alle vecchie ricche o potenti. E soggiungeva che non v’ha lusinghe, ossequi o servigi meglio collocati di questi, nè che più facilmente e più spesso ottengano il loro fine. (17. Giugno. 1822.). Grazia dal contrasto. La medesima insipidezza o del carattere, o delle maniere, o de’ discorsi, o degli scherzi, sentimenti ec. in una persona bella, fa molte volte effetto, ed è un Ho discorso altre volte della ferocia cagionata nell’uomo virtuoso, nel giovane, ec. dalla risoluzione di commettere a occhi aperti un primo delitto. Ho anche ragionato del danno involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo stabilimento e perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de’ gastighi dell’altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare, come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l’uomo il quale per la prima volta s’è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran fatica e pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e si trova allora nell’atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione di una gran ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d’altra tal bestia salvatica, che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch’ell’ha gustato, o veduto il sangue d’altro animale. Perocchè l’uomo in quel punto è come sparso e macchiato di sangue, cioè omicida della propria coscienza. E generalmente l’esecuzione di qualunque proposito è tanto più efficace ed energica ed infiammata ed avventata e pronta, quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile, e quanta maggior pena e contrasto è costato a formarla. Perocchè l’uomo teme di pentirsi, e s’avventa nell’esecuzione, come fuggendo con grand’impeto e fretta e spavento dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora, potrebbe distorlo, o precipitarlo di nuovo nell’irresoluzione, che l’uomo teme e odia naturalmente, e ch’è uno de’ principali travagli dell’animo. Massime quando l’effetto della risoluzione (o sia il piacere, o sia l’utile, o sia la vendetta, o sia la soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira e lo invita gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl’impedisca di cercarlo e di conseguirlo, e d’altra parte desidera vivamente di non perderlo, e non privarsene per proprio difetto. (17. Giugno. 1822.). I francesi non hanno poesia che non sia prosaica, e non hanno oramai prosa che non sia poetica. Il che confondendo due linguaggi distintissimi per natura loro, e tutti due propri dell’uomo per natura sua, nuoce essenzialmente all’espressione de’ nostri pensieri, e contrasta alla natura dello spirito umano: il quale non parla mai poeticamente quando ragiona coll’animo riposato ec. come par che sieno obbligati di fare i francesi, se vogliono scrivere in prosa che sia per loro elegante e spiritosa ed ornata ec. (19. Giugno. 1822.). Quanto sia vero che i talenti in gran parte son opera delle circostanze, vedasi che ne’ paesi piccoli è infinitamente maggiore che ne’ grandi, il numero delle persone di grado agiato e comodo e (negli altri luoghi) colto e civile, che non hanno il senso comune, e da’ quali non si può fidare l’esecuzione o il maneggio del menomo affare ec. Lo stesso dico proporzionatamente delle città meno grandi, rispetto alle più grandi, delle meno colte o socievoli rispetto alle più colte, delle capitali dove tutti son obbligati a conversare, a trattar negozi ec. rispetto alle città di provincia ec. (19. Giugno. 1822.). Alla p. 2402. Qualunque inferiorità o svantaggio abbia un uomo o rispetto agli altri, o rispetto a qualcuno in particolare, l’unico rimedio è dissimularlo arditamente, costantemente e ostinatamente. E questo è ancora l’unico mezzo, se lo svantaggio e il male è compassionevole, e se pur si trova in alcuno la compassione, d’esserne compatito. Chi lo confessa per qualunque cagione, o perchè creda non poterlo dissimulare (ch’è falso, ancor che sia visibile, o notissimo, o in qualunque guisa manifesto), o per altro, e con ciò crede di guadagnar compassione, e pensa che negandolo o proccurando di nasconderlo, e mostrando di non avvedersene, gli altri lo debbano maggiormente disprezzare e deridere, e non compatire, s’inganna a partito, che anzi questo è il modo sicuro d’esserne disprezzato e deriso. L’uomo non lascia per qualunque cagione di profittare del vantaggio ch’egli ha sopra gli altri uomini, o sopra un tal uomo, se questi non fa grandissima forza perchè gli altri, quanto è possibile, non s’accorgano o ricordino del suo svantaggio, o non se ne possano profittare. E perciò dev’egli operare e portarsi sempre come se quello svantaggio non esistesse, o come s’egli non se n’avvedesse, e mostrare affatto di non sentirlo; e proccurare anche di far quelle cose che più si disdicono ec. a’ suoi pari rispetto al detto svantaggio. Quanto sono maggiori gli svantaggi che s’hanno, tanto più bisogna che l’individuo stia per se stesso. Perocchè gli altri uomini non istaranno mai per lui, e quel che desiderano e vogliono principalmente si è ch’egli si confessi loro inferiore. Il che dev’egli sempre fermamente ricusare. (21. Giugno 1822.). Ho detto altrove del Quel che si dice, ed è verissimo, che gli uomini per lo più si lasciano governare dai nomi, da che altro viene se non da questo che le idee e i nomi sono così strettamente legati nell’animo nostro, che fanno un tutt’uno, e mutato il nome si muta decisamente l’idea, benchè il nuovo nome significhi la stessa cosa? Splendido esempio ne furono i romani, esecratori del nome regio, i quali non avrebbero tollerato un re chiamato re, e lo tollerarono chiamato imperatore, dittatore, ec. e dichiarato inviolabile (cosa nuova) col nome vecchio della potestà tribunizia. E che non avrebbero tollerato un re così detto, si vede. Perocchè Cesare il quale, bench’avesse il supremo comando, pur sospirava quel nome, non parendoli essere re, se non fosse così chiamato, (e ciò pure per la sopraddetta qualità dell’animo nostro, bench’egli fosse spregiudicatissimo), fattosi offerire la corona da Antonio ne’ Lupercali, fu costretto rigettarla esso stesso da’ tumulti ed esecrazioni di quel popolo già vinto e schiavo, e che poi chiamato di nuovo alla libertà, non ci venne. E gl’imperatori che furono dopo, e che da principio (cioè finchè il nome d’imperatore non fu divenuto anche nella immaginazion loro e del popolo, lo stesso e più che re) ebbero lo stesso desiderio di Cesare, non crederono che quel popolo domo si potesse impunemente ridurre a sostenere il nome di re, benchè non dubitarono di fargli avere un re e di fargli tollerare ed anche amare la cosa significata da questo nome. (22. Giugno. 1822.). Alla p. 2414. fine. Tutti gli uomini e tutti gli animali amano se stessi nè più nè meno secondo la misura ed energia della loro vitalità. Quindi non mi par più vero quel ch’io dico altrove, che la quantità dell’amor proprio sia precisamente uguale in ciascun vivente. Perocchè le diverse specie di viventi, e i diversi individui d’una medesima specie, e questi medesimi individui in diversi tempi e circostanze hanno relativamente diverse somme di vitalità. Come altre specie hanno più spiriti, altre meno. E fra queste l’umana ne ha più di tutte. Ma fra gli uomini altri n’hanno più, altri meno: ed anche naturalmente questi nasce con più, questi con meno talento. Di più l’amor proprio essendo una qualità del vivente, e queste qualità, come ho provato in più luoghi, essendo disposizioni, e queste disposizioni conformabili, e che possono fruttificare e produrre delle facoltà, e questo massimamente nell’uomo, ne segue che l’amor proprio, specialmente nell’uomo, è conformabile e coltivabile come le altre qualità. Anzi tanto più quanto egli abbraccia tutte le qualità dell’animo del vivente. Quindi anche l’amor proprio fa progressi, come ne fa lo spirito umano, ed è maggiore non solo in una specie o individuo naturalmente più vivo e sensitivo, ma anche in un individuo colto rispetto ad uno non colto, in un secolo colto rispetto ad un altro meno colto, in una nazione civile rispetto a una barbara, e in uno individuo medesimo, è maggiore dopo lo sviluppo delle sue qualità o disposizioni sensitive, sentimento, vitalità, ingegno, è maggiore, dico, che non era prima. E siccome ho provato che l’infelicità dell’animale è sempre in ragion diretta dell’attività del suo amor proprio, così resta chiaro, e perchè l’uomo sia naturalmente meno felice degli altri animali, e perchè a misura ch’egli s’incivilisce, il che accresce di mano in mano l’attività dell’amor proprio, egli divenga ogni giorno più infelice, necessariamente, e quasi per legge matematica. Che poi l’amor proprio sia conformabile, coltivabile, modificabile, sviluppabile, suscettivo d’incremento, e di maggiore o minore attività e influenza, si farà chiaro considerando l’amor proprio, come una passione. E infatti lo è, anzi non v’è passione che non sia amor proprio, e tutte sono un effetto suo non distinto dalla causa, e non esistente fuor di lei, la quale opera ora così, e si chiama superbia, ora così, e si chiama ira, ed è sempre una passione sola, primitiva, essenziale. Dimodo che le passioni sono piuttosto azioni ch’effetti dell’amor proprio, cioè non sono figlie sue in maniera che ne ricevano un’esistenza propria, e separata o separabile da lui. Or p. e. l’ira o l’impazienza del proprio male, non è ella modificabilissima e diversissima, non solo in diverse specie, o individui, ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e coll’assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni parte di questa proposizione). Fate che questo medesimo non abbia mai provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla prosperità, o supponete in una di queste due circostanze un altro individuo, e sia egli di natura mansuetissima. Ogni menomo male lo pone in impazienza. Or qual effetto più sostanziale dell’amor proprio, che l’impazienza del male di questo sè che si ama? E pur questa impazienza è maggiore e minore secondo le nature, le specie, gl’individui, e le circostanze e le assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l’amor proprio del qual essa è opera. (22. Giugno. 1822.). Intorno al suicidio. È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi, si possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia lecito d’essere infelice contro natura (che non avea fatto l’uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un modo contro natura, essendo questo l’unico possibile, dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa natura, e così irreparabilmente. (23. Giugno. 1822.). Il fatto sta così e non si può negare. La somma della moralità pratica era ed è tanto maggiore presso gli antichi, i pagani, i selvaggi, che presso i moderni, i Cristiani, gl’inciviliti, quanto la somma della morale teorica, e la perfetta cognizione, definizione, analisi e propagazione della medesima è maggiore presso questi che presso quelli. E nella stessa proporzione si deve discorrere anche oggidì de’ Cristiani più rozzi, e meno (o più confusamente) istruiti de’ doveri sociali ed umani, per rispetto alla gente più colta e addottrinata ne’ medesimi doveri. (24. Giugno dì di S. Gio. Battista. 1822.). Nè il titolo di filosofo nè verun altro simile è tale che l’uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra se stesso. L’unico titolo conveniente all’uomo, e del quale egli s’avrebbe a pregiare, si è quello di uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser uomo vero, cioè secondo natura. In questo modo e con questa condizione il nome d’uomo è veramente da pregiarsene, vedendo ch’egli è la principale opera della natura terrestre, o sia del nostro pianeta, ec. (24. Giugno. dì del Battista. 1822.). L’amor proprio, il quale, come ho dimostrato più volte, è necessaria o quasi necessaria sorgente d’infelicità, era però (oltre l’essere una essenziale conseguenza e parte dell’esistenza sentita e conosciuta dall’esistente) necessario ancora e indispensabile alla felicità. Come si può dare amor della felicità senz’amor di se stesso? anzi questi due amori sono precisamente una cosa sola con due nomi. E come si potrebbe dar felicità senza amor di felicità? Giacchè l’animale non può godere e compiacersi di quel che non ama. Dunque non amando la felicità, non potrebbe goderla nè compiacersene. Dunque quella non sarebbe felicità, ed egli non la potrebbe provare. Dunque l’animale, se non amasse se stesso, non potrebbe esser felice, e sarebbe essenzialmente incapace della felicità, e in disposizione contraddittoria colla natura di essa. Quindi si deve scusar la natura, e riconoscere che sebbene l’amor proprio produce necessariamente l’infelicità (maggiore o minore), la natura non ha però sbagliato nell’ingenerarlo ai viventi, essendo necessario alla felicità, e però il suddetto inconveniente era inevitabile come tanti altri, e deriva come tanti altri da una cosa ch’è un bene, e fatta per bene. (24. Giugno. 1822.). Quanto sia vero che l’amor proprio è cagione d’infelicità, e che com’egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta infelicità, si dimostra per l’esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non solo è soggetto a mille dolori d’animo, ma incapace ancora di godere i maggiori beni del mondo, e di goderli e Quindi osservate che tutto quanto si dice dell’amor proprio si deve anche intendere dell’amor della felicità ch’è tutt’uno (v. p. 2494.). E però la misura, la forza, l’estensione, le vicende, gl’incrementi, gli scemamenti, tanto individuali che generali, dell’uno di questi amori, son comuni all’altro nè più nè meno. (24. Giugno. 1822.). L’antichissima e propria significazione del verbo Ho detto altrove che il timore è la più egoistica passione dell’uomo sì naturale e sì civile. Così anche degli altri animali. Ed è ben dritto, perocchè l’oggetto del timore pone in pericolo (vero o creduto) l’esistenza o il ben essere di quel sè che il vivente ama per propria essenza sopra ogni cosa. L’uomo il più sensibile per abito e per natura, il più nobile, il più affettuoso, il più virtuoso, occupato anche attualmente, poniamo caso, da un amore il più tenero e vivo, se con tutto ciò è suscettibile del timor violento, trovandosi in un grave pericolo (vero o immaginato) abbandona l’oggetto amato, preferisce (e dentro se stesso e coll’opera) la propria salvezza a quella di quest’oggetto, ed è anche capace in un ultimo pericolo di sacrificar questo oggetto alla propria salute, dato il caso che questo sacrifizio (in qualunque modo s’intenda) gli fosse, o gli paresse dovergli esser giovevole a scamparlo. Tutti i vincoli che legano l’animale ad altri oggetti, o suoi simili o no, si rompono col timore. (26. Giugno 1822.). L’estrema possibile semplicità o naturalezza dello stile, dello scrivere o del parlar francese civile, è sempre di quel genere ch’essi medesimi (in altre occasioni) chiamano Ho assegnato altrove come principio d’infinite e variatissime qualità dell’animo umano (p. e. l’amor delle sensazioni vivaci) l’amor della vita. Questo amore però è non solo necessaria conseguenza, ma parte, ovvero operazione naturale dell’amor proprio, il quale non può non essere amore della propria esistenza, se non quando quest’esistenza è divenuta una pena. Ma ciò non in quanto esistenza, chè l’esistenza in quanto esistenza, è per natura eternamente amata sopra ogni cosa dall’esistente. Perocchè tanto è amar la propria esistenza in quanto esistenza, quanto è amar se stesso. E sarebbe una contraddizione quasi impossibile a concepirsi, che l’esistenza non fosse amata dall’esistente; e quindi che in certo modo l’esistenza fosse odiata dall’esistenza, e combattuta dall’esistenza, e contraria all’esistenza, o anche semplicemente non cara e non gradita a se stessa, nemmeno inquanto se stessa. (26. Giugno. 1822.). Alla p. 2405. Un corollario si può tirare molto ragionevolmente dal vedere che le scritture orientali mancano per lo più delle vocali. Ed è che quelle lingue fossero le prime ad esser coltivate, la scrittura orientale la prima ad essere inventata (appunto perchè più imperfetta, e similmente si potrebbe dire della struttura ec. delle loro lingue), le letterature orientali le prime a nascere, e in somma l’oriente il primo ad esser civilizzato, e quindi probabilmente il primo ad esser popolato, e ridotto alla società ec. Confermando con questa, le altre prove che già s’hanno delle dette proposizioni, e dell’origine che il genere umano ha dall’oriente. (26. Giugno. 1822.). Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all’eleganza? Intendo per barbarismo l’uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall’indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocchè se noi usassimo p. e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare perchè questi barbarismi ripugnassero all’eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p. e. nell’italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p. e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso, distrugga affatto l’eleganza delle scritture. Certo è che non ripugna alla natura nè delle lingue, nè degli uomini, nè delle cose, e non è contrario ai principii eterni ed essenziali dell’eleganza, del bello ec. che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d’idee con parole e modi appresi e ricevuti da un’altra nazione, che sia seco loro in istretto e frequente commercio, com’è appunto la Francia rispetto a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode, per la mercatura eziandio, e generalmente per l’influenza che ha la società e lo spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa. Torno a dire che questo non ripugna naturalmente al bello, se quelle voci e modi non sono di forma assolutamente discorde e ripugnante alle forme della propria lingua. E tale si è appunto il caso nostro. Bisogna dunque cercare un’altra cagione fuori della natura generale e immutabile, perchè questo barbarismo distrugga sensibilmente l’eleganza, e non possa stare seco lei. Egli è pur certo, e tutti i maestri dell’arte l’insegnano e raccomandano, e io l’ho spiegato e dimostrato altrove, che non solo il pellegrino giova all’eleganza, ma questa non ne può fare a meno, e non viene da altro se non da un parlare ritirato alquanto (più o meno) all’uso ordinario, sia nelle parole, sia ne’ loro significati, sia ne’ loro accoppiamenti, nelle metafore, negli aggiunti, nelle frasi, nelle costruzioni, nella forma intera del discorso ec. Or come dunque il barbarismo, ch’è un parlar pellegrino, il barbarismo dico, quando anche non ripugni dirittamente, anzi punto, all’indole generale e all’essenza della lingua, nè all’orecchio e all’uso de’ nazionali, in luogo di riuscirci elegante, ci riesce precisamente il contrario, e incompatibile coll’eleganza? Ecco com’io la discorro. I primi scrittori e formatori di qualsivoglia lingua, e fondatori di qualsivoglia letteratura, non solo non fuggirono il barbarismo, ma lo cercarono. V. Caro, Apologia, p. 23-40. cioè l’introduzione del Predella. Tolsero voci e modi e forme e metafore e maniere di stile e costruzioni ec. (e questo in gran copia) dalle lingue madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene, massimamente se a queste, benchè aliene, apparteneva quella letteratura sulla quale essi si modellavano, e dalla quale venivano derivando e imparavano a fabbricar la loro. Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione, e in particolare di provenzalismi (che vengono ad essere appunto presso a poco i gallicismi, tanto abominevoli oggidì); de’ quali abbondano parimente gli altri trecentisti, e i ducentisti ec. Di barbarismi abbonda Omero, com’è bene osservato dagli eruditi: di barbarismi Erodoto: di barbarismi i primi scrittori francesi ec. E non è mica da credere nè che questi barbarismi de’ primi e classici scrittori, fossero, a quei tempi, comuni nella loro nazione, ed essi scrittori si lasciassero strascinar dall’uso corrente; ne che gli usassero e introducessero per solo bisogno, o per arricchir la loro lingua di parole e modi economicamente utili. Gli usarono, come si può facilmente scoprire, per espresso fine di essere eleganti col mezzo di un parlar pellegrino, e ritirato dal volgare. E sebben furono costretti, volendo essere intesi, a usar gran parte delle voci e modi correnti, e formarne il corpo della loro scrittura, pur molto volentieri e con predilezione s’appigliarono quando poterono alle voci e modi forestieri, per parlare alla peregrina, e per dare al loro modo di dire un non so che di raro, ch’è insomma l’eleganza. E p. e. di Dante, si vede chiaramente ch’egli si studiò di parlare a’ suoi compatrioti co’ modi e vocaboli provenzali, a cagione che la nazion provenzale era allora la più colta, ed aveva una specie di letteratura, abbastanza nota in Italia, e che rendeva la lingua provenzale così domestica agl’italiani colti, che le sue parole o frasi, italianizzandole, non erano enigmi per loro, e così poco volgare che le dette voci e frasi non erano ordinariamente nella loro bocca (come non lo sono ora le latine che p. e. i poeti derivano di nuovo nell’italiano, e che tutti intendono), nè in quella del popolo: il quale però eziandio era sufficientemente disposto ad intenderle (senza perdere il piacere del pellegrino) a causa delle canzoni provenzali, amorose ec. ch’andavano molto in giro, e si cantavano ec. Or dunque da queste canzoni, e dalla letteratura e dalla lingua provenzale tirò Dante molte voci e modi per essere elegante: e ci riuscì allora; e con tutti questi che oggi si chiamerebbero barbarismi, sì egli, come Omero, e tali altri scrittori primitivi, s’hanno da per tutto per classici, e taluni per eleganti; o se s’hanno per ineleganti, viene piuttosto dall’arcaismo che dal barbarismo. In somma il barbarismo, quando è veramente un parlar pellegrino, e che non ripugna ec. come sopra, e che s’intende, è sempre (da qualunque lingua sia tolto, rispetto alla lingua propria) non solo compatibile coll’eleganza, ma vera fonte di eleganza. Cresciuta, formata, stabilita la lingua, e la letteratura di una nazione, interviene le più volte, che introducendosi il commercio fra questa ed altre lingue e letterature, parte l’uso, e l’assuefazione di udire voci e modi forestieri, parte la necessità di riceverne insieme cogli oggetti coi libri coi gusti cogli usi colle idee che da’ forestieri si ricevono, parte l’amor delle cose straniere e la sazietà delle proprie, ch’è naturale a tutti gli uomini sempre inclinati alla novità (v. Omero Odiss. 1. v. 351-2.), parte fors’anche altre cagioni riempiono la favella nazionale di voci e modi forestieri in guisa che appoco appoco, dimenticate o disusate le voci e maniere proprie, divien più facile il parlare e lo scrivere con quelle de’ forestieri, che s’hanno più alla mano, e s’usano più giornalmente, e più familiarmente. Ed ecco un’altra volta introdotto il barbarismo nella lingua e letteratura nazionale, ma per tutt’altra cagione e fine, e con tutt’altro effetto che l’eleganza e l’arricchimento loro. Quanto all’arricchimento, questo è il punto in cui la lingua nazionale comincia a scadere e scemare sensibilmente, e impoverirsi, e indebolirsi fino al segno che dimenticate e antiquate la maggiore o certo grandissima parte delle sue voci e modi, e anche delle sue facoltà, ella non ha più forza nè capacità di supplire ai bisogni del linguaggio, e di fornire un discorso del suo, senza ricorrere al forestiero. (E la nostra lingua è già vicina a questo segno, non solo per le ricchezze proprie ch’avrebbe dovuto venire acquistando, e non l’ha fatto, ma anche per quelle infinite ch’aveva già, ed ha perdute, e molte irrecuperabilmente). E così dico della letteratura. Quanto poi all’eleganza, quelle voci e modi, non essendo più pellegrini, non sono più eleganti. Anzi non c’è cosa più volgare e ordinaria di quelle voci e modi forestieri. Come accade appunto in Italia oggidì, che non si può nè parlare nè scrivere in un italiano più volgare e corrente, che parlando e scrivendo in un italiano alla francese. Il che è ben naturale e conseguente, secondo le cagioni che ho assegnate, le quali introducono questo secondo barbarismo in una lingua. Perocchè esse l’introducono ed influiscono direttamente, non negli scritti de’ grandi letterati e degli uomini di vero e raffinato buon gusto (come ho detto di quel primo barbarismo) ma nella favella quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei libri degli scrittorelli che non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche cercano, nè si vogliono affaticare ad indagare altra lingua da quella che son soliti di parlare, e sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero esprimere in altro modo, nè possiedono altre voci e forme di dire. Di più seguono ed approvano (secondo il poco e stolto loro giudizio) l’uso corrente, la moda ec. ed accattano l’applauso e la lode del volgo, e si compiacciono di quella misera novità, e vogliono passar per autori alla moda: così che oltre all’ignoranza, li porta al barbarismo anche la volontà, ed il cattivo loro giudizio; e l’esempio gli strascina ec. Di più formandosi a scrivere sui soli o quasi soli libri stranieri divulgati nella loro nazione, non conoscono altre voci, frasi, e maniere di stile, che quelle di que’ libri, o non si vogliono impazzire a scambiarle coll’equivalenti nazionali, che non hanno punto alla mano. E così imbrattano sempre più la lingua e letteratura nazionale di cose forestiere, anche oltre all’uso della favella ordinaria de’ loro compatrioti. Introdotto così, e fondato e propagato in una lingua il barbarismo per la seconda volta, la stessa sua propagazione lo rende inelegante al contrario della prima volta. Perocchè allora la lingua volgare non è quella che si chiama così e ch’è veramente nazionale, ma è quella barbara e maccheronica che si parla e scrive ordinariamente, e però chi scrive alla forestiera, scrive volgarissimo, e quindi inelegantissimo. Dov’è da notare che allora il barbarismo non è contrario all’eleganza come forestiero: chè anzi il forestiero bene inteso da’ nazionali, e non affettato, è sempre elegante. Ma per l’opposto è inelegante come volgare. E laddove la prima volta, quand’esso non era volgare, riusciva elegante, e più elegante di quel ch’era nazionale, questa seconda volta il puro nazionale riesce molto più elegante del forestiero, non già come puro nè come nazionale (chè queste qualità non furono mai cagione di eleganza), ma come non volgare, come ritirato dall’uso corrente e domestico, come proprio oramai de’ soli scrittori, e questi anche pochi. Ecco che la purità della favella è divenuta quasi sinonimo dell’eleganza della medesima: e questo con verità e con ragione, ma non per altro, se non perch’essa purità è divenuta pellegrina. Così quelle voci e modi che una volta perchè familiari alla nazione non erano eleganti, anzi fuggite dagli scrittori di stil nobile ed elevato, o che tali pretendevano di essere; divengono già elegantissime e graziosissime perchè da una parte si riconoscono ancora facilmente per nazionali, e quindi sono intese subito da tutti, come per una certa memoria fresca, e non riescono affettate, dall’altra parte non sono più correnti nell’uso quotidiano. E così anche le parole e maniere una volta trivialissime e plebee nella nazione, aspirano all’onor di eleganti, e lo conseguiscono, come si potrebbe mostrare per mille esempi di voci e frasi individue. In somma oggi, p. e. fra noi, chi scrive con purità, scrive elegante, perchè chi scrive italiano in Italia scrive pellegrino, e chi scrive forestiero in Italia scrive volgare. Dal che si deve abbatter l’errore di quelli che pretendono che v’abbia principii fissi ed eterni dell’eleganza. V. la pag. 2521. sulla fine. Non v’ha principio fisso dell’eleganza, se non questo (o altro simile) che non si dà eleganza senza pellegrino. Come non v’ha principio eterno del bello se non che il bello è convenienza. Ma come è mutabile l’idea della convenienza, così è variabile il pellegrino, e quindi è variabile l’eleganza reale, effettiva e concreta, benchè l’eleganza astratta sia invariabile. Nè purità nè altra tal qualità delle parole o frasi, sono principii certi ed eterni dell’eleganza d’esse voci o frasi individue. Ineleganti una volta, divengono poi eleganti, e poi di nuovo ineleganti, secondo ch’esse sono o non sono pellegrine, giusta quelle tali condizioni del pellegrino, stabilite di sopra. Queste verità sono confermate dalla storia di qualunque letteratura e lingua. La purità dell’Atticismo non divenne un pregio nell’idea de’ greci, nè fu sinonimo d’eleganza presso loro, se non dopo che i greci ebbero a udire ed usare familiarmente voci e frasi forestiere. Omero, Erodoto, Senofonte medesimo (specchio d’Atticismo) erano stati elegantissimi con voci e frasi forestiere, poco usate da’ greci de’ loro tempi; anzi per mezzo appunto d’esse voci e frasi, fra l’altre cose. Non si pregia la purità, nè anche si nomina, se non dopo la corruzione, cioè quand’essa è pellegrina. E prima della corruzione si pregia il forestiero perchè pellegrino. Ennio, Plauto, Terenzio, Lucrezio ec. specchi della eleganza latina, son pieni di grecismi, cioè di barbarismi. Al tempo di Cicerone, di Orazio, e molto più di Seneca, di Frontone ec. che l’Italia parlava già mezzo greco, erano sorti i zelanti della purità, e il grecismo lodato in Plauto e in Cecilio (Oraz. ad Pison.) era impugnato ne’ moderni, e proibito affatto da’ pedanti, e usato con moderazione dai savi, e Cicerone se ne scusa spesso, e loda ed ama e deplora la purità dell’antico sermone, e la favella di sua nonna, ch’al tempo di sua nonna tutti i buoni scrittori posponevano al grecismo, quanto potevano farlo senza riuscire oscuri presso un popolo allora ignorante del forestiero, e del greco, e delle voci e frasi che non fossero nazionali. Dal che, e non da altro, e forse dalla stessa poca loro perizia del greco, nacque che gli antichi scrittori latini, benchè abbondanti di grecismi e barbarismi, pur si riputassero e fossero modelli del puro sermone Romano, rispetto agli scrittori più moderni. E lo stesso dico degli antichi italiani. E quella ricchissima, fecondissima, potentissima, regolatissima, e al tempo stesso variatissima, poetichissima e naturalissima lingua del cinquecento, ch’a noi (ne’ suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse ch’allora fu tenuta per tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si stimava solo quella del trecento, e se ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della lingua, (come noi facciamo rispetto al 500), e gli scrittori tanto più s’avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere in quella di quell’altro secolo. Laddove a noi, a’ quali l’una e l’altra è divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono l’uso del loro secolo, e meno imitano il trecento. Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è il Caro che non fu mai imitatore. (È notabile che di parecchi cinquecentisti, le lettere dov’essi ponevano meno studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima, mentr’era quella del loro secolo, sono più grate a leggersi, e di migliore stile che l’altre opere, dove si volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi.). V. p. 2525. Ma anche nel cinquecento non si stimava veramente elegante se non il pellegrino, e lo trovavano e cercavano nella lingua del trecento, che sola chiamavano pura, quando per noi è purissima quella del cinquecento. V. Salviati, Avvertim. della lingua, citati nelle op. del Casa, Venez. 1752. t. 3. p. 323. fine — 324. Nel trecento poi nemmen si parlava di purità, nè si poneva tra i pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del loro secolo non si stimava elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s’amassero nel resto di Toscana o d’Italia, che in Firenze, come accade veramente anche oggi): e quelli scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o pretendevano essi medesimi, erano non quelli che oggi più s’ammirano per la naturalezza e la semplicità, e che in somma usavano più puramente la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno s’apprezzano, cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si studiavano di tirarla alle forme d’altre lingue, e d’altri stili, come fece il Boccaccio rispetto al latino, e come anche Dante, la cui lingua, s’è pura per noi, che misuriamo la purità coll’autorità, niuno certamente avrebbe chiamato pura a quei tempi, s’avessero pensato allora alla purità, e gli stessi cinquecentisti non erano molto inchinati a stimarlo tale, nè ad accordargli un’assoluta autorità e voto decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto al Petrarca e al Boccaccio. V. Caro Apolog. p. 28. fine ec. Lett. 172. t. 2. e se vuoi, anche il Galateo del Casa circa la stima ch’allora si faceva di tanto poeta. Per le quali considerazioni e confronti, sebbene la lingua italiana di questo secolo sia bruttissima e pessima per ragioni e qualità indipendenti dalla purità e dal barbarismo, cioè perchè povera, monotona, impotente, fredda, inefficace, smorta, inespressiva, impoetica, inarmonica ec. ec. nondimeno ardisco dire che se gli scrittori barbari della moderna Italia, arriveranno ai posteri, quando la lingua italiana sarà già in qualunque modo mutata dalla presente, e se la prevenzione (che influisce moltissimo sopra il senso dell’eleganza e del bello in ogni cosa) e il giudizio del secol nostro non avrà troppa forza ne’ futuri, come non l’ha in noi il giudizio de’ cinquecentisti, questa nostra barbara lingua, si stimerà elegante, e piacerà, perchè divenuta già pellegrina, e forse il Cesarotti ec. passerà per modello d’eleganza di lingua. Finalmente non è ella cosa conosciutissima che alla poesia non solo giova, ma è necessario il pellegrino delle parole delle frasi delle forme (niente meno che delle idee), per fare il suo stile elegante e distinto dalla prosa? Non lo dà per precetto Aristotele? ( Caro, Apolog. p. 25.). Il poetico della lingua non è quasi il medesimo che il pellegrino? O certo il pellegrino non è una qualità poetica nella lingua, e non serve di sua natura a poetichizzare il linguaggio e lo stile? Or ditemi se nelle poesie italiane d’oggidì si può trovar cosa più prosaica delle voci, frasi ec. forestiere? se più triviale, più ordinaria, in somma più decisamente impoetica e più distruttiva dell’eleganza del linguaggio, e in maggior contraddizione colla natura dello stil poetico? Tanto che, riuscendo sempre le dette voci e maniere, inelegantissime nella prosa, che pur è obbligata a minor eleganza, nella poesia riescono stomachevoli, e la cambiano affatto di poesia in cattiva prosa, onde osserva il Perticari (De’ 300isti), sebbene non con tutta verità, che il barbarismo insignorito delle prose italiane, pur non mise piede nelle poesie, come non ci potesse esser poesia con barbarismi. E questo perchè? essendo il pellegrino così proprio della poesia, ch’ella non ne può far senza? Perchè, torno a dire, se non perchè tali voci e frasi ec. forestiere, sono appunto le più volgari, giornaliere, correnti, usuali voci e maniere della nostra favella presente? e quindi distruttive del pellegrino? e se nuove nella scrittura o nella poesia, non nuove, anzi vecchie nell’uso volgare del discorso, e quindi distruttive della novità ch’è l’uno de’ principali pregi della lingua poetica? Laonde oggi sono eleganti le poesie scritte nella pura lingua italiana, e spesso anche in quella che una volta fu poco meno che trivialissima. Non per altro se non perchè quanto più sono italiane, tanto più dette poesie ci riescono pellegrine. Concludo che il barbarismo è distruttivo dell’eleganza, sì della prosa, e sì massimamente della poesia (alla quale più si richiede il pellegrino), non come pellegrino, nè come semplicemente forestiero, e contrario alla purità (ch’è un nome astratto, e sempre variabile nella sua sostanza); ma per lo contrario, come distruttivo del pellegrino, e del nuovo, come volgare, come triviale, come quello che forma la parte più moderna, e quindi più corrente e ordinaria della favella. E che la purità è necessaria e giovevole all’eleganza, non in quanto purità, nè in quanto nazionale ec. (qualità alienissime dall’eleganza e dalla grazia), ma in quanto pellegrina e rara, e distinta dall’uso comune, e ritirata dal volgo, e diversa dalla favella giornaliera presente. (il che viene in somma a dire ch’ella non è più veramente purità, essendo bensì stata, ma non essendo più nazionale. E pure allora solamente viene in pregio la purità, quando ella non è più tale, cioè quando a volerla usare, non si usa la vera lingua nazionale corrente. Così lingua pura, è un abuso di parole, in vece di dire, lingua antica della nazione e degli scrittori nazionali.) V. p. 2529. Tutte le sopraddette osservazioni, e particolarmente quelle della pagina 2512. fine — 13. si debbono applicare alla teoria della grazia derivante da quello ch’è fuor dell’uso. Le cagioni dell’eleganza delle parole o modi sono eterne, ed eternamente le stesse. Ma niuna parola o frase ec. di niuna lingua, è perpetuamente elegante, per elegantissima che sia o che sia stata una volta, nè viceversa triviale ec.: neanche durando la stessa indole, genio, spirito, carattere, forma ec. di quella tal lingua. E non solo niuna parola o modo, ma niun genere o classe di parole o modi. Spesso una parola è inelegante, o (se si tratta di verso) impoetica in un senso, ed elegante e poetica in un altro, solamente perchè in quello è volgare, e in questo no, o poco frequentemente usata. Come chi dicesse varii in poesia per diversi, parecchi, non peccherebbe contro la buona lingua, avendovene molti esempi, e fra gli altri del Tasso (Discorso sopra vari accidenti della sua vita), ma sarebbe poco elegante, per esser questo significato della detta parola molto volgare e familiare. Ma chi dicesse, come il Petrarca, varie di lingue e d’armi e de le gonne , o come Virgilio Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti. (29. Giugno, 1822. dì di S. Pietro.). Il giovane istruito da’ libri o dagli uomini e dai discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga sempre e inevitabilmente che il mondo e la vita per esso lui debbano esser composte d’eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d’entusiasmo; ma più veramente egli si persuade, se non altro, implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso, che quel che gli è detto e predicato, cioè l’infelicità, le disgrazie della vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scelleraggine, la freddezza, l’egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli altri, l’odio e invidia de’ pregi e virtù altrui, disprezzo delle passioni grandi, e de’ sentimenti vivi, nobili, teneri ec. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l’opposto, cioè quell’idea ch’egli si forma della vita e degli uomini naturalmente, e indipendentemente dall’istruzione, quella che forma il suo proprio carattere, ed è l’oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, e speranze, l’opera e il pascolo della sua immaginazione. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.). Alla p. 2516. marg. fine — e sempre scrisse (il Caro) nella propria lingua del suo secolo, non del trecento, e della sua nazione, non di sola Firenze. Or vedasi nell’esempio del Caro non Fiorentino, come era bella e graziosa questa lingua nazionale del cinquecento, ch’allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè più nè meno di quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è che nessun Fiorentino nè del trecento nè del 500 nè d’altro secolo scrisse mai così leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro Marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto le non istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche oggidì, letto o bene imitato, è fresco e lontanissimo dall’affettazione la più menoma, come s’oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse, ebbe poco tempo di studiarlo, lasciando star le lettere, familiari, ch’egli scriveva anzi di malissima voglia, come dice spessissimo, e dice ancora: E delle mie (lettere) private io n’ho fatto molto poche che mi sia messo per farle (cioè con istudio) , e di pochissime ho tenuta copia (lett. 180. vol. 2. al Varchi.) Dal che si vede che quello stile e quella lingua gli erano naturali, e sue proprie, non altrui, cioè proprie del suo secolo e della sua nazione, benchè da lui modificate secondo il suo gusto, e benchè si professi molto obbligato nella lingua a Firenze, scrivendo al Fiorentino Salviati. (lett. ult. cioè 265. fine, vol. 2.). Vedi ancora quel ch’egli dice del poco studio e impegno con cui tradusse l’Eneide, la Rettor. d’Aristot. le Oraz. del Nazianz. Tutte opere, che siccome le lettere familiari (e forse queste anche più della Rettor. e delle Oraz.) ci riescono pur contuttociò di squisita e quasi inimitabile eleganza. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.). Ho discorso altrove di quello che si suol dire, ch’ogni proposizione ha due aspetti, e dedottone che ogni verità è relativa. Notate che ogni proposizione, ogni teorema, ogni oggetto di speculazione, ogni cosa ha non solo due ma infinite facce, sotto ciascuna delle quali si può considerare, contemplare, dimostrare e credere con ragione e verità. E in tanto si dice che n’abbia due, in quanto d’ogni proposizione si può dir pro e contra, dimostrarla vera e falsa, e sostenere così la tal proposizione, come la sua contraria. E ogni proposizione e verità sussiste e non sussiste in quanto al nostro intelletto, e anche per se. E d’ogni cosa si può affermar questo o quest’altro, e parimente negarlo. Il che più vivamente e dirittamente dimostra come non sussiste verità assoluta. (29. Giugno, 1822. dì di S. Pietro e mio natalizio.). Alla p. 2496. fine. Finchè si fa conto de’ piaceri, e de’ propri vantaggi, e finchè l’uso, il frutto, il risultato della propria vita si stima per qualche cosa, e se n’è gelosi, non si prova mai piacere alcuno. Bisogna disprezzare i piaceri, contar per nulla, per cosa di niun momento, e indegna di qualunque riguardo e custodia, i propri vantaggi, quelli della gioventù, e se stesso; considerar la propria vita gioventù ec. come già perduta, o disperata, o inutile, come un capitale da cui non si può più tirare alcun frutto notabile, come già condannata o alla sofferenza o alla nullità; e metter tutte queste cose a rischio per bagattelle, e con poca considerazione, e senza mai lasciarsi cogliere dall’irresoluzione neanche nei negozi più importanti, nemmeno in quelli che decidono di tutta la vita, o di gran parte di essa. In questo solo modo si può goder qualche cosa. Bisogna vivere Alla p. 2521. La conchiusione e la somma del discorso si è che in qualunque tempo e in qualunque letteratura è piaciuta una lingua diversa dalla presente nazionale parlata, per bonissima, utilissima e bellissima che questa fosse: e non s’è mai giudicata elegante la scrittura composta delle voci e de’ modi ordinari in quel tempo e correnti effettivamente nella nazione, per purissimi che questi fossero. E questa (bench’altre ancora ve n’abbia) è l’una delle principali cagioni per cui non piace, e si disapprova e si biasima e riesce inelegante nelle scritture la presente lingua della nostra nazione, e si richiama la nostra lingua antica. Con ragione, benchè non sia molto ragionevole il richiamarla come pura, chè nè essa era pura, nè la purità è un pregio necessario ed appartenente all’essenza dello scriver bene, e molte volte non è possibile, e in fine è piuttosto un nome che una cosa, non potendosi mai definir questa purità, nè trovar precisamente quel che sia la purità di una tal lingua individua, anzi non esistendo essa mai, perchè tutte le lingue sono composte di voci, modi ec. presi più o meno ab antico da molte e varie altre lingue. E non potendosi neppur circoscrivere la così detta purità dentro i termini dell’uso nazionale, perchè se ciò fosse, tutte le nazioni in tutti i tempi parlerebbero puramente, e tutti gli scrittori seguendo la lingua del tempo loro, scriverebbero puramente, massime conformandosi alla parlata, e non esisterebbe il contrario della purità, cioè l’impurità, perchè nessuna lingua in nessun tempo sarebbe mai impura, benchè tutta composta da capo a piedi di barbarismi. Sicchè resta che per lingua pura s’intenda come suo preciso sinonimo la lingua antica di una nazione, cioè quella lingua composta per la più parte di voci e modi venuti di fuori, che dagli antichi fu parlata e scritta. E in particolare quella che fu contemporanea della miglior letteratura e coltura nazionale, e in somma quella che fu il risultato, non già dell’abbozzo (ch’ebbe la lingua italiana da’ 300isti) ma del perfezionamento dato alla lingua nazionale, e massime alla scritta, dagli scrittori e letterati nazionali nel tempo in cui maggiormente e precisamente fiorì la letteratura e coltura nazionale, che fu per noi il 500. Richiamare questa tal lingua, non pura, propriamente parlando, ma antica, e non come pura, ma come antica, richiamarla, dico, nella letteratura, è, come ho detto, ragionevole, ed autorizzato dall’esempio dell’altre nazioni antiche e moderne. Ed è ragionevole sì per li suoi pregi intrinseci e indipendenti dalle circostanze, e per la miseria e bruttezza propria assoluta e indipendente della nostra lingua moderna; sì per quello che ho dedotto dal precedente discorso, cioè che una lingua nazionale usitata e parlata presentemente non può mai riuscire elegante nelle scritture, quando anche, in se, fosse ottima e bellissima. Potranno oppore a quest’ultima proposizione, e al mio precedente discorso, che gli scrittori classici del 500 ebbero gran fama ed onore, e piacquero anche al tempo loro, quando anche scrivessero appunto nella lingua nazionale usitata e parlata a quel tempo. Rispondo. 1. La maggior fama degli scrittori del 500 fu a que’ tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch’erano servili imitatori del Petrarca, e quindi del 300, e si veda nell’Apologia del Caro, la misera presunzione ch’avevano di scrivere come il Petrarca, e che non s’avessero a usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle prose volevano restringer la lingua a quella sola del Boccaccio, e siamo pur lì. Certo è, nè per chiunque è pratico dello spirito che governava la repubblica nostra letteraria nel 500, è bisogno di molte parole a dimostrargli, che l’apice della letteratura, e quello a cui nondimeno aspiravano tanto gl’infimi quanto i sommi, era la lirica Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E gli scrittori più grandi in ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano famosi principalmente pe’ loro sonetti e canzoni petrarchesche che si divulgavano come un lampo per l’Italia, si trascrivevano subito, si domandavano, erano il trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai letterati, e i letterati se ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e restituivano con proposte e risposte ec. E senza questi versi difficilmente s’arrivava alla riputazion di letterato. Osservate, per non allontanarmi dall’esempio più volte addotto, il Caro, le cui rime sono la sola cosa che di lui non si legga più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete che questa riposava essenzialmente e soprattutto nell’opinion ch’egli avea di poeta (che nol fu mai), e tutto il restante suo merito letterario, s’aveva in lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio. E fu stimato gran poeta, non già per l’Eneide, ch’oggi s’ammira, e si ristampa, ch’è scritta in istile e lingua propria del suo tempo, benchè abbellita al suo modo, e arricchita di latinismi. Questa fu opera postuma e non levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un sommo letterato perchè sapeva rimare alla Petrarchesca, e giudicar di tali pretese poesie. E la sua famosa Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi non s’arriva a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l’avrebbe scritta altrimenti. ( Caro, Apolog. p. 18.). E chi non sa l’inferno che cagionò in Italia, e come nella disputa di quell’impiccio petrarchesco ci prese parte tutta la nazion letterata, considerandola come affar di tutta la letteratura? Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate, non furono già ammirate nel 500 (quanto alla lingua). Ed è certo che la lingua del Caro, come l’immaginazione e l’ingegno di Dante, son venute principalmente in onore, e riposte nel sommo luogo che meritano, in questo e sulla fine del passato secolo. Il che, di Dante, si vede anche fra gli stranieri. E quanto a lui, ciò si deve al perfezionamento de’ lumi, e del gusto, e della filosofia, e della teoria dell’arti, e del sentimento del vero bello. Quanto al Caro, ciò viene in gran parte da circostanze materiali. 2. Le prose italiane ch’ebbero fama nel 500, l’ebbero per l’una di queste cagioni. 1o. Per essere scritte alla Boccaccevole (e quindi fuor dell’uso di quel secolo), come sono l’Arcadia del Sannazzaro nelle prose, le prose del Bembo, e tutte quelle del Casa, tolte le lettere. E notate che questi prosatori e i loro simili furono appunto i più stimati in quel secolo (al contrario del nostro), e dati per modello. Il che dimostra ad evidenza che il gusto del cinquecento nella lingua era quello ch’io dico, che s’apprezzava come elegante una lingua diversa dalla loro, e che sempre si disprezza la lingua attualmente corrente nella nazione, per bellissima ed ottima ch’ella sia. 2o. Per lo stile, per la imitazione de’ classici latini o greci indipendentemente dalla lingua. Questo studio era comune ai buoni prosatori (come anche poeti) del 500. Ed avendosi allora gran gusto e inclinazione per il classico, si stimavano e ricercavano le prose scritte nello stile e ad imitazione e colle forme degli antichi classici, benchè la lingua non piacesse gran fatto. E questa è una delle ragioni per cui si faceva conto anche delle lettere più familiari, e d’ogni bagattella, e schediasma, anche degli scrittori non celebri, con tutto che fossero scritte nella lingua del secolo, e si raccoglievano con diligenza che ora sarebbe ridicola, e si stampavano ec. benchè di niunissima importanza nelle cose. Perocchè quasi tutti, o certo moltissimi scrivevano allora in buono stile, essendo divulgatissimo lo studio de’ veri classici. Di più questo medesimo, benchè spettasse allo stile, pur essendo così strettamente uniti lo stile e la lingua, dava alle prose (come anche alle poesie) del 500. un sapor d’eleganza indipendente dalla lingua in se. 3o. Perchè molti (e questo fu vero e principal pregio del cinquecento, ed a cui fu dovuto il perfezionamento della nostra lingua) si studiavano anche di accostare e di modellare non solo lo stile, ma anche la lingua italiana, sulla latina e greca, in quanto lo potea comportare la sua natura. Questo fu comune alla massima parte de’ veri buoni scrittori del cinquecento, massime prosatori. E questo li rendeva eleganti anche presso i contemporanei. Ma questa eleganza veniva non da altro che dal pellegrino, (cioè dal latino e dal greco) benchè quegli scrittori volessero piuttosto perfezionare, accostare al latino o al greco, render classica la lingua del loro secolo, che quella del 300, parlassero, come facevano, e bene, più da 500isti, che da 300isti, più da moderni che da antichi italiani; usassero la lingua viva e non la morta, le parole moderne più che le antiche, e insomma innestassero il latino e il greco nella lingua del 500, e non del 300, e però l’eleganza loro non venisse dall’uso dell’antico italiano, nè dalla così detta purità, quantunque oggi per noi sieno purissimi. Ma tali non erano allora per li pedanti, i quali chiamavano corrotto e barbaro quel che non era del 300, proibivano il latinismo anche più di quello che facciano i pedanti oggidì, poichè s’ardivano di chiamar barbara ogni voce latina che non fosse stata usata dagli antichi, anzi dal Boccaccio o dal Petrarca, per convenientissima che fosse all’italiano, e anche nello stile, e nella composizione della dicitura, volevano piuttosto o quella del Boccaccio o del Petrarca o quella degl’ignoranti non iscrittori ma scrivani del 300, che quella de’ classici latini e greci. (V. le opposizioni del Castelvetro alla canzone del Caro, e l’Apol. del Caro). 4o. Si stimavano le prose (o le poesie) del 500, per le cose, per l’immaginazione, invenzione, concetti, sentenze, scoperte o dottrine scientifiche, ec. erudizione ec. ec. benchè la lingua non piacesse, essendo pur la pura e vera lingua corrente di quel secolo. Onde per noi tali scrittori riescono purissimi ed elegantissimi perchè antichi. Ma corrotti si stimavano allora, e negletti, e di niun conto in somma nella lingua. E la pura lingua del 500, quella che si dimostra pienamente nelle lettere familiari di quel secolo, scritte a penna corrente, e ch’è ricchissima potentissima ec. e per noi purissima ed elegantissima e spesso tanto più pura e graziosa quanto è più propria del secolo, e più naturale, si chiamava allora decisamente corrotta, e si deplorava, anche da’ veri letterati la degenerazione della lingua italiana, non per altro se non perchè non era più quella propriamente del 300, benchè dopo la corruzione del 400, fosse risorta più bella e potente di prima, il che affermo a chiunque ne conosca le intime qualità, e le vaste e riposte ricchezze e facoltà della propria lingua del 500. Lascio star che questa è regolata, e quella del 300 va dove e come vuole, e non se ne cava il costrutto, e per lo più bisogna indovinarne il senso. Del resto questi tali scrittori di lingua stimata allora cattiva e impura, e dispregiata, e condannata, s’apprezzavano anche allora per le cose, se in queste avevano merito, come accade proporzionatamente ai nostri moderni, indipendentemente dalla lingua, dalla purità e dall’eleganza. 5o. Ognuno de’ dialetti nazionali, fuori del suo distretto, è forestiero nella stessa nazione. Gran parte de’ cinquecentisti, toscani o no, prosatori o poeti, scrivevano, com’è noto, nel dialetto toscano, o se non altro n’infioravano i loro scritti. Con ciò erano stimati eleganti. Ma benchè scrivessero nel dialetto toscano del tempo loro, quest’eleganza, presso tutti i lettori non toscani, veniva anch’essa dal pellegrino. Ed anche presso i toscani veniva dal pellegrino, a causa che trasportandosi nelle scritture voci e modi popolari e perciò insoliti ad essere scritti, questi riuscivano straordinarii anche per li toscani, non in se ma nelle scritture. Ed ho spiegato altrove come anche la familiarità nello scrivere, e le voci e modi ordinari, riescano eleganti, non come ordinarii, anzi come straordinarii e pellegrini nella scrittura ordinata, studiata, civile ( Quello ch’altrove ho detto del modo che in greco si chiama la malattia, cioè debolezza ( Della vita e condizione d’Omero ogni cosa è nascosta. E pure in questa universale ignoranza, una tradizione antichissima ed universale e perpetua si mantiene, e tutti, che tutto ignorano intorno a lui, questo solo n’affermano ed hanno per certo, che fosse povero e misero. Così la fama non ha voluto che si dubiti, nè che resti nel puro termine di congettura che il primo e il sommo de’ poeti incontrasse la sorte comune di quelli che lo seguirono. Ed ha confermato coll’esempio dell’ Gli uomini semplici e naturali sono molto più dilettati e trovano molto più grazioso il colto, lo studiato e anche l’affettato che il semplice e il naturale. Per lo contrario non v’è qualità nè cosa più graziosa per gli uomini civili e colti che il semplice e il naturale, voci che nelle nostre lingue e ne’ nostri discorsi sono bene spesso sinonime di grazioso, e confuse con questa, come si confonde la grazia colla naturalezza e semplicità, credendo che sieno essenzialmente, e per natura, e per se stesse, qualità graziose. Nel che c’inganniamo. Grazioso non è altro che lo straordinario in quanto straordinario, appartenente al bello, dentro i termini della convenienza. Il troppo semplice non è grazioso. Troppo semplice sarà una cosa per li francesi, e non lo sarà per noi. Lo sarà anche per noi, e con tutto questo sarà ancora al di qua del naturale. (Tanto siamo lontani dalla natura, e tanto ella ci riesce straordinaria). Viceversa dico del civile rispetto ai selvaggi, naturali, incolti ec. Del resto possiamo vedere anche nelle nostre contadine che sono molto poco allettate dal semplice e dal naturale, o per lo meno sono tanto allettate dal nostro modo artefatto, quanto noi dalla loro naturalezza, o reale, o dipinta ne’ poemi ec. (4. Luglio 1822.). Le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero 1o. Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente si dipinge la vita e l’anima dell’uomo (e degli animali); e però quanto più son grandi, tanto maggiore apparisce realmente l’anima e la vitalità e la vita interna dell’animale. (Nè quest’apparenza è vana.) Per la qual cosa accade che la grandezza loro è piacevole ancorchè sproporzionata, indicando e dimostrando maggior quantità e misura di vita. 2o. Quanta parte di quella che si chiama bellezza e bruttezza umana sia indipendente ed aliena dalla convenienza, e quindi dalla propria teoria del bello. Giacchè, come accade nel nostro caso, anche quello ch’è sproporzionato e fuor della misura ordinaria, piace a causa dell’inclinazione ch’ha l’uomo alla vita, e si chiama bello. Ma di questo bello è cagione, non già la convenienza, ma la detta inclinazione e qualità umana indipendente dalla convenienza, e in dispetto della convenienza, e quindi del vero, proprio e preciso bello. (4. Luglio. 1822.). La quistione se il suicidio giovi o non giovi all’uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa, immutabile e perpetua che l’uomo in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove, il piacere è sempre futuro, e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev’essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev’esser certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors’anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire, (giacchè la natura e l’amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c’è più grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere) ma il godere essendo impossibile all’uomo, resta escluso necessariamente e per natura da tutta la quistione. E si conchiude ch’essendo all’uomo più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l’assoluto non essere giova e conviene all’uomo più dell’essere. E che l’essere nuoce precisamente all’uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl’istanti della nostra vita, in ciascuno de’ quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll’intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra mente. Effetto dell’amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni ch’egli fa considerandole sotto l’aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze. Che poi l’uomo debba esser certo di non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e dolori accidentali che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini, si dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che l’uomo dev’esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocchè l’assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente, e in ciascuno istante, per natura, per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella teoria del piacere): perocchè l’uomo e il vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicità, senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e l’infelicità non v’è condizione di mezzo. Quella è il fine necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell’animale. Non ottenendolo, l’animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti, nei quali desiderando il detto fine, ossia la felicità, infinitamente, come fa sempre, non l’ottiene e n’è privo, come lo è sempre. E però l’uomo dev’esser fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma istante, senza patire. E tutta la vita è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto di patimenti necessarii, e ciascuno istante che la compone è un patimento. Di più l’uomo dev’esser certo di provare in vita sua più o meno, maggiori o minori, ma certo gravi e non pochi di quei patimenti accidentali che si chiamano mali, dolori, sventure, o che provengono dai vari desiderii dell’uomo ec. E quando anche questi non dovessero comporre in tutto se non la menoma parte della sua vita, (com’è certo che ne comporranno la massima), essendo egli d’altra parte certissimo di passar tutta la vita senza un piacere, la quistione ritorna a’ suoi primi termini, cioè se essendo meglio il non patire che il patire, e non potendosi vivere senza patire, sia meglio il vivere o il non vivere. Un solo, anche menomo dolore riconosciuto per inevitabile nella vita, non avendo per controbilancio neppure un solo e menomo piacere, basta a far che l’essere noccia all’esistente, e che il non essere sia preferibile all’essere. Tutto questo essendo applicabile ad ogni genere di viventi in qualunque loro condizione (niuno de’ quali può esser felice, e quindi non essere infelice, e non patire) e d’altronde posando sopra principii e fondamenti quanto profondi altrettanto certissimi, e immobili, ed essendo esattissimamente ragionato e dedotto, e strettamente conseguente, serva a far conoscere la distruttiva natura della semplice ragione, della metafisica, e della dialettica, in virtù delle quali tutto il mondo vivente, dovrebb’esser perito, per volontà e per opera propria, poco dopo il suo nascere. (5. Luglio 1822.). Alla p. 2529. Finchè il giovane conserva della tenerezza verso se stesso, vale a dire che si ama di quel vivo e sensitivissimo e sensibilissimo amore ch’è naturale, e finchè non si getta via nel mondo, considerandosi, dirò quasi, come un altro, non fa mai nè può far altro che patire, e non gode mai un istante di bene e di piacere nell’uso e negli accidenti della vita sociale. (6. Luglio. 1822.). A goder della vita, è necessario uno stato di disperazione. Il grand’uso che gl’italiani (forse anche gli spagnuoli e i francesi) fanno della preposizione compositiva di o dis nel senso negativo (come disamore, disfavorire; e per apocope in questo e mill’altri casi, sfavorire; disutile, e mill’altre da formarsi anche a piacere: v. la Crusca), essendo molto poco e scarso nel latino scritto (come in Quanto gli uomini sieno allontanati dalla vera loro natura, dalle qualità e distintivi destinati alla loro specie, l’osservo anche nella gran differenza fisica che s’incontra fra gli uomini da individuo a individuo. Lascio i mostri, difettosi ec. dalla nascita, o dopo la nascita, che sono infiniti presso gli uomini; e fra qualunque genere d’animali appena se ne troverà uno per mille dei nostri, in proporzione della numerosità della specie: anche escludendo affatto quelli che tra gli uomini hanno contratto imperfezioni fisiche, per cause accidentali, visibili, e se non facili, almeno possibili ad evitarsi. Lascio gli Etiopi, gli Americani che non avevano barba, certe differenze di costruzione negli Ottentotti, i Patagoni (se ve n’ha), i Lapponi ( che forse nascono e vivono in un clima non destinato dalla natura alla specie umana , come a tante altre specie d’animali, piante ec. ha negato questo o quel clima, o paese ec. o tutti i climi e paesi, fuorchè un solo.). Tutto ciò si potrà considerare come differenze delle varie specie tra loro, dentro uno stesso genere, nel modo che p. e. il genere dei cani ha diversissime specie, e diverse o in uno stesso clima, e paese, o in diversi climi destinati a tale o tal altra di esse ec. Ma che in un medesimo clima, in un medesimo paese, da due medesimi genitori, nascano dei figli così differenti fisicamente, come accade tra gli uomini, che di due concittadini, di due fratelli, l’uno sarà p. e. di statura gigantesca, e di temperamento robustissimo, l’altro fiacchissimo e piccolissimo; e che questo accada indipendentemente da ogni causa visibile, o accidentale, o amovibile; che accada nonostante una medesimissima educazione ed esercizio fisico; che accada e resti manifestamente determinato fin dalla nascita dell’uno e dell’altro: questo, dico io, in qual altra specie d’animali si trova? Specie, dico, e non genere, perchè p. e. diverse specie di cani sono diversissime di grandezza, ma non così gl’individui di ciascuna d’esse specie fra se stessi, neppur pigliandoli da diverse famiglie, da diverse patrie, da diversi paesi, da diversi climi. E fermandomi e ristringendomi alla differenza che passa fra le proporzioni fisiche degl’individui umani, io dico che i due estremi di questa differenza sono così lontani, che niun’altra specie d’animali, considerata nelle stesse circostanze di famiglia, patria, clima ec. offre di grandissima lunga due individui così differenti di grandezza come sono gl’individui umani tutto giorno, e massimamente pigliandoli da’ due sopraddetti estremi. Certo è che la natura a ciascuna specie d’animali (come anche di piante ec.) ha assegnato certe proporzioni nè tanto strette che l’uno individuo sia precisamente della misura dell’altro, nè tanto larghe che non si possa quasi definir nemmeno lassamente la grandezza propria degl’individui di quella specie. Ora di qualunque specie d’animali vi discorra un naturalista, ve ne dirà presso a poco la grandezza, e qualunque individuo voi ne veggiate, corrisponderà, o si discosterà poco da quella, e in somma la misura della grandezza sarà sempre per voi una qualità distintiva di quella specie d’animali, e pigliandola a un dipresso, (tanto più a un dipresso quanto la loro grandezza specifica è maggiore assolutamente) non t’ingannerà mai. Poniamo anche caso che d’una specie tu non abbia veduto se non un solo individuo, e che questo sia l’estremo o della grandezza o della piccolezza della specie. Ancorchè tu ti formi l’idea della grandezza di quella specie sopra quel solo individuo, vedendone poi degli altri, non ti trovi ingannato gran cosa, nè sproporzionatamente lontano dalla tua idea, nè per causa della differente grandezza (purchè siano in fatto della medesima specie), ti accade di non riconoscerli per individui di quella tale specie, o di dubitare che non lo sieno. E ciò quando anche fossero gli estremi contrari del primo individuo da te veduto.—— Questo pensiero, considerate ben le cose, trovo che non è vero, e però lo lascio a mezzo. La differenza delle proporzioni fisiche tra gl’individui umani, ci par maggiore che nell’altre cose, per le ragioni ch’ho detto altrove. Ma in realtà non è maggiore nè sproporzionata relativamente, e n’esiste altrettanta fra gli altri individui animali, in proporzione della loro maggiore o minor grandezza specifica, e parlando sempre, come si deve, a un dipresso: benchè in essi animali non ci dia così nell’occhio e non ci paia tanta. Ma colla misura facilmente si scopre che la detta differenza negli animali è maggiore, e negli uomini è minore ch’a noi non sembra. (9-10. Luglio 1822.). L’uomo non è perfettibile ma corrottibile. Non è più perfettibile ma più corrottibile degli altri animali. È ridicolo, ma contuttociò è naturale, che la nostra corrottibilità, e degenerabilità, e depravabilità, sia stata presa, e si prenda a tutta bocca da’ più grandi e sottili e perspicaci e avveduti ingegni e filosofi per perfettibilità. (10. Luglio 1822.). Per lo più noi riconosciamo alla sola voce anche senza vederle le persone da noi conosciute, per moltiplici che siano le nostre conoscenze, per minima che sia la diversità di tale o tal altra voce da un’altra, per pochissimo che noi abbiamo praticata quella tal persona, o praticatala pure una sola volta. Non così ci accade nelle voci degli animali, nelle quali, neppure avvertitamente pensandoci, sappiamo riconoscer differenza tra molti individui d’una stessa specie, o riconosciutane, non ci resta in mente. Anche, con difficoltà riconosciamo le voci, p. e. in paese forestiero di lingua, o dialetto, pronunzia ec., e le confondiamo spesso; almeno a principio. L’ho osservato in me. Effetti dell’assuefazione, dell’attenzione parziale e minuta ec. da riferirsi a quei pensieri dove ho portato altri esempi simili. (11. Luglio. 1822.). Noi abbiamo oscuro da Ho notato, mi pare, in Floro, il È egli possibile che nella morte v’abbia niente di vivo? anzi ch’ella sia un non so che di vivo per natura sua? come dunque credere che la morte rechi, e sia essa stessa, e non possa non recare un dolor vivissimo?
Quando tutti i sentimenti vitali, e soli capaci del dolore o del piacere, sono non solamente intorpiditi come nel sonno o nell’asfissia ec. (ne’ quali casi ancora, le punture, i bottoni di fuoco ec. o non danno dolore, o ne danno meno dell’ordinario, in proporzione dell’intorpidimento, della gravezza p. e. del sonno, ch’è minore o maggiore, com’è somma nell’ubbriaco) ma anzi il meno vitali, il meno suscettibili e vivi che si possa mai pensare, essendo quello il punto in cui si spengono per sempre, e lasciano d’esser sentimenti. Il punto in cui la capacità di sentir dolore s’estingue interamente, ha da esser un punto di sommo dolore? Anzi non può esser nemmeno di dolore comunque, non potendosi concepir l’idea del dolore, se non come di una cosa viva, e il vivo è inseparabile dal dolore, essendo questo un irritamento, un Una macchina dilicata (cioè più diligentemente e perfettamente organizzata) è più facile a guastarsi che una rozza: ma ciò non toglie che la non sia più perfetta di questa, e che andando come deve andare non vada meglio della rozza, supponendole anche tutt’e due in uno stesso genere, come due orologi. Così l’uomo è più dilicato assai di tutti gli altri animali, sì nella costruzione esterna, sì nelle fibre intellettuali. E perciò egli è senza dubbio il più perfetto nella scala degli animali. Ma ciò non prova ch’egli sia più perfettibile; bensì più guastabile, appunto perchè più delicato. E d’altra parte l’esser più facile a guastarsi, non toglie che non sia veramente la più perfetta delle creature terrestri, come ogni cosa lo dimostra. (18. Luglio. 1822.). Tutto è arte, e tutto fa l’arte fra gli uomini. Galanteria, commercio civile, cura de’ propri negozi o degli altrui, carriere pubbliche, amministrazione politica interiore ed esteriore, letteratura; in tutte queste cose, e s’altre ve ne sono, riesce meglio chi v’adopra più arte. In letteratura, (lasciando stare quel che spetta alla politica letteraria, e al modo di governarsi col mondo letterato) colui che scrive con più arte i suoi pensieri, è sempre quello che trionfa, e che meglio arriva all’immortalità, sieno pure i suoi pensieri di poco conto, e sieno pure importantissimi e originalissimi quelli d’un altro che non abbia sufficiente arte nello scrivere: il quale non riuscirà mai a farsi nome, e ad esser letto con piacere, e nemmeno a far valutare, e pigliare in considerazione e studio i suoi pensieri. La natura ha certamente la sua parte, e la sua gran forza; ma quanta sia la parte e la forza della natura in tutte queste cose, rispettivamente a quella dell’arte, mi pare che dopo le gran dispute che se ne son fatte, si possa determinare in questo modo, e precisare in questi termini. Supposto in due persone ugual grado d’arte, quella ch’è superiore per natura, riesce certamente meglio dell’altra nelle sue imprese. Datemi due persone che sappiano ugualmente scrivere. Quella che ha più genio, sicuramente trionfa nel giudizio de’ posteri e della verità. Datemi due galanti egualmente bravi nel mestier loro. Quello ch’è più bello (in parità d’altre circostanze, come ricchezza, fortuna d’ogni genere, comodità ed occasioni particolari ec.) soverchia sicuramente l’altro. Ma ponete un uomo bellissimo senz’arte di trattar le donne; un gran genio senza scienza o pratica dello scrivere; e dall’altra parte un bruttissimo bene ammaestrato e pratico della galanteria, un uomo freddissimo bene istruito ed esercitato nella maniera d’esporre i propri pensieri, questi due si godranno le donne e la gloria, e quegli altri due staranno indubitatamente a vedere. Dal che si deduce che in ultima analisi la forza dell’arte nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della natura. Lucano era forse maggior genio di Virgilio, nè perciò resta che sia stato maggior poeta, e riuscito meglio nella sua impresa; anzi che veruno lo stimi nemmeno paragonabile a Virgilio. Queste considerazioni debbono determinare secondo me la parte che ha la natura in quello che si chiama talento, cioè quanto v’abbia di naturale e d’innato nelle facoltà intellettuali di qualunque individuo. Sebbene il talento si consideri come cosa affatto naturale, non è di gran lunga così, come ho mostrato altrove. Ma non è nemmen vero ch’egli sia tutto effetto delle circostanze e assuefazioni acquisite: come si dimostra cogli esempi e comparazioni precedenti. Certo è bensì che di due talenti uguali per natura, ma l’uno coltivato e l’altro non coltivato, quello si chiama talento, e questo neppur si chiama così, non che sia messo al paro di quello. Dal che di nuovo s’inferisce che la maggior parte del talento umano, e delle facoltà intellettuali è opera delle assuefazioni, e non della natura, è acquisita e non innata; benchè non si fosse potuta acquistare in quel grado senza possedere primitivamente quell’altra minor parte, o sia disposizione naturale, e assuefabilità, suscettibilità, conformabilità. (19. Luglio. 1822.). Dire che la lingua latina è figlia della greca, perchè vi si trovano molte parole e modi greci introdottivi parte dalla letteratura, parte dal commercio e vicinanza delle colonie greco-italiane, parte dall’antico commercio avuto colla nazione greca sempre mercatrice, parte derivanti dalla stessa comune origine d’ambe le lingue, è lo stesso appunto che vedendo la nostra presente lingua italiana piena di francesismi, e modellata sulla francese, conchiudere che la lingua italiana è figlia della francese. Anzi v’ha più di francese nella presente lingua italiana (che è quasi una traduzione, e una scimia della francese) di quel che v’abbia di greco nella lingua latina, massime poi dell’antica. Del resto la parità va molto bene a proposito, perchè infatti le lingue italiana e francese sono appunto sorelle, come la greca e la latina. (20. Luglio 1822.). Omero è il padre e il perpetuo principe di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità di padre e principe non si riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun’altra arte o scienza umana. Di più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque altra arte o scienza, se ne può con questa sicurezza, cagionata dall’esperienza di tanti secoli, chiamar principe perpetuo. Tale è la natura della poesia ch’ella sia somma nel cominciare. Dico somma e inarrivabile in appresso in quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia, non in quanto allo stile ec. ec. Esempio ripetuto in Dante, che in quanto poeta, non ebbe nè avrà mai pari fra gl’italiani. (21. Luglio 1822.). Non c’è virtù in un popolo senz’amor patrio, come ho dimostrato altrove. Vogliono che basti la Religione. I tempi barbari, bassi ec. erano religiosi fino alla superstizione, e la virtù dov’era? Se per religione intendono la pratica della medesima, vengono a dire che non c’è virtù senza virtù. Chi è religioso in pratica, è virtuoso. Se intendono la teorica, e la speranza e il timore delle cose di là, l’esperienza di tutti i tempi dimostra che questa non basta a fare un popolo attualmente e praticamente virtuoso. L’uomo, e specialmente la moltitudine non è fisicamente capace di uno stato continuo di riflessione. Or quello ch’è lontano, quello che non si vede, quello che dee venir dopo la morte, dalla quale ciascuno naturalmente si figura d’esser lontanissimo, non può fortemente costantemente ed efficacemente influire sulle azioni e sulla vita, se non di chi tutto giorno riflettesse. Appena l’uomo entra nel mondo, anzi appena egli esce dal suo interno (nel quale il più degli uomini non entra mai, e ciò per natura propria) le cose che influiscono su di lui, sono le presenti, le sensibili, o quelle le cui immagini sono suscitate e fomentate dalle cose in qualunque modo sensibili: non già le cose, che oltre all’esser lontane, appartengono ad uno stato di natura diversa dalla nostra presente, cioè al nostro stato dopo la morte, e quindi, vivendo noi necessariamente fra la materia, e fra questa presente natura, appena le sappiamo considerare come esistenti, giacchè non hanno che far punto con niente di quello la cui esistenza sperimentiamo, e trattiamo, e sentiamo ec. La conchiusione è che tolta alla virtù una ragione presente, o vicina, e sensibile, e tuttogiorno posta dinanzi a noi; tolta dico questa ragione alla virtù (la qual ragione, come ho provato, non può esser che l’amor patrio), è tolta anche la virtù: e la ragione lontana, insensibile, e soprattutto, estrinseca affatto alla natura della vita presente, e delle cose in cui la virtù si deve esercitare, questa ragione, dico, non sarà mai sufficiente all’attuale e pratica virtù dell’uomo, e molto meno della moltitudine, se non forse ne’ primi anni, in cui dura il fervore della nuova opinione, come nel primo secolo del Cristianesimo (corrotto già nel secondo. V. i SS. Padri.) (21. Luglio 1822.). Alla p. 2558. Anche gli spagnuoli hanno la particella compositiva des corrispondente al nostro dis, ed è fra loro frequentissima. Queste spesso significano cessazione, come La lingua latina ebbe un modello d’altra lingua regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non n’ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L’aver avuto un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina fosse più perfetta della greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno dico delle letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta, quella più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar la dialettica, e l’ordine ragionato all’orazione. Non avevano alcun esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com’è naturale a chiunque incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla dialettica e dall’ordine ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e confermate nell’uso dello scrivere, sanzionate dall’autorità, e dallo stesso errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà della lingua greca. Così è accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch’ella fu molto e da molti scritta nel 300, secolo d’ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a quegli scrittori, presi in corpo e in massa, e farli seguire da’ posteri. I greci o non avevano affatto alcuna lingua coltivata a cui guardare, o se ve n’era, era molto lontana da loro, come forse la sascrita, l’egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai loro più dotti. Gl’italiani n’avevano, cioè la latina e la greca. Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo la latina, massime la latina buona e regolata. (Fors’anche molti conoscendo passabilmente il latino, e fors’anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che tutto dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti delle cose ec.) Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero con ordine più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F. Bartolommeo, Cavalca ec. Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e vero latino, meno di tutti aberrarono dall’ordine dialettico dell’orazione. Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a’ loro scrittori contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di professione laici e illetterati, e che non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d’ogni sorta. Di tali aberrazioni n’hanno tutte le lingue quando si cominciano a scrivere, e tutte nel séguito ne conservano più o meno, sotto il nome di proprietà loro, benchè non sieno in origine e in sostanza, se non errori de’ loro primi scrittori e letterati, perpetuati nell’uso della scrittura nazionale. Meno d’ogni altra fra le antiche, n’ebbe o ne conservò la lingua latina, per la detta ragione, fra l’altre. Meno di tutte fra l’antiche e le moderne, ne conserva la lingua francese, non per altro se non perch’ella ha rinunziato e derogato e fatta assolutamente irrita l’autorità de’ suoi scrittori antichi, i quali abbondarono di tali aberrazioni o quanto gli altri, o più ancora. Parlo dei veramente antichi, cioè del sec. 160. e non del 170. quando lo spirito, la società e la conversazione francese era già in un alto grado di perfezione. La ricchezza, il numero e l’estensione, ampiezza ec. delle facoltà di una lingua, è per lo più in proporzione del numero degli scrittori che la coltivarono prima delle regole esatte, della grammatica, e della formazione del Vocabolario. La lingua francese che ha rinunziato all’autorità di tutti gli scrittori propri anteriori alla sua grammatica e al suo Vocabolario (ch’erano anche pochi e di poco conto, e perciò hanno potuto essere scartati), è la meno ricca, e le sue facoltà son più ristrette che non son quelle di qualunqu’altra lingua del mondo. V. p. 2592. (25. Luglio, dì di S. Giacomo, 1822.). Il piacere che noi proviamo della Satira, della commedia satirica, della Adesso chi nasce grande, nasce infelice. Non così anticamente, quando il mondo abbondava e di pascolo (cioè di spettacolo e trattenimento), e di esercizio, e di fini, e di premi all’anime grandi. Anzi a quei tempi era fortuna il nascer grande come oggi il nascer nobile e ricco. Perocchè siccome nella monarchia quelli che nascono di grande e ricca famiglia, ricevono le dignità, gli onori, le cariche dalla mano dell’ostetrice (per servirmi di un’espressione di Frontone ad Ver. l. 2. ep. 4. p. 121.), così nè più nè meno accadeva anticamente ai grandi e magnanimi e valorosi ingegni. I quali nelle circostanze, nell’attività e nell’immensa vita di quei tempi, non potevano mancare di svilupparsi, coltivarsi e formarsi; e sviluppati, formati e coltivati non potevano mancar di prevalere e primeggiare; come oggidì possono esser certi di tutto il contrario. Lascio che quanto gli animi erano più grandi, tanto meglio erano disposti a godere della vita, la quale in quei tempi non mancava, e di tanto maggior vita erano capaci, e quindi di tanto maggior godimento; e perciò ancora era da riputarsi a vera fortuna e privilegio della natura il nascer grand’uomo, e s’aveva a considerare come un effettivo e realizzabilissimo mezzo di felicità: all’opposto di quello che oggi interviene. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1822.). Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi s’incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all’intelletto e alla concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all’animo nostro disgiunto dal corpo. (27. Luglio. 1822.). Ho paragonato altrove gli organi intellettuali dell’uomo agli esteriori, e particolarmente alla mano, e dimostrato che siccome questa non ha da natura veruna facoltà (anzi da principio è inetta alle operazioni più facili e giornaliere), così niuna ne portano gli organi intellettuali, ma solamente la disposizione o possibilità di conseguirne, e questa più o meno secondo gl’individui. Nello stesso modo io non dubito che se meglio si ponesse mente, si troverebbero anche negli organi esteriori dell’uomo, p. e. nella mano, molte differenze di capacità, non solo relativamente alle diverse assuefazioni, e al maggiore o minore esercizio di detto organo, ma naturalmente, e indipendentemente da ogni cosa acquisita; come accade negl’ingegni, che per natura sono qual più qual meno conformabili, e disposti ad assuefarsi, cioè ad imparare. E forse a queste differenze si vuole attribuire l’eccessiva e maravigliosa inabilità di alcuni che non riescono (anche provandosi) a saper far colle loro mani quello che il più degli uomini fanno tuttogiorno senza pure attendervi nè anche pensarvi; e l’altrettanto mirabile facilità ch’altri hanno d’imparare senza studio, e d’eseguire speditissimamente le più difficili operazioni manuali, che il più degli uomini o non sanno fare, o non fanno se non adagio, e con attenzione. Vero è che si trova molto minor differenza individuale fra la capacità generica della mano di questo o di quello, che fra la capacità de’ vari ingegni. Ma questo nasce che tutti in un modo o nell’altro esercitano la mano, e quindi le danno e proccurano una certa abilità e assuefabilità generale: non così l’ingegno. Ed è molto maggiore, generalmente parlando, il divario che passa fra l’esercizio de’ diversi ingegni, che fra l’esercizio della mano de’ diversi individui. Divario che non è naturale, e non ha che far colle disposizioni native di tali organi. (28. Luglio. Domenica 1822.). È frequentissimo e amplissimo nell’Italiano o nello Spagnuolo l’uso della voce termine nel suo plurale massimamente, la quale piglia diversi significati, secondo ch’ell’è applicata. (Questi per lo più importano condizione, stato, essere sustantivo o cosa simile.) Vedi la Crus. Non così nel latino scritto, dov’essa voce non ha che la forza di confine o limite ec. Pur vedi presso il Forcell. nell’ultimo esempio di questa voce, ch’è di Plauto, una frase tutta italiana e spagnuola, la qual può dimostrare che detta voce nel volgare latino avesse o tutti o in parte quegli usi appunto ch’ell’ha nelle dette lingue. V. Du Cange, s’ha nulla. V. anche l’Alberti Diz. franc. A un giovane il quale essendo innamorato degli studi, diceva che della maniera di vivere, e della scienza pratica degli uomini se n’imparano cento carte il giorno, rispose N. N. ma il libro (ma gli è un libro) è da 15 o 20 milioni di carte . (30. Luglio 1822.). Da Da quello che altrove ho detto de’ numeri ec. si deduce che gli animali, non avendo lingua, non sono capaci di concepir quantità determinata ec. se non menoma, e ciò non per difetto di ragione, e insufficienza e scarsezza d’intendimento, ma per la detta necessarissima causa. (30. Luglio 1822.). Onde l’idea della quantità determinata (benchè cosa materialissima) è esclusivamente propria dell’uomo. La letteratura greca fu per lungo tempo (anzi lunghissimo) l’unica del mondo (allora ben noto): e la latina (quand’ella sorse) naturalissimamente non fu degnata dai greci, essendo ella derivata in tutto dalla greca; e molto meno fu da essi imitata. Come appunto i francesi poco degnano di conoscere e neppur pensano d’imitare la letteratura russa o svedese, o l’inglese del tempo d’Anna, tutte nate dalla loro. Così anche, la lingua greca fu l’unica formata e colta nel mondo allora ben conosciuto (giacchè p. e. l’India non era ben conosciuta). Queste ragioni fecero naturalmente che la letteratura e lingua greca si conservassero tanto tempo incorrotte, che d’altrettanta durata non si conosce altro esempio. Quanto alla lingua n’ho già detto altrove. Quanto alla letteratura, lasciando stare Omero, è prodigiosa la durata della letteratura greca non solo incorrotta, ma nello stato di creatrice. Da Pindaro, Erodoto, Anacreonte, Saffo, Mimnermo, gli altri lirici ec. ella dura senza interruzione fino a Demostene; se non che, dal tempo di Tucidide a Demostene, ella si restringe alla sola Atene per circostanze ch’ora non accade esporre. V. Velleio lib.1. fine. Nati, anzi propagati e adulti i sofisti e cominciata la letteratura greca (non la lingua) a degenerare, (massime per la perdita della libertà, da Alessandro, cioè da Demostene in poi), ella con pochissimo intervallo risorge in Sicilia e in Egitto, e ancora quasi in istato di creatrice. Teocrito, Callimaco, Apollonio Rodio ec. Finito il suo stato di creatrice, e dichiaratasi la letteratura greca imitatrice e figlia di se stessa, cioè ridotta (come sempre a lungo andare interviene) allo studio e imitazione de’ suoi propri classici antichi, l’esser questi classici, suoi, e questa imitazione, di se stessa, la preserva dalla corruzione, e purissimi di stile e di lingua riescono Dionigi Alicarnasseo, Polibio, e tutta la La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente umana. (
Intorno all’etimologia di favellare. L’altre due voci sono favellare e cicalare: l’una si è dir favole; e cicalare si è il cigolare degli uccelli . Cellini Discorso sopra la differenza nata tra gli Scultori e Pittori circa il luogo destro stato dato alla Pittura nelle Essequie del gran Michelagnolo Bonarroti. fine. Opere di Benvenuto Cellini, Mil. 1806-11. vol. 3. p. 261. Parla di tre voci che s’usano in lingua toscana per esprimere il parlare, e la prima detta dal Cellini si è ragionare, il che egli dice che vuol fare, e non favellare nè cicalare. (2. Agosto, dì del perdono. 1822.). Le stelle, i pianeti ec. si chiamano più o men belle, secondo che sono più o meno lucide. Così il sole e la luna secondo che son chiari e nitidi. Questa così detta bellezza non appartiene alla speculazione del bello, e vuol dir solamente che il lucido, per natura, è dilettevole all’occhio nostro, e rallegra l’animo ec. ec. (3. Agosto. 1822.). Alla p. 2581. marg. Fra le lingue antiche, la greca non solo ebbe infiniti scrittori prima della sua grammatica, ma prima ancora d’ogni grammatica conosciuta. Quindi la sua inesauribile ricchezza, e la sua assoluta onnipotenza. La lingua latina per verità non dico che avesse Vocabolari (sebbene ebbe forse parecchie nomenclature ec. come la greca col tempo ebbe i suoi libri detti Ho detto altrove che le voci greche nelle lingue nostre non sono altro che termini (in proporzione però del tempo da ch’elle vi sono introdotte: p. e. filosofia e tali altre voci greche venuteci mediante il latino, sono alquanto più che termini), cioè ch’elle non esprimono se non se una pura idea, senz’alcun’altra concomitante. Per questa ragione appunto, oltre le altre notate altrove, le voci greche sono infinitamente a proposito nelle nostre scuole e scienze, perocch’elle rappresentano costantemente e schiettamente quella nuda, secca e semplicissima idea alla quale sono state appropriate; e perciò servono alla precisione molto meglio di quello che possano mai fare le voci tolte dalle proprie lingue, le quali voci benchè fossero formate, composte ec. di nuovo, sempre porterebbero seco qualche idea concomitante. Ma per questa medesima ragione le voci greche sono intollerabili nella bella letteratura (barbare poi nella poesia, benchè i francesi si facciano un pregio, un vezzo e una galanteria d’introdurcele), dove intollerabili sono le idee secche e nude, o la secca e nuda espressione delle idee. (6. Agosto 1822.). A ciò che ho detto altrove di quel verso dell’Alfieri, Disinventore od inventor del nulla , soggiungi. Quest’appunto è la mirabile facoltà della lingua greca, ch’ella esprime facilmente, senza sforzo, senza affettazione, pienamente e chiarissimamente, in una sola parola, idee che l’altre lingue talvolta non possono propriamente e interamente esprimere in nessun modo, non solo in una parola, ma nè anche in più d’una. E questo non lo conseguisce la detta lingua per altro mezzo che della immensa facoltà de’ composti. Quanta sia l’influenza dell’opinione e dell’assuefazione anche sui sensi, l’ho notato altrove coll’esempio del gusto, che pur sembra uno de’ sensi più difficili ad essere influiti da altro che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi ricordo molto bene che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch’essi s’avessero) m’era lodato per buono da chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose, ch’effettivamente secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi piacciono, ma mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti cibi s’è mutato a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente mia s’è avvezzata a giudicar da se, e s’è venuta rendendo indipendente dal giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la sensazione. La qual assuefazione ch’è propria dell’uomo, e ch’è generalissima, potrà essere ridicolo, ma pur è verissimo il dire che influisce anche in queste minuzie, e determina il giudizio del palato sulle sensazioni che se gli offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva essere prima della detta assuefazione. In somma tutto nell’uomo ha bisogno di formarsi; anche il palato: ed è cosa facilissimamente osservabile che il giudizio de’ fanciulli sui sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente al gusto, è incertissimo, confusissimo e imperfettissimo: e ch’essi in moltissimi, anzi nel più de’ casi non provano punto nè il piacere che gli uomini fatti provano nel gustare tale o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio i villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch’essi ne provano) è poco meno imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa dell’inesercizio del palato. Del resto quello ch’io ho detto di me stesso, avviene indubitatamente a tutti, e ciascuno se ne potrà ricordare. Perchè sebbene non tutti, col crescere, si liberano dall’influenza della prevenzione, e acquistano l’abito di giudicare da se generalmente parlando, pure, in quanto alle sensazioni materiali, difficilmente possono mancare di acquistarlo, essendo cosa di cui tutti gli spiriti sono capaci. Nondimeno anche questo va in proporzione degl’ingegni, e della maggiore o minore conformabilità, ed io ho espressamente veduto uomini di poco, o poco esercitato talento, durar lunghissimo tempo a compiacersi di saporacci e alimentacci ai quali erano stati inclinati nella fanciullezza. E ho veduto pochi uomini il cui spirito dalla fanciullezza in poi abbia fatto notabile progresso, pochi, dico, n’ho veduti, che anche intorno ai cibi non fossero mutati quasi interamente di gusto da quel ch’erano stati nella puerizia. Ben potrebbono tuttavia esser poco conformabili i sensi esteriori, o qualcuno de’ medesimi, in un uomo di conformabilissimo ingegno. Ma si vede in realtà che questo accade di rado, e per lo più la natura degli individui (come quella delle specie, e dei generi, e come la natura universale) si corrisponde appresso a poco in ciascuna sua parte. E in questo caso particolarmente ciò è ben naturale, poichè la conformabilità non è altro che maggiore o minor dilicatezza di organi e di costruzione; e difficilmente si trovano affatto rozzi, duri, non pieghevoli i tali o tali organi in un individuo che sia dilicatamente formato nell’altre sue parti. Come infatti è osservato da’ fisici che l’uomo (della cui suprema conformabilità di mente diciamo altrove) è parimente di tutti gli animali il più abituabile, e il più conformabile nel fisico: però il genere umano vive in tutti i climi, e uno individuo medesimo in vari climi ec. a differenza degli altri animali, piante ec. Così mi faceva osservare in Firenze il Conte Paoli. (6. Agosto. 1822.). L’uniformità è certa cagione di noia. L’uniformità è noia, e la noia uniformità. D’uniformità vi sono moltissime specie. V’è anche l’uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho detto altrove, e provatolo con esempi. V’è la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa, benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a continue descrizioni, hanno tolto il piacere, e sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone di niuna letteratura, leggere avidamente l’Eneide (ridotta nella loro lingua) la qual par che non possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri le Metamorfosi, che pur paiono scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è sazietà, della cetra, del sonno ec. La continuità de’ piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai piaceri, anch’essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de’ piaceri (qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità degli animali. Quindi ell’ha dovuto allontanare e vietare agli animali la continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto parecchie volte come la Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in quell’orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza di beni nell’ordine generale della natura: massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di noia per se, come ho provato altrove, e di più non interrompono il piacere, e quindi non distruggono l’uniformità, così vivamente e pienamente come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent’altri mali inevitabili ai viventi, anche nello stato primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e l’università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto 1822.).
[2602 - 2800]Ho mostrato altrove che quasi tutte le principali scoperte che servono alla vita civile sono state opera del caso, e tiratone le sue conseguenze. Voglio ora spiegare e confermar la cosa con un esempio. L’arte di fare il vetro, anzi l’idea di farlo, e la pura cognizione di poterlo fare (la qual arte è antichissima), è egli credibile che sia mai potuta venire all’uomo per via di ragionamento? Cavar dalle ceneri, e altre materie la cui specie esteriore è E che queste ed altre simili innumerevoli scoperte sieno state veri casi, si può arguire anche dal vedere che moltissimi popoli composti di esseri che per natura, ingegno naturale, ec. erano e sono in tutto come noi, non essendosi dati presso loro, i casi che si son dati presso noi, mancavano o mancano affatto di queste o quelle invenzioni e di tutti i progressi dello spirito umano che ne son derivati: e ciò quando anche detti popoli fossero in molta società, ed avessero fatto molte altre scoperte, quali erano p. e. in America i Messicani, popolo in gran parte civile, che non per tanto mancava appunto del vetro. Di più osservo che quantunque la Chimica abbia fatto oggidì tanti progressi, e sia così dichiarata e distinta ne’ suoi principii, in maniera da parere ch’ella potesse e dovesse far grandi scoperte, non più attribuibili al caso, ma solo al ragionamento; niuna mai ne ha fatta che abbia di grandissima lunga l’importanza e l’influenza di quelle che ci son venute dagli antichi, fatte in tempi d’ignoranza, e senza principii, o con pochissimi e indigesti e mal intesi principii delle analoghe scienze (la scoperta della polvere, del vetro ec.) Tutto quel ch’ha fatto è stato di perfezionar le antiche, o di farne delle analoghe (come quella della polvere fulminante) che non si sarebbero fatte se le antiche non fossero state già conosciute. E quel che dico della Chimica dico delle altre scienze. Voglio inferire che quelle principali scoperte che o subito, o col perfezionamento, accrescimento, applicazione ch’hanno poi subìto, decisero e decidono, cagionarono e cagionano in gran parte i progressi dello spirito umano, originariamente non sono effetti della scienza nè del discorso, ma del puro caso, essendo state fatte ne’ tempi d’ignoranza, e non sapendosene far di gran lunga delle simili colla maggior possibile scienza. E che per tanto tutta quella parte del sapere e della civiltà, tutto quel preteso perfezionamento dell’uomo e della società che dipende in qualunque modo dalle predette scoperte (la qual parte è grandissima anzi massima), non è stato nè preordinato nè prevoluto dalla natura, perchè quegli che non ha preordinato nè prevoluto le cause e le prime indispensabili origini (le quali, come dico, sono state assolutamente accidentali), non può avere ordinato nè voluto gli effetti. (10. Agosto, dì di S. Lorenzo. 1822.). Quello che ho detto del vetro, si dee dire di mille e mille altre importantissime invenzioni, che senza una benchè menoma notizia e traccia ec. che però il solo caso ha potuto somministrare, non si sarebbero mai potute fare, e però son tutte casuali, per applicate, accresciute, perfezionate che sieno state in seguito, e quando anche non si possano più riconoscere da quel che furono a principio, non si possa neanche investigare la loro prima origine e forma e natura, ec. ec. (10. Agosto. 1822.). Così tosto come il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà. E l’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocchè i dolori e i mali e le passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! perchè dunque nasce l’uomo? e perchè genera? per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo essere stati generati? (13. Agosto 1822.). Si può scrivere in italiano senza scrivere in maniera italiana, laddove non si può quasi scrivere in francese che non si scriva alla maniera francese. E si può scrivere e parlare in italiano e non all’italiana: scrivere un italiano non italiano ec. (16. Agosto, dì di S. Rocco. 1822.). Sallustio, Catil. c. 23. La nazione spagnuola poetichissima per natura e per clima fra tutte l’Europee (non agguagliata in ciò che dall’Italia e dalla Grecia), e fornita di lingua poetichissima fra le lingue perfette (non inferiore in detta qualità se non all’italiana, e non agguagliata di gran lunga da nessun’altra) non ha mai prodotto un poeta nè un poema che sia o sia stato di celebrità veramente europea. Tanto prevagliono le istituzioni politiche alle qualità naturali. L’immenso francesismo che inonda i costumi e la letteratura e la lingua degl’italiani e degli altri europei, non è bevuto se non dai libri francesi, e dall’influenza delle loro mode, e coll’andarli a trovare in casa loro, il che per quanto sia frequente, non può mai esser gran cosa. Laddove Roma e l’Italia da’ tempi del secondo Scipione in poi, e massime sotto i primi imperatori, era piena di greci (greci proprii, o nativi d’altri paesi grecizzati); n’eran piene le case de’ nobili, dove i greci erano chiamati e ricevuti e collocati stabilmente in ogni genere di uffici, da quei della cucina, fino a quello di maestro di filosofia ec. ec. (V. Luciano Dicasi quel che si vuole. Non si può esser grandi se non pensando e operando contro ragione, e in quanto si pensa e opera contro ragione, e avendo la forza di vincere la propria riflessione, o di lasciarla superare dall’entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in essa un ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e raffreddatrice. (22. Agosto 1822.). Nessuna cosa è vergognosa per l’uomo di spirito nè capace di farlo vergognare, e provare il dispiacevole sentimento di questa passione, se non solamente il vergognarsi e l’arrossire. (22. Agosto. 1822.). Non basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: e in ciò consiste la perfezion dell’arte, e la somma qualità dell’artefice. Alcuni de’ pochissimi che meritano nell’Italia moderna il nome di scrittori (anzi tutti questi pochissimi), danno a vedere di essere padroni dello stile: vale a dir che il loro stile è fermo, uguale, non traballante, non sempre sull’orlo di precipizi, non incerto, non legato e Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodo non è mai legato col precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de’ periodi, come nelle altre lingue è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa nè può nè dee mai prendere quell’andamento piano, modesto disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano, anche parlando, e proprio di tutte le altre nazioni; questo tale scrivere, dico io, fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell’avventato del suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non trovano degno alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo scrittore e il lettore hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E par proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel polmone, e perciò gli convenga spezzare il suo dire, e fare i periodi corti, per fermarsi a respirare. (28. Agosto 1822.). Effettivamente il tuono di qualunque scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che parla ad alta voce. Tale riesce almeno per chi non è francese, e per chi non è assuefatto durante tutta la sua vita a letture francesi ec. Quel tuono moderato del discorso naturale, col qual tuono gli antichi aprivano anche le loro Orazioni, e fra queste, anche [le] più veementi e passionate, è una qualità eterogenea anche alle lettere familiari de’ francesi. (28. Agosto 1822.). In questa, come in molte altre qualità, lo scriver francese si rassomiglia allo stile orientale, il quale anch’esso per le medesime ragioni, e per loro necessaria conseguenza è tutto spezzato, come si vede ne’ libri poetici e sapienziali della scrittura. La lingua ebraica manca quasi affatto di congiunzioni d’ogni sorta, e non può a meno di passar da un periodo all’altro senza legame, se pure vuol servire alla varietà, perchè altrimenti tutti i suoi periodi comincerebbero, come moltissimi cominciano, dall’uau. Ma ciò può esser virtù per gli orientali, essendo difetto ne’ francesi: perchè a quelli è naturale, a questi no. Neppur noi italiani, neppur gli spagnuoli hanno quella tanta soprabbondanza di sentimento vitale, e quella tanta veemenza e rapidità naturale e abituale e fisica d’immaginazione che hanno gli orientali; a cui perciò riesce insoffribilmente languido e lento quell’andamento dello scrivere che per noi è moderato, e quelle immagini ec. che per noi tengono il giusto mezzo; e a cui riesce moderatissimo quel che riesce eccessivo per noi. Ma se neppur gl’italiani e neppur gli spagnuoli hanno la forza abituale e fisica della vita interna che hanno gli orientall, molto meno ci arriveranno i francesi. E in verità il modo del loro scrivere è per loro abito, non già natura, come si può vedere anche ne’ loro scrittori antichi. (28. Agosto. 1822.). La niuna società dei letterati tedeschi, e la loro vita ritirata e indefessamente studiosa e di gabinetto, non solo rende le loro opinioni e i loro pensieri indipendenti dagli uomini (o dalle opinioni altrui), ma anche dalle cose. Laonde le loro teorie, i loro sistemi, le loro filosofie, sono per la più parte (a qualunque genere spettino: politico, letterario, metafisico, morale, ec. ed anche fisico) poemi della ragione. In fatti delle grandi e vere e sode scoperte sulla natura e la teoria dell’uomo, de’ governi ec. ec. la fisica generale ec. n’han fatto gl’inglesi (come Bacone, Newton, Locke), i francesi (come Rousseau, Cabanis) e anche qualche italiano (come Galilei, Filangieri ec.), ma i tedeschi nessuna, benchè tutto quello che i loro filosofi scrivono, sia, per qualche conto, nuovo, e benchè i tedeschi abbondino d’originalità in ogni genere sopra ogni altra nazion letterata (ma non sanno essere originali se non sognando):
e benchè la nazion tedesca abbia tanti metafisici, computando anche i soli moderni, quanti non ne hanno le altre nazioni tutte insieme, computando i moderni e gli antichi: e bench’ella sia profondissima d’intelletto per natura, e per abito. Di più i letterati tedeschi hanno appunto in sommo grado quello che si richiede al filosofo per non esser sognatore, e per non discostarsi dal vero andandone in cerca: il che i filosofi delle altre nazioni non sogliono avere. Vale a dir che i tedeschi hanno un sapere immenso, una cognizione quasi (s’egli è possibile) intera e perfetta di tutte le cose che sono e che furono. Ed essendo essi così padroni della realtà per forza del loro studio, e gli altri letterati essendo così poco padroni de’ fatti, è veramente maraviglioso, come certissimo, che laddove l’altre nazioni oramai tutte filosofano anche poetando, i tedeschi poetano filosofando. E si può dir con verità che il menomo e il più superficiale de’ filosofi francesi (così leggieri e È curioso l’osservare come l’universalità sia passata dalla lingua greca ch’è la più ricca, vasta, varia, libera, ardita, espressiva, potente, naturale di tutte le lingue colte, alla francese ch’è la più povera, limitata, uniforme, schiava, timida, languida, inefficace, artifiziale delle medesime. E più curioso che l’una e l’altra lingua abbiano servito all’universalità appunto perchè possedevano in sommo grado le predette qualità, che sono contrarie direttamente fra loro. E pur tant’è, ed anche oggidì dalla lingua francese in fuori, non v’è, e mancando la lingua francese, non vi sarebbe lingua meglio adattata all’universalità della greca, ancorchè morta, (2. Settem. 1822.) ed ancorch’ella sia precisamente l’estremo opposto alla lingua francese. (2. Sett. 1822.). Alla p. 1271. Io tengo per certissimo che l’invenzione dell’alfabeto sia stata una al mondo, voglio dir che la scrittura alfabetica non sia stata inventata in più luoghi (o al medesimo tempo o in diversi tempi) ma in un solo, e da questo sia passata la cognizione e l’uso della detta scrittura di mano in mano a tutte le nazioni che scrivono alfabeticamente. Non è presumibile che un’invenzione ch’è un miracolo dello spirito umano (o forse ha la sua origine dal caso come il più delle invenzioni strepitose) sia stata ripetuta da molti, cioè fatta di pianta da molti spiriti. E la storia conferma ciò ch’io dico. 1. Le nazioni che non hanno, o non hanno avuto commercio con alcun’altra, o con alcun’altra letterata, non hanno avuto o non hanno alfabeto. Cento altre nostre cognizioni mirabili si son trovate sussistenti presso questo o quel popolo nuovamente scoperto: l’alfabeto (primo mezzo di vera civilizzazione) non mai. Il Messico avea governo, politica, nobiltà, gerarchie, premi militari, anzi Ordini cavallereschi rimuneratorii del merito, calendario, architettura, idraulica, cento belle arti manuali, navigazione, ec. ec. ed anche storie e libri geroglifici, ma non alfabeto. La China ha inventato polvere, bussola, e fino la stampa; ha infiniti libri, ha prodotto un Confucio, ha letteratura, ha gran numero di letterati, fino a farne più classi distinte, con graduazioni, lauree, studi pubblici ec. ec. ma non ha alfabeto (benchè i libri cinesi si vendano tutto dì per le strade della China al minutissimo popolo, e anche ai fanciulli, e la professione del libraio sia delle più ordinarie e numerose). 2. Si sa espressamente per tradizione che gli alfabeti son passati da paese a paese. La Grecia narra d’avere avuto il suo dalla Fenicia; così ec. ec. ec. 3. Grandissima parte degli alfabeti dimostra l’unità dell’origine guardandone sottilmente o il materiale, o i nomi delle lettere (come quelli del greco paragonati agli ebraici ec. ec.). E questo, non ostante che le nazioni siano disparatissime, e niun commercio sia mai stato fra talune di esse, come tra gli ebrei e i latini antichi che ricevettero l’alfabeto (forse) dalla Grecia, che l’ebbe dalla Fenicia, che l’ebbe da’ samaritani o viceversa ec. ec. e così l’alfabeto latino vien pure a ravvicinarsi sensibilmente all’ebraico. 4. Se alcuni alfabeti non dimostrano affatto alcuna somiglianza con verun altro, nè per figura nè per nomi ec. ciò non conclude in contrario. Ma vuol dire, o che l’antichità tolse loro, o agli alfabeti nostri ogni vestigio della loro primissima origine; o piuttosto che quelle tali nazioni ricevendo pur di fuori, come le altre, l’uso della scrittura alfabetica, o non adottarono però l’alfabeto straniero, o adottatolo lo vennero appoco [appoco] perfezionando, cioè accomodando alla loro lingua, finchè lo mutarono affatto: o vero tutto in un tratto gliene sostituirono un altro nuovo e proprio loro, come fu dell’alfabeto armeno, sostituito al greco ch’era stato usato fino allora dalla nazione, la quale col mezzo di esso aveva imparato a scrivere, e conosciuto l’uso dell’alfabeto, del che vedi p. 2012. (2. Sett. 1822.). Le nazioni civili dell’Asia, dopo la conquista d’Alessandro erano veramente Questo appunto fu quello che la lingua latina non ottenne mai, o quasi mai, cioè d’esser bene intesa, parlata, letta, scritta da quelli che non la usavano quotidianamente come propria, e così si deve intendere il citato luogo di Cic. Visto non è altro che una contrazione del participio Per la Dissertazione dell’antico volgare latino vedi fra gli altri il Pontedera, Antiquitatum latinarum graecarumque enarrationes atque emendationes. Patav. Manfrè, typis Seminarii, 1740. 4.to epist. 1.2. principalmente. (15. Sett. dì della B. V. Addolorata. 1822.). V. anche il Lanzi Saggio sulla lingua etrusca . Ho detto in più luoghi che l’opinione è Signora degli individui e delle nazioni, che tali sono e furono e saranno quelli e queste, quali sono o furono o saranno le loro opinioni e persuasioni e principii. La cosa è naturalissima, e conseguenza necessaria dell’amor proprio in un essere ragionante. Perocchè l’amor proprio porta l’uomo a sceglier sempre quello che se gli rappresenta come suo maggior bene. Ma qual cosa se gli rappresenti come tale, ciò dipende dall’opinione, e così la libertà dell’uomo è sempre determinata dall’intelletto. Quindi sebben l’uomo alle volte si scosta da’ suoi principii, considerando per allora come suo maggiore bene quello che pur è contrario ai medesimi, nondimeno è naturale che la massima parte delle operazioni, desiderii, costumi ec. sì degl’individui sì de’ popoli sia conforme ai principii tenuti dal loro intelletto stabilmente e abitualmente. (16. Sett. 1822.). Ho detto altrove che le antiche nazioni si stimavano ciascuna di natura diversa dalle altre, non consideravano queste come loro simili, e quindi non attribuivano loro nessun diritto, nè si stimavano obbligate ad esercitar cogli esteri la giustizia distributiva ec. se non in certi casi, convenuti generalmente per necessità, come dire l’osservazion de’ trattati, l’inviolabilità degli araldi ec. cose tutte, la ragion delle quali appoggiavano favolosamente alla religione, come quelle che da una parte erano necessarie volendo vivere in società, dall’altra non avevano alcun fondamento nella pretesa legge naturale. Quindi gli araldi amici e diletti di Giove presso Omero ec. quindi il violare i trattati era farsi nemici gli Dei (v. Senof. in Agesilao) ec. Ho citato l’Epitafios attribuito a Demostene per provare che questa falsa, ma naturale idea della superiorità loro ec. ec. sulle altre nazioni, le confermavano le nazioni antiche, e poi le fondavano sulle favole, e sulle storie da loro inventate, tradizioni ec. dando così a questo inganno una ragione, e una forza di massima e di principio. Anche più notabile in questo proposito è quel che si legge nel Panegirico d’Isocrate verso il principio, dove fa gli Ateniesi superiori per natura ed origine a tutti gli uomini. V. anche l’oraz. della Pace, dove paragona gli Ateniesi coi Pausa, posa, posare (per riposare), riposo, riposare (reposare)
e simili vengono indubitatamente da Isocrate nel Panegirico p. 133. cioè prima del mezzo, (quando entra a parlare delle due guerre Persiane) lodando i costumi e gl’istituti di coloro che ressero Atene e Sparta innanzi al tempo d’esse guerre, dice, Isocrate nel Panegirico p. 150, cioè poco dopo il mezzo, raccontando i mali fatti da’ fautori de’ Lacedemoni ( Da quello che altrove ho detto e provato, che il piacere non è mai presente, ma sempre solamente futuro, segue che propriamente parlando, il piacere è un ente (o una qualità) di ragione, e immaginario. (2. Ott. 1822.). A ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, Le sensazioni o fisiche o massimamente morali che l’uomo può provare, sono, niuna di vero piacere, ma indifferenti o dolorose. Quanto alle indifferenti la sensibilità non giova nulla. Restano solo le dolorose. Quindi la sensibilità, benchè assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che una maggior capacità di dolore. Quindi è che necessariamente l’uomo sensibile, sentendo più vivamente degli altri, e quel che l’uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo altro che dolore, dev’esser più infelice degli altri. Egli più capace d’infelicità, e questa capacità non può mancar d’esser empiuta nell’uomo. (5. Ottobre 1822.). Ho detto altrove che il timore è la più egoistica delle passioni. Quindi ciò ch’è stato osservato, che in tempo di pesti, o di pubblici infortuni, dove ciascun teme per se medesimo, i pericoli e le morti de’ nostri più cari, non ci producono alcuno o quasi alcun sentimento. (5. Ottobre. 1822.). Ho detto che gli scrittori greci hanno ciascuno un vocabolarietto a parte, dal quale non escono mai o quasi mai, e nella totalità del quale ciascun d’essi si distingue benissimo da ciascun altro, e ch’esso vocabolario, massime ne’ più antichi è molto ristretto, e che la lingua greca ricchissima in genere, non è più che tanto ricca in veruno scrittore individuo; e tanto meno è ricca quanto lo scrittore è più antico e classico, e quindi i più antichi e classici si distinguono fra loro nelle parole e frasi più di quel che facciano parimente fra loro i più moderni, che son più ricchi assai, ed abbracciano ciascuno una maggior parte della lingua, onde debbono aver fra loro più di comune che gli antichi non hanno fra loro medesimi, come che le parole e frasi di ciascuno generalmente prese, sieno tutte ugualmente proprie della lingua. Tutto ciò si dee specialmente intendere delle radici, nelle quali gli antichi greci sono ristrettissimi, ciascuno quanto a se, e notabilmente diversi gli uni dagli altri, nella totalità del Vocabolario delle medesime. Laddove i moderni ne sono incomparabilmente più ricchi (come Luciano, Longino, ed anche più i più sofistici e di peggior gusto, e i più pedanti; rispetto p. e. ad Isocrate, Senofonte ec.), ed hanno in esse radici molto più di comune fra loro. Ma quanto ai composti o derivati fatti da quelle radici che sono familiari a ciascuno di loro, niuno scrittor greco è povero, nè scarso, nè troppo uniforme. Ma quando mai, sarebbero più poveri in questa parte i più moderni, che i più antichi. Certo sono più timidi e servili, ed attaccati all’esempio de’ precedenti, e parchi e ritenuti e guardinghi e cauti nella novità. La qual novità quanto alle voci, non può consistere in greco se non se in nuovi composti o derivati. (5. Ott. 1822.). Dalle suddette cose si può conoscere che l’immensa ricchezza della lingua greca, non pregiudicava alla facilità di scriverla, e quindi non s’opponeva alla sua universalità, non essendo necessaria più che tanta ricchezza (o usata o conosciuta e posseduta) non solo per iscrivere e parlar greco, ma eziandio per iscriverlo e parlarlo egregiamente; e bastando poche radici per questo; poichè restavano liberi i composti all’arbitrio dello scrittore, o quando anche non restassero liberi, infiniti composti e derivati portava seco ciascuna radice, onde lo scrittore pratico di poche radici veniva subito ad avere una lingua molto sufficiente a tutti i suoi bisogni. Il che scemava infinitamente la difficoltà che si prova nelle lingue, perchè un vocabolario sufficientissimo allo scrittore o parlatore si riduceva sotto pochi elementi, e procedeva da pochi principii ossia radici, e quindi era molto più facile ad impararlo ed impratichirsene, che se esso senza essere niente maggiore, avesse contenuto tutta la lingua, ma fosse proceduto da più numerose e diverse radici. Tutte queste circostanze siccome quelle notate nel pensiero precedente non si trovavano nella lingua latina, che meno ricca della greca, era però per la sua ricchezza più difficile a scrivere e a parlare che la greca non fu, perchè la ricchezza (ancorchè minore) della latina, bisognava averla tutta in contanti, a volere scrivere e parlar latino, e massimamente a farlo bene. E l’orecchie latine erano delicatissime come le francesi, circa il vero e proprio andamento (e la purità) della loro lingua, che rispetto alla greca era liberissimo, cioè sommamente vario, ed in gran parte ad arbitrio. (8. Ottobre. 1822.). La lingua greca ch’è la più antica delle colte ben conosciute, è anche fra tutte le lingue colte la più capace di significar l’idee e gli oggetti più propriamente moderni cioè i più difficili a significarsi e di supplire ai bisogni d’espressioni, prodotti dall’ampiezza, varietà e profondità delle nozioni moderne. E il fatto stesso lo dimostra, ricorrendosi tutto dì alla lingua greca ec. come ho detto altrove. (10. Ottobre. 1822.). Non c’è regola nè idea nè teoria di gusto universale ed eterno. Qual potrebb’ella essere, se non la natura? (e qual cosa è, o vero, essendo, si può immaginare e intendere e concepire da noi, fuori della natura?) ma qual natura, se non l’umana? Poichè le cose che cadono sotto la categoria del buon gusto o del cattivo gusto, non sono considerate se non per rispetto all’uomo. Or non è ella cosa manifestissima, che la natura dell’uomo si diversifica moltissimo secondo i climi, secoli, costumi, assuefazioni, governi, opinioni, circostanze fisiche, morali, politiche, ec. e queste, individuali, nazionali ec. ec.? Resta dunque per tutta idea e teoria di gusto universale ed eterno, un idea ed una teoria, che comprenda solamente, e si fondi, e si formi di quei principii che, relativamente al gusto, si trovano esser comuni a tutti gli uomini, e tenere alla primitiva e immutabile natura umana. Ma questi principii, dico io che sono pochissimi, ed applicabilissimi, conformabilissimi, e fecondi di numerosissime e diversissime conseguenze (siccome lo sono tutti i principii naturali, e veramente elementari, perchè la natura è semplicissima, pochi principii ha posto, e questi, infinitamente e diversissimamente e anche contrariamente [a] modificabili): dal che segue che questa idea e questa teoria d’un gusto che sia veramente universale ed eterno, si riduce a pochissime regole, ed è infinitamente meno circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e lascia luogo a infiniti gusti diversissimi ed anche contrarii fra loro (che noi riproviamo, e perchè ripugnano al gusto nostro o individuale o nazionale, e questo forse momentaneo, li crediamo, al nostro solito, contrarii all’universale ed eterno): anzi non solo lascia loro luogo, ma li produce, non meno che quello ch’a noi pare il solo vero buon gusto ec. (13. Ott. 1822.). Ma senza alcun fallo gli uomini comunemente hanno questo difetto, e tutti generalmente in ciò pecchiamo, che noi della nostra vita speriamo assai, ed il nostro tempo largo misuriamo, e dello altrui per lo contrario sempre temiamo, e siamone scarsi e solleciti, debole e breve reputandolo. Perocchè chi è quello che tanto oltre sia, o che così vicino alla fossa abbia il piede, che non si faccia a credere di dover quattro o sei anni poter campare, e che a ciò ogni cosa opportuna non apparecchi? Veramente io credo che niuno ce ne abbia fra noi; nè maraviglia sarebbe di ciò, se noi questa medesima speranza avessimo similmente della altrui vecchiezza, che noi abbiamo della nostra, e non ci facessimo beffe in altrui di quello che in noi medesimi approviamo. Casa, Orazione seconda per la Lega. Lione (Venezia) appresso Bartolommeo Martin. senza data di tempo. appiè del 3. tomo delle opere del Casa, Venez. Pasinelli 1752. p. 41. Tre altre pagine mancano per la fine dell’Oraz. (13.-14. Ottobre. 1822.). Ho detto altrove che gran parte delle voci che in poesia si chiamano eleganti, e si tengono per poetiche, non sono tali, se non per esser fuori dell’uso comune e familiare, nel quale già furono una volta (o furono certo nell’uso degli scrittori in prosa); e conseguentemente per essere antiche rispetto alla moderna lingua, benchè non sieno antiquate. E ciò principalmente cade nelle voci (o frasi) che sono oggidì esclusivamente poetiche. Ho detto ancora che per tal cagione, non potendo i primi poeti o prosatori di niuna lingua, aver molte voci nè frasi antiche da usare ne’ loro scritti, e quindi mancando d’un’abbondantissima fonte d’eleganza, è convenuto loro tenersi per lo più allo stile familiare, come familiarissimo è il Petrarca ec., e sono stati incapaci dell’eleganza Virgiliana. Aggiungo ora che in fatti la poesia, appresso quelle nazioni ch’hanno lingua propriamente poetica, cioè distinta dalla prosaica (e ciò fu tra le antiche la greca, e sono tra le moderne l’italiana e la tedesca, e un poco fors’anche la spagnuola) è conservatrice dell’antichità della lingua, e quindi della sua purità, le quali due qualità sono quasi il medesimo, se non che la prima di queste due voci dice qualcosa di più. Dell’antichità, dico, è conservatrice la lingua poetica, sì ne’ vocaboli, sì nelle frasi, sì nelle forme, sì eziandio nelle inflessioni, o coniugazioni de’ verbi, e in altre particolarità grammaticali. Nelle quali tutte essa conserva (o segue di tratto in tratto a suo arbitrio) l’antico uso, stato comune ai primi prosatori, e quindi sbandito dalle prose. Ed ha notato il Perticari nel Trattato degli Scrittori del Trecento che in tanta corruzione ultimamente accaduta della nostra lingua parlata e scritta, lo scriver poetico s’era pur conservato e si conserva puro; il che fino a un certo segno, e massime ne’ versificatori che non hanno molto preteso all’originalità (come gli arcadici, i frugoniani ec. a differenza de’ Cesarottiani ec.) si trova esser verissimo. Così fu nella lingua greca, che la poesia fu gran conservatrice delle parole, modi, frasi, inflessioni, e regole e pratiche grammaticali antiche. Ond’ella ha una lingua tutta diversa dalla sua contemporanea prosaica. E ciò accade (parlo del conservar l’antichità e purità della lingua), accade, dico, proporzionatamente anche nelle poesie che non hanno lingua appartata, come la francese, e forse l’inglese. Se non altro, queste poesie sono sempre più pure dello scriver prosaico appresso tali nazioni, rispetto alla lingua. (15. Ottobre 1822.). Mania, smania, smaniare e lo spagnuolo L’amor della vita cresce quasi come l’amor del danaio, e, com’esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch’è pur dolce, e di cui molto avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono gelosissimi della propria vita, ch’è miserabilissima, e che ad ogni modo poco hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s’egli avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come s’avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob. 1822.). È bello a paragonare il luogo di Cicerone L’uomo odia l’altro uomo per natura, e necessariamente, e quindi per natura esso, sì come gli altri animali è disposto contro il sistema sociale. E siccome la natura non si può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto e forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo morale, politico, filosofico, d’opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima ec. è mai bastato nè basta nè mai basterà a fare che la società cammini come si vorrebbe, e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo le regole di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell’uomo verso l’uomo. (2. Nov. dì de’ Morti. 1822.). Se l’uomo esce fuori della naturale puritade, allora pecca. Servando dunque la nostra condizione e virtù, bastiti o uomo, lo naturale ornamento, e non mutare l’opera del tuo Creatore, perocchè volerla mutare è un guastare . Vite de’ Santi Padri, parte 1. capitolo 9. fine, p. 25. e son degne d’esser vedute anche le cose precedenti a queste parole. Le quali sono in bocca di Sant’Antonio, e nella sua Vita, il cui testo originale greco è di S. Atanasio. (Recanati — Roma. Novembre. 1822.). La storia greca, romana ed ebrea contengono le reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia della vita, e della fanciullezza massimamente, delle cognizioni, de’ pensieri di ciascuno di noi. Quindi l’interesse che ispirano le dette storie, e loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere, come fu osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da verun’altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali. Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti storici veramente propri d’epopea, di tragedia, ec. e all’interesse dei detti argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna industria, cavando argomenti o dall’immaginazione, o dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi più delle altre tre, perchè i poemi d’Omero e di Virgilio, l’hanno resa più nota e familiare a ciascuno, che verun’altra, e perch’ella a cagione dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l’ebrea. Tutto ciò è relativo, e l’interesse delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell’essere le medesime familiari a ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.). Sopra i dialetti della lingua latina. Estratto da un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un Viaggiatore oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie di Roma t. 2. p. 58-70. (Genn. 1821.). = L’antica lingua di questi popoli (Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di riconoscere dalle inscrizioni raccolte dal Maffei[a] : ed è probabile che gli originarj dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in Italia, sieno una rimota cagione della varietà de’ linguaggi che vi si parlano presentemente. Ma checchè sia pure degli elementi della lingua loro (de’ primi Veneti), è cosa notoria ch’essi ne avevano una a se, comunque fosse composta; la quale rimase in seguito, come le altre di tutti gl’Italiani aborigeni, assorta nel Latino; e molte prove si potrebbero addurre per dimostrare che una tal lingua (come accadde di quella dei Galli ec.) tinse de’ suoi propri colori la massa colla quale si confuse (la lingua latina): e le Iscrizioni lapidarie raccolte dal Maffei nel territorio Veneto fanno vedere quella stessa provincialità antica (benchè di un genere diverso) che caratterizza quelle delle Colonie Galliche; e vi si riconosce lo stesso scambiamento di lettere che è frequentissimo nel dialetto Veneto che ora si parla. Cicerone nelle sue Lettere familiari fa menzione di certi termini che erano in voga in queste provincie (Venete), e sconosciuti a Roma. Tito Livio fu accusato di patavinità o padovanismo (checchè si debba intendere sotto questa espressione): fu anche detto di Catullo d’aver egli introdotte certe nuove forme di dire nella Lingua Latina: e si potrebbero addurre alcune prove di questi suoi Veronismi. Ne sia una il nome di Da Alla p. 2441. Luciano nel Dial. Il vero certamente non è bello: ma pur anch’esso appaga o, se non altro, affetta in qualche modo l’anima, ed esiste senza dubbio il piacere della verità e della conoscenza del vero, arrivando al quale, l’uomo pur si diletta e compiace, ancorchè brutto e misero e terribile sia questo tal vero. Ma la peggior cosa del mondo, e la maggiore infelicità dell’uomo si è trovarsi privo del bello e del vero, trattare, convivere con ciò che non è nè bello nè vero. Tale si è la sorte di chi vive nelle città grandi, dove tutto è falso, e questo falso non è bello, anzi bruttissimo. (Roma 13. Dic. 1822.). Ad Cic. de re publ. II. 10. p. 143. v. ult. ubi legitur septem, haec Maius editor ib. not. c. Cod. septe. Nella republ. di Cic. succitata, al c. 37. del lib.2. p. 203. v. 1.-2, dove l’edizione ha Il verbo Cic. de rep. l. 3. c. 8-20. p. 230-48. sotto la persona di L. Furio Filo disputa contro la giustizia, e dimostra la non esistenza della legge naturale, e reca in mezzo le varietà e discordanze de’ costumi e delle leggi presso i diversi popoli, e de’ giudizi degli uomini e de’ vari secoli intorno al retto e al giusto, e a’ loro contrarii. Degna d’esser letta è questa disputazione, massime per ciò che riguarda i vari e ripugnanti giudizi delle antiche nazioni circa il così detto diritto naturale e universale, o idea innata del giusto e del bene. E cita il Mai (nella 3. nota della p. 232.) sopra questo proposito S. Girolamo in Iovin. II. 7. sqq. Sesto Empirico III. 24. Nella sopraddetta disputazione è notabile un frammento (c. 15. p. 243.), dove Cicerone in persona di Filo ricorda quella favolosa opinione che avevano gli Arcadi e gli Ateniesi d’essere E pensatamente io chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima formazion della lingua, ma dal più ordinario modo de’ parlatori presenti. Imperocchè ciò che fu figura in un tempo, non riman poi figura quando è sì accomunato dall’uso, che divien la più trivial maniera del linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi dall’arbitrio degli uomini, tanto nell’introdursi, quanto nell’alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori, come alcun pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria dell’Uso ha prescritte. Trattato dello Stile e del Dialogo del Padre Sforza Pallavicino della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p. 22. (26. Dicembre; festa di Santo Stefano Protomartire. 1822.). Circa la mia opinione che Il Padre Sforza Pallavicino nel Trattato dello Stile e del Dialogo, Capo 27, intitolato Si stabilisce quali Autori deono esser seguiti nelle materie scientifiche da quelli che scrivono in Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena 1819. pag. 175-8.) dà decisa ed universale, e non relativa ma assoluta preferenza agli scrittori, stile e lingua del 500, (e del seguente secolo ancora, in cui egli scriveva) sopra quelli e quella del 300. (5. Gennaio 1823.). In ristretto (in somma), la favella e la Scrittura sono indirizzate a’ coetanei, ed a’ futuri, non a’ defunti . Pallavic. loc. sup. cit. pag. 181 fine. (5. Gen. 1823.). Alla p. 2470. Delle metafore Cic. nell’Oratore, num.134, comandando che l’Oratore ne faccia grand’uso dice: In un luogo di Lucilio portato da Cic. nell’Oratore num.149. leggi Anticamente i latini dicevano Nell’Oratore di Cic. num.196. Nell’Oratore di Cicerone num. 231. cioè molto presso alla fine, leggi Alla p. 2661. Dell’antica presuntuosa opinione avuta da vari popoli, e massime dagli Ateniesi, d’essere La prosa francese (nazione e lingua la più impoetica fra le moderne, che sono le più impoetiche del mondo) è molto più poetica della stessa prosa antica scritta nelle lingue le più poetiche possibili. Lo stesso mancare affatto di linguaggio poetico distinto dal prosaico fa che lo scrittor francese confonda quello ch’è proprio dell’uno con quel ch’è proprio dell’altro, e che come il poeta francese scrive prosaicamente così il prosatore scriva poeticamente, e che la lingua francese manchi non solo di linguaggio e stile poetico distinto per rispetto al prosaico, ma anche di linguaggio e stile veramente prosaico, e ben distinto e circoscritto e definito per rispetto al poetico. Questa è l’una delle cagioni della poeticità della prosa francese. Altre ancora se ne potranno addurre, ma fra queste, una che ha del paradosso e pure è verissima. La prosa francese è poetica perchè la lingua francese è poverissima. Quindi la necessità di metafore di metonimie di catacresi di mille figure di dizione che rendono poetica la lingua della prosa, e secondo il nostro gusto, gonfia, concitata ed aliena da quella semplicità, riposatezza, calma, sicurezza ed equabilità e gravità di passo che s’ammira nelle prose latina e greca, le più poetiche lingue dell’occidente. P. e. non avendo i francesi una parola che significhi unitamente il padre e la madre, (come noi, che diciamo i genitori), sono obbligati a dire spesso Chi mi chiedesse quanto e fino a qual segno la filosofia si debba brigare delle cose umane e del regolamento dello spirito, delle passioni, delle opinioni, de’ costumi, della vita umana; risponderei tanto e fino a quel punto che i governi si debbono brigare dell’industria e del commercio nazionale a voler che questi fioriscano, vale a dire non brigarsene nè punto nè poco. E sotto questo aspetto la filosofia è veramente e pienamente paragonabile alla scienza dell’economia pubblica. La perfezione della quale consiste nel conoscere che bisogna lasciar fare alla natura, che quanto il commercio (interno ed esterno) e l’industria è più libera, tanto più prospera, e tanto meglio camminano gli affari della nazione; che quanto più è regolata tanto più decade e vien meno; che in somma essa scienza è inutile, poichè il suo meglio è fare che le cose vadano come s’ella non esistesse, e come anderebbero da per tutto dov’ella e i governi non s’intrigassero del commercio e dell’industria; e la sua perfezione è interdirsi ogni azione, conoscere il danno ch’essa medesima reca, e in somma non far nulla, al quale effetto gli uomini non avevano bisogno d’economia politica, ma s’ella non fosse stata, ciò si sarebbe necessariamente ottenuto allo stesso modo, e meglio. Ora tale appunto si è la perfezione della filosofia e della ragione e della riflessione ec. come ho detto altrove. (2 3. Feb. 1823.). Sopra quello che ho detto altrove che l’uso de’ sacrifizi nacque dall’egoismo del timore. Sopra la riunione del sacerdozio e dello stato civile nelle medesime persone, presso gli antichi, del che ho detto altrove; e come le funzioni del sacerdozio non impedissero in modo alcuno gli antichi preti di servire alla patria.
Alla p. 2670. Pianger si de’ il nascente ch’incomincia Or a solcare il mar di tanti mali, E con gioia al sepolcro s’accompagni, L’uscito de’ travagli della vita. Poeta antico appo Plutarco Come debba il giovane udir le poesie, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane, pagina ultima, cioè p. 169. del tomo primo Opuscoli morali di Plutarco volgarizzati da Marcello Adriani il giovane stampati per la prima volta in Firenze, Piatti, 1819. (19. Feb. 1823.). V. la p. seg. Dei beni umani il più supremo colmo È sentir meno il duolo . Sentenza che racchiude la somma di tutta la filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra. (19. Feb. 1823.). Grave non è nè a farsi nè a soffrirsi Quello a che noi necessità costringe. Tragico antico, ap. Plut. Discorso di consolazione ad Apollonio, una pagina avanti il mezzo. Volgarizzamento di Marcello Adriani il giovine. Fir. 1819. t. 1. p. 194. (20. Feb. 1823.). Alla p. antecedente. V. un detto di Crantore, e un frammento d’Aristotele in questo proposito, appresso il medesimo Plutarco dell’Adriani, nel Discorso di consolazione ad Apollonio t. 1. p. 203-4. e un verso di Menandro ib. 213. (21. Feb. 1823.). Alla p. 2665.
Gli scrittori greci più eleganti ed attici e antichi sogliono usare la voce Tutti gl’imperi, tutte le nazioni ch’hanno ottenuto dominio sulle altre, da principio hanno combattuto con quelli di fuori, co’ vicini, co’ nemici: poi liberati dal timore esterno, e soddisfatti dell’ambizione e della cupidigia di dominare sugli stranieri e di possedere quel di costoro, e saziato l’odio nazionale contro l’altre nazioni, hanno sempre rivolto il ferro contro loro medesime, ed hanno per lo più perduto colle guerre civili quell’impero e quella ricchezza ec. che aveano guadagnato colle guerre esterne. Puoi vedere p. 3791. Questa è cosa notissima e ripetutissima da tutti i filosofi, istorici, politici ec. Quindi i politici romani prima e dopo la distruzion di Cartagine, discorsero della necessità di conservarla, e se ne discorre anche oggidì ec. L’egoismo nazionale si tramuta allora in egoismo individuale: e tanto è vero che l’uomo è per sua natura e per natura dell’amor proprio, nemico degli altri viventi e se-amanti; in modo che s’anche si congiunge con alcuno di questi, lo fa per odio o per timore degli altri, mancate le quali passioni, l’odio e il timore si rivolge contro i compagni e i vicini. Quel ch’è successo nelle nazioni è successo ancora nelle città, nelle corporazioni, nelle famiglie ch’hanno figurato nel mondo ec. unite contro gli esteri, finchè questi non erano vinti, divise e discordi e piene d’invidia ec. nel loro interno, subito sottomessi gli estranei. Così in ciascuna fazione di una stessa città, dopo vinte le contrarie o la contraria. V. il proem. del lib.7. delle Stor. del Machiavello. Ed è bello a questo proposito un passo di Plutarco sulla fine del libro Come si potria trar giovamento da’ nimici (
Opusc. mor. di Plut. volgarizz. da Marcello Adriani il giovane. Opusc. 14. Fir. 1819. t. 1. p. 394.) La qual cosa ben parve che comprendesse un saggio uomo di governo nominato Demo, il quale, in una civil sedizione dell’isola di Chio, ritrovandosi dalla parte superiore, consigliava i compagni a non cacciare della città tutti gli avversarj, ma lasciarne alcuni, acciò (disse egli) non incominciamo a contendere con gli amici, liberati che saremo interamente da’ nimici: così questi nostri affetti (soggiunge Plutarco, cioè l’emulazione, la gelosia, e l’invidia) consumati contra i nimici meno turberanno gli amici . V. ancora gl’Insegnamenti Civili di Plut. dove il cit. Volgarizz. p. 434. ha Onomademo in vece di Demo: Ora nello stesso modo che alle famiglie, alle corporazioni, alle città, alle nazioni, agl’imperi, è accaduto al genere umano. Nemici naturali degli uomini furono da principio le fiere e gli elementi ec.; quelle, soggetti di timori e d’odio insieme, questi di solo timore (se già l’immaginazione non li dipingeva a quei primi uomini come viventi). Finchè durarono queste passioni sopra questi soggetti, l’uomo non s’insanguinò dell’altro uomo, anzi amò e ricercò lo scontro, la compagnia, l’aiuto del suo simile, senz’odio alcuno, senza invidia, senza sospetto, come il leone non ha sospetto del leone. Quella fu veramente l’età dell’oro, e l’uomo era sicuro tra gli uomini: non per altro se non perch’esso e gli altri uomini odiavano e temevano de’ viventi e degli oggetti stranieri al genere umano; e queste passioni non lasciavano luogo all’odio o invidia o timore verso i loro simili, come appunto l’odio e il timore de’ Persiani impediva o spegneva le dissensioni in Grecia, mentre quelli furono odiati e temuti. Quest’era una specie d’egoismo umano (come poi vi fu l’egoismo nazionale) il quale poteva pur sussistere insieme coll’individuale, stante le dette circostanze. Ma trovate o scavate le spelonche, per munirsi contro le fiere e gli elementi, trovate le armi ed arti difensive, fabbricate le città dove gli uomini in compagnia dimoravano al sicuro dagli assalti degli altri animali, mansuefatte alcune fiere, altre impedite di nuocere, tutte sottomesse, molte rese tributarie, scemato il timore e il danno degli elementi, la nazione umana, per così dire, quasi vincitrice de’ suoi nemici, e guasta dalla prosperità, rivolse le proprie armi contro se stessa, e qui cominciano le storie delle diverse nazioni; e questa è l’epoca del secolo d’argento, secondo il mio modo di vedere; giacchè l’aureo, al quale le storie non si stendono, e che resta in balìa della favola, fu quello precedente, tale, quale l’ho descritto. (4. Marzo 1823.). Plutarco nel principio degl’Insegnamenti civili, volgarizzamento cit. di sopra, Opusc. 15. t. 1. p. 403. Molto meno arieno ancora gli Spartani patito l’insolenza, e buffonerie di Stratocle, il quale avendo persuaso il popolo (credo Ateniese, o Tebano) a sacrificare come vincitore; che poi sentito il vero della rotta si sdegnava, disse: Qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa, ed in gioja per ispazio di tre giorni? Agli Spartani si possono paragonate i filosofi, anzi questo secolo, anzi quasi tutti gli uomini, avidi del sapere o della filosofia, e di scoprir le cose più nascoste dalla natura, e per conseguenza di conoscere la propria infelicità, e per conseguenza di sentirla, quando non l’avrebbero sentita mai o di sentirla più presto. E la risposta di Stratocle starebbe molto bene in bocca de’ poeti, de’ musici, degli antichi filosofi, della natura, delle illusioni medesime, di tutti quelli che sono accusati d’avere introdotti o fomentati, d’introdurre o fomentare o promuovere de’ begli errori nel genere umano, o in qualche nazione o in qualche individuo. Che danno recano essi se ci fanno godere, o se c’impediscono di soffrire, per tre giorni? Che ingiuria ci fanno se ci nascondono quanto e mentre possono la nostra miseria, o se in qualunque modo contribuiscono a fare che l’ignoriamo o dimentichiamo? (5. Marzo. 1823.). Grazia dal contrasto. Conte Baldessar Castiglione, Il Libro del Cortegiano. lib. 1. Milano, dalla Società tipogr. de’ Classici italiani, 1803. vol. 1. p. 43-4. Ma avendo io già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che alcuna altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perchè delle cose rare, e ben fatte ognun sa (p. 44. dell’ediz.) la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario, lo sforzare, e, come si dice, tirar per i capegli, dà somma disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. (Roma 14. Marzo. 1823. secondo Venerdì di Marzo.). In vero rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie degli scrittori, nè gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi. Il medesimo, ivi, p. 79. Da quanto pochi adunque può sperar degna, vera ed intima e piena e perfetta stima e lode il perfetto scrittore o poeta! e per quanto pochi scrive e prepara piaceri colui che scrive perfettamente! V. p. 2796. (15. Marzo. 1823.). Nè altro vuol dir il parlar antico, che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa sarebbe amar il parlar antico, non per altro che per voler più presto parlare come si parlava, che come si parla. Il medesimo, ivi, p. 64. (15. Marzo 1823.). L’uomo sarebbe felice se le sue illusioni giovanili (e fanciullesche) fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il giovane d’immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini, ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini più o meno (secondo la differenza de’ caratteri), e massime in gioventù, provano queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione scambievole, che civilizzando e istruendo l’uomo, e assuefacendolo a riflettere sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste illusioni, come negl’individui, così ne’ popoli, e come ne’ popoli, così nel genere umano ridotto allo stato sociale. L’uomo isolato non le avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell’età, quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se l’uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue illusioni giovanili, e tutti gli uomini le avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero realtà. Dunque l’uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua della infelicità umana è la società. L’uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della società. Dunque se l’uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua. 1823.). A noi pare bene spesso di provar del piacere dicendo, o fra noi stessi o con altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero che il piacere non può mai esser presente, e quantunque da ciò segua ch’esso non può neanche mai esser passato, tuttavia si può quasi dire ch’esso può piuttosto esser passato che presente. (Roma. 12. Aprile 1823.). Sopra il verbo difendere usato già dagli antichi Latini come da’ francesi e dagli antichi italiani e dagli spagnuoli per proibire, vedi Perticari Apologia di Dante p. 157. (Recanati 12. Maggio 1823.). Usano i buoni scrittori greci elegantemente l’infinito dei verbi in luogo della seconda e della terza persona dell’imperativo. Il Perticari nell’Apolog. di Dante p. 207. not. 19. trovando in un’antica canzone provenzale il verbo arsare dice che questa è la radice della voce arso, la quale finora è sembrato vocabolo senza radice, giacchè dal verbo Questo e altri tali errori del Perticari e d’altri moltissimi grammatici antichi e moderni, vengono dalla poca notizia che costoro hanno avuta della formazione e derivazione de’ verbi in are da’ participii regolari o anomali d’altri verbi; formazione usitatissima da’ latini, presso de’ quali i verbi così formati erano continuativi; e seguitata ad usare larghissimamente ne’ tempi bassi e ne’ principii delle moderne lingue dell’Europa latina. Somma conformabilità dell’uomo. Le bestie sono più o meno addomesticabili, secondo che sono più o meno assuefabili e conformabili di natura. Ma nè le bestie domestiche convivendo coll’uomo, nè queste o altre bestie convivendo con bestie di specie diversa dalla loro, contraggono il carattere e i costumi umani o di quelle altre bestie, nè i caratteri di più bestie di specie diversa si mescolano tra loro per convivere che facciano insieme; ma solamente le bestie domestiche ricevono certe assuefazioni particolari, e certi costumi non naturali portati dalle circostanze, i quali non hanno però che far niente coi costumi dell’uomo. Ma l’uomo convivendo colle bestie, contrae veramente gran parte del carattere di queste, ed altera il suo proprio per una effettiva mescolanza di qualità naturali alle bestie con cui convive. È cosa osservata nella campagna romana, e nota quivi alle persone che per mestiere per abito e per natura sono tutt’altro che osservatrici, che i pastori e guardiani delle bufale, sono ordinariamente stupidi, lenti, goffi, rozzissimi, selvatici e tali che poco hanno dell’uomo: che i pastori de’ cavalli sono svelti, attivi, pronti, vivaci, arguti, agili di corpo e di spirito: quelli delle pecore, semplici, mansueti, ubbidienti ec. (Recanati 16. Maggio 1823.). E tra gli abitanti della campagna romana i due estremi della zotichezza e della Degli scrittori non romani che scrissero in latino, e son tenuti classici in quella lingua e letteratura vedi Perticari, Apologia di Dante, capo 30. p. 314-16. (Recanati 16. Maggio. 1823.). Del disprezzo in cui fu tenuta dai dotti la lingua italiana (detta volgare) nel 300, nel 400 e nel 500, a paragone della latina, vedi Perticari loc. cit. capo 34. (16. Maggio 1823.). Vedi anche il fine della Lezione dell’ordine dell’Universo di Pier Francesco Giambullari nelle Prose Fiorentine par. 2. vol. 2. (Venez. 1735. t. 3. par. 2. p. 24.fine-25.) (17. Maggio 1823.). V. altresì Perticari Degli Scritt. del 300. l. i. c. 13. p. 77. c. 16. p. 88. segg. c. ult. fine. p. 98. l. 2. c. 9. p. 163. Formata una volta una lingua illustre, cioè una lingua ordinata, regolare, stabilita e grammaticale, ella non si perde più finchè la nazione a cui ella appartiene non ricade nella barbarie. La durata della civiltà di una nazione è la misura della durata della sua lingua illustre e viceversa. E siccome una medesima nazione può avere più civiltà, cioè dopo fatta civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova, ciascuna sua civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata, corrotta, decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di civiltà e di lingua illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute, o vogliamo piuttosto dire, nella storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello della nazione italiana. Perchè niuna delle altre nazioni state civili in antico, sono risorte a civiltà moderna e presente, e niuna delle nazioni presentemente civili, fu mai civile (che si sappia) in antico, se non l’italiana. Così niun’altra nazione può mostrare due lingue illustri da lei usate e coltivate generalmente, (come può far l’italiana) se non in quanto la nostra antica lingua, cioè la latina, si diffuse insieme coi nostri costumi per l’Europa a noi soggetta, e fece per qualche tempo italiane di costumi e di lingua e letteratura le Gallie, le Spagne, la Numidia (che non è più risorta a civiltà) ec. Ma tornando al proposito nostro, siccome la Grecia, in tutta la storia conosciuta, è la nazione che per più lungo tempo ha conservato una civiltà, così la lingua greca illustre è di tutte le lingue illustri conosciute nella storia antica o moderna, quella che ha durato più lungo tempo. Sebbene nei secoli bassi la civiltà greca fosse in gran decadenza, e similmente e proporzionatamente la lingua greca illustre, nondimeno la Grecia non divenne assolutamente barbara, se non dopo la presa di Costantinopoli, conservandosi almeno qualche parte della civiltà greca, se non altro, nella Corte di Bisanzio finchè questa durò. E fino a questo medesimo termine durò ancora la lingua greca illustre, in maniera che gli scrittori greci di questi ultimi tempi, come Teofilatto e quei della Storia Bizantina, sono per la più parte intelligibili e piani senz’altro particolare studio, a tutti quelli che intendono Omero ed Erodoto. Di modo che la lingua greca illustre durò sempre una e sempre quella, per 23 secoli, cioè da Omero fino all’ultimo imperatore greco. Durata maravigliosa: ma tale altresì fu quella della greca civiltà. Perchè la Grecia per niuna circostanza di tempi non divenne mai interamente barbara finchè non fu tutta suddita de’ turchi; nè mai per tutto l’intervallo de’ secoli antecedenti fu priva di letteratura, neanche ne’ peggiori secoli, come si può vedere, considerando anche solamente la Biblioteca di Fozio scritta nel nono secolo, e le varie opere di Tzetze scritte nel 12.o oltre il Violario d’Eudocia Augusta, il Lessico di Suida ec. opere che in niun’altra parte del mondo fuor della parte greca, quando pur fossero state tradotte nelle rispettive lingue, si sarebbero a quei tempi sapute neppure intendere, non che comporne delle simili. La lingua illustre latina nata tanto più tardi, tanto più presto morì, perchè la civiltà italiana e quella di tutta l’Europa latina per diverse circostanze finì pochissimi secoli dopo nata. Già quando Costantino trasportò la corte in Bisanzio, la Grecia vinceva d’assai e per civiltà e per letteratura il mondo latino, e massimamente l’Italia. E forse questa fu una delle cagioni che indussero Costantino a quel traslocamento, il quale fu poi un’altra circostanza che contribuì a mantenere la civiltà in Grecia, e seco la lingua illustre (coltivata poi da Temistio, da Libanio, da Giuliano imperatore da Giamblico, da Gregorio, da Basilio ben superiori in grecità a quello che furono in latinità Girolamo, Agostino, Ambrogio, Gregorio e Leone Papi, Ammiano, Boezio), ed aiutò la corruzione ed estinzione della civiltà e della lingua illustre latina, massime in Italia, dove mancò affatto una corte latina. La quale per poco tempo fu nelle Gallie, e vi produsse Sidonio e Pacato e gli altri nobili letterati di que’ tempi, e fece per allora quella provincia superiore senza comparazione per latinità, letteratura e civiltà alla stessa Italia che le avea compartite alle Gallie. Finchè le conquiste fatte dai Barbari distrussero affatto e la civiltà e la lingua illustre in tutta l’Europa latina. La nuova nostra lingua illustre fu sufficientemente organizzata e stabilita nel 300 insieme colla nuova civiltà italiana. Questa ancor dura e non s’è mai più perduta. Dunque anche la lingua italiana illustre del 300, nè si è mai perduta, e dura ancora dopo ben cinque secoli: e quei trecentisti che più si divisero dal parlar plebeo e dai particolari dialetti separati, o (come in Dante) mescolati, quali sono il Petrarca, il Boccaccio, il Passavanti, il traduttore delle Vite de’ Padri, eccetto alcune poche e sparse parole o frasi, sono ancora moderni per noi, e la loro lingua è fresca e viva, come fosse di ieri. La differenza tra essi e noi sta quasi tutta nello stile e ne’ concetti. V. p. 2718. Al contrario le lingue non bene o sufficientemente organizzate e regolate, variano continuamente e in breve si spengono quasi affatto, e fanno luogo a lingue quasi nuove, anche durando il medesimo stato della nazione, sia di civiltà (se pur vi fu mai civiltà non accompagnata da lingua illustre), sia di maggiore o minore barbarie. La lingua provenzale benchè scritta da tanti in poesia ed in prosa, pure perchè non ordinata sufficentemente nè ridotta a grammatica, è tutta morta dopo brevissima vita. E degli stessi trecentisti italiani, quelli che più s’accostarono al dir plebeo e provinciale, fosse fiorentino o qualunque, siccome tanti scrittori fiorentini o toscani di cronichette o d’altro, sono già da gran tempo scrittori di lingua per grandissima parte morta; giacchè infinite delle loro voci, frasi, forme e costruzioni più non s’intendono nelle stesse loro provincie, o vi riescono strane, insolite, affettate, antiquate e invecchiate. Vedi Perticari Apologia di Dante, capo 35. e specialmente p. 338.-45. (17. Maggio. 1823.). La cagione per cui negli antichissimi scrittori latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla lingua italiana, che non se ne trova negli scrittori latini dell’aureo secolo, e tanto maggiore quanto sono più antichi, si è che i primi scrittori di una lingua, mentre non v’è ancora lingua illustre, o non è abbastanza formata, divisa dalla plebea, fatta propria della scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme plebee, idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e da cui si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran parte della lingua plebea ch’è la sola ch’esista allora nella nazione, o che non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla (com’è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea; sì perchè allora i cortigiani ec. non hanno l’esempio e la coltura derivante dalle Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per parlare molto diversamente dalla plebe. Ora l’unica lingua che possano seguire e prendere in mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata, giacchè la scritta ancor non esiste. E siccome la lingua italiana e le sue sorelle non derivano dal latino scritto ma dal parlato, e questo in gran parte non illustre, ma principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta conformità di queste nostre lingue cogli antichissimi e primi scrittori latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo 43. pag. 430. (20. Maggio 1823.). Materia della pigrizia non sono propriamente le azioni faticose, ma quelle, faticose o no, nelle quali non è piacere presente, o vogliamo dire opinione di piacere. Niuno è pigro al bere o al mangiare. Lo studio è cosa faticosissima. Ma se l’uomo vi prova piacere, ancorchè pigro ad ogni altra cosa, non sarà pigro a studiare, anzi travaglierà nello studio gl’interi giorni. E forse la massima parte delle persone assolutamente studiose, sono infingarde, e pure nello studio operano e si affaticano continuamente. Il fine dei pensieri e delle azioni dell’uomo è sempre e solo il piacere. Ma i mezzi di conseguir quello che l’uomo si propone come piacere, ora hanno piacere in se stessi, ora no. Questi ultimi sono materia della pigrizia, ancorchè domandino pochissima fatica, ancorchè il piacere a cui condurrebbero sia vicinissimo e prontissimo e certissimo, ancorchè l’uomo faccia molta stima di questo piacere e lo desideri, ancorchè finalmente il fine al quale questi mezzi conducono sia necessario, o molto utile ad ottenere altri piaceri. Così l’uomo si astiene di comparire a una festa (dove crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se si fosse trovato all’ordine, o se non se gli fosse richiesto d’assettarsi, sarebbe andato alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si otteneva certamente con un’ora di pochissima fatica. Così la pigrizia ritiene ancora da quei travagli che sono necessari a procacciarsi il mangiare e il bere, perchè essi in se non hanno piacere. Così da cento altre azioni utili, cioè conducenti più o men tosto al piacere (giacchè questo è il significato di utile), ma non piacevoli in se: e tanto più quanto più è lontano il piacere ch’esse procacciano, e quanto elle sono più faticose, più lunghe, e meno piacevoli. (20. Maggio 1823.). La voce popolare bobò che significa presso di noi uno spauracchio de’ fanciulli simile al Di alcune cagioni che anche ne’ bassi tempi poterono introdurre vocaboli e modi greci nel volgare o ne’ volgari d’Italia, vedi Perticari Apologia di Dante, capo 39. p. 386.(21. Maggio 1823.). Dell’antico volgare latino, vedi Perticari Degli scrittori del 300. lib.1. cap. 5. 6. 7. (21. Maggio 1823.). È pur doloroso che i filosofi e le persone che cercano di essere utili o all’umanità o alle nazioni, sieno obbligate a spendere nel distruggere un errore o nello spiantare un abuso quel tempo che avrebbono potuto dispensare nell’insegnare o propagare una nuova verità, o nell’introdurre o divulgare una buona usanza. E veramente a prima vista può parer poco degno di un grande intelletto, e poco utile, o se non altro, di seconda o terza classe nell’ordine de’ libri utili, un libro, tutta la cui utilità si riduca a distruggere uno o più errori. (Tali sono p. e. i due Trattati di Perticari, e tutta la Proposta di Monti). Ma se guarderemo più sottilmente, troveremo che i progressi dello spirito umano, e di ciascuno individuo in particolare, consistono la più parte nell’avvedersi de’ suoi errori passati. E le grandi scoperte per lo più non sono altro che scoperte di grandi errori, i quali se non fossero stati, nè quelle (che si chiamano, scoperte di grandi verità) avrebbero avuto luogo, nè i filosofi che le fecero avrebbero alcuna fama. Così dico delle grandi utilità recate ai costumi, alle usanze ec. Non sono, per lo più, altro se non correzioni di grandi abusi. Lo spirito umano è tutto pieno di errori; la vita umana di male usanze. La maggiore e la principal parte delle utilità che si possono recare agli uomini, consiste nel disingannarli e nel correggerli, piuttosto che nell’insegnare e nel bene accostumare, benchè quelle operazioni bene spesso, anzi ordinariamente, ricevano il nome di queste. La maggior parte de’ libri, chiamati universalmente utili, antichi o moderni, non lo sono e non lo furono, se non perchè distrussero o distruggono errori, gastigarono o gastigano abusi. In somma la loro utilità non consiste per lo più nel porre, ma nel togliere, o dagl’intelletti o dalla vita. Grandissima parte de’ nostri errori scoperti o da scoprirsi, sono o furono così naturali, così universali, così segreti, così propri del comune modo di vedere, che a scoprirli si richiedeva o si richiede un’altissima sapienza, una somma finezza e acutezza d’ingegno, una vastissima dottrina, insomma un gran genio. Qual è la principale scoperta di Locke, se non la falsità delle idee innate? Ma qual perspicacia d’intelletto, qual profondità ed assiduità di osservazione, qual sottigliezza di raziocinio non era necessaria ad avvedersi di questo inganno degli uomini, universalissimo, naturalissimo, antichissimo, anzi nato nel genere umano, e sempre nascente in ciascuno individuo, insieme colle prime riflessioni del pensiero sopra se stesso, e col primo uso della logica? E pure che infinita catena di errori nascevano da questo principio! Grandissima parte de’ quali ancor vive, e negli stessi filosofi, ancorchè il principio sia distrutto. Ma le conseguenze di questa distruzione, sono ancora pochissimo conosciute (rispetto alla loro ampiezza e moltiplicità), e i grandi progressi che dee fare lo spirito umano in séguito e in virtù di questa distruzione, non debbono consistere essi medesimi in altro che in seguitare a distruggere. Cartesio distrusse gli errori de’ peripatetici. In questo egli fu grande, e lo spirito umano deve una gran parte de’ suoi progressi moderni al disinganno proccuratogli da Cartesio. Ma quando questi volle insegnare e fabbricare, il suo sistema positivo che cosa fu? Sarebbe egli grande, se la sua gloria riposasse sull’edifizio da lui posto, e non sulle ruine di quello de’ peripatetici? Discorriamo allo stesso modo di Newton, il cui sistema positivo che già vacilla anche nelle scuole, non ha potuto mai essere per i veri e profondi filosofi altro che un’ipotesi, e una favola, come Platone chiamava il suo sistema delle idee, e gli altri particolari o secondari e subordinati sistemi o supposizioni da lui immaginate, esposte e seguite. (21. Maggio. 1823.). Paragonando la filosofia antica colla moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente perchè i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare. Il che se gli antichi tal volta facevano, niuno però era che in questo caso non istimasse suo debito e suo interesse il sostituire[a] . Così fecero anche nella prima restaurazione della filosofia Cartesio e Newton. Ma i filosofi moderni, sempre togliendo, niente sostituiscono. E questo è il vero modo di filosofare, non già, come si dice, perchè la debolezza del nostro intelletto c’impedisce di trovare il vero positivo, ma perchè in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio. Quindi è che i più semplici più sanno: che la semplicità, come dice un filosofo tedesco, (Wieland) è sottilissima, che i fanciulli e i selvaggi più vergini vincono di sapienza le persone più addottrinate: cioè più mescolate di elementi stranieri al loro intelletto. Di qui si conferma quel mio principio che la sommità della sapienza consiste nel conoscere la sua propria inutilità, e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella mai non fosse nata: e la sua maggiore utilità, o per lo meno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’è possibile) appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento. E quello ch’io dico qui dell’intelletto, dico altrove, e qui ridico, anche per rispetto alla vita, e a tutto quello che appartiene all’uomo, e che ha qualsivoglia relazione colla sapienza. (21. Maggio 1823.). I filosofi antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione e il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’esperienza. (E questa è la gran diversità fra la filosofia antica e la moderna). Ora quanto più osservano tanto più errori scuoprono negli uomini, più o meno antichi, più o meno universali, propri del popolo, de’ filosofi, o di ambedue. Così lo spirito umano fa progressi: e tutte le scoperte fondate sulla nuda osservazione delle cose, non fanno quasi altro che convincerci de’ nostri errori, e delle false opinioni da noi prese e formate e create col nostro proprio raziocinio o naturale o coltivato e (come si dice) istruito. Più oltre di questo non si va. Ogni passo della sapienza moderna svelle un errore; non pianta niuna verità, (se non che tali tuttogiorno si chiamano le proposizioni, i dogmi, i sistemi in sostanza negativi). Dunque se l’uomo non avesse errato, sarebbe già sapientissimo, e giunto a quella meta a cui la filosofia moderna cammina con tanto sudore e difficoltà. Ma chi non ragiona, non erra. Dunque chi non ragiona, o per dirlo alla francese, non pensa, è sapientissimo. Dunque sapientissimi furono gli uomini prima della nascita della sapienza, e del raziocinio sulle cose: e sapientissimo è il fanciullo, e il selvaggio della California, che non conosce il pensare. (21. Maggio 1823.). Ho detto che la filosofia moderna, in luogo degli errori che sterpa, non pianta nessuna verità positiva. Intendo verità semplicemente nuove; verità di cui vi fosse alcun bisogno, che avessero alcun valore, alcuno splendore, che meritassero di essere annunziate e affermate, che non fossero al tutto frivole e puerili, che non fossero manifestissime e conseguenti per se medesime, se gli errori contrarii non avessero avuto luogo, o non esistessero oggidì nelle menti degli uomini. Per esempio la filosofia moderna afferma che tutte le idee dell’uomo procedono dai sensi. Questa può parere una proposizione positiva. Ma ella sarebbe frivola, se non avesse esistito l’errore delle idee innate; come sarebbe frivolo l’affermare che il sole riscalda, perchè niuno ha creduto che il sole non riscaldasse, o affermato che il sole raffredda. Ma se questo fosse avvenuto, allora neanche quella verità o proposizione, che il sole riscalda, sarebbe tenuta frivola. Di più l’intenzione e lo spirito di quella proposizione che tutte le nostre idee vengono dai sensi, è veramente negativo, ed essa proposizione è come se dicesse, L’uomo non riceve nessuna idea se non per mezzo dei sensi; perch’ella mira espressamente ed unicamente ad escludere quell’antica proposizione positiva che l’uomo riceve alcune idee per altro mezzo che per quello dei sensi; ed è stata dettata dalla sottile speculazione di chi ben guardando nel proprio intelletto s’avvide che niuna idea gli era mai pervenuta fuori del ministerio dei sensi. Questo è un procedere affatto negativo, sì nella scoperta, sì ancora nell’enunciazione, perchè infatti da principio quella verità fu annunziata come negazione dell’errore contrario che allora sussisteva. Così discorrete d’infinite altre proposizioni o dogmi ec. della filosofia moderna, che hanno aspetto di positivi, ma che nello spirito, nella sostanza, nello scopo, e nel processo che il filosofo ha tenuto per iscoprirli, sono, o certo originalmente furono, negativi. (22. Maggio 1823.). Perticari, Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 2. p. 106-7. fa derivare il nome italiano carogna da un’antica voce greca. (22. Maggio 1823.). Di quelli che nel 500. volevano restringere la lingua italiana della poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella del solo Boccaccio, vedi Perticari Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 12. p. 178. colle similitudini che ivi pone de’ greci e de’ latini, e Apologia di Dante c. 41. p. 407-10. (23. Maggio 1823.). Ho detto altrove che la lingua francese, povera di forme, è tuttavia ricchissima e sempre più si arricchisce di voci. Distinguo. La lingua francese è povera di sinonimi, ma ricchissima di voci denotanti ogni sorta di cose e di idee, e ogni menoma parte di ciascuna cosa e di ciascuna idea. Non può molto variare nella espressione d’una cosa medesima, ma può variamente esprimere le più varie e diverse cose. Il che non possiamo noi, benchè possiamo ridire in cento modi le cose dette. Ma certo è sempre varia quella scrittura che può esser sempre propria, perchè ad ogni nuova cosa che le occorre di significare, ha la sua parola diversa dalle altre per significarla. Anzi questa è la più vera, la più sostanziale, la più intima, la più importante, ed anche la più dilettevole varietà di lingua nelle scritture. E quelle scritte in una lingua soprabbondante di sinonimi, per lo più sono poco varie, perchè la troppa moltitudine delle voci fa che ciascheduno scrittore per significare ciaschedun oggetto, scelga fra le tante una sola o due parole al più, e questa si faccia familiare e l’adoperi ogni volta che le occorre di significare il medesimo oggetto; e così ciascheduno scrittore in quella lingua abbia il suo vocabolarietto diverso da quel degli altri, e limitato: come altrove ho detto accadere agli scrittori greci ed italiani. E osservo che sebbene la lingua greca è molto più varia della latina, nondimeno per la detta ragione le scritture greche, massime quelle degli ottimi e originali, sono meno varie delle latine per ciò che spetta ai vocaboli e ai modi. (23. Maggio 1823.). V. p. 2755. Chi vuol vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove; e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore. Perciocchè Platone in queste orazioni adopra e vocaboli e frasi e costrutti notabilissimamente e visibilmente diversi da quelli che compongono la lingua ordinaria de’ suoi Dialoghi, sebbene in questi egli tratta bene spesso le medesime o simili materie a quelle delle tre suddette orazioni, massime dell’ultima. E i vocaboli, le frasi, i costrutti dell’ultima orazione (di stile tutta poetica, ma non perciò tumida o esagerata o eccessiva o tale che non sia vera prosa) sono pure diversissimi da quelli delle altre due. Nè in veruna di queste tre lo scrittore fa forza alla lingua, o dimostra affettazione, come fecero poi quei greci più recenti che si scostarono dalla maniera propria per seguire e imitare l’altrui. Ma certo chi non conoscesse altra lingua greca che la consueta di Platone, non senza una certa difficoltà potrebbe intendere quelle tre orazioni. (23. Maggio. 1823.). Alla p. 2699. Di quelli scrittori del 300 che usarono lingua più illustre e comune, o manco plebea e provinciale o municipale, vedi Perticari Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 6. È da notare che molte differenze che s’incontrano in questi scrittori fra la loro lingua e la presente, non sono da attribuire alla lingua di quel secolo. Ma elle sono tutte proprie degli scrittori medesimi. I quali in quei primi cominciamenti della nostra lingua illustre, in quella scarsezza di esempi, e quindi di regole della lingua volgare scritta, seguirono quali una strada e quali un’altra, sì nel trovare o crear le voci ai dati oggetti, sì nel collegarle, come quelli ch’erano i primi; e spesso per mancanza d’arte, per cattivo gusto, per povertà di voci o di modi propria loro o della lingua, per vaghezza di novità, o per sola ignoranza, e poca conoscenza della loro stessa lingua scritta o parlata, e per non sapere scrivere, divisero le loro scritture dalla lingua parlata molto più che non si doveva, o in quelle cose e in quelle guise che non si doveva; non volendo esser plebei, furono qua e là mostri di locuzione; non sapendo esprimersi, inventarono parole e forme tutte loro, tutte barbare; introdussero nelle scritture molti vocaboli e modi latini o provenzali durissimi e ripugnanti all’indole della favella comune o particolare, illustre o plebea, di quel medesimo secolo. Della qual favella pertanto in queste cose non si può nè si dee fare argomento da quelle scritture. Perchè quelle mostruosità e stranezze, che noi crediamo e chiamiamo comunemente arcaismi, come non si parlano ora nè si scrivono, così non furono mai parlate nè pure in quel secolo, nè scritte se non da uno o da pochi; e quindi non sono proprie della lingua del 300 ma di quei particolari scrittori. E neanche nei secoli seguenti al suddetto, fino a noi, non furono mai parlate da alcuno in Italia, nè scritte se non da qualche pedantesco imitatore, e razzolatore degli antichi, de’ quali pedanti ve n’ha gran copia anche oggidì. Ma l’autorità di questi non fa la lingua nè presente nè passata. Vedi anche circa queste mostruosità arbitrarie e particolari di tale o tale trecentista, il Perticari loc. cit. p. 13-5. e massime p. 136. fine. (23. Maggio 1823.). Anche il Gelli confessava (ap. Perticari Degli Scritt. del Trecento l. 2. c. 13. p. 183.) che la lingua toscana non era stata applicata alle scienze. (24. Maggio 1823.). Della impossibilità o dannosità di sostituire ai termini delle scienze o delle arti 1. le circollocuzioni, 2. i termini generali, 3. i metaforici e catacretici o in qualunque modo figurati, vedi Perticari loc. cit. p. 184-5. (24. Maggio 1823.). Aristotele diceva più essere le cose che le parole : e il Perticari loc. cit. p. 187-8. spiega ed applica questa sentenza alla necessità di far sempre nuovi vocaboli per le nuove cognizioni e idee. (24. Maggio 1823.). Della necessità di far nuove voci alle nuove cose, o alle cose non mai trattate da’ nazionali, e che ciascuna scienza o arte abbia i suoi termini propri e divisi da quelli delle altre scienze e del dir comune, vedi Cicerone de finibus l. 3. c. 1-2. (24. Maggio 1823.). Delle lingue vive non accade quello che delle lingue le quali più non si parlano. Queste, a guisa di pianta che più non vegeta, non possono ricevere accrescimento; e tutto quello, che a lor riguardo si può fare da noi, si è di serbarle diligentemente nello stato in cui sono; perciocchè in esse ogni alterazione tende a corrompimento. Al contrario le lingue che sono vive, vegetano tuttora, e possono crescere di più in più: e in esse le piccole mutazioni, che si vanno facendo di tempo in tempo, non sono segnali certi di corrompimento; anzi sono talora di sanità e vigoria. E però coloro, i quali non vorrebbon che i nostri scritti avessero altro sapore che di Trecento, nocciono alla lingua, perchè si sforzano di ridurla alla condizione di quelle che sono morte, e, in quanto a loro sta, ne diseccano i verdi rami, sicch’ella non possa, contro all’avviso d’Orazio, più vestirsi di nuove foglie . Quest’autore vivea pure nel secol d’oro della lingua latina, e nel tempo in cui essa era nel suo più florido stato: e tuttavia perch’ella era ancor viva, egli pensava ch’essa potesse arricchirsi vie maggiormente e ricevere nuove forme di favellare. Nota dell’Abate Colombo alle Lezioni sulle Doti di una colta favella con una non più stampata sullo stile da usarsi oggidì ed altre operette del medesimo autore (cioè dell’Abate Colombo). Parma per Giuseppe Paganino 1820. (ediz. 2da delle tre prime Lezioni e delle altre operette, fuorchè d’una). Lezione IV. Dello Stile che dee usare oggidì un pulito Scrittore. pag. 96. (antepenultima delle Lezioni). nota a. (25. Maggio. Domenica della SS. Trinità. 1823.). I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch’essa è già perfetta. Ma lo stesso contrasto facevano nei cinquecento quand’essa si stava perfezionando, anzi nel momento ch’ella cominciavasi a perfezionare, come fece il Bembo, il quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle la facoltà di crescer mai più, e ’l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio. Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone e d’Orazio, cioè nel secolo d’oro della lingua latina, nel quale ella si perfezionava, e fino al quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria nasce presto, e gli uomini impotenti presto, anzi subito credono e vogliono che sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè accrescere quel tanto, più o manco, di buono ch’è stato fatto, per dispensarsi dall’oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch’essi non si sentono capaci di farlo. (25. Maggio 1823.). E come pochissimo ci vuole a superare l’abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio, e pochissima bontà basta a fare ch’essi la credano insuperabile, qual è veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che al loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il mediocre pare ottimo, e l’ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al contrario. (27. Maggio. 1823.). Per quanto voglia farsi, non si speri mai che le opere degli scienziati si scrivano in bella lingua, elegantemente e in buono stile (con arte di stile). Chiunque si è veramente formato un buono stile, sa che immensa fatica gli è costato l’acquisto di quest’abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò, quanti confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi inutili, e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del bello scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e finalmente l’arte di mettere in opera esso stesso quello che non senza molta difficoltà è giunto a riconoscere e sentire ne’ grandi maestri, arte difficilissima ad acquistare, e che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensì la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza l’arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno sempre avuta tutta la loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi e lontanissimi da questi, come può mai essere che mettendosi a scrivere, scrivano bene, se per far questo si richiede un’arte tutta propria della cosa, e che domanda tutto l’uomo, e tanti studi, esercizi, e fatiche? E come si può presumere che gli scienziati si assoggettino a questi studi e fatiche, non avendoci amore alcuno, ed essendo tutti occupati e pieni di assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando loro assolutamente il tempo necessario per un’arte che domanda più tempo d’ogni altra? Oltre di ciò i più perfetti possessori di quest’arte, dopo le lunghissime fatiche spese per acquistarla, non sono mai padroni di metterla in opera senza che lo stesso adoperarla riesca loro faticosissimo e lunghissimo, perchè certo neppure i grandi maestri scrivono bene senza gravissime e lunghissime meditazioni, e revisioni, e correzioni, e lime ec. ec. Si può mai pretendere o sperare dagli scienziati questo lavoro, il quale è tanto indispensabile come quello che si richiede ad acquistare l’arte di bene scrivere? Per gli scienziati ch’io escludo dalla possibilità di scriver bene ed elegantemente, non intendo i moralisti, i politici, gli scrutatori del cuore umano e della natura umana, i metafisici, insomma i filosofi propriamente detti. Le scienze di costoro non sono molto lontane da quella che si richiede a bene scrivere, nè le loro abitudini ripugnano all’abitudine e alla riflessione che produce il bello, il semplice, l’elegante. Anzi Cicerone diceva che senza filosofia non si dà perfetto oratore; e lo stesso si può dire del perfetto scrittore d’ogni genere. La scienza del bello scrivere è una filosofia, e profondissima e sottilissima, e tiene a tutti i rami della sapienza. Di più la materia stessa di tali discipline è suscettibilissima d’eleganza. Quindi molti ottimi scrittori antichi e moderni ha fornito questa sorta di dottrine. Ma io escludo dal bene scrivere i professori di scienze matematiche o fisiche, e di quelle che tengono dell’uno e dell’altro genere insieme, o che all’uno o all’altro s’avvicinano. E di questa sorta di scienze in verità non abbiamo buoni ed eleganti scrittori nè antichi nè moderni, se non pochissimi. I greci trattavano queste scienze in modo mezzo poetico, perchè poco sperimentavano e molto immaginavano. Quindi erano in esse meno lontani dall’eleganza. Ma certo essi ne furono tanto più lontani, quanto più furono esatti. Platone è fuori di questa classe. Gli antichi lodano assai lo stile d’Aristotele e di Teofrasto. Può essere ch’abbiano riguardo ai loro scritti politici, morali, metafisici, piuttosto che ai naturali. Io dico il vero che nè in questi nè in quelli non sento grand’eleganza. (Quel ch’io ci trovo è purità di lingua e un sufficiente e moderato atticismo: l’uno e l’altro, effetto del secolo e della dimora anzi che dello scrittore, e insomma natura e non arte. Niuna eleganza però nè di stile nè di parole. Anzi sovente grandissima negligenza sì nella scelta sì nell’ordine e congiuntura de’ vocaboli; poca proprietà, e non di rado niuna sintassi.) Ben la sento e moltissima in Celso, vero e forse unico modello fra gli antichi e i moderni del bello stile scientifico-esatto. Col quale si potrà forse mettere Ippocrate. I latini ebbero pochi scrittori scientifici-esatti. E di questi, fuori di Celso, qual è che si possa chiamare elegante? Non certamente Plinio, il quale se si vorrà chiamar puro, si chiamerà così, perchè anch’egli per noi fa testo di latinità. Lascio Mela, Solino, Varrone, Vegezio, Columella ec. Il nostro Galileo lo chiami elegante chi non conosce la nostra lingua, e non ha senso dell’eleganza. (Vedi Giordani Vita del Cardinale Pallavicino). Il Buffon sarebbe unico fra’ moderni per il modo elegante di trattare le scienze esatte: ma oltre che la storia naturale si presta all’eleganza più d’ogni altra di queste scienze; tutto ciò che è elegante in lui, è estrinseco alla scienza propriamente detta, ed appartiene a quella che io chiamo qui filosofia propria, la quale si può applicare ad ogni sorta di soggetti. Così fece il Bailly nell’Astronomia. Sempre che usciamo dei termini dottrinali e insegnativi d’una scienza esatta, siamo fuori del nostro caso. La scienza non è più la materia ma l’occasione di tali scritture; non s’impara la scienza da esse, nè questa fa progressi diretti, per mezzo loro, nè riceve aumento diretto dalle proposizioni ch’esse contengono: elle sono considerazioni sopra la scienza. (28. Maggio. Vigilia del Corpus Domini. 1823.). I pensieri di Buffon non compongono e non espongono la scienza, non sono e non contengono i dogmi della medesima, o nuovi dogmi ch’esso le aggiunga, ma la considerano, e versano sopra di lei e sopra i suoi dogmi. Si può ornare una materia coi pensieri e colle parole. Tutte le materie sono capaci dell’ornamento de’ pensieri, perchè sopra ogni cosa si può pensare, e stendersi col pensiero quanto si voglia, più o meno lontano dalla materia strettamente presa. Ma non tutte si possono ornare colle parole. Il Buffon adornò la scienza con pensieri filosofici, e a questi pensieri non somministrati ma occasionati dalla storia naturale, applicò l’eleganza delle parole, perch’essi n’erano materia capace. Ma i fisici, i matematici ordinariamente non possono e non vogliono andar dietro a tali pensieri, ma si ristringono alla sola scienza. Chiamo qui scienze esatte[a] tutte quelle che ancorchè non sieno ancora giunte a un cotal grado di perfezione e di certezza, pure di natura loro debbono esser trattate colla maggior possibile esattezza, e non danno luogo all’immaginazione (della quale il Buffon fece grandissimo uso), ma solamente all’esperienza, alla notizia positiva delle cose, al calcolo, alla misura ec. (30. Maggio. 1823.). In proposito della prontissima decadenza della letteratura latina, e della lunghissima conservazione della greca, è cosa molto notabile, come dopo Tacito, cioè dall’imperio di Vespasiano in poi (fino al quale si stendono le sue storie) la storia latina restò in mano dei greci, e le azioni nostre furono narrate da Appiano, Dione, Erodiano, anche prima della traslocazione dell’imperio a Constantinopoli, e dopo questa da Procopio, Agazia, Zosimo ec. Senza i quali la storia del nostro impero da Vespasiano in poi, sarebbe quasi cieca, non avendo altri scrittori latini che quei miserabili delle Vite degli Augusti, piene di errori di fatto, di negligenza, di barbarie, e Ammiano non meno barbaro, per non dir di Orosio e d’altri tali più miserabili ancora. Così quella nazione che ne’ tempi suoi più floridi aveva narrato le sue proprie cose, e i suoi splendidissimi gesti, e le sue altissime fortune, e forse prima d’ogni altra, aveva dato in Erodoto l’esempio e l’ammaestramento di questo genere di scrittura; dopo tanti secoli, quando già non restava se non la lontana memoria della sua grandezza, estinto il suo imperio e la sua potenza, fatta suddita di un popolo che quando ella scriveva le sue proprie storie, ancora non conosceva, seguiva pure ad essere l’istrumento della memoria dei secoli, e i casi del genere umano e di quello stesso popolo dominante che l’aveva ingoiata, ed annullato da gran tempo la sua esistenza politica, erano confidati unicamente alle sue penne. Tanto può la civilizzazione, e tanto è vero che la civilizzazione della Grecia ebbe una prodigiosa durata, e vide nascere e morire quella degli altri popoli (anche grandissimi), i quali erano infanti, anzi ignoti, quand’ella era matura e parlava e scriveva; e giunsero alla vecchiezza e alla morte, durando ancora la sua maturità, e parlando essa tuttavia e scrivendo. Veramente la Grecia si trovò sola civile nel mondo ai più antichi tempi, e senza mai perdere la sua civiltà, dopo immense vicissitudini di casi, così universali come proprie, dopo aver veduto passare l’intera favola del più grande impero, che nella di lei giovanezza non era ancor nato; dopo aver communicata la sua civiltà a cento altri popoli, e vedutala in questi fiorire e cadere, tornò un’altra volta, in tempi che si possono chiamar moderni, a trovarsi sola civile nel mondo, e nuovamente da lei uscirono i lumi e gli aiuti che incominciarono la nuova e moderna civiltà nelle altre nazioni. Lascio la Storia Ecclesiastica, della quale i greci hanno tanti scrittori, e i latini, si può dir, niuno se non S. Ilario, della cui storia restano alcuni frammenti, che non so però quanto abbiano dello storico, nè se quella fosse veramente storia. V. i Bibliografi, e le opp. di S. Ilario, e una Dissert. del Maffei appiè dell’opp. di S. Atanas. ediz. di Pad. 1777. Lascio le Croniche d’Africano e d’Eusebio, opere che niuno avrebbe pur saputo immaginare a quei tempi nell’Europa latina, che furono il modello di tutte le miserabili Cronografie latine uscite dipoi (di Prospero, Isidoro ec.), che furono recate allora nella lingua d’Italia, come nell’infanzia della letteratura latina furono tradotte le opere di Omero, di Menandro, ec. che furono anche recate nelle lingue d’Oriente (armena, siriaca ec.), di quell’Oriente che di nuovo riceveva la civiltà e letteratura dalla Grecia, e quivi ancora servirono di modello, come alla Cronica di Samuele Aniese ec. (30. Maggio. 1823.). È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono più che i vecchi (dico quanto all’animo), ma eziandio (contro quello che può parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s’annoiano più che i vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei principii posti nella mia teoria del piacere. Perciocchè ne’ giovani è più vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell’esistenza e di se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore intensità e sentimento e stimolo e vivacità e forza del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame e bisogno di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è necessario che dove n’è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento dell’infelicità; quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di vuoto; quivi maggior noia, maggior fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior grado ne’ giovani che ne’ vecchi; siccome sono; massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza vitale, di darle sfogo ed uscita dall’individuo, di versarla fuori, e liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla mente e alle facoltà interne dell’uomo, e del giovane massimamente. Il qual ristagno è micidiale alla felicità per le ragioni sopraddette. Ora esso è l’effetto proprio del moderno modo di vivere, e il carattere che lo distingue dall’antico, e quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo di carattere essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da concepirsi agli antichi, gl’ispirò il René, che si aggira tutto in descrivere e determinare questo ristagno, e gli effetti suoi. Da ciò solo si conchiuda se la vita antica o la moderna è più conducente alla felicità, ovvero qual delle due sia meno conducente all’infelicità. E poichè lo Chateaubriand considera questo ristagno come effetto preciso e proprio del Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza se ne debba tirare intorno a questa religione, per ciò che spetta al temporale. In verità si trova ad ogni passo che le sue più fine, profonde, nuove e vere osservazioni e i suoi argomenti intorno al Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al carattere e spirito dell’uomo Cristiano, o moderno e civile, provano dirittamente il contrario di quello ch’egli si propone. E può dirsi che ogni volta ch’egli reca in mezzo osservazioni nuove, travaglia per la sentenza contraria alla sua, accresce gli argomenti che la fortificano, e somministra nuove armi ai suoi propri avversari, credendosi di combatterli. (1. Giugno. Domenica. 1823.). V. p. 2752. Per esempio d’uno dei tanti modi in cui gli alfabeti, ch’io dico esser derivati tutti o quasi tutti da un solo, si moltiplicarono e diversificarono dall’alfabeto originale, secondo le lingue a cui furono applicati, può servire il seguente. Nell’alfabeto fenicio, ebraico, samaritano ec. dal quale provenne l’alfabeto greco, non si trova il Ne’ tempi più hassi, moltiplicandosi le scritture, o piuttosto la necessità di scrivere in fretta per la scarsezza degli scrivani e del guadagno, e di scrivere in poco spazio per la scarsezza della carta ec., e massimamente la negligenza e sformatezza e il cattivo gusto della scrittura, e quindi impicciolendosi e affrettandosi sommamente le forme dei caratteri, si moltiplicarono anche a dismisura i nessi, le abbreviature ec. d’ogni genere (delle quali gli antichi erano stati parchissimi, e alle quali anche poco si prestava la forma del loro carattere); di modo che non v’è quasi codice o greco o latino di quelle età che non offra nuove differenze di legature e abbreviature ec. Ma oltrechè la stessa moltitudine e varietà loro impediva che questi tali caratteri doppi o tripli o quadrupli ec. non fossero ricevuti nell’alfabeto; esisteva già la grammatica e le regole ortografiche, e gli alfabeti delle rispettive lingue erano da sì gran tempo, per sì lungo uso, e sì pienamente determinati, fissati e circoscritti, che non davano più luogo nemmeno ai nessi più costantemente e universalmente, e con più certa significazione adottati in quei tempi. Se non che forse negli alfabeti delle lingue che si formarono dopo i detti tempi, e massimamente delle settentrionali, rimase alcun vestigio di quel barbaro uso de’ caratteri composti, il quale è probabilmente l’origine del W, del Ç ec. Negli alfabeti Orientali, settentrionali antichi ec. (alcuni de’ quali abbondano perciò strabocchevolmente di caratteri, impropriamente chiamati lettere da’ nostri, come il sascrito, che n’ha più di 50.) si trovano moltissimi caratteri rappresentanti due, tre, quattro o anche più suoni elementari unitamente. I quali caratteri non si debbono creder sincroni all’invenzione o adozione di quegli alfabeti, ma nati dalla fretta e dal comodo degli scrivani come nessi, e ricevuti poi facilmente come caratteri semplici (benchè così numerosi) negli alfabeti di lingue le cui grammatiche e regole ortografiche o non esistono, o nacquero tardi, o non sono abbastanza fisse, ferme, certe, stabilite, invariabili, o abbastanza precise, minute, determinate, esatte, particolari, distinte, o abbastanza note e adottate universalmente nella rispettiva nazione, o tardi hanno conseguito queste qualità. E dico tardi, rispetto alla maggiore o minore antichità della scrittura e letteratura presso quelle nazioni; presso alcune delle quali esse sono molto più antiche che presso la greca, come la scrittura e letteratura sascrita presso gl’indiani. Nondimeno questa prodigiosa moltiplicità di caratteri rappresentanti de’ suoni composti, nasce in alcuni dei detti alfabeti dal mancare in essi totalmente o in parte i segni rappresentanti i suoni semplici della favella. La qual mancanza, ch’è la maggiore imperfezione che possa essere in un alfabeto, cagiona necessariamente e immediatamente un’assoluta e indeterminata moltiplicità di segni nell’alfabeto medesimo. Ma questa mancanza ed imperfezione non è già una prova che quegli alfabeti abbiano un’origine diversa da quella degli alfabeti Europei. Essa mancanza ed imperfezione, e la moltiplicità di caratteri che ne deriva, e l’uso di segni rappresentanti de’ suoni composti, sono tutte qualità che dovettero necessariamente essere nell’alfabeto primitivo; perchè l’uomo non arriva al semplice e agli elementi se non per gradi, anzi queste sono le ultime cose a cui egli arriva, e nell’arrivarvi consiste appunto la maggior possibile perfezione delle sue idee in qualunque genere. Ora nessuna cosa umana è perfetta nel suo principio, e massime un’invenzione così difficile e astrusa come fu quella dell’alfabeto. Non fu poco, anzi fu maravigliosissimo il pensiero di applicare i segni della scrittura ai suoni delle parole, invece di applicarli alle cose e alle idee, come si fece nella scrittura primitiva e nella geroglifica, come facevano i messicani nelle loro pitture scrittorie, come fanno i selvaggi, e i chinesi. Dopo concepito questo mirabile pensiero, che fu l’origine dell’alfabeto, questo pensiero ch’io dico essere stato unico nel mondo, cioè concepito da un uomo solo (e in questo senso io sostengo che l’origine di tutti gli alfabeti sia stata una sola) molto ancora vi volle, e molto tempo dovette passare, e molti tentativi farsi, e molti alfabeti passare in uso presso varie nazioni, prima che l’uomo arrivasse a distinguere i suoni veramente semplici della favella, cioè quelli di cui si componevano tutti gli altri suoni che formavano le parole. Ma da principio, e poi successivamente a proporzione, finchè non si giunse al detto punto, moltissimi suoni composti dovettero parer semplicissimi e indecomponibili. Il numero di questi, e dei segni destinati a rappresentarli, e quindi dei caratteri dell’alfabeto, dovette andar sempre scemando a misura che l’uomo si avvicinava a scoprire i puri elementi dei suoni. Ma in questo intervallo gli alfabeti che si usavano, dovevano aver molti caratteri, perchè questi rappresentavano dei suoni composti. Non tutte le nazioni poterono profittare della scoperta che finalmente si fece dei suoni veramente semplici. Quelle nel cui uso erasi già confermato un alfabeto più o meno composto di segni rappresentanti de’ suoni più o manco moltiplici; quelle presso cui la scrittura era già comune; quelle massimamente che avevano già una letteratura, dovettero conservare il loro alfabeto, o tal qual era, o semplificato di poco, perchè l’uso vince ogni ragione. (Basti osservare che la China presso cui l’uso della scrittura s’era forse o introdotto o diffuso prima che fra le altre nazioni, non potè neppure o non volle ricevere l’uso dell’alfabeto assolutamente.) Così l’alfabeto fenicio, e gli alfabeti europei derivati da quello, si perfezionarono, mentre molti alfabeti orientali ec. rimasero nell’imperfezione, e questa si radicò e si mantenne in essi perpetuamente fino al dì d’oggi. Vedesi dalle sopraddette cose, ch’io distinguo due epoche nelle quali l’uso de’ caratteri rappresentanti de’ suoni composti dovette introdurli ne’ vari alfabeti. L’una prima del perfezionamento dell’alfabeto, l’altra dopo la sua intera perfezione. Nell’una e nell’altra epoca (specialmente però nella prima) questi caratteri contribuirono grandemente a distinguere l’alfabeto di una nazione da quello di un’altra, benchè tutti gli alfabeti derivassero da un’origine sola. Anzi parlando delle diversità intrinseche ed essenziali de’ vari alfabeti (cioè di quelle che non consistono nella forma de’ caratteri ec.), questa è forse la loro cagione principale. (3-4. Giugno. 1823.). Si possono facilmente riconoscere i caratteri composti appartenenti alla seconda epoca da quelli della prima, considerando se essi si trovano o no nell’alfabeto da cui più o meno immediatamente deriva quello in questione. Non trovandosi, è segno ch’essi appartengono alla seconda epoca. Come, non trovandosi nell’alfabeto fenicio, da cui viene il greco, i caratteri composti o doppi Alla p. 2739. fine. In primavera non è dubbio che la vita nella natura è maggiore, o, se non altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione e torpore di esso sentimento cagionato dal freddo, e del contrasto tra il nuovo sentimento, o fra il ritorno di esso, e l’abitudine contratta nell’inverno. Questo accrescimento di vita (chiamiamolo così) è comune in quella stagione, come alle piante e agli animali, così agli uomini e massime agli individui giovani, sì delle predette specie, come dell’umana. Ora indubitatamente non è alcuno, se non altro de’ giovani, che in quella stagione non sia più malcontento del suo stato e di se, che negli altri tempi dell’anno (parlando astrattamente e generalmente, senza relazione alle circostanze particolari, o vogliamo dire, in parità di circostanze). Tanto è vero che il sentimento dell’infelicità si accresce o si scema in proporzione diretta del sentimento della vita, e che l’aumento di questo è inseparabile dall’aumento di quello. (4. Giugno 1823.). V. p. 2926. fine. Così una sventura particolare opera maggior effetto e più dolorosa impressione in un temperamento forte e vivo, e lo abbatte di più che non un temperamento debole, contro quello che parrebbe dovesse essere, e che il volgo crede e dice. E la causa di ciò, non è, come si suol dire, la maggior resistenza che un temperamento forte oppone alla sventura e al dolore, ma il maggior grado di vita, e quindi la maggiore intensità di amor proprio e il maggior desiderio di felicità, che nasce dal maggior vigore; nè qui ha che far la rassegnazione, o piuttosto essa non è altro che un sentir meno il dolore. Se il dolore faceva quasi una strage nell’uomo antico, siccome fa nel selvaggio; se gli antichi, come ora i selvaggi, erano portati dalla sventura fino alle smanie e al furore, a incrudelire contro il proprio corpo, al deliquio, al totale spossamento di forze, al deperimento della salute, all’infermità, alla morte o volontaria o naturale, ciò non proveniva, come si dice, dal non essere assuefatti al dolore. Qual è l’uomo vivo che non sia accostumato a soffrire? Ma proveniva dal maggior vigore di corpo ch’era negli antichi ed è ne’ selvaggi, a paragone de’ moderni e civili. E forse questa, più che la minore assuefazione, è la causa che i giovani siano più sensibili alle sventure e più suscettibili di dolore che i vecchi; o certo questa n’è in grandissima parte la causa. Massimamente osservando che questa differenza si trova anche fra giovani assuefattissimi alle calamità, ed informatissimi, per dottrina, di quanto convenga patire in questa vita, e vecchi assuefatti ad aver sempre avuto ogni cosa a lor modo, ignorantissimi, e persuasissimi che questa terra sia la più felice abitazione del mondo, e la vita il sommo bene degli uomini (4. Giugno 1823.). Alla p. 2717. Dico che la lingua francese è più ricca dell’italiana quanto alle parole non sinonime. Intendo de’ nomi e de’ verbi. Nelle altre parti dell’orazione la ricchezza nostra è incomparabile non solo colla lingua francese, ma pur colla latina, e forse con ogni lingua viva. Questa ricchezza è utile, e reca alla nostra lingua un’immensa ed inesauribile fecondità di frasi e di forme, e allo scrittore italiano la facoltà di poterne sempre foggiar delle nuove, non solo conformi all’indole e proprietà della lingua, ma che non paiano neppur nuove (forse neanche allo stesso scrittore), perchè nascono come da se, dal fondo della lingua, chi ben lo conosce, e lo sa coltivare e scaturiscono dalla natura di essa. Da ciò deriva una incredibile varietà. Ma la sostanziale e necessaria ricchezza di una lingua non può consistere nelle particelle ec. bensì ne potrebbe nascere, se queste si applicassero alla composizione delle parole, come fa la lingua greca, la quale è ricchissima di nomi e di verbi (che sono la sostanza e la principal ricchezza di una favella) non per altra cagione principalmente, se non per la estrema abbondanza di preposizioni e particelle d’ogni sorta, e per l’uso larghissimo ch’ella ne fa nella composizione d’ogni maniera di vocaboli. (5. Giugno. ottava del Ritenere per ricordarsi o tenere a mente (v. la Crusca in ritenere par. 7.) onde ritenitiva e retentiva per memoria, viene dal latino. V. Forcellini in È proprietà della nostra lingua di contrarre i participii de’ verbi della prima congiugazione, togliendo dalla loro desinenza in ato, le due prime lettere, cioè at: i quali participii così contratti, e serbano il loro valore di participii, servendo pure alla congiugazione de’ loro verbi coll’ausiliare; e bene spesso passano a fare uffizio di aggettivi; e molti semplici aggettivi della nostra lingua non sono altro che participii così contratti o di verbi italiani originati dal latino o d’altronde, o di verbi pur latini ec. V. Bartoli Il Torto e ’l diritto del non si può. capo 137. e la pag. 3060-3. 3035-6. ec. Ora questo medesimo costume di contrarre in questo medesimo modo i participii in atus della prima, togliendo loro le due lettere at caratteristiche della desinenza, si vede essere stato anche fra’ latini, fra’ quali Virgilio ed altri fecero Io udii un uomo di campagna, avvezzo per la sua professione a considerare i rovesci degli elementi come sciagure e calamità, raccontando gli effetti d’una inondazione da lui poco innanzi veduta, e raccontandoli come dannosissimi, e compiangendoli, soggiungere che nondimeno ella era stata una cosa bella e piacevole a vedere e udire, per l’impeto e il rombo, la grandezza e la potenza della piena. Tanto è vero che l’uomo è inclinato per natura alla vita, e che tutte le sensazioni forti e vive, quand’elle non recano dolore al corpo, e non sono accompagnate col danno o col presente pericolo di chi le prova, sono per la loro stessa forza e vivezza, piacevoli, ancorchè per tutte le altre loro qualità ed effetti siano dispiacevoli o terribili ancora. (10. Giugno 1823.). Chi vuol manifestamente vedere la differenza de’ tempi d’Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla civilizzazione, e alle opinioni che s’avevano intorno alla virtù e all’eroismo, siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico; e chi vuol notare la totale diversità che passa tra il carattere e l’idea della virtù eroica che si formarono questi due poeti, e che l’uno espresse in Achille e l’altro in Enea, consideri quel luogo dell’Eneide (X. 521-36.) dov’Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo, risponde, che morto Pallante, non ha più luogo co’ Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la celata, gl’immerge la spada dietro al collo per insino all’elsa. Questa scena e questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso da Agamennone, che senza alcuna pietà uccide il troiano già vinto e supplichevole. Ma chiunque bene osservi vedrà che siccome questa scena riesce naturalissima e conveniente in Omero, così riesce forzatissima e fuor di luogo in Virgilio, e ripugna all’idea che il lettore si era formato sì del carattere di Enea, sì della virtù eroica generalmente, dietro alle tracce di quel poema: anzi, dirò anche, ripugna all’idea che se n’era formata lo stesso Virgilio. E tutto quel luogo del suo decimo libro, dov’Enea fa lo spietato e il terribile, si riconosce a prima giunta per tirato d’altronde, (cioè dall’imitazione d’Omero, e dal carattere eroico-omerico) alieno dall’indole del poema e dell’eroe, alieno dal concetto medesimo di Virgilio: tanto che quella che si chiama inumanità, sembra in quel luogo come affettata da Enea, ed ascitizia, e quasi finta e par ch’egli ci sia inesperto e non la sappia esercitare; laddove negli eroi di Omero ella par vera e propria e che venga loro da natura. La ragione si è che Omero e tutti quei del suo tempo concepivano l’inumanità verso i nemici come appartenente alla virtù eroica, come parte, come debito della medesima, e tanto è lungi che la tenessero per colpa o eccesso, che anzi la stimavano una dote e un attributo degno e proprio dell’eroe: ed intendevano di lodar quello a cui l’attribuivano; e l’attribuivano ed esageravano, volendo lodare, eziandio a chi non l’avesse o non l’avesse in quel tal grado; come fanno i panegiristi circa ogni sorta di virtù. Laddove Virgilio la concepiva, secondo le idee incivilite del suo tempo, come un vizio, e un biasimo; e concepiva come virtù e pregio la benignità ed umanità verso i nemici, il che sarebbe stato ridicolo o assurdo ai tempi d’Omero, come lo sarebbe ora presso i selvaggi, e questa umanità pose come parte essenziale e notabilissima della virtù eroica, ed espressela nel suo Enea, anzi gliel’attribuì come qualità caratteristica e principale della sua indole. E quei tratti d’inumanità non li tolse nè li ritrasse dalla forma dell’eroismo ch’egli avea nella sua mente, nè da quella del carattere di Enea ch’egli si era composta; ma dal poema che s’aveva e s’era sempre avuto per modello dei poemi eroici, e in cui si stimava universalmente, essere rappresentata la vera idea del carattere eroico. E ne li tolse quasi contro sua voglia; o più veramente non s’accorse che questa idea a’ suoi tempi, in questa parte, era mutata; e non era, in questo, l’idea sua nè quella de’ suoi contemporanei; e ch’essa era, in ciò, ben diversa dal concetto ch’egli s’era formato e ch’aveva espresso, del suo Enea. Laonde non vide che quei tratti, benchè propri della virtù eroica appresso Omero, ed appartenenti al carattere di quegli eroi, non avevano che fare col suo poema. Ma esso gli appropriò ad Enea pensandosi d’aver espresso fino allora, e di esprimere nel suo poema un eroe come quelli di Omero, e un carattere eroico come l’eroismo espresso da Omero; nel che s’ingannava; e pensandosi che l’eroismo per li suoi tempi fosse quella cosa medesima ch’era stato per li tempi d’Omero, nel che pur s’ingannava. Siccome anche s’ingannava pensandosi d’aver fatto un eroe che fosse potuto essere a quei tempi ne’ quali egli lo supponeva; o ch’essendo, fosse potuto essere stimato eroe da’ suoi contemporanei. Perchè infatti Virgilio nel formare il carattere di Enea, non salvò la verisimiglianza, rispetto ai tempi in cui fu questo eroe, e peccò di anacronismo in questo carattere molto peggio che nell’episodio di Didone; siccome peccò di gravissimo anacronismo lo Chateaubriand nei Martiri, supponendo le opinioni religiose, la religiosità e le superstizioni de’ tempi di Omero, ne’ tempi di Luciano. L’inumanità verso i nemici non era biasimo ai tempi di Omero, perchè i nemici non erano considerati come uomini, o come parte di quel corpo a cui apparteneva il loro avversario. Gli antichi (e i selvaggi altresì) erano ben lontani dal considerare tutto il genere umano come una famiglia, e molto più dal considerare i nemici come loro simili e fratelli. Simili e fratelli non erano per gli antichi, e non sono per li selvaggi, se non gl’individui della loro stessa società; o nazione o cittadinanza o esercito che la vogliamo chiamare e considerare. Di questo ho detto altrove. Quindi essere inumano verso i nemici, tanto era per gli antichi, quanto essere inumano verso i lupi o altri animali che non sono del genere umano, anzi gli nocciono. Siccome appunto i nemici nocevano o cercavano di nuocere a quella società, dentro i limiti della quale si conteneva tutta quella famiglia umana a cui gli antichi si stimavano appartenere. E come a chi prendesse a difendere o a vendicare la sua società contro gli animali nocivi, sarebbe lode il non perdonar loro in alcuna maniera, ma sterminarli tutti a poter suo; così agli antichi era lode l’inumanità verso i nemici, che non si reputavano aver diritto all’umanità, non istimandosi aver nulla di umano, cioè nulla di comune con quegli uomini che li combattevano; e l’eccesso o il sommo grado di questa inumanità si giudicava proprissima dell’eroe. Massimamente che tutte le passioni o azioni forti erano fra gli antichi stimate molto più degne, o certo più eroiche che le deboli; e quindi la spietatezza verso chi non aveva alcun titolo alla clemenza, quali si stimavano i nemici, era creduta molto più eroica che la compassione, affetto dolce, molle, e stimato femminile; la vendetta molto più eroica che il perdono, siccome il risentimento era giudicato ben più degno dell’uomo che la pazienza delle ingiurie, la quale non andava mai disgiunta dalla riputazione e dal biasimo di viltà o dapocaggine. Quando Omero, introduce Priamo ai piedi d’Achille, quando ci commuove fino all’anima coll’amaro spettacolo di tanta grandezza ridotta a tanta miseria, quando par che impieghi ogni artifizio, che accumuli ogni circostanza, propria a destarci la compassione più viva, e nel tempo stesso ci rappresenta Achille, il protagonista del suo poema, il modello della virtù eroica da lui concepita, così difficile, così tardo a lasciarsi piegare, piangente sopra il capo di Priamo, non già le sventure di Priamo, ma le sue proprie e il suo vecchio padre, e il suo Patroclo, della cui morte esso Priamo era venuto a chiedergli in certo modo il perdono, quando finalmente non lo fa risolvere di concedere al supplichevole e infelicissimo re la sua misera domanda, se non in vista dell’ordine espresso già ricevutone da Giove per mezzo di Teti, senza il quale egli dimostra e fa intendere assai chiaramente che nè le preghiere nè il pianto nè il dolore nè tutto il misero apparato di quel re domo e prostratogli dinanzi, l’avrebbero vinto; a noi pare che questo Achille sia quasi un mostro, e che anche una virtù secondaria anzi minima, non che primaria, (come si rappresenta la sua in quel poema) anche molto più gravemente offesa, anche già meno acerbamente vendicata, anche con minori cagioni d’intenerirsi, avesse dovuto e commuoversi ben tosto, e sommamente, e concedere già molto prima di quel ch’ella fa, la domanda del supplichevole, e concedere anche assai di più, potendo farlo, e farlo di volontà sua. Ma Omero stimò di doverci rappresentare in quel punto Achille come egli rappresentollo. E non si creda ch’egli nel far questo abbia solamente in mira di conservare la simiglianza del carattere feroce di Achille, da lui fino allora espresso, e di non farne un personaggio diverso da quel che l’aveva fatto essere. Omero attende a salvare il suo eroe dal biasimo della compassione, cioè della mollezza, e della facilità di lasciarsi commuovere, e della tenerezza di cuore; come noi attenderemmo (e come infatti i più moderni epici ec. attesero ec.) a salvarlo dal biasimo della durezza della insensibilità, della crudeltà verso il nemico, e a proccurargli appunto la lode della compassione verso il nemico, come cosa magnanima ec. Omero non ha solamente riguardo all’Achille tal quale egli l’ha fatto, ma alla virtù eroica tal quale allora si concepiva; egli introduce quell’episodio compassionevole in grazia del sommo interesse e del gran contrasto di affetti a cui dà luogo, ma guarda che Achille non offenda in alcuna parte le leggi dell’eroismo; non si mostri leggero, flessibile, dappoco perdonando; non sia ripreso d’essere stato umano co’ nemici della sua nazione e suoi. Tali erano i tempi di Omero, e molto più quelli ch’egli dipinge: e tali bisogna considerarli volendo ben conoscere ed estimare la somma arte imitativa di quel grande spirito, anche nelle situazioni più difficili. Siccome appunto era questa, assai più difficile per lui, stante le predette considerazioni, che non sarebbe per noi. Nella quale quanto più a noi può parere ch’egli abbia peccato, quanto più egli si allontana dalla nostra opinione, e delude ed Noi diciamo fumo per superbia, fasto, vanità, onori vani o l’orgoglio che ne nasce, e il vanto ch’altri ne fa: insomma applichiamo in molti modi e casi quella parola a significare la superbia e le cose che a questa appartengono. Vedi Caro lett. 20. vol. 1. principio. Nè più nè meno fanno i greci della voce Matto non verrebb’egli da Come la lingua latina abbia conservato l’antichità più della greca, si dimostra ancora con queste considerazioni. 1. La lingua latina conserva nell’uso comune de’ suoi buoni tempi e de’ seguenti (non solo degli anteriori) i temi, o altre voci regolari di verbi che tra’ greci, avendo le stesse radici che in latino, ma essendo però difettivi o anomali, non conservano i loro primi temi o quelle tali voci regolari, o non le usano se non di rarissimo, o talmente ch’essi temi ed esse voci non si trovano se non presso gli antichissimi autori, o presso i poeti soli, i quali in ciascuna lingua che ha favella poetica distinta, conservano sempre gran parte d’antichità per le ragioni che ho detto altrove. Dovechè la lingua latina usa essi temi ed esse voci universalmente sì nella prosa come nel verso, ed usale ne’ secoli in ch’ella era già formata e piena, ed usale eziandio non come rare, nè come quasi licenze o arcaismi, ma tutto dì e regolarmente e come temi e voci proprie e debite di quei verbi a’ quali appartengono. Per esempio il verbo Il tema Viceversa saranno ben pochi quei verbi anomali o difettivi latini il cui proprio puro e vero tema, disusato in latino, o le cui voci che in latino sieno o perdute o irregolari, si conservino, e regolari, nell’uso greco universale d’ogni buon secolo e d’ogni genere di scrittura. Tale per esempio sarebbe il verbo E qui osservo che la lingua latina conserva ordinariamente i suoi temi più semplici e puri cioè composti di minor numero di lettere, che non fa la lingua greca. Il che si può vedere e per gli esempi sopraddotti, e per alcuni che s’addurranno, e per moltissimi che si potrebbero addurre. Per esempio da 2. Molte radici (o primitive o secondarie) di vocaboli greci che non si trovano nel greco, o non sono in uso, quantunque lo fossero già, si conservano nel latino, e sono usitate. Può servir d’esempio la voce 3. Com’è detto qui sopra, p. 2774-5. la lingua latina è solita di conservar le parole molto più semplici quanto agli elementi, che non fa la lingua greca. E ciò si deve intendere non solo de’ temi de’ verbi o delle radici di qualunque vocabolo, ma d’ogni altra qualsivoglia voce. Per 4. Molti attivi di verbi che in greco non conservano se non il medio Alle osservazioni da me fatte circa il verbo Che il proprio tema de’ verbi Del resto niente impedirebbe che Ma supponendo che Chi può saper le varie vicende dei commerci antichissimi fra le lingue latina e greca, dopo che l’una e l’altra nacquero dalla stessa madre; quando la storia delle due nazioni comincia per noi così tardi, e massime la storia veridica, e certa; e la storia non alterata dalle favole ambiziose di cui è tutta piena l’antica istoria greca? Chi può con certezza negare che in quel lunghissimo tratto di tempi oscurissimi non vi fossero delle epoche nelle quali la lingua greca si arricchisse delle spoglie della sorella, ed altre, o successivamente o anche allo stesso tempo, in cui la lingua latina si arricchisse, come certo fece, delle spoglie della greca, ed anche ricevesse sotto nuova forma alcune di quelle medesime voci ch’erano nate da lei e da lei passate nella lingua greca, o alcuni derivati di quelle? Come sarebbe nella nostra supposizione; cioè che sto, nato nella lingua latina dal participio di Osservando la cosa ne’ tempi moderni, non sappiamo noi che la lingua francese è venuta d’Italia? e che dal medesimo fonte nacque una lingua sorella della francese, cioè l’italiana? E non vediamo noi quante parole nate o allevate nel nostro paese, cioè nella lingua latina; di qua passate in Francia; quivi alterate o di forma o di senso o d’ambedue; sono ritornate in Italia come forestiere ed altrui, e ricevute in questa lingua sorella della francese, e ciò fino dal cento o dal dugento o dal trecento, e tuttogiorno nella metà dell’ultimo secolo e in questo? E chi dicesse per questa ragione che la lingua francese è madre e non sorella dell’italiana, o chi negasse che la lingua francese sia provenuta d’Italia, s’apporrebb’egli al vero? Credo eziandio che non poche voci venute dalla stessa lingua italiana (non dall’antica latina), e passate in Francia; di là ci sieno tornate, e ci tornino tuttavia bene spesso come forestiere: o che quelle nostre sieno dimenticate, o che queste sieno alterate in modo che non si riconoscano essere originalmente tutt’une colle nostre ancora esistenti, e già preesistenti alle sopraddette francesi. (Quanto a molte voci e forme italiane passate anticamente fra’ provenzali, ed ora credute provenzali di origine, o perchè si trovano nei loro scrittori, e non più presso noi; o perchè, alquanto mutate dalla prima figura e significazione, le ritolsero dai provenzali i nostri primi poeti o que’ del 300, e i commerci di que’ tempi, vedi Perticari Apologia capo 11. 12. p. 108-17. e capo 19. fine p. 176-7.). Così dico di molte voci spagnuole ricevute nella nostra lingua durante il 500 e il 600, ne’ quali secoli la letteratura spagnuola nata dall’italiana, modellavasi pur tutta sull’italiana, e quindi certo la loro lingua doveva abbondare, e abbondava, di parole e maniere provenutele dall’italiano. Ma lasciando questo, potremo anche dire che il sistema de’ continuativi fosse proprio della lingua onde nacquero la latina e la greca; che di lei fossero il verbo In questa supposizione la lingua latina resterebbe pur molto superiore alla greca, rispetto alla conservazione dell’antichità. 1. Ella avrebbe conservato il sistema de’ continuativi, e la greca no. Di più ella n’avrebbe conservato il modo cioè la formazione da’ participii passivi, il che alla lingua greca è impossibile. 2. Il suo verbo Laddove nella lingua greca il verbo Alla p. 2776. La voce Del resto, quando ben si volesse che Il nome di Arpalice (della quale vedi Forcell. in
Io tengo per fermo che Del resto il luogo dell’iscrizione triopea Notisi ancora l’aggettivo Il disuso del tema da cui venne il participio Gli scrittori greci de’ secoli medii e bassi, cioè dal terzo inclusive in poi, sono pieni d’improprietà di lingua (com’è quella di Coricio sofista del sesto secolo nell’Orazione Una delle proprietà comuni alle tre lingue figlie della latina, le quali proprietà si debbono per conseguenza credere originate dalla lingua madre di tutt’e tre, come ho detto altrove, si è quella di usare causa (cosa, Alla p. 2683. marg. Da questa verissima osservazione del Castiglione, segue che tutte le immense fatiche che un perfetto scrittore deve spendere per dare a’ suoi scritti la finitezza, la grazia, la leggiadria, la nobiltà, la forza, insomma la bellezza della lingua, non possono esser nè valutate, nè gustate, neppur sentite dagli stranieri, che non sono assueti a scrivere in quella tal lingua, o non sono assueti a scriverla bene, il che è tutt’uno; e quindi elle sono tutte gittate per gli stranieri, e tutte inutili alla gloria dello scrittore riguardo agli esteri. Ma quanta parte dello stile è quasi tutt’uno colla lingua! Anzi chi può veramente o gustare o giudicare dello stile di un’opera, non potendo della lingua? E si può ben dire che ogni lingua ha il suo stile, o i suoi stili, che non si possono non che giudicare, appena ben concepire, se non si è in grado di giudicare e gustare quella tal lingua perfettamente, anzi di bene scriverla, perchè neppure i nazionali gustano quegli stili se non sono sperimentati nello scrivere la propria lingua. Dunque neppure i pregi dello stile di un perfetto scrittore possono esser valutati dagli stranieri, e tanto meno quanto egli è più perfetto, divenendone i pregi del suo stile come oggetti finissimi che sfuggono interamente alle viste deboli e ottuse, laddove se essi fossero stati più grossolani sarebbero potuti esser veduti. Ora quanta parte di un’opera è lo stile! Togliete i pregi dello stile anche ad un’opera che voi credete di stimare principalmente per i pensieri, e vedete quanta stima ne potete più fare. Dunque gli stranieri non sono assolutamente in grado nè di valutare nè di gustare nessuna opera di un perfetto scrittore, nemmeno, se non imperfettissimamente, per la parte dei pensieri. Dunque tutta la vera piena e ragionata stima che si può far d’un perfetto scrittore si restringe dentro i termini della sua nazione. E tra’ suoi nazionali quanti sono che sappiano bene scrivere e quindi ben gustarlo e valutarlo? Che cosa è dunque quella gloria per cui tanto ha sudato un perfetto scrittore, per cui ha forse speso in una sola opera tutta la vita? E quanto piacere ed a quanti proccura questa tale opera tanto lungamente e studiosamente travagliata e sudata a solo fine ch’ella proccurasse sommo e pieno e perfetto piacere? E in verità quanto alle opere di letteratura, tutte le sopraddette cose, e la conseguenza che io ne traggo, sussistono a tutto rigore[a] . (19. Giugno 1823.).
[2800 - 2999]È massima molto comune tra’ filosofi, e lo fu specialmente tra’ filosofi antichi, che il sapiente non si debba curare, nè considerar come beni o mali, nè riporre la sua beatitudine nella presenza o nell’assenza delle cose che dipendono dalla fortuna, quali ch’elle si sieno, o da veruna forza di fuori, ma solo in quelle che dipendono interamente e sempre dipenderanno da lui solo. Onde conchiudono che il sapiente, il quale suppongono dover essere in questa tale disposizion d’animo, non è per veruna parte suddito della fortuna. Ma questa medesima disposizione d’animo, supponendo ancora ch’ella sia più radicata, più abituale, più continua, più intera, più perfetta, più reale ch’ella non è mai stata effettivamente in alcun filosofo, questa medesima disposizione, dico, già pienamente acquistata, ed anche, per lungo abito, posseduta, non è ella sempre suddita della fortuna? Non si sono mai veduti de’ vecchi ritornar fanciulli di mente, per infermità o per altre cagioni, l’effetto delle quali non fu in balia di coloro l’impedire o l’evitare? La memoria, l’intelletto, tutte le facoltà dell’animo nostro non sono in mano della fortuna, come ogni altra cosa che ci appartenga? Non è in sua mano l’alterarle, l’indebolirle, lo stravolgerle, l’estinguerle? La nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia della fortuna? Può nessuno assicurarsi o vantarsi di non aver mai a perder l’uso della ragione, o per sempre o temporaneamente; o per disorganizzazione del cervello, o per accesso di sangue o di umori al capo, o per gagliardia di febbre, o per ispossamento straordinario di corpo che induca il delirio o passeggero o perpetuo? Non sono infiniti gli accidenti esteriori imprevedibili o inevitabili che influiscono sulle facoltà dell’animo nostro siccome su quelle del corpo? E di questi; altri che accadono ed operano in un punto o in poco tempo, come una percossa al capo, un terrore improvviso, una malattia acuta; altri appoco appoco e lentamente, come la vecchiezza, l’indebolimento del corpo, e tutte le malattie lunghe e preparate o incominciate già da gran tempo dalla natura ec. Perduta o indebolita la memoria non è indebolita o perduta la scienza, e quindi l’uso e l’utilità di essa, e quindi quella disposizion d’animo che n’è il frutto, e di cui ragionavamo? Ora qual facoltà dell’animo umano è più labile, più facile a logorarsi, anzi più sicura d’andar col tempo a indebolirsi od estinguersi, anzi più continuamente inevitabilmente e visibilmente logorantesi in ciascuno individuo, che la memoria? In somma se il nostro corpo è tutto in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all’azione delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l’animo, il quale è tutto e sempre soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi, quale mai non esistette, quale non può essere se non immaginario, tale ancora, sarebbe interamente suddito della fortuna, perchè in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella stessa ragione sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima. (21. Giugno 1823.). Altro è il timore altro il terrore. Questa è passione molto più forte e viva di quella, e molto più avvilitiva dell’animo e sospensiva dell’uso della ragione, anzi quasi di tutte le facoltà dell’animo, ed anche de’ sensi del corpo. Nondimeno la prima di queste passioni non cade nell’uomo perfettamente coraggioso o savio, la seconda sì. Egli non teme mai, ma può sempre essere atterrito. Nessuno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato. (21. Giugno 1823.). Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte il coro. Del qual uso molto si è detto a favore e contro. Vedi il Viaggio d’Anacarsi cap. 70. Il dramma moderno l’ha sbandito, e bene stava di sbandirlo a tutto ciò ch’è moderno. Io considero quest’uso come parte di quel vago, di quell’indefinito ch’è la principal cagione dello Da queste considerazioni si argomenti se sia giusto il dire che l’uso del coro nuoce all’illusione. Qual grata illusione senza il vago e l’indefinito? E qual dolce grande e poetica illusione doveva nascere dalle circostanze sovra esposte! (21. Giugno. 1823.). Nelle commedie la moltitudine serve altresì all’entusiasmo e al vago della gioia, alla Io non so quali abbiano ragione intorno all’origine del verbo latino Del resto il verbo Alla p. 2775. Il verbo Alla p. 2776. margine. Lo stesso discorso si può fare di I continuativi latini, tutti (se non forse Sono molti verbi formati da’ participii in us, i quali non esprimono azione continuata, nè costume di fare quella tale azione, o non l’esprimono sempre, e nondimeno anch’essi, ed anche in questo caso, sono veri continuativi, e il Forcellini e gli altri che li chiamano frequentativi, sbagliano, ed usano una voce impropria, parlando con tutto rigore ed esattezza. Per esempio Un continuativo anomalo o semianomalo si è Frequentativi. Il verbo Alcuni continuativi o frequentativi composti, sono fatti dal continuativo semplice, a dirittura, senza che il verbo padre del continuativo abbia i composti corrispondenti. Di ciò mi pare d’aver detto altrove. Veggasi la p. 3619. P. e. Verbi in tare i quali sono continuativi, benchè paiano tutt’altro, e non apparisca a prima vista questa loro qualità. Un altro È notabile come il nostro volgo e il nostro discorso familiare conservi ancora l’esattissima etimologia e proprietà de’ verbi Alla p. 2776. Da È da notare che la nostra ben distinta teoria della formazione grammaticale de’ continuativi e frequentativi, giova ancora a dimostrare evidentemente l’antica esistenza ed uso de’ participii o supini di moltissimi verbi che ora ne mancano affatto, mentre però esistono ancora i loro continuativi o frequentativi come Alla p. 2795. marg. Cambiata la pronunzia della lingua greca, doveva necessariamente mutarsi e il modo di produrre l’armonia colla collocazione delle parole, (giacchè le parole collocate all’antica e pronunziate diversamente, non potevano più rendere l’antica armonia) e quindi variarsi affatto la struttura dell’orazione, e prendere un altro giro il periodo; ed oltre a ciò mutarsi ancora l’armonia risultante dalla collocazione delle parole modernamente pronunziate, giacchè di diversi elementi, cioè di parole diversamente pronunziate era quasi impossibile che ne risultasse uno stesso effetto per mezzo della varia collocazione, cioè che le parole pronunziate alla moderna e distribuite per ciò diversamente dal modo antico, producessero l’armonia stessa che producevano coll’antica pronunzia e collocazione. Quindi diversa struttura e giro di orazione e di periodo, e nel tempo stesso diversa armonia. Assai più gran cosa che non pare, si è il cambiamento della pronunzia in una lingua. E parlo qui solamente della pronunzia che spetta alla quantità, cioè alla brevità o lunghezza delle sillabe, ed all’accentazione, senza entrar punto in quella pronunzia che spetta alle stesse lettere ed elementi della favella, la qual pronunzia come influisca sulle lingue e come basti a diversificarle l’una dall’altra, e sia principal causa sì della moltiplicazione sì della continua alterazione de’ linguaggi, è cosa già dimostrata. Ma quella pronunzia che spetta alla semplice quantità delle sillabe ed agli accenti, par cosa del tutto estrinseca alla lingua. Infatti ella non altera in nessun conto il materiale delle parole come fa l’altra. Ed appunto ell’è veramente estrinseca ed accidentale alle parole. Nondimeno il cambiamento di questa pronunzia, che nulla influisce su ciascuna parola, influisce sulle più intrinseche parti della favella, ed arreca essenzialissimi cangiamenti alla composizione e all’ordine delle parole, e quindi al giro ed alla forma della dicitura, e quindi alla vera indole della favella. V. p. 3024. Oltre di che, quando anche a’ tempi bassi si fosse potuta dare all’orazione l’antica armonia, quando anche quest’armonia si fosse ben conosciuta (che già non si conosceva), il mutato e corrotto gusto non lasciava nè poteva lasciar di stendersi anche all’armonia. Onde quell’armonia antica non sarebbe piaciuta, senza cadenze, senza strepito, senza ritornelli, senza eco, senza rimbombo, senza sfacciataggine di ritmo, dolcemente e accortamente variata ec. Tutte le contrarie qualità piacevano e si celebravano a quei tempi. Leggansi le orazioni o declamazioni o proginnasmi ec. e l’epistole stesse de’ sofisti, Libanio, Imerio, Coricio ec. Questo ancora gli obbligava a dare alle parole un giro diverso dall’antico. Di più, quando anche non fosse mancata loro la volontà, sarebbe mancata l’arte che infinita si richiede alla retta economia ed uso de’ numeri. Quindi essi sono sempre insolentemente monotoni ec. (27. Giugno 1823.). Ho detto altrove che il greco moderno è senza paragone più simile al greco antico che non l’italiano al latino. Fra le altre moltissime particolarità basti osservare che una delle cose che massimamente distinguono le lingue moderne dalle antiche, e fra queste l’italiana, spagnuola ec. dalla latina, si è che le moderne mancano dei casi de’ nomi; il che basterebbe quasi per se solo a diversificare il genio e lo spirito delle nostre lingue, da quel delle antiche. Ora il greco moderno conserva gli stessi casi dell’antico. Conserva ancora l’uso della composizione fatta coi vocaboli semplici e colle preposizioni e particelle. Ma già non v’è bisogno d’altra prova che di gittar l’occhio sopra una pagina di greco vernacolo correttamente scritto, per conoscere la visibilissima e, direi quasi, totale somiglianza ch’esso ha coll’antico, e quanto ella sia maggiore, anzi di tutt’altro genere che non è quella che passa tra l’italiano e il latino, giacchè questa consiste principalmente nel materiale de’ vocaboli e delle radici, e quella, oltre di ciò, in grandissima parte dell’indole e dello spirito. Ho detto, correttamente scritto, perchè certo fra il greco moderno scritto o parlato da un ignorante e quello scritto da un uomo colto, ci corre tanto divario quanto fra questo e il greco antico. Vedi il contratto in greco moderno barbaro pubblicato da Chateaubriand nell’Itinerario. Ma ciò è naturale, e succede in tutte le lingue e nazioni, e certo il greco antico parlato, anche dai non plebei, e scritto dagl’ignoranti era ben diverso da quello che scrivevano i dotti, come il latino rustico, dall’illustre. Vedi la pag. 2811. Il greco moderno colto, giacchè ed ogni lingua può esser colta, e niuna lingua non colta può valer nulla, potrebbe certo divenire una lingua bella, efficace, ricca, potente, e forse, per la gran parte che conserva sì delle ricchezze come delle qualità e della natura dell’antico, una lingua superiore o a tutte o a molte delle moderne colte e formate. (27. Giugno. 1823.). Grazia dallo straordinario e dal contrasto. Spesse volte la grazia o delle forme o delle maniere deriva da una bellezza e convenienza nelle cui parti non esiste veramente nessun contrasto, ma che però risulta da certe parti che non sogliono armonizzare e convenire insieme, benchè in questa tal bellezza e in questo tal caso convengano; ovvero da parti che non sogliono trovarsi riunite insieme, benchè trovandosi, sempre armonizzino: onde essa bellezza è diversa dalle ordinarie, benchè sia vera bellezza, cioè intera convenienza ed armonia. In tal caso il contrasto è estrinseco ed accidentale, non intrinseco: in tal caso la grazia deriva precisamente dalla bellezza, ma non dalla bellezza in quanto bellezza, bensì in quanto bellezza non ordinaria, e di genere diversa dalle altre: così che la grazia anche in questo caso deriva dal contrasto, non delle parti componenti il bello, ma del tutto, cioè di questo tal bello, col bello ordinario; e dalla sorpresa che l’uomo prova vedendo o sentendo una bellezza diversa da quella ch’egli suole considerar come tale, il che produce in lui un contrasto colle sue idee. Questo caso, da cui nasce la grazia, non è raro. Tutte quelle fisonomie, o quelle forme di persona, perfettamente armonizzanti, e con tutto ciò non ordinarie, o nelle quali non si suol trovare armonia, o in somma di genere diverso dal più delle fisonomie e forme belle, sono per qualche parte graziose. E il caso è più frequente e più facile nelle maniere, le quali ammettono più varietà che le forme materiali e naturali, e possono armonizzare in molti più modi che le dette forme. La grazia, anche in questi casi, è sempre relativa, cioè secondo il contrasto che fanno quelle tali forme o maniere colle assuefazioni e colle idee che lo spettatore ha intorno al bello. Il qual contrasto può esser maggiore in una persona, minore in un’altra, e in un’altra nullo; e quindi produrre un senso di maggiore o minor grazia; ovvero questo senso non esser prodotto in niun modo. E questa varietà può anche essere in una medesima persona in diversi tempi e circostanze, assuefazioni ed idee. Onde può succedere che ad una medesima persona in altro tempo, o ad un’altra persona nel tempo stesso, riesca grazioso in questi casi appunto il contrario di quello ch’erale già riuscito, o che riesce a quell’altra persona. E questa grazia di cui discorro può esser tale per un maggiore o minor numero di persone, per la più parte o per pochi, per quelli d’una città o nazione o per quelli d’un’altra, per la gente di campagna o di città: secondo che lo straordinario di quella tal bellezza e armonia è maggiore o minore, più o meno visibile, rispettivo a quello che i più riconoscono per bellezza o a quello che pochi ec. Sebbene io abbia qui considerato questa grazia applicandola alle forme e maniere delle persone, il medesimo discorso si potrà e dovrà fare intorno a tutti gli altri oggetti capaci di bellezza e di grazia, in molti de’ quali sarà molto più frequente e più facile il caso della grazia figlia della bellezza diversa dall’ordinario, ch’esso non è nelle forme e maniere degli uomini. (27. Giugno 1823.). V. p. 3177. Dovunque non cade bellezza, non cade grazia. Dico relativamente agli uomini, perchè bellezza e bruttezza cade in qualsivoglia cosa, ma gli uomini non ne giudicano, e non ne ricevono il senso se non in certe. E in queste sole, dov’essi possono ricevere il senso della bellezza, possono anche ricever quello della grazia e concepirla. E viceversa similmente, dovunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che l’una non possa esser senza l’altra. Ma quel genere ch’è capace dell’una è capace dell’altra. E per bellezza, intendo quella ch’è propriamente e filosoficamente tale, cioè quella ch’è convenienza, non l’altre impropriamente chiamate bellezze. (27. Giugno 1823.). Ho recato altrove, in proposito dei sinonimi, alcuni esempi di voci che nelle lingue figlie della latina sono passati ad aver per proprii de’ significati ben lontani da quelli che avevano nella latina, e tra queste il verbo
Ho mostrato altrove che i poeti e gli scrittori primitivi di qualunque lingua non potevano mai essere eleganti quanto alla lingua, mancando loro la principal materia di questa eleganza, che sono le parole e modi rimoti dall’uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè scrittori e poeti non v’erano stati, da’ quali si potessero torre, e i quali conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde quando una lingua comincia ad essere scritta, tanto esiste della lingua quanto è nell’uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori, che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl’italiani avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può, perchè quando nasce la letteratura di una nazione, questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in questo proposito la p. 3015. Questo medesimo vale anche per le parole della stessa lingua, rimote più che tanto dall’uso comune, sia per disuso (seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando fin allora gli scrittori), sia per qualsivoglia altra cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o di forme basta ad eccedere la capacità de’ totalmente ignoranti, quali sono allora quasi tutti, e degli a tutt’altro avvezzi che allo studio. Ho dunque detto altrove che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè, mancando loro, come s’è detto, la principal materia dell’eleganza di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti di tenere anche questo, per così dire, a mezz’aria, e di familiarizzarlo. Onde accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri, quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall’uso comune, hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già elle come tali s’adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne’ più alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a’ tempi di que’ poeti e scrittori, questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e un’aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l’eleganza sia sopravvenuta alle loro parole e a’ loro modi che non l’avevano, com’è sopravvenuta, e somma, a quei del Petrarca. Queste considerazioni si possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne’ poeti, non solo perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad essi la detta materia dell’eleganza niente meno che a’ prosatori, questa mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall’uso comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch’esso, massime ad ora ad ora, pur ci sa meno familiare, e ci rende più il senso dell’eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch’è però nel Petrarca bellissima. Così è: la condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de’ tempi nostri che abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla prosa. Ed infatti è benissimo definita la familiarità che si sente ne’ poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente, tiene della prosa. Come fa l’Eneida del Caro, che quantunque non sia poema primitivo, pure essendo stato quasi un primo tentame di poema eroico in questa lingua, che ancora non n’era creduta capace, com’esso medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile eroico. Tutto questo discorso sui poeti e scrittori primitivi di una lingua, si deve intender di quelli che meritano veramente, il nome di poeti o di scrittori, e non di quei primissimi e rozzissimi, ne’ quali non cade sapore nè di familiarità nè d’eleganza, nè d’altra cosa alcuna determinata e che si possa ben sentire, fuorchè d’insipidezza, non avendo essi nè lingua, nè stile, nè maniera, nè carattere formato, sviluppato, costante e uniforme. E il sopraddetto discorso ha massimamente luogo, e i sunnotati effetti avvengono principalmente nel caso che sui principii di una letteratura compariscano tali e così grandi ingegni che o la creino quasi in un tratto, o tanto innanzi la spingano dal luogo ove la trovano, ch’essa paia poco meno che opera loro. Il qual caso avvenne alla letteratura greca e alla italiana[a] . Perciocchè quando la letteratura si va formando appoco appoco, e con tanta uniformità di progressi, che mai un suo passo non sia fuor d’ogni proporzione cogli antecedenti, i summentovati effetti sono manco notabili, e manco facili a vedere, trovandosi l’eleganza delle parole e dei modi già fatta possibile coll’abbondanza degli scrittori e l’arricchimento della lingua che dà luogo alla scelta, e la nazione già capace e colta e studiosa, prima che la letteratura giunga a produr cosa alta e perfetta, e che un grande ingegno faccia uso dell’una e dell’altra disposizione, cioè di quella della lingua, e di quella de’ suoi nazionali. (28. Giugno. 1823.). V. p. 3009. 3413. Participii in us di verbi attivi o neutri, non deponenti, in senso attivo o neutro, alla foggia di quelli de’ deponenti. Continuativi delle lingue figlie della latina. Diventare ital. da Vantano che la lingua tedesca è di tale e tanta capacità e potenza, che non solo può, sempre che vuole, imitare lo stile e la maniera di parlare o di scrivere usata da qualsivoglia nazione, da qualsivoglia autore, in qualsivoglia possibile genere di discorso o di scrittura; non solo può imitare qualsivoglia lingua; ma può effettivamente trasformarsi in qualsivoglia lingua. Mi spiego. I tedeschi hanno traduzioni dal greco, dal latino, dall’italiano, dall’inglese, dal francese, dallo spagnuolo, d’Omero, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Lope, di Calderon ec. le quali non solamente conservano (secondo che si dice) il carattere dell’autore e del suo stile tutto intero, non solamente imitano, esprimono, rappresentano il genio e l’indole della rispettiva lingua, ma rispondono verso per verso, parola per parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle costruzioni, all’ordine preciso delle parole, al numero delle medesime, al metro, al numero e al ritmo di ciascun verso, o membro di periodo, all’armonia imitativa, alle cadenze, a tutte le possibili qualità estrinseche come intrinseche, che si ritrovano nell’originale; di cui per conseguenza elle non sono imitazioni, ma copie così compagne com’è la copia d’un quadro di tela fatta in tavola, o d’una pittura a fresco fatta a olio, o la copia d’una pittura fatta in mosaico, o tutt’al più in rame inciso, colle medesimissime dimensioni del quadro. Se questo è, che certo non si può negare, resta solamente che si spieghi con dire che la lingua tedesca non ha carattere proprio, o che il suo proprio carattere si è di non averne alcuno, oltre i cui limiti non possa passare, il che viene a dir lo stesso. Che una lingua per ricca, varia, libera, vasta, potente, pieghevole, docile, duttilissima ch’ella sia, possa ricevere, non solo l’impronta di altre lingue, ma per così dir, tutte intiere in se stessa tutte le altre lingue; ch’ella si rida della libertà, della infinita moltiplicità, della immensità della lingua greca, e dopo averla tutta abbracciata, ed ingoiatone tutte le innumerabili forme, ella si trovi ancora tanta capacità come per lo innanzi, e possa ricevere e riceva, sempre che vuole, tutte le forme delle lingue le più inconciliabili colla stessa greca (che con tante si concilia) e fra loro; delle lingue teutoniche, slave, orientali, americane, indiane; questo, dico, non può umanamente accadere, se non in una lingua che non abbia carattere; non è accaduto alla greca ch’è stata ed è la più libera, vasta e potente e la più diversissimamente adattabile di tutte le lingue formate che si conoscono; non è accaduto e non accade, che si sia mai saputo o si sappia a nessun’altra lingua perfetta di questo mondo. Io determino il mio ragionamento così. Ogni nazione ha un suo carattere proprio e distinto da quello di tutte le altre, come lo ha ciascuno individuo, e tale che niun altro individuo se gli troverà mai perfettamente uguale. Ogni lingua perfetta è la più viva, la più fedele, la più totale imagine e storia del carattere della nazione che la parla, e quanto più ella è perfetta tanto più esattamente e compiutamente rappresenta il carattere nazionale. Ciascun passo della lingua verso la sua perfezione, è un passo verso la sua intera conformazione col carattere de’ nazionali. Ora domando io: i tedeschi non hanno carattere nazionale? certo che l’hanno. Forse non ancora sviluppato, di modo ch’essendo tuttavia informe, è capace d’ogni configurazione, e non ben si distingue da quello degli altri popoli?
anzi sviluppatissimo, perchè la civiltà loro è già in un alto grado. Forse così vario, così sfuggevole, così pieghevole, così adattabile ad ogni sorta di qualità, ch’esso abbracci tutti i caratteri delle altre nazioni, e a tutti questi si possa conformare? tutto l’opposto, perchè il carattere della nazione tedesca è benissimo marcato, e così costante, che forse il suo difetto è di piegare alla Parlando dell’adattabilità o pieghevolezza, e della varietà e libertà di una lingua, bisogna distinguere l’imitare dall’agguagliare, o rifare, le cose dalle parole. Una lingua perfettamente pieghevole, varia, ricca e libera, può imitare il genio e lo spirito di qualsivoglia altra lingua, e di qualunque autore di essa, può emularne e rappresentarne tutte le varie proprietà intrinseche, può adattarsi a qualunque genere di scrittura, e variar sempre di modo, secondo la varietà d’essi generi, e delle lingue e degli autori che imita. Questo fra tutte le lingue perfette antiche e moderne potè sovranamente fare la lingua greca, e questo fra le lingue vive può, secondo me, sovranamente la lingua italiana. Perciò io dico che questa e quella sono piuttosto ciascuna un aggregato di più lingue che una lingua, non volendo dire ch’elle non abbiano un carattere proprio, ma un carattere composto e capace di tanti modi quanti lor piaccia. Questo è imitare, come chi ritrae dal naturale nel marmo, non mutando la natura del marmo in quella dell’oggetto imitato; non è copiare nè rifare, come chi da una figura di cera ne ritrae un’altra tutta compagna, pur di cera. Quella è operazione pregevole, anche per la difficoltà d’assimulare un oggetto in una materia di tutt’altra natura; questa è bassa e triviale per la molta facilità, che toglie la maraviglia; e in punto di lingua è dannoso, perchè si oppone alla forma e natura ed essenza propria ch’ella o ha o dovrebbe avere. Imitando in quel modo s’imitano le cose, cioè lo spirito ec. delle lingue, degli autori, dei generi di scrittura; imitando alla tedesca s’imitano le parole, cioè le forme materiali, le costruzioni, l’ordine de’ vocaboli di un’altra lingua (il che una lingua perfetta, anzi pure formata, non dee mai poter fare, nè può per natura fare); e probabilmente s’imitano queste, e non le cose; cioè non s’arriva ad esprimer l’indole, la forza, la qualità, il genio della lingua e dell’autore originale (benchè pretendano di sì), appunto perchè in un’altra e diversissima lingua se ne imitano anzi copiano le parole: e mad. di Staël ancora è di questo sentimento in un passo che ho recato altrove della prima lettera alla Biblioteca Italiana, 1816. n. 1. Una traduzione in lingua greca fatta alla maniera tedesca, una traduzione dove non s’imita, ma si copia, o vogliamo dire s’imitano le parole, dovendosi nelle traduzioni imitar solo le cose, si è quella de’ libri sacri fatti da’ Settanta. Ora la medesima lingua greca, quella così immensamente pieghevole e libera, nondimeno, percioch’ella è pur lingua formata e perfetta, riesce in quella traduzione (fatta certo in antico e buon tempo) affatto barbara e ripugnante a se stessa, e non greca; e di più, quantunque noi non possiamo per la lontananza de’ tempi, e la scarsezza delle notizie grammaticali ec. e la diversità de’ costumi e dell’indole, neppur leggendo gli originali ebraici, pienamente giudicare e sentir qual sia il proprio gusto de’ medesimi, e il vero genio di quella lingua, nondimeno possiamo ben essere certissimi che questo gusto e questo genio non è per niente rappresentato dalla version de’ Settanta, che non è quello che noi vi sentiamo leggendola, che non ve lo sentirono i greci contemporanei o posteriori, e ch’ella in somma fu ben lontana dal fare ne’ greci lo stesso effetto, nè di gran lunga simile, neppure analogo a quello che facevano ne’ lettori ebrei gli originali[a] . Ch’è appunto il fine che dovrebbero avere le traduzioni, e che i tedeschi pretendono di pienamente e squisitamente conseguire col loro metodo. Aggiungasi dopo tutto ciò che la traduzione de’ Settanta, barbara per troppa conformità estrinseca coll’originale, non le è di gran lunga così scrupolosamente e onninamente conforme, come le vantate traduzioni tedesche agli originali loro. Una lingua perfetta che sia pienamente libera ec. colle altre qualità dette di sopra, contiene in se stessa, per dir così, tutte le lingue virtualmente, ma non mica può mai contenerne neppur una sostanzialmente. Ella ha quello che equivale a ciò che le altre hanno, ma non già quello stesso precisamente che le altre hanno. Ella può dunque colle sue forme rappresentare e imitare l’andamento dell’altre, restando però sempre la stessa, e sempre una, e conservando il suo carattere ben distinto da tutte; non già assumere l’altrui forme per contraffare l’altrui andamento; dividendosi e moltiplicandosi in mille lingue, e mutando a ogni momento faccia e fisonomia per modo che o non si possa mai sapere e determinare qual sia la sua propria, o di questa non si possa mai fare alcuno argomento da quelle ch’ella assume, nè in queste raffigurarla. Ella è cosa più che certa e conosciuta che i popoli meridionali differiscono per tratti essenzialissimi e decisivi di carattere da’ popoli settentrionali, e gli antichi da’ moderni, per non dire delle altre secondarie suddivisioni e suddifferenze nazionali caratteristiche. Ella è cosa ugualmente inconcussa che il carattere di ciascuna lingua perfetta si è precisamente quello della nazione che la parla, e viceversa. La stessa verità è indubitata e universale intorno alla letteratura. Or dunque che una lingua settentrionale possa senza menomamente violentarsi nè differir da se stessa, non solo imitare, anzi copiare, il carattere, ma assumere indifferentemente le forme, l’ordine, le costruzioni, le frasi, l’armonia di qualunque lingua meridionale come di qualunque settentrionale, che una lingua moderna possa altresì lo stesso indifferentemente con qualunque lingua antica siccome con qualunque moderna; questo Astraendo da tutto questo, dico che in una lingua la quale abbia pienamente questa facoltà, le traduzioni di quel genere che i tedeschi vantano, meritano poca lode. Esse dimostrano che la lingua tedesca, come una cera o una pasta informe e tenera, è disposta a ricevere tutte le figure e tutte le impronte che se le vogliono dare. Applicatele le forme di una lingua straniera qualunque, e di un autore qualunque. La lingua tedesca le riceve, e la traduzione è fatta. Quest’opera non è gran lode al traduttore, perchè non ha nulla di maraviglioso; perchè nè la preparazione della pasta, nè la fattura della stampa ch’egli vi applica, appartiene a lui, il quale per conseguenza non è che un operaio servile e meccanico; perchè dov’è troppa facilità quivi non è luogo all’arte, nè il pregio dell’imitazione consiste nell’uguaglianza, ma nella simiglianza, nè tanto è maggiore quanto l’imitante più s’accosta all’imitato, ma quanto più vi s’accosta secondo la qualità della materia in cui s’imita, quanto questa materia è più degna; e quel ch’è più, quanto v’ha più di creazione nell’imitazione, cioè quanto più v’ha di creato dall’artefice nella somiglianza che il nuovo oggetto ha coll’imitato, ossia quanto questa somiglianza vien più dall’artefice che dalla materia, ed è più nell’arte che in essa materia, e più si deve al genio che alle circostanze esteriori. Neanche una tal opera può molto giovare alla lingua, nè servire ad arricchirla, o a variarla, o a formarla e determinarla, sì perch’ella dee perdere queste impronte e queste forme colla stessa facilità con cui le riceve e per la ragione stessa per cui così facilmente le riceve; sì perchè queste nella loro moltiplicità nocciono l’una all’altra, si scancellano e distruggono scambievolmente, e impediscono l’una all’altra l’immedesimarsi durabilmente e connaturarsi colla favella; sì perchè questa moltiplicità immoderata è incompatibile con quella tal quale unità di carattere che dee pur avere una favella ancorchè immensa, massime ch’elle sono diversissime l’une dall’altre, o ripugnano scambievolmente; sì perchè gran parte di queste forme o impronte essendo alienissime o affatto contrarie al carattere nazionale de’ tedeschi, e a quello della loro letteratura, non possono se non nuocere alla lingua, e guastarla, o impedire o ritardare ch’ella prenda e fortemente abbracci e ritenga quella sola forma e carattere che le può convenire, cioè quella che sia conforme al carattere della nazione e della nazionale letteratura, senza la qual forma perfettamente determinata, e da lei perfettamente ricevuta per costantemente conservarla, essa lingua non sarà mai compiuta e perfetta. Conchiudo che se i traduttori tedeschi (grandissimi letterati e dottissimi, e spesso uomini di genio) fanno veramente quegli effetti che ho ragionati nel principio di questo pensiero, il che pienamente credo quanto alle cose che appartengono all’estrinseco; se con ciò non fanno alcuna violenza alla lingua, nel che credo assai ma assai meno di quel che si dice; se in somma la lingua tedesca, quanto alle qualità sopra discusse, è tale quale si ragiona, nel che non so che mi credere; la lingua tedesca come applicata assai tardi alla letteratura, e come appunto vastissima e immensamente varia, sì per l’antichità della sua origine, sì per la moltitudine degl’individui, e diversità de’ popoli che la parlano, non è ancora nè perfetta, nè formata e sufficientemente determinata; ch’ella è ancor troppo molle per troppa freschezza; ch’ella col tempo e forse presto (per l’immenso ardore, attività e infaticabilità letteraria di quella nazione) acquisterà quella sodezza e certezza che conviene a ciascuna lingua, e quella particolar forma e determinato e stabil carattere e proprietà, e quel genere di perfezione che conviene a lei, con quel tanto di unità caratteristica ch’è inseparabile dalla perfezione di qualunque lingua, siccome di qualunque nazione, e forse di qualunque cosa, se non altro, umana; che allora ella potrà essere e sarà liberissima, vastissima, ricchissima, potentissima, pieghevolissima, capacissima, immensa, e immensamente varia, pari in queste qualità astrattamente considerate, e superiore eziandio, se si vuole e se è possibile, non che all’italiana ma alla stessa lingua greca, ma non per tanto ella non avrà o non conserverà per niun modo quelle facoltà stravaganti e senza esempio, divisate di sopra; e quelle traduzioni ora lodate e celebrate piuttosto, cred’io, per gusto matematico che letterario, piuttosto come curiosità che come opere di genio, piuttosto come un panorama o un simulacro anatomico o un automa, che come una statua di Canova, piuttosto misurandole col compasso, che assaporandole e gustandole e paragonandole agli originali col palato, quelle traduzioni, dico, parranno ai tedeschi non tedesche, e nel tempo stesso non capaci di dare alla nazione la vera idea degli originali, aliene dalla lingua, e proprie di un’epoca d’imperfezione, e immaturità. (29 30. Giugno 1823.). In ciascun punto della vita, anche nell’atto del maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo o il vivente è in istato di desiderio, e quindi non v’ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale l’individuo non sia in istato di pena, tanto maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior sensibilità ed esercizio della vita, e viceversa. (30. Giugno 1823.). V. p. 3550. L’amicizia, non che la piena ed intima confidenza tra’ fratelli, rade volte si conserva all’entrar che questi fanno nel mondo, ancorchè siano stati allevati insieme, ed abbiano esercitato l’estremo grado di questa confidenza sino a quel momento; e di più seguano ancora a convivere. E pure se l’uomo è capace di piena ed intima confidenza, e s’egli dovrebbe conservarla perpetuamente verso qualcuno, questo dovrebb’essere verso i fratelli coetanei, ed allevati con lui nella fanciullezza: e dico dovrebb’essere, non per forza naturale della congiunzione di sangue, la qual forza è nulla e immaginaria, e niente ha che fare nel produr quella confidenza o nel conservarla, ma per forza naturale dell’abitudine e dell’abitudine contratta nel primo principio delle idee e delle abitudini dell’individuo, e nella prima capacità di contrarle, e conservata tutto quel tempo che dura la maggiore intensità e disposizione ed ampiezza, e il maggior esercizio di questa capacità. Nondimeno questa confidenza così fortemente stabilita e radicata si perde per la varietà che s’introduce nel carattere de’ fratelli mediante il commercio cogli altri individui della società. Ma se questo commercio non avesse avuto luogo, quella confidenza sarebbe stata perpetua, com’ella non è mai cessata fino a quell’ora. Che vuol dir ciò, se non che nei caratteri degli uomini, novantanove parti son opera delle circostanze? e che per diversissimi ch’essi appariscano, come spesso accade anche tra fratelli, in questa diversità non è opera della natura, se non una parte così menoma che saria stata impercettibile? È quasi impossibile il caso che tutte le minute circostanze e avvenimenti che incontrano all’un de’ fratelli nell’uso della società, incontrino all’altro, o sieno uguali a quelle che incontrano all’altro, ancorchè postogli da vicino. Questa diversità diversifica due caratteri che parevano affatto, ed erano quasi affatto, compagni, e com’ella è inevitabile, così la diversificazione di questi caratteri nella società non può mancare. E ho detto le minute circostanze, contentandomi di queste, perchè anche la somma di cose minutissime basta a produrre grandissimi e visibilissimi effetti sull’indole degli uomini, massime allora ch’eglino sono principianti nel mondo, e che in essi la capacità delle abitudini e delle opinioni, ossia la formabilità dell’indole, è ancor molta e grande e in buon essere. (30. Giugno. 1823.). Diminutivi che nelle lingue figlie della latina sono passati in luogo dei positivi latini, del che ho ragionato altrove, sia che questi positivi non esistano più in esse lingue, sia che questi diminutivi sieno fatti loro sinonimi. Fratello, sorella, figliuolo ital. Proprietà comune alle tre figlie della lingua latina. Aggiungere pleonasticamente per idiotismo, e per proprietà di lingua l’aggettivo plur. altri o altre ai pronomi plurali Nostri plurali femminini o neutri, in a, da nomi di singolare mascolino o neutro, del che ho detto altrove in proposito dalla voce plurale Altronde per altrove (del che ho detto, se non erro, parlando di un luogo di Floro, e dello spagn. Gli spagnuoli usano l’avverbio Ho detto sovente che ciascuno autor greco ha, per così dire, il suo Vocabolarietto proprio. Ciò vale non solamente in ordine all’usare ciascun d’essi sempre o quasi sempre quelle tali parole per esprimere quelle tali cose, laddove gli altri altre n’usano, o in ordine ai loro modi e frasi familiari e consuete, ma eziandio in ordine al significato delle stesse parole o frasi che anche gli altri usano, o che tutti usano. Perocchè chi sottilmente attende e guarda negli scrittori greci, vedrà che le stesse parole e frasi presso un autore hanno un senso, e presso un altro un altro, e ciò non solamente trattandosi di autori vissuti in diverse epoche, il che non sarebbe strano, ma eziandio di autori contemporanei, e compatriotti ancora, come p. e. di Senofonte e Platone, i quali furono di più condiscepoli, e trattarono in parte le stesse materie, e la stessa Socratica filosofia. Dico che il significato delle parole o frasi in ciascuno autore è diverso: ora più ora meno, secondo i termini della comparazione, e secondo la qualità d’esse parole; e per lo più la differenza è tale che i poco accorti ed esercitati non la veggono, ma ella pur v’è, benchè picciolissima. Un autore adoprerà sempre una parola nel significato proprio, e non mai ne’ metaforici. Un altro in un significato simile al proprio, o forse proprio ancor esso, e non mai negli altri sensi. Un altro l’adoprerà in un senso traslato, ma con tanta costanza, che occorrendo di esprimere quella tal cosa, non adoprerà mai altra voce che quella, e adoprando questa voce, non la piglierà mai in altro senso, onde si può dire che presso lui questo significato è il proprio di quella voce: (come accade che i sensi metaforici de’ vocaboli pigliano spesse volte assolutamente il luogo del proprio, che si dimentica) e questo caso è molto frequente. Un altro adoprerà quella voce colla stessa costanza, o con poco manco, in un altro senso traslato, più o meno diverso, e talvolta vicinissimo e similissimo, ma che pur non è quel medesimo. E tutta questa varietà (con altre molte differenze simili a queste) si troverà nell’uso di uno stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso avverbio in autori contemporanei e compatriotti. Alla qual varietà, come ben sanno i dotti in queste materie, è da por mente assai, e da notar sempre in ciascuno autore, massime ne’ classici, qual è il preciso senso in cui egli suole o sempre o per lo più adoperare ciascuna parola o frase. Trovato e notato il quale, si rende facile la intelligenza dell’autore, e se ne penetra la proprietà e l’intendimento vero delle espressioni, e si spiegano molti suoi passi che senza la cognizione del significato da lui solito d’attribuirsi a certe parole, non s’intenderebbero; com’è avvenuto a molti interpreti e grammatici ec. che spiegando questi passi secondo l’uso ordinario di quelle tali parole o frasi, e non considerandole in quello particolare ch’esse sogliono aver presso quello scrittore, o non hanno saputo strigarsi o si sono ingannati. E così accade anche ai ben dotti, che però non abbiano pratica di quel tale autore, e vi sieno principianti, o che ne leggano qualche passo spezzato. Certo non prima si arriva a pienamente e propriamente intendere qualunque autor greco che si abbia presa pratica del suo particolar Vocabolario, e de’ significati di questo: e tal pratica è necessario di farla in ciascuno autore che si prende nuovamente o dopo lungo intervallo a leggere: benchè in alcuni costa più in altri meno, e in certi costa tanto, che solo i lungamente esercitati e familiarizzati colla lezione e studio di quel tale autore sono capaci di bene intenderne e spiegarne la proprietà delle voci e frasi, e della espressione sì generalmente, sì in ciascun passo. Insomma questi solo conoscono la sua grecità, la quale, si può dire, in ciascuno autor greco, più o meno è diversa. (1. Luglio 1823.). Non è maraviglia che la scrittura francese sia così diversa dalla pronunzia. Come altrove ho detto, a tutte le ortografie delle lingue figlie della latina, ed anche, almeno in parte, della inglese e della tedesca, servì di modello e di guida la scrittura latina, che apparteneva all’unica letteratura che si conoscesse quando prima si cominciarono a formare e regolare le moderne ortografie, anzi era altresì quasi l’unica scrittura nota, perchè le lingue moderne poco fino allora s’erano scritte, e quando conveniva scrivere, s’era per lo più scritto in latino, benchè barbaro. Ora la pronunzia francese, è tra le pronunzie delle lingue nate dalla latina, quella che più s’è discostata dal latino. Ond’è che la lingua francese è altresì fra queste lingue la più diversa dalla madre, così di spirito, di costruzioni, di maniere, di frasi, e di assai vocaboli, come di suoni[a] . Egli è certissimo che da principio la lingua francese si pronunziava nel modo stesso che si scriveva, ossia la pronunzia delle sillabe nelle parole francesi corrispondeva al valore che avevano nell’alfabeto le lettere con cui esse parole si scrivevano. I versi che si trovano ancora de’ poeti provenzali, pronunziavansi indubitatamente in questo modo o con poca differenza, come ne fa fede la loro misura, le loro rime ec. che si perderebbero l’une e l’altra pronunziando quei versi altramente, o alla moderna. Ma le irruzioni e i commerci de’ settentrionali avendo cangiata la pronunzia francese, e diradata di vocali e inspessita di consonanti e resa più aspra, e così diversificatala dalla lingua provenzale, e poi col mezzo della francese, mutata eziandio la provenzale, (v. Perticari Apologia di Dante cap. 11. principio, p. 206. fine — 208. principio, e cap. 12. principio, p. 111 112. e ivi fine, p. 119. e Capo 16. fine, p. 158.) la lingua francese si allontanò sommamente dalla latina, sì per li nuovi vocaboli e forme che acquistò da popoli che non avevano mai parlato latino, sì per li suoni di cui vestì, e con cui pronunziò quegli stessi vocaboli tolti dal latino ch’ella aveva, e che tuttora conserva. Quindi per due ragioni la pronunzia francese dovette riuscir diversa dalla scrittura. Primo, per la sopraddetta, cioè perchè non avendovi scrittura nota, o almeno scrittura appartenente a lingua letterata e formata, fuori della latina, l’ortografia francese dovette pur prendere, come l’altre, per suo modello la latina, ed essendo già la pronunzia francese fatta diversissima dalla latina, e certo assai più diversa che non erano o non furono poi la spagnuola e l’italiana, perciò la scrittura francese dovette molto più differire dalla pronunzia, che non differiscono la spagnuola e l’italiana che presero e usarono lo stesso modello. Secondo: questa diversificazione e settentrionalizzazione di pronunzia, avendo avuto luogo, o acquistato forza ed estensione in Francia piuttosto tardi, e di più trovandosi che i poeti di cui la Provenza abbondò, scrivevano il provenzale, stato già tutt’uno col francese, ed allora tuttavia analogo, ma più latino, (v. Perticari l. c. p. 107. principio) lo scrivevano, dico, in modo simile ed analogo al latino; ed essendo così vero come naturale che i primi che scrissero qualche cosa in francese, riguardarono ai provenzali, e se li proposero per guide, come quelli ch’erano in quei tempi i più dotti forse della Francia, ed avevano contribuito a spargere in essa il gusto della poesia volgare e dello scrivere in volgare; da tutto questo ne seguì che la scrittura francese si accostò al latino, come ci si accostava e la scrittura [e] pronunzia provenzale; ci si accostò dico, nonostante che la pronunzia francese ogni dì più se ne scostasse, con che si venne anche a scostare dalla scrittura. Perciocchè veramente si può dire che la pronunzia francese da se, e movendosi essa, si allontanò e divise dalla scrittura, piuttosto che la scrittura dalla pronunzia. Benchè veramente sia debito de’ buoni e filosofi ortografi di far che la scrittura in qualunque modo tenga sempre dietro alla universale pronunzia, regolata, o riconosciuta per regolare; e non far che la scrittura stia ferma, e lasci andare questa tal pronunzia al suo viaggio, senza darsene alcun pensiero. Ma questi discorsi non si potevano nè fare nè seguire in quei primi e confusi tempi e ignoranti, nè dopo fatti, sono stati effettuabili, avendo preso piede l’usanza contraria in modo che non si potea più scacciare nè mutare; abbisognando ella di troppe e troppe grandi ed essenziali mutazioni, non di poche e lievi e quasi accidentali come ne abbisognò e ne ricevette l’usanza italiana. Da tutte queste cagioni e andamenti n’è seguito questo curioso effetto: che la lingua francese scritta, è talora uguale, spessissimo somigliante alla latina, e quasi sempre riconoscibile per figlia di lei; ma la lingua francese pronunziata, ch’è pure in somma quanto dire la vera lingua francese, n’è tanto diversa, anzi dissimile, che appena si può riconoscere questa figliuolanza. E degli stessi vocaboli latini che i francesi conservano, e sono assaissimi, gran parte e forse la maggiore, pronunziati, riescon tali, che guardandoli nella sola pronunzia non s’indovinerebbe mai la loro origine, nè mai si piglierebbero per nati da tali o tali vocaboli latini; laddove questa origine si riconosce a prima vista leggendo quei vocaboli scritti. E veramente se la scrittura francese non fosse così diversa dalla pronunzia, io credo che oramai la notizia della più parte delle origini di questa lingua sì moderna, sarebbe perduta, o in preda delle dissertazioni delle congetture e delle favole. Mentre ella si conserva per solo benefizio della diversità e irregolarità anzi assurdità della scrittura, e in questa si conserva chiarissima e certissima e visibilissima, e tanto più visibile quanto la scritura più è diversa dalla pronunzia, perchè tanto più è simile al latino. Tanto si è mutata la lingua latina sulle bocche francesi per l’uso avuto co’ popoli settentrionali, e forse ancora in gran parte ancor prima, per la natura del clima stesso, oltre la origine settentrionale di molti de’ medesimi parlatori, cioè de’ Franchi di origine. Quantunque nè l’origine gotica e longobardica di molti italiani, nè la vandalica nè la moresca di tanti spagnuoli abbiano prodotto di gran lunga effetti simili e proporzionati a questi nelle lingue di questi due popoli. Somiglianti cagioni dovettero certamente contribuire a fare che le scritture inglese e tedesca siano riuscite meno conformi alle pronunzie, e queste meno corrispondenti al valor delle lettere ne’ rispettivi alfabeti, e meno costanti nelle regole medesime loro (che hanno, almeno in francese, tante eccezioni e sotteccezioni) che non sono le scritture e pronunzie italiana e spagnuola. Perocchè l’alfabeto inglese è il latino, e il tedesco originariamente non è altro: laddove le loro lingue sono e originariamente e presentemente tutt’altre che la latina. Di più essendo pervenuta la letteratura e scrittura latina, e l’uso eziandio della medesima, anche dove non pervenne l’uso di questa loquela, come in Inghilterra e in Germania, anche i tedeschi e gl’inglesi regolarono primieramente o abbozzarono la loro ortografia e scrittura col solo o quasi solo esempio della latina avanti gli occhi. E dopo preso piede le prime regole o i primi abbozzi, non si è più in caso di distruggerli, e neppur si è sempre in caso di fare che il resto, sebbene ancor non sia fatto, o non abbia preso piede, non gli corrisponda; almeno non sempre si può riuscire ad impedirlo perfettamente, o a far che impeditolo, la macchina cammini bene e regolarmente, e senza imbarazzi e contrapposizioni e disturbi ec. disordini, effetti contraddittorii ec. (1. Luglio 1823.). L’uomo si rassegna a soffrire passivamente, o a non godere, ma niuno si rassegna a faticare invano e senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da nulla; niuno si rassegna a soffrire attivamente senz’alcun frutto. Quindi è che dall’abito della rassegnazione sempre nasce noncuranza, negligenza, indolenza, inattività, e finalmente pigrizia, e torpidezza, e insensibilità, e quasi immobilità. (2. Luglio. 1823.). Dico altrove che l’uso di crear giudiziosamente e parcamente nuovi composti, fu mantenuto dagli autori latini, e massime da’ poeti, non solo fino alla intera formazione della lingua e della letteratura, ma nello stesso secolo d’oro della latinità, e nel tempo che immediatamente gli succedette. Di quest’uso parla Macrobio Saturn. VI. 5. mostrando che alcuni epiteti composti che si credevano fatti da Virgilio sono di fabbrica più antica. Segno qui alcuni composti latini de’ quali ch’io sappia non si trova esempio negli autori anteriori al secolo aureo. E saranno tutti composti di due nomi, l’uno sostantivo e l’altro addiettivo, o tutti e due sostantivi ec. o d’un nome e d’un verbo o participio o verbale, ec. che sono i composti più rari; lasciando stare i nomi o verbi ec. composti con preposizioni o particelle, de’ quali si potrebbero addurre al caso nostro esempi in troppa abbondanza. Notate la radice monosillaba di Che il v, presso gli antichi latini non sia stata che una specie d’aspirazione, e non una consonante, e che tale in verità sia la sua natura, di tener cioè dell’aspirazione, e di svanir sovente dalle voci secondo l’indole delle varie pronunzie. Dionigi d’Alicarnasso Archaeol. roman. l. i. c. 35. parlando dell’origine del nome Italia. Traduzione del passo soprascritto di Dionigi d’Alicarnasso fatta da Pietro Giordani nella Lettera al Chiarissimo Abate Giambattista Canova sopra il Dionigi trovato dall’Abate Mai. Milano, per Giovanni Silvestri, 1817. p. 30-31. Ma Ellanico Lesbiese dice che Ercole menando ad Argo i buoi di Gerione, e già trovandosi in Italia, poichè un bue sbrancatosegli della greggia fuggendo corse tutta la spiaggia, e notando per lo stretto del mare in Sicilia arrivò; esso Ercole interrogando i paesani, dovunque nel correr dietro al bue passava, se alcuno lo avesse veduto; e quelli poco intendendo la favella greca, e per gl’indizi ch’Ercole ne dava chiamando essi quell’animale nella nativa lor lingua Vitulo (come anch’oggi si chiama): accadde che dal vocabolo di quella bestia, tutto il paese ch’ella corse fosse nominato Vitulia. (il greco dice ch’Ercole medesimo così nominollo, e dice Vitalia). Che poi il nome col tempo si mutasse nella presente forma, non è da maravigliare, quando molti de’ vocaboli greci cosiffatte mutazioni patirono. (2. Luglio 1823.). È notabile come lo spagnuolo Io provo presentemente un piacere, io vorrei che la condizione di tutta la mia vita, di tutta l’eternità, fosse uguale a quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò che nessun uomo dice mai nè può dire di buona fede, neppur per un solo momento, neppure nell’atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in quel momento provasse in verità un piacer presente e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, perchè il fine dell’uomo è il piacere; e quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui quel momento, e di più desiderare di viver sempre, per sempre godere. Ma egli è certissimo che nessun uomo ha concepito nè formato mai questo desiderio nemmeno nel punto più felice della sua vita, e nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo che non ha concepito nè mai concepirà questo desiderio per un solo istante neppur l’uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per provare il massimo possibile piacere. E ciò perchè nemmeno in quel punto niuno mai si trovò pienamente soddisfatto, nè lasciò nè sospese punto il desiderio nè anche la speranza di un maggiore ed assai maggior piacere. Con che egli non venne in quel punto a provare un vero e presente piacere. Bensì dopo passato quel tal punto l’uomo spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel punto, ed esprime questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona fede. Ma egli ha il torto, perchè ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo ec. (3. Luglio 1823.). Quanta barbarie avesse introdotto anche nell’ortografia italiana durante il quattrocento l’eccessivo modellarla sulla latina, onde, se si fosse perseverato in quella forma, anche noi scriveremmo diversissimamente da quel che pronunzieremmo, come si può credere che allora avvenisse, se pur la pedanteria di quei tempi, o piuttosto i pedanti, (perchè di tutti non è credibile) non pronunziavano come scrivevano; vedi alcuni esempi nelle Lezioni sulle doti di una colta favella dell’Ab. Colombo, Parma 1820. Lez. 3. p. 69. 70. e il Comento di Pico Mirandolano sopra la Canzone d’amore di Girolamo Benivieni con essa Canzone ec. Venez. 1522. dove si scrive sempre ad per a avanti consonante, anche seguendo il d, come ad dir (st. 1. della Canz. v. 6. a carte 41.); advenire ec. Durò questo pessimo uso anche nei principii del cinquecento. Nel citato libro si scrive tabola per tavola, egloge per egloghe, ec. ec. oltre philosopho, admirando, ad pena per appena ec. (3. Luglio 1823.). Alla p. 2821. Altresì farebbe a questo proposito il verbo Alla p. 2883. Se ad alcuno non paressero sufficienti le testimonianze che si hanno dell’esistenza dell’antico verbo Da A quello che altrove ho detto circa la formazione dei verbi in uo o in uor dai nomi verbali, o qualunque, della quarta declinazione, o dai nomi della seconda desinenti in uus, e circa i nomi in uosus fatti da simili radici, e agli avverbi ec. aggiungi Dico altrove delle sillabe latine che non sono dittonghi, e pur sono composte di più vocali. Tra queste è notabile la seconda sillaba di Non è fuor di ragione nè arbitrario e gratuito quello ch’io dico circa la formazione dei continuativi da’ participii in atus, che mutano l’a in i ec. Perocchè questa mutazione è ordinarissima e solenne nelle derivazioni e composizioni della lingua latina. Onde da Ho detto altrove che presso Omero il nome Alla p. 2864. marg. È indubitato, secondo me, che quest’uso nacque dall’altra pessima usanza, introdotta nel latino fin dai primissimi tempi dell’impero, di dar del voi alle persone singolari. Onde è probabile che allora, o poco dipoi, o certo nel volgar latino quando che sia, s’introducesse questo costume di aggiungere l’aggettivo altri al voi e al noi (giacchè il noi anche negli ottimi tempi in latino e in greco, si usava in senso singolare) quando questi pronomi avevano ad aver senso plurale, per distinguerli da quando avevano ad averlo singolare. E così introdotto quest’uso nel volgar latino, passò in tutte tre le lingue figlie. E con ragione; perchè in esse ancora si manteneva e si mantiene quell’altra pessima usanza che, secondo me, lo produsse. Stante la quale, l’uso di questo idiotismo è quasi necessario per evitar mille equivoci e dubbi sì nello scrivere, sì nel parlare, quando molte persone sono presenti, o quando nello scrivere si suppongono ec.: (come si vede tutto dì per esperienza; massime nello scrivere, dove per iscrupolo di esser troppo familiare, e perchè non si sa più la lingua, ec. ormai generalmente si tralascia questo idiotismo). Infatti noi nel parlar familiare non lo abbandoniamo quasi mai, nè gli spagnuoli lo possono abbandonare. Ma anche gli spagnuoli tacciono l’ A proposito del vario significato e del figurato uso de’ tempi dell’ottativo in latino, dello scambio d’essi tempi tra loro, e con quelli d’altri modi, ec. vedi Orazio epist. i . l. 2. v. 3. 4. dove Circa quello che altrove ho detto de’ participii Questa detrazione fatta, come si vede, in tante voci o derivate o composte da Del resto il nostro antico suto è lo stesso che lo spagnuolo Quanto sia facile l’imparare a parlare, quanto poco tempo debba esser corso innanzi che il genere umano arrivasse primieramente ad accorgersi di avere organi capaci di formare e articolare vari suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali suoni, e finalmente a crear col loro diverso accozzamento una serie di voci di convenuta significazione, che fosse bastante a potersi scambievolmente communicare i proprii sensi, e più ancora innanzi che il genere umano arrivasse a portar questa serie al punto di poter essere chiamata lingua e di servire a tutti i bisogni dell’espressione; si consideri nel muto. Il quale, convivendo pur tutto giorno con uomini i quali parlano, ed usano una lingua già perfetta, non arriva mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima delle sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avere organi capaci di suoni articolati: giacchè seppure egli manda fuori alcun suono di voce, questo è meno articolato e meno vario che non sono le voci delle bestie. Ora io torno in campo colla mia solita domanda. È egli possibile che se la natura aveva espressamente destinato l’uomo a parlare, se, come dice Dante, opera naturale è ch’uom favella, essa natura lasciasse tanto da fare all’uomo per arrivare ad eseguire quest’opera naturale, e debita alla sua essenza, e propria di essa, quest’opera senza la quale egli non avrebbe mai corrisposto alla sua natura particolare, nè all’intenzione della natura in generale, e condannasse espressamente tanta moltitudine e tante generazioni d’uomini, quante dovettero passare prima che fosse trovata una lingua, altre a non sapere nè potere in alcun modo fare, altre a non poter fare se non se imperfettissimamente, quello che l’uomo doveva pur sapere e potere compiutamente fare per sua propria natura? E poichè l’uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai del suo stato primitivo purissimo, e la lingua è il principale e più necessario istrumento col quale egli ha operato ed opera quello che si chiama suo perfezionamento; e se d’altronde tanto è per ciascuna cosa il ben essere, quanto l’esser perfetta, nè si dà per veruna specie di enti felicità veruna senza la perfezione conveniente ad essa specie; è egli possibile che se questa che si chiama perfezione dell’uomo, fosse veramente tale, e destinatagli dalla natura, essa natura nel formar l’uomo l’avesse posto così mirabilmente lontano dalla perfezione da lei voluta e destinatagli, ed a lui necessaria, che egli non avesse ancora nè potesse avere nemmeno una prima idea dell’istrumento, col quale dopo lunghissimi travagli, e lunghissimo corso di generazioni e di secoli, la sua specie sarebbe finalmente arrivata a conseguire alcuna parte di questa perfezione? Certo se questo è vero, perchè diciamo noi che l’uomo è per natura il più perfetto degli esseri terrestri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre relativa a quella tale specie in che ella si considera. Ma paragonando pur l’uomo colle altre specie di questo mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, come non si dovrà sostenere che l’uomo è per natura la più imperfetta di tutte le cose? Perocchè tutte le altre cose hanno da natura la perfezione che loro si conviene, e però sono tutte naturalmente così perfette, come debbono essere, che è quanto dire perfettissime. Solo l’uomo, secondo il presupposto che abbiamo fatto, è per natura così lontano dallo stato che gli conviene, che più, quasi, non potrebb’essere, e quindi laddove tutte l’altre cose sono in natura perfettissime, l’uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie umana lungi da esser la prima in natura, è anzi l’ultima di tutte le specie conosciute. Questa conseguenza deriva dal supposto principio: ma come il principio è falso, così essa non è vera; e questa proposizione considerata ancora in se sola, si riconosce agevolmente per falsissima. Poichè relativamente all’ordine delle cose terrestri, l’uomo come l’essere più di tutti conformabile, è il più perfetto di tutti. Se però nel detto ordine delle cose terrestri, considerando la perfezione di ciascheduna specie in modo comparativo, cioè relativamente l’una all’altra, non vogliamo immaginare una doppia scala, ovvero una scala parte ascendente e parte discendente. E nella estremità inferiore della prima, porre gli esseri affatto o più di tutti gli altri inorganizzati. Indi salendo fino alla sommità, porre gli esseri più organizzati, fino a quelli che tengono il mezzo della organizzazione, della sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il sommo grado della scala, cioè della perfezione comparativamente considerata, come quelli che forse sono per natura i più disposti a conseguire la propria particolare e relativa felicità, e conservarla. Da questi in poi sempre discendendo giù giù per gli esseri più organizzati sensibili e conformabili, porre nell’ultimo e più basso grado dell’altra parte della scala l’uomo, come il più organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri. Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o ripiegando così la scala, troveremmo che l’uomo è veramente nella estremità non della perfezione (come ci parrebbe se facessimo una scala sola o semplice e retta), ma della imperfezione; e in una estremità più bassa ancora di quella che è dall’altra parte della scala. Perocchè dalla comparativa imperfezione degli esseri posti in quel grado, non ne segue ai medesimi alcuna infelicità laddove all’uomo grandissima. E veramente io così penso. L’uomo non è per natura infelice. La natura non ha posto in lui nessuna qualità che lo renda tale per se medesima, nessuna che tal qual è naturalmente, si opponga da niuna parte al suo ben essere; e però la natura direttamente non ha prodotto l’uomo nè infelice, nè tale ch’ei debba necessariamente divenirlo. Perocchè l’uomo potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro, come gli altri esseri si conservano nel loro, e conservandocisi, sarebbe così felice, o così non infelice, come gli altri esseri sono felici o non sono infelici durando nel naturale stato. Sicchè la natura in ordine all’uomo non ha violato per niun conto nè trapassato le sue universali leggi, che ciascuno essere abbia nella sua propria essenza immediatamente quanto abbisogna alla felicità che gli conviene, e nulla che per se lo sforzi alla infelicità. Ma l’eccessiva, o diciamo meglio, la suprema conformabilità e organizzazione dell’uomo, che lo rende il più mutabile e quindi il più corruttibile di tutti gli esseri terrestri, lo rende eziandio per conseguenza il più infelicitabile, benchè non lo renda per se stessa e naturalmente infelice, cioè lo rende il più disposto a potersi, e più d’ogni altro essere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua felicità; perch’essa stessa conformabilità umana è più d’ogni altra disposta e facile a poter perdere il suo primitivo stato, uso, operazioni, applicazioni e simili. Talchè difficilmente l’uomo si conserva in effetto nel suo naturale e primitivo stato, e però difficilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le quali considerazioni, e stante appunto la somma conformabilità e organizzazione dell’uomo, metafisicamente considerata in ordine alla vera e metafisica perfezione, diremo che l’uomo è il più imperfetto degli esseri terrestri, anche per natura, in quanto però solamente ella è naturale in lui una disposizione maggiore che in qualunqu’altro essere a perdere il suo stato e la sua perfezione naturale. Niuna imperfezione, neppure in ordine all’uomo, si può trovare propriamente nella natura; l’uomo non è imperfetto nè in natura, nè per natura; anzi se volete, in natura e per natura egli è il più perfetto degli esseri; ma in natura e per natura egli è più di tutti disposto a divenire imperfetto; e ciò per ragione appunto della somma sua perfezione naturale; come quelle macchine o quei lavorii compitissimi e perfettissimi, che per esser tali, sono minutamente lavorati, e quindi delicatissimi, e per la somma delicatezza più facilmente degli altri si guastano, e perdono l’essere e l’uso loro. Ma ad essi si trovano forse artefici che possono ripararli, a noi guasti e snaturati una volta, non si trova mano che ci riponga nel primo stato, (nè da noi medesimi siamo atti a farlo). Poichè nè la natura ci ripiglia in mano per riformarci, come l’artefice il suo lavoro sconciato, nè altra potenza v’ha che ci possa restaurare come un nuovo artefice il lavoro altrui. (6. Luglio. 1823.). Alla p. 2815. marg. Alla p. 2809. Nelle nostre Opere serie e buffe l’effetto del coro non è cattivo. Ma esso nelle opere serie è ben lontano dal far quegli uffici, dal sostener quel personaggio, e quindi dal muovere quelle illusioni e far quegli effetti che faceva nelle tragedie antiche: ond’è ch’esso riesce forse meglio nelle opere buffe, quanto all’effetto morale, giacchè muove pure all’allegria, e fa come l’uffizio, così l’effetto che produceva nelle antiche commedie, nè il muovere all’allegria, ch’è pure una passione, è piccolo effetto morale. Laddove nelle opere serie esso non interessa quasi che gli occhi e gli orecchi, e niuna passione ancorchè menoma nè desta nè pur tocca. Ma questo è pur troppo il general difetto di tutta l’Opera, e massime della seria, e nasce dal far totalmente servir le parole allo spettacolo e alla musica, e dalla confessata nullità d’esse parole, dalla qual necessariamente deriva la nullità de’ personaggi, e così del coro, e quindi la mancanza d’effetto morale, ossia di passione; se non altro la molta scarsezza, rarità, languidezza, e poca durevolezza dell’uno e dell’altra. Del resto i pochi moderni che hanno introdotto il coro ne’ loro drammi regolari, come Racine nell’Ester, non avendogli dato le condizioni ch’esso avea negli antichi, niuno o quasi niuno effetto hanno prodotto. Ed anche la natura d’essi drammi sì moralmente parlando, e sì anche materialmente (poichè la scena si finge per lo più in luogo coperto e chiuso, con altre tali circostanze che restringono, e impiccoliscono, e circoscrivono, e depoetizzano le idee), non era adattata nè al coro degli antichi nè a’ suoi effetti. Parlo anche delle commedie, le quali presso gli antichi si supponevano per lo più, o la più parte di ciascuna, in piazza, o ne’ porti, come il Rudens di Plauto, o in somma all’aperto ec. V. p. 2999. (7. Luglio. 1823.). In tutte le lingue tanto gran parte dello stile appartiene ad essa lingua, che in veruno scrittore l’uno senza l’altra non si può considerare. La magnificenza, la forza, la nobiltà, l’eleganza, la semplicità, la naturalezza, la grazia, la varietà, tutte o quasi tutte le qualità dello stile, sono così legate alle corrispondenti qualità della lingua, che nel considerarle in qualsivoglia scrittura è ben difficile il conoscere e distinguere e determinare quanta e qual parte di esse (e così delle qualità contrarie) sia propria del solo stile, e quanta e quale della sola lingua; o vogliamo piuttosto dire, quanta e qual parte spetti e derivi dai soli sentimenti, e quanta e quale dalle sole parole; giacchè rigorosamente parlando, l’idea dello stile abbraccia così quello che spetta ai sentimenti come ciò che appartiene ai vocaboli. Ma tanta è la forza e l’autorità delle voci nello stile, che mutate quelle, o le loro forme, il loro ordine ec. tutte o ciascuna delle predette qualità si mutano, o si perdono, e lo stile di qualsivoglia autore o scritto, cangia natura in modo che più non è quello nè si riconosce. Veggasi la p. 3397-9. Tutto ciò accade in tutte le lingue, fuorchè nella francese. Chè veramente nella lingua francese lo stile è formato quasi tutto dai sentimenti, e dalle figure che appartengono alle sentenze. E la diversità degli stili, e quella delle qualità di uno stile, non si può considerare in essa lingua se non quanto ai sentimenti, e non appartiene, non dipende, non nasce se non da questi. Perocchè, se ben si osserva, quanto alle parole, e a tutto ciò che loro appartiene, tutti gli stili de’ francesi, sì di diversi autori e scritture, sì di una stessa scrittura o scrittore in diversissime materie, sono poco men che conformi. E non è maraviglia; perocchè dov’è pochissimo luogo alla scelta delle parole e dell’ordine e composizioni loro, quivi pochissima potrà essere la differenza o tra gli stili di vari autori o di varie opere, o tra le qualità di un medesimo stile in diverse materie e occasioni, per ciò che spetta alle parole. Le quali non potendosi scegliere, non possono essere qua eleganti, qua nobili, qua efficaci, qua graziose, ma sempre tali, o non mai. Nè potendosi scegliere gli ordini e collocamenti delle medesime, non può nascere dalla composizion de’ vocaboli ora una qualità di stile ed ora un’altra, ma sempre una, perchè sempre una e niente variabile è ella medesima. Dico dalla composizion de’ vocaboli considerata in se, non in quanto ai sentimenti ch’esprimono, perchè in quanto a questa parte, la lingua francese è capace di ricever varietà di stile dalla composizione delle parole, ma ben guardando, si sente che questa varietà non deriva punto dalla composizione stessa in se, ma dalle sentenze e figure loro. Onde si può dire che la lingua francese non avendo appresso a poco che uno stile, lo scrittor francese, quanto alla lingua, non ha mai stile proprio, e che per quanto appartiene alle parole, lo stile di qualsivoglia scrittor francese non è suo, ma della lingua. E così lo stile di qualsivoglia genere di scrittura non è d’esso genere ma della lingua universale; e lo stile della poesia francese non è della poesia ma della lingua, e lo stile della prosa è quel della lingua, è quello della conversazione, non è neppur proprio della prosa più che della poesia, anzi vedi in proposito la p. 3429. Il che si può parimente dire della lingua ebraica, nella quale altresì, quanto alle parole, non era luogo alla scelta, benchè, quanto alle composizioni delle medesime, forse v’avesse luogo un poco più che nella francese, essendo ella tutta indigesta e informe, e quindi tutta poetica. Effettivamente la differenza degli stili e delle qualità di un medesimo stile, quanto alla lingua, è così minuta e così scarsa in francese, che un forestiere il quale benissimo la distinguerà negli scrittori greci e latini, che sono lingue morte, difficilmente, anzi appena, secondo me, la distinguerà e sentirà mai negli scrittori francesi. Nè potrà mai ben dire, questo scrittore o questo passo è elegante, questo dignitoso e magnifico, questo energico, questo grazioso quanto alle parole, e questo no. Onde nasce che anche generalmente parlando, la differenza dello stile, cioè del modo di esprimere i concetti, chè questo è ciò che si chiama stile, è poco sensibile al forestiere nella lingua francese; certo assai meno sensibile che nelle altre. Difficilissimo è ancora al forestiero il sentir la differenza degli stili (inquanto propriamente stili) francesi di diversi tempi (dico dal secolo di Luigi in poi), o comparando uno scrittor d’un secolo a uno di un altro, o generalmente lo stile di un secolo a quel di un altro. Ho detto dal secolo di Luigi, e intendo di quelli che in quel secolo scrissero bene, e che s’hanno ancora per buoni, e inquanto s’hanno per tali (come Corneille), nella lingua ec. Tanto più che nella espressione de’ concetti, anche in quella parte dello stile che spetta alle sentenze, il modo degli scrittori francesi è più vario bensì che nella parte delle parole, ma infinitamente meno vario che negli scrittori delle altre lingue, sì per rispetto dell’uno scrittore e dell’un secolo all’altro, o dell’una opera e dell’un genere di scrittura all’altra opera e all’altro genere, sì per rispetto alle varie parti di una stessa opera o genere, e alle varie gradazioni e qualità di un medesimo stile. E basti dire in prova, che la lingua francese, non solamente non ha linguaggio, ma neppur quasi stile poetico veramente. In simil modo nella lingua ebraica, non si sente se non poca differenza di stili, o di qualità di un medesimo stile. Il che si attribuisce alla lontananza de’ tempi e de’ nostri gusti e costumi, quasi l’uniformità dello stile ebraico non fosse vera, se non relativamente. Ma io la credo assolutamente vera, e l’attribuisco alle dette ragioni, nè credo che lo scrittore ebraico potesse avere stile proprio, nè veruna materia stile proprio, ma tutti e due un solo, quanto alla lingua, per la povertà di questa[a] ed eziandio quanto al modo e alla parte dello stile che spetta alle sentenze, per la niuna arte degli scrittori, e perchè la lingua li serrava e circoscriveva anche in questa parte. Come appunto anche in Francia fa la medesima lingua, e l’impero assoluto dell’usanza il qual si esercita colà sullo stile come su d’ogni altra cosa. Del resto come la lingua francese non ha che linguaggio e stile prosaico e manca del poetico, così l’ebraico non ha che il poetico e manca del prosaico. E ciò perchè quella è lingua definitamente ed essenzialmente moderna, questa fu essenzialmente e moralmente antica e quasi primitiva. È notabile come da contrarie cause nascano uguali effetti. La lingua ebraica non ammette varietà nello stile per esser troppo antica, la lingua francese nemmeno, per esser troppo moderna; quella per eccesso d’imperfezione e per povertà che nasce dall’antichità, questa per eccesso di perfezione e per povertà che nasce dall’essere squisitamente moderna, sì di tempo come d’indole. Nell’una e nell’altra le parole poco vagliono, le sentenze tutto, lo stile si riduce ai nudi concetti (cosa che non ha luogo in verun’altra lingua letterata). Ma ciò nella ebraica perchè le parole non hanno ancor preso vigore, nella francese perchè l’hanno perduto; in quella perchè i concetti non hanno ancora onde farsi un corpo, in questa perchè l’hanno deposto, in quella perchè la materia è ancora scarsa a vestir lo spirito, in questa perchè lo spirito ha consumato la materia, è ricomparso nudo del corpo di cui s’era vestito, ha prevaluto alla materia, e tutta l’esistenza è spiritualizzata, nè si vede o si tocca oramai, o certo non si vuole nè vedere nè toccare quasi altro che spirito. Ambedue le lingue dànno nel metafisico, e, si può dire, nell’incorporeo per due cagioni e principii direttamente opposti, come il fanciullo per eccessiva semplicità è talvolta così sottile nelle sue quistioni, come il filosofo per grande dottrina e sapienza e sagacità. (7. Luglio. 1823.). V. la p. seguente. Alla p. 2853. marg. Veramente la pretesa forza d’imitazione che ha la lingua tedesca, non potrebbe perfettamente realizzarsi che sopra una lingua come l’ebraica. Perocchè una lingua informe come questa, può sola esser bene imitata, anzi contraffatta, copiata e trasportata tutta intera in una lingua informe come è necessario che sia la lingua tedesca se ha la detta forza e facoltà che se le attribuisce. E viceversa solo una lingua informe, come questa, sarebbe atta a contraffare senza far violenza a se stessa e perfettamente, una lingua informe come l’ebraica, o come una lingua selvaggia; il che non è possibile alle lingue formate, nè fu possibile in greco e in latino contraffar nelle traduzioni letterali la lingua ebraica, senza violentare e snaturare affatto il greco e il latino, come fu fatto, e come accade altresì nelle lingue moderne che hanno (se alcuna ne ha) traduzioni letterali della scrittura, fatte o sull’ebraico, o sul letterale greco o latino o d’altra lingua moderna. (7. Luglio. 1823.). Alla pagina antecedente. Questa spiritualizzazione della società essendo oggidì universale, è altresì universale l’effetto che ho detto esserne seguìto nella lingua francese, cioè che lo stile degli scrittori moderni di qualsivoglia lingua non differisca oramai se non se ne’ sentimenti, e consista tutto nelle cose. E in verità quanto allo stile propriamente detto, v’è minor divario oggidì fra due scrittori di due lingue disparatissime e in diversissime materie, che non v’era anticamente fra due scrittori contemporanei, compatriotti, d’una stessa lingua e materia. (Pongasi per esempio Platone e Senofonte). Lascio poi quanta poca varietà di stile si possa trovare in uno stesso scrittore. Gli stili de’ moderni non si diversificano se non per le sentenze. Anzi tutti gli scrittori e tutte le opere escono, quanto allo stile, da una stessa scuola, vestono d’uno stesso panno, anzi hanno una sola fisonomia, una sola attitudine, gli stessi gesti e movimenti, le stesse fattezze e circostanze esteriori: solo si distinguono l’une dall’altre perchè dicono diverse cose, benchè collo stesso tuono e modo di recitazione. Sicchè, proporzionatamente, accade oggi nel mondo civile quel medesimo che ho detto accadere in Francia; quasi niuno scrittore ha stile proprio: non v’è che uno stile per tutti, e questo consiste assai più nelle sentenze che nelle parole: poco oramai si guarda allo stile nelle opere che escono in luce, o se vi si guarda, ciò è più per vedere s’egli segue l’uso e la forma di stile universalmente accettata, o no: se la segue, non si parla del suo stile; se non la segue, allora solo il suo stile dà nell’occhio, e per lo più è ripreso, e ordinariamente con ragione. La differenza ch’è in questo particolar dello stile fra la lingua francese e l’altre moderne, si è che se in quella lo scrittore non ha stile proprio, egli è perchè la lingua n’ha un solo; se il suo stile non è vario, egli è che la lingua non ha varietà di stile. Ma nelle altre lingue il difetto viene dallo scrittore: egli è che manca di varietà di stile, e non la lingua; e s’ei non ha stile proprio, egli può averlo; almeno la lingua sua non glielo impedisce; ma ei non ha stile proprio, perchè un solo stile ha, non la sua lingua, che molti ne ammette, ma, per così dire, la lingua europea, ossia l’uso e lo spirito universale della letteratura e della civiltà presente, e del nostro secolo. V. p. 3471. Del resto egli è certissimo che quantunque le moderne lingue, almeno parecchie di esse, sieno capacissime d’ogni sorta di varietà, qualità, e perfezion di stile, nondimeno niuna delle medesime è, che possa mostrare neppur ne’ suoi antichi e nel suo secolo aureo nè tanta varietà, nè di gran lunga tanta perfezione di stile propriamente detto, quanta ne possono mostrare nei loro le lingue antiche. I moderni poi, quanto vincono gli antichi nel fatto delle sentenze, tanto cedono loro tutti in tutte le parti dello stile propriamente detto, e nel culto delle parole preso in tutta l’estension del termine. E non solo non mettono nè sanno mettere in pratica, ma nè pur conoscono perfettamente tutte le squisitezze degli artifizi e degli accorgimenti che gli antichi insegnavano comunemente e adoperavano intorno a esso culto, e che si possono vedere negli scritti rettorici di Cicerone e di Quintiliano. I moderni non ne conoscono generalmente neppure i nomi, e neppur ne hanno tanta idea che basti a poter valutare in confuso a che segno arrivasse questa squisitezza. Nei moderni le sentenze, e la spiritualità del secolo, nocciono alle parole e allo stile, all’arte del quale niuno di loro si applica da senno, o ci pone tanto studio e tempo quanto bisognerebbe. Negli antichi classici di ciascuna lingua moderna, ne’ quali non aveano luogo le dette circostanze, e ciascuno de’ quali facea dell’arte dello stile il suo principale studio, e attendeva più alle parole che alle cose, ogni volta che si metteva da vero a comporre; pure in nessuno o in quasi niuno di loro si trovò arte o capacità bastante, nè quanto si richiedeva a conseguire quell’alto grado di perfezione, neppur relativamente e limitatamente alle forze, indole, qualità, e capacità delle rispettive lingue. (8. Luglio 1823.). L’argomento con cui altrove dall’aggettivo Da quello che ho detto p. 2789-90. si rileva che il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio Noi usiamo volgarmente il verbo volere applicandolo a cose inanimate, o ad esseri immaginari, e talvolta impersonalmente, in modo ch’egli o sta per potere, o ridonda e non fa che servire a una perifrasi, per idiotismo, e per proprietà di lingua. Per esempio, La piaga non se gli vuole rammarginare. Cioè, Non si può far che la piaga se gli rammargini, ossia La piaga non se gli può ancora rammarginare. Qui volere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare, se la stagione si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se il negozio vorrà camminar bene, se la pianta vorrà pigliar piede, l’erba non ci vuol nascere. Cioè, Se piglierà piede, Non ci nasce. Qui volere ridonda. Da più mesi non è voluto piovere. Cioè, non è piovuto. Qui volere ridonda ed è impersonale. Anche in francese: Ora questo grazioso idiotismo proprio della nostra lingua, fu proprio altresì della più pura lingua greca (anzi secondo i grammatici egli è un atticismo) e fu adoperato dagli scrittori più eleganti, e massime da Platone, primo modello dell’atticismo. Nel Convito, Opp. ed Astii, Lips. 1819-... t. 3. 1821. p. 460. v. 16-17. D. Gl’italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni. (9. Luglio. 1823.). Bisogna (far grande stima) avere una grande idea di se stesso, per esser capace di sacrificar se stesso. Chi non ha molta e costante stima di se medesimo, non è buono all’amor vero, nè capace del Il verbo avere in senso di essere, usato impersonalmente dagl’italiani da’ francesi dagli spagnuoli, talora eziandio personalmente dagl’italiani (v. il Corticelli), non è altro che il latino Intorno al verbo È uso della nostra lingua di porre l’avverbio male come particella privativa in vece di in avanti gli aggettivi, i sostantivi, gli avverbi, i participii ec. o facendo di questi tutta una voce con quella, o scrivendo quella separatamente. Il qual uso ci è così proprio, che sta in libertà dello scrittore di fare in questo modo de’ nuovi accoppiamenti nel detto senso, sempre ch’ei vuole, siccome n’han fatto alcuni moderni, p. e. il Salvini, ad esempio degli antichi, e stanno segnati nella Crusca. Male per non o poco o difficilmente. V. la Crusca in male. I francesi similmente: Maltrattare, Savamo, savate de’ nostri antichi, per eravamo eravate, sarebbono elle persone di un imperfetto più regolare, più antico e più vero di Alla p. 2753. Ella è anche cosa certissima che in parità di circostanze, l’uomo, ed anche il giovane, e altresì il giovane sventurato, è meno scontento dell’esser suo, della sua condizione, della sua fortuna durante l’inverno che durante la state; meno impaziente dell’uniformità e della noia, meno impaziente delle sventure, meno renitente alla sorte e alla necessità, più rassegnato, meno gravato della vita, più sofferente dell’esistenza, e quasi riconciliato talvolta con esso lei, quasi lieto; meno incapace di concepire come si possa vivere, e di trovare il modo di passare i suoi giorni: o almeno tutte queste disposizioni sono in lui più frequenti o più durevoli nell’inverno che nella state; e spesso abituali in quella stagione, laddove in questa non altro mai che attuali. Ed anche il giovane abitualmente disperato di se e della vita, si riposa della sua disperazione durante l’inverno, non che egli speri più in questo tempo che negli altri, ma non prova o prova meno efficace il senso di quella disperazione che radicalmente non può abbandonarlo. Cioè intermette di desiderare o desidera meno vivamente quelle cose ch’egli è al tutto e abitualmente e per sempre disperato di conseguire. Tutto ciò perchè gli spiriti vitali sono manco mobili ed agitati e svegli nell’inverno che nella state. Queste considerazioni vanno applicate al carattere delle nazioni che vivono in diversi climi, di quelle che sogliono passare la più parte dell’anno al coperto e nell’uso della vita domestica e casalinga a causa del rigore del clima, e viceversa ec. (9. Luglio 1823.). Veggasi la p. 3347-9. e 3296. marg. ec. A proposito del verbo Notiamo qui quello che dice Festo alla voce In luogo di In ogni modo il verbo Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il Forcellini in Le cose ch’esistono non sono certamente per se nè piccole nè vili: nè anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo nè il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo. (10. Luglio. 1823.). Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi potrebbe disprezzare l’immensurabile e arcano spettacolo dell’esistenza, di quell’esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire nè conoscere o sufficientemente immaginare nè i limiti, nè le ragioni, nè le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benchè nè l’esistenza e vita nostra, nè quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l’esistenza così nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch’è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che l’esistenza rechi a quello ch’esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell’opera di cui non vediamo nè potremo mai vedere nemmeno i limiti? nè arrivar mai ad intendere nè anche a sufficientemente ammirare l’artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità dell’esistenza della più parte delle cose comprese in essa opera; o vogliamo dir la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch’esistono. Pochissimi de’ quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte dell’esistenza che noi non conosciamo nè intendiamo punto, neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al nostro proprio individuo. (10. Luglio. 1823.). Questo ch’io dico delle opere della natura, dicasi eziandio proporzionatamente di molte o grandi o belle o per qualunque cagione notabili e maravigliose opere degli uomini, o sieno materiali, o appartengano puramente alla ragione; o di mano o d’intelletto o d’immaginativa; scoperte, invenzioni, scienze, speculazioni ec. ec. discipline pratiche o teoriche; navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d’ogni genere, opere d’arte ec. ec. (11. Luglio. 1823.). Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello che voglia significare nella Genesi l’albero della scienza ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec. antichissimi, che mi pare avere accennato in diversi luoghi, si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice, che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l’origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo uso della ragione. E pare che questa verità fosse nota ai più antichi sapienti, e una delle principali e capitali fra quelle che essi, forse come pericolose a sapersi, enunziavano sotto il velo dell’allegoria e coprivano di mistero e vestivano di finzioni, o si contentavano di accennare confusamente al popolo; il quale era in quei tempi assai più diviso per ogni rispetto dalla classe de’ sapienti, che oggi non è: onde nasceva l’arcano in cui dovevano restare quei dogmi ch’essendo sempre proprii de’ soli sapienti, non erano allora quasi per niun modo communicati al popolo, separato affatto dai saggi. Oltrechè in quei tempi l’immaginazione influiva e dominava così nel popolo, come anche nei sapienti medesimi, onde nasceva che questi, eziandio senz’alcuna intenzione di misteriosità, e senz’alcun secondo fine, vestissero le verità di figure, e le rappresentassero altrui con sembianza di favole. E infatti i primi sapienti furono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia, e le prime verità furono annunziate in versi, non, cred’io, con espressa intenzione di velarle e farle poco intelligibili, ma perchè esse si presentavano alla mente stessa dei saggi in un abito lavorato dall’immaginazione, e in gran parte erano trovate da questa anzi che dalla ragione, anzi avevano eziandio gran parte d’immaginario, specialmente riguardo alle cagioni ec., benchè di buona fede creduto dai sapienti che le concepivano o annunziavano. E inoltre per propria inclinazione e per secondar quella degli uditori, cioè de’ popoli a cui parlavano, i saggi si servivano della poesia e della favola per annunziar le verità, benchè niuna intenzione avessero di renderle Il principal difetto della ragione non è, come si dice, di essere impotente. In verità ella può moltissimo, e basta per accertarsene il paragonare l’animo e l’intelletto di un gran filosofo con quello di un selvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filosofo avanti il suo primo uso della ragione: e così il paragonare il mondo civile presente sì materiale che morale, col mondo selvaggio presente, e più col primitivo. Che cosa non può la ragione umana nella speculazione? Non penetra ella fino all’essenza delle cose che esistono, ed anche di se medesima? non ascende fino al trono di Dio, e non giunge ad analizzare fino ad un certo segno la natura del sommo Essere? (Vedi quello che ho detto altrove in questo proposito). La ragione dunque per se, e come ragione, non è impotente nè debole, anzi per facoltà di un ente finito, è potentissima; ma ella è dannosa, ella rende impotente colui che l’usa, e tanto più quanto maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il suo potere, scema quello di chi l’esercita e la possiede, e più ella si perfeziona, più l’essere ragionante diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dir la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto è maggiore la sua esistenza in intensità e in estensione, tanto l’esser delle cose si scema e restringe ed accosta verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende e quanto meglio e più finamente vede. Così ch’ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch’ella sia grossa e corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n’abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione. (benchè gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu’altra cosa, eccetto solamente ch’alla ragione). Perciocch’ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può mai esser visibile a qualsivoglia vista. (11. Luglio 1823.). Come gli antichi riponessero la consolazione, anche della morte, non in altro che nella vita, (del che ho detto altrove), e giudicassero la morte una sventura appunto in quanto privazion della vita, e che il morto fosse avido della vita e dell’azione, e prendesse assai più parte, almeno col desiderio e coll’interesse, alle cose di questo mondo che di quello nel quale stimavano pure ch’egli abitasse e dovesse eternamente abitare, e di cui lo stimavano divenuto per sempre un membro, si può vedere ancora in quell’antichissimo costume di onorar l’esequie e gli anniversari ec. di un morto coi giuochi funebri. I quali giuochi erano le opere più vivaci, più forti, più energiche, più solenni, più giovanili, più vigorose, più vitali che si potessero fare. Quasi volessero intrattenere il morto collo spettacolo più energico della più energica e florida e vivida vita, e credessero che poich’egli non poteva più prender parte attiva in essa vita, si dilettasse e disannoiasse a contemplarne gli effetti e l’esercizio in altrui. (11. Luglio 1823.). Gridano che la poesia debba esserci contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i costumi, e fors’anche gli accidenti de’ nostri tempi. Onde condannano l’uso delle antiche finzioni, opinioni, costumi, avvenimenti. Puoi vedere la p. 3152. Ma io dico che tutt’altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorchè la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i costumi d’una generazione d’uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà la patria l’amor patrio non esistono, l’amor vero è una fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte? Come può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza passioni, sono termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli essere egoista e metafisico? e il nostro secolo non è tale caratteristicamente? come dunque può il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto poeta? Osservisi che gli antichi poetavano al popolo, o almeno a gente per la più parte non dotta, non filosofa. I moderni all’opposto; perchè i poeti oggidì non hanno altri lettori che la gente colta e istruita, e al linguaggio e all’idee di questa gente vuolsi che il poeta si conformi, quando si dice ch’ei debba esser contemporaneo; non già al linguaggio e alle idee del popolo presente, il quale delle presenti nè delle antiche poesie non sa nulla nè partecipa in conto alcuno. Ora ogni uomo colto e istruito oggidì, è immancabilmente egoista e filosofo, privo d’ogni notabile illusione, spoglio di vive passioni; e ogni donna altresì. Come può il poeta essere per carattere e per ispirito, contemporaneo e conforme a tali persone in quanto poeta? che v’ha di poetico in esse, nel loro linguaggio, pensieri, opinioni, inclinazioni, affezioni, costumi, usi e fatti? che ha o ebbe o potrà mai aver di comune la poesia con esso loro? Perdóno dunque se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la maniera antica, se usa eziandio le antiche favole ec., se mostra di accostarsi alle antiche opinioni, se preferisce gli antichi costumi, usi, avvenimenti, se imprime alla sua poesia un carattere d’altro secolo, se cerca in somma o di essere, quanto allo spirito e all’indole, o di parere antico. Perdóno se il poeta, se la poesia moderna non si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poichè esser contemporaneo a questo secolo, è, o inchiude essenzialmente, non esser poeta, non esser poesia. Ed ei non si può essere insieme e non essere. (11. Luglio. 1823.). E non è conveniente a filosofi e ad un secolo filosofo il richieder cosa impossibile di natura sua, e contraddittoria in se stessa e ne’ suoi propri termini. (12. Luglio 1823.). Quanto mirabile sia stata l’invenzione dell’alfabeto, oltre tutti gli altri rispetti e modi, si può anche per questa via facilmente considerare. È cosa osservata che l’uomo non pensa se non parlando fra se, e col mezzo di una lingua; che le idee sono attaccate alle parole; che quasi niuna idea sarebbe o è stabile e chiara se l’uomo non avesse, o quando ei non ha, la parola da poterla esprimere non meno a se stesso che agli altri, e che insomma l’uomo non concepisce quasi idea chiara e durevole se non per mezzo della parola corrispondente, nè arriva mai a perfettamente e distintamente concepire un’idea, anzi neppure a determinarla nella sua mente in modo ch’ella sia divisa dall’altre, e divenga idea, oscura o chiara che sia, nè a fissarla in modo ch’ei possa richiamarla, riprenderla, raffigurarla nella sua mente e seco stesso quando che sia; non arriva, dico, a far questo mai, finch’egli non ha trovato il vocabolo con cui possa significar questa idea, quasi legandola e incastonandola; o sia vocabolo nuovo, o nuovamente applicato, se l’idea è nuova, o s’egli non conosce la parola con cui gli altri la esprimono, o sia questo medesimo vocabolo che gli altri usano a significarla. Tutto ciò ha luogo in ordine ai suoni elementari della favella, per rispetto all’alfabeto. L’alfabeto è la lingua col cui mezzo noi concepiamo e determiniamo presso noi medesimi l’idea di ciascuno dei detti suoni. Quegli che non conosce l’alfabeto, parla, ma non ha veruna idea degli elementi che compongono le voci da lui profferite. Egli ha ben l’idea della favella, ma non ha per niun conto le idee degli elementi che la compongono: siccome infinite altre idee hanno gli uomini, degli elementi e parti delle quali non hanno veruna idea nè chiara nè oscura che sia separata dalla massa delle altre: e questo appunto è il progresso dello spirito umano; suddivider le idee, e concepir l’idea delle parti e degli elementi delle medesime, conoscere che quella tale idea ch’egli teneva per semplice, era composta, o scompor quella idea ch’era stata semplice per lui finallora, e scompostala concepir l’idee delle parti di essa, sia di tutte le parti, sia d’alcuna. Nè altro è per l’ordinario una nuova idea[a] , che una porzione d’idea già posseduta, nuovamente separata dalle altre porzioni della medesima, e nuovamente determinata in modo ch’ella sussista da se, e sia idea da se, e da se si concepisca. Or questa determinazione si fa col mezzo della lingua, cioè con un vocabolo nuovo o nuovamente applicato. E non è difficilissimo il farlo, perocchè la lingua è già trovata e posseduta, e l’uomo ha chiare idee degli elementi che la compongono, cioè de’ vocaboli, e facilmente si aggiunge alle cose trovate. Ma per determinare gli elementi della voce umana articolata, l’unica lingua, come ho detto, è l’alfabeto. Or questa lingua non era trovata ancora, e niuna idea se ne aveva. Quindi niun mezzo di determinare presso se stesso le idee degli elementi di detta voce; e quindi infinita difficoltà di concepir queste idee e di fissarle nella propria mente; cioè di suddivider l’idea della voce, e stabilire nel proprio intelletto le idee separate delle di lei porzioni. A noi già istruiti dell’alfabeto, niuna difficoltà reca il concepire determinatamente l’idea di ciascun suono di nostra voce, distintamente l’uno dall’altro. Ma supponghiamo, come ho detto, un uomo non istruito dell’alfabeto, quali sono i fanciulli e gl’illetterati, e senza insegnargli l’alfabeto, nè dargliene veruna idea (s’è possibile che nel presente stato di cose, un uomo, benchè ignorante, niuna lontana e confusa idea possegga dell’alfabeto), comandiamogli ch’egli da se risolva la sua propria voce nei suoni che la compongono, e dica quanti e quali. Già questa sola proposizione moltissima luce gli darà, la qual non avevano i primi inventori dell’alfabeto, perocch’egli intenderà che la sua voce è composta di parti diverse l’una dall’altra, e concepirà l’idea della divisibilità della medesima. Idea difficilissima a concepire, e molto più quella, che tali parti si possano determinare ciascuna da se, e concepire distintamente l’una dall’altra. A ogni modo, dopo tutte queste idee preliminari, e dopo aver fatto così grandi e difficili passi verso l’invenzione dell’alfabeto, si può quasi certamente credere ch’egli in niun modo riuscirà nè a trovare e concepire quali parti ed elementi compongano il suono della sua voce, nè quando anche trovasse e concepisse la qualità e diversità scambievole di questi elementi, riuscirà a determinare e fermare appo se stesso l’idea di ciascuno di loro, non avendo i segni con cui significarli, e rappresentarli distintamente a se stesso, ed a cui riferire le sue proprie idee; nè formerà per niun modo il pensiero che siccome l’altre idee si rappresentano e determinano co’ vocaboli, e così determinate e rappresentate, ad essi vocaboli si riferiscono, così anche quelle de’ suoni elementari si possano significare e determinare con altri segni, cioè con quelli dell’alfabeto, ed a questi riportare colla mente. Imperciocchè questo appunto è quello che noi facciamo, senz’avvedercene: rapportiamo ciascun suono elementare al corrispondente carattere dell’alfabeto, e per questo mezzo ne concepiamo chiaramente e determinatamente l’idea distinta e separata, sempre che ci occorre, e la richiamiamo e riprendiamo a piacer nostro. Così facciamo dell’altre idee rispetto alle parole. Ed è notabile che in questo secondo caso, noi rapportiamo l’oggetto della nostra idea alla parola che lo significa, o pronunziata o scritta. Gli uomini avvezzi alla lettura, sogliono per lo più rapportarsi al vocabolo scritto, e concepir tutt’insieme l’idea di ciascuna cosa, del vocabolo che lo significa, e della forma materiale in ch’egli si scrive. V. p. 3008. Ma gl’illetterati e i fanciulli si rapportano semplicemente al vocabolo pronunziato, e ciò basta a concepire l’idea determinata e chiara di qualsivoglia cosa il cui vocabolo si conosca, e di qualsivoglia vocabolo il cui significato ben s’intenda. Perocchè ciascun vocabolo anche semplicemente considerato nella sua profferenza, nella qual solamente possono considerarlo gl’illetterati, ha tanto corpo, e per così dire persona, e tanta consistenza, che basta a ferire i sensi, e quindi essere ritenuto nella memoria, e distinto col pensiero dagli altri vocaboli. Il che non accade circa i suoni della voce. Perocchè esso suono è il vocabolo di se medesimo; e quindi l’idea del suono e del vocabolo che lo significa essendo una cosa stessa, e non potendosi l’uno riferire all’altro, la mente non è in verun modo aiutata dal linguaggio a concepire determinatamente e ritenere e richiamare a suo talento le idee d’essi suoni distinte l’una dall’altra. Vero è che non potendosi profferir da sè se non le vocali, tutti gli altri suoni hanno presso noi una sorta di nome, che non è propriamente esso suono nudo, come bi ci, sono nomi di b c. E nelle antiche lingue ciascun suono anche vocale, portava un suo proprio nome arbitrario e di convenzione (come son le parole, o vogliam dire come i nomi d’ogni altra cosa) il qual nome era più distinto che fra noi da esso suono nudo, onde si può dir che in quelle lingue i suoni della favella avessero i loro vocaboli diversi dall’oggetto, siccome l’avevano gli altri oggetti; che il linguaggio aiutasse il pensiero anche circa i detti suoni, e che la nuda idea de’ medesimi avesse dove appoggiarsi e a che riferirsi anche fuori della scrittura e dell’alfabeto scritto, cioè i nomi conventizi ed imposti dei detti suoni, e l’alfabeto pronunziato. Per esempio alèf, beth, ghimèl, alfa, beta, gamma, iota, eta erano nell’ebraico e nel greco i nomi propri de’ suoni, diversi da’ medesimi suoni. Contuttociò, se non agli antichi, certo ai moderni, si può considerar come quasi impossibile di concepir chiaramente e precisamente, ritener costantemente, e richiamar facilmente le idee di ciascun suono elementare della favella, delle qualità proprie di ciascuno, e della loro scambievole diversità, senza la cognizione dell’alfabeto scritto. Nè credo che si possa allegare esempio di chi possegga o abbia mai posseduto distintamente e perfettamente queste tali idee nel modo e colle condizioni ch’io dico, senza conoscere i caratteri che le significano e rappresentano. Vale a dire non credo che alcuno abbia mai avuto e ritenuto, abbia e ritenga la chiara, determinata e distinta idea di ciascun suono, senza poterlo riferire al rispettivo carattere dell’alfabeto, ma rapportandolo solamente al suo vocabolo, o non rapportandolo a cosa alcuna, ma considerandolo col pensiero solamente in se stesso, e tenendolo semplicemente per se stesso. Non lo credo, dico, di alcuno, e neppur degli antichi, i quali tengo per fermo che nell’imporre i nomi che imposero ai suoni, avessero tutt’altro intento e motivo[a] che quello di aiutar con essi nomi il pensiero, e di far ch’essi suoni si potessero insegnare separatamente dall’alfabeto scritto, ed esser saputi, conosciuti distintamente e costantemente ritenuti da quelli che non conoscessero i caratteri nè potessero in niun modo leggere. Certo i fanciulli oggidì non prima imparano a distinguere i suoni del proprio lor favellare che ad intendere i caratteri che li significano, nè la distinta cognizione e idea di quelli è nelle menti loro per alcun tempo scompagnata dalla cognizione e dalla idea di questi. Per le quali ragioni io dissi di sopra (p. 2953.) che noi colla nostra mente rapportiamo sempre ciascun suono elementare della favella al corrispondente carattere dell’alfabeto, quante volte concepiamo nella mente nostra la distinta idea di qualsivoglia dei detti suoni; e non dissi al nome o vocabolo de’ medesimi. Con queste considerazioni fra l’altre, e per questa via, si può facilmente comprendere e sentire che l’invenzione dell’alfabeto fu, si può dire, così difficile, ed è così maravigliosa come fu ed è l’invenzione della lingua. Perocchè quel medesimo che dee farci maravigliare intorno alla lingua, cioè come sienosi potute avere idee chiare e distinte senza l’uso delle parole, e come inventar le parole senza avere idee chiare e distinte alle quali applicarle, questa medesima meraviglia ha luogo in proposito dell’alfabeto. Potendosi appena concepire come questo abbia potuto preceder le idee chiare e distinte de’ suoni elementari, o come tali idee abbiano potuto essere innanzi alla cognizione de’ segni che li figurano. Onde si può applicare all’alfabeto quel detto di Rousseau il quale confessava che nella considerazion della lingua e nello investigare e spiegare l’invenzione della medesima, trovavasi in grandissimo imbarazzo perchè non sembra possibile una lingua formata innanzi a una società quasi perfetta, nè una società quasi perfetta innanzi all’uso d’una lingua già formata e matura. Anzi a rispetto dell’alfabeto cresce sotto un certo riguardo la meraviglia. Perchè idee chiare e distinte d’oggetti sensibili e sensibilmente distinti gli uni dagli altri, si poterono avere anche senza l’uso delle parole, e trovate le parole a significar questi oggetti, si potè col mezzo delle similitudini e delle metafore (principale strada per cui tutte le lingue si accrebbero) nominare eziandio gli oggetti meno sensibilmente distinti fra loro, e quindi i meno sensibili, i meno chiaramente conceputi, e finalmente gl’insensibili e gli oscurissimi; e trovare il modo di significarli. Ma questa scala non ebbe luogo in ordine all’alfabeto, che è, come ho detto, la lingua significante i suoni elementari. Tutti questi, benchè cadano sotto i sensi, sono tuttavia così confusi, legati, stretti, incorporati gli uni cogli altri nella pronunzia della favella, così lontani dall’essere in modo alcuno sensibilmente distinti, e la loro diversità scambievole è così difficile a notare, ch’ella è quasi fuor del dominio de’ sensi, e la difficoltà di concepire l’idea chiara e distinta di ciascuno di loro senza i segni, e di trovarne i segni senz’averne conceputo le chiare e distinte idee, non è quasi aiutata da verun rispetto, nè fu potuta vincere gradatamente, ma quanto alla parte principale, e alla somma dell’invenzione, essa difficoltà fu dovuta necessariamente vincere tutta in un tratto. Questa invenzione, per dirlo brevemente, apparteneva tutta all’analisi; è di natura sua, tutta opera ed effetto di questa; richiedeva essenzialmente la risoluzione negli ultimi e semplicissimi elementi, le quali cose sono appunto le più difficili all’umano intelletto, e le ultime operazioni ch’egli soglia giungere a fare. (12. 14. Luglio. 1823.). Supponete un cieco nato al quale una felice operazione, nella sua età già matura o adulta, doni improvvisamente la vista. Domandategli o considerate i suoi giudizi (dico giudizi e non sensazioni, le quali non appartengono alla considerazione del bello esattamente e filosoficamente inteso) circa il bello materiale o il brutto materiale degli oggetti visibili che si presentano a’ suoi occhi. E voi vedrete se questi giudizi sono conformi al giudizio che generalmente si suol fare di quegli oggetti sotto il rapporto del bello; o se piuttosto essi non sono difformissimi o contrarissimi, non solo nelle minuzie e nelle finezze o delicatezze, ma nelle parti e nelle cose più sostanziali. Di ciò non mancano esperienze effettive e prove di fatto, perchè la circostanza ch’io ho supposta non manca di esempi reali. E il cieco nato, restando cieco, quali idee concepisce egli della forma umana e di quella degli altri oggetti ch’ei può pur conoscere per mezzo del tatto? quali idee circa la loro bellezza o bruttezza? crediamo noi che queste idee, questi giudizi ch’ei forma convengano colle idee e co’ giudizi degli uomini che veggono? e che sovente non sieno contrarissime a queste? Ma se esistesse un bello ideale e assoluto, non dovrebbe il cieco nato conoscerlo, come si pretende ch’ei conosca naturalmente e che tutti gli uomini conoscano il bello morale che si crede essere assoluto, il qual bello morale niuno lo vede, come il cieco non vede il bello materiale? E nelle qualità che si credono assolutamente belle o brutte in questa o quella specie d’oggetti; e massime in quelle qualità che appartengono agli oggetti che il cieco nato conosce per mezzo degli altri sensi fuor della vista; e più in quelle che appartengono alla specie umana, della quale esso medesimo cieco fa parte, non dovrebbero le idee ed i giudizi del cieco, in quanto egli può comprenderle, convenire col giudizio e colle idee di quelli che veggono, circa il bello e il brutto che ne deriva o che n’è composto? non dovrebbero dico convenire, almeno per ciò che spetta al sostanziale e al principale? Laddove ciascuno di noi è persuaso ch’esse idee e giudizi non convengono coi nostri, se non forse accidentalmente, anzi per lo più ne sono remotissimi e contrarissimi. (14. Luglio 1823.). Il fanciullo, il cieco nato che abbia improvvisamente acquistato la vista, e tutti gli uomini di qualunque nazione, tempo, costume, gusto, opinione, considera la gioventù come bella in se più della vecchiezza. La gioventù quanto a se par bella a tutti assolutamente. Essa è per tutti una qualità bella (sì considerata negli uomini che negli animali per la più parte, e così nelle piante, e nel più delle specie che ne sono partecipi) ec. Questo consenso universale non prova punto che v’abbia una qualità essenzialmente e assolutamente bella per se medesima, o necessaria alla composizione del bello in nessun genere di cose (giacchè la convenienza non è una qualità che componga il bello, una parte che entri nella composizione del bello; ma il bello consiste in essa, essa è il bello, e viceversa il bello è convenienza e non altro). 1. La gioventù si chiama bella, come si chiama bello un color vivo. Nè l’una nè l’altro meritano questo nome filosoficamente. La bellezza loro non è convenienza: ma il bello filosofico non è altro che convenienza. Quello che ci porta a chiamar bella la gioventù non è giudizio ma inclinazione. Il piacere che deriva dalla vista della gioventù non si percepisce per via del giudizio ma della inclinazione, e quindi non spetta alla bellezza. Altrimenti gli uomini diranno che l’esser donna assolutamente è bellezza, perch’essi veggono con più piacere una donna che un uomo. Ma le donne diranno al contrario. Queste qualità non hanno a far niente col bello filosoficamente definito. Esse spettano alla considerazione del piacere che nasce dall’inclinazione, la quale può ben essere universale in una specie, ed anche in tutte le specie, perchè può esser naturale e innata. Le idee son quelle che non possono essere innate. E il piacere che reca la vista della gioventù è una sensazione pura, non un’idea, nè deriva da un’idea. Che ha dunque che fare col bello ideale? Questo non può essere che un’idea. Il caldo, il freddo, l’amaro, il dolce, che niuno chiama belli nè brutti, appartengono alla categoria della gioventù. L’effetto ch’essi producono nell’uomo o nell’animale, in quanto esso effetto è attualmente piacevole o dispiacevole, non è idea ma sensazione. Dunque non è nè bello nè brutto. Così nè più nè manco l’effetto che produce nell’uomo o nell’animale la vista della gioventù. Il cieco nato adunque che vede per la prima volta una persona giovane e trova la gioventù piacevole a vedere, non prova l’effetto di niuna bellezza, ma di una qualità che la natura ha fatto esser piacevole a vedere come il dolce a gustare. Egli non giudica allora ma sente. Se dipoi sopra questa sensazione egli fonda e forma un giudizio e un’idea, come gli uomini sempre fanno, questa è venuta dalla sensazione, e non da un’idea innata, cioè da quella del bello che si suppone ideale. Bensì quella sensazione, in quanto piacevole, è venuta da una qualità innata e naturale in quel cieco, ma questa qualità non è un’idea; essa è una inclinazione e disposizione, nè deriva nè risiede nè spetta punto per se all’intelletto. Nel quale, e non altrove, dovrebbe esistere e risiedere il bello ideale, s’egli esistesse. E nell’intelletto quindi debbono accadere gli effetti del vero bello veduto, e non altrove; e da esso derivarne le sensazioni. Ma nel caso nostro accade il contrario. L’idea è cagionata nell’intelletto dalla sensazione. Così discorrere del fanciullo. Il quale neanche si può così semplicemente dire che trovi piacevole a vedere la gioventù, appena, e la prima volta ch’ei la vede; che gli paia, come si dice, bella assolutamente e per se, e più bella della vecchiezza, al primo vederla. Ho notato altrove quanto spesso una persona giovane gli paia, e sia da lui espressamente giudicata bruttissima, e una persona vecchia bellissima (ancorchè ella sia a tutti gli altri brutta, eziandio per vecchia), e ciò per varie circostanze. E i sopraddetti effetti non hanno luogo nel fanciullo, o non v’hanno luogo costantemente e sicuramente nè in modo che non sia accidentale e di circostanza, se non dopo essersi sviluppata in lui la inclinazione naturale verso la gioventù, massime in ordine agl’individui della propria specie; il quale sviluppo, specialmente ne’ paesi meridionali, accade nel fanciullo assai presto, e molto prima ch’egli sia in grado ec. Vedi l’Alfieri nella sua Vita. Accade, dico, almeno in parte. E anche circa il cieco nato che acquisti improvvisamente il vedere, dubito molto che egli ne’ primi momenti, e anche ne’ primi giorni, trovi assolutamente bello, come si dice, l’aspetto della giovanezza per se medesimo, e più bello che quello della vecchiezza. ec. Del resto il cieco nato, restando pur cieco, troverà certo più piacevole p. e. la voce giovanile che la senile, e tutte le altre sensazioni che gli verranno da persone giovani, in parità di circostanze, le troverà più piacevoli di quelle che gli verranno da persone vecchie; e l’idea ch’egli concepirà della giovanezza, qualunque ella sia, sarà per lui più piacevole, e, come si dice, più bella che la contraria, e piacevole e bella per se medesima. Ma tutto ciò sarà effetto della inclinazione, e non derivato originalmente dall’intelletto. ec. 2. La gioventù non è necessaria alla composizione del bello, neppur nelle specie nelle quali essa ha luogo. Essa ancora è una qualità relativa, eziandio considerandola dentro i termini d’una medesima specie di cose. P. e. parlando della specie umana, egli si dà un bel vecchio, niente meno che un bel giovane. V’è la bellezza propria del bambino, del fanciullo, della età matura, dell’età senile, della decrepita ancora, niente manco che quella propria dell’età giovanile. (Vedi Senofonte cap. 4. par. 17. del Convito.) In molti casi la giovanezza ripugnando alle altre qualità dell’oggetto, ovvero a tale o tal altra circostanza estrinseca a lui relativa, ella non solamente non servirebbe a comporre il bello, ma gli nuocerebbe, lo distruggerebbe, e produrrebbe a dirittura il brutto, appunto in quanto giovanezza; di modo che quell’oggetto sarebbe brutto espressamente perchè giovane, quel composto sarebbe brutto precisamente in tanto in quanto la giovanezza v’avrebbe parte. P. e. gli antichi rappresentavano gli Dei giovani. Tali erano le loro idee, e bene stava. Ma oggi chi rappresentasse il Dio Padre coll’aspetto della gioventù, in vece della vecchiezza, questa effigie, in quanto giovanile, sarebbe ella bella? No, anzi brutta, appunto in quanto giovanile, e in quanto all’aspetto della giovanezza, perchè le nostre idee e l’uso nostro e le qualità che la nostra immaginazione attribuisce a Dio Padre, ripugnano a questa qualità. Anche fra gli antichi una immagine, una statua giovanile di Giove regnante e fulminante, sarebbe stata brutta in quanto giovanile. E forse che l’aspetto di Giove nelle antiche immagini è brutto? Anzi bellissimo, ma non giovane. Nè perciò men bello di Apollo giovane, nè di Mercurio più giovane ancora, nè di Amore fanciullo. La giovanezza in questi tali casi cagionerebbe la bruttezza perchè sarebbe sconveniente. Così fanno tutte l’altre qualità nello stesso caso per la stessa ragione. Dunque la giovanezza come tutte l’altre qualità, e può essere sconveniente, ed essendo, cagiona bruttezza. Dunque ella come tutte l’altre non cagiona bellezza se non quando conviene. Dunque la gioventù non è cagione nè parte di bellezza assolutamente nè per se, ma relativamente, e solo in quanto ella conviene, e ciò considerandola eziandio in quelle sole spezie di cose che possono parteciparne, e di più dentro i termini d’una medesima specie. Dunque la gioventù, filosoficamente ed esattamente parlando, non appartiene per se alla bellezza più di qualsivoglia altra qualità; e, come tutte l’altre, è resa propria a formar la bellezza, non da altro che da una cagione a lei estrinseca e diversa, e per se variabilissima e incostante, cioè dalla convenienza. La quale ora ammettendo la gioventù, la rende propria al detto uffizio, ora escludendola, ve la rende al tutto inabile. Potrà dirsi che, se non altro la bellezza giovanile è maggiore p. e. della senile. Potrei rispondere ch’ella è più piacevole, ma non già maggior bellezza per se, non essendo maggior convenienza. Il fatto però è questo. L’ordine universale della natura, indipendentemente affatto dalla bellezza, porta che le forme e le facoltà delle specie capaci di gioventù e di vecchiezza, si trovino nella maggior pienezza conveniente alla rispettiva specie e nella maggior perfezione relativa ad essa specie, nel tempo della gioventù perfetta di ciascun individuo. Quindi non assolutamente, ma relativamente all’ordine attuale della natura, si può dir che p. e. la forma dell’uomo perfettamente giovane è più perfetta di quella del vecchio, e la più perfetta di tutte quelle delle quali l’uomo è capace. Laonde la bellezza della sua forma giovanile si potrà dir maggiore di quella della senile. Ma questo maggiore è accidentale, e propriamente non appartiene alla bellezza, ma a quel soggetto in cui ella si considera. Perocchè la forma giovanile a cui essa bellezza appartiene, è per rispetto alla natura dell’uomo, e non per rispetto al bello, più perfetta della senile. E quindi, a parlare esattamente, nasce che la bellezza giovanile dell’uomo, non sia bellezza maggiore della senile, ma appartenente ad una forma che è la più perfetta di cui l’uomo sia capace, cioè alla giovanile. Onde la perfezione, e la maggior perfezione, non è qui propria della bellezza, ma del soggetto a cui ella appartiene accidentalmente, cioè della forma giovanile dell’uomo. E però la forma giovanile non può per se entrare nella composizione di quel che si chiama bello ideale; giacchè essa forma può ben essere il soggetto del bello (siccome può anche non essere, e spessissimo non è), ma non è già esso bello, e la bellezza non gli appartiene che accidentalmente, ed è del tutto estrinseca e diversa alla di lei natura. E conchiudesi che la bellezza giovanile è bellezza relativamente alla forma giovanile, ma non assolutamente, nè in quanto giovanile, dandosi bellezza scompagnata dalla gioventù, anche nella medesima specie. Sicchè la bellezza giovanile è come tutte l’altre relativa, e non assoluta. Relativa cioè alla forma giovanile. Tanto è lungi che la gioventù sia per se stessa una qualità bella, quando non è che il soggetto della bellezza, e può esserlo e non esserlo, e la bellezza può stare in una medesima specie con e senza la giovanezza. (14-15. Luglio. 1823.). Il tema di Prisciano riconosce il verbo Alla p. 2864. Noi abbiamo anche i positivi frate e suora, cioè Se la voce Alla p. 2786. marg. Anche Benchè materiale, non sarà perciò vana l’osservazione che i poemi d’Omero, massime l’Iliade, avuto rispetto alla qualità della lingua greca, la quale in un dato numero di parole o di versi dice molto più che le lingue moderne naturalmente e ordinariamente non dicono, i poemi d’Omero, ripeto, sono i più lunghi di tutti i poemi Epici conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati all’Eneide, ch’è poema scritto nella lingua più di tutte vicina alla detta facoltà della lingua greca, oltre ch’essi sono composti di 24 libri ciascuno, laddove l’Eneide di soli dodici, si trova che avendo l’Eneide 9896 versi, l’Odissea n’ha 12096, e l’Iliade 15703, il qual computo l’ho fatto io medesimo. Notisi che i versi di Virgilio sono della stessa misura che quelli di Omero. Questo parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle lingue moderne, sì per la differente misura de’ versi e quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto maggiormente perchè le lingue moderne hanno bisogno d’assai più parole che non la lingua greca e latina per significare una stessa cosa. Onde quando anche v’avesse qualche poema epico moderno che di parole eccedesse quelli d’Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero, per così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n’ha che non sia notabilmente minore di questi, o certo dell’uno d’essi, cioè dell’Iliade. Ora ella è pur cosa mirabile ad osservare che lo spirito e la vena di Omero, l’uno tanto vivido gagliardo e fervido e l’altra così ricca e feconda in ciascheduna parte, abbiano potuto reggere, lascio stare in due poemi, ma in un poema medesimo, per così lungo tratto. Perciocchè tutti gli altri poeti epici, avendo tolto qual più qual meno, quale direttamente e quale indirettamente, qual più visibilmente e qual più copertamente da lui, e successivamente gli uni dagli altri di mano in mano, si vede tuttavia che non hanno potuto reggere a un corso così lungo, per vigorosi e vivaci che fossero, e sonosi contentati d’una carriera assai più breve, e bene spesso prima di giungere al termine di questa medesima, hanno pur lasciato chiaramente vedere che si trovavano affaticati, e che la lena e l’alacrità veniva lor manco, tanto più quanto più s’avvicinavano alla meta[a] . E Virgilio, il quale che cosa non ha tolto ad Omero?, nella seconda metà della sua Eneide riesce evidentemente languido e stanco, e diverso da se medesimo, se non nella invenzione[b] , certo però nell’esecuzione cioè nelle immagini, nella espansione e vivacità degli affetti e nello stile, il che non può esser negato da veruno che ben conosca la maniera, la poesia, la lingua, la versificazione di Virgilio, anzi a questi tali la differenza si fa immediatamente sentire: e vedesi che l’immaginazione di Virgilio era per la lunga fatica illanguidita, raffreddata, e sfruttata; non rispondeva all’intenzione del poeta; non gli ubbidiva; egli poetava già per instituto e quasi debito, per arte e per abitudine, arte e abitudine che in lui erano eccellentissime, e possono ai meno esperti sembrare impeto ed In verità questo affievolimento e spossamento dell’immaginazione, del calore, dell’entusiasmo in un poema di lungo spirito, non solo ci dee parer perdonabile, ma così naturale, ch’egli sia quasi inevitabile anche ai più grandi e veri poeti. Massime considerando quella continuità d’azione che si richiede all’immaginativa, nel modo spiegato di sopra. Ma Omero, da niuno attingendo, non avendo esemplari coll’uso e meditazione de’ quali, se non altro, ristorasse le sue forze, si rinfrescasse, e ripigliasse animo (come accade anche ai più originali poeti), senz’altro nè fonte nè soccorso, nè modello, nè sprone che se medesimo, la sua propria immaginativa e la natura, in uno anzi in due interi poemi più lunghi di tutti quelli ch’essi poscia hanno prodotti, non mostra mai nè quanto all’invenzione nè quanto allo stile il menomo languore o isterilimento, ma dura fino all’ultimo colla stessa freschezza, vivacità, efficacia, ricchezza, copia, impeto, così intero di forze, così abbondante di novità, così fervido, così veemente, così mosso ed affetto dalla natura, e dagli oggetti che se gli presentano o ch’egli immagina, come nel principio. Massimamente nella Iliade. Nella quale anzi la ricchezza, varietà, bellezza, originalità e forza dell’invenzione tanto più s’accrescono, quanto più si avanza, ed è maggiore nel fine che nel principio. E veramente si può dire che Omero fu molto più ricco del suo solo, che tutti gli altri poscia non furono del loro proprio e dell’altrui accumulato insieme. Nè certo, secondo le addotte considerazioni, dee parer poco maraviglioso e notabile, benchè materiale, il dire che i poemi epici d’Omero sono più lunghi di tutti quelli che da essi in uno o altro modo derivarono (poichè anche il Paradiso perduto e la Messiade derivano pur di là), e che di essi in una o altra guisa si alimentarono. Massime aggiungendo che in tutta la loro estensione essi sono i medesimi, cioè sempre veri poemi, e sempre uguali a se stessi, il che non si può neppur sempre dire di tutti gli altri sopraddetti. Par che l’immaginazione al tempo di Omero fosse come quei campi fertilissimi per natura, ma non mai lavorati, i quali, sottoposti che sono all’industria umana, rendono ne’ primi anni due e tre volte più, e producono messi molto più rigogliose e vivide che non fanno negli anni susseguenti malgrado di qualsivoglia studio, diligenza ed efficacia di coltura. O come quei cavalli indomiti, lungamente ritenuti nelle stalle, che abbandonati al corso, si trovano molto più freschi e gagliardi de’ cavalli esercitati e addestrati, dopo aver fatto un doppio spazio. Tanto che, considerando la freschezza dello stile, delle immagini, della invenzione di Omero nella fine della Iliade, par ch’ei non lasci di poetare e non chiuda il poema, se non perch’ei vuol così, e per esser giunto alla meta ch’ei s’era prefisso, o perchè ogni opera umana dee pure aver qualche fine, ma che fuori di questo caso, egli avrebbe ancora e spirito e lena per seguire, senza pur posarsi, a correre ancora non interrottamente altrettanto e maggiore, anzi non determinabile spazio. E che l’opera sua riceva il suo termine, ma la ricchezza e copia della sua immaginativa non sia di gran lunga esaurita, anzi sia poco meno che intatta; e che il suo corso finisca, ma non il suo impeto. E par che la natura ancor vergine dalla poesia (siccome vergine dalle scienze e dalla filosofia ec. che distruggono l’immaginazione e l’illusioni ch’essa natura ispira) le somministrasse in quel tempo tanta copia d’immagini e sentimenti che non avesse quasi alcun fondo, e a rispetto di cui sembri povera e scarsa quella che i più grandi poeti trassero poscia in qualunque tempo dalla natura già molto studiata e imitata. (16-17. Luglio. 1823.). Alla p. 2974. Cervello ( Trapano, trapanare, Se molti continuativi latini non hanno una significazione continuativa del verbo originale, ma uguale o poco diversa da questo, ciò non toglie che la virtù della loro formazione non sia veramente continuativa, e che la proprietà loro non sia tale, benchè non sempre osservata e custodita dagli scrittori latini, e in alcuni verbi non mai, per le ragioni dette altrove. Che se questa obbiezione valesse, ella varrebbe nè più nè meno contro coloro che chiamano quei verbi frequentativi, non trovandosi ch’essi abbiano sempre o tutti un significato diverso da’ verbi originali, e varrebbe anche circa quei medesimi verbi in itare ch’io dico esser veramente frequentativi di formazione. P. e. il Forcell. in È notabile che tutte le maniere di verbi frequentativi o diminutivi italiani da me altrove enumerati, come saltellare, salterellare ec. sono immancabilmente e solamente della prima coniugazione, ancorchè il verbo originale e positivo sia d’altra coniugazione, come scrivere, onde scrivacchiare ec.; nè più nè manco che in latino tutti i continuativi e frequentativi o diminutivi (se non forse pochi anomali) del genere ch’io ho preso ad esaminare, da qualunque coniugazione essi vengano; ed anche altri verbi derivativi, sieno diminutt. sieno frequentatt. sieno l’uno e l’altro insieme, ec. di verbi originali ec. con diverse formazioni, che non spettano alla mia teoria, ed istituto, come Scambio del v in g, del quale ho detto altrove. Nuvolo (dal latino Dico che nella formazione dei continuativi da’ verbi della prima, l’ultima a del participio si cambia in i. Da Alla p. 2677. Anche il volgo e il discorso familiare spagnuolo usa questo idiotismo del singolare dice per lo plurale dicono. Nella Historia del famoso Predicador Fray Gerundio de Campazas s’introduce un contadino chiamato Bastian Borrego a usar queste frasi plebee Alla p. 2976. La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile, e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era un incomodo e uno svantaggio che niun bene, niun comodo, niun godimento togliesse, e niuna privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a’ tempi nostri era il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si trovano commemorati nell’antichità che non si veggono al presente. Come dire Pomponio Attico e molti filosofi greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre, divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale, adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente, desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a una vita, ch’ei si può ancora promettere, di molti anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura. Ma neanche nell’estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho detto altrove circa l’amor della vita nei vecchi, l’amore e la cura della vita crescenti in proporzione che per l’aumento dell’età scema il valore d’essa vita. (18. Luglio 1823.). Alla p. 2870. Come la nazion francese è tra tutte quelle europee che si chiamano meridionali quella che più partecipa del settentrionale sì per clima, come per indole, costumi eccetera[a] così la lingua francese è di tutte le figlie della latina, o vogliamo dire delle meridionali colte, quella che ha più del settentrionale sì per la natura, asprezza ec. dei suoni, come per la proprietà ed indole della dicitura, forma, struttura ec. E si può dire che per l’uno e per l’altro rispetto essa lingua, siccome la nazione che la parla tenga il mezzo, e sia quasi un grado e un anello fra le meridionali e le settentrionali europee colte. Dico per l’uno e per l’altro rispetto, cioè per li suoni e per l’indole. Le quali due cose sono sempre analoghe e corrispondenti fra loro, cioè tale è sempre l’indole di una lingua perfetta qual è quella de’ suoni materiali ch’ella adopera. E la varietà medesima che si trova fra i suoni di due lingue d’una medesima classe, o di due lingue di classi diverse, o delle lingue di due classi (come settentrionale e meridionale), si troverà sempre fra i caratteri e i geni delle medesime lingue o classi, purch’elle sieno perfette, e ben corrispondenti all’indole della nazione, il che sempre accade quando una lingua è perfettamente sviluppata, e senza di che non può essere che una lingua, ancorchè colta, abbia perfettamente sviluppato, o conservi, il suo vero, conveniente, naturale e proprio carattere. (19. Luglio 1823.). Alla pag. 2974. Intorno a questo verbo Del resto, io non so, come ho detto, se gli antichi dicessero anche uso, haeseo, hausio ec. per Alla p. 2893. Chiedere vien da Alla p. 2891. Il Fischer nella prefazione alla Grammat. Greca del Weller, ed. Lips. 1756. dice che i pleonasmi d’Omero derivano dalla lingua ebraica. Che che sia di questa proposizione, certo è che quel pleonasmo di Alla p. 2815. A questa categoria di verbi (che forse si potrebbero chiamare continuatt. irregolari, tutti, come In caso ch’ Del resto i verbi da cui derivano i soprascritti, hanno anche i loro continuativi fatti da participii, cioè Alla p. 2906. Bell’effetto fanno nell’Aminta e nel Pastor fido, e massime in questo, i cori, benchè troppo lambiccati e peccanti di seicentismo, e benchè non vi siano introdotti se non alla fine e per chiusa di ciascun atto. Ma essi fanno quivi l’offizio che i cori facevano anticamente, cioè riflettere sugli avvenimenti rappresentati, veri o falsi, lodar la virtù, biasimare il vizio, e lasciar l’animo dello spettatore rivolto alla meditazione e a considerare in grande quelle cose e quei successi che gli attori e il resto del dramma non può e non dee rappresentare se non come particolari e individue, senza sentenze espresse, e senza quella filosofia che molti scioccamente pongono in bocca degli stessi personaggi . Quest’uffizio è del coro; esso serve con ciò ed all’utile e profitto degli spettatori che dee risultare dai drammi, ed al diletto che nasce dal vago della riflessione e dalle circostanze e cagioni spiegate di sopra. (21. Luglio. 1823.). [3000 - 3206]Delle cose veramente ridicole nella società o negl’individui è ben raro trovar chi ne rida. E s’alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che l’aiuti a farlo, e che gli dia ragione, o che pur senta la causa del suo riso. Gli uomini per lo più ridono di cose che in effetto son tutt’altro che ridicole, e spesso ne ridono per questo appunto che non sono ridicole. E tanto più ne ridono quanto meno elle son tali. (21. Luglio. 1823.). Alla p. 2922. fine. Alcune volte noi diciamo volere anche di cose animate, anche degli uomini, ma relativamente a ciò che non dipende dalla lor volontà, o che non può dipender da volontà, o che anche è contrario affatto alla lor volontà; e lo diciamo non solo per ischerzo, ma eziandio seriamente, in virtù dell’idiotismo che ho preso a illustrare. P. e. il tale non vuole ancora guarire, cioè, ancor non guarisce: e il verbo volere ridonda. Qua si dee riferire un luogo di Platone nel Sofista ed. Astii t. 2. p. 246. v. 7. A. dove Alla p. 2864. Continuativi barbari. Alla p. 2996. fine. Che |