Giacomo Leopardi - Opera Omnia >>  Zibaldone di pensieri  (da 4001 a 4526)




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[4001 - 4200]

Alla p. 3995. princ. Coccolone, o coccoloni da coccare, penzolone o penzoloni (v. il pens. precedente), rotolone ec. Tutte forme frequentative. E questa forma è usitatissima in cotali avverbi in one o oni propri della nostra lingua, che equivalgono a’ gerundi de’ rispettivi verbi (sieno frequentativi o diminutivi ec. in olare o comunque, o non lo sieno punto) da cui sono formati (se sono formati da verbo). Dunque la forma in ol breve, è ben propria della nostra lingua, e vi è frequentativa, diminutiva ec. come in latino ec. Ruotolo o rotolo. Coccola, coccolina. Concola (i romani concolina sempre, per quello che noi diciamo catino da lavar le mani e il viso) da conca. V. il Forc. e i Less. gr. dove κογχύλιον è diminutivo. E vedi alla pag. 3636. marg. fromba diminuito in frombola, voci l’una e l’altra, che non hanno a far col latino[a]

Così grappo e grappolo, di cui altrove; e v. il Gloss.

[Chiudi]. V. il Gloss. Goccia e gocciola, gocciolare e gocciare, sgocciolare ec. da gutta, del che altrove[b]. Snocciolare da nócciolo ec.[c]; v. la Crusca: nócciolo par che sia da nucleus che non è diminutivo: quindi neanche snocciolare cioè enucleare. (24. Dec. 1823.). V. p. 4003.

A proposito delle divinità benefiche, che altrove ho detto essere ed essere state venerate, inventate ec. dalle nazioni civili, e più quanto più civili, si aggiunga che non solo benefiche, ma graziose, amabili ec. ancorchè non benefiche, o indifferenti ec. come tante divinità, allegorici personaggi, personificazioni di qualità o soggetti ec. naturali, umani ec. nella mitologia greca ec. ec. (24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.).

Delle colonie greche in Italia, Sicilia ec. e antico commercio ec. greco in Italia, avanti il dominio de’ romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo, cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel volgare latino in quelle parti, e quindi ne’ volgari moderni in quelle parti, e quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di questo ebbe principio in Sicilia e nel regno, come mostra il Perticari nell’Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel modo che altrove s’è discorso delle Colonie greco-galliche, di Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.).

Κρεῖττον ἑλέσθαι ψεῦδος ἢ ἀληθὲς κακόν. Menander ap. S. Maxim. Capit. Theolog. serm.35. fin. (24. Dec. 1823. Vigilia del S. Natale.).

Diminutivi greci positivati. Προβάτιον. V. lo Scap. Il luogo d’Ippocrate quivi cit. è nel principio del lib. de morbo sacro: οὐ γάρ ἐστιν αὐτοῖς ἄλλο προβάτιον οὐδὲν ἢ αἶγες καὶ βόες.. Ἱμάτιον da εἷμα ατος o da un ἷμα ατος (come da ἀπόσπασμα ατος, ἀποσπασμάτιον diminutivo e simili), diminutivo positivato, eccetto che εἷμα. (poetico, cioè a dire antico) è forse un po’ più generico. Così forse dicasi di φόρτος e φορτίον. V. lo Scapula. (25. Dec. dì del Santo Natale. 1823.).

Dico altrove del nostro cangiar talora il cul latino in gli, coll’es. di periglio ec. Aggiungi spiraglio da spiraculum che anche si dice spiracolo, come pure pericolo. (25. Dec. dì del S. Natale. 1823.).

Volere per potere, idiotismo greco e italiano, di cui altrove. Ippocrate o chiunque sia l’autore del libro de morbo sacro a lui attribuito, ediz. del Mercuriale Ven. 1588. opp. d’Ippocr. classe 3. p. 347. D. terza pag. del detto libello. Οὐ μέντοι ἔγωγε ἀξιῶ ὑπὸ θεοῦ ἀνθρώπου σῶμα μιαίνεσθαι, τὸ ὑποκηρότατον ὑπὸ τοῦ ἁγνοτάτου, ἀλλὰ κ' ἢν τυγχάνῃ ὑπὸ ἑτέρου μεμιασμένον ἢ τὶ πεπονθός, ἐθέλοι (posset) ἂν ὑπὸ τοῦ θεοῦ καθαίρεσθαι καὶ ἁγνίζεσθαι μᾶλλον ἢ μιαίνεσθαι. Cioè purgaretur et purificaretur magis quam inquinaretur, ovvero posset purgari ec. L’ἐθέλοι si potrebbe facilmente ommettere risolvendo nell’ottativo colla particella ἂν i verbi infiniti che da lui pendono, e il luogo avrebbe quasi lo stesso valore. Ma la locuzione è elegantissima. (25. Dec. Festa del S. Natale. 1823.).

Alla p. 4001. Nótisi che la desinenza in olare, dove l’ol è breve ec., sia diminutiva, sia frequentativa ec. si dà presso noi a moltissime voci che non hanno nè poterono avere a far col latino. Si unisce eziandio ad altre desinenze e forme affatto italiane e per nulla latine, come da ballonzare, formazione italiana (o toscana) da ballare, si fa ballonzolare (anche la forma in olare sembra essere propriamente o più particolarmente toscana che altro). Così da pallotta pallottola, e simili. Collottola, frottola. Viottolo, viottola (questa è veramente una diminuzione in ottolo tutta italiana tanto è vero che l’olo breve è italiano ec.) diminutivi di via, e molti simili ec. L’uolo poi accoppiasi in mille modi ec. non mi par però che possa esser sopraddiminutivo (al contrario mi par dell’olo), bensì riceverlo ec. (25. Dec. 1823.). V. qui sotto.

Vedi il pensiero precedente, e osserva che la formazione in olare è anche oggi, fra l’altre, al discreto arbitrio dello scrittore, o parlatore ec. e di questo arbitrio se ne prevalgono anche i volgari, specialmente in Toscana ec. che non conoscono il latino ec. (25. Dec. 1823. dì del S. Natale.).

Frequentativi italiani ec. Vedi nell’anteced. pensiero un verbo sopraffrequentativo o sopraddiminutivo ec., come anche altri ve ne sono, o ne possiamo formare a piacere e giudizio dello scrittore parlatore ec. (25. Dec. 1823.). V. la p. seg.

Diminutivi greci positivati. Χωρίον. V. Scap. (25. Dec. 1823.).

Alla p. preced. — In icare, come verzicare o verdicare (inverzicare attivo a quel che pare) per verdeggiare ed altri molti (qua spetta dimenticare). Questa forma di frequentativi è affatto latina. V. la p. 2996. marg., ec. Ed altri molti esempi ve n’hanno, oltre i quivi citati[a]

Voltolare, rivoltolare, avvoltolatamente. Vagellare (Crus.), vagolare e svagolare (Alberti), da vagari.

[Chiudi]. Particolarmente poi s’usa nel latino appunto in fatto di colori, come quivi altresì puoi conoscere. V. appunto nel Forc. viridicans e viridicatus. Male dice il Forc. che viridicans è per viridans, questo attivo e quello neutro ed equivalente affatto al nostro verzicante o verdicante (Crus.), oltre che se viridans fosse anche neutro, non sarebbe però, come quello, frequentativo ec. V. il Gloss. ec. (25. Dec. Festa del S. Natale. 1823.). Così da nivo is e da nevare (ital.) nevicare (volgarmente nevigare, e v. il Gloss.) frequentativo alla latina, delle quali voci mi pare aver detto altrove. Morsicare; ma non ha più il senso frequentativo ec. anzi ha quello stessissimo del positivo mordere, sebben la Crusca lo definisce morsecchiare. Vedila, e in morsicatura ec. Masticare. V. Forc. e il Gloss. Vedi la p. 4008. capoverso 4. fine. Mordicare co’ deriv. Rampicare arrampicare arpicare da rampare-rampante, o da rampa o da rampo. Inerpicare, inarpicare. Luccicare, sbarbicarelucere, sbarbare. Vedi la pag. 4019. capoverso 1. Zoppicare, impetricato, nutrico as e nutricor di cui altrove.

Tetta tettareτιτθὸς o τίτθη o τιτθὴ (che vale anche nutrice ed ava: ora in questi sensi si dice anche τηθὴ) coi derivati. V. p. 4007. Εὐθὺ,, εὐθὺς ec. per subito ec. — a dirittura, dirittamente ec. per subito. (26. Dec. Festa di S. Stefano. 1823.).

Usi familiari del lat. recte conformissimi a quelli del nostro bene, franc. bien ec. (che secondo il più comune significato di recte, vagliono lo stesso, cioè probe ec.), veggansi nel Forc. in recte ne’ due ultimi paragrafi della seconda colonna di detto articolo. (26. Dec. Festa di S. Stefano. 1823.).

Setola per il lat. seta, setoloso setoluto per setosus, e v. gli altri derivati di setola, e il Forc. in setula . (26. Dec. 1823. Festa di S. Stefano.).

Nivitari pass. da nivo is. Gloss. Cang. (27. Dec. 1823. Festa di S. Giovanni Evangelista.).

Diminutivi greci positivati. Εἰρίον, ἔριον, da εἶρος (27. Dec. 1823.).

Verbi diminutivi positivati. Ringhiare cioè ringulare da ringere. V. i franc. e spagn. (27. Dec. 1823.). Avvinchiare, avvinghiare, succhiare, succiare (sugo is, suggere, sucer ec.). e molti altri simili verbi italiani in ghiare e chiare, iare ec. sono assoluti diminutivi (quasi tutti e per lo più o tutti e sempre positivati), e diminutivi non in italiano ma in latino donde mostrano assolutamente esser venuti, cioè da de’ rispettivi verbi in ulare, noti o ignoti. Così molti verbi spagn. in jar, franc. in iller, ec. Così anche nomi e altre voci ec.[a]

Morchia (noi marchigiani morca) — amurca.

[Chiudi] (27. Dec. 1823.). — Possono però tali verbi ec. esser fatti anche da nomi o latini o italiani ec. noti o ignoti, come p. e. ringhiare da ringhio (nome usato), il quale quando anche fosse da un ringulus, questo non sarebbe diminutivo, o da nomi che essendo diminutivi in latino, in ulus, non lo sieno in italiano ec. (27. Dec. 1823. Festa di San Giovanni Apostolo ed Evangelista.). Tali sono i verbi rugghiare e mugghiare, mugliare [b], mugolare, mugiolare, muggiolare coi derivati ec. di questi e di mugghiare, rugghiare ec. del quale però mi ricordo aver parlato altrove e veggasi il detto quivi. (28. Dec. giorno degl’Innocenti. 1823.). Veggasi la pag. 4008. capoversi 4. e ultimo.

Diminutivi positivati. Vasello. V. la Crusca, co’ suoi derivati, e in Vagello co’ derivati. (28. Dec. 1823.).

Plurali italiani in a. Vasella plur. di vasello. (28. Dec. 1823.). Vasa plur. di vaso. Crus. e Arios. Sat. 3.

Participii passivi in senso att. o neut. ec. Apercibido per fatto inteso, che sta sull’avviso ec. (D. Quijote). Inteso per informato, intendente, ec. (entendido, entendu. V. spagn. e franc. : se però in questo senso appartenesse al neut. pass. intendersi, entenderse ec. non spetterebbe al nostro proposito.). Discreto it. spagn. (di cui par che, almeno principalmente sia proprio) e franc. per discernente ec.[a]

Conocido, desconocido, p. conoscente, cioè grato, e sconoscente, come diciamo noi l’uno e l’altro, come anche disconoscente. V. la Crusca in disconosciuto esempio 2. dove vale che non conosce, ch’è privo di conoscimento, e nota ch’è di Guittone, cioè antichissimo.

[Chiudi] V. il Gloss. ec. (29. Dec. 1823.).

Alla p. 3955. marg. — di questo però particolarmente. — Coltellinaio ec. ec. (29. Dec. 1823.).

Avvisato, avisado ec. nel senso di accorto ec. molto s’ingannerebbe chi lo credesse un significato passivo dall’attivo di avvisare cioè avvertire ec. (29. Dec. 1823.).

Participii passati in senso attivo o neutro, aggettivato. V. Forc. in consultus dove non approvo il modo in ch’egli spiega l’origine del significato attivo o neutro di questa voce, per non aver considerato i tanti altri es. che v’hanno di tali participii così usati, aggettivamente o no, ne’ quali non ha punto luogo una simile spiegazione. In particolare poi v’hanno esempi in significati simili a quello di consultus, sì nel latino sì nelle lingue moderne, come cautus, avvisato, avvertito ec. da me sparsamente notati altrove, e consideratus attivamente nel latino e nell’italiano ec. di cui v. il Forc. la Crus. gli spagnuoli e francesi. V. ancora i composti ec. di consultus in tal senso, come jurisconsultus ec. e di consideratus, come inconsideratus ec. e così degli altri tali participii. (29. Dec. 1823.).

Appellito as, apellidar ec. (30. Dec. 1823.).

Diminutivi greci positivati. τιτθὸς ec. τιτθίον, (come in lat. mamma e mammilla nello stesso senso, del che altrove), τιτθὴ ec. e τιτθὶς ίδος, quasi nutricula ec. (30. Dec. 1823.). Vedi la pag. seg. capoverso 1

Diminutivi positivati. Sencillo da sincerus. Così pretto da purus del che altrove, nel medesimo senso, e ambo diminutivi aggettivi il che è raro ec. Tenellus, tenellulus, lascivulus, blandulus, misellus ec. ec. miserello ec. ec. ma è raro che gli aggettivi diminutivi sieno positivati ec. ec. Seggiola, seggiolo (v. i derivati sopraddiminutivi, e anche accrescitivi, come seggiolone, fatti dal diminutivo, il che è notabile, nè potrebbe ragionevolmente aver luogo se il diminivo non fosse positivato, o non avesse un senso disgiunto da diminuzione ec. e in tali casi è frequente) per sedia, seggia, seggio, sebbene hanno forse un senso più circoscritto ec. e vedi il detto altrove del lat. sella, e la Crusca ec. (1. Gen. 1824.).

Alla p. 4004. Dicesi anche tettola, che la Crus. chiama espressamente diminutivo di tetta, come in lat. mamma e mammilla nel senso stesso, e come appunto in greco τίτθη ec. e τιτθίον, collo stesso significato. Vedi la pag. anteced. fine. e 4001. (2. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Porcello ec. V. Crus. e nota che questa positivazione è massimamente propria de’ nostri antichi e trecentisti più che del moderno linguaggio. Forc. ec. (2. Gen. 1824.). V. Forc. in Puera, esemp. 1.

Sopraddiminutivi latini. Agellulus. Asellulus ec. (2. Gen. 1824.). Tenellulus. Vedi la p. 3987.

Alle varie alterazioni de’ verbi greci quanto alla forma (sia nel tema, sia altrove ec.) senz’alterar punto il significato, delle quali altrove, aggiungi in ννύω o ννυμι, come κεράω, κεραννύω, κεράννυμι;; χρώω, χρωννύω, χρώννυμι; che valgono tutti tre lo stesso, e sono un sol verbo. Lascio poi l’alterazione sì comune in μι, ch’è pur di tante forme, e sì di regola e proprietà dell’uso greco ec. ec. e che parimente non muta punto il significato, che moltissime volte ha fatto dimenticare, disusare, o anche ignorare affatto il vero tema in ω, che in molti verbi si congettura o si dee congetturare, benchè espressamente non si trovi, essere stata usata ec. (2. Gen. 1824.).

Participii passati in senso attivo o neutro ec. Trascurato, tracutato, tracotato, straccurato ec. V. la Crus. in Tracotare, sebbene quell’etimologia è falsissima perchè tracotare è da cuite o cuyte, cuyter ec. provenz. ec. cuita, cuitar ec. spagn. ant. cuidado cuidar ec. spagn. mod. (4. Gen. 1824.).

Diminutivi greci positivati. φρούριον. V. Scap. (4. Gen. Domenica. 1824.).

Alla p. 3969. Appunto hanno anche gli spagnuoli il diminutivo in uelo, che come il nostro uolo vale olo e viene dal latino in olus o ulus. (5. Gen. Vigilia della Santa Epifania. 1824.).

Diminutivi greci positivati: ἀκόντιον che ha cacciato l’uso del posit. V. Scap. πεδίον. V. Scap. (5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.).

Participi italiani in ito ed uto, del che altrove. Apparito e apparuto (Machiav. Istor. l. 7. opp. 1550. par. 1. p. 268. mezzo). Questo secondo però, oltre a non avere, ch’io sappia, altra autorità che di uno scrittore molto poco diligente nella lingua, in particolare nella Storia, dov’anche potrebb’esser fallo di stampa, può essere da apparere (laddove il primo da apparire), onde anche apparso, come da parere, paruto e parso. Comparere non si trova, almeno nella Crus., bensì però comparso, oggi assai più frequente di comparito ch’è di comparire, da cui però non viene comparso, il quale forse è moderno e fatto solo per analogia di apparso e parso, che sono oggi i più usitati. (5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.).

Verbi frequentativi ec. italiani. Sputacchiare, stiracchiare da sputare, stirareù. Questa forma in acchiare, e in occhiare, icchiare, ecchiare, ucchiare e in ghiare ec. (v. il pens. ult. di questa pag.) e simili, han tutte origine dal buon latino (essendo equivalenti al lat. culare) nel quale ancora, questa forma è diminutiva o disprezzativa o frequentativa ec., e immediatamente poi hanno forse origine dal latino barbaro, almeno molte di tali voci, p. e. sputacchiare da sputaculare ec. Vedi la pag. 4005. capoverso 2. — Al detto altrove di crepolare, aggiungi screpolare ec. — Sghignazzare, ghignazzare da sghignare, ghignare. (6. Gen. Festa della S. Epifania. 1824.). Ammontareammonticare (vedi la pag. 4004. capoverso 2), ammonticchiare, ammonticellare. Raggruzzareraggruzzolare.

Al detto altrove d’inopinus, necopinus ec. aggiungi odorus, il quale non mi sembra altro che contrazione di odoratus, e in fatti è voce propria de’ poeti come le sopraddette ec. V. Forcell. (6. Gen. 1824.).

Quel che altrove si è detto in più luoghi, cangiarsi nell’italiano regolarmente il cul de’ latini in chi, dicasi pur del gul in ghi ec. V. la pag. 4005. capoverso 2. (6. Gen. 1824. dì della S. Epifania.). V. p. 4109.

Diminutivi positivati. Fragola da fraga. V. Crus. Forc. Gloss. e franc. spagn. ec. Ugola e uvola per uva. (7. Gen. 1824.).

Scambio del v e del g. V. il pensiero precedente. (7. Gen. 1824.).

Diminutivi greci positivati. οἰκίον per οἶκος o οἰκία. Notisi ch’egli è antichissimo, perchè proprio di Omero. O forse degl’ioni, massime antichi. Arriano imitatore di questi l’usa nell’Indica 29.16, 30.9. Lo Scap. non cita che Omero. È positivato anche presso Arriano. (7. Gen. 1824.). Lo stesso discorso o dell’antichità o del dialetto ionico, massime antico, si può fare intorno al diminutivo positivato προβάτιον, ch’è d’Ippocrate, o di chi altro è l’autore del libro ec., e di cui altrove. La quale osservazione unita con questa della voce οἰκίον, e coll’altre che si potranno fare, può dar luogo a buone conghietture circa l’uso de’ diminutivi positivati nell’antico greco o ionico ec. (7. Gen. 1824.). πλημμυρὶς ίδος. φυκίον. (7. Gen. 1824.).

Verbi frequentativi o diminutivi ec. ital. Morsecchiare, morseggiare (coi derivati ec.) che la Crusca chiama quello diminutivo e questo frequentativo di mordere. Aggrumolare da aggrumare che non è della Crus., bensì aggrumato, digrumare ec. (8. Gen. 1824.).

V aspirazione. Tardivo ital. tardío spagn. ( Cervantes D. Quij. par. i. cap. 47. principio, ed. di Madrid ch’io ho.). (8. Gen. 1824.).

Al detto altrove sopra la frase ὀλίγου o πολλοῦ δεῖν ec. aggiungi Arriano Ind. 43. 6. τοσούτου δεῖ τά γε ἐπέκεια ταύτης τῆς χώρης οἰκεόμενα εἶναι; e altre simili frasi dello stesso genere τοσούτου ἔδει, ἐδέησεν, δέον (Luc. Nigrin. opp. i. 35.) πόσου δεῖ ec. ec. (8. Gen. 1824.).

Al detto altrove di juntar aggiungi ayuntar (aggiuntare) co’ derivati ec. e fors’anche coyuntar (v. i Dizionari) e simili composti, se ve n’ha. Vedi pur la Crus. in giuntare co’ derivati ec. (8. Gen. 1824.).

Alla p. 3979. Al detto di κάρχαρος, aggiungi i suoi derivati, e il composto καρχαρόδους ec. (8. Gen. 1824.).

Grecismo. Per parte mia, per la mia parte ec. ec. V. la seconda annot. del Gronov. al Nigrino di Luciano , opp. Luc. Amst. 1687. t. 1. p. 1005. init. (8. Gen. 1824.).

Participii passati in senso attivo o neutro ec. Entendido per intendente. Cervantes D. Quij. cap. 47. o 48. par. 1. V. i Diz. Mirado per mirante: mal mirado ec. V. i Diz. (10. Gen. 1824.).

Male per non ec. di cui altrove. V. il pensiero precedente e gli spagnuoli ec. (10. Gen. 1824.).

Avvi due sorte di coraggio ben contrarie fra loro. L’una che dirittamente e propriamente nasce dalla riflessione, l’altra dall’irriflessione. Quello è sempre e malgrado qualunque sforzo, debole, incerto, breve e da farci poco fondamento sì dagli altri, sì da quello in cui esso si trova ec. (10. Gen. 1824.).

Diminutivi greci positivati. κρανίον, in senso di capo per κράνον o κάρηνον, (da cui è fatto κράνον per metatesi) o ec. V. Scap. — τεύτλιον e τευτλὶς per τεῦτλον. Appo Ateneo trovo anche σεύτλιον nello stesso senso per σεῦτλον. V. Scap. E appunto noi abbiamo bietola (onde bietolone) da beta, diminutivo positivato, in cui luogo poeticamente si dice anche bieta, come osserva la Crusca ec. V. il Gloss. ec. in betula, se v’è, ec. (10. Gen. 1824.).

Al detto altrove circa la ridondanza del pronome ἄλλος e altro appo i greci e gl’italiani in molte dizioni, e circa il significato di nulla o nessuno ec. assoluto o virtuale ec. che ha molte fiate nel nostro parlare il detto pronome, aggiungi le frasi non ne fece altro, non ne fate altro e simili, dove altro sta per niente, ed aggiungi eziandio che anche siffatto uso di questo pronome, oltre all’essere analogo alla predetta sua ridondanza usitata e nel greco e nell’italiano, è anche analogo a un uso particolare della voce plur. ἄλλα che i greci adoprano talora per cose frivole, vane, da nulla, cioè insomma nulla, come in un luogo di Fenice Colofonio, poeta, appresso Ateneo l. 12. p. 530. F. οὐ γὰρ ἄλλα κηρύσσω, che il Dalechampio traduce frivola non denuntio: bene, ma propriamente sarebbe non enim nihil (cioè rem o res nihili) denuntio. E certamente qua spetta quel che dice lo Scapula che appresso Euripide ἄλλα si spiega per rationi non consentanea. E qua eziandio l’uso dell’avverbio ἄλλως per incassum, frustra, temere ec.; (del qual uso v. lo Scapula e l’indice greco a Dione Cassio coi luoghi quivi indicati, ad uno de’ quali v’è una nota, dove si dice che tal uso è stato illustrato, dimostrato ec. dal Perizonio ad AElian. ec.[a]

ἄλλως p. falso, frustra in un luogo di Alessi Comico ap. Ateneo l. 13. p. 562. D. fin. male inteso dal Dalechampio.

[Chiudi]) e in parte ancora l’uso del medesimo avverbio ne’ significati da me notati e illustrati nelle Annotazioni all’Eusebio del Mai, e nelle postille al Fedone di Platone sul fine ec. (10. Gen. 1824.). Presso Euripide il Tusano spiega ἄλλα per οὐκ ἐοικότα aberrantia a proposito. Ben può essere che questo sia il proprio senso, e l’origine di tal uso della voce ἄλλα sì presso Euripide sì presso Fenice. Con tutto ciò non credo tal uso alieno dal nostro proposito e dall’analogia col sopraddetto uso italiano ec. (10. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Scintilla e suoi deriv. ec. V. l’etimolog. di scintilla nel Forcell. e nelle note al Timone di Luciano principio, opp. ed. Amstel. 1687. t. 1. p. 55. not. 7. (11. Gen. Domenica. 1824.).

Al detto altrove dell’antico meno (tema di memini) e del nostro rammentare ec. che forse ne deriva ec. aggiungi mentio, verbale dimostrativo del supino mentum, onde noi ec. menzionare ec. — Mentovare ec. (11. Gen. Domenica. 1824.). V. p. 4016.

Ayrarse o airarse, airado ec. airarsi, adirarsi ec. da aggiungersi al detto altrove in proposito dell’antico lat. iror aris. E v. il Gloss. in adirari, irari ec. se ha nulla. (11. Gen. Domenica. 1824.).

Non mi ricordo a qual proposito, ho detto altrove che noi siam soliti di usare gli aggettivi singolari mascolini in forma di avverbi. Così anche gli spagnuoli, p. e. demasiado per demasiadamente (che credo si dica altresì), infinito ( D. Quijote par. i. c. 49.) per infinitamente (che pur credo si dica) ec. Massime l’antico, cioè il buono e vero, spagnuolo, come pur s’ha a dire circa l’italiano in cui quest’uso è proprio più particolarmente dell’antico, e quindi, anche oggi, familiare singolarmente ai poeti ec. Così i francesi fort per fortement, in senso di molto (come anche noi forte ec.). Pare però che quest’uso sia molto più frequente nell’italiano, massime antico, buono, poetico, elegante ec. che nello spagnuolo qualunque, e massime nel francese. (12. Gen. 1824.).

Uso di porre i genitivi plurali, in vece de’ nominativi, col pronome alcuni, ovvero di questo pronome co’ detti genitivi, nel qual caso quest’uso verrebbe a essere ellittico. Proprissimo de’ francesi, proprio ancor sommamente degli italiani, non solo moderni e francesizzati, come si crede, ma antichi, di tutti i tempi, ed ottimi e purissimi. Credo ancora degli spagnuoli. Mi pare aver detto altrove come quest’uso è un pretto grecismo. Aggiungici ora l’esempio di Luciano, Nigrin. opp. Amstel. 1687. t. 1. p. 34. lin.15-6. e vedi i grammatici greci dove parlano della Sintassi, che certo denno aver qualche cosa sopra questo genere di frasi ec. (12. Gen. 1824.). Nel cit. esempio τῶν φιλοσοφεῖν προσποιουμένων si sopprime evidentemente il τινὰς al nostro modo e de’ francesi. (12. Gen. 1824.)[a]

V. ancora lo stesso Luc. i. 178. lin. 25.26. dove pur sottintendesi τὶ o τινὰ.

[Chiudi].

Diminutivi greci positivati. ὀχεῖον da ὄχος εος, come ἀγγεῖον da ἄγγος εος. (12. Gen. 1824.).

A proposito del detto altrove circa il vario modo di significare la probità e bontà degli uomini usato nelle varie nazioni e lingue e tempi, secondo le differenze de’ costumi, opinioni, caratteri, istituti e vita e costituzione loro, osserva che come i romani dissero fringi, così i greci oltre καλὸς κ' ἀγαθός anche χρηστὸς che propriamente vale utile (e s’usa anche in questo senso ec. v. i Lessici), e per lo contrario ἄχρηστος che propriamente è inutile e così per l’ordinario usato, fu anche detto per cattivo ec. (V. i Lessici, e quivi anche gli altri composti e i derivati di χρηστός). Ed è ben ragione, perchè l’utilità delle persone doveva esser valutata anche dai greci sommamente, costituiti, come romani, in istato franco ec. secondo che ho detto circa la parola frugi al suo luogo. (12. Gennaio 1824.).

Che i perfetti in ui sien fatti da quelli in avi o evi o ivi ancorchè ignoti, come ho detto altrove, e ciò anche nella terza coniugazione, in cui tal desinenza (come pur quella in ivi, o qualunqu’altra in vi), è sempre anomala, vedi Forcell. in pono is fin. circa l’antico posivi, apposivi ec. per posui, apposui ec. (13. Gen. 1824.).

Al detto altrove di mescolare ec. aggiungi rimescolare ec. e composti e derivati dell’uno e dell’altro ec. (13. Gen. 1824.).

Digamma eolico. Levis o laevis da λεῖος, come si osserva nelle note a Luciano opp. t. 1. p. 113. not. 9 (14. Gen. 1824.).

Verbi italiani frequentativi o diminutivi ec. Abbrostire abbrostolire, abbrustolare, abbrustiare. (14. Gen. 1824.). Bezzicare.

Diminut. greci positivati. Ὅριον, οὕρια, μεθόριον, μεσούριον da ὅρος. (14. Gen. 1824.).

Tacendo Un gran piacer (cioè, s’egli è taciuto), non è piacer intero . Machiavelli Asino d’oro, Capitolo 4. verso 86-7 (14. Gen. 1824.).

Senz’altro puntello per senz’alcun puntello. Machiav. Asino d’oro, cap. 5. v. penult. Di tal modo di dire, altrove. (14. Gen. 1824.).

Senz’altra (senz’alcuna) disciplina . ibid. capitolo 8. verso 4 (15. Gen. 1824.).

Digamma eolico. Viscum (raro Viscus) da ἰξὸς colla metatesi delle lettere κσ incluse nel ξ. Nóta che lo spirito è lene, e il genere (almeno in viscum) mutato, come in οἶνος-vinum ec. Vivo da βιῶ (βιϜῶ). Forcell. e not. a Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 143. not. 3 (15. Gen. 1824.).

A quel che ho detto altrove, che talora il cul latino si cangia in gli italiano (come periculum-periglio ec.) in il francese ec. j spagnuolo ec., dicasi ancora del gul. Vedi, se vuoi la pag. 4005. capoverso 2., nel marg. al numero 1. (15. Gen. 1824.).

Alla p. 2779. lin. 1. Da βόρος o βορὸς ec. vorax ec. V. lo Scapula e il Forcell. Da βιῶ vivo. V. il capoverso 3. in questa presente pag. Nelle note quivi citate si fa anche venire vis da βιὰ, che altrove parlando del digamma eolico, ho fatto venire, e così credo meglio, da ἲς ἰνὸς. V. Forcell. ec. (15. Gen. 1824.).

Intorno al verbo italiano rotolare frequentativo o diminutivo ec. di rotare, (rotolone ec.) del quale mi pare aver detto altrove, osservisi il francese rouler. Se questo verbo co’ suoi molti derivati (o anche voci originarie e anteriori ad esso) di cui v. il Diz. e colla voce rôle e derivati (ruotolo o rotolo) non vengono originariamente dall’italiano, come poi noi dal franc. ruolo, arruolare ec. ne segue che la diminuzione latina in ol o ul dovesse anche esser propria in certo modo del francese, non solo dell’italiano come s’è dimostrato altrove, giacchè non pare che queste voci francesi vengano immediatamente dal latino. V. però Forcell. il Gloss. ec. Esse sono certo originariamente diminutive o frequentative ec. Rouler è frequent. anch’oggi in certo modo ec. (15. Gen. 1824.).

Come la preposizione sub nella composizione spesso dinoti sursum, o sia di sotto in su, del che ho detto altrove in proposito di sustollo ec. vedi nel Forcell. la definizione e gli esempi di subduco, la prova che risulta dal quale non può esser più chiara nè piena. (16. Gen. 1824.).

Errato per errante, come andar errato ec. V. la Crusca. E in ispagn. ir errado (Cervantes), pensamiento errado , (ib.) ec. Fra noi però errare è per lo più neutro, (benchè si dice errar la strada ec.) e così credo in ispagnuolo. Il Forcell. lo chiama attivo. V. Erratus per qui erravit appo il medesimo in erro fin. e vedilo pure esso Forcell. in Certatus a um. (16. Gen. 1824.). Impransus, incoenatus ec. V. il Forc. Si aggiungano al detto altrove di pransus, coenatus ec. e così gli altri loro composti, se ve n’ha. (16. Gen. 1824.).

Ridondanza del pronome altro, ed ἄλλος, usitata nell’italiano e nel greco, come altrove. Così otro nello spagnuolo. Cervant. D. Quij. par. 1. capit. 51. Cerca de aqui tengo mi majada, y en ella tengo fresca leche, y muy sabrosissimo queso, con otras varias y sazonadas frutas, no menos à la vista que al gusto agradables . (16. Gen. 1824.). Son le ult. parole del capitolo.

Al detto altrove di avvedere-avvisare ec. aggiungi divisar spagn. ( D. Quij. par. 1. cap. 51. e v. i Dizionari) e nóta che noi ec. abbiamo anche divedere. E che il participio visus da cui è avvisare, divisare ec. (se non sono da viso sost. o da guisa-visa ec. come altrove) e così avisar, aviser ec. è proprio solo del latino e non dell’italiano nè dello spagnuolo[a]

Desaguisar, desaguisado, aguisado ec.

[Chiudi] nè del francese. Abbiamo bensì anche avvistare da visto, nostro participio, o da avvisto pur nostro, se non è da vista sostantivo. (16. Gen. 1824.). Avvistato (ch’è però in altro senso da avvistare nella Crus.) par certo venire da vista, come svistare (uso ital.) da esso vista o da svista ec. (16. Gen. 1824.).

Alla p. 4011. Rammentare, ammentare ec. di cui altrove, si paragonino co’ verbi latini commentari e s’altri tali ve n’ha, da meno poi memini, o da miniscor o da’ composti di questo o quello ec. (16. Gen. 1824.).

Nascere per avvenire, grecismo proprio anche dell’antico latino, come in quello o fortunatam natam cioè γενομένην. V. Forcell. ec. È proprissimo dell’italiano. Fra i mille esempi, hassi nel Guicciardini lib. 1. t. 1. p. 111. ediz. di Friburgo, 1775-6. nata la perdita di S. Germano , cioè accaduta semplicemente[b]

Nascere per procedere, provenire ec. ne nacque un ec. questa cosa nasce, nacque da ec. ne nascerà ec. per alcune difficoltà nate nella consegnazione delle Fortezze, non era ancora partito. Guicc. I. 280.

[Chiudi]. E in molti altri modi e casi si usa da noi il verbo nascere come il greco γίγνεσθαι, p. e. nella frase di qui o da ciò o quindi nasce che ec. il, la ec. ἐκ τούτου γίγνεται o γίνεται. V. i franc. e gli spagn. e il Gloss. e i Less. greci. (16. Gen. 1824.). V. per seg.

Non solo in italiano e in latino, come altrove in più luoghi è detto, ma in ispagnuolo altresì ed in francese adopransi spessissimo i participii, non solo aggettivamente, ma in significazione non propria loro, e propria di aggettivi a loro propinqui o simili, per catacresi o abusione (ch’è l’ abuti verbis propinquis , come dice Cic. ap. Forcell. in Abusio, o l’ abuti verbo simili et propinquo pro certo et proprio , come dice l’Autore ad Herenn. ibid. p. e. l’ aedificare equum di Virgilio Aen. 2. aedificare classem di Cesare, οἰκοδομεῖν πυργίον di Luciano in Timone, opp. Amst. 1687. t. 1. p. 135. dove vedi la nota 6.) come honrado per onorevole, uomo d’onore (D. Quij.), (in it. ancora onorato, e v. i latt. e il Gloss. ec.), simile all’invictus, invitto, invicto o invito spagn. (v. i Diz. spagn.) per invincibile, che però non è participio, voglio dire invitto, benchè fatto da participio[a]

Pregiato p. prezioso o pregevole, immensus p. immetibilis.

[Chiudi] ec. ec. (16. Gen. 1824.).

Bisavolo ec. aggiungasi al detto altrove di avolo, ayeul, abuelo ec. e v. ancora i francesi e gli spagnuoli. Trisavolo, terzavolo e terzavo, quintavolo ec. (16. Gen. 1824.).

Grecismo dell’italiano. Lucian. Timon. opp. 1687. t. 1. p. 77-79 καὶ αὖθις μὲν σκέψομαι, ἐπειδὰν τὸν κεραυνὸν ἐπισκευάσω πλὴν ἱκανὴ ἐν τοσούτῳ καὶ αὕτη τιμωρία ἔσται αὐτοῖς , cioè in questo mezzo. Noi appunto in tanto, fra tanto, in quel tanto, in questo tanto ec. Vedi gli spagn. e i francesi. Qui ἐν τοσούτῳ viene a essere ἐν ὅσῳ (χρόνῳ) ὁ κεραυνὸς ἐπεσκευασμένος ἔσταί μοι. E di questo genere è ancora la propria significazione del nostro intanto, secondo i casi, e tale si è l’origine di questo modo di dire preso nel senso d’interea, interim. (17. Gen. 1824.). Esempi simili al riferito di Luciano non mancano. V. p. 4022.

Alla p. anteced. capoverso 2. La frase o fortunatam natam , sembra essere una vera imitazione del modo greco, e così alcune di quelle dove nasci sta per initium ducere ec. ap. il Forcell. Non così certo le nostre frasi sopraddette. E re nata, pro re nata, queste son frasi ben e propriamente latine, (cioè non de’ soli letterati, a quel che pare), e spettano al presente proposito. (17. Gen. 1824.).

Alla p. 3176. marg. fin. Vedi la Storia del Guicciardini, ediz. di Friburgo, lib. 1. tom.1. p. 23. 27-28. 49. 55. 56. 64-5. 105-6. l. 2. p. 138-9. 142. l. 5. p. 422. 430. 431. da’ quali luoghi si rileva che Carlo ottavo di Francia ebbe inutilmente, come Filippo contro i Persiani, il disegno di passare contro i turchi, e far la grande impresa dell’Asia e Grecia ec. Principe non comparabile per altro a Filippo nè di valore nè di fortuna, la qual ebbe infelicissima all’Italia, anzi indegno di pure esser proposto a tal paragone. (17. Gen. 1824.). V. p. 4025.

Esperimentato per che ha fatto esperienza, perito. Guicciard. t. i. p. 128. mezzo circa, ediz. di Friburgo, t. 2. p. 240. principio. e altrove spessissimo e vedi la Crus. Esperimentato nelle guerre, nel governo, a ec. Sperimentato ib. p. 131. mezzo circa ec. (17. Gen. 1824.).

Sopraddiminut. greci. πόλις-πολίχνη-πολίχνιον. (18. Gen. Domenica. 1824.).

Spagn. tragar — τρώγω aor. 2 ἔτραγον, onde τράγημα ec. e fors’anche τράγος. (18. Gen. 1824. Domenica.).

I participii passivi di verbi transitivi usati in forma attiva, sì in lat. sì quelli massime delle lingue moderne, s’usano per lo più (e nelle lingue moderne forse tutti) assolutamente, o almeno senz’accusativo, insomma intransitivamente, sia che s’usino in forma aggettiva o di participio o comunque. (18. Gen. 1824. Domenica.).

Altro per nessuno o alcuno o ridondante, del che altrove. Non sì ch’io speri averne altra corona . Macchiavelli, Capitolo della ingratitudine v. 7. cioè averne corona, o averne nessuna o alcuna corona. (18. Gen. 1824.).

Nascere per avvenire, del che altrove non molto addietro. Dunque se spesso qualche cosa è vista Nascere impetuosa ed importuna Che ’l petto di ciascun turba e contrista, Non ne pigliare ammiration alcuna . (qualche tristo avvenimento). Macchiavelli Capitolo dell’Ambitione, v. 172-5. (18. Gen. 1824. Domenica.).

Latinismi dell’ortografia italiana nel 500. del che altrove. Macchiavelli opp. 1550. par. 5. p. 47. fin. adverso; p. 49. fin. admiration, e cento simili scritture. (18. Gen. Domenica. 1824.).

Plurali in a. Urla, strida. (18. Gen. Domenica. 1824.).

Alla p. 3998. marg. fine. τρύβλιον o τρυβλίον catillus (sebben l’interpretano catinus), patella, trulla, ollula (v. Scap.) tutte voci diminutive. E forse questa voce greca è veramente diminutivo anche per significato, ma la sua voce positiva contuttociò non si trova, il che serve a confermare il nostro sospetto circa gli altri simili vocaboli, che sono però di senso positivo, cioè positivati, secondo noi. Lo stesso dico di θρυαλλὶς diminutivo forse e di origine e di significato, ma che non trovandosene il positivo, non si ha per tale, nè quanto alla prima nè quanto al secondo. Luciano 1. 88. ha θρυαλλίδιον (come 1. 55. θρυαλλίδα) dove puoi veder le note. Ἰσχίον, forse è diminutivo positivato di ἴσχις, o che questo volesse anche dir coscia, ec. o ἰσχίον originariamente volesse dir lombo o anche lombo. Certo ἴσχις è voce poco nota, e che si ha, credo io, solamente da Esichio, onde ben potrebbe avere avuto uno o più de’ significati d’ἰσχίον, senza che noi lo sappiamo. (19. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Bouillon da bulla, bolla. (19. Gen. 1824.). Bouillonnement, bouillonner. Bulicare è corruzione di bollicare, dal quale abbiamo infatti bollicamento, e così bulicame è per bollicame che non si trova, sia che queste voci vengano a dirittura da bolla come le suddette francesi, sia da bollire (che vien da bolla), come par voglia la Crusca, che spiega bollicamento per leggier bollimento (sarebbe dunque diminutivo), e bulicare per bollire, di cui sarebbe frequentativo o diminutivo o frequentativo-diminutivo. Bulicame però non ha che far con bollire, bensì con bolla. Eccetto pigliando bollire, per far bolle senza fervore: v. Bollire par. 4. e il Forcell. Pare però che bulicame si dica propriamente delle acque bollenti benchè senza fuoco. ec. (19. Gen. 1824.). Vedi la pag. 4004. capoverso 2. Moisson diminutivo positivato di messis. (19. Gen. 1824.).

Sufrido per sofferente. (20. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Gragnuola. V. Crus. franc. spagn. Gloss. Forc. ec. (20. Gen. 1824.).

Passava un pescivendolo, con un paniere di pesci sul capo, vicino a un filare d’alberi che costeggiava la sua strada, e da un ramo d’olmo che sporgeva in fuori, fugli infilzato un pesce. Piscium et summa genus haesit ulmo. Ecco rinovato questo prodigio, o dimostrato possibile questo impossibile, di cui vedi Archiloco appo Stobeo nel capitolo della speranza. (20. Gen. 1824.).

Al detto altrove di metari aggiungi immetatus. (21. Gen. 1824.).

Della differenza naturale e artificiale del gusto e del bello presso le varie nazioni e tempi, nelle arti, letterature, fattezze del corpo ec. ec. vedi il primo capitolo del Saggio sull’epica poesia del Voltaire ne’ suoi opuscoli tradotti e stampati in Venezia appresso il Milocco colla data di Londra nel 1760 (volumi 3), volume 2.o principio. (21. Gen. 1824.).

Grecismo. Soplandole, le ponìa (cioè le hazia, lo rendeva) redondo como una pelota , Cervantes, Prologo al Letor de la segunda parte del Don Quijote, p. 3. Frase familiare agli spagnuoli e tutta greca. Nel latino ponere per efformare non è col doppio accusativo, cioè sostantivo o pronome ec. e aggettivo, e non equivale a rendere, far divenire, benchè spetti a questo genere di significazione ed uso del greco τίθημι, e del resto è una frase tolta a dirittura dal greco e imitata, laddove la spagnuola è volgare e non è certo imitata dal greco. (21. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati greci. μηρίον per μηρός. Nóta ch’è proprio di Omero e di Esiodo (antichissimo cioè, o ionico, come altrove) da’ quali, al suo solito, lo piglia Luciano nel Prometheus sive Caucasus, opp. 1687. Amstelodami, t. 1. p. 183. e de Sacrificiis p. 363. (21. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. V. Forcell. in Spatha, spatula, spathalium , lo Scap. in σπάθη, σπαθίον, σπαθὶς ec. la Crus. in spatola, spazzola ec. il Gloss. i franc. gli spagn. (21. Gen. 1824.).

A proposito di fusa lat. ho notato altrove il plur. loci e loca e simili. Da μηρὸς in plur. μηροὶ et μηρὰ apud poetas per metaplasmum , dice lo Scapula. E così altri plurali assai, greci, o doppi (sia neutri e masc. sia fem. e masc. ec.) o diversi dal genere del sing. ec. de’ quali v. i grammatici. (21. Gen. 1824.). Loca in lat. dal sing. locus, è anche de’ prosatori.

Κακοδαίμων per che ha gli déi nemici, del che altrove. Luciano de Sacrificiis. t. 1. p. 362. init. (21. Gen. 1824.).

Figliuolo per figlio, diminutivo o vezzeggiativo positivato, di cui altrove. Credo anche in greco si dica talora τεκνίον senza intenzione nè di diminuire nè di vezzeggiare. (21. Gen. 1824.).

Desapercebido per isprovvisto, imprudens. Cervant. D. Quij. par. 2. cap. 1. p. 4. ed. di Madrid. V. il detto altrove di apercebido. E simili altri participii s’intenda che hanno tali significazioni anche coll’aggiunta del des ec. privativo in ispagnuolo, dell’in ec. in italiano ec. ec. (22. Gen. 1824.).

Rinnovellare, innovellare, renouveler, renovello, lat. (v. gli spagn.) ec. diminutivi positivati; si aggiungano al detto altrove di novellus ec. (22. Gen. 1824.).

Quanto allo stile e al bene scrivere, immensa fatica è bisogno per saper fare, ed ottenuto questo, non meno grande si richiede sempre per fare. E tanto è lungi che il saper fare tolga la fatica del fare, che anzi quanto quello è maggiore, con maggior fatica si compone, perchè tanto meglio si vuol fare e si fa, il che costa tanto di più a proporzione. Così nelle arti belle e in altre faccende d’ingegno ec. (23. Gen. 1824.). Non così riguardo all’invenzione sì nello scrivere sì nelle arti. ec. ec.

Fora plurale di foro (foramen). (23. Gen. 1824.).

Piacere della vita. Una statua, una pittura ec. con un gesto, un portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito, ancorchè non bello questo, nè bene eseguita quella, ci rapisce subito gli occhi a se, ancorchè in una galleria d’altre mille, e ci diletta, almeno a prima vista, più che tutte queste altre, s’elle sono di atto riposato ec., sieno pure perfettissime. E in parità di perfezione, quella, anche in seguito, ci diletta più di queste. Così non la pensa la Staël nella Corinna dove pretende che sia debito e proprio della pittura e scultura il riposo delle figure, ma s’inganna, testimonio l’esperienza. ec. ec. (24. Gen. 1824.).

Alla p. 4017. Ὁ δὲ μάγος ἐν τοσούτῳ (intanto) δᾷδα καιομένην ἔχων ec. Luciano in Necyomantia. t. 1. p. 331. (25. Gen. Domenica. 1824.).

Composti spagnuoli. Cariredondo (facciatonda). D. Quij. par. 2. cap. 3. principio. (25. Gen. Domenica. 1824.).

Bobo spagn. co’ derivati aggiungasi, se v’ha punto che fare, al detto altrove di baubari ec. (26. Gen. 1824.).

I participii passivi di verbi attivi o neutri usati nelle lingue moderne in senso att. o neutro, sono quelli per lo più o tutti e questi molte volte nell’italiano, e massime nello spagn. ec. di senso non passato, ma presente o significante abitudine di quella tal cosa che è significata dal verbo. Così bien hablado ( D. Quij. par. 2. cap. 7. principio) per buen hablador ec. Così errato, errado per errante, di cui altrove. Sudato per sudante ec. Così pesado per pesante. Così tanti altri participii neutri, massime spagnuoli, che per questa qualità di significazione presente o indicante abitudine ec. meritano di esser considerati, giacchè i participii passivi di verbi neutri in significazione passata, come caduto, morto ec. sono regolari e ordinarissimi e infiniti sì nello spagnuolo che nell’italiano e francese ec. (26. Gen. 1824.), come dico altrove.

Al detto altrove di excito, suscito ec. in più luoghi, aggiungi nel Forc. Procitant e Procitare. (26. Gen. 1824.).

Sopraddiminut. franc. Feuilleton (fogliettino). (27. Gen. 1824.).

Verbi frequentativi o diminutivi o frequentativi-diminutivi o diminutivi positivati, italiani. Rinfocolare, rinfocolamento, da rinfocare ec. (27. Gen. 1824.).

Diceva il tale che da giovanetto quando da principio entrò nel mondo aveva proposto di non mai adulare, ma che presto se n’era rimosso, perchè essendo stato più tempo senza lodar mai nessuna persona e nessuna cosa, e vedendo che non troverebbe nulla a lodare se voleva durare nel suo proposito, temette disimparare per difetto d’esercizio quella parte della rettorica che tratta dell’encomiastica, la qual cosa, come fresco ch’egli era allora di studi, gli era a cuore che non succedesse, premendogli di conservarsi coll’esercizio le cose che aveva recentemente imparate. (27. Gen. 1824.).

Alla osservazione del Mai sopra il modo in cui ne’ codici è scritto il gn indicante esser più vera la pronunzia spagnuola, tedesca ec. cioè g-n, che l’italiana, osservisi, oltre il detto altrove, che molte voci latine o dal latino venute che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono ñ, cioè pronunziansi gn all’italiana, come parmi aver detto altrove coll’esempio di cuñado (cognatus), a cui si può aggiungere leña (ligna) femin. eccetto se tali voci non son prese in ispagnuolo dall’italiano o dal francese piuttosto che dal latino a dirittura da cui hanno la prima origine. Infatti p. e. noi appunto diciamo legna femmin. nel senso spagnuolo, ed è voce propria nostra (lignum si dice in ispagnuolo altrimenti, cioè madera ec. come in francese bois ec.) e cuñado sta nel senso italiano per fratello o sorella della moglie o del marito ec. Ed è a notare che la maggior parte forse delle voci spagnuole derivanti dal latino e che in latino hanno il gn, si scrivono in ispagn. gn, pronunziando g-n, come digno, ignorante, magnifico (però tamaño e quamaño ec.) ec. ovvero n semplice per ellissi della n, che indica l’antica pronunzia spagnuola in quelle voci essere stata g-n e non all’italiana. (28. Gen. 1824.). Señal co’ derivati ec. è dal latino o dall’italiano?

Frequentativo o diminut. positivato ec. Modulor da modus, se già questo e gli altri simili, come nidulor di cui altrove, non sono di formazione in ul non diminutiva, come iaculus, speculum ec. da cui iaculor, speculor ec. ma modulor sarebbe a dirittura da modus, del che non so altro esempio, se modulor è non diminutivo, e così nidulor ec., e se sono da un modulus, nidulus ec. (v. Forcell.) in tal caso sono diminutivi positivati, o frequentativi piuttosto. (29. Gen. 1824.).

I nostri viaggiatori hanno raccolto un dizionario delle loro parole (degli esquimesi popolo verso la Groenlandia, il meno stupido di tutti i selvaggi del Nord ), che son più di 500. Quanto ai numeri le loro cognizioni sono molto limitate . Notizia del secondo viaggio (1821-3.) e ritorno del Cap. Parry, estratta dalla gazzetta letteraria di Londra del 25. Ott. e dell’1. Nov. 1824. nell’Antologia di Firenze. num. 36. p. 120. (29. Gen. 1824.).

Dice per dicono, ovvero per un dice (on cioè un dit), l’uom dice, alcun dice (come hanno buoni autori nello stesso senso), altri dice, la persona dice (Passavanti usa la persona in questo senso), la gente dice (buoni autori) si dice [a]

Veggasi la p. 4026. capoverso 5.

[Chiudi]; nel qual caso ella sarebbe un’ellissi, come anche in greco φησὶ ec. per φασὶ, sarebbe ellissi di φησὶ τὶς ec. del che altrove. Cervantes nel D. Quijote par. 1. cap. 50. ed. d’Amberes o Anversa 1697. p. 584. tom.1. lin. 4. avanti il fine, dove si legge dizen, la mia edizione di Madrid ha dice. (30. Gen. 1824.). V. p. 4026.

Al detto altrove di despertar aggiungi che gli spagnuoli hanno anche l’agg. despierto cioè experrectus. (31. Gen. 1824.)

Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e compatire, e i malinconici in contrario, o certo meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo. (31. Gen. 1824.).

Qual cosa più snaturata che il non allattare le madri i propri figliuoli? Ma egli è certo per mille esperienze che le donne civilmente nutrite di radissimo possono sostenere senza gran detrimento della salute loro, e pericolo eziandio della vita, il travaglio dell’allattare. Il che è lo stesso quanto a loro che se fossero impotenti a generare. E questo costume è antichissimo (a quel che credo), sin da quando incominciarono le donne nobili o benestanti a far vita sedentaria e non faticata. Raccolgasene se lo stato civile convenga all’uomo. (1. Feb. 1824.).

Abbraciare, bragia, brage, brace ec. co’ derivati (e v. i franc. spagn. Forc. Gloss.) aggiungansi al detto altrove in proposito delle lettere br usitate nelle nostre lingue nelle voci significanti arsione ec. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.).

Alla p. 4017. V. pure il Guicc. l. 3. p. 271. sopra Massimiliano Imp. in cui quel voler fare l’impresa degl’Infedeli pare fosse un semplice pretesto, e mostra che questo pretesto o discorso qualunque era allora e in simili tempi uno degli spedienti della politica, o diplomatica, un luogo comune, usitato e valevole con tutte le corti o potentati cristiani e con tutti i popoli cristiani. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.). V. p. 4044.

Altro per niuno ec. come altrove. Guicc. 1. 274. ed. di Friburgo lib.3. senza cercare altra risposta per senza più cercare la risposta. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.).

Divisato per déguisé, del che altrove. V. la Crusca in dissimigliato, esempio primo. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria Santissima. 1824.). Divisar per vedere, discernere, scorgere cogli occhi. D. Quij.

Alla p. 4024. Del resto anche φασὶ, aiunt, dicen, dicono, narrano, vogliono, credono ec. ec. è un’assoluta ellissi degli stessi nomi o pronomi sopraddetti, o d’altri simili, o diversi, fatti plurali. (3. Feb. 1824.).

Αὐτίκα in modo simile allo spagn. luego, del che altrove. V. Plat. in Phaedro, opp. ed. Astii t. 1. p. 144. E. (4. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Gergo-jargon. V. gli spagn. ec. (7. Feb. 1824.).

Nascere per γενέσθαι, di che altrove. V. Guicciardini, ed. Friburgo t. i. p. 339. lin.5. a fine. (7. Feb. 1824.).

Altro per niuno, del che altrove. V. il med. ib. p. 340. lin.13. (7. Feb. 1824.). E notisi il nostro uso del pronome altri sing. nel significato di cui v. la pag. 4024. capoverso 3., significato che spetta a questo proposito, e talora è anche de’ francesi, i quali dicono per es. (credo in linguaggio familiare o burlesco) comme dit l’autre, parlando, v. g., d’un proverbio ec., cioè comme on dit. V. i Diz. franc. e spagn. (9. Feb. 1824.).

La eccessiva potenza di attenzione è al tempo stesso e per se medesima, potenza di distrazione, perchè ogni oggetto vi rapisce facilmente e potentemente la attenzione distogliendola dagli altri, e l’attenzione si divide; sicchè è anche, per se medesima, impotenza o difficoltà di attenzione, e facilità di attenzione, cose contrarie dirittamente a lei, onde sembra impossibile ch’ella sia insieme l’uno e l’altro, ma il troppo è sempre padre del nulla o volge al suo contrario, come altrove. Quindi principalmente nasce la incapacità di attenzione ne’ fanciulli ec. ec. (9. Feb. 1824.).

Dico altrove[a]

P. 2827.

[Chiudi] che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di necessità ne’ secoli inferiori, alterandone l’armonia, alterarne la costruzione l’ordine e l’indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente pronunziato, non risultava più o niuna, o certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente da questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de’ secoli inferiori (come pure i latini, gl’italiani, e tutti gli altri ne’ tempi di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un’armonia diversa per se ed assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta, sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche de’ migliori, ed anch’essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec. Tanto che questo numero, diverso dall’antico e della qualità predetta, che quasi in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, è un certo e de’ principali e più appariscenti segni, almeno a un vero intendente, per discernere gl’imitatori e più recenti, che spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da’ classici originali e de’ buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto nell’armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri, occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e l’ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi sottilmente, per es. in Longino, perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si conosce ch’è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell’alterazione cagionata ne’ costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l’alterazione e corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e diverso da quello de’ loro antichi. Si conosce a prima vista, e indubbiamente, (almen da un intendente ed esercitato) per la differenza e per la detta qualità del numero, un secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de’ migliori, ed anche conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico altrove) del numero, alla quale subito si riconosce il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all’estrinseco, cioè astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai concetti, come appunto si chiamano) da’ nostri antichi, da lui tanto studiati, e tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cicerone e di Livio? non che di Cesare, e de’ più antichi e semplici, che Cicerone nell’Oratore dice mancar tutti del numero, s’intende del colto, perchè senza un numero non possono essere. V. p. seg. Che dirò di Lucano, dell’autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una delle maggiori cagioni dell’alterazione della lingua sì greca, sì latina e italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l’ordine, e quindi alla frase e frasi, e quindi all’indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar le semplici parole per servire al numero, e grattar l’orecchio avido di nuovi e spiccati suoni, o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l’uso de’ troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de’ secentisti e de’ più moderni da loro in poi), avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto altrove su d’alcuni sforzati costrutti d’Isocrate per evitare il concorso (conflitto) delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.). (Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto altrove sul vario gusto de’ greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso, l’abbondanza ec. delle vocali). Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto [a] migliaia d’altri tali, e scrivente per piacere a essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne’ secoli bassi ne’ quali ec. fra gl’imitatori ec. la più parte, com’era allora non greci di patria, ma dell’Asia, e questa anche alta, non la minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb. 1824.).

Alla p. preced. marg. In verità ed essi, e i greci ripresi da Cicerone ibid. di mancar di numero, che sono molti e classici, e i nostri trecentisti, e i cinquecentisti, (la più parte non numerosi, e tutti, [salvo lo Speroni, in ciò affettato e falso, ma diversamente da’ posteri,] poco solleciti del numero) hanno pure un numero benchè incolto più o meno, e casuale, pur proprio e certo e riconoscibile, o loro, o della lingua ec. e da questo è diverso quello degl’inferiori corrotti ec. ec. (10. Feb. 1824.). V. p. 4034.

Grecismo. Collaκόλλα e κόλλη coi derivati e composti della voce ital. e della greca. E vedi Forc. Gloss. i franc. gli spagn. Potrebbe però essere stata tolta questa voce a dirittura dal greco, anche ne’ bassi tempi, se si considera come assolutamente tecnica, ma ella è in verità, almeno oggi, di volgarissimo uso, come ciò che ella significa. (11. Feb. 1824.).

Plurali in a. Mantella plur. di mantello. (11. Feb. 1824.). Peccata. Uscia. (Machiavelli par. 5. p. 151.).

Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare o abbarbicarsi. Al detto altrove sopra i nostri verbi in icare, fatti da verbi originali usati o no, o pur da nomi ec. (11. Feb. 1824.). Barbare-barbicare.

Diminutivi greci positivati. Vedi σωμάτιον per σῶμα senza niuna causa di diminuzione, in Apollon. Dysc. Mirabil. c. 3. ed appresso altri, e v. lo Scapula. (11. Feb. 1824.).

Claquer-claqueter che l’Alberti chiama frequentativo di quello. Crier-criailler, della qual sorta di verbi dico altrove. (12. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Clientolo. Maillet-mail, maglio, malleus. Che la et in francese ne’ verbi e ne’ nomi sia per se diminutivo o frequentativo ec. come la ett in italiano vedesi per lo pensiero precedente e per mille altri esempi ec. (13. Feb. 1824.).

Nascere per accadere. ec. Se altro di meglio non nasce . Machiav. Clitia At. 5. sc. 2. fine. (13. Feb. 1824.).

Altro per nulla o alcuna cosa ec. V. il pens. preced. e le molte nostre frasi simili. (13. Feb. 1824.).

Faventia-Faenza. (14. Feb. 1824.). Faentini ( Guicc. 1. 418. 419. ec. Faventini , come in lat.). Fayence per Faenza e per una città di Francia, lat. Faventia.

Immutatus, immixtus affermativi e negativi. Al detto altrove in proposito d’intentatus. (14. Feb. 1824.).

Raddoppiamenti greci, del che altrove. ἐληλαμένος, ἐληλεγμένος, ὀρωρυγμένος, ἀληλειμμένος, ἀλήλειμμαι ec. ἄραρε ec. (14. Feb. 1824.).

Cangiamento del cul lat. in chi ital. Bernoccolo (voce affatto italiana, v. però il Gloss. e i vari dizionari) co’ suoi derivati bernocchio che vale lo stesso. (15. Feb. Domenica di Settuagesima. 1824.).

Diminutivi greci positivati. Συγγραμμάτιον. V. Luciano in principio dell’Erodoto, dove pare che sia positivato, e lo Scapula ec. se v’ha nulla a proposito. (15. Feb. Domenica di Settuagesima. 1824.).

Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il dialetto ionico (a proposito del detto altrove), a quanto osservo nella nota del Palmerio al principio dell’Herodotus sive Aetion di Luciano. (15. Febbraio. 1824.).

Certo le condizioni sociali e i governi e ogni sorta di circostanze della vita influiscono sommamente e modificano il carattere e i costumi delle varie nazioni, anche contro quello che porterebbe il rispettivo loro clima e l’altre circostanze naturali, ma in tal caso quello stato o non è durevole, o debole, o cattivo, o poco contrario al clima, o poco esteso nella nazione, o ec. ec. E generalmente si vede che i principali caratteri o costumi nazionali, anche quando paiono non aver niente a fare col clima, o ne derivano, o quando anche non ne derivino, e vengano da cagioni affatto diverse, pur corrispondono mirabilmente alla qualità d’esso clima o dell’altre condizioni naturali d’essa nazione o popolo o cittadinanza ec. Per es. io non dirò che il modo della vita sociale rispetto alla conversazione e all’altre infinite cose che da questa dipendono o sono influite, proceda assolutamente e sia determinato nelle varie nazioni d’Europa dal loro clima, ma certo ne’ vari modi tenuti da ciascuna, e propri di ciascuna quasi fin da quando furono ridotte a precisa civiltà e distinta forma nazionale, ovvero da più o men tempo, si scopre una curiosissima conformità generale col rispettivo clima in generale considerato. Il clima d’Italia e di Spagna è clima da passeggiate e massime nelle lor parti più meridionali. Ora queste nazioni non hanno conversazione affatto, nè se ne dilettano: e quel poco che ve n’è in Italia, è nella sua parte più settentrionale, in Lombardia, dove certo si conversa assai più che in Toscana, a Napoli, nel Marchegiano, in Romagna, dove si villeggia e si fanno tuttodì partite di piacere, ma non di conversazione, e si chiacchiera assai, e si donneggia assaissimo, ma non si conversa; in Roma ec. Il clima d’Inghilterra e di Germania chiude gli uomini in casa propria, quindi è loro nazionale e caratteristica la vita domestica, con tutte l’altre infinite qualità di carattere e di costume e di opinione, che nascono o sono modificate da tale abitudine. Pur vi si conversa più assai che in Italia e Spagna (che son l’eccesso contrario alla conversazione) perchè il clima è per tale sua natura meno nemico alla conversazione, poichè obbligandoli a vivere il più del tempo sotto tetto e privandoli de’ piaceri della natura, ispira loro il desiderio di stare insieme, per supplire a quelli, e riparare al vôto del tempo ec. Il clima della Francia ch’è il centro della conversazione, e la cui vita e carattere e costumi e opinioni è tutto conversazione, tiene appunto il mezzo tra quelli d’Italia e Spagna, Inghilterra e Germania, non vietando il sortire, e il trasferirsi da luogo a luogo, e rendendo aggradevole il soggiornare al coperto: siccome la vita d’Inghilterra e Germania tiene appunto il mezzo, massime in quest’ultimi tempi, per rispetto alla conversazione, tra la vita d’Italia e Spagna e quella di Francia, e così il carattere ec. che ne dipende. E già in mille altre cose la Francia, siccome il suo clima, tiene il mezzo fra’ meridionali e settentrionali, del che altrove in più luoghi. Non parlo delle meno estrinseche e più spirituali influenze del clima sulla complessione e abitudine del corpo e dello spirito, anche fin dalla nascita, che pur grandissimamente contribuiscono a cagionare e determinare la varietà che si vede nella vita delle nazioni, popolazioni, individui tutti partecipi (come son oggi) di una stessa sorta di civiltà, circa il genio e l’uso della conversazione. (15. Feb. 1824.).

Οὐδὲν ξένον εἰ πάνυ ἐσπουδακὼς ἐπὶ τοῖς ἀρίστοις ὑπὸ σοῦ γνωρίζεσθαι, ἐκ τῆς ἄγαν ἐπιθυμίας εἰς τοὐναντίον, διαταραχθείς, ἐνέπεσον. Lucian. pro lapsu inter salutandum. opp. t. 1. 502. Amstel. 1687. (16. Feb. 1824.).

Appartiene al detto altrove sopra lo spagn. luego ec. la frase εὐθὺς ἀρχόμενος, e la corrispondente lat. statim ab initio o a principio ec. e quella di Luciano, loc. sup. cit. p. 498. εὐθὺς ἐν τῇ ἀρχῇ e πρῶτον εὐθὺς , e simili che puoi cercare nel Forcell. Scap. ec. (16. Feb. 1824.).

Fiorito, fleuri ec. per fiorente, come età fiorita cioè che fiorisce, floret. (16. Feb. 1824.).

Giuntare per truffare ec. viene da iungo iunctum come juntar spagn. in altro senso, poichè anche giungere si usa per giuntare che in questo senso, tutto italiano, n’è un continuativo. Pur da iungere viene aggiuntare per giuntare ( Machiav. Mandrag. at. 3. sc. 9. la Crus. ha il verbale aggiuntatore), come il nostro volgare aggiuntare e lo spagn. ayuntar ec. in altro senso. E v. il Gloss. Giunto per giunteria. Crus. (17. Feb. 1824.).

Imprenta, imprentare ec. impronta, improntare ec. quasi imprimita, imprimitare da imprimitum, supino regolare inusitato, per impressum. (17. Feb. 1824.).

Ἐθέλω per δύναμαι o piuttosto per μέλλω, del che altrove. V. Plat. de Rep. 4. opp. ed. Ast. t. 4. p. 200. B. (18. Febbraio. 1824.).

Diminutivi positivati. Compagnon. (20. Feb. 1824.).

Bequeter (beccare) frequentativo o diminutivo. Gresset Ver-vert, Chant premier. (20. Feb. 1824.). Feuilleter.

Diminutivi positivati. Avorton, menton mentonnière ec. (20. Feb. 1824.). Flacon-fiasco.

Καὶ ὅλως ἁπάντων ὁ πολυψηφότατος ἐν παιδείᾳ σύ γε, καὶ μάλιστα ὅσῳ τὴν λευκὴν ἀεὶ καὶ σώζουσαν φέρεις (Lucian. in Harmonide ad. fin.) E massime in quanto, o in quanto che. Grecismo dell’italiano in questa e molte simili nostre frasi. (21. Feb. 1824.). V. franc. e spagn. ec.

Alla p. 4029. Il numero o suono del periodo de’ trecentisti è un tale proprio loro, e ben diverso generalmente da quello de’ Cinquecentisti; e così non solo tutte le lingue, ma ciascun secolo di esse, anche quelli in cui non si coltiva il numero, hanno un periodo loro proprio quanto al suono, e diverso da quello degli altri secoli, anzi tanto più proprio loro e più diverso dagli altri, quanto il numero v’è meno studiato, perchè l’arte, sempre la stessa, induce conformità, onde due secoli studiosi del numero, ancorchè distanti, possono facilmente rassomigliarsi insieme, più che gli altri: quando infatti veggiamo anche tra diverse lingue tal somiglianza, come tra greco e latino e tra latino e italiano negli scrittori che sono studiosi del numero. (21. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Vallon, coteau, costola ec. (21. Feb. 1824.). Rayon, pavot.

Genitivo plurale in vece dell’accusativo col pronome alcuni o alcuno del che altrove. Luciano in Scytha, opp. 1687. t. I. p. 598. init. δεῖξαι τῶν λόγων ὑμῖν cioè ex meis orationibus o doctrinis, il qual luogo è bene interpretato dal Grevio nella fine del tomo, il quale è da vedere. (22. Feb. Domenica. 1824.).

Grecismo dell’italiano. Se non quanto o in quanto o quanto che, o in quanto che- παρ' ὅσον. V. Luciano loc. cit. qui sopra, ad fin. p. 599. e lo Scapula ec. e i franc. e spagn. ec. (22. Feb. 1824. Domenica.).

Σίλλος, σίλλοι o σιλλοὶ si fa derivare da ἴλλος occhio παρὰ τὸ διασείειν τοὺς ἴλλους. V. Scap. e Menag. ad Laert. in Timon. IX. III. Consento che venga da ἴλλος, ma non che ci abbia a fare il σείειν, formazione d’altronde molto inverisimile. Io credo che σίλλος sia lo stesso affatto che ἴλλος in origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito, benchè lene, all’uso latino circa lo spirito denso e al modo che gli Eoli usavano il digamma, ossia il v latino (e quindi i latini il v) in vece anche dello spirito lene, nel principio delle parole. Veggasi il detto altrove di σῦκον ch’io credo essere venuto da un ὗκον o ὖκον. Da σίλλος occhio la metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse, come diciamo noi, occhiolino ec. onde σιλλαίνειν sarebbe quasi far l’occhiolino, in senso però di deridere ec. La metafora è naturale, perchè il riso generalmente, ma in ispezieltà la derisione risiede e si esprime cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente. (22. Febbraio 1824. Domenica di Sessagesima.).

Ἔξω τῶν ὤτων fuorchè l’orecchie. Luciano opp. 1687. p. 580. ad fin. t. 1. Di quest’uso del greco ἔξω conforme all’italiano fuori, fuorchè, infuori ec. e al francese hors, hormis ec. e allo spagn. fuera, fuera de que (oltre di che) ec. (anche in greco s’usa, mi pare, ἔξω o simil voce per oltre. V. lo Scap. e il Forcell. ec.) dico altrove, se ben mi ricordo. (22. Feb. Domenica di Sessagesima. 1824.).

Accortare, scortare. Al detto altrove di curto as. (23. Feb. 1824.). Accorciare, scorciare ec. co’ derivati ec. non sono che corruzioni, e vengono pur da curtare. (23. Feb. 1824.).

Capter, Cattare ec. Al detto altrove di captare. (25. Feb. 1824.). Riscattare, rescatar ec. catar, di cui altrove, è forse da captare?

Faventini, del che altrove. Guicc. t. 2. p. 34-36. (25. Feb. 1824.).

Rilevato per che rileva, cioè pesa, cioè importa. Nardi spesso nella Vita del Giacomini. (25. Feb. 1824.).

Al detto altrove di suppeditare aggiungi che nel D. Quij. par. 2. cap. 18. fine, io trovo supeditar per calpestare. (28. Feb. 1824.).

L’uso della sinizesi da me altrove in moltissimi luoghi distesamente notato ne’ latini e dimostrata volgare fra loro e familiare ec. osservisi essere un’altra delle conformità del volgar latino colle nostre lingue, in cui essa sinizesi non è pur volgare, ma regolare ec. ec. (28. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Struzzo-struzzolo. (28. Feb. 1824.).

Verbi frequentativi o diminutivi ital. Balzare balzellare. (28. Feb. 1824.).

Pelle per donna ec. nostro modo osceno. V. il Forc. in Scortum e in Pellex ec. e la Crus. se ha nulla. (28. Feb. 1824.).

Ἄλλο per οὐδὲν ridondante come in italiano, del qual modo italiano corrispondente anche ad un altro analogo modo greco, ho detto altrove in più luoghi. Luciano nel fine del libretto περὶ ἀσρτρολογίας (se però è suo): Ψπὸ δὲ τῇ δίνῃ τῶν ἀστέρων μηδὲν ἄλλο γίγνεσθαι ; per μηδὲν γίγνεσθαι; E questo luogo dimostra l’origine di questa frase ed uso del pronome ἄλλος altri o ἄλλο altro, sì quanto al greco, sì quanto all’italiano. Perocchè viene propriamente a dire: μηδὲν ἄλλο ἢ αὐτὸ τοῦτο τὸ δινέεσθαι; così senz’altro val propriamente senz’altro fuor della cosa medesima o delle cose di cui si parla. Vedi il detto da me lungamente circa la frase οὐδὲν πλέον sulla fine del Fedone, nelle mie note sopra Platone. E vedi anche il contesto del cit. luogo di Luciano. (28. Feb. 1824.). V. la p. seg.

Εὐθὺς ἐν ἀρχῇ τῶν λόγων. Luciano opp. 1687. t. 1. p. 861: del che altrove. (28. Febbraio. 1824.).

Alla p. preced. Qua spetta quel luogo del Guicc. lib.6. t. 2. ed. Friburgo p. 74. Ai Veneziani non pareva piccola grazia se non fossero molestati dagli altri . Cioè semplicemente non fossero molestati. Quel dagli altri ha relazione ai Veneziani medesimi, e vale insomma da nessuno, cioè infine ridonda affatto. Questo modo è ordinarissimo massime nel dir familiare[a]

Così diciamo l’amicizia altrui, la conoscenza altrui, le offese altrui e simili frasi dove l’altrui ha relazione a colui solo di cui si parla, sia persona o cosa, cioè in somma ridonda. E così mill’altre frasi.

[Chiudi]. E così credo che sia anche in greco e in latino[b] ed altresì in francese e spagnuolo le quali due lingue si osservino ancora circa gli altri modi notati di sopra ed altrove a questo proposito ec. (29. Feb. Domenica di Quinquagesima. 1824.).

Halo ai avi atum — halitans, alitare (verbo e sostantivo ossia infinito sostantivato), haleter. V. gli Spagn. e il Gloss. ec. (29. Feb. 1824.).

Lino linis, livi, et lini, et levi, litum per linitum. Osservisi questo verbo quanto alla sua coniugazione che mi par faccia a proposito d’altri miei pensieri. Ed osservisi ancora insieme con esso il suo compagno linio is ivi linitum, coi composti ec. dell’uno e dell’altro. (29. Feb. 1824.). Alo alis alui alitum altum alere.

Osado o ossado per che osa, ardito per che ardisce (aggettivati), hardi ec. atrevido per quien se atreve presente, anch’esso aggettivato: e simili. (29. Feb. Domenica di Quinquagesima. 1824.).

Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario per la contraria cagione, cioè per aver poca cura e poco concetto di se, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l’amor proprio degli altri, e n’hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell’amor proprio, dov’esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone sensibili e immaginose, le quali restano sovente fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a molte altre cose, sì quanto a questa della timidità nel consorzio umano, che in esse è sempre difficile a vincere più assai che negli altri, e in alcune è assolutamente invincibile, come fu in Rousseau. La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai veramente spenta in loro, nè anche quando pare affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire alcun piacere all’individuo medesimo, continuamente, secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per eccesso di amor proprio e d’immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell’anima (oltre i tanti da me altrove notati), della sensibilità, della squisitezza dell’ingegno, della natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l’amor proprio essendo eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità e sensibilità dell’amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere affatto, ma fabbricate di pianta dall’immaginazione, e non esistono se non nell’idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell’immaginazione, dico dell’amor proprio, il quale in questi tali, anche quando sembra rotto e fiaccato dall’uso de’ mali, dispiaceri, punture ec. anzi minore assai che non è negli altri, e quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e ancora in istato da esser chiamato tenerezza di se stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più negativo che positivo, più atto a impedire che a cagionare, piuttosto causa di passione che d’azione ec. quale egli è proporzionatamente anche ne’ primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

Infundo infusus- infuser. (3. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati. Lucerta-lucertola, lucertolone. (3. Marzo. 1824.). Lacerta-lacertola.

Φάω, φαείνω, φαείνομαι. Alterazione di desinenza collo stesso significato, del che altrove. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

Diminutivi positivati. Fou-follet. V. i Diz. franc. in questa voce, e nóta che questo è un aggettivo. Noi pure folletto benchè per lo più sostantivato per la soppressione del nome spirito. E questa nostra voce (come fors’anche folle) par che venga dal francese o dal provenzale. Del resto v. la Crus. in folletto esem.2. e par. 2. e gli spagnuoli. (3. Marzo. dì delle S. Ceneri. 1824.).

Spiare-spieggiare. (3. Marzo, dì delle S. Ceneri. 1824.). Scoppiare, scoppiata sustantivo — scoppiettare, scoppiettata, scoppiettio. (4. Marzo. 1824.). Incrociare-incrocicchiare, croce-crocicchio ec.

Al detto altrove di ὀλίγου o μικροῦ δεῖν ec. aggiungi. Si dice anche assolutamente ὀλίγου (fors’anche μικροῦ) sottintendendosi il δεῖν o δέον, in senso di σχεδὸν ec. come appunto in italiano per poco. Plat. in Phaedro ec. (4. Marzo 1824.).

Inadvertido, inavveduto, desconocido per sconoscente, malaccorto e simili si aggiungano al detto altrove circa i participii avveduto ec. aggettivati ec. Condolido per condolente, participio vero e non in senso d’aggettivo. D. Quij. par. 2 cap. 21. avanti il mezzo. (4. Marzo 1824.).

Senz’altro patto per senza niun patto. Guicc. l. 7. ed. Friburgo t. 2. p. 124. principio. ed aggiunge assolutamente ch’è l’interpretazione espressa dell’anzidette parole. (5. Marzo 1824.).

L’ulus de’ lat. si cambia ordinariamente dagl’italiani in io (così l’ulum, e in ia l’ula), raddoppiando la consonante che lo precede, se ella in latino è pura, come oculus-occhio, nebula-nebbia ec.; se impura non si raddoppia, come masculus-maschio ec. (5. Marzo 1824.).

Vischio, succhio sost. e molti simili, sembrano esser tutti diminutivi positivati, fatti nel modo detto nel pensiero precedente, e però venuti certo dal latino e probabilmente stati usati nel volgar latino in luogo de’ loro positivi succus, viscum o viscus ec. ec. (5. Marzo 1824.). Così ho detto altrove de’ nostri verbi in iare ec.

Tomber-tombolare, tombolata ec. (5. Marzo 1824.). Di tali verbi italiani, oltre diminutivi frequentativi vezzeggiativi ec. alcuni, anzi forse, almeno in molti casi, non pochi, sono disprezzativi. (6. Marzo 1824.).

Al detto altrove di apparecchiare, aparejar ec. aggiungi sparecchiare e simili composti ec. ital. spagn. e franc. (6. Marzo. 1824.).

Diminutivi greci positivati. ἴχνος-ἴχνιον diminutivo assolutamente positivato, e proprio, a quel che sembra, di Omero, (sopra il che altrove) benchè si trovi anche in Senof. nel Cineg. dove bisogna però vedere se è veramente positivato, o se essendo, non è preso da Omero. (6. Marzo. 1824.).

Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera intenzione, non cercasse di farli tali, usando a questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l’unico mezzo che convenga si è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch’è più prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi de’ filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di Quaresima. 1824.).

Altro per nessuno o ridondante. Guicc. t. 2. ed. Friburgo p. 144. lin. penult. (7. Marzo. I. Domenica di Quaresima. 1824.).

Εὐθὺς γενόμενος ec. Questa forma è propria del greco, ed usasi eziandio con molti altri avverbi o significanti il med. che εὐθὺς, o d’altro significato, come ἅμα, μεταξὺ (i quali ricevono anche il participio presente, secondo la natura del loro significato, ed altri participii, oltre i passati) ec. ed è chiamata, se non erro, propria degli attici (benchè si trova anche in autori anteriori, per dir così, all’atticismo, come in Anacr. od. 33. εὐθὺς τραφέντες od. 55 εὐθὺς ἰδών ec.) — subito nato, dopo nato, appena nato ec. né à peine (vix natus) ec. despues de nacido ec. V. i Diz. franc. e spagn. e il Forcell. negli avv. corrispondenti a subito, dopo ec. simul ec. (8. Marzo. 1824.).

Indigesto per indigeribile o difficile a digerire. — Indigesto per che non ha digerito o che non digerisce. (8. Marzo. 1824.).

Μινύθω-minuo, forse l’uno e l’altro da μινύω, alterato nel greco colla interposizione del θ, (cosa usata), conservato purissimo in latino, eziandio ne’ composti: della qual conservazione dell’antichità appo i latini più che appo i greci, dico diffusamente altrove. (8. Marzo 1824.).

Ἀργεῖος-argi-v-us. Orazio e Ovidio alla greca comune, argeus, l’uno in un luogo, e l’altro in un altro. Così da ἀχαιός, oltre achaeus, achivus che forse è più proprio latino e più volgare, e achaeus sarà solamente letterario, come anche argeus senza fallo; e forse altri simili. (8. Marzo. 1824.).

Nè la occupazione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o divertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna. Perchè? se nè questi nè quelli sono punto superiori gli uni agli altri nel godimento e nel piacere, ch’è l’unico bene dell’uomo? Ciò vuol dire che la vita è per se stessa un male. Occupata o divertita, ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma per maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità (apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun altro male particolare. Il sentir meno la vita, e l’abbreviarne l’apparenza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di male e d’infelicità, che l’uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male nè dolore particolare, (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per se ed assolutamente alla vita ec. (8. Marzo. 1824.). V. p. 4074.

Forse diminutivo positivato: σπήλαιον (spelaeum). V. i Less. (9. Marzo. 1824.).

Alla p. 4025. Vedilo pure tom.2. lib.7. p. 18. l. 8. p. 219. analoghi a’ quali v’ha diversi altri luoghi nello stesso autore. (9. Marzo. 1824.). V. qui sotto.

Menare, portare, tirare ec. pel nasoτῆς ῥινὸς ἕλκειν nello stesso senso. Lucian. Dial. Deor., Iov. et Iunon. t. 1. opp. 1687. p. 196. V. i Less. e la Crus. e il Forcell. e i francesi e gli spagnuoli (9. Marzo. 1824.). Nóta che Luciano lo usa come proverbio o modo di dire vulgato, colla voce φασὶ.

Λαιὸς — lae-v-us. (9. Marzo 1824.). σκαιός— scae-v-us.

Al detto altrove dei verbali in bilis in ilis ec. ec. si aggiungano quelli formati da essi in ilitas, bilitas, e altri generi, siano del buono o del barbaro latino o delle lingue moderne, sia che i verbali da cui essi sono formati sieno individualmente noti o ignoti ec. ec., sia pure che tali nomi sostantivi verbali, derivino immediatamente dai verbi, e in tal caso bisogna vedere da che voce dei verbi e in che modo, secondo i rispettivi generi d’essi verbali. (10. Marzo. 1824.).

Al capoverso 2. di questa pagina. Anche nella lega di Cambrai contro i Veneziani fu presa per pretesto, o maggior coonestazione, secondo l’uso di quelli e de’ passati tempi, il voler far guerra contro i Turchi. V. il Guicc. t. 2. p. 180. e quivi le note, e p. 186. sulla fine. Ed è notabile in questo caso tanto più questo pretesto, quanto per distruggere i Veneziani allegavano la necessità di farlo a volere opprimere i Turchi, de’ quali i Veneziani erano i maggiori nemici, e quelli che avevano avuti seco maggiori guerre (come pur n’ebbero appresso), e fatti loro e riportatine maggiori danni. (10. Marzo. 1824.). V. p. 4073.

Non ne fece altro per non ne fece nulla; non se ne fece altro; non se ne farà, se ne fa altro; modi consueti del nostro favellare. Non volle farne altro cioè nulla: nelle note al Guicciard. t. 2. p. 183. 191. 363. (10. Marzo. 1824.).

In tutta l’Europa (massime in Italia, dove tutti gli assurdi e gl’inconvenienti sociali sono maggiori che altrove) non reca infamia l’essere o essere stato vizioso, nè l’aver commesso delitti (massime trattandosi di alcuni tali vizi e delitti, certi dei quali, anche atroci, fanno piuttosto onore, stima, e rispetto, che altro); ma bensì l’essere o l’essere stato punito di qualsivoglia vizio o misfatto, anzi pure della virtù o di azioni virtuose e degne di lode e di premio[a]

Certo la puniz. porta seco più infamia che la colpa.

[Chiudi]. Negli Stati Uniti d’America l’opinione pubblica non attacca veruna infamia alla punizione, e il colpevole che è stato punito e rientra nella società, v’è tanto più esente da obbrobrio che l’impunito che in essa si aggira, quanto che 1. si considera ch’egli ha espiato colla pena subita il suo fallo, e riparato e data soddisfazione del torto fatto alla società, e pagato il debito contratto seco lei: 2. si giudica, come in fatti ordinariamente succede, che la pena, la quale colà si considera e si chiama penitenza (le prigioni si chiamano case di penitenza), e le cure che nel tempo di essa espressamente si usano per curare con rimedi sì fisici che morali il morale del colpevole, abbiano corretto e riformato il suo carattere, i suoi costumi, le sue inclinazioni, i suoi principii, e ridottolo alla buona strada, con che e di diritto e di fatto e di opinione egli torna intieramente a paro e a livello degli altri cittadini o forestieri. Vedi il racconto sulle prigioni di Nuova York nell’Antologia di Firenze num. 37. Gen. 1824. e in particolare la pag. 54. (11. Marzo. 1824.).

Ἐθέλω ἐγρηγορέω-θέλω γρηγορέω possono essere esempi o di accrescimenti o di troncamenti fatti da’ greci ai loro temi senz’alterazione di significato. Così λῶ p. ἐθέλω, o quella sia la radice, o un troncamento, del che altrove. (12. Marzo 1824.).

Acertado per que acierta o que suele acertar, tanto di persona, quanto di cosa. D. Quij. par. 2. cap. 25. verso il fine, cap. 26. un poco sotto il principio. ec. (12. Marzo. 1824.).

Ἐθέλω per δύναμαι ec. del che altrove. V. Luciano opp. 1687. tom. i. p. 222. linea 10. in Dearum iudicio, e Plat. Phaedon. opp. ed. Astii, t. 1. p. 478. B. (12. Marzo. 1824.).

Il nostro pronome si, massime nel dir toscano, spessissimo ridonda per grazia e proprietà di lingua e per idiotismo, contro le leggi grammaticali delle favelle. Così fra’ latini il pronome sibi (a cui risponde il nostro si, che ne’ detti casi non so se tutti, è dativo, come in se n’andò e simili), massime appo gli antichi, e questi, comici, onde siffatto uso dovette esser proprio del dir volgare o familiare. V. il Forcell. in Sui . (13. Marzo. 1824.). V. qui sotto.

Essere in se (être en soi ec. V. i Diz. franc. e spagn.). ἐν ἑαυτῷ εἶναι — V. Luciano nel Dial. di Nettuno e Polifemo, opp. 1687. t. 1. p. 241. fine. Così esso ed altri sovente. Il Forcellini non ha nulla in proposito, nè in Sui , nè in Sum . (13. Marzo. 1824.).

Carra plur. di carro. (14. Marzo. 2.a Domenica di Quaresima. 1824.).

Necessitado per que necessita, cioè ha menester, e si unisce anche col genitivo, come il suo verbo. D. Quij. in più luoghi. Quanto ad errado, di cui altrove, notisi che in ispagnuolo si dice anche errarse. D. Quij. par. 2. cap. 27. se havia errado (avea sbagliato). (14. Marzo. 1824.).

Al capoverso 3. di questa pag. Dubito che anche in franc. e in ispagn. anche più vi sieno usi simili. V. per esempio il fine del pensiero preced. (14. Marzo. 1824.).

I nostri nomi diminutivi o disprezzativi ec. in acchio ecchio ec. e i verbi diminutivi o frequentativi o disprezzativi ec. in acchiare ecchiare ec. sono di una forma espressamente originata dal latino, cioè dalla forma diminutiva o frequentativa ec. in culus e culare. Lo stesso dico de’ nomi e verbi francesi diminutivi o frequentativi o disprezzativi ec. in ail aille ailler iller eiller (sommeiller) ec. de’ quali altrove. E credo che anche lo spagn. in illo o illar ec. venga da essa forma latina (come periglio péril ec. da periculum, del che in più luoghi) più tosto che da quella in illus illare ec. (15. Marzo. 1824.).

Alle altre barbarie umane da me altrove notate si aggiunga la pederastia, snaturatezza infame che fu pure ed è comunissima in Oriente (per non dir altro) e non fu solo propria de’ barbari ma di tutta una nazione così civile come la greca, e per tanto tempo (lasciando i romani), e sì propria che sempre che i greci scrivono d’amore in verso o in prosa, intendono (eccetto ben rade volte) di parlar di questo siffatto, voluto fino ridurre in sentimentale da Platone massimamente, nel Convivio e più nel Fedro, e altrove, e da Senofonte poi nel Convivio. E Saffo con tanta tenerezza canta la sua innamorata. Quanto noccia questo infame vizio alla società ed alla moltiplicazione del genere umano, è manifesto ec. ec. Aggiungansi similmente gli spettacoli de’ gladiatori, e l’altre barbarie romane ec. ec. (15. Marzo. 1824.).

Diminutivi greci positivati. Luciano nel Dialogo di Doride e di Teti dice prima ἐς κιβωτὸν e poi indifferentemente parlando della medesima arca τὸ κιβώτιον , e poi di nuovo τὴν κιβωτὸν ed ἡ κιβωτός , e così anche nel Dial. di un Tritone e delle Nereidi ἐν τῇ κιβωτῷ parlando della stessa arca. V. i Lessici ec. Ciò mostra che il significato di questo diminutivo e di questo positivo era conforme, o che anche in greco si usava elegantemente il diminutivo pel positivo o a piacere, o come catacresi o enallage ec., o comunque. Luciano non usa qui il diminutivo se non per variare o per grazia ed eleganza semplicemente senz’altra cagione, e senz’alcuna diversità di significato dal positivo che insieme adopera. (15. Marzo. 1824.).

Duplicazioni greche. ἄγω-ἤγαγεν, ἄγηχα, ἀγήοχα, ἀγαγεῖν ec. Si chiamano modi attici, ma sono anche (con certe mutazioni, salvo però il raddoppiamento) anche degli Joni, dei Dori ec. V. lo Schrevel. e lo Scap. nell’indice delle voci de’ verbi anomali a’ piè del Lessico, ec. (15. Marzo 1824.).

Prolato as in senso di differire ec. da profero che ha pur questo senso. V. Forcell. in Prolato, Prolatatio, Prolatatus. (16. Marzo 1824.).

Luciano nel Dialogo di Menippo Amfiloco e Trofonio. M. τί δὲ (lego δὴ ut contextus expetit) ὁ ἥρως ἐστίν;; ἀγνοῶ γάρ. Τ. ἐξ ἀνθρώπου τι καὶ θεοῦ σύνθετον. Μ. ὃ μήτε ἄνθρωπός ἐστιν, ὡς φῄς, μήτε θεός, καὶ συναμφότερόν ἐστι. Rechisi al detto altrove sopra l’opinione degli antichi circa i semidei, segno dell’alto concetto che avevano della natura umana. (16. Marzo 1824.).

Diminutivi greci positivati. ῥάκος-ῥάκιον, se questo non è disprezzativo più di quello. (20. Marzo 1824.).

Alterazioni de’ temi greci, senza mutazione di significato. στρέφω-στροφάω, στρωφάω (coi composti), i quali verbi originariamente (come anche poi in parte) dovettero significare ed essere onninamente gli stessi che στρέφω. V. i Lessici. E così si potrà di molti altri tali verbi alterati, che ora di senso differiscono alquanto dal primo tema, o hanno una significazione più determinata, o due ec. mentre quello ne ha di più, o viceversa, ec. ec. ma che in origine forse valsero nè più nè meno altrettanto che esso. (20. Marzo. 1824.).

Una nuova prova dell’antica tradizione, di cui altrove, che la popolazione del mondo, o certo quella d’Europa, venisse dall’Asia, si deduce dalla favola (o storia) che l’Europa pigliasse il nome da una donna d’Asia così chiamata. V. il sogno d’Europa nel 2.do idillio di Mosco ec. (20. Marzo. 1824.). V. ancora i mitologi e critici ec.

Στλεγγὶς forse da principio fu un diminut. di positivo ora ignoto. (20. Marzo. 1824.).

Troia per scrofa, del che altrove. In franc. truye o truie. Mi ricordo ancora aver trovato nella seconda parte del D. Quij. la voce troya, che mi parve dovere aver questo o simile significato, benchè usata, in tal supposizione, metaforicamente. (20. Marzo. 1824.).

Fante per uomo adulto con tutti i suoi derivati e diminutivi ec. (tra’ quali è fancello per fanciullo che n’è forse una corruzione, onde fanciullo sarebbe propriamente piccolo uomo, seppur non è corruzione d’infanticello, che non credo; e così dicasi degli altri diminutivi di fante) opposto d’infante, è proprio non solo de’ nostri antichi, (v. la Crus.) ma eziandio del volgare e familiar moderno, in cui resta ancora per proverbio lesto fante (il che si trova anche nell’Alberti.). Or questa voce e questo suo significato è certamente affatto latino, poichè fante non è che il partic. fans di for faris, verbo che non si trova nelle lingue moderne, e non dovette neppure esser proprio de’ bassi tempi. Oltre ch’egli è l’opposto d’infans cioè non parlante (νήπιος), e significa parlante, e perciò solo ha forza e ragione di significare uomo. E nondimeno essa voce non si trova in tal senso negli scrittori latini, se non solamente in senso molto analogo, in un luogo di Plauto, il quale può anche servire a dimostrar l’antichità di questa voce in siffatto senso e come opposta d’infante. Anche in tutti gli altri suoi sensi essa non è che metafora, o ec. di quel di uomo; p. e. fante per soldato pedone val propriamente uomo (così si dice mille uomini, mille bommes ec. per mille soldati; uomini d’arme, cioè soldati grevi a cavallo ec. ec. gente o genti per esercito; gente a piè, d’arme ec. gendarmes ec. ec.). I francesi fantassin, dall’italiano fantaccino ch’è un diminutivo o disprezzativo positivato. Infanterie non sembra che una corruzione di fanteria. V. gli spagn. Così dico del significato di servo o serva, divenuto pur proprio di fante, nel qual senso ne deriva fantesca ec. V. ancor qui gli spagnuoli ec. V. pure il Gloss. e l’articolo di Foscolo sopra l’Odissea di Pindemonte negli Annali di Scienze e Lettere di Milano 1810. (21. Marzo. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Taurus-taureau. Fante fantaccino (forse anche disprezzativo in origine) onde fantassin, cioè fante. V. il pensiero precedente. (21. Marzo. 1824.).

Dell’antiche opinioni circa i semidei e gli eroi, delle quali altrove, vedi ancora il Dialogo di Diogene ed Ercole ne’ Dial. de’ morti di Luciano. (21. Marzo. 1824.).

Οὐκ ἔστι μαθεῖν τοῦτο ῥᾴδιον, συνθέτους δύ' ὄντας Ἡρακλέας, ἐκτὸς εἰ μὴ ὥσπερ ἱπποκενταυρός τις ἦτε. Lucian. in Dial. mort. Dial. Diog. et Herculis . Di questo italianismo del greco dico altrove. (21. Marzo. 1824.). V. p. 4054. Vedilo ancora in Reviviscent. opp. 1687. t. i. p. 393.

Θανέω o θάνω-θνήσκω. Qui l’alterazione non solo è nella desinenza, ma eziandio nella omissione dell’α, onde θνήσκω per θανήσκω dal fut. θανήσω donde si fanno questi verbi in σκω, secondo il Weller. (21. Marzo. 1824.).

Delle cause della universalità della lingua francese, vedi Voltaire delle Lingue, nelle sue opere scelte Londra (Venezia) a spese del Milocco, tomi 3. in italiano, 1760. tom. 3. o p. 136-9. (21. Marzo. 1824.).

Come anticamente i francesi pronunziassero conforme scrivevano e in parte scrivono, vedi il cit. luogo del Voltaire p. 139-140. (21. Marzo. 1824.).

Povertà di parole nella lingua francese appetto all’italiana. V. il cit. tomo di Voltaire p. 207. nella nota, numero 3. (21 Marzo. 1824.).

Della superiorità della lingua latina sulla greca per certe parti e qualità, del che ho detto in proposito dei continuativi di cui i greci mancano, cioè non ne hanno un genere determinato, si può dire lo stesso rispetto agl’incoativi, di cui i greci non hanno un genere e forma così determinata e assegnata come i latini, sebbene si servono molto spesso, a significar l’incoazione, di verbi in ίζω fatti da quelli che significano l’azione o passione positiva, o aggiungono a’ temi in άω, έω ec. il ζ facendone άζω, έζω ec. Ma queste forme non sono così precisamente determinate alla significazione incoativa, perchè infiniti verbi così formati ne hanno tutt’altra, infiniti significano lo stesso che il primo tema (del che altrove, sebben forse in origine potranno avere avuto diverso senso), infiniti non hanno altro tema, almen noto, e non significano cosa incoativa ec. sia che questi e i sopraddetti abbiano perduta col tempo siffatta significazione, e confusala ec. sia che mai non l’abbiano avuta, il che, di moltissimi almeno, è certo, perchè molte volte la desinenza in ίζω o ζω è frequentativa. Anche de’ frequentativi determinati ec. mancano i greci, mentre gli hanno non solo i latini ma gl’italiani (e moltissimi generi, come pure in latino ve n’è più d’uno), i francesi ec. Mancano ancora de’ verbi disprezzativi, vezzeggiativi ec. ec. che i latini e gl’italiani ec. hanno, e più d’un genere. (21. Marzo. 1824.).

Molti di quelli che io chiamo diminutivi positivati, si potranno chiamare in vece disprezzativi o vezzeggiativi o frequentativi ec. positivati, sì verbi che nomi, sì sostantivi che aggettivi ec. Ma chiamarli generalmente diminutivi non è da potersi riprendere, perchè tali sono propriamente tutti, e la diminuzione è il mezzo con cui essi significano disprezzo, vezzeggiamento ec. secondo che ella è applicata ed intesa. (21. Marzo 1824.).

Imperfezione dell’ortografia italiana ne’ passati secoli. È noto che i manoscritti originali anche de’ più dotti uomini de’ migliori secoli, e in particolare e nominatamente quelli dell’Ariosto e del Tasso, che son pur tanto ripieni di correzioni, presentano una stortissima e scorrettissima ortografia, con errori tali che oggi non commetterebbe il più imperito scrivano o fanciullo principiante, e una stessa voce v’è scritta ora con una ora con altra ora con altra ortografia. (21. Marzo. Domenica terza di Quaresima. 1824.).

La ricchezza e varietà e potenza e fecondità della lingua italiana non solo s’ha a considerare nella copia de’ suoi vocaboli e modi e nella gran facoltà di formarne, ma eziandio nella gran moltitudine e varietà di tipi per così dire o coni che ella ha per poter formare voci e modi di uno stesso genere di significazione. (formati già moltissimi, e da potersene formar con giudizio, sempre che si voglia e bisogni). Servano di esempio le tante desinenze frequentative o diminutive o disprezzative ec. de’ verbi, da me annoverate altrove. Le tante diminutive de’ nomi ec. ec. Nella quale abbondanza di coni la lingua nostra vince d’assai, non che le lingue sorelle, ma la latina e la greca, e forse qualunque lingua del mondo antica o moderna. Nè questa abbondanza produce confusione nè indeterminazione, perchè detti coni sebbene sommamente moltiplici in ciascun genere, sono però di qualità e di valore ben determinato ed applicato e appropriato al suo genere di significazione. (21. Marzo. 1824.).

Κύμβον, κύμβη – κυμβίον, κυμβαῖον, κυμβεῖον, diminutivi positivati in certe significazioni. V. lo Scapula. (22. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati. Limon, limoneux-limus. (23. Marzo. 1824.). V. la p. seg. capoverso 1.

Lixi-v-ia, lixi-v-ium – lexia o legia spagn. (23. Marzo. 1824.).

Tomber, tumbar spagn. co’ derivati e composti ec. – tombolare coi medesimi. (23. Marzo. 1824.).

Tomba da τύμβος, del che altrove. Spagn. tumba, franc. tombeau, ch’è originariamente lo stesso, cioè ne è un diminutivo positivato come tanti altri. (23. Marzo. 1824.). I francesi hanno anche tombe ant. e poet. ed ora con un significato alquanto diverso. V. i Diz. V. p. 4076.

Venire per essere a modo di verbo ausiliare, congiunto co’ participii passivi degli altri verbi, s’usa non solo in italiano, anche antico, del che mi pare aver detto altrove, ma anche in ispagn., forse a imitazione dell’italiano. Vedi D. Quij. par. 2. (la qual parte è straordinariamente sparsa di manifestissimi italianismi, più assai che la prima ec.) cap. 32. ed. Madrid 1765. tomo 3. p. 370. (23. Marzo. 1824.).

La galanteria degli antichi italiani può esser dimostrata dall’etimologia del nome generico di donna, etimologia che in nessun’altra lingua cred’io, nè moderna nè antica si troverà nel corrispondente nome. (24. Marzo. Vigilia della SS. Annunziata. 1824.). V. p. 4067.

Al detto altrove di sencillo diminutivo positivato, aggiungi sencillamente, e considerinsi siffatti avverbi anche negli altri nomi ec. (24. Marzo. 1824.).

Origliare, origliere da auricula. Nuova prova del cangiarsi spesso il cul de’ latini in gli italiano benchè per auricula noi diciamo orecchia, non oreglia, come i francesi. (25. Marzo. dì della SS. Annunziata 1824.). Diciamo anche, ed oggi meglio, orecchiare.

Speculum-speglio antico e poetico. (26. Marzo. 1824.).

Discursos entretenidos per entretenientes, cioè di trattenimento, di passatempo. D. Quij. (26. Marzo. ultimo Venerdì. 1824.).

Continuo per continuamente. D. Quij. Nome aggettivo in luogo d’avverbio, del che altrove. (26. Marzo. 1824.).

Participii in us di verbi neutri. Licitus, licitum est o fuit dall’impersonale licet, come gavisus e gavisus sum dal personale gaudeo. Vedi il Forc. in Licitus, licet ebat, liceor, liceo, licito avverbio fatto da questo participio, ec. (27. Marzo. 1824.).

Alla p. 4050. Noi diciamo eccetto se non, se pure non, se però non, fuorchè se o se non, quando non, salvo se non ec. E queste frasi e la greca rispondono alla latina nisi o nisi si. Il non sì nel greco che nell’italiano vi sta fuor di ragione e per comun proprietà d’ambe le lingue. (28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima. 1824.).

Ri-v-us, ri-v-ori-g-agnolo ec. – rio ital. e spagn. (28. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati Rivus — ruisseau e ruscello che sono in parte e sovente positivati. Ascia lat. ascia e asce ital. hâche franc. ec. — accetta quasi ascetta, spesso positivato ec. perchè s’usa promiscuamente ascia e accetta, l’uno in cambio dell’altro, benchè forse abbiano differenza di significato proprio, che non ebbero però in origine, eccetto quanto alla diminuzione. (28. Marzo. 1824.).

Dormido per dormiente (fors’anche durmido). Voz algo dormida. D. Quij. E in altre maniere. Se però dormir non è anche neut. pass. (28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima. 1824.).

Diminutivi greci positivati. τειχίον. Luciano in Reviviscent. t. i. opp. 1687. p. 418. Notisi in proposito di questo e altri diminutivi positivati di Luciano, da me altrove segnati, che Luciano usa il linguaggio in gran parte familiare. Nel detto luogo si parla del muro dell’acropoli o cittadella di Atene. In due di Omero ( Odiss. π V. 165.343) τειχίον si unisce con μέγα. Parrebbe ridicolo l’interpretarlo parvus murus, come fa lo Scapula, e sembrerebbe che non si potesse trovar luogo dove fosse più evidente la positivazione di voci diminutive greche. Nondimeno (oltre che v’ha varietà di lezione, o dubbio degli eruditi sulla voce τειχίον, almeno nel primo di questi luoghi, come rilevo dall’Indice delle voci omeriche), si potrà forse dire che τειχίον è detto da Omero a differenza dei muri di città, e simili, detti τείχη, poichè egli quivi parla dei muri di un cortile, e che μέγα si riferisca alla grandezza di que’ muri in quanto muri di cortile. Non per tanto il luogo di Luciano e altri di Tucidide appo lo Scap. mostrano che τειχίον si diceva anche de’ muri di città fortezza ec. (moenia), e possono servire a illustrare quelli d’Omero, confermar la lezione, (massime il luogo di Luciano che è evidente), e provando che quivi τειχίον sta semplicemente per τεῖχος, benchè unito con μέγα, aggiungere una insigne prova alla mia opinione circa la positivazione di molti diminutivi greci, in particolare nel dir poetico, o piuttosto antico o ionico ec. (28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima. 1824.).

Τῆς ῥινὸς ἕλκειν menar pel naso proverbio greco conforme all’italiano, del che altrove, con un luogo di Luciano, ove vi si aggiunge il φασὶ. Aggiungi lo stesso Luciano in Reviviscentibus opp. 1687. t. 1. p. 396. V. il Forcell. i Lessici e gli scrittori di adagi e proverbi ec. (29. Marzo. 1824.). Lucian. ib. 556. 560.

Plurali in a. Martella. Crusca in Asce. (29. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati. Lens-lenticula (lente, lenticchia ec.). (31. Marzo. 1824.).

Dita plur. di dito. Nota che il corrispondente nome latino non è neutro ma mascolino. (1. Aprile. 1824.). Nocca, Uova.

Come in italiano l’uomo per on franc. , per si ec., del che altrove, così anche in ispagn. el hombre nel modo stesso. D. Quij. par. 2. cap. 40. ed. Madrid. 1765. tomo 3. p. 446. (1. Apr. 1824.).

La lingua spagnuola è già conformissima all’italiana per indole (oltre all’estrinseco) quanto possa esser lingua a lingua. Ma più conforme sarebbe, se ella fosse stata egualmente coltivata, formata e perfezionata, cioè avesse avuto ugual numero e varietà e capacità di scrittori che ebbe l’italiana. Dalla piega che ella prese effettivamente si raccoglie che quando avesse progredito, la forma e l’indole che avrebbe avuta in uno stato di perfezione non sarebbe stata punto diversa dall’italiana, alla quale per conseguenza la lingua spagnuola sarebbe stata tanta più conforme che ora per la maggior conformità di grado e di perfezione, perchè ora la maggiore, anzi forse unica differenza che passi tra il genio o piuttosto la forma intrinseca di queste due lingue, si è che l’una è molto meno formata e perfezionata dell’altra, e anche men ricca, il che con la copia degli scrittori e delle materie non sarebbe stato. (1. Aprile. 1824.).

Moveo — moto, motito. (1. Aprile. 1824.).

Cessatus partic. di cesso verbo neutro. V. Forc. in Cessatus e in particolare il secondo es. paragonandolo col secondo par. di Cesso. (3. Aprile 1824.).

Al detto di acquistare in proposito di quisto, quaesitus ec. aggiungi lo spagn. aquistar. D. Quij. V. i Dizionari. (4. Aprile. Domenica di Passione. Nevica. 1824.).

Grandissima, e forse la maggior prova e segno del progresso che ha fatto negli ultimi tempi lo spirito e il sapere umano in generale e le scienze fisiche in particolare, è che per ispazio di quasi un secolo e mezzo, quanto ha dalla pubblicazione de’ Principii matematici di filosofia naturale a’ dì nostri (1687), non è sorto sistema alcuno di fisica che sia prevaluto a quello di Newton, o quasi niun altro sistema di fisica assolutamente, almeno che abbia pur bilanciato nella opinione per un momento quello di Newton, benchè questo sia tutt’altro che certo e perfetto, anzi riconosciuto ben difettoso in molte parti, oltre alla insufficienza generale de’ suoi principii per ispiegare veramente a fondo i fenomeni naturali. Nondimeno i fisici e filosofi moderni, anche spento il primo calor della fama e della scuola e partito di Newton, si sono contentati e contentansi di questo sistema, servendosene in quanto ipotesi opportuna e comoda nelle parti e occasioni de’ loro studi che hanno bisogno, o alle quali è utile una ipotesi. Ciò nasce e dimostra che gli spiriti e nella fisica e nell’altre scienze e in ogni ricerca del vero e in ogni andamento dell’intelletto si sono volti all’esame fondato dei particolari (senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e alla pratica ed esperienza e alle cose certe, rinunziando all’immaginazione, all’incerto, allo splendido, ai generali arbitrarii, tanto del gusto de’ secoli antecedenti e padri di tanti sistemi a quei tempi, che rapidamente brillavano e si spegnevano, e succedevansi e distruggeansi l’un l’altro. (4. Aprile 1824. Domenica di Passione. Nevica.).

Altro per alcuno o ridondante, del che altrove. Aggiungasi quell’uso dell’avv. altrimenti o altramente ec., uso frequentissimo appresso i nostri, massime de’ buoni secoli, e non raro neanche oggidì, nel qual uso quell’avverbio sembra un assoluto pleonasmo, quando cioè egli è congiunto alla negazione, p. e. così: non v’andò altrimenti, cioè non v’andò. (In altro modo egli può esser congiunto alla negazione con significati diversi, come quando si dice non altrimenti per parimente, non altrimenti che per come.) Par ch’esso avv. in tali casi equivalga al punto, al guari e simili italiani e francesii ec. aggiunti sì spesso alla negazione senz’alcuna maggior forza. In fatti spesso, o il più delle volte esso avverbio in questo caso non importa nulla, ma originariamente e veramente, e forse talvolta effettivamente massime presso gli antichi, vale in alcun modo. Gli altri l’usarono e l’usano senza certo aver mai neppure immaginato o sospettato quel che ei significhi in tali casi. Nei quali egli ha alcun chè a fare con quell’uso dell’avverbio ἄλλως, di cui altrove. (5. Aprile. 1824.).

È un grand’errore di quelli che hanno a congetturare o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d’altri, sia nelle cose private sia nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con dati o senza dati, il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza quello che sia più utile a quei tali di risolvere o di fare, più conveniente, più secondo lo stato loro e delle cose, più giusto, più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o determineranno, ovvero fanno e determinano appunto questa o queste cose o l’una di queste in ogni modo. Diamo uno sguardo all’intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli uomini, e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le fanno, ve n’ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime, dannosissime a essi medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a quello che avrebbe risoluto o fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel caso loro. Vedremo che gli uomini il più delle volte non deliberano maturamente quando v’ha bisogno di maturità, non conoscono l’importanza delle cose che hanno a risolvere o a fare, non sospettano nemmeno che sia loro utile o necessario di consultare intorno ad esse, e non entrano affatto in alcuna consulta. Parlo egualmente de’ grandi e de’ piccoli, delle cose pubbliche e delle private, piccole relativamente e grandi. È certissimo che gli affari degli uomini qualunque, che vanno male, non vanno così (se non di rado) senza loro colpa o insufficienza; or come dunque dovrà essere regola per indovinare le opere o risoluzioni loro, il cercare quello che lor sia più utile e conveniente? Il numero o degli sciocchi assolutamente, o degl’inetti ai carichi e alle cose che hanno a maneggiare, benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro carico sono adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle azioni mal prese e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese, sconvenienti al caso, o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le migliori; il numero dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha sempre soverchiato di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed uomini loro contrarii, come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì civili sì militari sì private, e dall’osservazione della vita e avvenimenti giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla probabilità dell’indovinare, conduce chi la segue ad avere cento probabilità per una, contro quella o quelle cose che egli sceglie e quel giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando, è falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel caso proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti fuori di esso, e pensino e sentano e sieno disposti allo stesso modo. Onde ancorchè pognamo in due persone perfetta parità di prudenza, di esperienza, insomma di attitudine a risolvere e fare in un dato caso quello che si conviene, è certissimo che se di queste due persone l’una si troverà nel caso e l’altra fuori considerandolo senza comunicare con quella, il più delle volte la risoluzione o il modo dell’azione dell’una sarà diversissima più o meno da quello che all’altra parrà si fosse convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle abitudini e di mille altre cose anche minime che diversificando gli spiriti (giacchè non si dà spirito perfettamente uguale ad un altro, più che si dieno due fisonomie al tutto conformi), diversificano altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni di uno da quelle di un altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e parità di caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa in casi uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni e circostanze del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e sovente cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre che l’altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si può il carattere, le abitudini, le qualità della data persona, applicarle al caso di cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi ne’ piedi di quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar quello ch’egli è per fare o risolvere, anzi risolvere, per così dire, in vece sua, come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un dato carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in persona di esso. (5. Aprile. 1824.). V. il Guicc. ed. Friburgo. t. 4. p. 106.

L’uomo (per l’amor della vita) ama naturalmente e desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque purchè sia vivamente (la qual vivezza qualunque, non può essere senza positivo diletto, nè sensazione indifferente veramente). Sì il sentire dispiacevolmente come il non sentire sono cose assolutamente penose per lui. E talora è men penosa, anzi più grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la privazion di sensazioni. Se l’uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere si fosse tal sensazione, purchè non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice, perchè la sensazione è così viva, il vivo (non dispiacevole in se) è piacevole all’uomo per se stesso e qualunque ei sia. Dunque l’uomo proverebbe in quel momento un piacere infinito, e quella sensazione, benchè d’altronde indifferente, sarebbe un piacere infinito, quindi perfetto, quindi l’uomo ne saria pago, quindi felice.

Segue dal sopraddetto che universalmente non si dà sensazione indifferente. Questo pensiero si sviluppi. (5. Aprile 1824.). Una sensazione (interna o esterna) è necessariamente per se e in quanto sensazione, o piacevole o dispiacevole, e in quanto sensazione senz’altro, è necessariamente e insitamente ed essenzialmente piacere. (5. Aprile 1824.).

Diminutivi positivati. Ghiotto-glouton co’ derivati, e anche noi ghiottoneria ec. forse dal francese se viceversa glouton non è da ghiottone che noi pur diciamo per ghiotto e potrebbe anche ghiottone venir dal francese. V. gli spagnuoli ec.[a]

Spagn. gloton, glotoneria, glotonear ec.

[Chiudi] Nota che questo diminut. positivato (se è tale) è aggettivo. (6. Aprile. 1824.).

In tanto, gr. ἐν τοσούτῳ, del che altrove. Aggiungi intantochè, fra tanto, tra tanto (Guicc.) infra tanto, in quel tanto ec. E lo spagn. en tanto que (Don Quij.), entre tanto ec. v. i Diz. spagn. V. pur la Crus. e i Diz. franc. (7. Aprile. 1824.). V. p. seg. En este entretanto. D. Quij. Madrid 1765. t. 4. p. 244.

Moggia plur. Lat. modius masc. (7. Aprile. 1824.).

Al detto di moisson, diminutivo positivato di messis, aggiungi i derivati ec. come moissonner, e così ad altri simili diminutivi positivati. (7. Aprile. 1824.).

Chiunque gode molta fama e la merita, è stimato più dagli altri che da se stesso. E così tutti quei che già furono, e lasciarono degnamente agli uomini la lor gloria, sono più stimati che essi non si stimarono. (7. Apr. 1824.).

Alla p. preced. Finattanto, finattantochè, fin tanto, infinoattantochè ec. — ἐς τοσοῦτον ἄχρις ἂν. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 505. V. Forcell. Crus. franc. spagn. Gloss. ec. (7. Apr. 1824.).

Ἔξω per praeter, del che altrove. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 566. τὰ ἄλλα ἔξω τῶν λόγων. (7. Aprile. 1824.).

Il costume latino di servirsi de’ participii in us de’ verbi neutri e anche attivi in significato neutro o attivo, aggettivato, e ridotto anche a dinotar consuetudine e qualità abituale nel soggetto, come tacitus per qui tacet, cautus, qui solet cavere ec. ec., è se non altro una prova che il corrispondente costume tanto proprio della lingua spagnuola e frequente ancora nell’italiana, e non improprio forse della francese, ha esempio nella latina scritta, e quindi probabilmente viene affatto dal latino parlato e volgare, e di lui fu proprio e familiare. (8. Aprile 1824.).

La vita degli orientali e di coloro che vivono ne’ paesi assai caldi è più breve di quella dei popoli che abitano ne’ paesi freddi o temperati. Ma ciò non impedisce che la somma della vita di quelli non sia, non che uguale, ma superiore alla somma della vita di questi. Anzi non per altro è più breve la vita degli orientali se non perchè ella è molto più intensa, tanto che in pari spazio di tempo è maggiore la somma della vita che provano gli orientali che non è quella che provano gli altri popoli. Ora generalmente parlando, si scuopre nella natura quest’ordine che la durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in ragione inversa della sua intensità ed attività. La testuggine, l’elefante e altri animali tardissimi hanno lunghissima vita. I più veloci ed attivi, ancorchè più forti degli altri (come è per es. il cavallo rispetto all’uomo) hanno vita più corta. Ed è ben naturale, perchè quell’attività e intensità di vita importa maggiore rapidità di sviluppo della medesima, e quindi di decadenza. Infatti lo sviluppo sì degli uomini, sì degli animali, sì delle piante ne’ paesi assai caldi è molto più rapido che negli altri. Or dunque considerando queste condizioni fisiche della vita per rapporto al morale, si può ragionevolmente affermare che la sorte di quelli che vivono ne’ paesi assai caldi è preferibile quanto alla felicità a quella degli altri popoli. Primieramente la somma della loro vitalità, quantunque minore nella durata, è però assolutamente maggiore di quella degli altri, presa l’una e l’altra nel totale. Secondariamente, posto ancora che ella fosse uguale, a me par molto preferibile il consumare p. e. in 40 anni una data quantità di vita che il consumarla in 80. Ella riempie i 40, e lascia negli ottanta mille intervalli, gran vuoto, gran freddezza, gran languore. La vita assolutamente non ha nulla di desiderabile sicchè la più lunga sia da preferirsi. Da preferirsi è la meno infelice, e la meno infelice è la più viva. Or la vita degli orientali, pognamola di 40 anni, è molto più viva che quella degli altri, pognamola di 80, quando bene la somma della vivacità dell’una vita e dell’altra sia la stessa. Or questo paragone di climi io lo applico ai tempi, e mettendo gli antichi in luogo de’ popoli di clima caldo e i moderni in cambio de’ popoli di clima freddo, dico che sebben la vita degli antichi era forse generalmente più breve che quella dei moderni, per le turbolenze sociali e i continui pericoli dello stato antico, nondimeno perchè molto più intensa, ella è da preferirsi, contenendo nella sua minore durata maggior somma di vitalità, o quando anche in minore spazio contenesse ugual somma che la moderna in ispazio maggiore. Del che, senza il surriferito esempio, ho discorso particolarmente in altro pensiero. (8. Aprile 1824.). V. p. 4092. e v. la pag. 4069.

Ciascuno, e massimamente gli spiriti più delicati, sensibili e suscettibili, pervenuto a una certa età ha fatto esperienza in se stesso di più e più caratteri. Le circostanze fisiche, morali e intellettuali, cambiandosi continuamente nello spazio della vita di un uomo, e nelle sue diverse età, cambiandosi, dico, per rispetto a lui, cambiano continuamente il suo carattere, di modo che di tempo in tempo egli è uomo veramente nuovo di spirito, come dicono i fisici che di sette in sette anni (se non erro) egli è rinnovato di corpo. Gli uomini sensibili in particolare non solo cambiano carattere e più rapidamente degli altri, ma facilmente e ordinariamente acquistano caratteri contrari tra se, e massime a quel primo carattere che si sviluppò in essi, a quello più conforme alla loro natura, a quello che il primo potè in loro esser chiamato carattere. La coltura dell’intelletto fra l’altre cose cagiona in una persona stessa a proporzione de’ suoi progressi, e coll’andar del tempo, una variazione singolarmente rapida e singolarmente grande. Chi non sa quanto i principii, le opinioni e le persuasioni influiscano e determinino i caratteri degli uomini? Ora ciascuno individuo quando nasce è precisamente, quanto all’intelletto nello stato medesimo in cui fu il primo uomo. Quegl’individui che coll’andar del tempo si sono posti a livello delle cognizioni del nostro tempo, sono necessariamente passati per tutti quegli stati per cui lo spirito umano è passato dal principio del mondo fino al dì d’oggi (almeno per quei gradi per cui egli è passato progredendo e avanzando), e ha sperimentato in se tutti gli avvenimenti dell’intelletto che il genere umano ha sperimentato in tanti secoli quanti sono corsi dalla sua origine insino a ora. La storia del suo intelletto è quella appunto di tutti questi secoli ristretta e compresa in venti o trent’anni di tempo. Laonde da tutti i cambiamenti che il suo intelletto ha provati, cambiamenti che più volte l’hanno portato a persuasioni e stati contrarissimi ai passati, e in ultimo a un sistema di persuasioni ed a uno stato contrarissimo al suo primitivo; da tutti questi cambiamenti, dico, deggiono di necessità essere risultate in lui tante diversità e successivi cambiamenti di carattere, quanti ne sono stati prodotti nelle nazioni e nel genere umano in generale dai diversi principii e opinioni e dal diverso progresso e stato di cognizioni in tutto il tempo che ci è bisognato per portarlo dal suo primitivo stato al presente. (8. Aprile. 1824.). Onde questo tale individuo rinchiude e compendia in se, non solo la storia dello spirito umano, ma quella eziandio de’ caratteri successivi delle nazioni, in quanto essi ebbero origine e dipendenza dalle opinioni e conoscenze, che certo è grandissima e forse la massima parte. (8. Aprile. 1824.).

La maniera familiare che come più volte ho detto, fu necessariamente scelta da’ nostri classici antichi, o necessariamente v’incorsero senz’avvedersene ed anche fuggendola, può ora in parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel gusto dell’antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l’altre cose, perchè quello che allora fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall’usuale, si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che sceglievano e usavano, e sovente anche intendendo, credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi eleganti, onde n’è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere modellate sull’antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale dello stile antico da essi imitato necessariamente ne aveva anche indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e corrispondere ad esse forme che allora erano necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì la familiarità imitata sì quella che adoperavano ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall’usuale, perciò appunto che la familiarità in genere non era e non è più usuale, e l’uso della medesima è proprio degli antichi. Il terzo modo, che sarebbe quello di usar l’antico e il moderno e tutte le risorse della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto, quale è appunto quello di Cicerone nella prosa e di Virgilio nella poesia (stile usato quando la lingua latina era appunto in quelle circostanze e quello stato di capacità in cui è ora la lingua nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e convenevole a una lingua e letteratura già perfetta. (8. Aprile. 1824.).

Bien o mal mirado per que bien o mal mira. Anche noi diciamo in simil senso riguardato, mal riguardato, poco riguardato, ec. e così pur gli spagnuoli altri tali participii in simil senso, notati altrove. Così i latini circumspectus in senso att. o neut. da circumspicio, e cautus da caveo att. ec. (9. Aprile. 1824.).

Εὐθὺς ἐν ἀρχῇ. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 515. (9. Aprile, Venerdì di Passione. Festa di Maria SS. Addolorata. 1824.).

Alla p. 4053. Vedi però i Diz. spagn. buoni, alla voce dueña che mi pare in un luogo del D. Quij. significhi donna, e il Gloss. lat. in domina o domna, e il Forcell. e l’antico francese se hanno nulla in proposito. Del resto non solo etimologicamente ma anche presentemente donna significa pur signora in italiano, e donno, signore, padrone. (10. Aprile. 1824. Sabato di Passione.).

Divertido cuento ec. per que divierte. (13. Apr. 1824.).

Al detto di quisto, chiesto ec. aggiungi requête, ant. requeste. (13. Apr. 1824.).

Couper-κόπτειν, aor. 2. κοπεῖν, co’ derivati, ne’ più de’ quali si omette il τ. (13. Apr. 1824.).

Conforme per conformemente, avv. e preposiz. spagn. e italiano, forse di origine spagnuola. Al detto degli aggettivi usati avverbialmente. (13. Apr. 1824.).

Honrado per onorevole, come in ital. onorato, del che altrove. (13. Apr. 1824.).

Diminutivi positivati. Laurel-laurus. Laurel non è diminutivo in spagnuolo per la forma, ma lo è in lat. V. il Forc. se ha Laurellus.

Abortus-avorton franc. (14. Aprile. Mercordì Santo. 1824.).

Al detto altrove d’ignotus (per innotus) aggiungi ignotitia p. innotitia, di cui v. il Forcell. Vedilo anche in innotus. (15. Aprile. Giovedì Santo. 1824.).

A un giovane sventatello che per iscusarsi di molti errori e cattive riuscite e vergogne e male figure fatte nella società e nel mondo, diceva e ripeteva sovente che la vita è una commedia, replicò un giorno N.N., anche nella commedia è meglio essere applaudito che fischiato, e un commediante che non sappia fare il suo mestiere (professione), all’ultimo si muor di fame. (17. Aprile 1824.).

Le persone avvezze a versarsi sempre al di fuori, esclamano naturalmente anche quando sono solissime, se una mosca le punge, o si versa loro un vaso o si spezza; quelle assuefatte a convivere con se medesime, e ritenersi tutte al di dentro, anche in grande compagnia, se si sentono cogliere da un accidente non aprono bocca per lamentarsi o chiedere aiuto. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.).

Comidos y hebidos, como suele decirse. D. Quij. par. 2. ed. Madrid. 1765. tom.4. p. 169. cioè que han comido y bebido. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.).

Non molto addietro ho notato in questi pensieri p. 4062. segg. la maggior disposizione naturale alla felicità che hanno i popoli di clima assai caldo e gli orientali, rispetto agli altri. Notisi ora che in verità questi erano i climi destinati dalla natura alla specie umana, come si dimostra quanto all’oriente, dalle antiche tradizioni che provano l’origine del genere umano essere stata in quei paesi, secondo il detto da me altrove in più luoghi, e quanto ai climi assai caldi in generale, dall’essere essi i soli in cui l’uomo possa viver nudo, come la natura lo ha posto, e senza altri soccorsi contro gli elementi, di cui la natura l’ha lasciato sfornitissimo, e che in altri paesi gli sono di prima necessità e non pochi nè facili a procacciare, nè insegnati dalla natura, ma bisognosi di molte esperienze, casi ec. La costruzione ec. degli altri animali qualunque, e delle piante, ci fa conoscere chiaramente la natura de’ paesi, de’ luoghi, dell’elemento ec. in cui la natura lo ha destinato a vivere, perchè se in diverso clima, luogo, ec. quella costruzione, quella parte, membro ec. e la forma di esso ec. non gli serve, gli è incomoda ec. non si dubita punto che esso naturalmente non è destinato a vivervi, anzi è destinato a non vivervi. Ora perchè simili argomenti saranno invalidi nell’uomo solo? quasi ei non fosse un figlio della natura, come ogni altra cosa creata, ma di se stesso, come Dio. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.).

Gli uomini governati in pubblico o in privato da altri, e tanto più quanto il governo è più stretto, (i fanciulli, i giovani ec.) accusano sempre, o tendono naturalmente ad accusare de’ loro mali o della mancanza de’ beni, delle noie e scontentezze loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima l’innocenza di questi, e la impossibilità o d’impedire o rimediare a quei mali o di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose con loro. La cagione è che l’uomo essendo sempre infelice, naturalmente tende ad incolparne altresì sempre non la natura delle cose e degli uomini, molto meno ad astenersi dall’incolpare alcuno, ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa particolare in cui possa sfogar l’amarezza che gli cagionano i suoi mali, e che egli possa per cagione di questi fare oggetto e di odio e di querele, le quali sarebbero assai men dolci di quello che sono a chi soffre se non cadessero contro alcuno riputato in colpa del suo soffrire. Questa naturale tendenza opera poi che il misero si persuade anche effettivamente di quello che egli immagina, e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli ha immaginato i nomi e le persone di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in mancanza d’altri oggetti, rivolgiamo seriamente l’odio e le querele delle nostre sventure. Ma molto più dolce fu agli antichi ed è a’ moderni l’incolpare qualche cosa sensibile, e massime qualche altro uomo, non solo per la maggior verisimiglianza, e quindi facilità di persuaderci della sua colpa, che è quello che ci bisogna, ma più ancora perchè l’odio e le querele sono più dolci quando si rivolgono sopra cose presenti che ne possano essere testimoni, e sottoposte alla vendetta che noi con esso odio vano e con esse vane querele intendiamo fare di loro. Massimamente poi è dolce l’odio e il lamento quando è rivolto sui nostri simili, sì per altre cagioni, sì perchè la colpa non può veramente appartenere se non a esseri intelligenti. Quelli che ci governano sono da noi facilmente scelti a far questa persona di rei de’ nostri mali, che non hanno altro reo manifesto o accusabile, e a servir di soggetto e scopo della vana vendetta che ci è dolce fare de’ medesimi mali. Essi sono in fatti in tali casi i più adattati, e quelli di cui ci possiamo dolere esteriormente e interiormente con più di verisimilitudine. Quindi è che chi governa in pubblico o in privato è sempre oggetto d’odio e di querele de’ governati. Gli uomini sono sempre scontenti perchè sono sempre infelici. Perciò sono scontenti del loro stato, perciò medesimo di chi li governa. (Essi sentono e sanno bene di essere infelici, di patire, di non godere, e in ciò non s’ingannano. Essi pensano aver diritto di esser felici, di godere, di non patire, e in ciò ancora non avrebbero il torto, se non fosse che in fatto questo che essi pretendono è, non che altro, impossibile.) E come non si può fare che gli uomini sieno mai felici, e però nè anche che sieno contenti, così niun governante nè pubblico nè privato, qualunque amore abbia a’ soggetti, qualunque cura del loro bene, qualunque sollecitudine di scamparli o sollevarli dai mali, qualunque merito insomma verso di loro, non può mai ragionevolmente sperare che essi non l’odino e non lo querelino, anche i più savi, perchè è natura nell’uomo il lagnarsi di qualcuno, quasi altrettanto che l’essere infelice, e questo qualcuno è per l’ordinario e molto naturalmente quello che li governa. Però circa il governare non v’ha pur troppo che due partiti veramente savi, o astenersi dal governo, sia pubblico sia privato, o amministrarlo totalmente a vantaggio proprio e non de’ governati. (17. Aprile. 1824. Sabato Santo.).

Diminutivi positivati. Piscis-poisson. Notisi che de’ diminutivi positivati delle lingue moderne altri hanno la diminuzione latina e questa o sonante diminuzione anche nelle lingue moderne o no, altre la diminuzione moderna affatto e non latina (18. Aprile. Pasqua. 1824.) e questa talora è diminuzione in quella tal lingua, talora in essa no, ma in altre moderne o in altra, sia sorella sia straniera, e sia che quella tal parola si trovi veramente in quest’altra lingua o non vi si trovi più, almeno con quella diminuzione. P. e. potrebb’essere che alcune voci francesi in in ine ec. in cui questa desinenza è additizia, perchè esse parole si trovano senza tal desinenza in latino o in italiano ec. sieno originariamente diminutivi positivati presi dall’italiano, quando bene in questo non si trovino più, almeno colla diminuzione, nè positivata nè veramente diminutiva. (19. Aprile 1824.). Così dicasi de’ verbi, ec.

Alla p. 4044. Ferdinando il Cattolico non solamente al tempo della lega di Cambrai, ma anche più anni dopo, e sciolta già la lega, seguitò sempre a spacciare di volere andar contro gl’infedeli, non pur Mori d’Affrica, come diceva altresì, ma eziandio contro i turchi a Gerusalemme. Vedi Guicc. t. 3. p. 109. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1824.). Del resto v. ancora ivi p. 128. fine. V. p. 4081.

Senza per oltre (vedi i franc. e gli spagn. i quali dicono anche nel senso stesso a men de, oltre di, e viene a essere il medesimo). V. p. 4081. — Così i greci ἄνευ. V. Lucian. Ver. Hist. l. 1. opp. 1687. p. 647. t. i e lo Scap. in ἄνευ e ne’ suoi sinonimi e il Forcell. in absque che si usa per eccetto, ma ciò non è precisamente il medesimo. (19. Aprile 1824. Lunedì di Pasqua.).

Diminutivi positivati. ῥάφανος, ῥαφανὶς ίδος co’ suoi composti e derivati, i quali vedi nello Scap. che dice ῥαφανὶς per ῥάφανος essere attico. In tal caso la positivazione de’ diminutivi sarebbe anche propria dell’attico in particolare. I latini dicono rhaphanus. Che ῥαφανὶς sia veramente positivato, v. Luciano Ver. Hist. l. i opp. 1687. t. i. p. 649. ῥαφανίδας ὑπερμεγέθεις. E notabile che noi che abbiamo preso dal latino rafano, e più volgarmente benchè corrottamente ravano, l’abbiamo anche come gli attici diminuito e positivato, facendone ravanello, che vale in tutto lo stesso che le due voci suddette, ed è molto più comune di ambedue loro, anzi ormai il solo in uso, almeno nel dir familiare e parlato. V. gli spagnuoli e i francesi. (19. Apr. 1824.).

Alla p. 4043. Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co’ sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co’ sentimenti formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d’ogni cosa. E generalmente non v’ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà! Tant’è, il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un’imitazione della insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore. Onde è piacevole l’esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e senz’altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario. Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda, qualche turbamento, e ciò annesso cagionato e dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile Lunedì di Pasqua 1824.). Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichè naturalmente priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non v’è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). Massimamente poi quando da una parte colla civilizzazione è accresciuta la vita interna, la finezza delle facoltà dell’anima e del sentimento, e quindi l’amor proprio e il desiderio della felicità, da altra parte moltiplicata l’impossibilità di conseguirla, i mali fisici e morali, e finalmente diminuita l’occupazione, l’azione fisica, la distrazione viva e continua. (20. Apr. 1824.).

Percussare da percutio. Crusca. V. il Gloss. (20. Apr. 1824.).

Quelli che non hanno bisogni sono ordinariamente molto più bisognosi di coloro che ne hanno. Uno de’ grandissimi e principalissimi bisogni dell’uomo è quello di occupare la vita. Questo è altrettanto reale quanto qualunque di quelli a’ quali occupandola si provvede; anzi è più reale, e maggiore eziandio assai, perchè il soddisfare a questo bisogno è l’unico o il principal mezzo di far la vita meno infelice che sia possibile, laddove il soddisfare a qualsivoglia di quegli altri per se, non è che un mezzo di mantenere la vita, la qual per se stessa nulla importa. Importa sibbene la felicità, o posta la vita, il menarla meno infelicemente che si possa. Ora al detto massimo bisogno, che è continuo ed inseparabile dalla vita umana, quelli che non hanno bisogni, o che per dir meglio non sono necessitati di provvedere essi medesimi a’ bisogni che hanno, gli suppliscono molto più difficilmente, e più di rado, e per lo più per molto minore spazio della loro vita, e in generale molto più incompletamente di quelli che hanno a provvedere da se a’ propri bisogni naturali e della vita. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.).

Cuerpo mal sustentado y peor comido . D. Quij. ed. Madrid 1765. t. 4. p. 220. Muger parida cioè que ha parido. ib. p. 226. (21. Apr. 1824.).

Alla p. 4053. Nel Secolo di Luigi 14. di Voltaire ed. della Haye 1752. tome 2. fine del cap. 33. du jansénisme, p. 254. trovo tombeau e subito dopo tombe due volte, collo stessissimo senso di tombeau. (21. Apr. 1824.).

A proposito del detto altrove circa i semidei dimostranti l’alta opinione che gli antichi avevano della natura umana, osservisi con quanta facilità si divinizzavano appresso i romani gl’imperatori o altri della loro famiglia, o loro liberti e favoriti, o vivi ancora, o morti al tempo e sotto gli occhi di quelli che li divinizzavano, anzi allora allora[a]

Anche Cesare Dittat. fu divinizzato, con flamine ec. ec., dopo la morte almeno. V. gli storici e Sveton. in fine della sua vita.

[Chiudi]. Non dirò già io che nè quelli che li divinizzavano, nè le altre persone intelligenti, nè forse anche la più ignorante feccia del popolo e la più superstiziosa, massime in quei tempi già illuminati e disingannati in tante cose (sebbene anche a quei tempi v’aveano persone, eziandio tra’ nobili e senatori, di maravigliosa superstizione, come e più che non fu Senofonte, spirito sì colto e istruito, fra’ greci in tempi simili) credessero veramente alla divinità di quei tali imperatori o parenti o favoriti di essi, vivi o morti. Ma quest’uso solo di divinizzare delle persone contemporanee, cosa che poichè era tanto ricercata da un canto dall’ambizione, dall’altro dall’adulazione, non doveva essere al tutto senza qualche effetto di persuasione in qualche parte del popolo, dimostra quanto poca distanza e diversità di natura ponessero gli antichi fra il divino e l’umano, senza di che non sarebbe stato possibile che una tale assurdità fosse pur venuta loro nella mente. Certo nè anche a’ più barbari, ignoranti e superstiziosi tempi del Cristianesimo, niuno pensò nè avrebbe potuto pensare o di far credere ad alcuno o solamente di dire per adulazione o per altro qualunque motivo che una persona non solo contemporanea, non solo viva, ma morta ed antica e famosa pure per santità e per qualsivoglia virtù o dignità, potenza ed opere vere o credute, fosse stato trasformato o dovesse trasformarsi, non dirò nella natura divina, ma neanche nell’angelica. E qual Cristiano avrebbe osato fare sopra qualsivoglia Principe Cristiano o no, fosse stato anche molto più grande e formidabile e più despotico di Augusto, ed esso molto più adulatore e più vile di tutti gli uomini di quel secolo, un distico simile a quello attribuito a Virgilio: Nocte pluit tota ec.? Qual Principe Cristiano sarebbesi fatto rappresentare cogli attributi non dirò dell’Eterno Padre o del Figliuolo, ma d’un Angelo o di un Apostolo, come gl’Imperatori, i loro parenti, i loro favoriti, si facevano scolpire, dipingere ec. o erano dipinti e scolpiti per adulazione, non pur dopo morte, ma in vita, cogli attributi e sotto la forma di Ercole, (anche una donna è nel Museo Vaticano rappresentata in istatua sotto questa forma, cioè con clava, pelle di leone ec.) di Venere, di Mercurio e simili. Lascio i templi, gl’idoli ed altari eretti a’ viventi appo i Romani, con culto sacrifizi e onori regolari e giornalieri al tutto divini, con flamine apposta destinato al particolar culto di quella divinità ancor vivente (flamen augustalis ec.), le pene decretate ed eseguite contro i bestemmiatori o violatori qualunque d’esse divinità morte o vive, come rei di religione, non di politica, le accuse e giudizi contro gl’incolpati di tali delitti ec. ec. Anche Alessandro si fece passare per figlio di Giove Ammone, e pare che da qualche parte del popolaccio fosse creduto, non solo de’ barbari, ma de’ greci e macedoni, ed è ben verisimile, o certo egli usò questa finzione come un mezzo politico per farsi rispettare e temere ec. e tenere in dovere ec. onde mostra che egli giudicò dovergli essere creduto, e ciò dai greci principalmente e dai macedoni, poichè i barbari non riconosceano gli stessi déi. Vedi in Luciano tra i Diall. de’ Morti, quello di Alessandro e Diogene, Alessandro e Filippo, Alessandro, Annibale, Scipione e Minosse. (21. Aprile. 1824.). E certo la Grecia allora non era una sciocca nè meno illuminata che fosse Roma al tempo degl’Imperatori (21. Apr. 1824.).

Diminutivi positivati. Non solo in franc. pistolet per pistola, ma anche in ispagn. pistolete, forse dal franc. poichè in ispagn. ete non è diminuzione. (22. Aprile. 1824.). Si dice anche in ispagn. pistola. D. Quij. ed. Madrid 1765. t. 4. p. 237-238. dove poco avanti, p. 235. trovi pistolete. (23. Aprile 1824.).

Alla p. 3106. Niuna cosa è forse più atta di questa a mostrare la differenza del pensar moderno e del pensare antico (massime molto antico, al qual tempo appartiene Frinico e più che mai Omero) intorno a questi punti di cui qui discorriamo, differenza che tiene strettamente alla diversità generale dello stato dello spirito umano a’ tempi antichi e a’ moderni. Quando negli ultimi anni, dopo il ritorno de’ Borboni, fu rappresentata a Parigi la Tragedia del Vespro Siciliano, tragedia che ebbe un successo distinto, qual mai o francese o straniero, pensò ad accusare il poeta di poco amor nazionale o di mancamento alcuno verso la patria, per aver commosso o cercato di commuovere sopra una sventura de’ suoi nazionali seguìta per opera di stranieri? Anzi chi non riputò e questo proposito e la scelta del soggetto nazionalissima e degnissima quanto qualunque altra di un buon cittadino? perocchè il poeta non volle far piangere sopra i nemici della Francia, ma sopra i Francesi sventurati. Or questo appunto fece Frinico, il quale non commosse le lagrime sopra i barbari nè per li barbari, ma sopra i greci e per li greci. E per questo medesimo fu condannato, e sarebbe stato applaudito per lo contrario, e stimato buon cittadino, se avesse fatto piangere e rivolta la compassione e pietà degli uditori sopra i nemici della nazione, come fece Eschilo ne’ Persiani tragedia che ha per soggetto e per materia unica di pietà e di terrore i mali de’ nemici della Grecia, nè però fu condannata da alcuno, nè stimata altro che nazionalissima. Tale appunto nè più nè meno si è il caso della Iliade, che fa piangere quasi unicamente o certo principalmente sopra e per li troiani nemici de’ suoi. (23. Aprile. 1824.).

Nel Dialogo della Natura e dell’Anima ho considerato come la ragione e l’immaginazione e in somma le facoltà mentali eccellenti nell’uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno causa di non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue forze naturali, come fanno tutto dì e senza difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte l’altre infermità. Non è egli chiaro che ciò procede dal non aver essi in se medesimi niuno impedimento a usare tutte le loro forze naturali? che i pazzi hanno più forza degli altri, solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior parte che gli altri non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti dell’uomo, in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute l’uomo per i progressi del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per essere impedito a usare quelle che gli rimangono! quanto è più forte l’uomo, anche corrotto e indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi lo dimostrano, che sovente superano di forze fisiche persone molto più robuste di loro, ed animali creduti ordinariamente più forti dell’uomo a corpo a corpo. L’ubbriachezza accresce le forze non solo radicalmente, ma eziandio negativamente per l’uso, che ella impedisce o turba, della ragione. Senza un’assoluta mancanza o sospensione di quest’uso, niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che hanno o piuttosto mostrano di avere a proporzione molta più forza de’ loro contrari), non usa, nè anche ne’ maggiori bisogni, ne’ maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi risparmiano infinitamente minor parte delle loro forze, anche ne’ menomi pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non risparmia l’uomo, anche il più disperato ec., ne’ maggiori. (23. Apr. 1824.). Il detto de’ pazzi dicasi proporzionatamente de’ disperati. V. p. 4090.

Alla p. 4073. capoverso 2. Così i franc. à moins que... ne, che vale eccetto se... non ec. V. i Diz. (24. Aprile. Sabato in Albis. 1824.).

Alla p. 4073. capoverso 1. È noto che per lunghissimo tempo, almeno sino alla fine del 400 e ai principii del 500, si continuò in Ispagna, in Germania, e credo in tutta la Cristianità (che allora era o tutta o quasi tutta Cattolica) a fare questue annue per le crociate da farsi quando che fosse, le quali questue si chiamavano anche crociate, e montavano a grossissime somme (considerata specialmente la maggiore rarità della moneta a quei tempi), che i Pontefici, a cui disposizione pare che esse rimanessero, concedevano talvolta, ma con grandissime difficultà (e non di rado lo negavano) ai rispettivi Re di potere usare ne’ loro bisogni, massime quando erano loro collegati aperti od occulti, favoriti, per qualche impresa che premeva al Pontefice ec.[a]

V. Saavedra Idea de un Principe politico Christiano, Amst. 1659. ap. Iansson Iuniorem. empresa 25. p. 225-6.

[Chiudi] Così il Guicc. più volte, e fra l’altre t. 3. p. 143. (24. Aprile. Sabato in Albis. 1824.). Io non so però bene se fossero questue o taglie determinate, e forzose, con obblighi di coscienza, o altro. V. gli Storici. (24. Aprile. 1824.). V. p. 4083.

A proposito dei verbi in are fatti da quelli della 3., del che altrove, v. il Meurs. t. 5. opp. p. 419. dove però erra deducendo da vellicare che v’abbia a essere stato un vellare, mentre quello è frequentativo di vellere (o diminutivo ec.) ed è della prima, perchè tutti i frequentativi o diminutivi di questo genere, da qualunque congiugazione di verbi sieno fatti, sono della 1.ma (24. Apr. Sabato in Albis. 1824.).

Diminutivi positivati. Perpétuel, perpétuellement. Continuel, continuellement. Si dice anche continuement o continûment, e c ontinu. V. i Diz. Nota che questi sono diminutivi aggettivi. Struzzo struzzolo. Struffo strufolo. (25. Apr. 1824. Domenica in Albis.).

Apprendre plusieurs langues médiocrement, c’est le fruit du travail de quelques années; parler purement et éloquemment la sienne c’est le travail de toute la vie. Così dice Voltaire, la cui lingua pur non era che la francese, riputata la più facile delle lingue antiche e moderne. Histoire du Siècle de Louis XIV. chap. 36. Écrivains, art. de Longueruë. (à la Haye 1752-3. t. 3. dans les additions. p. 195-196.). (26. Aprile. 1824.).

Ἐν τοσούτῳ per intanto, del che altrove. Luciano opp. t. i p. 686. verso il fine. Simile è la frase ἐν ὅσῳ δὲ ταῦτα ἐλογιζόμεθα , ib. p. 692. ed. Amst. 1687. (26. Apr. 1824.). En tanto que. D. Quij. Madrid 1765. t. 4. p. 281.

Anche i latini nominavano be ce ec. non bi ci, come confessa il Corticelli nel principio della Gramm. Toscana, il qual vedi, e v. anche il Buommattei e gli altri grammatici latini italiani francesi spagnuoli ec. (26. Apr. 1824.).

Ser-v-ente — ser-g-ente. V. la Crus. Ser-v-ant — ser-g-ent. V. i Diz. franc. (26. Apr. 1824.).

Ἐκτὸς εἰ μὴ, della qual frase (simile all’italiana) altrove Luciano, opp. 1687. t. 1. p. 700. mezzo circa. (27. Aprile. 1824.). p. 701. princ.

Compagnon, di cui altrove è anche antico italiano e spagnuolo (D. Quij.) per compagno, forse l’uno e l’altro dal francese. (28. Aprile 1824.).

Exhaustare. Forc. in Exhaustant. (28. Apr. 1824.).

Μεταξὺ per nondimeno, con tutto ciò, al contrario, vedilo in Luciano nel Tirannicida, poco sotto il principio, opp. 1687. t. i. p. 694. fine. Questo significato è ignoto allo Scapula. L’interprete lo traduce interim, che è il suo proprio, ma qui non ha che fare. Interim Interea non hanno mai questo senso nel Forcell. Puoi vedere il Gloss. Certo è che in franc. cependant cioè μεταξὺ si adopra appunto nel senso ancora di nondimeno. Onde corrottamente gl’italiani moderni dicono e scrivono intanto, frattanto per nondimeno. V. gli Spagnuoli. (29. Apr. 1824.).

Alla p. 4081. V. pure il Guicc. 3. 216. e che cosa fosse la decima di cui quivi parla, vedilo ib. p. 96. 209. 254. (30. Aprile 1824.). V. pure il Guicc. 3. 248-53. 395. 397./4. 154. 172-4.

Ἐξ ἀρχῆς εὐθὺς. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 728. (30. Apr. 1824.).

Al detto altrove circa il nostro uso italiano di adoperare pleonasticamente e per idiotismo e grazia di lingua il pronome si, mi, ti, dativo, uso che abbiamo pur trovato nell’antico e familiare latino, aggiungi che noi italiani adoperiamo detto pronome in molti verbi neutri, o attivi, che quando sono congiunti con esso, mal si chiamano da’ grammatici e vocabolaristi, neutri passivi, come dimenticare che anche si dice dimenticarsi col genitivo o accusativo o col che ec., immaginare che anche si dice immaginarsi coll’accusat. o col che ec. Questi verbi col si che sono moltissimi, non sono punto neutri passivi, perchè il si in essi non è accusativo, e però non indica passione nè transizione dell’azione nel suggetto stesso che la fa, ma è dativo e assolutamente ridondante per grazia di lingua, come in lat. il sibi, onde essi verbi col si, restano quali sono senza di esso, neutri assoluti o attivi, e non sono neutri passivi più di quello che sia neutro passivo andarsi o andarsene, starsi o starsene e simili. E però quando i detti verbi sieno attivi, accoppiati col si, non debbono, p. e. nel più che perfetto, fare io me l’era immaginato, come è regola de’ neutri e de’ neutri passivi, ma io me lo aveva immaginato, io me lo aveva dimenticato, perchè quivi il verbo è tanto attivo quanto se senza il pronome si, mi, ti, che nulla altera e nulla vale in questi casi, si dicesse io l’aveva dimenticato ec. E così in fatti scrivono i buoni scrittori, cioè io me lo aveva immaginato ec. e così si dee scrivere, nè più nè meno che in quei verbi attivi in cui il pronome si, ti, mi ha vero significato, come p. e. io mi avea fabbricata una casa, cioè avea fabbricata una casa a me. Ma moltissime e forse le più volte sbagliano in questo anche gl’intendenti, scrivendo io me l’era immaginato. E non è maraviglia, perchè similmente sogliono per lo più scrivere io m’era fabbricata una casa, come se fabbricarsi fosse qui neutro passivo, quando è manifesto e fuori di controversia, che è assolutissimo attivo come fabbricare, essendo il mi dativo non accusativo, e lo stesso che si dicesse io gli avea fabbricata una casa, che certo niuno direbbe nè dice, nemmeno i più idioti, io gli era fabbricata. Del resto la detta ridondanza del si, mi, ti, dativo, credo sia anche comune in genere ai francesi e agli spagnuoli (30. Aprile 1824.). V. p. 4098.

Come la fisonomia degli uomini, e animali sia determinata dagli occhi, secondo il detto altrove, osserva che se tu disegni un volto umano o animalesco e non vi poni gli occhi, tu non vedi punto che fisonomia abbia quel volto, e appena senti (se ben conosci) che sia un volto. Così i ritratti levati dall’ombra in profilo non paiono ritratti finchè non vi si aggiunga convenientemente quello che dall’ombra non si può ricavare, dico l’occhio. Al contrario se ponendovi gli occhi, lasci qualche altro membro, tu senti benissimo che quello è un volto e ne comprendi la fisonomia; solamente ti parrà mostruosa, ma sempre ti riuscirà un volto e una fisonomia. E così dico a proporzione, del disegnare o accennar gli occhi più o meno imperfettamente, paragonando l’effetto di questa imperfezione in ordine al determinar la fisonomia, coll’effetto di una simile imperfezione in altra qualunque parte del volto. (30. Aprile 1824.).

Παρ' ὀλίγον , fere Lucian. opp. 1687. t. i. p. 718. V. i Less. per poco nel senso stesso. (1. Maggio. 1824.).

Ignominia per innominia. Come ignotus per innotus ec. del che altrove. (2. Maggio. 1824. Domenica.).

Nascere per accadere del che altrove. 3 Guicc. 3. 255. (2. Maggio. 1824. Domenica.).

Implicito as. Vedi Forc. (2. Mag. 1824.).

Che da’ partic. pass. della prima si facciano i continuativi o frequentativi in itare piuttosto che in atare, non dee parer maraviglia quando si consideri l’uso lat. di scambiare per regola l’a in i breve, in tante altre cose, come ne’ composti (facio jacio — conficio, conijcio ec.) ec. Oltre che anche nella prima v’ha molti supini e participii passati in itus, de’ quali altrove, come domitus ec. (2. Mag. Domenica. 1824.). Anche l’ae in i. Ae-quus in-i-quus.

En tanto que. D. Quijote ed. Madrid 1765. t. 4. p. 325. 334. più volte. (4. Maggio. 1824.).

Il verbo stare, che ha tanta relazione al verbo esse per l’uso, pel significato, alcune volte sinonimo ec. che in italiano supplisce col suo participio al difetto del verbo essere, e spesso si usa altresì, come anche più nello spagnuolo, in luogo di questo verbo, ec. non ha tuttavia nessunissima relazione grammaticale con lui, senza la mia osservazione che lo fa derivare da un antico participio o supino di sum. Similmente in greco ἵστημι, στάω, ec. che in se, e ne’ loro composti e derivati, e nel lat. sisto che ne deriva, e suoi composti, come exsisto, subsisto, exsistentia ec. e nella voce ὑπόστασις (substantia, subsistentia ec.), ha tanta relazione col verbo essere, non ha alcuna attinenza grammaticale con lui, senza la mia osservazione che lo fa derivare dal lat. sto, derivato da sum. Anche i composti e derivati di sto (come exsto, exstantia, substantia, substantivus, substo ec. ec.) manifestano nel significato ec. grandissima relazione col verbo essere. (4. Maggio. 1824.).

g omire-v omire. Crus. (6. Maggio. 1824.). g olpe co’ derivati, composti ec.

Gomita plur. di Gomito. (6. Maggio. 1824.).

Fello-fellico as, fellito as. (7. Maggio. 1824.).

En tanto que. D. Quij. Madrid. 1765. t. 4. p. 315. titolo. (9. Maggio. Domenica. 1824.). Ἐν τοσούτῳ. Lucian. opp. 1687. i .777. fin.

Enquérir, s’enquérir (inquirere, enquirir, inchiedere) — enquêter, s’enquêter (quasi inquisitare, inchiestare), enquête (inchiesta, come requête richiesta), enquêteur (inquisitor, inchieditore), enquérant, enquis participio. Riferiscasi al detto altrove in proposito di quaeritare, quaesitus, quisto ec. (10. Maggio. 1824.).

Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta che per il piacere, poichè non è fatta se non per la felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perchè manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura? (11. Maggio. 1824.).

L’infinito in luogo dell’imperativo, del che ho detto altrove, si usa in greco massimamente colla negazione, il che è al tutto conforme all’uso italiano. Vedi per es. alcuni pseudoracoli in versi nel Pseudomantis di Luciano, opp. 1687. t. i pag. 765. lin. 14. 28. 778. fin. in due de’ quali luoghi notisi il nominativo coll’infinito, come in italiano. (12. Maggio. 1824.).

Bien razonado, cioè que razona bien. Cervantes Novelas exemplares. Milan. p. 2. (13. Maggio. 1824.).

Malheureux per scellerato e peggio ancora, cioè aggiuntovi il disprezzo. Aggiungasi al detto altrove in questo proposito. (14. Maggio. 1824.).

Affidé cioè fidato per fido, fedele. Aggiungasi al detto altrove sui participii aggettivati o sostantivati, come anche affidé talora è sostantivo. (14. Maggio. 1824.).

Ai frequentatativi in esso altrove notati, aggiungi petesso o petisso da peto, del quale v. Forcell. aggiungendo a’ suoi esempi due che si trovano nel lungo frammento di Cicerone de suo Consulatu, che sta nel primo de Divinat. , i quali esempi dimostrano pur la forza frequentativa di petesso. (15. Maggio. 1824.).

Nei frammenti delle poesie di Cicerone massime in quelli delle sue traduzioni di Arato, che si trovano principalmente citati da lui, come nei libri de Divinat. ec., sono abbondantissimi i composti, e in particolare quelli fatti di più nomi, alla greca (come mollipes), gran parte de’ quali, se non la massima, non debbono avere esempio anteriore, e mostrano essere coniati da lui ad esempio del greco, e forse per corrispondere a quelli appunto che traduceva. (15. Maggio. 1824.).

Εὐθὺς ἐν ἀρχῇ τοῦ λόγου. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 887. (15. Maggio. 1824.).

Diminutivi positivati. Ranunculus (onde ranocchio, grénouille ec. di cui altrove). Vedine la definizione nel Forcell. (15. Maggio. 1824.).

Ai composti di jugare notati altrove, aggiungi seiugare, cioè seiungere. (17. Maggio. 1824.).

Clepo is psi ptum — κλέπτω, quasi clepto as da cleptum di clepo. Il caso è al tutto simile a quel di apo-aptum-apto-ἅπτω, di cui lungamente altrove, eccetto che clepto lat. non si conosce (è però ben verisimile), e viceversa clepo è più noto e certo di apo benchè parimente antiquato. Avvi anche clepso is, se è vero. Vedi Forcell. (17. Maggio. 1824.). V. pag. 4115.

Il diminuimento spagnuolo in ico ica dee venire dal lat. iculus, icula, iculum, come ho detto altrove di altre diminuzioni spagnuole italiane francesi (17. Maggio. 1824.).

Cosa cioè causa per res. Uso proprio di tutte tre le lingue figlie. V. Forc. in Causa se ha nulla; il Gloss. ec. Anche causa si dice in italiano e in francese ec. spessissime volte per res, come la causa pubblica, in causa propria, giovava alla sua causa (rei suae o rebus suis), e nel Guicciardini è frequente questo parlare. (17. Magg. 1824.). Vedi la pag. 4294.

Premo-pressum-presser, pressare co’ derivati. Aggiungilo al detto altrove de’ composti oppressare, soppressare ec. e v. gli spagnuoli. (17. Magg. 1824.).

Marceo, ant. marcitum; marcire marcito; marchito spag. — marchitarse, marchitable. (18. maggio. 1824.).

Αὐτίκα nel modo e senso dello spagnuolo luego, del che altrove. Luciano opp. 1687. t. i. p. 897. ἐν ἀρχῇ μὲν ἐυθὺ τοῦ βίου ib. (18. Maggio. 1824.).

Altro per niuno, del che altrove. Senz’altro mezzo. Speroni Dialoghi, Ven. 1596. p. 275. verso il fine. (20. Maggio. 1824.). Nel Petrarca Canz. Una donna più bella ec. strofe 3. Altro volere o disvoler m’è tolto ; altro sta per alcuna cosa, nulla, quidquam. (21. Maggio 1824.).

Si riprende l’uomo che non sia mai contento del suo stato. Ma in vero questo non è che la sua natura sia incontentabile, ma incapace di esser felice. Se fossero veramente felici, il povero, il ricco, il Re, il suddito si contenterebbero egualmente del loro stato, e l’uomo sarebbe contento come possa essere qualunque altra creatura, perch’egli è altrettanto contentabile. (20. Maggio. 1824.).

Rodo-rosum-rosicchiare, rosecchiare, rosicare (volg.). Frequentativo o diminutivo. (20. Maggio. 1824.).

Alla p. 4081. L’uomo sarebbe onnipotente se potesse esser disperato tutta la sua vita, o almeno per lungo tempo, cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse durare. (21. Maggio. 1824.).

S’è veduto altrove come la irregolarità e i vizi palpabili delle ortografie straniere vengano in gran parte dall’aver voluto accomodare le loro scritture alla latina. Ora egli è pur curioso che gli stranieri vogliano poi pronunziare la scrittura latina nel modo in cui pronunziano la propria. Questa non corrisponde alla parola pronunziata perchè l’hanno voluta scrivere alla latina, e le parole latine le vogliono poi pronunziare colla stessa differenza dalla scrittura, che usano nel pronunziar le loro parole, perchè sono male scritte. Ma se esse sono male scritte, le latine sono scritte bene; però s’hanno a pronunziar come sono scritte e non altrimenti; e gli stranieri mostrano di non ricordarsi che essi non pronunziano diversamente da quel che scrivono, se non perchè vollero scrivere alla latina, e che l’origine di questa differenza tra il loro scritto e il parlato, e della loro scrittura falsa, fu l’aver voluto scrivere alla latina mentre parlavano in altro modo, e l’aver voluto seguitare materialmente la scrittura latina, non falsa ma vera. Ora avendola malamente voluta prendere per modello, e con ciò falsificata la loro scrittura, pretendono poi per questa cagione medesima che quella sia falsa come la loro, e perchè la loro è falsa perciocchè segue quella; il che è ben lepido. (21. Maggio. 1824.). Quelli poi che non hanno tolta l’ortografia loro da’ latini (sebben tutti in parte l’han tolta o immediatamente o mediatamente), e quelli che l’han tolta, in quelle cose in cui la loro non deriva da quella, ma è pur viziosa manifestamente perchè ripugna al lor proprio alfabeto, tralascia lettere e sillabe che s’hanno a profferire, ne scrive che non s’hanno a pronunziare; come mai, dico, questi tali hanno da credere che l’ortografia latina sia e viziosa perchè la loro lo è, e macchiata di quei vizi appunto che ha la loro, diversissimi poi in ciascuna, di modo che ciascuna nazione straniera pronunzia il latino diversamente? (21. Mag. 1824.).

Alla p. 4064. Da questo ragionamento segue che la maggior parte degli altri animali (poichè la vita naturale dell’uomo è delle più lunghe, e il suo sviluppo corporale è de’ più tardi)[a]

Similm. discorrasi delle donne, in proporzione ec.

[Chiudi] sono anche per questa parte naturalmente più felici di noi, tanto più quanto il loro sviluppo è più rapido, al che corrisponde in ragion diretta la brevità della vita, perchè il Buffon osserva ch’ella è tanto più breve quanto più rapida è la vegetazione dell’animale (s’intende del genere, e spesso anche degl’individui rispetto al genere) l’accrescimento del suo corpo e facoltà, le sue funzioni animali per conseguenza, e il giungere allo stato di perfezione e maturità; e viceversa. Questo si osserva per lo meno in quasi tutti i generi anche vegetali. (Buffon, nel capitolo, se non erro, della Vecchiezza). Ond’è che p. e. i cavalli e poi di mano in mano gli altri di sviluppo più rapido, sino a quegl’insetti che non vivono più d’un giorno (v. il mio Dial. d’un Fisico e di un Metafisico) sieno tutti di mano in mano più e più disposti naturalmente alla felicità che non è l’uomo, nonostante che la brevità della vita loro sia nella stessa proporzione; la qual brevità o lunghezza non aggiunge e non toglie nè cangia un apice nella felicità d’alcun genere di animali (nè anche negl’individui), come ho dimostrato nel Dial. succitato e nel pensiero a cui questo si riferisce. (21. Maggio. 1824.).

Le mulina. Crus. e Guicc. t. 3. p. 361. bis. (23. Maggio. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Sciurus- écureuil (ant. escureuil da sciuriculus o altro simile), schiratto (Pozzi nel Bertoldo; noi volgarmente schiriatto) diminutivo o disprezzativo, scoiatto (Pulci nella Crus.), scoiattolo sopraddiminutivo, o sopraddisprezzativo. Gli spagnuoli harda, hardilla. (23. Maggio. Domenica. 1824.).

En tanto in ispagnuolo (del che altrove) o spesso o sempre vuol dire infino a tanto, come nelle Novelas exemplares di Cervantes p. 79. ediz. citata alcuni pensieri più sopra. (23. Maggio. Domenica. 1824.). Così noi mentre per finchè.

Retinere per ricordarsi, come in ital. ec. ritenere. Così anche il suo continuativo retentare sta espressamente per ricordarsi in un luogo di Cic. de Divinat. l. 2. c. 29. tradotto da Omero, il quale vedi, Il. 2 v. 301. (23. Maggio. 1824. Domenica.).

Inconsideratus per non considerans, qui considerare non solet. Vedi Forcell. e Cic. de Divinat. 2. c. 27. Così consideratus nel senso contrario. V. Forcellini . (23. Maggio. Domenica. 1824.).

Cieo cies civi citum (diverso da cio iis ivi itum)[a]

Neo nes nevi netum.

[Chiudi] co’ suoi composti, aggiungasi ai verbi della seconda che hanno il perfetto in vi, e il supino in itum breve, de’ quali altrove. E v. il Forcell. in cieo fine. (27. Maggio. Festa dell’Ascensione. 1824.).

Periurus sembra esser contrazione di periuratus o peieratus che pur si trovano, benchè in altro senso (per peiero si disse anche periero e periuro). Così iuratus, coniuratus ec. in sensi analoghi. Exanimus e inanimus debbono esser contrazioni di exanimatus e inanimatus, che pur si trovano. Similmente semianimus di un semianimatus dal semplice animatus. Innumerus debb’esser contrazione di un innumeratus dal semplice numeratus, con significato d’innumerabilis, come invictus per invincibilis e tanti altri simili, di cui altrove, e v. il Forc. in illaudatus. Queste contrazioni aggiungansi al detto d’inopinus necopinus ec. dove si prova che anche in latino vi fu il costume di contrarre il participio della prima colla detrazione delle lettere at, costume frequentatissimo nell’italiano anche in voci per niente latine di origine. (27.-28. Maggio. 1824.).

Non solo gli antichi avevano tanto alta idea della natura umana che la stimavano poco inferiore alla divina, come ho detto altrove parlando de’ semidei, ma credevano ancora le anime nostre parenti, emanazioni, parti della divinità, divine esse stesse, e quasi dee (τὸ ἐν ἡμῖν θεῖον). Della quale opinione non già volgare, anzi propria de’ filosofi, e questi molti e diversi, vedi fra i mille luoghi degli antichi, Cic. de Divin. l. i. c. 30. 49. l. 2. c. 11. 58. Virg. Georg. l. 4. v. 219. sqq. e quivi Servio ec. (28. Maggio. 1824.). Cic. de nat. deor. l. i. c. 11. 12. Vedilo anche ib. 2. c. 53. fin. 62. principio.

Diminutivi greci positivati. κυψέλη-κυψέλιον, κυψελὶς ίδος. V. Scap. e Luciano in Lexiphane p. 2. (29. Maggio. 1824.).

Il tale rassomigliava i piaceri umani a un carcioffo, dicendo che conveniva roderne prima e inghiottirne tutte le foglie per arrivare a dar di morso alla castagna. E che anche di questi carcioffi era grandissima carestia, e la più parte di loro senza castagna. E soggiungeva che esso non volendosi accomodare a roder le foglie si era contentato e contentavasi di non gustarne alcuna castagna. (30. Maggio. Domenica. 1824.).

Rassomigliava qualunque (Comparava ogni) piacere umano a un carcioffo dicendo che ne bisogna rodere e trangugiare tutte le foglie volendo arrivare a dar di morso nella castagna, e che di questi carcioffi è carestia grandissima, ed anche la maggior parte di loro è sole foglie senza castagna. E soggiungeva che esso non si potendo accomodare a ingoiarsi le foglie ec. (31. Maggio. 1824.).

Ἔτι γὰρ τοῦτό μοι τὸ λοιπὸν ἦν ci mancherebbe questo. Idiotismo comune al greco e italiano. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 787. init. V. Crus. e Forcell. in supersum se hanno nulla. — παρ' ὅσον in quanto che. V. Lucian. ib. 786. e lo Scap. ec. modo pur comune, e del quale o cosa simile ho detto anche altrove. (31. Maggio. 1824.).

Diminutivi positivati. Vedi Creuzer Meletemata e Disciplina antiquitatis Lips. 1817. sqq. par. 3. p. 112. lin.28. p. 130. lin.23-24. dove però s’inganna quanto al supporlo necessario, perchè non sempre questi tali sono diminutivi, come ho provato altrove coll’esempio di iaculum, speculum ec. (1. Giugno. 1824.).

Sisto in vece di venire dal greco ἱστάω, come si crede e ho detto altrove, ben potrebbe venire da sto per duplicazione, non ignota neppure ai latini (come usitatissimo fra i greci), massime antichi, come ho mostrato altrove coll’es. di titillo da τίλλω, e dei perf. cecidi ec. ec. E la mutazione della coniugazione dalla prima nella terza, sarebbe appunto come nei composti di do (del che pure altrove) anch’esso monosillabo come sto. E quanto al significato e all’uso ec. chi non vede l’analogia fra sto e sisto? (1. Giugno. 1824.).

Il tale diceva non esser ben detto quel che si afferma comunemente che basta l’apparenza p. e. a un letterato per essere stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l’apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza senza l’apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l’apparenza colla sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza. (1. Giugno. 1824.).

Chi vuol vedere la differenza che passa tra l’antica filosofia e la moderna, e quel che di questa ci possiamo promettere, le consideri ambedue sul trono, cioè ἐξουσίαν λαβούσας, la quale non hanno i filosofi privati. Ora se egli è vero che la qualità d’ogni cosa non d’altronde si conosca meglio e più veramente che dagli effetti, da quelli de’ principi filosofi si dovrà giudicare delle due filosofie meglio che da’ privati, i quali hanno per necessità più parole che effetti, o effetti più deboli, e più desiderii e progetti che esecuzioni, perchè quel che vogliono, massime in cose grandi e rilevanti, nol possono. Paragoninsi dunque fra loro Marcaurelio e Federico, ambedue, si può dire, perfetti nella rispettiva filosofia, ambedue filosofi in parole e in opere, e corrispondenti ne’ loro fatti alle loro massime. E si troverà quello in un secolo inclinante alla barbarie essere stato il padre de’ suoi popoli ed esempio di virtù morali d’ogni genere anche a’ privati ed a tutti i tempi. Questo in un secolo sommamente civile essere stato il maggior despota possibile, il più freddo egoista verso i suoi popoli, il più indifferente al loro bene e curante del proprio, e solito e determinato ad antepor questo a quello, il maggior disprezzatore dico ne’ fatti e in parte eziandio ne’ detti, della morale in quanto morale, della virtù in quanto virtù, e del giusto come giusto; in somma, se non il più vizioso (chè egli non l’era per calcolo), certo il men virtuoso principe del suo tempo, e forse di tutti i tempi, perchè non avendo niuna delle virtù che vengono, o vogliamo dir venivano dalla forza della mente, mancava anche di quelle che nascono dalla debolezza (come n’erano in Luigi XV.). Fu anche disaffezionato stranamente alla sua patria, come gli è stato agramente rimproverato dai Tedeschi e fra gli altri da Klopstock, decisamente vago delle cose straniere, e solito d’antepor gli stranieri ai suoi nell’affetto, nella inclinazione e nei fatti. (1. Giugno. 1824.).

Alla p. 4085. Qua si dee riferire il nostro elegante uso di aggiungere il pronome pleonastico nelle frasi indeterminate, coll’ottativo, come, che che egli si voglia, comunque ciò si accada, per quanto egli si dica, non meno che me le sia servitore Caro, lettera a nome del Guidiccioni lett. 35. o neutri o attivi che sieno i verbi. Ne’ quali casi il pronome è sempre dativo ed accidentale al verbo, e s’inganna a partito chi sopra alcuno esempio sì fatto, battezza quel tal verbo per neutro passivo, come par che voglia fare il Rabbi o il Bandiera ne’ Sinonimi v. Affermare, dove allegando il Bocc. Nov. 19. quantunque tu te l’affermi (cioè per quanto tu te lo affermi, maniera indeterminata) e chiamandolo modo toscano, ne cava il verbo affermarselo, verbo nullo, perchè in tale e simili frasi indeterminate tutti o quasi tutti i verbi attivi o neutri passivi possono ricevere questa forma e ricevonla elegantemente (sia ciò proprietà toscana o altrimenti), ma fuor di tali casi in niun modo si direbbe affermarselo o affermarsi, come io mi affermo che tu ec. o egli se lo afferma asseverantemente, (1. Giugno. 1824.); e il luogo del Boccaccio non prova che ciò si possa dire. Chi che si fosse, qual o qualche se ne fosse la cagione, qual si sia o qualsisia, non so chi si fosse che ec. non so che o quello che si faccia o si voglia ec. (2. Giugno. 1824.). V. p. 4103.

Pesado per pesante, que pesa, tanto nel proprio come nel figurato. (2. Giugno. 1824.).

Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale (v. il mio Dialogo della Natura e di un Islandese, massime in fine) che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio. Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno all’uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza. Or l’essere, unito all’infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio inimico. Dunque l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere infelice, e compresa in lei); cioè nell’essere, ed essere per necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria. Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e principio di essere malamente, come può stare, se il male per sua natura è contrario all’essenza rispettiva delle cose e perciò solo è male? Se l’essere infelicemente non è essere malamente, l’infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemica al suo subbietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che si contiene nella propria essenza e natura di un ente dev’essere un bene per quell’ente. Chi può comprendere queste mostruosità? Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa? L’amor proprio è incompatibile colla felicità, causa della infelicità necessariamente, se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la felicità non può aver luogo senz’amor proprio, come ho provato altrove, e l’idea di quella suppone l’idea e l’esistenza di questo.

Del resto e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e di mille qualità, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i lumi e l’esattezza la più geometrica della metafisica e della logica; e tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione. (2. Giugno. 1824.). — Vedi un’altra evidente contraddizione della natura, e si può dire, in cose fisiche, notata alla p. 4087. e anche nel citato dialogo. (3. Giugno. 1824.).

Καθ' ὅσον in senso simile all’italiano in quanto o in quanto che, del che, e simili altre frasi, ho detto altrove. Luciano opp. 1687. t. i. p. 800. (3. Giugno. 1824.).

Εὐθὺς per primum. Luciano ib. p. 805. (3. Giugno 1824.).

Diminutivi positivati. Radium-rayon. (4. Giugno. 1824.).

Oficio descansado, cioè donde el hombre descansa. Cervantes Novelas exemplares, Milan 1615. p. 192. (4. Giugno 1824.).

A proposito di quel che ho scritto altrove sopra un luogo di Donato ad Terent. relativo al digamma, dove si parla di Davus, anticamente *** ec. notisi che i Greci dicevano infatti Δάος, o Δᾷος o Δᾶος o Δαὸς, e v. Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 797. e not. e p. 996. (4. Giugno. 1824.).

En el entretanto que. Cervantes loc. cit. qui sopra, p. 195. (5. Giugno. 1824.).

Divido-diviser. (7. Giugno. 1824.).

In quanto per poichè alla greca, del che altrove in più luoghi. Vedi Bembo opp. t. 3. p. 129. col. 2. fine e Rabbi Sinonimi v. poichè, e Crusca se ha nulla. (9. Giugno. 1824.).

Altro per nulla ec. V. Caro Lettera a nome del Guidiccioni, lett. 15. fine. finchè non ho altro in contrario (modo comunissimo: avere o non avere altro in contrario, coll’interrogazione o positivo ec.), lett. 7. fine. senza darne altra (niuna) notizia al Padrone . (10. Giugno. 1824.).

Rilevato per rilevante, e così relevado in Cervantes Novelas exemplares. Milan 1615. p. 252. (11. Giugno. 1824.).

Hasta tanto come in ital. fino a tanto ec. di cui altrove. Cervantes loc. cit. qui sopra, p. 263. (11. Giugno. 1824.).

Illustratus per illustris, il participio per l’aggettivo. V. l’index latinitatis a Cic. de rep. e il Forcell. (12. Giugno. 1824.).

Il tale negava che si potesse amare senza rivale. E domandato del perchè, rispondeva: perchè sempre l’amato o l’amata è rivale ardentissimo dell’amante (del proprio amante). (13. Giugno. Domenica della SS. Trinità. 1824.).

Ἐχτὸς εἰ μὴ. Lucian. op. 1687. t. 2. p. 28. verso il fine. p. 31. princip. (14. Giugno. Vigilia di S. Vito Protettore di Recanati. 1824.).

Al detto altrove della somma facoltà e fecondità della lingua greca, non ancora esaurita nè spenta, aggiungi che oggidì chi vuol sostituire al suo proprio qualche nome finto espressivo di qualche cosa, o dar nome significativo a qualche personaggio immaginario, come Moliere nel Malato immaginario, nei nomi de’ medici, o nominar qualche nuovo essere allegorico, o nuovamente nominare i già consueti ec. ec. non ricorre ordinariamente ad altra lingua (qualunque sia la sua propria, in tutta l’Europa e America civile) che alla greca. (15. Giugno. Festa di S. Vito Protettore di Recanati. 1824.).

Τὸ μὲν γὰρ πρῶτον εὐθὺς. Luciano opp. 1687. t. 1. p. 41-42. (16. Giugno. Vigilia della Festa del Corpus-Domini. 1824.).

Ὅσον ἐν τῷ πλῷ quanto, per ciò che spetta alla navigazione. Luciano loc. cit. qui sopra. p. 34. (16. Giugno. Vigilia della Festa del Corpus-Domini. 1824.).

Tutto quanto, tutti quantiπᾶν ὅσον, πάντες ὅσοι, μικρὸν ὅσον, μύριοι ὅσοι, ὀλίγοι ὅσοι, πλεῖστον ὅσον ec. ec. V. lo Scapula ec. ec. (20. Giugno. Domenica. 1824.).

Alla p. 4099. Qua spetta il nostro idiotismo sempre comune tra noi, massime nello scritto, dal 300 a oggi, di aggiungere il si (dativo) al verbo essere. Questo si è, questa si fu la cagione ec. (21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga. 1824.).

Ficulneus — ficulnus appo Orazio, e nóta che l’us vi è breve. (21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga. 1824.).

Experimentado per esperto, come noi sperimentato ed esperimentato, del che altrove. Cervantes Novelas exemplares. p. 354. Milan 1615. 432. (22. Giug. 1824.).

Altro per nulla, cosa alcuna. Guicc. t. 4. p. 50. ediz. di Friburgo: innanzi tentasse altro : e non aveva ancora tentato niente. (23. Giugno. Vigilia di S. Giovanni Battista. 1824.).

Il est aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque (celle du Christianisme) dut produire dans les moeurs. Les femmes, presque toutes d’une imagination vive et d’une ame ardente, se livrèrent à des vertus qui les flattoient d’autant plus, qu’ elles étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de grandes passions, ou de les vaincre. L’ame est heureuse par ses efforts; et pourvu qu’elle s’exerce, peu lui importe d’exercer son activité contre elle-même. Thomas Essai sur les Femmes. Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4. p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista. 1824.).

Agnomen, cognomen, coi derivati ec. aggiungansi al detto altrove circa il g premesso a varie voci latine, come nosco agnosco ec. Anche nomen viene da nosco. (25. Giug. 1824.).

Il tale diceva che noi venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che sentendovisi star male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte da ogni parte, e proccura in vari modi di appianare, ammollire ec. il letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno, finchè senz’aver dormito nè riposato vien l’ora di alzarsi. Tale e da simil cagione è la nostra inquietudine nella vita, naturale e giusta scontentezza d’ogni stato; cure, studi ec. di mille generi per accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicità o almen di riposo, e morte che previen l’effetto della speranza. (25. Giugno. 1824.).

Ἐν τοσούτῳ — intanto, del che altrove. Luciano opp. 1687. t. 2. p. 48. principio, 51. dopo il mezzo. 64. (25. Giugno. 1824.).

Plus le lien général s’étend, plus tous les liens particuliers se relâchent. On paroît tenir à tout le monde, et l’on ne tient à personne. Ainsi la fausseté s’augmente. Moins on sent, plus il faut paroître sentir. Thomas, loc. cit. qui dietro, p. 448. Questo ch’ei dice dei legami di società sostituiti a quei di famiglia, di ristrette amicizie ec. ben puossi applicare all’amore universale sostituito al patrio al domestico ec. (27. Giugno. Domenica. 1824.).

Callado per tacente, come tacitus da taceo itum, del che altrove. Cervantes Novelas exemplares, Milan 1615. p. 431. (27. Giugno. 1824.).

Dilettare-dileticare coi derivati ec. frequentativo o diminutivo alla latina, e può anche aggiungersi agli esempi delle forme frequentative italiane di verbi, da me altrove raccolte[a]

Farneticare.

[Chiudi]. Avvertasi però che ha un significato diverso da dilettare, e forse è corruzione di solleticare, e così diletico, che altrimenti sarà un diminutivo o frequentativo di diletto. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.).

L’infelicità abituale, ed anche il solo essere abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l’amor proprio, estingue a lungo andare nell’anima la più squisita ogn’immaginazione, ogni virtù di sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l’amor proprio, perchè l’infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma. Quindi un’indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile. Or questa è una perfetta morte dell’animo e delle sue facoltà. L’uomo che non s’interessa a se stesso, non e capace d’interessarsi a nulla, perchè nulla può interessar l’uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli altri, di capacissimo ch’egli era. La vita è finita quando l’amor proprio ha perduto il suo ressort. Ogni potenza dell’anima si estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente alla felicità nell’atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un’anima avvezza a vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per ambedue a sopirli e premerli. L’uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le azioni che gl’inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si riferivano in un modo o nell’altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non d’altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra di se. Ora senz’alcuna ferocia, nè misantropia nè rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, quell’anima già poco prima sì tenera è insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell’anima la più grande e fertile per natura.

Questo medesimo effetto che produce la infelicità, lo produce, come ho detto, l’abito di non provare o non vedersi d’innanzi alcuna apparenza di felicità, alcun dolce futuro, alcun piacere grande o piccolo, alcuna fortuna della giornata o durevole, alcuna carezza e lusinga degli uomini o delle cose. L’amor proprio non mai lusingato, si distacca inevitabilmente dalle cose e dagli uomini (fosse pur sommamente filantropo e tenero), e l’uomo abituandosi a non veder nella vita e nel mondo nulla per se, si abitua a non interessarvisi, e tutto divenendogli indifferente, il più gran genio diventa sterile e incapace anche di quello di cui sono capacissimi gli animi per natura più poveri, infecondi, secchi ed inetti. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.). Il che sempre più privandolo d’ogni illusione e successo dell’amor proprio, sempre più conferma in lui l’abito di noncuranza, e d’inettitudine e spiacevolezza. Trista condizione del genio, tanto più facile a cadere in questo stato (che certo non è strettamente proprio se non di lui), quanto da principio il suo amor proprio è più vivo, e quindi più avido e bisognoso di lusinghe e piaceri e speranze, meno facile ad apprezzare e soddisfarsi di quelle e quelli che agli altri bastano, e più sensibile alle offese e punture che i volgari non sentono. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. dì mio natalizio. 1824.). V. p. 4109.

Φρύσσω o φρύττω- frissonner. Notinsi in questo verbo due cose. La derivazione manifesta dal greco, e la forma diminutiva o frequentativa. (30. Giugno. 1824. Anniversario del mio Battesimo.).

Della lingua universale, o piuttosto scrittura universale progettata da alcuni filosofi, vedi Thomas Éloge de Descartes, Oeuvres, Amsterdam 1774, t. 4. p. 72. (2. Luglio, Festa della Visitazione di Maria Vergine Santissima. 1824.).

Come tutte le facoltà dell’uomo siano acquisite per mezzo dell’assuefazione, e nessuna innata, fin quella di far uso de’ sensi, da’ quali ci vengono tutte le facoltà; insomma, come l’uomo impari a vedere, e nascendo non abbia questa facoltà, benchè egli non si accorga mai d’impararla, e naturalmente creda che ella sia nata con lui, vedi fra gli altri il Thomas loc. cit. qui sopra, p. 59-60. (2. Luglio. dì della S. Visitazione di Maria. 1824.).

C’est ainsi que les grands Hommes découvrent, comme par inspiration, des vérités que les hommes ordinaires n’entendent quelquefois qu’au bout de cent ans de pratique et d’étude; et celui qui démontre ces vérités après eux, acquiert encore une gloire immortelle. Thomas loc. cit. qui dietro, p. 37. Sa géometrie étoit si fort au dessus de son siècle qu’il n’y avoit réellement que très peu d’hommes en état de l’entendre. C’est ce qui arriva depuis à Newton; c’est ce qui arrive à presque tous les grands hommes. Il faut que leur siècle coure après eux pour les atteindre. Id. ib. not. 22. p. 143. (2. Luglio. Festa della Visitazione di Maria Santissima. 1824.).

Alla p. 2811. marg. E così anche δείδω potrà esser fatto da un preterito di δέω o δέομαι, da δέδια ec. (2. Luglio. Festa della Visitazione della Beatissima Vergine Maria. 1824.).

Alla p. 4008. fine. Così il bul in bbi, (nebula, nebbia), ec. Insomma generalmente l’ul in i, con duplicazione della consonante precedente, se la sillaba in latino è pura come in ne-bu-la , e non impura, come in misculare ( mi-scu-lare ), onde si fa mi-schi-are , e non mis-cchi-are . (3. Luglio. 1824.).

Alla p. 4108. Come l’uomo non è capace d’imprender nulla che non abbia in qualunque modo per fine se stesso, così i cattivi successi continui in quanto a se stesso, o la continua mancanza di successi qualunque dell’amor proprio, scoraggisce naturalmente l’uomo dall’intraprender più nulla, nè anche il sacrifizio di se stesso, e lo rende incapace e inabile a tutto per la mancanza di coraggio. Lo scoraggimento è proprio e facile sopra tutto agli animi dilicati e grandi. (3. Luglio. 1824.). V. p. seg.

Anche tra i greci fu in uso in certi luoghi lo spettacolo di combattenti mercenarii. V. Luciano sulla fine del Toxaris sive de Amicitia, opp. 1687. t. 2. p. 72. Furono poi introdotti a’ tempi romani in alcune città greche (d’Asia o d’Europa) i circhi e i ludi gladiatorii usati in Roma. E forse di questi tempi intende Luciano di parlare, anzi certo, poichè dal resto del Dialogo apparisce che egli finge il Dialogo a’ tempi romani. Del rimanente, v. Fusconi Dissertat. de Monomachia Rom. 1821. p. 9. not. 43. (4. Luglio. Domenica. 1824. infraottava della Visitazione di Maria Vergine Santissima.). V. anche Luciano 2. iii .

Calcagna (4. Luglio. 1824.).

Alla per antecedente. Un tal uomo ha tanto coraggio a operare o a risolversi di operare quanto chi è certo o quasi certo di non conseguire il fine di una operazione particolare. (4. Luglio. Domenica infraottava della Visitazione. 1824.).

Il titolo di divino (divinamente ec.) solito darsi in greco, in latino e nelle lingue moderne per una conseguenza dell’uso di quelle, agli uomini e alle cose singolari, eccellenti ec. ancorchè in niente sacre nè appartenenti alla Divinità, non avrebbe certamente avuto mai principio nè luogo nel Cristianesimo. Esso uso è un residuo dell’antica opinione che innalzava gli uomini poco più sotto degli Dei ec., del che altrove in più luoghi. (6. Luglio. 1824.).

Al detto altrove circa l’uso latino conforme all’italiano di usare pleonasticamente il pronome dativo sibi, v. anche il Forcell. in mihi, tibi, nobis e simili altri dativi di pronomi personali. (7. Luglio. infraottava della Visitazione di Maria Vergine Santissima. 1824.).

Diminutivi positivati. Sommolo. V. la Crusca . (7. Luglio. 1824.).

Expérimenté (instruit par l’expérience) inexpérimenté (qui n’a point d’expérience). (11. Luglio. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Myrtus, – mortella (se è però la stessa pianta). V. franc. spagn. ec. ec. (11. Luglio. Domenica. 1824.).

Quando noi diciamo che l’anima è spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo in sostanza una negazione, non un’affermazione. Il che è quanto dire che spirito è una parola senza idea, come tante altre. Ma perocchè noi abbiamo trovato questa parola grammaticalmente positiva, crediamo, come accade, avere anche un’idea positiva della natura dell’anima che con quella voce si esprime. Nel metterci però a definire questo spirito, potremo bene accumulare mille negazioni o visibili o nascoste, tratte dalle idee e proprietà della materia, che si negano nello spirito, ma non potremo aggiungervi niuna vera affermazione, niuna qualità positiva, se non tratta dagli effetti sensibili, e quindi in certa guisa materiali, (il pensiero, il senso ec.) che noi gratis ascriviamo esclusivamente a esso spirito. E quel che dico dell’anima dico degli altri enti immateriali, compreso il Supremo. (11. Luglio. Domenica. 1824.). — Tanto è dire spirituale, quanto immateriale; questa, voce affatto negativa grammaticalmente, quella ideologicamente. (11. Luglio. Domenica. 1824.).

Diminutivi greci positivati. στύπη o στύππη-στυππεῖον o στυπεῖον V. Scapula e Luciano opp. Amsterdam 1687. t. 2. p. 98.99. più volte. (12. Luglio. 1824.).

Sensato per sentito o per sensibile (come invitto per invincibile ec. del che altrove) quasi da un senso as continuativo di sentio sensum, vedilo nella Crusca. Vedi ancora Forcell. Gloss. ec. (14. Luglio. 1824.).

Al detto altrove che i derivativi latini si formano dagli obbliqui e non dal retto dei nomi originali, aggiungi una prova evidente più che mai Jovialis e simili da Juppiter Jovis. (Vi saranno ancora altri simili esempi da simili nomi). Così in greco Διιὸς da Ζεὺς Διὸς. ( Plat. in Phaedro ec.) (14. Luglio. 1824.). Anche in greco i derivativi sono sempre, se non erro, dal genitivo (o noto o ignoto, o di un dialetto o comune ec.) φυσικὸς non è da φύσι-ς (gen. φύσεως) ma o da φύσι-ος (genit.), o piuttosto è come μουσ -ικὸς da μοῦσα ec. ec. (15. Luglio. 1824.).

Diminutivi positivati. γόνυ-γονάτιον. (V. Lucian. opp. 1687. 2. 83.) γουνὶς ίδος. Così ginocchio è diminutivo positivato di genu. (14. Luglio. 1824.).

Descansado, che ha riposato, detto di persona. Cervantes, Novelas exemplares, Milan. p. 580. (15. Luglio. 1824.).

Adultus o venga da adolesco o da adoleo è originariamente participio neutro passato, di un verbo neutro. (15. Luglio. 1824.).

Diminutivi positivati. Muscus–muschio.

Desatentado. Cervantes loc. cit. qui sopra p. 605. (16. Luglio. 1824.).

Entreabrir, entre oscuro ( Cervantes loc. cit. qui dietro, p. 588.) e simili (v. il Diz. spagnuolo in entre...) aggiungasi al detto altrove dell’antico uso d’inter per fere ec., conservato ne volgari moderni. Così in franc. entrevoir ec. ec. (16. Luglio. 1824.).

Apercebido, di cui altrove, notisi che non è participio di verbo neutro, ma attivo, ed è participio passivo. (17. Lugl. 1824.).

Del bello esterno come sia relativo vedi un luogo insigne di Cicerone De Natura Deorum 1. 27-29.(19. Luglio. 1824.).

Diminutivi greci positivati. σάκχαρ-σακχάριον. (20. Luglio 1824.).

Frequentativo. Tâter — tâtonner coi derivati. (20. Lugl. 1824.).

Diminutivi positivati. Capella, capretta coi derivati, metafore ec. Così oveja (ovicula) per ovis. Così ouaille ec. Così vitello per vitulus. Così agnello, agneau per agnus. Così mulet per mulus. Così asellus per asinus. Così femelle per femina di bestie. (v. Forc. in Femella ). Così catellus per catulus. Così uccello, augello ec. oiseau, per avis. Così poulet per pullus. Così noi muletto, muletta. (V. la Crusca.) Così usignuolo, rosignuolo ec. rossignol franc. (v. gli spagnuoli e Forcellini in Lusciniola) per luscinia. Così cardellino, cardelletto, calderugio, caderino, calderello (v. gli spagnuoli e i francesi) per carduelis. Così poisson per piscis. Così taureau per taurus. (v. la Crus. in torello se ha niente a proposito). ec. ec. (22. Luglio. 1824.). Così chiocciola ec. Così allodola, lodola ec. (v. spagnuoli e francesi) per alauda. Così ποίμνιον, προβάτιον ec. Così hirondelle, pecchia, abeille ec. struzzolo, passereau, passerculus, στρουθίον ec. Così forse anche nei nomi di piante, come bietola ec., e d’altri generi di cose naturali, usuali ec. (22. Luglio. 1824.). V. p. 4115.

Diminutivi greci positivati. κάλως-καλώδιον. V. Scap. (22. Luglio 1824.).

Al detto altrove delle porpore ec. in proposito di vermiglio, aggiungi κάλχη che è quel donde si fa il colore, come vermis, e κάλχιον diminutivo che è quel che si tinge, come vermiglio. V. lo Scapula. (22. Luglio. 1824.).

Coltare, coltato da colo-cultum. V. la Crusca, e il Gloss. Forcellini, Dizionari franc. e spagn. (23. Luglio. 1824.).

Immensus, smisurato ec. per immensurabile. (24. Lugl. 1824.).

Amaricare frequentativo alla latina, come fodicare ec. V. Crus. Forcell. ec. ec. (24. Luglio. 1824. Vigilia di S. Giacomo Apost.).

Diminutivi greci positivati. Κὼς o κῶας o κῶος κωΐδιον o κῴδιον, κωδάριον. V. i Lessici, e Luciano opp. 1687. init. Galli, t. 2. p. 158. fine. (24. Luglio. 1824. Vigilia di S. Giacomo Apostolo, mio omonimo.).

Ἐν ἀρχῇ εὐθὺς τοῦ ec. Luciano ib. p. 165. (24. Luglio. 1824. Vigilia di San Giacomo Apostolo.).

Absortar da absorbeo. Cervantes Novelas exemplares. Milan 1615 p. 733. (27. Lugl. 1824.).

Verbo diminutivo. Rado-rasum-raschiare. (27. Luglio. 1824.).

Diminutivi positivati. Chorea, carola, caroletta, quasi choreola. V. il Forc. e gli etimologisti, e nóta che carola è propriamente ballo tondo, com’era quello dei cori, onde χορεία, χορεύειν, e chorea ec. (27. Luglio. 1824.).

Un notabile esempio di verbo continuativo usato in senso affatto continuativo ec. vedilo in Cic. de Nat. Deor. 2. 49. fine, ut in pastu circumspectent. (29. Luglio. 1824.).

Alla p. 4114. principio. Così cornacchia, corneille ec. per cornix; araneola, araneolus (v. gli spagnuoli) per aranea, araneus; ἀράχνιον; ranocchio, grénouille ec. per rana. (29. Luglio. 1824.).

Τοσοῦτον ἄρα ἐδέησάν με - ἀπαλλάξαι, ὥστε καὶ -ἐνέβαλον. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 189. fine. (29. Luglio. 1824.).

Inauditus per qui non audit. V. Forc. Odorus, inodorus per qui odoratur ec. (odorus ec. è lo stesso che odoratus ec.) in senso abituale. V. Forcellini . (2. Agosto, secondo dì del Perdono. 1824.).

Θαρρῶ τι ποιεῖν — mi rincuoro, mi assicuro, ec. di fare una cosa, cioè confido di poterla fare. V. Lucian. opp. 1687. 2. 226. lo Scap. ec. Un altro italianismo vedilo ib. p. 884. fin. dove ἐπὶ κεφαλαίῳ τῶν πόνων credo ben che sia la vera lezione ma falsissima la interpretazione del Grevio, e tengo che significhi al cabo de los trabajos , come noi pur diciamo in capo a o di, cioè in termine, alla fine di. (5. Agos. 1824.).

Percussare. Crusca. (6. Agosto. 1824.).

Alla p. 4089. Clepo-cleptum onde clepso is, ben potrebbe esser esso l’origine del gr. κλέπτω in vece che viceversa, come apo di ἅπτω ec. O se ciò in clepo non si ammette, neppure in apo, sebbene di questo veggiamo anche in latino il continuativo apto, laddove clepto, onde κλέπτω, non sarebbe stato conservato dai latini. Del resto clepso is potrebb’essere un continuativo anomalo di clepo da clepsum per cleptum, come vexo da vexum per vectum ec. del che altrove. (10. Agos. 1824.).

Dell’amor dei vecchi alla vita v. il capo 118. di Stobeo (ed. Gesn.) Laus vitae , e massime il luogo di Licofrone. (10. Agos. Festa di San Lorenzo Martire. 1824.).

Καὶ τὸ δῆγμα λαθραῖον, ὅσῳ (in quanto che, cioè poichè ἐπεὶ) καὶ γελῶν ἅμα ἔδακνε. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 236. (10. Agos. Festa di San Lorenzo Martire. 1824.).

Vinciturus. Forc. in Vinco fin. (12. Agosto. 1824.).

Dissimulatus in senso attivo. Forcell. (12. Agos. 1824.).

Reconocido per riconoscente. Omisso per que omite, trascurato. Nota che il participio di omitir, se vi ha questo verbo in ispagnuolo, è omitido. Idea de un Principe politico Christiano representada en cien empresas por Don Diego de Saavedra Faxardo. Amstelodami. Apud Joh. Janssonium iuniorem 1659. p. 115. lin. 23. Trascurato, straccurato ec. per che suol trascurare, negligente ec. (13. Agosto. 1824.).

Πωγώνιον diminutivo positivato per πώγων. Lucian. opp. 1687. p. 263. t. 2. Anzi è aggiunto all’aggettivo μακρὸν. Forse però è disprezzativo, e così, o come un diminutivo positivato di θώραξ, intendo nella per antecedente verso il fine la parola θωράκιον, piuttosto che nel senso distinto che lo Scap. le attribuisce, il quale non debbe esser proprio se non degli Scrittori militari, se pur nello Scap. lorica sta per arma di uomo, e non per riparo murale ec. Vedilo. Πωγώνιον non è dello Scapula, nè del Tusano, Budeo, Schrevelio. (13. Agosto. 1824.). Σωμάτιον. V. lo Scap. , Longino sect. 9. p. 24. e quivi il Toup. p. 174. ec. (14. Agos. Vigilia dell’Assunta. 1824.).

Ὅμηρος γάρ μοι δοκεῖ... τοὺς μὲν ἐπὶ τῶν Ἰλιακῶν ἀνθρώπους, ὅσον ἐπὶ τῇ δυνάμει, θεοὺς πεποιηκέναι, τοὺς θεοὺς δὲ ἀνθρώπους. Longin. sect. 9. ed. Toup. Oxon. 1778. p. 21. (14. Agos. Vigilia dell’Assunzione di Maria Santiss. 1824.).

S’enquérir (inquirere). Al detto di quaerito. (17. Agos. 1824.).

Vermiglione, vermillon. Al detto di vermiglio.

Verbo diminutivo o frequentativo. Trembloter. (17. Agos. 1824.).

Καταρχὰς εὐθὺς. Lucian. init. lib. De Gymnas. (17. Agos. 1824.). εὐθὺς ἐν ἀρχῇ. t. 2. p. 536.

Scappare-scapolare.

Uomo ben considerato , per savio, prudente ec. Tacit. Davanz. Stor. l. 3. c. 3. (18. Agos. 1824.).

Ἐξαρχῆς εὐθὺς. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 280.

Della pretesa αὐτοχθονία degli ateniesi ed attici, v. Luciano l. c. e quivi la nota. (19. Agosto. 1824.).

Retinere per ricordarsi, del che altrove, è anche dei francesi, e vedi gli spagnuoli. (24. Agos. Vigilia di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.).

Delle idee concomitanti annesse a certe parole, del che dico altrove, v. Thomas, Essai sur les Éloges, chap. 7. fin. p. 78. oeuvres t. 1. Amst. 1774. Dell’influenza della letteratura e filosofia sulla lingua, e della formazione della lingua latina ib. p. 112-6. chap. 10. (25. Agosto. Festa di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.). e p. 214-215.

Resabido, spagnuolo, saputo, saputello ec. per saccente, cioè sapiente, che sa, ec. V. la Crus. ec. (25. Agos. 1824.).

Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser sempre un giudice giusto. Vedi Thomas loc. cit. qui dietro, chapitre 26. p. 46-47. (26. Agos. 1824.).

Delle vicende della lingua francese, v. Thomas l. c. chap. 28. p. 85-97. (26. Agosto. 1824.).

Ἐκτὸς εἰ μὴ. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 306. principio. (28. Agosto. 1824.) p. 516.

Πλὴν ὅσον se non quanto per se non che ec. V. un luogo di Eliodoro nelle Var. Lez. del Mureto l. 9. c. 4. Il luogo è delle Etiopiche lib.3. (28 Agos. 1824.).

Εὐθὺς ἐξ ἀρχῆς. Senofonte ἀπομνημονευμάτων l. 1. cap. 2. par. 39. (29. Agosto. Domenica. 1824.). Luciano 2. p. 545.

Pendo-penso as, pesare, pesar, peser.

Declamitare. (31. Agosto. 1824.).

Ἐν τούτῳ in questo, in questa (avverbio), en esto. Senof. loc. sup. cit. l. 2. c. 1. par. 27. init. Lucian. t. 2. p. 638. 652. (1. Sett. 1824.).

Εὐθὺς per luego, ib. c. 6. par. 32. luogo notabile, non inteso dal Leunclavio. (1. Sett. 1824.).

Perpétuel, éternel ec. non sono diminutivi positivati, come dico altrove, ma vengono da perpetualis, aeternalis ec. (2. Sett. 1824.).

Ἐθέλειν per δύνασθαι ec. V. Senofonte ἀπομνημονευμάτων l. 3. cap. 12. par. 8. fin. del capo. (3. Settembre. 1824.).

Dispettare, rispettare, respecter ec. da despicio despectum ec. (3. Settembre. 1824.).

Osservato per osservante. V. la Crusca. (5. Sett. 1824. Domenica.).

Observito as. Forcellini. (5. Sett. Domenica. 1824.).

Ὡς γὰρ συνελόντι εἰπεῖν, οὐδὲν ἀξιόλογον ἄνευ πυρὸς οἱ ἄνθρωποι τῶν πρὸς τὸν βίον χρησίμων κατασκευάζονται. Socrates ap. Xenoph. ἀπομν. IV. 3. 7. (7. Sett. Vigilia della Natività di Maria Vergine SS. 1824.).

Αὐτίκα per primum o verbigratia, luogo notabile. Senof. ἀπομν. IV. 7. 2 (7. Sett. Vigilia della Natività di Maria Vergine Santissima. 1824.).

A quello che ho detto altrove sul proposito che tra gli antichi felicità e bontà si stimavano per lo più o sempre congiunte, e per lo contrario infelicità e malvagità, v. fra l’altre cose Senofonte nel fine dei Memorabili e dell’Apologia dove prova che Socrate fu fortunato nella morte, mostrando che il provare la sua felicità anche a’ suoi tempi era parte e forma di apologia e di lode. E mille altri esempi se ne trovano negli antichi, chi ha pratica di loro ed osserva bene. (7. Sett. 1824.).

Cura spagn. per curato. V. un es. simile di Ovid. e altri nel Forcell. in Cura fine. (11. Sett. 1824.).

Curato, curé per qui curat, curator. (11. Sett. 1824.).

Ὀλίγου δεῖν ec. — la lunghezza di lei di poco non aggiugne a cento miglia . Porzio Congiura de’ Baroni ec. Lucca 1816. lib.1. p. 35.

Ἐκτὸς εἰ μὴ Luciano opp. 1687, t. 2. p. 338. mezzo. (15. Sett. 1824.).

Della stolta opinione che negli animali la natura sia stata più larga di bellezza a’ maschi che alle femmine, come è ragione, ma negli uomini per lo contrario, il che è assurdo, e nasce questa opinione dalla idea del bello assoluto, e dal credere che assolutamente sia bellezza maggiore quella che a noi per cagioni relative par tale, onde il donnesco è chiamato il bel sesso, laddove se le sole donne giudicassero, o chi non fosse donna nè uomo, chiamerebbe senza dubbio bello il sesso degli uomini maschi, come negli altri animali, vedi il Tasso Dial. del Padre di famiglia, opp. Venezia 1735. ec. vol. 7. p. 379. che è prima del mezzo del Dialogo. (15. Sett. 1824.).

Ἑλκόμενοι τῆς ῥινός. Luciano opp. 1687. t. 2. p. 342. (16. Sett. 1824.).

Diminutivi greci positivati. Ὀθόνη - ὀθόνιον. V. ib. 350. e notisi che Luciano è solito usare tali positivazioni. (16. Sett. 1824.).

Αὐτίκα per primum. Luciano ib. 363. fine (19. Sett. Festa di Maria Vergine Santissima Addolorata. 1824.) 666. 669. Plato Lugd. 1590. p. 745. B. 744. G.

Sentimenta. (20. Sett. 1824.). Vizia, moggia.

Sedeo es, sido is — sedo as. (21. Sett. 1824.).

Necessitado per bisognoso, que necessita. (22. Sett. 1824.).

Verberito as. (22. Sett. 1824.).

Lucian. 2. 385. παρ' ὅσον — se non quanto, eccetto che. Male l’interprete. Bene p. 559. παρ' ὅσον nisi quod.

Diciamo volgarmente quanto per solo, come un po’ d’acqua quanto per estinguere la sete ec. Così in greco ὅσον, e οὐχ ὅσον non solo. (25. Sett. 1824.).

Τῆς ῥινὸς ἕλκεσθαι. Luciano 2. 389.

Πάντα ἐν βραχεῖ — in breve, brevemente, (cioè in una parola, uno verbo, e non brevi temporis spatio, come l’interprete) ogni cosa. Luciano 2. 390. 361. 567. e ivi not. Di tal frase greco-italiana, altrove. (25. Sett. 1824.).

Turbo–tourbillon, diminutivo positivato. (29. Sett. Festa di S. Michele Arcangelo. 1824.).

Simulato, dissimulato, disimulado ec. per che simula ec. V. Forcell. e i Diz. spagnuoli e francesi. (30. Sett. 1824.).

For, fatum-fator fataris. (1. Ott. 1824.).

Πλὴν παρ' ὅσον se non quanto, eccetto che. Lucian. 2. 455. fine.

Βαστάζω — bastasiare, bastaggiator oris. Voci latino-barbare usitate negli annali antichi e carte antiche pubbliche di Recanati, per facchino ec. Basto sost. viene dalla stessa fonte. V. Forc. Gloss. Crus. ec. (3. Ott. Festa di Maria Vergine Santissima del Rosario. Domenica. 1824.).

Εὐθὺς ἐν τῇ πρώτῃ ἐπιβάσει. Lucian. 2. 496. (4. Ott. 1824. Festa di San Francesco di Assisi.). Εὐθὺς τὸ πρῶτον. ib. 500. fine.

Παρ' ὅσον, ἐς ὅσον — in quanto, poichè. Lucian. 2. 510. 512.

Ἐν τοσούτῳ — intanto. Luciano 2. 507. (6. Ottobre. 1824.). 536.557.640.

Storno-stornello, étourneau — (sturnus). V. gli spagnuoli. (8. Ottobre. 1824.).

Ρυτὶς ίδος probabilmente diminutivo positivato — ride (franc.). (10. Ott. 1824.).

Non solo, come ho detto altrove, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si credette e si crede essere il non plus ultra dei progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai posteri, certo non dai passati. (10. Ott. Domenica. 1824.). V. la p. 4124. Così non v’è nazione nè popoletto così barbaro e selvaggio che non si creda la prima delle nazioni, e il suo stato, il più perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto peggiore quanto più diverso dal proprio. V. Robertson Stor. d’America, Venez. 1794. t. 2. p. 116. 232-33. Così le nazioni mezzo civili, o imperfette, anche in Europa ec. E così sempre fu. (15. Ottobre. Festa di Santa Teresa di Gesù. 1824.).

Sfidato per diffidente. Crusca. (22. Ottobre. 1824.). Provveduto per provvido, provvidente. Pandolfini, Mil. 1811. p. 114. 169. e altrove, sebbene non così formalmente o evidentemente. V. la Crusca. (22. Ott. 1824.). Biasimato per biasimevole. Pandolfini p. 194. (24. Ottobre. Domenica. 1824.).

Τρίβων-τριβώνιον. (25. Ott. 1824.). Μηλέα μηλὶς ίδος

Τὸ μὲν πρῶτον εὐθὺς ἐλθοῦσαν. Luciano, o di chiunque è il Dialogo, in Fugitivis, t. 2. opp. p. 595. (26. Ott. 1824.).

Οὐτωσὶ ridondante, nel significato e modo che noi pur diciamo, massime toscanamente così, del che mi pare aver detto anche altrove; vedi Luciano, o chiunque è l’autore, nei Fuggitivi, t. 2. opp. p. 598.

Presumido per presuntuoso. (28. Ott. 1824.).

Della pretesa αὐτοχθονία degli Ateniesi vedi Goguet Origine ec. ed. di Lucca 1761. p. 52. not. a. tom.1. (7. Novembre. Domenica. 1824.).

Della invenzione dell’uso del fuoco, della quale ho parlato altrove, quanto fosse difficile e tarda ec. v. Goguet loc. cit. qui sopra, p. 58-60. (7. Nov. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Succus, succo-succhio. (10. Nov. 1824.).

Risentito, sentito in senso neutro. V. la Crus.

Καὶ μάλιστα ὅσῳ ec. — massime in quanto o in quanto che ec. Luciano 2. 634. (12. Nov. 1824.).

Issuto, essuto, antichi participii italiani per stato del verbo essere. Aggiungansi al detto altrove di suto, sido ec. (14. Nov. Festa della B. Vergine del Patrocinio. 1824. Domenica.).

Diminutivi positivati. Rastrum–rastello ec. (14. Nov. Festa del Patrocinio di Maria Santissima. 1824. Domenica.).

Scossare da scuotere. Poliziano Orfeo atto I, ed. dell’Affò, verso 14.

Esoso in senso attivo. Guicciard. 4. p. 373. V. Forc.ec. (17. Nov. 1824.).

Altro per niuno. Guicciard. 4. 378. 389. Casa Galateo capo 1. fine. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 239.

Deficere–difettare. (19. Nov. 1824.).

Ἐφόδιον–fodero, usato, in senso di provvisione di città o piazza per assedio, anche dal Botta nella Storia d’Italia libro 7. Ital. 1824. tom.1. p. 514. (19. Nov. 1824.).

Abundado, voce antica spagnuola per abbondante. Saavedra Faxardo, Idea de un principe politico Christiano, Amsterdam 1659. in 16.mo p. 655. 663. bis. (20. Nov. 1824.).

Implicitus, implicatus.

Implicito as. (24. Nov. Festa di San Flaviano Protettore di Recanati. 1824.).

Diminutivi positivati. Nepeta lat. — nepitella ec. ital. , aratrum–aratolo.

Altro per nessuno o ridondante. Guicc. 4. 398. Di quella altra (cioè niuna) dichiarazione v. la pag. preced. di esso Guicc.

Privus per privatus, participio. V. Forc. in privus fine. (30. Nov. Festa di S. Andrea. 1824.).

Vilipeso per disprezzabile. Crusca. Contemtus nello stesso senso. V. Forcell.

Liceor-licitor. (5. Dic. Domenica. 1824.). Solito as.

Dell’italianismo ἐκτὸς εἰ μὴ, πλὴν εἰ μὴ ec. dove il μὴ ridonda, vedi Luciano, Soloeicist. opp. 1687. t. 2. p. 748. nota 1. del Grevio. (6. Dic. 1824. ottava dell’anniversario della morte di mia nonna.).

Gli occhi infra ’l mare sospinse (stando sul lido), cioè nel mare. Bocc. Novella di Mad. Beritola e dei cavriuoli. 30. nov. scelte, Ven. 1770. p. 68.

Andava disposto di fargli vituperosamente morire . Bocc. loc. cit. p. 76.

Trasandato per negligente, che trasanda. (8. Dic. Concezione di Maria V. Santiss. 1824.).

Μηρὸς-μηρίον, diminutivo positivato, (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1824.), poetico. Ἴχνος-ἴχνιον. (10. Dic. Festa della Venuta. 1824.).

Pseudo-Luciano nella fine del Philopatris . ἐδυσχέραινον γὰρ τί τοῖς τέκνοις καταλιπεῖν per καταλίποιμι. Italianismo. (13. Dic. 1824.). V. la p. 4163. capoverso 5.

Altro per alcuna cosa o per nulla in senso di aliquid. V. la Crus. in Altro par. 1. e Bocc. 30. nov. scelte Ven. 1770. p. 173. principio. (18. Dic. 1824.).

Diminutivi positivati. Germen-germoglio, germogliare ec. V. gli spagnuoli e il Gloss. ec. Rejet-rejeton ec. (23. Dic. Antivigilia di Natale. 1824.).

Κλείω-κλεΐζω, κληΐζω, κλῄζω

Diminutivi positivati. Βωμίον per βωμὸς in Luciano, Tragopodagr. p. 812. lin.14. se non è sbaglio di βωμίοις per βωμοῖς, come pare in fatti che voglia il metro, (25. Dic. dì di Natale. 1824.), poichè non credo che ivi Βωμίοις sia aggettivo ed ἐμπύροις sostantivo.

Sfondare-sfondolare coi derivati ec. (30. Dic. 1824.).

Conviso is.

Soverchiare, soperchiare, quasi superculare, da supero as che vale lo stesso. V. il Glossario ec. (2. Gen. 1825.).

Pesado per pesante. E v. la Crus. in pesato. (3. Gen. 1825.).

>Honoratus, honorate per onorevole, onorevolmente, come in italiano.

Honorus per honoratus in senso di honorabilis honorificus. (10. Gen. 1825.).

Che gli uomini siano più inclinati al timore che alla speranza, o provino almeno assai più spesso quello che questa, si può anche dedurre dal considerar la grande abbondanza di parole che hanno le lingue (almeno quelle che io conosco, e in particolare il greco, il latino lo spagnuolo l’italiano e l’inglese) per esprimere il timore, il temere, lo intimorire, lo spaventoso, il timoroso, ec. e i suoi diversi gradi qualità ec. laddove esse lingue non hanno che una parola o al più due per esprimere la speranza, lo sperare ec. e queste stesse voci sono originariamente di significato comune anche al timore, perchè significano solo l’aspettazione del futuro, e però anche del male, in latino in greco, in italiano in ispagnuolo (anche nello spagnuolo moderno) e credo anche in francese e forse pure in inglese antico, del che ho detto altrove. (21. Gennaio. 1825.).

Corpusculum per corpus, come σωμάτιον per σῶμα. V. l’indice dei Papiri diplomatici del Marini . (22. Gennaio. 1825.). V. anche Longin. sect. 9. e ivi il Toup.

Diminutivi positivati. Caudillo.

Εὐθὺς ἐν τῇ εἰσβολῇ τῶν νόμων. Longin. sect. 9. 38. (3. Feb. 1825.).

Digiuna (ieiunia), cioè le 4 tempora (v. Crus. in Digiune ). Dino Compagni Cron. ed. Pisa. 1818. p. 98. (6. Feb. Domenica penultima di Carnevale. 1825.).

Ἔξω per eccetto. Longino sect. 34. (8. Feb. 1825.). ἐκτὸς. Plat. Gorg. p. 328. D. opp. ed. Astii.

Αὐτίκα per luego ec. Procopio Gazeo Proem. scholior. in 1. Reg. in Meurs. opp. t. 8. (11. Feb. 1825.). Platone Gorg. p. 322. D. 354. D. opp. ed. Astii.

Corpusculum per corpus, sebbene con qualche significanza diminutiva o dispregiativa. S. Girolamo ap. Menag. ad Laert. VI. 38 (13. Feb. ultima Domenica di Carnevale. 1825.).

A proposito di quello che altrove ho detto (p. 4120-1.) della opinione avuta da tutti i secoli (e così dalle nazioni) anche i più barbari, di essere superiori in civiltà, in perfezione, anche in letteratura (benchè ignorantissimi), a tutti i secoli precedenti, e a ciascun d’essi, anche civilissimo e letteratissimo, vedi un bel luogo del Petrarca, citato e tradotto elegantemente da Perticari nel Trattato degli Scrittori del 300, lib. 1. capit. 16. p. 92. 93. (14. Feb. 1825.).

Ἐξ ἀρχῆς per rursus, appunto come noi da capo (che altrimenti si disse πάλιν ἐξ ἀρχῆς). V. Flegone de Mirabil. c. 1. ap. Meurs. opp. t. 7. col. 81. lin.32-3. 62. Dissero i nostri antichi anche di ricapo. V. anche Arrian. Alexand. l. 5. c. 27. par. 14. Dissero ancora αὖθις ἐξ ἀρχῆς, come ha lo stesso Arriano l. 5. c. 26. par. 6. ovvero ἐξαρχῆς unito, come in Demost. αὖθις ἐξαρχῆς. Tusano. (15. Feb. ultima di Carnevale. 1825.). V. le mie Observationes a Flegone loc. cit.

Altro ridondante. Ricordano Malespini Cronica o Storia Fiorentina ed. Fir. 1816. di Vincenzio Follini, p. 219. nota 2. al capitolo 12. Ora incomincieremo a dire delle divisioni grandi le quali vennono in Roma tra il popolo minuto e gli ALTRI maggiori (cioè i grandi, i potenti, gli ottimati, i reggenti) di Roma . Appunto alla greca. (17. Feb. primo Giovedì di Quaresima 1825.).

Σωμάτιον per σῶμα. Apollon. Dyscol. Histor. commentit. c. 3. due volte, dove anche 2 volte σῶμα indifferentemente e col senso stesso. (17. Feb. 1825.).

Anche i greci dissero (almeno in tempi alquanto bassi) ὠτάριον auricula per οὖς auris. V. Apollon. Dysc. l. c. c. 28. ex Aristot. V. anche lo Scap. in ὠτάριον e ὠτίον. Vedi pure il Gloss. se ha nulla. (17. Feb. 1825.).

Le prime sillabe di chri-stianisme e di cry-pte si pronunziano al modo stessissimo. Perchè dunque sì diversamente scrivonsi? Ciò non accade certo in italiano (dove, eccetto alcuni pochissimi casi in cui si scrive diversamente per distinzione, come ho, — o, quel che è diversamente scritto, diversamente sempre si pronunzia, e viceversa) e non è da credersi che accadesse nè in latino nè in greco. Questo è un altro dei principali difetti che può avere un’ortografia, che le parole o sillabe ugualmente pronunziate, diversamente si scrivano; e viceversa che le ugualmente scritte si pronunzino diversamente. Il che per ambe le parti accade spessissimo in francese in inglese ec. e anche in ispagnuolo. (18. Feb. 1. Venerdì di Quaresima 1825.).

Trovasi nella storia commentizia d’Apollonio Discolo cap. 24. un tratto il quale fa credere che anche gli antichi conoscessero quella razza d’uomini detti mori bianchi, della quale v. Voltaire opere scelte, Londra (Venezia) 1760. in 3. tomi, tom.5, p. 113[a]. e Robertson Stor. d’Amer. Ven. 1794. tom. 2. p. 125. seg. e che questa razza si trovasse anche in Europa. Vi si cita Eudosso rodio. V. anche Plin. Buffon ec. se hanno cosa in proposito. (18. Feb. 1825.).

Σμηνίον diminutivo per σμῆνος Scap. Così in Apollon. loc. sup. cit. c. 44. σμηνιῶνος, dove forse s’ha a leggere σμηνίωνος da σμηνίων diminutivo V. i grammatici i Lessici e Aristotele nel luogo quivi cit. dall’aut. e dal Meurs.

Verbi attivi richiedenti l’accusativo, usati col genitivo al modo italiano, francese ec. (come mangiar del pane, prendere della tersa). V. Antigono Caristio. Hist. mirabil. c. 40. 41. 44. 56. fine.

Nel detto Antigono c. 56. pare che si trovi καινὸν usato avverbialmente per di nuovo. Il luogo è corrotto e bisogna vederlo nelle ult. edizioni. (20. Feb. Domenica. 1825).

Diminutivi positivati ἤρυγγον-ἠρύγγιον. V. Meurs. ad Antig. Caryst. Mirabil. cap. 115. Κώρυκος-κωρυκὶς. Scap. Πετρίδιον. V. Scap. et Antigon. l. c. cap. 174.

Τιθέναι per efficere, reddere, come in ispagnuolo poner, del che altrove, v. Plat. Gorgia, opp. ed. Astii, tom.1. p. 360. lin. 24. (27. Feb. 1825.).

Mille-mila plur. da millia: e così miglio miglia.

Gerere — belli-gerare, fami-gerare ec.

Altro ridondante. Ricordano Malispini Stor. Fior. Firenze 1816. c. 96. fine. Il Villani nel luogo parallelo lib.5. c. 33. omette altri. (3. Marzo. 1825.).

Ἐμβαλοῦσα εἰς κύλικα τοῦ φαρμάκου , il genitivo per l’accusativo. Herodian. Histor. lib.1. ed. Lugd. 1611. p. 50. (5. Marzo. 1825.).

Diminutivi positivati. Ἀτμὸς-ἀτμὶς ίδος. Scap. ed Erodiano l. c. p. 13. fin. ὅρος-ὅριον.

Σωμάτιον per σῶμα (come dice poco dopo). Erodiano Histor. l. 2. init.

Χωρὶς, ἄνευ per oltre, praeter, come il nostro senza, e il franc. sans, e à moins e lo spagn. sin e a men (o amen) de ec. V. Forcell. se ha nulla ec. (8. Mar. 1825.).

Ferramenta, vasellamenta, e simili, da’ nomi in ento. Comandamenta.

Dalla mia teoria del piacere séguita che l’uomo e il vivente anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha, cioè maggior piacere in infinito, e un infinitamente maggior piacere, perocchè egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere infinito. E che l’uomo in ciascuno istante della sua vita pensante e sentita desidera infinitamente di più o di meglio di ciò ch’egli ha. (12. Marzo. 1825.).

Discordato per discordante, discorde.

Cinta plurale di cinto. Ricordano Malespini c. 162.

Circa l’origine, se non della religione (cioè dell’opinione della divinità), almeno del culto, dal timore v. nell’Abrégé de l’origine de tous les cultes, par Dupuis. Parigi 1821. chap. 4. p. 86-93. come quasi tutti i popoli avendo ammesso due principii, due generi di divinità, le une buone e benefiche, le altre cattive e malefiche, i più selvaggi riducevano o riducono del tutto o principalmente il loro culto alle seconde, ed alcuni anche le stimavano più potenti delle prime, laddove i più civilizzati, (come i Greci nella favola dei Giganti) hanno supposto il principio cattivo vinto e sottomesso dal buono. (19. Marzo. 1825. Festa di S. Giuseppe.).

Improvviso per qui non providit, o non providet, sprovvisto (e questo ancora è piuttosto per chi non ha provvisto che per chi non si è o non è provvisto, e così sprovveduto). Ricordano Malespini. Fir. 1816. c. 49. p. 44. fine. c. 168. p. 134. non provveduto nello stesso senso. Ricordano c. 198. G. Vill. l. 7. c. 24. V. Forc. Crusca ec. (21. Marzo. 1825.).

Gioia-gioiello, jewel (ingl.). Vedi Franc. Spagn. ec. Bush (ingl.) — buisson. V. i Diz. franc.

Porfiado per que porfia. Profuso per che profonde. V. Crus. Forc. spagn. franc. ingl.

Obliviscor da un perduto verbo oblivio-obbliare per obbliviare, mangiato il v al solito, e congiunti i due i in uno, come obblio da oblivium. V. Forc. ec.

Sporgere — sportare. (23. Marzo. 1825.). Che porto as venga da porrigo, contratto il suo porrectus in portus (V. Forcell. ec.) come appresso di noi (porgere — pórto, sporgere — spórto), e come perrectus è contratto in pertus nel despierto e despertar spagn. da espergiscor, del che abbiamo detto altrove? (24. Marzo. Vigilia dell’Annunziazione di Maria SS. 1825.).

Bollito per bollente. Fiorito per fiorente: florido spagn. fleuri.

Particolare, particulier ec. (come chose particulière ec.) si dice spesso per singolare, straordinario, non comune ec. V. questo medesimo uso del greco ἴδιος nelle mie osservazioncelle sugli autori greci de mirabilibus meursiani, p. 9. linea 6. di esse osservazioni e la giunta fattavi in un polizzino. (27. Marzo 1825. Domenica delle Palme.).

Detenido per que se detiene, cunctator (otro detenido Fabio), e così ritenuto ec.

Reprimo is — repressar spagn.

Ciascun vizio per se senza altra cagione (cioè senza estrinseca cagione, senza cagione alcuna di fuori di lui). Casa Galat. c. 28. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 298. (29. Marzo. Martedì Santo. 1825.).

Diminutivi positivati. Vallon franc.

Senza altro pane o biada per senza punto di pane o biada. G. Villani l. 7. c. 7.

Arrojado hombre, Uomo avventato. (2. Apr. Sab. Santo. 1825.).

D. Le plaisir est-il l’objet principal et immédiat de notre existence, comme l’ont dit quelques philosophes? R. Non: il ne l’est pas plus que la douleur; le plaisir est un encouragement à vivre, comme la douleur est un repoussement à mourir. D. Comment prouvez-vous cette assertion? R. Par deux faits palpables: l’un, que le plaisir, s’il est pris au-delà du besoin, conduit à la destruction: par exemple, un homme qui abuse du plaisir de manger ou de boire, attaque sa santé, et nuit à sa vie. L’autre, que la douleur conduit quelquefois à la conservation: par exemple un homme qui se fait couper un membre gangrené, souffre de la douleur, et c’est afin de ne pas périr tout entier. Volney, La loi naturelle, ou Catéchisme du citoyen français, chap. 3. à la suite des Ruines (Les Ruines) ou Méditation sur les Révolutions des Empires, par le même auteur, 4.me édition. Paris 1808. p. 359-360. Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell’esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio dire, il fine naturale dell’uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale dell’uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare l’esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell’esistenza generale, e di quell’ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi, non solo perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella modificazione di ciascuno animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma e la intensità del dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione la somma e intensità del suo piacere. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere nè la felicità degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura per necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile nell’ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse. Un’altra contraddizione, o in altro modo considerata, in questo essere gli animali necessariamente e regolarmente e per natura loro e per natura universale, infelici (essere — infelicità, cose contraddittorie), si è da me dichiarata altrove.

Del resto l’argomento di Volney vale egualmente contro quello che egli dice essere le but immédiat et direct de la nature (intenderà, credo, la natura dell’uomo), cioè la conservation de soimême , (negando espressamente che le bonheur sia le but immédiat et direct de la nature , bensì un objet de luxe, surajouté à l’objet NÉCESSAIRE ET FONDAMENTAL de la conservation ). Poichè, dato ancora, che è falsissimo, che la propria conservazione sia l’oggetto immediato e necessario della natura dell’animale, certo essa non lo è della natura universale, nè di quella degli altri animali rispetto a ciascuno di loro (il che dee servire anche per il detto di sopra). Anzi il fine della natura universale è la vita dell’universo, la quale consiste ugualmente in produzione conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta natura almen tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono più assai quelle cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale che non quelle che favoriscono la sua conservazione; in quanto naturalmente nella vita dell’animale occupa maggiore spazio la declinazione e consumazione ossia invecchiamento (il quale incomincia nell’uomo anche prima dei trent’anni) che tutte le altre età insieme (v. Dial. della natura e di un Islandese, e Cantico del Gallo silvestre ), e ciò anche in esso animale medesimo indipendentemente dall’azione delle cose di fuori; in quanto finalmente lo spazio della conservazione cioè durata di un animale è un nulla rispetto all’eternità del suo non essere cioè della conseguenza e quasi durata della sua distruzione. Similmente mille cose e mille animali che non hanno in niun modo per fine la conservazione di un tale animale, hanno bensì una tendenza assoluta a distruggerlo, o per la conservazione propria o per altro. E ciò s’intenda di individui e di specie. E il numero di tali individui o specie animali o no, tendenti naturalmente alla distruzione di una qualsisia specie o individuo di animale (siccome di quelle tendenti al suo dispiacere) è maggiore di quello tendente alla sua conservazione (siccome al suo piacere).

Del resto che il fine naturale dell’animale non sia la propria conservazione direttamente e immediatamente cioè per causa di se medesima, si è dimostrato nel Dial. di un Fisico e un Metafisico. L’uomo ama naturalmente e immediatamente solo il suo bene, e il suo maggior bene, e fugge naturalmente e immediatamente solo il suo male e il suo maggior male: cioè quello che per tale egli giudica. Se gli uomini preferiscono la vita a ogni cosa, e fuggono la morte sopra ogni cosa, ciò avviene solo perchè ed in quanto essi giudicano la vita essere il loro maggior bene (o in se, o in quanto senza la vita niun bene si può godere), e la morte essere il loro maggior male. Così l’amor della vita, lo studio della propria conservazione, l’odio e la fuga della morte, il timore di essa e dei pericoli d’incontrarla, non è nell’uomo l’effetto di una tendenza immediata della natura, ma di un raziocinio, di un giudizio formato da essi preliminarmente, sul quale si fondano questo amore e questa fuga; e quindi l’una e l’altra non hanno altro principio naturale e innato, se non l’amore del proprio bene il che viene a dire della propria felicità, e quindi del piacere, principio dal quale derivano similmente tutti gli altri affetti ed atti dell’uomo. (E quel che dico dell’uomo intendasi di tutti i viventi). Questo principio non è un’idea, esso è una tendenza, esso è innato. Quel giudizio è un’idea, per tanto non può essere innato. Bensì egli è universale, e gli uomini e gli animali lo fanno naturalmente, nel qual senso egli si può chiamar naturale. Ma ciò non prova che egli sia nè innato nè vero. P. e. l’uomo crede e giudica naturalmente che il sole vada da oriente a occidente, e che la terra non si muova: tutti i fanciulli, tutti gli uomini che veggano da prima il fenomeno del giorno e che vi pongano mente, (se non sono già preoccupati dalla istruzione) concepiscono questa idea, formano questo giudizio, ciò immantinente, ciò immancabilmente, ciò con loro piena certezza: questo giudizio è dunque naturale e universale, e pure non è nè innato (perocchè è posteriore alla esperienza dei sensi, e da essa deriva), nè vero, perocchè in fatti la cosa è al contrario. Così di mille altri errori e illusioni, mille falsi giudizi, in cose fisiche, e più in cose morali, naturali, universali, immancabilmente concepiti da tutti, e ciò con piena certezza di persuasione, e la cui naturalità e universalità non per tanto non prova per niente la loro verità nè il loro essere innati. Conchiudo che l’amore e studio della propria conservazione non è nell’uomo una qualità ec. immediata, ma derivante dall’amore della propria felicità (che è veramente immediato), e derivantene per mezzo di un’idea, di un giudizio (e questo falso), il quale mancando o cangiandosi, l’uomo manca dell’amore della propria conservazione, lo converte in odio della medesima, fugge la vita, segue la morte; il che egli non fa nè può fare mai, nè pure un momento, verso la sua propria felicità, ossia piacere, da un lato, e la sua propria infelicità dall’altro; nè anche quando egli sia pazzo e furioso; nel quale stato bene egli talvolta volontariamente si uccide, ma non lascia mai di amare sopra ogni cosa e proccurare altresì quello che egli giudica essere sua felicità, e sua maggiore felicità. (5-6. Aprile. 1825.).

Sa-v-ona. Molti antichi, come G. Villani (per es. l. 7. c. 23.) Sa-ona, come Faenza anche oggi per Faventia, dicendosi però dal Guicc. e altri antichi Faventino per Faentino, del che altrove. (6. Aprile. 1825.).

Diminutivi positivati. Νόννα-νονὶς. V. Du Cange Gloss. graec. e Fabric. B. G. ed. vet. t. 7. p. 682. not. a. Probabilmente corrotto da Domna (siccome il Nonne dei Francesi), come stima il Du Cange, Gloss. lat. in Nonnus, e non venuto dall’egiziano, come dice il Fabricio, se pure anche in Egitto non si usò questa medesima corruzione, o se ella non fu fatta originariamente in Egitto, cioè nella lingua copta, ma sempre però dalla voce latina Domnus e Domna. (6. Aprile. 1825.). I francesi hanno anche Nonnette, ma Nonne e Nonnette sono ambedue burleschi e disprezzativi al presente, sicchè tra l’uno e l’altro vi ha poca o niuna differenza di significato. (6. Apr. 1825.). — Σχοῖνος-σχοινίον. V. l’indice graecitatis di Dione Cassio. (8. Apr. 1825.).

Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli animali. E questi soli sono infelici, ed è meglio per essi il non essere che l’essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e viceversa. La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l’ordine eterno del loro essere. Gli enti sensibili sono per natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrante dello universo. Poichè essi esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all’ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poichè la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa loro necessità è un’imperfezione della natura, e dell’ordine universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance d’una menoma parte della natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamata un’imperfezione. Almeno ella è piccolissima e quasi un menomo neo nella natura universale nell’ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima, anzi massima, perchè grande per valore se minima per estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero, nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè conveniente colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo così) di pensare della natura universale, nè corrispondente all’andamento del mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è insensibile, e che gli esseri sensibili sono per necessità souffrants, e tanto più sempre, quanto più sensibili. Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura, o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà e dignità nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose. (9. Aprile. Sabato in Albis. 1825.). V. p. 4137.

Sentido de la perdita per que siente (senziente, che si duole) la perdida. Penato per penante. Crus. in penato e in penare es. ult.

Halo as-halitans. (10. Apr. Domenica in Albis. 1825.). Alitare.

Σανὶς ίδος, forse in origine diminutivo, poscia positivato.

Più tempo per del tempo, frase frequente presso i nostri (p. e. Ricordano, cap. 178. Villani l. 6. c. 88. principio) sì del 300, sì del 500. — πλείονα χρόνον nello stesso senso. V. le mie osservazioni a Flegonte de mirabil. c. 1. col. 81. lin. 2. (14. Aprile. 1825.).

Calza-calzetta, calzino. Bruzzo-bruzzolo.

Filo-fila. Uova.

Senza altra (cioè niuna) considerazione avere dei suoi meriti . Casa Galateo c. 14. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 261. fine.

Φησὶ, φήσει, sottinteso τις, per φασὶ, φήσουσι. V. Toup. ad Longinum sect. 2. init. sect. 9. init. sect. 29. fin. 44. p. 234. fin. dove non approvo le sue emendazioni.

La società contiene ora più che mai facesse, semi di distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa veramente non ha fatto quasi altro, massime nella moltitudine, che insegnare e stabilire verità negative e non positive, cioè distruggere pregiudizi, insomma torre e non dare. Con che ella ha purificato gli animi, e ridottigli quanto alle cognizioni in uno stato simile al naturale, nel quale niuno o ben pochi esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come dunque può ella aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l’assenza di questo o di quell’errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l’esser purificato da un errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino non ha? Rispondo: l’uomo in natura non ha nemmeno società stretta. Quegli errori che non sono necessari all’uomo nello stato naturale, possono ben essergli necessari nello stato sociale; egli non gli aveva per natura; ciò non prova nulla; mille altre cose egli non aveva in natura, che gli sono necessarie per conservar lo stato sociale. Ritornare gli uomini alla condizione naturale in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso nella società, può non esser buono, può esser dannosissimo, perchè quella parte della condizione naturale può essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in natura quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch’elle sieno convenienti all’uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non naturali, ha distrutto l’amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi è nato, anzi rinato, uno universale egoismo. L’egoismo è naturale, proprio dell’uomo: tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono pretti egoisti. Ma l’egoismo è incompatibile colla società. Questo effettivo ritorno allo stato naturale per questa parte, è distruttivo dello stato sociale. Così dicasi della religione, così di mille altre cose. Conchiudo che la filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce gl’intelletti della moltitudine alla purità naturale, e l’uomo alla maniera naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è, dannosa e distruttiva della società, perchè quegli errori possono essere, ed effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società, la quale per l’addietro gli ha sempre avuti in un modo o nell’altro, e presso tutti i popoli; e perchè quella purità e quello stato naturale, ottimi in se, possono esser pessimi all’uomo, posta la società; e questa può non poter sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in fatti al presente. (18. Aprile 1825.).

Αὐτίκα per luego. V. Toup. ad Longin. sect. 23. init.

Σακκία ἁδρά. V. ib. p. 229. fine. Diminutivo positivato. (27. Apr. 1825.).

Alla p. 4134. Siccome la felicità non pare possa sussistere se non in esseri senzienti se medesimi, cioè viventi; e il sentimento di se medesimo non si può concepire senza amor proprio; e l’amor proprio necessariamente desidera un bene infinito; e questo non pare possa essere al mondo, resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere nè sia felice, che la felicità (la quale di natura sua non potrebb’essere altro che un bene ossia un piacere infinito) sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene a essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se medesimi importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. (3. Maggio. Festa della Invenzione della Santa Croce. 1825.). V. p. 4168.

Una corona d’oro, che, secondo una tradizione degli Ungheri era discesa dal cielo, e che conferiva a chi la portava un diritto incontrastabile al trono. Robertson Stor. del regno dell’Imp. Carlo V. lib.10. traduz. ital. dal franc. Colonia 1788. t. 5. p. 440. Ecco pur finalmente il vero fondamento dei diritti al trono e della legittimità di tutti i Sovrani antichi e moderni. Esso consiste nella corona che portano. E chiunque la toglie loro e se la può mettere in capo, sottentra ipso facto nella pienezza dei loro diritti e legittimità. (3. Mag. 1825.).

Pauso as forse da un antico pauo o pavo (παύω, παύομαι), pausum. (7. Mag. 1825.).

Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza e di senno, perchè molti sono sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto. Molti in una certa età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere. Le più terribili disgrazie gli affliggeranno, ma non gli potranno trarre una lagrima. Questa è cosa molto ordinaria. Tanta occasione ha l’uomo di farsi familiare il dolore. (12. Maggio 1825.).

Ad ogni filosofo, ma più di tutto al metafisico è bisogno la solitudine. L’uomo speculativo e riflessivo, vivendo attualmente, o anche solendo vivere nel mondo, si gitta naturalmente a considerare e speculare sopra gli uomini nei loro rapporti scambievoli, e sopra se stesso nei suoi rapporti cogli uomini. Questo è il soggetto che lo interessa sopra ogni altro, e dal quale non sa staccare le sue riflessioni. Così egli viene naturalmente ad avere un campo molto ristretto, e viste in sostanza molto limitate, perchè alla fine che cosa è tutto il genere umano (considerato solo nei suoi rapporti con se stesso) appetto alla natura, e nella università delle cose? Quegli al contrario che ha l’abito della solitudine, pochissimo s’interessa, pochissimo è mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di se cogli uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario moltissimo l’interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono per lui il primo luogo, come per chi vive nel mondo i più interessanti e quasi soli interessanti rapporti sono quelli cogli uomini; l’interessa la speculazione e cognizion di se stesso come se stesso; degli uomini come parte dell’universo; della natura, del mondo, dell’esistenza, cose per lui (ed effettivamente) ben più gravi che i più profondi soggetti relativi alla società. E in somma si può dire che il filosofo e l’uomo riflessivo coll’abito della vita sociale non può quasi a meno di non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.) coll’abito della solitudine riesce necessariamente un metafisico. E se da prima egli era filosofo di società, da poi, contratto l’abito della solitudine, a lungo andare egli si volge insensibilmente alla metafisica e finalmente ne fa il principale oggetto dei suoi pensieri e il più favorito e grato. (12. Maggio. Festa dell’Ascensione. 1825.).

Tetta, tettare ec. — τιτθὴ ec.

Diminutivi positivati. Brachium — βραχίων quasi da un βράχιον o βράχιος o βραχιὸς ec. perduto. (21. Maggio Vigilia della Pentecoste. 1825.).

Παρ' ὀλίγον διαφθαρείην. Joseph. de vita sua par. 59. (27. Mag. 1825.). par. 68. θάνατον αὐτοῦ παρ'ολίγας ψήφους κατέγνωσαν c. Apion. 2.37. p. 493. lin. 7.

Κατὰ νώτου δ' αὐτὸν λαμβάνουσιν οἱ ἐκ τῆς ἐνέδρας. Italianismo. Lo prendono (cioè lo colgono, lo soprapprendono) alle spalle. Joseph. de vita sua par. 72.

Senz’altro (niun) fine . Casa Istruz. al Card. Caraffa. opp. t. 2. p. 4. lin.19. ed. Ven. 1752.

Αὐτίκα per primum, luego ec. Pseudo-Joseph. de Maccabeis par. 1. fin. par. 3. p. 499. lin.4. ante fin. (31. Maggio 1825.).

Grado-gradino. Pisum-pisello. Struffo-strufolo ec. V. Crus.

Monosillabi latini. Flo.

Arrischiato ( Baldi Vita di Federigo di Montefeltro, Roma 1824. tom. 1. p. 89. princ.), arrisicato (Crus.) per che suole arrischiarsi, che si arrischia.

Disonorato, Inonorato, Inhonoratus ec. per disonorevole.

Honorus, inhonorus per honoratus, inhonoratus.

Ἔξω per praeter. Isocr. Paneg. ed. Cantabrig. 1729. p. 175. lin. 1.

Stella quasi astella o astellum da ἀστὴρ o da ἄστρον. (12. Luglio. dì di S. Gio. Gualberto. 1825.).

Tanto è necessaria l’arte nel viver con gli uomini che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla seco loro con artificio. (Milano. 22. Sett. 1825.).

Spasimato per spasimante. Crus. Entendu per intendente. Innamorato per che innamora. Petr. Son. Ma poi che ’l dolce riso. v. penult. e Canz. Poi che per mio destino, stanza 5. v. 9.

Sì ch’io vo già della speranza altiero. Petr. Son. Quando fra l’altre dame. V. anche Sestina A qualunque animale, v. penult. e Canz. Sì è debile il filo, stanza 6. v. 2 e Canz. Lasso me, st. 4. v. 9.

Gaio, gai franc. ec. — γαίων.

Miglio, milium ec. — millet, diminutivo positivato. Entrailles — ἔντερον, interiora ec. Ladrillo spagn. Laterculus ec. — later. Scalino — scala, scaglione ec.

Tra via, per in via. Petr. Son. A piè de’ colli. e altrove spessissimo fra via, e tra via, esso Petrarca, ed altri, prosatori e poeti.

Poi per εἶτα, cioè nondimeno ec. del che altrove. Petr. Son. Perch’io t’abbia guardato.

Εὐθὺ πρῶτον. Eupolis Comicus ap. Stob. λόγ. β'. p. 32. ed. princeps Gesneri, Tiguri 1543.

Ἡσσημένων δὲ ἀνδρῶν οὐκ ἐθέλουσιν αἱ γνῶμαι πρὸς τοὺς αὐτοὺς κινδύνους ὅμοιαι εἶναι. Thucydid. ap. Stob. serm. 6. περὶ δειλίας. (Milano. 22. Sett. 1825.) lib.2. in concione Phormionis. V. Plat. ed. Astii. t. 4. p. 228. lin. 12. p. 236. lin. 30. p. 358. lin. 20. 23.

Se Dio facesse altro di me, vale, facesse alcuna cosa, nulla . Così, Machiavelli, Commedia in prosa senza titolo, opp. Italia 1819. vol. e 6.o at. 2. sc. 1. p. 328. Io guarderei molto ben chi egli fusse, prima ch’io facessi altro, cioè nulla, cioè cosa alcuna. Senza pensare altro, io mi avvierò là . ib. 2. 7. 337-8. E del vecchio eramo come certissimi che prestatomi indubitata fede, ne dovesse andar la senza pensare altro . Cioè nulla. 3. 1. 340. La padrona subito si spoglia, e senza pensare ad altro (a nulla) nel letto si corica . ib. 341. (Milano.).

aggresser, v. a. (verbe actif). Attaquer, être aggresseur. Jean Molinet, Dicts et faits notables, p. 125. Articolo dell’Archéologie française par Charles Pougens, appendice à la suite de la lettre a. Paris 1821-25. tom. I. p. 48. (Bologna. 6. Ottobre. 1825.).

Dissimulato, Simulato, Dissimulé ec. per dissimulatore ec. V. Forcellini .

Nel corso del sesto lustro l’uomo prova tra gli altri un cangiamento sensibile e doloroso nella sua vita, il quale è che laddove egli per lo passato era solito a trattare per lo più con uomini di età o maggiore o almeno uguale alla sua, e di rado con uomini più giovani di se, perchè i più giovani di lui non erano che fanciulli, allora spessissimo si trova a trattare con uomini più giovani, perchè egli ha già molti inferiori di età, che non sono però fanciulli, di modo che egli si trova quasi cangiato il mondo dattorno, e non senza sorpresa, se egli vi pensa, si avvede di essere riguardato da una gran parte dei suoi compagni come più provetto di loro, cosa tanto contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un certo tempo egli non si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi generalmente o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli soleva, e con verità, per l’addietro. (Bologna. 8. Ottobre. 1825.).

Chi di noi sarebbe atto a immaginare, non che ad eseguire, il piano dell’universo, l’ordine, la concatenazione, l’artifizio, l’esattezza mirabile delle sue parti ec. ec.? Segno certo che l’universo è opera di un intelletto infinito. — Ma sapete voi che dalla estensione e forza dell’intelletto dell’uomo, a un’estensione e forza infinita ci corre uno spazio infinito? L’intelletto umano non è atto a immaginare un piano come quello dell’universo. Ma un intelletto mille volte più forte ed esteso dell’umano, potrà pure immaginarlo. Non vi pare che possa? Dite dunque un intelletto maggiore dell’umano un millone di volte, un bilione, un trilione, un trilione di trilioni. Non arriverete mai ad un intelletto infinito, e però mai ad un intelletto grande, se non relativamente (giacchè un intelletto anche un trilion di volte maggior del nostro, non sarebbe già un intelletto grande per se, ma solo relativamente al nostro, e sarebbe infinitamente minore di un intelletto infinito), e però mai ad un intelletto divino. Lo stesso dico della potenza. L’uomo non può fare il mondo. Non però il farlo richiede una potenza infinita, ma solo maggiore assai dell’umana. Deducendo dalla esistenza del mondo la infinità e quindi la divinità del suo creatore, voi mostrate supporre che il mondo sia infinito, e d’infinita perfezione, e che manifesti un’arte infinita, il che è falso, e se ciò è falso, niente d’infinito si dee attribuire all’autore della natura. V. p. 4177. Lascio anche stare le innumerabili imperfezioni che si ravvisano, non pur fisicamente, ma metafisicamente e logicamente parlando, nell’universo.

Del resto quello che nella struttura ec. del mondo e delle sue parti, p. e. di un animale, a noi pare ammirabile, e di estrema difficoltà ad essere immaginato, non fu infatti niente difficile. Le cose sono come sono perchè così debbono essere, stante la natura loro assoluta, o quella delle forze e dei principii (qualunque essi sieno) che le hanno prodotte. Se questa natura fosse stata diversa, se le cose dovessero essere altrimenti, altrimenti sarebbero, nè però sarebbero men buone e men bene andrebbero (o vogliamo dir più cattive e camminerebbero peggio) di quel che fanno ora che sono così come noi le veggiamo. Anzi allora questo che noi chiamiamo ordine e che ci pare artifizio mirabile, sarebbe (e se noi lo potessimo concepire, ci parrebbe) disordine e inartifizio totale ed estremo. Niuno artifizio insomma è nella natura, perchè la natura stessa è cagione che le cose vadan bene essendo ordinate in un tal modo piuttosto che in un altro, e questo modo non è necessario assolutamente all’andar bene, ma solo relativamente al tale e non altrimenti essere della natura, la quale se altrimenti fosse, le cose non andrebbero bene, non potrebbero conservarsi ec., se non con altro modo ec. (Bologna. 8. Ottobre. 1825.).

Εὐθὺς per primum. Epictet. Enchirid. cap. 5.

Κτῆσαι οὗν (para, acquire, compara tibi), φησὶν, ἵνα καὶ ἡμεῖς ἔχωμεν. Epictet. Enchirid. cap. 31.

Κᾂν σὺν τούτοις ἐλθεῖν καθήκῃ, φέρε τὰ γινόμενα. E se con queste cose, cioè con tutto questo, ti conviene andare, porta in pace quel che ti accadrà, che te ne accade. Così il Bartoli nel Mogol, con essere, per con tutto l’essere, non ostante l’essere. Italianismo di Epitteto, Enchiridio, cap. 52. (Bologna. 9. Ott. Domenica. 1825.). La stessa frase col senso medesimo si trova anche cap. 39. fin.

Τῷ μὲν σωματίῳ (per σώματι) πάντα ἀδιάφορα. M. Antonin. VI. 2. Del resto amant stoici extenuandarum rerum causa, deminutiva ( Simpson not. in Epictet. c. 12.): e in Arriano et Epicteto diminutiva significant extenuationem et vilitatem ipsius rei, non autem parvitatem (id. ad c. 24.). V. p. 4145.

Museau — muso. Goupil o golpil, e per la femmina goupille, quasi vulpilla, cangiato al solito il v in g; antica voce francese per renard, appresso Pougens, Archéologie française, art. Goupil , con parecchi derivati, cioè goupiller verbo neutro, goupillage e goupilleur, dei quali pur si hanno esempi loc. cit. t. 1. (Bologna. 10. Ott. 1825.).

Si sa quanto poco fossero considerate le donne presso i Greci e i Romani, e come il servirle e trattarle quasi superiori agli uomini, come si fa oggi, non avesse origine, secondo il Thomas ( Essai sur les femmes ), se non nei tempi cavallereschi dai costumi dei settentrionali conquistatori di Europa, i quali avevano un’antica loro superstizione che riguardava le donne come tante deità. Nondimeno pare che a tempo degl’Imperatori romani la condizione delle donne fosse già molto simile alla presente. Lascio le odi di Orazio e i libri di Ovidio, Tibullo, Properzio ec. Epitteto Enchirid. cap. 62. Αἱ γυναῖκες εὐθὺς ἀπὸ τεσσαρεσκαίδεκα ἐτῶν ὑπὸ τῶν ἀνδρῶν κυρίαι καλοῦνται. τοιγαροῦν ὁρῶσαι ὅτι ἄλλο μὲν οὐδὲν αὐταῖς πρόσεστι, μόνον δὲ συγκοιμᾶσθαι τοῖς ἀνδράσιν, ἄρχονται καλλωπίζεσθαι καὶ ἐν τούτῳ πάσας ἔχειν τὰς ἐλπίδας Dove trovo nelle note: V. Serv. ad. Virg. En. 6.397. Suet. in Claud. c. 39. (Bologna. 1825. 10. Ottobre.). V. p. 4246.

Somiglianza di costumi antichi e moderni, ovvero antichità di costumi che si credono moderni. — La lucerna di terra cotta (fittile) di cui si era servito Epitteto, fu venduta per 3000 dramme. V. p. 4166. fin. I ricchi Ateniesi per lusso usavano di tener servi negri. Teofrasto Caratteri cap. 21. Terenz. Eunuch. 1. 2. 85. Auctor ad Herenn. IV. 50. Visconti Museo Pio Clem. t. 3. fig. 35. rappresentante la statua di un Negro servente al bagno. Negli spettacoli antichi si gridava da capo (αὖθις) come da noi. V. le mie noterelle latine sul Simposio di Senofonte. Similmente di tenere in casa una scimmia o più d’una ancora. Ib. c. 5. V. p. 4170.4298.

Alla p. 4144. capoverso 1. In questo senso bisogna intendere quel luogo di Epitteto Enchirid. c. 24. τούτων ἐμοὶ οὐδὲν ἐπισημαίνεται, ἀλλ' ἢ τῷ κτησιδίῳ μου ἢ τῷ δοξαρίῳ ἢ τοῖς τέκνοις ἢ τῇ γυναικί

E comandolle che senza altro (nulla) dire, per sua propria l’allevasse. Caro Gli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista, ragionamento primo, p. 6. ediz. di Crisopoli (Pisa) 1814. nel volume 2.do della Collezione degli Erotici greci tradotti in volgare.

MORDILLER. Mordre légèrement et frequemment; faire un grand nombre de petites morsures . Pougens Archéologie française art. mordiller, Paris 1821-5. tom.2. p. 29. Antica voce francese, adoperata anche da Scarron e dalla Sévigné, e inserita anche nel Dizionario dell’Accademia francese nell’ediz. del 1798.

Ella è cosa forse o poco o nulla o non abbastanza osservata che la speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita, cioè dalla vita propriamente detta, come il pensiero, e come l’amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno ec. Disperazione, rigorosamente parlando, non si dà, ed è così impossibile a ogni vivente, come l’odio vero di se medesimo. Chi si uccide da se, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amor di se stesso. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza, atto che benchè si possa sempre distinguere logicamente, nondimeno in pratica è ordinariamente un tuttuno, quasi, coll’atto di desiderio, e la speranza una quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio. (Bologna. 18. Ottobre. 1825.).

Voleter per volitare. Gill. Durant antico poeta francese, ap. Pougens Archéolog. franç. art. oiselet, tom. 2. p. 63. ed. Ét. Pasquier ap. lo stesso, t. 2. p. 162. art. Pucette. (Bologna. 19. Ott. 1825.).

Diminutivi greci positivati. Τεῦτλον-τεύτλιον, τευτλὶς ίδος; o vero σεῦτλον-σευτλίον, σευτλὶς ίδος.

Il genitivo per l’accusativo. Teofrasto Caratteri, cap. 16. περὶ δεισιδαιμονίας: δάφνης εἰς τὸ στόμα λαβών , preso del lauro in bocca.

Faux-faucille. Clientolo. Truogo-truogolo-trogolo. Grillon. V. i Diz. francesi.

PILLOTER, verbe actif et neutre. Exercer de petits pillages multipliés; piller de côté et d’autre par petites portions . Antico verbo francese, col suo derivato pilloterie, ap. Pougens, Archéologie française, art. pilloter, tom.2. p. 119-120. (21. Ottobre. 1825. Bologna.).

Contemptus, contemptior ec. per contemptibilis ec. Infamato per infame. V. Crus.

Profusus per che profonde. ( Sallust. Catil. 5. alieni appetens, sui profusus ). V. Forcell. Ital. profuso. Spagn. profuso. Franc. antico profus, ap. Pougens, Archéologie française tom. 2. p. 152. art. profus. Inglese, profuse. Tutti nello stesso senso attivo. (Bologna. 23. Ott. Domenica. 1825.).

Vivuola-vivola viola: strumento musico, e fiore. Spagn. viHuela. V. la giunta L. nella Crus. Veron. all’articolo H. e la Crus. V. vivuola e gargagliare.

Κηλὶς ίδος, probabilmente diminutivo positivato.

Réviser, raviser franc. da aggiungersi al detto da me sopra divisare avvisare ec.

Rétentive per faculté de retenir, mémoire, substantif fém. antica voce francese presso Pougens Archéol. franç. tom. 2. p. 203. Appendice à la suite de la lettre R. art. Rétenteur. Retentiva spagn. e retentive ingl. col senso stesso. Da aggiungersi al detto altrove di retinere ec.

Ἄγνωστος per che non conosce, attivo, come in lat. ignotus, del che altrove. Teofrasto, Caratt. cap. 23. mezzo, dove male il Coray cogli altri interpreti lo spiega passivamente, inconnu. La Bruyere des gens qu’il ne connoît point et dont il n’est pas mieux connu. (Bologna. 26. Ottobre. 1825.).

Trafelato per che trafela, trafelante. Scialacquato v. Crus. par. 1. e 2.

Moscolo, muschio-muscus, musco. Lucerta-lucertola, lucertolone ec.

Posidippe, rival de Ménandre, reproche aux Athéniens comme une grande incivilité leur affectation de considérer l’accent et le langage d’Athènes comme le seul qu’il soit permis d’avoir et de parler, et de reprendre ou de tourner en ridicule les étrangers qui y manquoient. L’atticisme, dit-il à cette occasion, dans un fragment cité par ce Dicéarque, ami de Théophraste, dont j’ai parlé plus haut (credo, nei Geografi[a]

V. Creuzer, Meletemata , dov’è il framm. di Dicearco.

[Chiudi] greci minori si trova il pezzo di Dicearco), est le langage d’une des villes de la Grèce; l’hellénisme celui des autres. I. G. Schweighaeuser, note 24. sur le Discours de La Bruyere sur Théophraste. Les Caractères de Théophraste, traduits par La Bruyere, avec des additions et des notes nouvelles par I. G. Schweighaeuser. Paris Renouard. 1856. tome 3.e des oeuvres de La Bruyere, p. LIII-IV. (Bologna. 26. Ottob. 1825.).

Verba plur. Autore del poema La Passione di Cristo N. S. attribuito al Boccaccio, presso il Perticari, opp. Lugo 1823. vol. 3. p. 453. — Calcagna. Lineamenta. Sacca.

Ogli si disse anticamente per occhi (come periglio da periculum) (e quindi forse anche oglio per occhio), benchè manchi ne’ Vocabolari, e ciò con tre esempi provò il Perticari in una sua lettera, opp. Lugo 1823. vol. 3. p. 577. nota. (Bologna. 1825. 27. Ott.).

Ronzino, ronzone, probabilmente diminutivi positivati. Così sillon, sillonner ec.

TROTTINER, trotter à petits pas. Antico verbo francese, portato anche nel Diz. di Richelet e in quello di Trévoux, e usato anche da Piron. Pougens, Archéol. franç. art. trottiner, t. 2. p. 249. — Sautiller.

Tance-tançon. Parole sinonime, francesi antiche, significanti action de tancer, de réprimander; gronderie, dispute, querelle. Id. ib. Appendice à la suite de la lett. T. art. Tanceur, t. 2. p. 251. (Bologna. 1825. 28. Ott.).

Pouvoir — francese antico pooir, sostantivo, come si vede ib. art. Triplication, t. 2. p. 248. Gengia gengiva.

Rado, rasum- raser francese, raschiare frequentativo-diminutivo quasi rasculare, raschiatura ec.

Adulater, antico verbo franc. per adulare, usato da Brantome, Dam. gal., t. 1. p. 322. ap. Pougens, Archéol. franç. Additions et corrections du tome premier, page 8. art. Aduler, tom.2. p. 274. (Bologna. 1825. 29. Ottob.).

Tournoyer frequentativo ec. come flamboyer ec. Numéroter.

Voglioloso, vogliolosamente. Freddoloso.

Nonpareil, o non pareil (v. i Diz. franc.) — Teofr. Caratt. cap. 28. Ἡ δὲ πονηρία οὐδὲν ὅμοιον (il man. Vaticano ha οὐ ὅμοιον). La sua spilorceria, miseria (così va qui spiegato πονηρία) è cosa senza uguale, senza pari.

Enfantiller. Faire des enfantillages, jouer d’une manière enfantine. Antico verbo franc. ap. Pougens Archéol. franç. Appendice à la suite de la lettre E, art. Enfantiller tom.1. p. 194. — Fendiller (se). Se gercer, s’entr’ouvrir par de petites fentes ou crevasses. Antico verbo franc. ap. le même, même ouvrage, art. Fendiller p. 202. tom.1. et dans les Additions et corrections du tome premier, page 202. ligne 16. tom. 2. p. 300. (Bologna. 1825. 30. Ott.).

Strascinare — strascicare, strascico ec. Biasciare biascicare.

Nota il Coray ( Notes sur les Caractères de Théophraste, ch. 26. note 9. à Paris 1799. p. 314.) che παχὺς gros signifie au figuré riche , citando appiè di pagina Schol. Aristoph. Vesp. 287 e però nel 26. capo dei Caratteri di Teofrasto, rende par PAUVRE le mot λεπτὸς qui signifie au propre MINCE ou MAGRE , in quelle parole cioè di Teofrasto sopra il partisan de l’oligarchie ( περὶ ὀλιγαρχίας ), καὶ ὡς αἰσχύνεται ἐν τῇ ἐκκλησίᾳ (dice ὁ ὀλίγαρχος di se memdesimo) ὅτ' ἄν τις παρακάθηται αὐτῷ λεπτὸς καὶ αὐχμῶν ( pauvre, mal mis et sale. Coray). V. i Lessici in παχὺς. Similmente appunto noi diciamo grosso mercante, possidente grosso, famiglia grossa e simili, per ricca. (Bologna. 31. Ottobre. 1825.). V. i francesi e spagnuoli.

Soletto diminutivo positivato aggettivo, e così nell’antico francese, seulet. Timon, cest insigne et beau haysseur d’homme, qui, tant envieusement, mangea son pain seulet. Noël Dufail. Cont. d’Eutrapel (gros débat entre Lupold etc.) fol. 154. vo. ap. Pougens Archéol. franç. Additions et correct. tom. 2. p. 302. à la page 243, ligne 6. du tome 1.r.

Coccola. Rastro-rastrello ec. Fraga-fragola. Cocuzzolo o cucuzzolo. Razzare-razzolare. Curata o corata coratella o curatella o coradella ec. V. la Crusca.

Fiasco-flacon. Pila-pilon. V. i Diz. franc. Radium rayon.

Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che più non sente ec. (Bologna. 3. Nov. 1825.).

Satollo diminutivo positivato aggettivo da satur, quasi saturellus, o satullus, formandosi dalla desinenza in ur la diminutiva in ullus, collo stesso andamento con cui da quella in er si forma la diminutiva in ellus (puer-puellus) e forse da quella in ir quella in illus, del che per ora non mi sovvengono esempi. V. Forc. e Gloss. in satullus se hanno nulla. (Bologna. 3. Novembre. 1825.).

Ὀρθία ἰσχυρῶς fortemente, cioè molto, erta. Senofonte Ἀναβάς 1. 2. 21.

Arrampicare, rampicare, arpicare (forse piuttosto da ἕρπω, come inerpicare ec.) — rampare, ramper ec. Biancicare. Luccicare.

Variato o vaiato, svariato, disvariato, divariato per vario o vaio (Bologna. 4. Nov. 1825.) o svario, agg.

Uva-ugola. Notisi, oltre alla positivazione del diminutivo il cambiamento del v in g. I nostri antichi dissero anche uvola.

Scalprum, scalpro-scarpello coi derivati. V. i francesi e gli spagnuoli.

Rinfocolare. Razzare-Razzolare. Brancolare. Ruzzare ruzzolare.

Anche i verbi desiderativi (o comunque li chiamino) si formano dai supini. Edo-esum-esurio, pario-partum parturio, mingo-mictum-micturio.

Agiato, agiatamente, disagiato ec. aisé, aisément, mal-aisé ec. per agevole cioè agibilis (che corrisponde a facilis, cioè fattibile), non sono altro che participii in luogo di aggettivi, cioè actus in cambio e in senso di agibilis ec. (Bologna. 6. Nov. 1825.). Inexoratus per inexorabilis.

Burchio-burchiello. Marco, marca-marchio; marcare marchiare. Sarda-sardella, e noi volgarmente sardone.

Tratteggiare frequentativo. Atteggiare. Tasteggiare. Aleggiare.

Adombrato neutro, per che adombra. V. la Crus. e anche aombrato. Trasognato per che trasogna.

Ghignare, sghignareghignazzare, sghignazzare. Svolazzare. Ammalazzato. Strombazzare.

Germer, germinare lat. e ital. — germogliare quasi germiculare o germuculare, o germinuculare. Così germoglio, quasi germiculus o germuculus, diminutivo positivato di germen, germe. — Spiccare-spicciolare, spicciolato ec. Abbrustolare, abbrustolire ec. Aggrumolare. Aggroppare aggrovigliare.

Strida, grida, pera, mela plur. V. la Crus. Staia (sextaria).

Scricchio-scricchiolo. Nubes, nube-nuvola, nuvolo, nugolo ec. V. Crus.

Scricchiolare. Suggere-succhiare, succiare ec. Disgocciolare.

Visco, viscoso, vesco, viscus o viscum-vischio, vischioso, veschio. Lens-lenticula; lente-lenticchia, lentille franc. V. gli spagn. Inviscare — invischiare ec. invescare — inveschiare.

Prezzolare. Trombettare e strombettare, coi derivati.

Sacrato per sacro, e così sacré e sagrado per sacer. V. Forc. in sacratus.

Tero is tritum-tritare ital. (V. Forcell. ) — stritolare.

Al detto altrove di dicere-dicare aggiungansi i composti praedicare, dedicare ec. E notisi che sedare sebbene è della stessa famiglia che sedere, nondimeno non appartiene al nostro discorso più che fugarefugere. Gli uni (sedare-fugare) sono attivi, gli altri (sedere-fugere) neutri. (Bologna. 13. Nov. 1825. Domenica.). Così placere-placare.

Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare.

καλεῖται δὲ κατὰ μὲν τὸν Ἄρατον Ἠριδανός• οὐδεμίαν δὲ ἀπόδειξιν περὶ αὐτοῦ φέρει (Ἄρατος) non porta di ciò alcuna prova. Eratostene. Catasterismi cap. 37. (Bologna. 14. Nov. 1825.).

Più tempo per del tempo come più anni per parecchi anni (plures anni) frase di classici. — V. le giunte alle mie osservazioni sui taumasiografi greci, cioè al cap. 1. col. 81. lin. 2. di Flegone ; πλείονα χρόνον ec. (Bologna, 14. Nov. 1825.). Similmente i più, le più ec. — οἱ πλέιους per οἱ πλεῖστοι. V. le cit. osservaz. ad Antigono, cap. 127.

Πρώτον μὲν ὦν χρὴ τοῦτο γινώσκειν ὅτι ὁ μὲν ἀγαθὸς ἀνὴρ οὐκ εὐθέως (idcirco, luego, non statim, come rende il Gesnero) εὐδαίμων ἐξ ἀνάγκας ἐστίν. Archytas Pythagoreus, de viro bono et beato ap. Stob. serm. 1. ed. Gesner. Basileae 1549. p. 13.

Ἀγκύριον per ἄγκυρα áncora. Socrate ap. Stob. loc. cit. p. 21. e c. 2. p. 33.

Bozzo volg. — bozzolo; e bozzolo in altri significati, coi derivati. V. Crus.

Una delle maggiori difficoltà ec. consiste nella soppressione delle vocali e nel non essersi scoperta sin ad ora la regola costante per poterle supplire , dice il Ciampi parlando della lingua etrusca in generale nell’ Antologia di Firenze N. 58. Ottobre 1825. p. 55. Quali regole sicure abbiamo, non per la lezione letterale ma per la grammaticale? (della scrittura etrusca). È certo che le vocali spesso son tralasciate; ma ciò facevasi egli a capriccio degli scarpellini, o per seguitare la pronunzia, ovvero per qualche regola stenografica od ortografica, come la scrittura massoretica degli Ebrei? Nulla ne sappiamo; e molto meno sappiamo in qual modo si abbiano da supplire. Ib. p. 57. Ciò serva per il mio discorso sopra la cagione della soppression delle vocali nelle scritture più antiche e più rozze e imperfette. (Bologna. 15. Nov. 1825.).

In questo (in questa) in quello (in quella) ec. avverbi di tempo. — grec. ἐν τούτῳ. Καὶ ἐντούτῳ ἡ ἑτέρα γυνὴ προσελθοῦσα εἶπεν. Senofonte, Memorab. nella favola dell’Ercole di Prodico .

Stobeo, sermone 7. περὶ ἀνδρείας de Fortitudine, ed. Gesner. Basilea 1549. p. 91. In margine: Agatarsidae (sic) Samii in 4. rerum Persicarum. Nel testo: Ξέρξης μετὰ πεντακοσίων μυριάδων Ἀρτεμισίῳ προσορμίσας πόλεμον τοῖς ἐγχωρίοις κατήγγειλεν. Ἀθηναῖοι δὲ συγκεχυμένοι, κατάσκοπον ἔπεμψαν Ἡγησίλαον (in marg. Ἀγησίλαον ) τὸν Θεμιστοκλέους ἀδελφόν• καί περ Νεοκλέους τοὺ πατρὸς αὐτοῦ κατ' ὄναρ ἑωρακότος ἀμφοτέρας ἀποβεβηκέναι (in marg. ἀποβεβληκότα ) τὰς χεῖρας. παραγενόμενος δὲ ὁ ἀνὴρ εἰς πλῆθος τῶν βαρβάρων ἐν σχήματι Περσικῷ, Μαρδώνιον ἕνα τῶν σωματοφυλάκων ἀνεῖλεν, ὑπολαβὼν Ξέρξην ὑπάρχειν. συλληφθεὶς δὲ ὑπὸ τῶν δορυφόρων (Gens. a satellitibus) πρὸς τὸν βασιλέα δέσμιος ἤχθη. βουθυτεῖν δὲ τοῦ προειρημένου μέλλοντος, ἐπὶ τὸν βωμὸν τοῦ ἡλίου τὴν δεξιὰν ἐπέθηκε χεῖρα, καὶ ἀστένακτος ὑπομείνας τὴν ἀνάγκην τῶν βασάνων, ἐλευθερώθη τῶν δεσμῶν εἰπών• Τοιοῦτοι πάντες ἐσμὲν Ἀθηναῖοι• εἰ δ' ἀπιστεῖς, καὶ τὴν ἀριστερὰν ἐπιθήσω. φοβηθεὶς δ' ὁ Ξέρξης, φρουρεῖσθαι τὸν Ἀγησίλαον προσέταξεν. Il fatto di Regolo è stato condannato per favola; quello di Muzio Scevola potrà esserlo parimente, se non altro, col confronto di questo luogo, forse non osservato finora. (Bologna. 19. Nov. 1825.). V. p. 4193.

Μεγάλα γὰρ πρήγματα μεγάλοισι κυνδύνοισιν ἐθέλει καὶ αἱρέεσθαι Herodot. l. 7. c. 50. ap. Stob. serm. 7. περὶ ἀνδρείας In Erodoto si legge ἐθέλει καταιρέεσθαι. (Bologna. 9 Nov. 1825.).

Exhaustare ec. V. Forcell. Coltare da colo. Crus.

Inhonorus — inhonoratus. V. Forcell.

Αὐτίκα per verbigrazia ec. Eschine, Dial. 2. cioè περὶ πλούτου, sect. 24. bis.

Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far creder al mondo di esser già famoso. (Bologna. 21. Nov. 1825.). Analogo e confermativo di questo detto è quello di Labruyère, che più facile è far passare un’opera mediocre in grazia di una riputazione dell’autore già ottenuta e stabilita, che l’ottenere o stabilire una riputazione con un’opera eccellente.

Stefano Bizantino in Ἴτων dice che la città d’Itone fu anche detta Σίτων Sitone.

Eschine, Dialogo 3. Assioco, sezione 8. parlando dei mali della vita nelle diverse età: καὶ τοῖς (rispetto, appetto a) ὕστερον χαλεποῖς ἐφάνη τὰ πρῶτα παιδικὰ, καὶ νηπίων ὡς ἀληθῶς φόβητρα. Il Wolfio stampò χαλεποῖς παραβαλλόμενα ἐφάνη, e disse che in vece di παραβαλλόμενα si poteva anche supplire συγκρινόμενα o ἀντεξεταζόμενα. Il Fischer, not. 52. ed. Lips. (Aeschin. Socrat. Diall. tres) 1766. non approva il Wolfio, e dice nam Dativus ille quidni pendere a verbo ἐφάνη possit ? Fatto è che questo è un italianismo, cioè il dativo solo in vece di rispetto o appetto a. V. Forcell. in ad se ha nulla a proposito. (Bologna. 1825. 22. Nov.).

To look for. — aspettare (ad-spectare).

Rubacchiare. Scrivacchiare. Sforacchiare. Schiamazzare. Mormoracchiare.

Crocire-crocitare. V. Forcellini . Sorbire sorsare. V. Crus. e Forc. e Gloss.

Vagina-gUaina, eVaginare-sgUainare ec. Spagn. vayna ec.

Sopracciglia.

Βρυττὸν-βρύττιον (bevanda d’orzo, birra) diminutivo positivato. Significano ambedue le voci lo stesso. Esichio. (Bologna. 27. Nov. 1825.).

Juxta meam sententiam βρύω et βρύζω idem verbum est, ut βλύω et βλύζω, βύω βύζω, μύω μύζω, φλύω φλύζω et alia. Ignatius Liebel ad Archilochi fragm. 5. p. 70. ed. Vindobon. 1818.

Freno-Frenello. V. Crusca.

Plutarch. de Exil. t. 8. p. 383. ed. Reiske: Ἀρχίλοχος τῆς Θάσου τὰ καρποφόρα καὶ οἰνόπεδα παρορῶν, διὰ τὸ τραχὺ καὶ ἀνώμαλον διέβαλε τὴν νῆσον, εἰπών..

Ἥδε ὡς ὄνου ῥάχις
Ἕστηκεν ὕλης ἀγρίας ἀπιστεφής.

(Taso era nome di un’isola aggiacente alla Tracia.) A questo frammento di Archiloco il Jacobs fa questa osservazione. Ὄνου ῥάχις. Propter montium iuga poeta sic appellasse videtur insulam. Plurimas partium corporis appellationes ad terrarum situm et conditionem significandam translatas diligenter collegit Eustath. ad. Il. p. 233. seqq. quaedam schol. Sophocl. in Oed. Col. 691. conf. Wesseling ad Herod. 1. p. 35. 86. Promontorium Laconiae ὄνου γνάθον appellatum commemorat Pausanias III. 22. p. 431. edit. Facii. Nec hoc ὄνου ῥάχις tam Archilocho proprium fuisse puto, quam potius montosarum regionum appellationem. Jacobs, Animadverss. in Antholog. vol. 1. par. 1. p. 165. seq. ap. Liebel loc. cit. qui dietro, fragm. 9. p. 79. Or notisi il nostro schiena d’asino o a schiena d’asino, detto di strade ec. (Bologna 27. Nov. 1825. Domenica.).

Ἕστηκεν i. e. ἐστὶν Odyss ρ. 439. περὶ κακὰ πάντοθεν ἔστη. Chariton l. 3. c. 5. p. 51. 10. τότε γὰρ ἔτι χειμὼν ἑστήκει, ubi vid. Dorvillium, qui ostendit hoc ve saepe pro εἰμὶ cum emphasi adhiberi, ut stare apud Latinos p. 303. Sic Horat l. 2. od.9. 5. Nec stat glacies iners Menses per omnes. Cfr. ibi Mitscherlich (interprete ossia commentatore di Orazio) Liebel, loc. cit. qui sopra.

Mercari, it. mercare-mercatare, (spagn. se non fallo, mercatar), onde mercatante particip. sostantivato, e quindi mercatantare, mercatanzia ec. e mercadante ec.

Sfallare, sfalsare, sfallire, aggiungansi al mio discorso sopra falsare ec.

Calcagna.

Sorbillo as. V. Forc.

Frega-fregola.

Ἀλλ' ἄνα per ma su, coraggio. Omero Il. ι v. 247. Odyss. σ.. 13. Ἄνα (Su) δυσδαίμων πεδόθεν κεφαλὴν ἐπάειρε. Eurip. in Troasi, v. 98. ( Liebel, l. sup. cit. p. 105. fragm. 32.) — Su, orsu ec.

Ἐπειδὴ Ζεὺς πατὴρ Ὀλυμπίων Ἐκ μεσημβρίας ἔθηκε (fece) νυκτ', ἀποκρύψας φάος Ἡλίου λάμποντος. Archiloch. ap. Stob. serm. CIX. περὶ ἐλπίδος , ap. Liebel. fragm.31. p. 100., loc. sup. cit.

Καρδίης πλέως , dice Archiloco (fragm. 34. p. 110. loc. sup. cit. ap. Galen. Dion. Schol. Theocr. ec.) che dev’essere un Generale, e noi diremmo, pien di cuore. Italianismo. V. i Lessici.

Dolore antico. Era frase usitata per esprimere le sventure ec. il dire che il tale giaceva in terra, cioè si voltolava tra la polvere, e Archiloco (ap. Stob., serm. 20. περὶ ὀργῆς, fragm. 32. p. 103. loc. sup. cit.) dice: καὶ μήτε νικῶν ἀμφάδην (φανερῶς) ἀγάλλεο, Μηδὲ νικηθεὶς ἐν οἴκῳ καταπεσὼν ὀδύρεο. Aristofane, Nub. v. 126. Ἀλλ' οὐδ' ἐγὼ μέντοι πεσών γε κείσομαι i. e. ἀθυμήσω ( Liebel, loc. sup. cit. p. 106. ad fragm. 32.) Archiloco medesimo (fragm. 33. p. 107. ap. Stob. serm. 103.) volendo dire uomini sventurati e calamitosi, dice: Ἄνδρας μελαίνῃ κειμένους ἐπὶ χθονί. Presso Omero ( Il. σ 26.) Achille udita la morte di Patroclo si gitta in terra, e così Priamo per quella di Ettore; ed Ecuba (nell’Ecuba di Sofocle o di Euripide v. 486.496.) sta prostesa in terra piangendo le sventure sue e dei suoi, e Sisigambe madre di Dario, udita la morte di Alessandro, si gittò in terra. Curt. X. 5. p. 4243.

Ἄλλ' ἔνι λόγος (ratio docet) καὶ σὺν τούτοις (con tutto questo, ciò non ostante, con questo) παρίστασθαι τῷ φίλῳ καὶ πατρίδι συγκινδυνεύειν. Epictet. Enchirid. c. 39. Κᾂν σὺν τούτοις (e se contuttociò) ἐλθεῖν καθήκῃ, φέρε τὰ γινόμενα. Ib. cap. 52. (Bologna 3. Dic. Festa di S. F. Saverio. 1825.).

Roma, la prima e più potente città che sia stata al mondo, è stata anche l’unica destinata e quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente, e non per conquista nè per alcuno accidente straordinario. Ciò negli antichi tempi, sotto gl’Impp. (Traiano, Massimino ec. ec.), e ciò di nuovo ne’ moderni sotto i Papi (moltissimi dei quali furono non italiani), e l’una e l’altra volta ciò passò in costumanza ed ordine fondamentale dello Stato, cioè che il Principe di Roma potesse essere non romano e non italiano. Così la prima città del mondo, e così l’Italia, prima provincia del mondo, pare per una strana contraddizione e capriccio della fortuna essere stata (nel tempo medesimo del maggior fiorire del suo impero, sì del temporale e sì dello spirituale) condannata a differenza di tutte le altre ad una legittima e pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista. (Bologna 1. Dec. 1825.).

Onestato per onesto. Crus. Curato, curè ec. per che cura, participio sostantivato.

Causado per que causa. Divertido per que divierte.

Laurus- laurel. (spagn.).

Σκύτος o σκύτη ec. — σκυτὶς. κύρτη-κυρτὶς. κιθάρα κίθαρις.

Eustathius Odyss. ε t. 3. p. 1542. ed. rom. ubi docet τρὶς in compositis multitudinem πολὺ,πολλάκις, ἄγαν significare, ad quod illustrandum Archilochi hunc locum adfert (Θάσον δὲ τὴν τρισοϊζυρὴν πόλιν), et per λίαν ὀϊζυρὰν explicat. Item t. 1. p. 725. Sic et Virgil. O ter quaterque beati. Et poeta Germanus: O dreymal glückliches Land! Liebel, loc. sup. cit. fragm. 92. p. 202. Così τρισιόλβιος, τρισμάκαρ ec. ec. (Bologna, 6. Dic. 1825.). Francesismo.

Perocchè (l’uomo) non era servo se non di Dio, il quale doveva amare con tutto il cuore, senza altro compagno. Cavalca Specchio di croce, capit. 4. verso il fine, ediz. di Brescia, 1822. p. 13.

Uomo pesato cioè considerato ec. Crus. e v. la Crus. veron. in posato. Riposato, posato. V. la Crusca. Riserbato ib. Perversato per perverso.

Spiare-spieggiare. Sortire-sorteggiare. Stormeggiare, stormeggiata.

Divenire-diventare (da ventum sup. di venio). Cupio cupitum-cupitare, covidare, convitare (Crus.), convoiter ec. v. gli spagn. Pervertire-perversare. V. Crus. in perversare e perversato.

Fa v ola-fa o la-fola.

Invaghire-invaghicchiare.

Notasi che gli antichi greci diedero spesso il nome di πόλις a regioni e paesi. Πάρος, νῆσος, ἣν καὶ πόλιν Ἀρχίλοχος αὐτὴν καλεῖ ἐν ἐπῳδοῖς. Steph. Byz. voc. Πάρος. Insulas et regiones etiam πόλεις ab auctoribus dictas esse, observat Strabo l. 8. p. 546. Στησίχορος δὲ καλεῖ πόλιν τὴν χώραν Πίσαν λεγομένην, ὡς ὁ ποιητὴς τὴν Λέσβον Μάκαρος πόλιν. Εὐριπίδης ἐν Ἴωνι Εὔβοι' Ἀθήναις ἐστὶ τις γείτων πόλις. κτλ... quae vid. Cf. ibid. Casaub. not. 2. Sic et insula Cos Il. β, 676. et Lemnus, Od. θ 284. ab Homero nominatur. Ipse Archilochus fragm. 92. (Θάσον δὲ τὴν τρισοϊζυρὴν πόλιν, ap. Eustath. Od. ε t. 3. p. 1542. ed. Rom.) insulam Thasum πόλιν dicit. Lysias contra Andocid. ἔπειτα δὲ καὶ διώχληκε πόλεις πολλὰς ἐν τῇ ἀποδημίᾳ, Σικελίαν, Ἰταλίαν, Πελοπόννησον κ. τ. λ.. Aristides de Neptuno t. 1. p. 20. ed. Jebbii Oxon. 1722. καὶ πόλεις δὲ ἐπολίσατο τοῖς ἀνθρώποις, ἃς καὶ νήσους νυνὶ καλοῦμεν Aeschil. Εὐμεν. 75. insulas περιῥῤύτους πόλεις vocat. Sic Propert. l. 3. el. 9.16. observante Huschke Miscell. philol. P. 1. p. 24. Praxitelem Paria vindicat urbe lapis. — Liebel loc. sup. cit. fragm.76. p. 179-80. Simili cause, simili effetti: tempi simili, costumi simili, e lingua e parole sempre analoghe ai costumi. Questo chiamar città i paesi, probabilmente derivò dal modo in cui vivevano gli uomini prima delle prime città; già bastantemente civili, bastantemente riuniti insieme, ma non però tanto da far città in corpo, bensì borghi, e villette in gran numero, occupanti gran tratto di paese. Tutto questo tratto si dovette da principio chiamar πόλις, onde poi fu trasferita la significazione a città (quando cioè le città vi furono), e non già viceversa. Questi erano i tempi in cui Atene non era altro che quattro ( Plutar. in Thes. Euripid. Heraclid. 81.), o 11. (Steph. Byz. Ἀθῆναι ) o 12. (Theophr. Charact. c. 26. fin. in addition. ex ms. Vat.) borgate sparse per l’Attica, poi riunite da Teseo, (v. Meurs. in Theseo) e chiamate con un solo nome Atene; e Mantinea similmente in Arcadia ec. Ora sappiamo dalla storia che lo stesso modo di abitare a borgate si usò nei bassi tempi; allo stesso modo poi, crescendo la nuova civiltà, le città si formarono (v. Robertson, introduz. alla Stor. di Carlo V), ed appunto allo stesso modo, troviamo negli antichi fino al 500, ec. le città chiamate generalmente con nome di terre, voce significativa propriamente di paesi, nel qual modo si chiamano anche oggi nello scrivere con eleganza, eziandio le città grandi, in volgar comune e favellato, i castelli, e i così detti paesi. Così in francese anche oggi pays per città, benchè proprio nome di regione. (V. del resto i Diz. franc. e spagn. e ingl. ec. in Terra ec. e nei nomi di città, e così Forcell. Gloss. ec. Da terra per città, terrazzano p. cittadino. ec.) Cosa che anche conferma la mia opinione sopra il vero primitivo significato di πόλις. (Bologna. 1825. 9. Dec. Vigilia della Venuta della Santa Casa.).

Tiglio- tilleul.

Selva per albero cioè per lauro. Petr. Sestina 1. stanza 6. E per legno, ib. chiusa.

Sentido per que siente, (così risentito ec.), e quindi sostantivato per sentimento, senso. Esclarecido. V. i Diz. spagn.

Pausar spagn.

Sentimenta.

Aerugo o rubigo o robigo- rouille.

Ἡττημένη τοῖς πρώην ἡ τύχη καθ' ἕνα τῶν ἀγώνων προσφέρουσα, νῦν τι καινὸν ἐτεχνάσατο καθ' ἡμῶν. Severus Sophista Alexandrinus in Ethopoeiis editis a Galeo in libello cui tit. Rhetores selecti nempe cum Demetrio περὶ ἑρμηνείας ec. Oxon. 1676., Ethop. 3. pag. 221. Il genitivo per l’accusativo. (Bologna. 16. Dic. 1825.).

Summittere per mandare in alto; o vero submittere. V. Forcell.

Marceo o marcesco, marcitum; marcire, marcito marchitar spagn.

Siccome ad essere vero e grande filosofo si richiedono i naturali doni di grande immaginativa e gran sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la più antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all’uso della filosofia nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure, fredde e antifilosofiche teste sono di natura le più disposte all’esercizio pratico della filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso pei suoi tempi quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per natura alla pratica della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle dottrine più illusorie, di quelle dell’entusiasmo ec.? E infatti chi meno filosofo di lui nella pratica, e nell’effetto che gli accidenti della vita producevano nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi spensierati e imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella pratica sono il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica? Veramente, siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla filosofia teorica, sono i più filosofi nell’effetto. E si potrebbe anzi dire che la mira, l’intenzione e la somma della filosofia teorica e de’ suoi precetti ec. non consiste effettivamente in altro che nel proposito di rendere la vita e il carattere di quelli che la posseggono, conforme a quello di coloro che non ne sono capaci per natura. Effetto che ella difficilmente ottiene. (Bologna. 20. Dic. 1825.).

Bebido per que ha bebido. Estar reñidos. Lucido per luciente, spagn.

Providens-prudens.

Νικίας δ' ὁ ζωγράφος καὶ τοῦτο εὐθὺς ἔλεγεν εἶναι τῆς γραφικῆς τέχνης οὐ μικρὸν μέρος, τὸ λαβόντα ὕλην εὐμεγέθη γράφειν. Demetr. de Elocut. sect. 76. ed. Gale p. 53. (Bologna. 22. Dic. 1825). Εὐθὺς οὖν πρώτη ἐστὶ χάρις ἡ ἐκ συντομίας. Ib. sect. 137. p. 85. (24. Dic. 1825.).

Gradito, aggradito ec. per gradevole, grato. (25. Dic. dì del S. Natale. 1825.).

Favorito per favorevole. V. le Giunte Veron. alla Crus. in Favoritissimo, e la Crus. in Favorato per prospero. Scaltrito da scaltrire per scaltro. Scalterito; scalteritamente o scaltritamente per scaltramente ec.

Degnò mostrar del suo lavoro in terra. Petr. Canz. Gentil mia donna, l’veggio, stanza 2. v. 3. (27. Dic. Festa di S. Giovanni Evangelista. 1825. Bologna.).

Comparatus per par, comparabilis. V. Forc. Crus. ec.

Demetrio περὶ ἑρμηνείας , sect. 240. ed. Gale, Oxon. 1676. p. 134. φιλοφρόνησις γάρ τις βούλεται εἶναι (vuol essere, cioè dev’essere) ἡ ἐπιστολὴ σύντομος. Id. sect. 2. p. 2. βούλεται (vogliono cioè debbono) μέντοι διάνοιαν ἀπαρτίζειν τὰ κῶλα ταῦτα (Bologna. 28. Dic. 1825.). V. la per seg. capoverso 8. e qui sotto e p. 4224.

Al detto di θέλειν o ἐθέλειν per potere ha attinenza il nostro malvolentieri per difficilmente (Crus.) e volentieri per facilmente (Giunte Veronesi).

Ἁπλοῦν γὰρ εἶναι βούλεται (vuole cioè dee) καὶ ἀποίητον τὸ πάθος. Demetr. de elocut. sect. 28. p. 22. (Bologna. 31. Dic. 1825.).

Onde per dove, quo. Petr. Son. Occhi piangete, v. 6. (Bologna 1. del 1826.).

Crates, grata, grada-graticcio, graticcia, gradella, graticola, ingraticolato, craticcio (Crus. Veron.) ec. V. Forc. in craticula, i franc. spagn. ec.

Éploré per qui plorat da s’épleurer. Zélé per qui zèle, zelante. Homme réfléchi o irréfléchi.

Così avestu riposti De’ bei vestigi sparsi. Petr. Canz. Se ’l pensier che mi strugge. Stanz. 5. v. 7. 8.

Smoccare (Crus. Veron.) — Smoccolare, coi derivati.

Boves, bovi — buoi.

Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere. (Bologna. 17. Gen. 1826.).

Homme réservé. Riservato. V. gli spagn. Enjoué. Cabalgado per que cabalga o que està a caballo.

Torso-torsolo. Bitorzo-bitorsolo, bitortolato, bitortoluto.

Incrociare-incrocicchiare ec.

Segnalato, señalado, signalé per da segnalarsi o che si segnala o si è segnalato ec. coi derivati. Valido per que vale appresso qualcuno ec. V. i Diz. Desvalido.

Παραφυλακτέον δὲ (cavendum) καὶ τὸ παραλλήλους τιθέναι τὰς πτώσεις (pares casus) ἐπὶ διαφόρων προσώπων ἀμφίβολον (anceps, dubium) γὰρ γίνεται τὸ ἐπὶ τίνα φέρεσθαι , a chi riferire i detti casi. Theo sophist. Progymnasm. 2. hoc est de narrat. ed. Basileae 1541. p. 36. L’infinito usato in modo affatto italiano. (Bologna. 24. Gen. 1826.). V. p. seg. capoverso 3.

Hombre o cosa arriesgada, arrischiato, arrisicato ec. per rischioso o che si arrischia. V. i francesi in hasardé ec. Agiato per pigro, cioè che opera ad agio, che si adagia ec.

Affettato, affecté ec. per che affetta, o che ha affettazione.

Alla p. 4162. capoverso 5. Ἐν μὲν τοῖς ἐγκωμίοις καὶ ψόγοις φροντιστέον καὶ προοιμίων, ἐπὶ δὲ τοῦ τόπου (in loco communi) ἐπίνοια τοιαύτη τὶς εἶναι βούλεται (absolute) ὥστε ἀποκοπὴν εἶναι δοκεῖν, καὶ μέρος λόγου ἑτέρου προειρημένου. In laudando et vituperando, ne exordia quidem negligenda, loci vero huiusmodi quaedam est consideratio, ut amputatum quiddam videatur, atque pars orationis alterius iam habitae. (versio Joachimi Camerarii). Theo sophista, Progymnasm. 5. de loco communi, ed. Basileae 1541. p. 71. (30. Gen. 1826. Bologna.). V. p. 4212. fin.

Gli spagnuoli dicono mas ridondante o vero per niuno come noi altro. Sin mas oro ni mas seda , cioè senza punto d’oro nè di seta. Augustin de Roxas, Viage entretenido. (Bologna. 1. Feb. 1826.).

Il genitivo per l’accusativo Epitteto cap. 70. ἐπίσπασαι ψυχροῦ ὕδατος , piglia una boccata d’acqua fresca.

Avenido, estar avenidos ec. per conveniente, concorde, avvenente ec. V. i Diz. Visto spagn. per avveduto ec. Terencio fuè mas visto en los preceptos (poco sotto dice: Porque en esto Terencio fuè mas CAUTO ). Lope de Vega, Arte nuevo de hacer comedias . Négligé, Desabrido. Consigliato, sconsigliato, bene o mal consigliato.

Spessissimo noi, come un malato, un convalescente, che si cura, un povero che si procaccia il vitto con gran fatica, usando una infinita pazienza per solo conservarci la vita, non facciamo altro che patire infinitamente per conservarci, per non perdere, la facoltà di patire, ed esercitar la pazienza per preservarci il potere di esercitarla, per continuarla ad esercitare. (Bologna. 4. Feb. 1826.).

Alla p. 4163. capoverso 5. Analogo è questo luogo del medesimo Teone, Exempl. progymnasm. chria 1. p. 116. ἐν ταῖς ἀποβολαῖς τῶν παίδων καὶ τῶν ἀναγκαιοτάτων, οὗ (ubi) πολλάκις τὸ πάθος μεῖζον ἢ φέρειν V. p. 4190.4299.

Homme mésuré, misurato, smisurato, mesurado, desmedido ec. V. i Diz.

Affidato, sfidato per che si affida o sconfida ec. Confiado, desconfiado ec. Desasosegado. Resentido.

Coyuntar, descoyuntar da coniunctus, come juntar ec. V. i Diz. Compulser, expulser.

Αὐτῶν δέ γε τῶν ὑποθήκων (monitorum) τὰς μὲν ἐν γράμμασι, τὰς δὲ ἀπὸ στόματος οὑτωσὶ (così ridondante, della qual frase, altrove) πρὸς τοὺς συνόντας εἰπὼν, ἐν μνήμῃ κατέλιπε (Ἰσοκράτης). Theo sophist. Exempl. progymnasm. chria 3. sub init. ed. Basil. 1541. p. 129-30.

Τίς οὐκ ἂν θαυμάσειε πρὸ τῶν ἄλλων εὐθὺς τὴν ἀλήθειαν (primum ante cetera veritatem huius sententiae Isocratis). Theo, loc. sup. cit. p. 130.

Τί δὲ θαυμαστὸν εἰ προσδεῖται πόνων ἐκείνη (ἡ παιδεία), μηδὲ τῶν ἐλαττόνων ἄνευ ταλαιπωρίας ἐθελόντων περιγίνεσθαι. Ib. p. 137.

Dilatado per latus, v. p. 4167. come éloigné per lontano: dénué, assuré, rapproché, reculé, varié, prématuré, approfondi, élevé, prolongé, rembruni, azuré, rafiné, arrondi, infecté, participii in luogo di aggettivi.

Ἐν ἄλλοις τε οὐκ ὀλίγοις, καὶ οὐχ ἥκιστα τοῖς πρώτοις τῆς Ἰλιάδος εὐθὺς. Ib. sentent. 2. p. 151.

Malinteso per male, cioè poco, intendente. V. i franc. ec. Homme etc. recherché.

Ἤκουε γὰρ ἴσως (ὁ Χρύσης) τὴν περὶ τὸ γύναιον (τῆς Βρισήϊδος) τοῦ βασιλέως (Ἀγαμέμνονος) σπουδήν. Theo loc. sup. cit. Destruct. p. 152. V. p. seg. e p. 4166.

Τῶν ἀπολωλότων, τὸ ἐκείνου μέρος , che erano periti, per la sua parte, cioè per quanto era in lui. Ib. Assert. 1. p. 158 V. p. 4166.

Sperimentato, experimentado, expérimenté, inexpérimenté, esperimentato, inesperimentato ec. per che ha o non ha sperimentato. V. anche provato nella Crusca. Circospetto per qui circumspicit. V. Forc. Gloss. i francesi spagnuoli ec.

Risentire-risensare. V. Crusca.

Ὥστε καὶ εἰκότως σιγᾷ τὴν πρώτην, καὶ μετὰ τοῦτο φθέγγεται. Theo, loc. sup. cit. Assert. 2. p. 164. Alla prima. Τὴν πρώτην per da prima, da principio ec. è usato dallo stesso anche Loc. commun. 1 p. 171. V. p. 4211.4226. (Bologna 16. Feb. 1826.).

Οὕτως ἰὼν (andando, procedendo, cioè governandosi, adoperando) σωφρόνως (prudentemente, saviamente) ὁ Βασιλεὺς, ὑπερεῖδε τῆς ἱκετηρίας (ὁ Ἀγαμέμνων τοῦ Χρύσου). Ib. p. 162. Itaque considerate progressus rex, supplicationem illam despexit. (Versio Camerarii.). V. p. 4464.

Alla p. 4164. capoverso penult. Così anche Loc. commun. 1. p. 172. lin. 2.

Sbadato coi derivati per che non bada, non suol badare. Accorto, avveduto, malaccorto, malavveduto, inaccorto ec. disavveduto. Saporito per saporoso.

Mulina plur. V. le Giunte Veronesi alla Crusca. Le fata, le fondamenta, le pera ec. le prestigia. V. Monti Proposta, in questa voce. Le uova.

Κεῖνος φέριστος ὅστις ἀγνοεῖ βροτῶν
Ὡς ἔστιν ἐξαμαρτόντα μὴ δοῦναι δίκην•
Χείριστος δ' ὁ μεγίστην ἐξουσίαν λαβών.

( Νέωντα δ' ὅστις οὐ δοκεῖ βροτῶν. Simonid. ap. Stob. ). (18. Feb. 1826.).

Diminutivi positivati. Chiovo-chiovello coi derivati, chiavo-chiavello coi derivati, chiavare-chiavellare ec. Sommeil, soleil, (somniculus, soliculus), e simili.

Spe-cu-lum — spe-gli-ospe-cchi-o. Ventricolo — ventriglio.

Ratto per rapido è il lat. raptus da rapio (v. questi pensieri p. 2789.), e vale qui rapit in senso att. o neutro, ed è un participio aggettivato.

Idolum aliquandiu retro (qualche tempo addietro) non erat. Tertull. de Idololat. c. 3. V. Forc. ec. (Bologna 19. Feb. Domenica 2. di Quaresima. 1826.).

Vinco-vinciglio. Avvincere — avvinchiare, avvinghiare, avvincigliare.

Alla p. 4164. capoverso ult. Ἐλεεῖσθαι ἀξιοῖς παρὰ τούτων οἵ, τὸ σὸν μέρος, οὐκ εἰσί ; (non esistono più, cioè sono periti). V. p. 4211.

Ἄθλιος vale a un tempo infelice, e malvagio, del che altrove.

Non solo noi (Tanto è lungi che ec.) non possiamo sapere nè anche sufficientemente congetturare tutto quello di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana in universale, ma eziandio di un solo individuo, o passato o presente o futuro, noi non possiamo sapere esattamente nè congetturare quanta estensione, in circostanze appropriate, avessero potuto o pur potranno acquistare le sue facoltà. (Bologna. 21. Feb. 1826.).

Αὐτίκα in principio di periodo ec. del che altrove. Teone Sofista, loc. sup. cit. Comparat. 2. h. e. Achillis et Diomedis, initio, p. 204. lin.1. (Bologna. 22. Feb. 1826.).

Scempio-scempiato, coi derivati.

Fugio-fugito. V. Forcell.

Diminutivi greci positivati. ἄρνος-ἄρνειον (come in ital. agnello, e agneau ec.).

Alla p. 4164. capoverso penult. Così in Proposito p. 221. lin. 4 a fin. e 225. lin. 3. τὸ γύναιον per moglie semplicemente.

Ventolare att. e neutro. Sventolare. Bezzicare. Bazzicare.

Altro per alcuno, niuno. V. Crus. in Fare contrappunto.

Conto, sincope di cognitus, per conoscente, ammaestrato ec. V. la Crus. ed anche acconto. Sparuto per sparvente poichè in origine non è che il contrario di parvente, appariscente, vistoso ec.

Fondamenta.

Concordato per concorde, o concordante, coi derivati. Accordato, discordato, scordato per che scorda, scordante. V. Crus. Riguardato per che ha riguardo.

Frettoloso. Freddoloso. Meticulosus. Formidolosus. Fraudulentus. Frauduleux. Turbulentus. Truculentus. Succulentus.

Tigna, tinea-tignuola. Aranea-araneola ec.

Alla p. 4145. lin.1. Ciò è riferito da Luciano adversus indoctum plures libros ementem , dove narra anche di un’altra compera simile, che fa anche più al caso di esser paragonata con quelle che fanno i curiosi inglesi di oggidì.

Voveo-votum-votare, ital. V. Forcell. spagn. ec. Transire-transitare.

Senza altrimenti (cioè punto, in niun modo) ordinare sua famiglia. Vit. SS. PP. nelle Giunte Veronesi v. In trasatto.

Cutretta-cutrettola. Costa lat. e ital. costola. Ragnolo, ragnuolo.

Indefessus, indefesso ec. per infaticabile. V. anche Forcell. in indefatigatus, infatigatus ec. (Bologna. 4. Marzo. 1826.). Rilevato, relevé per alto. Inexhaustus ec.

Alla p. 4164. capoverso 9. Così étendu nello stesso senso; disteso, distesamente ec. E v. l’es. di Dante e del Tasso nella Crusca in Dilatato.

Sbevazzare.

Fare con accusativo di tempo, per passare, vedi la Crusca. — Schol. Euripid. ad Hippolyt. v. 35. ἔθος γὰρ τοῖς ἐφ' αἵματι (ob caedem patratam) φεύγουσι (exulantibus) ἐνιαυτὸν ποιεῖν ἐκτὸς τῆς πατρίδος. V. p. 4210. fin.

Serpere lat. e ital. — serpeggiare. Pasteggiare cioè far pasti ec.

Riferisce Cicerone de Divinat. un detto di Catone che egli si maravigliava come l’uno aruspice scontrandosi coll’altro si tenesse dal ridere. Applichisi questo detto ai Principi nei loro congressi, e massimamente in quelli degli ultimi tempi. (Bologna. 6. Marzo. 1826.).

Scappare-scapolare.

Curvatus per curvus. Virgil. nella descrizione del turbo giuoco dei fanciulli. V. Forcell.

Molti divengono insensibili alle lodi, e restano però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che essi perdono assai più tardi o non mai. E ben più difficilmente si perde questa sensibilità che quella. Certamente poi niuno si trova che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile ai biasimi, alle censure, alle male voci o calunnie, ai motteggi; bensì viceversa si trovano molti. Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la facoltà di provar piacere è nell’uomo più caduca e più limitata che quella di sentir dispiacere. (Bologna. 9. Marzo. 1826.).

Pece-pegola, impegolare ec.

Maledetto, esecrato, odiato, abbominato, abborrito ec. per degno di maledizione ec., o che suole essere maledetto ec. e V. Forcell. E per contrario amato, desiderato, sospirato ec.

Alla p. 4137. L’uomo tende ad un fine principale e unico. Ogni suo atto volontario o di pensiero o d’opera è indirizzato a questo fine. Questo fine è dunque il suo sommo bene. E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui tutti i filosofi sono d’accordo, antichi e moderni. Ma che è, ed in che consiste, e di che natura è la felicità conveniente e propria alla natura dell’uomo, desiderata sommamente e supremamente, anzi per verità unicamente, dall’uomo, cercata e procacciata continuamente dall’uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo bene dell’uomo, il fine dell’uomo? Qui non v’è setta, non v’è filosofo, nè tra gli antichi nè tra i moderni, che non discordi dagli altri. Sonovi alcuni che si maravigliano di tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta loro concordia nel rimanente. Ma che maraviglia? Come trovare, come determinare, quello che non esiste, che non ha natura nè essenza alcuna, ch’è un ente di ragione? Il fine dell’uomo, il sommo suo bene, la sua felicità, non esistono. Ed egli cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose, ma le cerca senza sapere di che natura sieno, in che consistano, nè mai lo saprà, perchè infatti queste cose non esistono, benchè per natura dell’uomo sieno il necessario fine dell’uomo. Ecco spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il sommo bene è voluto, desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi unicamente, dall’uomo; ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai saputo nè mai saprà che cosa esso sia (le dette controversie medesime ne sono prova); e ciò perchè il suo sommo bene non esiste in niun modo. Il fine della natura dell’uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine cercato dalla natura dell’uomo. Questo fine non esiste in natura, e non può esistere per natura. E questo discorso debbe estendersi al sommo bene di tutti gli animali e viventi. (11. Marzo. Vigil. della Domenica di Passione. 1826. Bologna.).

L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. — Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, nè il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l’esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione nè la felicità degl’individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, nè per gl’individui nè per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta di sopra. (Bologna 11. Marzo. 1826.).

Negletto, contemptus (v. Fedro, fab. Calvus et musca ), spregiato, dispregiato o disprezzato ec. ec. per dispregevole. Implacato per implacabile. V. Forc. ec. Provvisto per che provvede o ha provveduto, del che altrove. V. Monti Proposta , in provvisto, dove nel 2.do esempio trovi anche avvisato in senso simile.

Puretto diminutivo positivato, aggettivo per puro, come pretto. V. Crusca.

Inconcusso per inconcutibile. V. Forc. ec. Inaccessus, inaccesso ec. per inaccessibile. Rampare; radice di rampicare, di cui altrove. V. Monti Proposta , v. rampare. Fastello, affastellare ec. diminutivi positivati da fascio per peso. Cespo-cespuglio. Vituperato per vituperoso, ec. o degno di vitupero, di esser vituperato, vituperevole ec. V. la Crus. non solo nel par. 2. ma in tutti gli altri esempi.

Poco restò per poco mancò o manca ec. V. Monti Proposta , in Restare.

Πῖλος-πιλίον, σάνδαλον-σανδάλιον, τρίβων-τριβώνιον, ὅρκος-ὅρκιον.

Corona-corolla, lat. diminut. come da asinus, asellus, ec.

Abbreviato per breve.

Febbricare o febricare per febricitare. V. Crus. in febbricare, febbricante, febricante ec. Sembra esser la radice di febricito. V. Forc. Erpicare per inerpicare o inarpicare. Crus.

Per poco è o fu ec. che non. V. Dante Inf. c. 30.

Rocco-Rocchetto. V. Monti Proposta , v. Rocco. Pelliccia da pellicula per pelle di animali ec. V. i franc. spagn. ec. Bendabandeau. Floccus- flocon. Linon.

Infamato per infame. Crus. Incolpato per incolpabile o per colpevole ec. V. Crus. e Monti Proposta v. Incolpato, e nella Bibliot. ital. Dial. di Matteo, Taddeo ec. Temuto, formidatus, paventato ec. per formidabile, massime in poesia.

σωμάτιον per σῶμα. Ateneo l. 4. p. 178 E. ed. Commelin. 1598.

Praetexo, praetextum- prétexter. Eximo, exemptum exempter.

Alla p. 4145. lin. 4. Quin et factitii canes ad fores collocati; quales illi quos ex auro et argento fabricarat Vulcanus Odyss. 7. 93. Δῶμα φυλασσέμεναι μεγαλήτορος Ἀλκινόοιο Domum ut custodirent magnanimi Alcinoi. Quod Romanis etiam in more fuisse docet Petronius Arbiter, c. 29. p. 104. ed. Burman. Non longe, inquit, ab ostiarii cella canis ingens catena vinctus in pariete erat pictus, superque quadrata litera scriptum: Cave, Cave Canem. Feithius, Antiquitat. Homericar. lib. 3. c. 11. par. 2. Uso conservato dai moderni. V. p. 4364. (20. Marzo. Lunedì Santo. Bologna. 1826.).

Rinegato, renegado ec. per che ha rinegato. Homme déterminé. Pensées, o idées suivies, per qui se suivent, conséquentes, conseguenti le une dalle altre. Raisonnement suivi etc.

La civiltà moderna non deve esser considerata come una semplice continuazione dell’antica, come un progresso della medesima. Questo è il punto di vista sotto cui e gli scrittori e gli uomini generalmente la sogliono riguardare; e da ciò segue che si considera la civiltà degli Ateniesi e dei Romani nei loro più floridi tempi, come incompleta, e per ogni sua parte inferiore alla nostra. Ma qualunque sia la filiazione che, istoricamente parlando, abbia la civiltà moderna verso l’antica, e l’influenza esercitata da questa sopra quella, massime nel suo nascimento e nei suoi primi sviluppi; logicamente parlando però, queste due civiltà, avendo essenziali differenze tra loro, sono, e debbono essere considerate come due civiltà diverse, o vogliamo dire due diverse e distinte specie di civiltà, ambedue realmente complete in se stesse. Sotto questo punto di vista, diviene più che mai utile e interessante il parallelo tra l’una e l’altra. E veramente l’uomo e le nazioni sono capaci, come di stato selvaggio, di barbarie, di civiltà, tutti stati ben distinti tra loro per genere, così di diverse specie di civiltà, distinte non solo per semplici nuances, come quelle che distinguono ora la civiltà presso le diverse nazioni colte, ma per caratteri speciali, essenziali, determinati dalle circostanze, e spesso e in gran parte dal caso. Ed è quasi impossibile, come il trovare due fisonomie perfettamente uguali, benchè tutti sieno generati in uno stesso modo, così il trovare in due popoli qualunque, (o in due tempi) che non abbiano avuto grande ed intima relazione scambievole, una civiltà medesima, e non due distinte di specie. — Intendo per civiltà antica, e per termine di comparazione colla moderna, la civiltà dei Greci e dei Romani, e dei popoli antichi da essi governati e civilizzati, o ridotti ai loro costumi. — Può servir di preliminare ad una Comparazione degli antichi e dei moderni. (Bologna. Martedì Santo. 1826. 21. Marzo.)

Mando, mansum-mansare corrotto in mangiare, manger, manjar. V. Forc. e Gloss. Manducare (che noi dicemmo anche manicare, quasi mandicare) sembra un frequentativo di mandere, come fodicare di fodere ec. Credo però che l’u di manduco sia lungo. Del resto dello scambio dell’u coll’i, ho detto altrove.

Colpire-colpeggiare.

En métaphysique, en morale, les anciens ont tout dit. Nous nous rencontrons avec eux, ou nous les répétons. Tous les livres modernes de ce genre ne sont que des redites. Voltaire, Dict. philosoph. art. Emblème. (Bologna. Giovedì Santo. 1826. 23. Marzo.).

Eruca-ruchetta, roquette ec. Falco- faucon, falcone ec. Nepita o nepeta lat. nepitella, nipitella.

Entortiller. Naziller. Bouillir-bouillonner.

Maereo o moereo — moestus o maestus per maerens.

Attorcereattorcigliare, attortigliare, intorticciato. Squartare- écarteler.

Et qui rit de nos moeurs ne fait que prévenir Ce qu’en doivent penser les siècles à venir. M. de Rulière, Discours en vers sur les Disputes, rapporté par Voltaire Dict. phil. au mot Dispute.

Dieu puissant! permettez que ces tems déplorables Un jour par nos neveux soient mis au rang des fables. Ibidem.

Corata-coratella, curatella, coradella ec.

Grattare-grattugiare. Sciorinare verbo diminut. V. Monti Proposta.

Macinare, macerare, macina-maciullare, maciulla. Spilluzzicare (da spelare).

Sarmata, stando all’etimologia del nome, significa carrettiere da ἅρμα, che in greco vuol dir carro, ed aggiuntavi l’aspirazione sarma. Dal non aver usato que’ popoli (dell’alto ed ultimo settentrione dell’Europa e dell’Asia) abitazioni fisse, per aver avuto case traslocabili come specie di carri, furono da’ Greci chiamati Sarmati. Ciampi, nell’Antolog. di Firenze. Febbraio 1826. num.62. p. 28. not. 6. (30. Marzo. 1826. Bologna.).

Piaggia, spiaggia, diminutivi positivati di plaga, da plagula, come nebbia da nebula, ec. ec.

Elevato, sollevato, per alto. V. Crus. in Elevatissimo e Sollevatissimo.

A voler che uno possa esser buon comico o buon satirico, è di tutta necessità che questo tale sia, o sia stato degno di satira e di commedia, e ciò per non poco tempo, e in quelle cose medesime che egli ha da porre in riso. (Bologna. Domenica in Albis. 2. Aprile. 1826.).

Homme emporté per qui s’emporte, che è solito s’emporter. Empressé.

Accuratus, accurato ec. per qui curat, o qui accurat.

Sappiamo da Plinio che chiamavansi pernae dalla lor forma di presciutto alcune conchiglie frequentissime nelle isole Ponticae, o come altri leggono Pontiae. Da esse traevasi la madre perla: e questo nome italiano di perla non viene certamente da altro che da perna o pernula. (Diminutivo positivato.) Amati, Iscrizioni antiche scoperte da non molto tempo, e meritevoli di esser poste a notizia de’ dotti. ( Articolo del Giornale arcadico, Roma Dicembre 1825. N.84. tom. 28.) num.25. p. 358. (Bologna 7. Aprile. 1826.).

Testis-testiculus, testicolo, testicule ec. Citrus citron. Hirundo-hirondelle.

Magnum videlicet illis (Athenaei) temporibus videbatur, duabus linguis posse loqui: quod in nescio quo habitum loco miraculi refert Galenus: δίγλωττός τις, inquit, ἐλέγετο πάλαι, καὶ θαῦμα τοῦτ' ἦν, ἄνθρωπος εἷς, ἀκριβῶν διαλέκτους δύο. Bilinguis olim quidam dicebatur: eratque res miraculo mortalibus, homo unus duas exacte linguas tenens. Haec Galenus in secundo de Differentiis pulsuum. Casaub. Animadv. in Athenae. lib.1. cap. 2. (Bologna 14. Aprile. 1826.).

Οὐκ ἐθέλειν per non potere, οὐ πεφυκέναι, vedilo nel Casaub. loc. sup. cit. cap. 5. in un verso di Filosseno. (Bologna 17. Aprile. 1826.).

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.

Questo sistema, benchè urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?

Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec.

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, épître sur le désastre de Lisbonne. Non si comprende come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene.) Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al lor modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perchè il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò essendo, come non sì dovrà dire che l’esistere è per se un male?

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna. 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. (Bologna. 22. Apr. 1826.).

Avisé per accorto ec. Ëtre osé per oser. Voltaire.

Il piacere delle odi di Anacreonte è tanto fuggitivo, e così ribelle ad ogni analisi, che per gustarlo, bisogna espressamente leggerle con una certa rapidità, e con poca o ben leggera attenzione. Chi le legge posatamente, chi si ferma sulle parti, chi esamina, chi attende, non vede nessuna bellezza, non sente nessun piacere. La bellezza non istà che nel tutto, sì fattamente che ella non è nelle parti per modo alcuno. Il piacere non risulta che dall’insieme, dall’impressione improvvisa e indefinibile dell’intero. (Bologna. 22. Aprile. 1826.).

Poi che s’accorse chiusa dalla spera Dell’amico più bello. Petrar. Son. 79. della I. Parte: In mezzo di duo amanti onesta, altera. Grecismo manifesto. Notisi che il Petrarca non sapeva il greco.

Transgredior, transgressus- transgresser.

Réviser (rivedere): al detto altrove di avvisare ec.

Frango is — nau-fragor aris.

Alla p. 4142. Niente infatti nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. Noi abbiam veduto delle cose inconcepibilmente maggiori di noi, del nostro mondo ec., delle forze inconcepibilmente maggiori delle nostre, dei mondi maggiori del nostro ec. Ciò non vuol dire che esse sieno grandi, ma che noi siamo minimi a rispetto loro. Or quelle grandezze (sia d’intelligenza, sia di forza, sia d’estensione ec.) che noi non possiamo concepire, noi le abbiam credute infinite; quello che era incomparabilmente maggior di noi e delle cose nostre che sono minime, noi l’abbiam creduto infinito; quasi che al di sopra di noi non vi sia che l’infinito, questo solo non possa esser abbracciato dalla nostra concettiva, questo solo possa essere maggior di noi. Ma l’infinito è un’idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppur per analogia, e possiam dire di essere a un’infinita distanza dalla cognizione e dalla dimostrazione di tale esistenza: si potrebbe anche disputare non poco se l’infinito sia possibile (cosa che alcuni moderni hanno ben negato), e se questa idea, figlia della nostra immaginazione, non sia contraddittoria in se stessa, cioè falsa in metafisica. Certo secondo le leggi dell’esistenza che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che noi conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, l’infinito cioè una cosa senza limiti, non può esistere, non sarebbe cosa ec. (Bologna 1. Maggio. Festa dei SS. Filippo e Giacomo. 1826.). Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esserlo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti. (2. Maggio 1826.). V. p. 4181. e p. 4274. capoverso ult.

Tetta-teton (come da mamma, mammella ec.).

Fammi sentir di quell’aura gentile. Petr. Canz. Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo antico. v. 31. cioè stanza 3. v. 1. Il genitivo per l’accusativo. V. ancora Canz. Quando il soave, stanza 4. v. 4 e Son. S’io fossi, v. ult. (3. Maggio. Festa della S. Croce. Vigilia dell’Ascensione. Bolog. 1826.).

Scorto per accorto, da scorgere per vedere ec. ovvero da scorgere per guidare, avvisare ec. come avisé ec. V. la Crusca.

Ἀλλὰ τὶ καὶ λέσχης (confabulationis) οἶνος (i.e. potatio) ἔχειν ἐθέλει. Ap. Athenaeum. Vid. Casaub. Animadvers. l. 1. cap. ult. init. Volere per dovere (Bologna. 6. Maggio. 1826.). Non vogliono per non debbono. V. Rucellai, Api v. 621.

Già è gran tempo che nè i principi nominano, nè ai principi si nomina, sia lodandoli, sia consigliandoli, sia in qualsivoglia discorso, la loro patria. È gran tempo che le città e le nazioni hanno cessato di esser le patrie dei principi. Esse sono i loro stati, o nativi o no che i principi sieno. Ciò è tanto vero che anche in Inghilterra, anche in Francia, dove, ed esiste una patria, ed i principi, vogliano o non vogliano, sono per li sudditi, e non i sudditi pel principe, pure nè essi nè altri parlando o scrivendo ad essi (e di raro anche, di essi), chiamano o l’Inghilterra o la Francia, loro patria. Si crederebbe abbassarli, offenderli, se si pronunziasse loro questo nome che mostra di avere una certa superiorità sopra di essi. I principi già da gran tempo si stimano, e da molti sono stimati essere, la patria essi medesimi. Distinguendoli dalla patria, si crederebbe oltraggiarli. Non così gli antichi. I Neroni e i Domiziani con nome falso, e di più superbo, ma che pur conservava l’idea della patria, s’intitolavano P. P. pater patriae (nelle medaglie, iscrizioni ec.). (Bologna 10. Maggio. 1826.).

Del digamma eolico vedi Casaubon. animadv. in Athenae. lib.2. cap. 16.

Picus-picchio, da un piculus, e non dal picchiare come dice la Crusca e stimasi comunemente. V. i franc. spagn. ec.

Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione rassegnata. (Bologna. 3. Giugno. 1826.).

Che guadagno fa l’uomo perfezionandosi? Incorrere ogni giorno in nuovi patimenti (i bisogni non sono per lo più altro che patimenti) che prima non aveva, e poi trovarvi il rimedio, il quale senza il perfezionamento dell’uomo non saria stato necessario nè utile, perchè quei patimenti non avrebbero avuto luogo. Proccurarsi nuovi piaceri, forse più vivi che i naturali, non però altrettanto 1. comuni, 2. durevoli, 3. facili ad acquistarsi, anzi i più, difficilissimi, perchè, se non altro, esigono una studiatissima educazione, e una lunga formazione dell’animo, e per ciò stesso non possono esser comuni a tutti, anzi ristretti a certe classi solamente, ed alcuni a certi individui. Nel tempo stesso distruggere in se la facoltà di provare, almeno durevolmente, i piaceri naturali. Lo stato naturale dell’uomo ha veramente dei piaceri, facili, comuni a tutti, durevoli, che non sono men veri perciò che noi non li possiamo più sentire, e però non concepiamo come sieno piaceri. Il solo stato di quiete e d’inazione sì frequente e lungo nel selvaggio (insopportabile al civile) è certamente un piacere, non vivo, ma atto e sufficiente a riempiere una grande e forse massima parte della vita del selvaggio. Vedesi ciò anche negli altri animali. Vedesi (tra i domestici, e più a portata della nostra osservazione) nei cani, che se non sono turbati o forzati a muoversi, passano volentierissimo le ore intiere, sdraiati con gran placidezza e serenità di atti e di viso, sulle loro zampe. (Bologna. 3. Giugno. 1826.). Moltissimi patimenti poi, massime morali, che senza la civilizzazione non avrebbero luogo, quantunque abbiano il loro rimedio, proccurato dalla stessa civilizzazione, p. e. la filosofia pratica, è ben noto che sono senza comparazione più facili, più frequenti, più comuni essi, che l’applicazione effettiva e l’uso efficace di tali rimedi. (Bologna. 3. Giugno. 1826.).

Alla p. 4178. fine. L’ipotesi dell’eternità della materia non sarebbe un’obbiezione a queste proposizioni. L’eternità, il tempo, cose sulle quali tanto disputarono gli antichi, non sono, come hanno osservato i metafisici moderni, non altrimenti che lo spazio, altro che un’espressione di una nostra idea, relativa al modo di essere delle cose, e non già cose nè enti, come parvero stimare gli antichi, anzi i filosofi fino ai nostri giorni. La materia sarebbe eterna, e nulla perciò vi sarebbe d’infinito. Ciò non vorrebbe dire altro, se non che la materia, cosa finita, non avrebbe mai cominciato ad essere, nè mai lascerebbe di essere; che il finito è sempre stato e sempre sarà. Qui non vi avrebbe d’infinito che il tempo, il quale non è cosa alcuna, è nulla, e però la infinità del tempo non proverebbe nè l’esistenza nè la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del nulla, infinità che non esiste nè può esistere se non nella immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria ed inseparabile dalla idea o dalla parola nulla, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua. (Bologna. 4. Giugno. 1826. Domenica.).

ὑ ρίσκος - συ ρίσκος. V. Casaubon. ad Athen. l. 3. c. 4. init.

Litterato per letterario. Petr. Tr. della Fama, cap. 3. v. 102. V. Crusca. Tasso opp. ed. del Mauro, tom.4. p. 304. t. 10. p. 297. t. 9. p. 419.

Oreglia, origliare, origliere, per orecchia, orecchiare, orecchiere.

γραφεὺς (scriba) — greffier (se non viene da grief.).

Fallir la promessa . Petr. Tr. d. Divinità. v. 4-5.

Senz’altra pompa , per senza niuna. ib. V. 120. V. anche Son. Il successor di Carlo, v. 7. e Canz. Una donna più bella, st. 3. v. 12.

Mantua, Genua, Mantuanus ec. — Mantova, Genova, ec.

Vergheggiare. V. Crus. Vagheggiare.

Burchiellesco. Genere burchiellesco, Frottole, in uso anche tra i greci. Demetr. de elocut., sect. 153. Ἔστι δέ τις καὶ ἡ παρὰ τὴν προσδοκίαν χάρις ὡς ἡ τοῦ Κύκλωπος, ὅτι ὕστατον ἔδομαι Οὖτιν. οὐ γὰρ προσεδόκα τοιοῦτο ξένιον οὔτε Ὀδυσσεὺς οὔτε ὁ ἀναγινώσκων. καὶ ὁ Ἀριστοφάνης ἐπὶ τοῦ Σωκράτους, Κάμψας ὀβελίσκον, φησὶν, εἶτα διαβήτην λαβὼν, Ἐκ τῆς παλαίστρας θοιμάτιον ὑφείλετο. sect. 154 Ἤδη μέν τοι ἐκ δύο τόπων ἐνταῦθα ἐγένετο ἡ χάρις. οὐ γὰρ παρὰ προσδοκίαν μόνον ἐπηνέχθη, ἄλλ' οὐδ' ἠκολούθει τοῖς προτέροις. ἡ δὲ τοιαύτη ἀνακολουθία καλεῖται γρῖφος. ὥσπερ ὁ παρὰ Σώφρονι ῥητορεύων Βουλίας (οὐδὲν γὰρ ἀκόλουθον αὑτῷ λέγει) καὶ παρὰ Μενάνδρῳ δὲ ὁ πρόλογος τῆς Μεσσηνίας. I versi di Aristofane sono i 53. 54. della scena 2. atto 1. delle Nubi, edit. Aureliae Allobrogum 1608. Gli Scoli antichi però, dànno loro un senso, e gli spiegano come il resto. Simili ai commentatori della frottola del Petrarca. (Bologna. 5. Luglio. 1826.). Dei grifi V. Casaub. ad Athenae.. indice delle materie.

Esempio curioso di costanza spartana mista di bêtise. Lacone dignum est apophthegma illius Spartani, qui in os iniecto per summam rerum imperitiam, echino (pesce) cum omnibus spinis, ὦ φάγημα, inquit, μιαρὸν, οὔτε μὴ νῦν σε ἀφέω μαλακισθεὶς, οὔτ' αὖθις ἔτι λάβοιμι. O cibe impure, neque nunc ego te prae mollitie animi dimittam, neque iterum posthac sumam. (sono parole riferite da Ateneo.) Putavit homo durus suae constantiae interesse, ne vinci ab echini aculeis videretur. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 13. (Bologna. 6. Luglio. 1826.).V. p. 4206.

Il mangiar soli, τὸ μονοφαγεῖν, era infame presso i greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo di μονοφάγος si dava ad alcuno per vituperio, come quello di τοιχωρύχος, cioè di ladro. V. Casaub. ad Athenae. l. 2. c. 8. e gli Addenda a quel luogo. Io avrei meritata quest’infamia presso gli antichi. (Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione, perchè essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl’inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco di cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più allegria, più brio, più spirito, più buon umore, e più voglia di conversare e di ciarlare[a]

Così appunto la pensavano gli antichi. V. Casaub. ib. l. 8. c. 14. init.

[Chiudi]. Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l’uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell’unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della favella hanno un’altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perchè dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo, e la digestione non può esser buona se non e ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser quell’ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacchè molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell’ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell’ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare aspettare, e per osservar le bienséances che gli antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a mangiar da me. (Bologna. 6. Luglio. 1826.). V. p. 4245. 4248. 4275.

La barbarie suppone un principio di civiltà, una civiltà incoata, imperfetta; anzi l’include. Lo stato selvaggio puro, non è punto barbaro. Le tribù selvagge d’America che si distruggono scambievolmente con guerre micidiali, e si spengono altresì da se medesime a forza di ebrietà, non fanno questo perchè sono selvagge, ma perchè hanno un principio di civiltà, una civiltà imperfettissima e rozzissima; perchè sono incominciate ad incivilire, insomma perchè sono barbare. Lo stato naturale non insegna questo, e non è il loro. I loro mali provengono da un principio di civiltà. Niente di peggio certamente, che una civiltà o incoata, o più che matura, degenerata, corrotta. L’una e l’altra sono stati barbari, ma nè l’una nè l’altra sono stato selvaggio puro e propriamente detto. (Bologna. 7. Luglio. 1826.).

Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l’inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll’esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l’una che l’altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl’individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell’animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl’individui che nei popoli, l’impedirne il progresso. Gl’individui e le nazioni d’Europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l’animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio è impossibile. Intanto dallo sviluppo e dalla vita del loro animo, segue una maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell’animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall’equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l’uomo è incivilito. — Questo delle nazioni. Degl’individui similmente. P. e. il più felice italiano è quello che per natura e per abito è più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l’animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua sensibilità. — Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all’attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati, gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l’animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile per la felicità umana. (Bologna 13. Luglio 1826.).

Tabacco. Sua utilità. Suoi piaceri: più innocenti di tutti gli altri al corpo e all’animo; meno vergognosi a confessarsi, immuni dal lato dell’opinione; più facili a conseguirsi, di poco prezzo e adattati a tutte le fortune; più durevoli, più replicabili. (Bologna 13. Lug. 1826.).

Ser-g-ius — Ser-v-ius.

Smiris — smeriglio.

Lampare-lampeggiare. Volgere-voltare-volteggiare, voltiger.

Avvolticchiare. Smiracchiare. V. Monti Proposta p. XXXIV. v. not.

Malastroso , cioè infelice, per ribaldo. V. Monti Proposta t. 6. p. XLIX. not.

Caro Eneide l. 4. v. 452. E più non disse, Nè più (nè altra, cioè nè alcuna) risposta attese; anzi dicendo, Uscìo d’umana forma e dileguossi. (Bologna. 15. Luglio. 1826.).

Propterea dicebat Bion μὴ δυνατὸν εἶναι τοῖς πολλοῖς ἀρέσκειν, εἰ μὴ πλακοῦντα γενόμενον ἢ Θάσιον: non posse aliquem vulgo omnibus placere, nisi placenta fieret aut vinum Thasium. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 29. (Bologna. 17. Luglio. 1826.).

Ἦτρον-ἤτριον.

V. πλύνειν e suoi composti usati per biasimare, sparlare ec. ap. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 32. modo analogo al nostro lavare il capo ec. (Bologna. 20 Luglio. 1826.).

Tero-tritum-tritare-stritolare, triturare.

Sclamare-schiamazzare.

E ciò che forse potrebbe sorprendere si è che l’insalubrità dell’aria è quasi sempre sicuro indizio di straordinaria fertilità del suolo. Gioia, Filosofia della statistica, Milano 1826. tom.1. ap. l’Antologia di Fir. Giugno 1826. N. 66. p. 84. Narra (il Gioia) dell’Harmattan, vento soffiante sopra una parte della costa d’Affrica fra il capo Verde e il capo Lopez, pestifero a’ vegetabili e saluberrimo agli animali. Quelli che sono travagliati dal flusso di ventre, dalle febbri intermittenti, guariscono al soffio dell’Harmattan. Quelli le cui forze furono esauste da eccessive cavate di sangue, ricuperano le loro forze a dispetto e con grande sorpresa del medico. Questo vento discaccia le epidemie, fa sparire il vaiuolo affatto, e non si riesce a comunicarne il contagio neanche col soccorso dell’arte. Tanto è vero che ciò che nuoce alla vita vegetativa è utilissimo alla vita animale, ed all’opposto. ( Journal des voyages t. 19, p. 111.) Ivi, p. 85. Questa opposizione tra due regni così analoghi, così vicini, anzi prossimi, nell’ordine naturale; e così necessarii reciprocamente; così inevitabilmente, per dir così, conviventi; è una nuova prova della somma provvidenza, bontà, benevolenza della Natura verso i suoi parti. (28. Luglio. 1826. Bologna.).

Nominiamo francamente tutto giorno le leggi della natura (anche per rigettare come impossibile questo o quel fatto) quasi che noi conoscessimo della natura altro che fatti, e pochi fatti. Le pretese leggi della natura non sono altro che i fatti che noi conosciamo. — Oggi, con molta ragione, i veri filosofi, all’udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità. Così accade p. e. nel Mesmerismo, che tempo addietro, ogni filosofo avrebbe rigettato come assurdo, senz’altro esame, come contrario alle leggi della natura. Oggi si sa abbastanza generalmente che le leggi della natura non si sanno. Tanto è vero che il progresso dello spirito umano consiste, o certo ha consistito finora, non nell’imparare ma nel disimparare principalmente, nel conoscere sempre più di non conoscere, nell’avvedersi di saper sempre meno, nel diminuire il numero delle cognizioni, ristringere l’ampiezza della scienza umana. Questo è veramente lo spirito e la sostanza principale dei nostri progressi dal 1700 in qua, benchè non tutti, anzi non molti, se ne avveggano. (Bologna. 28. Luglio. 1826.).

Insatiatus per insatiabilis. Stazio Thebaid. l. 6. nel luogo cit. alla nota 7. del mio Inno a Nettuno.

Smerletto, diminutivo positivato di smerlo o forse di merlo. Folgore da S. Geminiano, Corona 1. di Sonetti, Sonetto di Settembre, v. 2. nei Poeti del primo secolo della lingua italiana, Firenze 1816. ap. il Monti, Proposta, vol. ult. p. CXCIX. (Bologna 31. Luglio. 1826.).

Concordanza delle antiche filosofie pratiche (anche discordi) nella mia; p. e. della Socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ec. (Bologna 1. Agosto, Giorno del Perdono. 1826.).

Offensus per qui offendit neutro. V. Catullo l. 1. eleg. 3. v. 20.— e Forcell. Similmente inoffensus, come inoffenso pede ec.

Le destina, plur. V. Monti Proposta vol. ult. p. CCXIV. col. 2. lin. 3.

Alla p. 4164. capoverso 3. Luogo notabile di Fazio degli Uberti presso il Monti loc. cit. qui sopra, p. CCXVII. col. 2. lin. 6. Che mi vendrei se fosse chi comprare , cioè chi mi comperasse. Parla Roma, che riferisce il detto di Giugurta sopra di lei: urbem venalem, et mature perituram si emptorem invenerit. (Bologna 13. Agosto. 1826. Domenica; tornato questa mattina or ora da Ravenna.).

Ἐν τοσούτῳ intanto. Vetus argument. Ranarum Aristophanis, circa medium, et Argument. Pacis Aristophan.

Πρότερον per potius, come noi prima, anzi, innanzi ec. Aristophan. Nub. v. 24. (Act. 1. sc. 1.). Dio Chrysost. Orat. 1. de Regno, init. , p. 2. A. ed. Lutet. 1604. Morell.

καὶ τοῦτον ὑπέρχεται τὸν ἀγῶνα ὁ λόγος (Δίωνος τοῦ χρυσοστόμου, πρὸς Νικομηδεῖς περὶ ὁμονοίας πρὸς τοὺς Νικαεῖς), εὐκαίρως διὰ τῆς ἡδονῆς προενηνεγμένος. μᾶλλον γὰρ οὕτω ταῖς ψυχαῖς τὸ πιθανὸν ἐθέλει διαδύειν. Phot. Biblioth. Cod. 209. ed. gr.-lat. 1611. col. 533. (Bologna. 18. Agosto. 1826.).

Tacheté, Marqueté. Déchiqueter.

Immotus, immoto ec. per immobile.

Altro è che una lingua sia pieghevole, adattabile, duttile; altro ch’ella sia molle come una pasta. Quello è un pregio, questo non può essere senza informità, voglio dire, senza che la lingua manchi di una forma e di un carattere determinato, di compimento, di perfezione. Questa informe mollezza pare che si debba necessariamente attribuire alla presente lingua tedesca, se è vero, come per modo di elogio predicano gli alemanni, che ella possa nelle traduzioni prendere tutte le possibili forme delle lingue e degli autori i più disparati tra se, senza ricevere alcuna violenza. Ciò vuol dire ch’ella è una pasta informe e senza consistenza alcuna; per conseguente, priva di tutte le bellezze e di tutti i pregi che risultano dalla determinata proprietà, e dall’indole e forma compiuta, naturale, nativa, caratteristica di una lingua. La pieghevolezza, la duttilità, la elasticità (per così dire), non escludono nè la forma determinata e compiuta nè la consistenza; ma certo non ammettono i vantati miracoli delle traduzioni tedesche. La lingua italiana possiede questa pieghevolezza in sommo grado fra le moderne colte. La greca non possedeva quella vantata facoltà della tedesca. (Bologna 26. Agosto. 1826.).

Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci d’altronde di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perchè il suo amor proprio non cesserà, e perchè quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice, (30. Agosto. 1826. Bologna.) nè in questo mondo, nè in un altro.

Il detto del Bayle, che la ragione è piuttosto uno strumento di distruzione che di costruzione, si applica molto bene, anzi ritorna a quello che mi par di avere osservato altrove, che il progresso dello spirito umano dal risorgimento in poi, e massime in questi ultimi tempi, è consistito, e consiste tutto giorno principalmente, non nella scoperta di verità positive, ma negative in sostanza; ossia, in altri termini, nel conoscere la falsità di quello che per lo passato, da più o men tempo addietro, si era tenuto per fermo, ovvero l’ignoranza di quello che si era creduto conoscere: benchè del resto, faute de bien observer ou raisonner, molte di siffatte scoperte negative, si abbiano per positive. E che gli antichi, in metafisica e in morale principalmente, ed anche in politica (uno de’ cui più veri principii è quello di lasciar fare più che si può, libertà più che si può), erano o al pari, o più avanzati di noi, unicamente perchè ed in quanto anteriori alle pretese scoperte e cognizioni di verità positive, alle quali noi lentamente e a gran fatica, siamo venuti e veniamo di continuo rinunziando, e scoprendone, conoscendone la falsità, e persuadendocene, e promulgando tali nuove scoperte e popolarizzandole. (Bologna 1. Settembre. 1826.).

Ὅτι δὲ αὐτὸς (ὁ Λουκιανὸς) τῶν μηδὲν ἦν ὅλως δοξαζόντων, καὶ τὸ τῆς βίβλου ἐπίγραμμα δίδωσιν ὑπολαμβάνειν ἔχει γὰρ ᾧδεδίδωσιν ὑπολαμβάνειν· ἔχει γὰρ ᾧδε. ec. Photius, Biblioth. cod. 128. — Dare a vedere, dare a conoscere, ad intendere ec. V. p. 4196. fin.

Alla p. 4153. Questo passo di Agatarchide è un nuovo esempio di quello che la critica osserva o deve osservar nella storia, cioè che spessissimo la storia d’una nazione s’è appropriata i fatti, veri o finti, narrati dagli storici di un’altra. Tale è ancor quello di Suetonio, Octav. Caes. Augustus, cap. 94. Auctor est Julius Marathus, ante paucos quam (Augustus) nasceretur menses, prodigium Romae factum publice, quo denuntiabatur regem populo romano naturam parturire; senatum exterritum censuisse ne quis illo anno genitus educaretur; eos qui gravidas uxores haberent, quod ad se quisque spem traheret, curasse ne senatusconsultum ad aerarium referretur (que le décret ne passât et ne fût mis dans les archives. La Harpe). Questa istorietta è visibilmente sorella di quella d’Erode e degl’innocenti, qualunque delle due sia l’ainée. Nè mancano esempi simili nelle più moderne storie, anzi abbondano più che mai. Tra mille, si può citare l’avventura del pomo attribuita dagli storici svizzeri a Guglielmo Tell, benchè già narrata da un Saxo Grammaticus, Danese, morto del 1204, che scrisse in latino una storia della sua nazione, più di un secolo prima della nascita di Tell, e attribuì la detta avventura ad un Danese, ponendola in Danimarca, con altri nomi di persone; e che probabilmente non fu neppur esso l’inventore di tal novella, nè la storia di Danimarca fu la prima ad attribuirsela. La sua storia danica è stampata. (Des dragons et des serpens monstrueux etc. trattatello di Eusebio Salverte nella Rivista Enciclopedica di Parigi, tom. 30. Maggio e Giugno, 1826. degno di esser veduto al nostro proposito). (Bologna. 1826. 3. Settembre. Domenica.). V. p. 4209. 4264. fin.

La condotta di Tiberio nell’impero, da principio non pur affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis (v. Sueton. Tiber. c. 24-33), le sue difficoltà di accettar l’impero ec. paragonate colla seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica, dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di artifiziale. Tiberio era certamente, a differenza di Cesare, di natura timida. A differenza poi e di Cesare che fin da giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l’animo e il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari; Tiberio, nato privato, vissuto la gioventù e l’età matura in sospetto di Augusto e de’ costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non aveva l’animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); v. p. 4197. capoverso 6. nè qui v’era dissimulazione: io non ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l’abito di tal timore e di tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll’esperienza continuata del suo potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze. Tiberio era certamente cattivo, perchè vile, e debole. V. p. 4197. capoverso 7. Questo fu causa che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che l’influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur disprezzato e soggetto sempre fino all’età quasi matura; vedutomi poi per le circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed umile cogl’inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος, ed anche cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a perdonare un’ingiuria, una piccola mancanza, più risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, più desideroso, se non altro, di vendettucce, ec. Se la mia natura fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un’arte, una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v’è al mondo assai meno politica, assai meno finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte, e più di sincerità e di vero che non si crede. 1. Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o utilità dell’arte nel consorzio umano, e i più disposti ad essa per volontà, non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è natura di qualunque uomo d’essere incostante, ne’ suoi gusti, desiderii, opinioni, in tutto; di esser contraddittorio ed incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii; di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l’opposto dell’arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni momento, in dispetto d’ogni massima, d’ogni volontà, d’ogni disciplina. (Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.). Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e dell’animo suo, mostrano che l’anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4. Sett. 1826.).

Dove parlo di repo, repto, inerpicare ec. osservisi che i Latini hanno anche erepo. Sueton. Tiber. cap. 60. V. Forcellini . Irrepo, subrepo, adrepo ec.

Gerere-belligerare, morigerare, famigeratus ec. Laevo as — laevigo.

κέχρηται δὲ (Ἡρόδοτος) μυθολογίαις καὶ παρεκβάσεσι πολλαῖς, δι' ὧν αὐτῷ ἡ κατὰ διάνοιαν γλυκύτης διαῤῥεῖ (per quae sensus ipsi atque sententiae dulcedo fluit. Schott.), εἰ καὶ πρὸς τὴν τῆς ἱστορίας κατάληψιν καὶ τὸν οἰκεῖον αὐτῆς καὶ κατάλληλον (convenientem ita Photius usurpare solitus hanc vocem, et ita reddit Schott.) τύπον ἐνίοτε ταῦτα ἐπισκοτεῖ, οὐκ ἐθελούσης τῆς ἀληθείας μύθοις αὐτῆς ἀμαυροῦσθαι τὴν ἀκρίβειαν, οὐδὲ πλέον τοῦ προσήκοντος ἀποπλανᾶσθαι ταῖς παρεκβάσεσινἐžελοᾣύσης τῆς ἀληžείας μᾣύžοις αὐτῆς ἀμαυροῦσžαι τὴν ἀκρίβειαν, οὐδὲ πλέον τοῦ προσήκοντος ἀποπλανᾶσžαι ταῖς παρεκβάσεσιν (digressionibus). Phot. Biblioth. cod. 60. (Bologna. 5. Sett. 1826.).

Egesta-Segesta. V. Forcellini .

Alla p. 4193. Ἔστι δὲ ὁ λόγος αὐτῷ (Αἰσχίνῃ τῷ ῥήτορι) ὥσπερ αὐτοφυὴς καὶ αὐτοσχέδιος, οὐ τοσοῦτον διδοὺς ἀποθαυμάζειν τὴν τέχνην τοῦ ἀνδρός, ὅσον τὴν φύσινδιδοὺς ἀποžαυμάζειν τὴν τέχνην τοῦ ἀνδρός, ὶἐἶᾳἲ;;σον τὴν φᾣύσιν. Phot. Biblioth. cod. 61. V. p. 4208.

Subire Tiberim , remonter le Tibre. Sueton. Claud. cap. 38.

Diminutivi positivati aggettivi. Bimulus, trimulus, quadrimulus. V. Forcell.

Conspiratus per qui conspiravit, o conspirat, Sueton. Galba, c. 19. Domitian. c. 17.

Rasitare. Sueton. Otho, c. ult. i. e. 12.

Ἐξ ἀρχῆς da capo, per di nuovo ec. Di ciò altrove. Si dice anche αὖθις ἐξ ὑπαρχῆς. Vedi. per es. Sueton. Vespas. c. 23. Ἐπὰν ἀποθάνῃς, αὖθις ἐξ ἀρχῆς ἔσῃ. Menander ap. Stob. serm. 104. περὶ τῶν παρ' ἀξίαν εὐτυχούντων

Alla p. 4194 — il quale frattanto attribuisce anch’esso a politica e simulazione la sua moderazione nel principio del suo governo (cap. 57.).

Alla p. 4195. Teodoro Gadareno, suo maestro di rettorica in fanciullezza, subinde in obiurgando appellabat eum πηλὸν αἵματι πεφυραμένον. Sueton. cap. 57. E Suetonio stesso chiama la sua indole saeva ac lenta natura. (ib. init.)

Che gli uomini abbiano trovate e pongano in opera delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il resto della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che abbiano trovato ed usino arti e regole per combattere e vincere gli uomini stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti ugualmente le apprendano ed usino, o le possano apprendere e usare, questo ha dell’assurdo; perchè se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la loro arte a ciascuno de’ due? che superiorità ne riceve l’uno sopra l’altro? non sarebbe per ambedue lo stesso, che ambedue fossero ignoranti della scherma, o che tutti e due combattessero alla naturale? V. p. 4214. Un libro, una scoperta di Tattica o di strategica o di poliorcetica ec. pubblicata ed esposta all’uso comune, a che giova? se l’amico e il nemico l’apprendono del pari, ambedue con più arte e più fatica di prima, si trovano nella stessissima condizione rispettiva di prima. Il coltivare queste tali arti, o scienze che si vogliano dire, il proccurarne l’incremento, e molto più il diffonderne la coltura e la conoscenza, è la più inutile e strana cosa che si possa fare; è propriamente il metodo di ottener con fatica e spesa quello che si può ottenere senza fatica nè spesa; di eseguire artificialmente e di render necessaria l’arte laddove la natura bastava, e laddove col metodo artificiale non si ottiene il menomo vantaggio sopra il naturale. Insomma è il metodo di moltiplicare e complicar le ruote e le molle di un orologio, e di far con più quel medesimo che si poteva fare e già si faceva con meno. Il simile dico della politica, del macchiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e superchiare i nostri simili. (Bologna. 10. Sett. 1826.).

Se una volta in processo di tempo l’invenzione p. e. dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto poca utilità), piglierà più consistenza ed estensione, diverrà di uso più sicuro, più considerabile e più generale; se i palloni aereostatici, e l’aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l’uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare e sopportar la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare e comunicar coi lontani essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l’uso dei telegrafi ec., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro incertezza ec. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l’uso del fuoco, della navigazione ec. ec. quegli uomini che noi, specialmente in questo secolo, con magnifiche dicerie rettoriche predichiamo come esposti a continui pericoli, continui ed immensi disagi, bestie feroci, intemperie, fame, sete; come continuamente palpitanti e tremanti dalla paura, e tra perpetui patimenti ec. E credete a me che la considerazione detta di sopra è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione. (Bologna. 10. Settembre. Domenica. 1826.).

Paragrandini, parafulmini ec. Fozio, Biblioteca, cod. 72. analizzando Κτησίου τὰ Ἰνδικὰ, e parlando di una fonte che Ctesia diceva esser nell’India, senz’altra indicazione di luogo, dice fra l’altre cose: καὶ (λέγει Κτησίας) περὶ τοῦ ἐν τῷ πυθμένι τῆς κρήνης σιδήρου, ἐξ οὗ καὶ δύο ξίφη Κτησίας φησὶν ἐσχηκέναι, ἓν παρὰ βασιλέως (Ἀρταξέρξου τοῦ Μνήμονος ἐπικληθέντος), καὶ ἓν παρὰ τῆς τοῦ βασιλέως μητρὸς Παρυσάτιδος (ἧς ἰατρὸς γέγονεν ὁ Κτησίας). φησὶ δὲ περὶ αὐτοῦ, ὅτι πηγνύμενος ἐν τῇ γῇ, νέφους καὶ χαλάζης καὶ πρηστήρων ἐστὶν ἀποτρόπαιος. καὶ ἰδεῖν αὐτὸν ταῦτα φησὶ, βασιλέως δὶς ποιήσαντος. De ferro, quod in huius fontis fundo reperitur; ex quo duos se habuisse aliquando gladios ipse Ctesias commemorat; unum a rege, (in marg. Artaxerxe, τῷ Mnemone), alterum a Parysatide regis ipsius matre sibi donatum. Ferri autem huius eam esse vim, ut in terram depactum nebulas, et grandines, turbinesque avertat. Hoc semel se iterumque vidisse, cum rex ipse eius rei periculum faceret. Versio Andreae Schotti. (Bologna. 1826. 12. Settembre.).

Inesorato ec. per inesorabile.

καὶ τροπαῖς μὲν κέχρηται (Εὐνάπιος ἐν χρονικῇ ἱστορίᾳ) παραβόλως, ὅπερ ὁ τῆς ἱστορίας οὐ θέλει νόμος. Tropos ad haec praeter modum adhibet, quod historiae lex vetat (Schott.) Phot. Biblioth. Cod. 77.

Il genitivo per l’accusativo. Petr. Sestina 6. Anzi tre dì, v. 3. Di state vi sono DE’ papaveri, DELLE pere e DI quante mele si trovano (genitivo pel nominativo). Caro, Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, lib. 2. non lungi dal principio, p. 8. ediz. di Pisa 1814. Presentando loro per primizia della vendemmia a ciascuna statua il suo tralcio con DI molti grappoli e con DE’ pampini suvvi . (genitivo per l’ablativo). ib. p. 27. E così assai spesso il medesimo ed altri classici. V. p. 4214.

È stato negli eserciti e provveduto capitano e coraggioso guerriero. ib. p. 41.

Riavere per ricreare, ristorare, fare riavere. Vedi Crus. par. 1. Caro l. c. lib. 2. p. 38. poichè col cibo l’ebbe alquanto confortato, con saporitissimi baci ed altre dolcissime accoglienze tutto lo riebbe. Cioè lo ristorò, non come dice il Monti nella Proposta, lo fece tornare nei sensi, chè Dafni non era punto venuto meno, ma percosso, battuto e malconcio da alcuni giovani. — Similmente dicono i greci ἀνακτᾶσθαι, per ποιεῖν ἀνακτᾶσθαι ἑαυτόν, come molto elegantemente Fozio Bibliot. cod. 83. parlando delle Antichità Romane di Dionigi d’Alicarnasso: κέχρηται δὲ καὶ παρεκβάσει οὐκ ὀλίγῃ (digressionibus utitur non raro), τὸν ἀκροατὴν ἀπὸ τοῦ περὶ τὴν ἱστορίαν κόρου διαλαμβάνων ταύτῃ, καὶ ἀναπαύων καὶ ἀνακτώμενος (reficiens). V. p. 4217.

[4201 - 4400]

Volere per μέλλειν. Anguillara, Metam. l. 4. st. 105. (Bologna. 16. Sett. 1826.).

Incespitare per incespicare di cui altrove. Caro loc. sup. cit. lib. 2. p. 48. fin.

Risicato per che si arrischia, che si suole arrischiare. Caro. ib. l. 3. p. 53. 59.

Arreticato (irretitus, preso nella rete). ib. p. 54. Sanicare, sanicato. V. Crus. Affumicare.

Insertare ghirlande. Caro. ib. l. 1. p. 25.a ed ult. Con le foglie tessute e consertate in modo che facevano come una grotta. ib. l. 3. p. 53. I rami si toccavano e s’inframmettevano insieme insertando le chiome. lib. 4. principio. p. 77.

Grufare, grufolare. Caro l. c. lib. 4. p. 80.

Mele appie — Mele appiole, o appiuole. Diminutivo aggettivo. V. Crus. in Mela, Appio, Appiola. Mele appiole , Caro l. c. lib.1. p. 20. mele appiuole , l. 3. fin. p. 74.

Εὐήθης, εὐήθεια, ec. bonitas, bonus vir ec. bonhomme, bonhomie ec. dabben uomo, dabbenaggine ec. Parole il cui significato ed uso provano in quanta stima dagli antichi e dai moderni sia stato veramente e popolarmente (giacchè il popolo determina il senso delle parole) tenuta la bontà. E in vero io mi ricordo che quando io imparava il greco, incontrandomi in quell’εὐήθης ec., mi trovava sempre imbarazzato, parendomi che siffatte parole suonassero lode, e non potendomi entrare in capo ch’elle si prendessero in mala parte, come pur richiedeva il testo. Avverto che io studiava il greco da fanciullo. (Bologna. 18. Sett. 1826.).

Ὀβελίας- oublie. V. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 25.

Spesse volte in occasioni di miei dispiaceri, anche grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non affliggermi di questa cosa? E l’esperienza avutane già più volte, mi sforzava a risponder di sì, che io poteva. Ma il non affliggersene sarebbe contro ragione: non vedi tu il male come è grave, come è serio e vero? — Lasciamo star che nessun male è vero per se, poichè se uno non lo conosce o non se ne affligge, ei non è più male. Ma l’affliggertene può forse rimediarvi o diminuirlo? — No. — Il non affliggertene può forse nuocerti? — No certo. — E non è meglio assai per te il non pensarne, il non pigliarne dolore, che il pigliarlo? — Meglio assai. — Come dunque sarà contro ragione? Anzi sarà ragionevolissimo. E se egli è ragionevole, se utile, se tu lo puoi, perchè non lo fai? che ti manca se non il volerlo? — Io vi giuro che queste considerazioni mi giovavano veramente, ed avevano reale effetto, sicchè io ricusando di affliggermi di una mia sventura, per notabile ch’ella fosse, non me ne affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai poco. (Bologna 25. Sett. 1826.). V. p. 4225.

La ricchezza della lingua greca, e la decisa differenza di stili che ella ammetteva, differenza così grande, che faceva quasi di ciascuno stile una lingua diversa, si può conoscere anche dal veder che gli antichi ebbero dei lessici voluminosi dedicati a un qualche stile in particolare, come noi potremmo far lessici a parte per la nostra lingua poetica o prosaica (due divisioni che la nostra lingua ammette, ma la greca assai più). Eccovi in Fozio Bibliot. i capi o codici 146. 147. Λεξικὸν τῆς καθαρᾶς ἰδέας (cioè styli simplicis o cosa simile). Ἀνεγνώσθη λεξικὸν κατὰ στοιχεῖον καθαρᾶς ἰδέας. μέγα καὶ πολύστιχον τὸ βιβλίον μᾶλλον δὲ πολύβιβλος ἡ πραγματεία. καὶ χρήσιμον, εἴπερ τι ἄλλο, τοῖς τὸν χαρακτῆρα μεταχειριζομένοις τῆς τοιαύτης ἰδέας 147 Λεξικὸν σεμνῆς ιδέας. Ἀνεγνώσθη λεξικὸν σεμνῆς ἰδέας. εἰς μέγεθος ἐξετείνετο τὸ τεῦχος, ὡς ἄμεινον εἶναι δυσὶ μᾶλλον τεύχεσιν ἢ τρισὶ τοῖς ἀναγινώσκουσι τὸ φιλοπόνημα (solemnis Photio vox hoc sensu) περιέχεσθαι. κατὰ στοιχεῖον δὲ ἡ πραγματεία. καὶ δῆλον ὡς χρησίμη τοῖς εἰς μέγεθος καὶ ὄγκον ἐπαίρειν τοὺς λόγους αὐτῶν ἐν τῷ συγγράφειν ἐθέλουσιν. 146. Lexicon Purae Ideae. Lexicon legi Ideae purae litterarum ordine. Magnus est hic liber, ut multi potius, quam unus esse videatur. Utilis autem, si quis alius, iis est, qui hanc Ideam tractant. 147. Lexicon Gravis styli. Legi Ideae gravioris Lexicon, quod ipsum quoque in immensum crevit, ut legentibus aptius fore arbitrer, si in duos opus illud, aut tres tomos distribuatur. Digestum item est litterarum ordine, patetque utile esse iis, qui sublimi tumidoque dicendi genere excellere studio habent. (Schotti versio.) (Bologna. 22. Settembre. 1826.).

Ebbero i Greci, come i moderni, anche delle voluminose storie teatrali e drammatiche (come ne ebbero delle filosofiche, geometriche, pittoriche, statuarie, e d’ogni genere di discipline). Fozio nella Bibliot. cod. 161. dando conto dei libri di Ecloghe o Estratti di Sopatro sofista, dice che il quarto suo libro contiene degli estratti, fra gli altri, ἐκ τοῦ ὀγδόου λόγου τῆς τοῦ ῾Ρούφου δραματικῆς ἱστορίας, οἷς παράδοξά τε καὶ ἀπίανα ἐστὶν εὑρεῖν, καὶ τραγωδῶν καὶ κωμωδῶν πράξεις τε καὶ λόγους καὶ ἐπιτηδεύματα, καὶ τοιαῦθ' ἕτερα. E che il quinto libro σᾣύγκειται αὐτῷ ἔκ τε τῆς ‘Ροᾣύφου μουσικῆς ἱστορίας πρώτου καὶ δευτέρου καὶ τρίτου βιβλίου. ἐν ᾧ τραγικῶν τε καὶ κωμικῶν ποικίλην ἱστορίαν εὑρήσειςσύγκειται αὐτῷ ἔκ τε τῆς ῾Ρούφου μουσικῆς ἱστορίας πρώτου καὶ δευτέρου καὶ τρίτου βιβλίου. ἐν ᾧ τραγικῶν τε καὶ κωμικῶν ποικίλην ἱστορίαν εὑρήσεις. (Tragicor. ac Comicor. Schott.) οὐ μὴν δὲ ἀλλὰ καὶ διθυραμβοποιῶν τε καὶ αὐλητῶν καὶ κιθαρωδῶν• ἐπιθαλαμίων τε ᾠδῶν καὶ ὑμεναίων καὶ ὑπορχημάτων ἀφήγησιν, (epithalamiorumq. carminum et hymenaeorum atq. cantilenarum in chorea enumerationem. Schottus) περί τε ὀρχηστῶν καὶ τῶν ἄλλων τῶν ἐν τοῖς Ἑλληνικοῖς θεάτροις ἀγωνιζομένων ὅθέν τε καὶ ὅπως οἱ τούτων ἐπὶ μέγα κλέος παρ' αὐτοῖς ἀναδραμόντες γεγόνασιν, εἴ τε ἄῤῥενες εἴ τε καὶ τὴν θήλειαν φύσιν διεκληρώσαντο• τίνες τε τίνων ἐπιτηδευμάτων ἀρχὴ διεγνώσθησαν (quinam etiam singulorum auctores ac principes studiorum exstiterint. Schott.), καὶ τούτων δὲ τίνες τυράννων ἢ βασιλέων ἐρασταὶ καὶ φίλοι γεγόνασιν. οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τίνες τε οἱ ἀγῶνες, καὶ ὅθεν, ἐν οἷς ἕκαστος τὰ τῆς τέχνης ἐπεδείκνυτο. καὶ περὶ ἐορτῶν δὲ ὅσαι πάνδημοι τοῖς Ἀθηναίοις. ταῦτα δὴ πάντα καὶ εἴ τι ὅμοιον, ὁ πέμπτος (τοῦ Σωπάτρου) ἀναγινώσκοντί σοι παραστήσει λόγος. Ὁ δὲ ἕκτος αὐτῷ συνελέγη λόγος ἔκ τε τῆς αὐτῆς ῾Ρούφου μουσικῆς (ἱστορίας) βίβλου πέμπτης καὶ τετάρτης. αὐλητῶν δὴ καὶ αὐλημάτων ἀφήγησιν ἔχει, ἄνδρες τε ὅσα ηὔλησαν καὶ δὴ καὶ γυναῖκες. καὶ Ὅμηρος δὲ αὐτῷ καὶ Ἡσίοδος καὶ Ἀντίμαχος οἱ ποιηταὶ τῆς διηγήσεως μέρος, (huius narrationis partem efficiunt. Schott.) καὶ τῶν ἄλλων πλεῖστοι τῶν εἰς τοῦτο τὸ γένος τῶν ποιητῶν ἀναγομένων. E segue dicendo di altri libri di altri scrittori dai quali era estratto il sesto libro di Sopatro. E l’undecimo dice essere estratto, fra gli altri, ἐκ τῆς τοῦ Ἰώβα (Iubae) τοῦ βασιλέως θεατρικῆς ἱστορίας ἑπτακαιδεκάτου λόγου , della quale opera fa menzone anche Ateneo, lib.4. (Bologna. 1826. 24. Sett. Domenica.). V. p. 4238.

Contraddizioni innumerabili, evidenti e continue si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente, ma anche materialmente. La natura ha dato ai tali animali l’istinto, le arti, le armi da perseguitare e assalire i tali altri, a questi le armi da difendersi, l’istinto di preveder l’attacco, di fuggire, di usar mille diverse astuzie per salvarsi. La natura ha dato agli uni la tendenza a distruggere, agli altri la tendenza a conservarsi. La natura ha dato ad alcuni animali l’istinto e il bisogno di pascersi di certe tali piante, frutta ec., ed ha armato queste tali piante di spine per allontanar gli animali, queste tali frutta di gusci, di bucce, d’inviluppi d’ogni genere, artificiosissimi e diligentissimi, o le ha collocate nell’alto delle piante ec. La natura ha creato le pulci e le cimici perchè ci succino il sangue, ed a noi ha dato l’istinto di cercarle e di farne strage. L’enumerazione di tali ed analoghe contrarietà si estenderebbe in infinito, ed abbraccierebbe ciascun regno, ciascuno elemento, e tutto il sistema della natura. Io avrò torto senza dubbio, ma la vista di tali fenomeni mi fa ridere. Qual è il fine, qual è il voler sincero e l’intenzione vera della natura? Vuol ella che il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perchè l’ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no, perchè ha dato ai tali animali l’istinto e l’appetito e forse anche il bisogno di procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali offese? che essa medesima è l’autrice unica delle difese e delle offese, del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel modo di vedere della natura, non si sa. Si sa ben che le offese non sono meno artificiosamente e diligentemente condotte dalla natura che le difese; che il nibbio o il ragno non è meno sagace di quel che la gallina o la mosca sia amorosa o avveduta. Intanto che i naturalisti e gli ascetici esaminando le anatomie de’ corpi organizzati, andranno in estasi di ammirazione verso la provvidenza per la infinita artificiosità ed accortezza delle difese di cui li troverà forniti, io finchè non mi si spieghi meglio la cosa, paragonerò la condotta della natura a quella di un medico, il quale mi trattava con purganti continui, ed intendendo che lo stomaco ne era molto debilitato, mi ordinava l’uso di decozioni di china e di altri attonanti per fortificarlo e minorare l’azione dei purganti, senza però interromper l’uso di questi. Ma, diceva io umilmente, l’azione dei purganti non sarebbe minorata senz’altro, se io ne prendessi de’ meno efficaci o in minor dose, quando pur debba continuare d’usarli? (Bologna. 25. Sett. 1826.). V. p. seg.

Ἴχνος- ἴχνιον. Phot. Biblioth. cod. 166. col. 360. ὡς Παάπις διώκων μετ' ἴχνια τοὺς περὶ Δερκυλλίδα, ἐπέστη αὐτοῖς ἐν τῇ νήσῳ.

Relativo ai Mori bianchi, dei quali dico altrove, può essere anche quel luogo dell’antico romanziere Antonio Diogene (Fozio lo crede non molto posteriore ad Alessandro), il quale presso Fozio cod. 166. col. 357. introduce la viaggiatrice Dercillide a raccontare ὡς περιπέσοι (αὐτὴ) ἀνžπρώπων πόλει κατὰ τὴν ’Ιβηρίαν, οἵ ἑώρων μὲν ἐν νυκτί, τυφλοὶ δὲ ὑπὶῖἶᾳἲ;; ἡμέραν ἑκάστην ἐτᾣύγχανον. (Bolog. 25. Sett. 1826.).

Alla p. preced. Si ammiri quanto si vuole la provvidenza e la benignità della natura per aver creati gli antidoti, per averli, diciam così, posti allato ai veleni, per aver collocati i rimedi nel paese che produce la malattia. Ma perchè creare i veleni? perchè ordinare le malattie? E se i veleni e i morbi sono necessari o utili all’economia dell’universo, perchè creare gli antidoti? perchè apparecchiare e porre alla mano i rimedi? (Bologna. 1826. 26. Sett.).

Alla p. 4183. Questa novelletta, poichè per tale io la tengo, mi fa ravvisare una nuova somiglianza tra i costumi antichi e i moderni; cioè mi fa credere che i greci antichi inventassero degli esempi di ridicola e bestiale costanza da apporre agli spartani, come noi ne inventiamo di bêtise e di sciocchezza da apporre ai tedeschi e agli svizzeri (addietro tu e muro); come altri ne inventano di scelleraggine vile, feroce, traditrice e coperta, da apporre agl’italiani, ec.: in somma che gli Spartani fossero per gli antichi belli spiriti, ed anche popolarmente nella opinione della Grecia, il soggetto di motteggi e di novelle, al quale si riportassero anche degli esempi veri, ma appartenenti ad altre persone; come noi italiani siamo il tipo della ferocia traditrice per altre nazioni ec. (Bologna. 26. Sett. 1826.). V. p. 4217.

È chiaro e noto che l’idea e la voce spirito non si può in somma e in conclusione definire altrimenti che sostanza che non è materia, giacchè niuna sua qualità positiva possiamo noi nè conoscere, nè nominare, nè anco pure immaginare. Ora il nome e l’idea di materia, idea e nome anch’essa astratta, cioè ch’esprime collettivamente un’infinità di oggetti, tra se differentissimi in verità (e noi poi non sappiamo se la materia sia omogenea, e quindi una sola sostanza identica, o vero distinta in elementi, e quindi in altrettante sostanze, di natura ed essenza differentissimi, com’ella è distinta in diversissime forme), l’idea dico ed il nome di materia abbraccia tutto quello che cade o può cader sotto i nostri sensi, tutto quello che noi conosciamo, e che noi possiamo conoscere e concepire; ed essa idea ed esso nome non si può veramente definire che in questo modo, o almeno questa è la definizione che più gli conviene, in vece dell’altra dedotta dall’enumerazione di certe sue qualità comuni, come divisibilità, larghezza, lunghezza, profondità e simili. Per tanto il definire lo spirito, sostanza che non è materia, è precisamente lo stesso che definirla sostanza che non è di quelle che noi conosciamo o possiamo conoscere o concepire, e questo è quel solo che noi venghiamo a dire e a pensare ogni volta che diciamo spirito, o che pensiamo a questa idea, la quale non si può, come ho detto, definire altrimenti. Frattanto questo spirito, non essendo altro che quello che abbiam veduto, è stato per lunghissimo spazio di secoli creduto contenere in se tutta la realtà delle cose; e la materia, cioè quanto noi conosciamo e concepiamo, e quanto possiamo conoscere e concepire, è stata creduta non essere altro che apparenza, sogno, vanità appetto allo spirito. È impossibile non deplorar la miseria dell’intelletto umano considerando un così fatto delirio. Ma se pensiamo poi che questo delirio si rinnuova oggi completamente; che nel secolo 19.o risorge da tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche più spirituale, per dir così, che in addietro; che i filosofi più illuminati della più illuminata nazione moderna, si congratulano di riconoscere per caratteristica di questo secolo, l’essere esso éminemment religieux, cioè spiritualista; che può fare un savio, altro che disperare compiutamente della illuminazione delle menti umane, e gridare: o Verità, tu sei sparita dalla terra per sempre, nel momento che gli uomini incominciarono a cercarti. Giacchè è manifesto che questa e simili innumerabili follie, dalle quali pare ormai impossibile e disperato il guarire gl’intelletti umani, sono puri parti, non mica dell’ignoranza, ma della scienza. L’idea chimerica dello spirito non è nel capo nè di un bambino nè di un puro selvaggio. Questi non sono spiritualisti, perchè sono pienamente ignoranti. E i bambini, e i selvaggi puri, e i pienamente ignoranti sono per conseguenza a mille doppi più savi de’ più dotti uomini di questo secolo de’ lumi; come gli antichi erano più savi a cento doppi per lo meno, perchè più ignoranti de’ moderni; e tanto più savi quanto più antichi, perchè tanto più ignoranti. (Bologna. 26. Sett. 1826.). V. p. 4219.

Ovidio Metam. l. 4. parlando delle anime che sono nell’Eliso: Pars alias artes, antiquae imitamina vitae, Exercent ec. Vedilo. V. p. 4210. capoverso 4.

Alla p. 4196. fin. τὴν δὲ θρησκείαν ὁ ἀνὴρ (Ἰωάννης Λαυρέντιος φιλαδελφεὺς ὁ Λυδὸς) ἔοικε δεισιδαίμων (superstitiotus) εἶναι. σέβεται μὲν τὰ Ἑλλήνων καὶ θειάζει, θειάζει δὲ καὶ τὰ ἡμέτερα μὴ διδοὺς τοῖς ἀναγινώσκουσιν ἐκ τοῦ ῥᾴστου συμβαλεῖν πότερον οὕτω νομίζων θειάζει, ἢ ὡς ἐπὶ σκηνῆς. Phot. cod. 180. fin. v. qui sotto.

περιεῖχε (Apollodori Bibliotheca) τὰ παλαίτατα τῶν Ἑλλήνων, ὅσα τὲ περὶ θεῶν καὶ ἡρώων ὁ χρόνος αὐτοῖς δοξάζειν (i. e. μυθολογεῖν etc.) ἔδωκεν. Ib. cod. 186. fin. V. p. 4210.

Conone appresso Fozio, Bibliot. cod. 186. narrat. 10. chiama Οἴθων (Οἴθωνα) il re del Chersoneso di Tracia padre di Pallene, il quale da Stefano Biz. v. Παλλήνη è chiamato col sigma iniziale Σίθων (Σίθωνα), e così da Partenio, ἐρωτικῶν cap. 6. (Σίθονα). (Bolog. 30. Sett. 1826.).

Plat, sost. e aggettivo, piatto, (ingl. flat.) (v. gli spagn.) — πλάτος, πλατὺς. Phot. Biblioth. cod. 186. ed. gr. lat. col. 444. πλατεῖ τῷ ξίφει οὐκ ἐθέλοντα προιέναι, τύπτων τὰ νῶτα, ἤλαυνεν lo cacciava innanzi per forza, non volendo egli andar oltre, battendogli la schiena colla spada piatta, col piatto della spada, a forza di piattonate, battendolo colla spada di piatto . (Bologna 2. Ott. 1826.). V. p. seg.

Alla p. 4194. Fozio, Bibliot. cod. 186. dando il sommario delle διηγήσεις o Narrazioni di Conone, ed. grec. lat. col. 449-52. alla narrazione 43. dice così: Ἡ μγ.' Οἱ τῆς Αἴτνης τοῦ πυρὸς κρατῆρες ἀνέβλυσάν ποτε (effuderunt), ποταμοῦ δίκην, φλόγα κατὰ τῆς χώρας, καὶ Καταναίοις (πόλις δ' Ἑλλὰς ἐν Σικελίᾳ ἡ Κατάνη), ἔδοξε παντελὴς ἔσεσθαι φθορὰ τῆς πόλεως. καὶ ἀπὸ ταύτης φεύγοντες ὡς εἶχον τάχους, οἱ μὲν χρυσὸν, οἱ δὲ ἄργυρον ἔφερον, οἱ δὲ ὅ τι ἄν τις βούλοιτο ἐπικούρημα τῆς φυγῆς. (subsidium in exsilio allatura). Ἀναπίας δὲ καὶ Ἀμφίνομος ἀντὶ πάντων τοὺς γονεῖς γηραιοὺς ὄντας ἐπὶ τοὺς ὤμους ἀναθέμενοι ἔφευγον. καὶ τοὺς μὲν ἄλλους ἡ φλὸξ ἐπικαταλαβοῦσα, ἔφθειρεν. αὐτοὺς δὲ περιεσχίσθη τὸ πῦρ, καὶ ὥσπερ νῆσος ἐν τῇ φλογὶ πᾶς ὁ περὶ αὐτοὺς χῶρος ἐγένετο. διὰ ταῦτα οἱ Σικελιῶται τόν τε χῶρον ἐκεῖνον, εὐσεβῶν χώραν ἐκάλεσαν, καὶ λιθίνας εἰκόνας ἐν αὐτῷ τῶν ἀνδρῶν τῷ μνημείῳ (in monumento), θείων τε ἅμα καὶ ἀνθρωπίνων ἔργων (Schott. suppl. testes), ἀνέθεσαν ( Strabo lib.6. Sicil. in Catana. Seneca de benefic. lib.3. c. 37. Silius, lib.14. et auctor Aetnae in Catalect. Virgil. [a]. Nota marginale dello Schotto alle parole Anapias et Amphinomus ). Qual è plagio di queste due favole; la presente, o quella di Enea? (Bologna 1826. 2. Ottobre.). Del resto simili plagi, racconti, tradizioni, favole parallele sono frequentissime nelle istorie greche, massime in quel che spetta alle origini o ai fasti delle diverse città della Grecia o greche. V. p. 4213.4224.4225. fin.

Alla p. 4208. fin. ἔχει γὰρ (parla di un’opera di Tolomeo Efestione) δοῦναι βραχεῖ χρόνῳ συνειλεγμένα εἰδέναι, ἃ σποράδην τὶς τῶν βιβλίων ἀναλέγειν πόνον δεδεγμένος, μακρὸν κατατρίψει χρόνον. Brevi enim tempore, collecta simul, cognoscenda suppeditat quae nonnisi longo temporis intervallo quispiam per libros passim dispersa laboriose comportare possit. (Schott.) Ib. cod. 190. init. , col. 472. V. p. seg.

, voce popolare per tieni, prendi. V. Crusca. — Τῆ. Hom. Odyss. 9. 347.

Alla p. qui dietro. Che questo sia il valor della frase πλατεῖ τῷ ξίφει τύπτειν è manifestissimo dal contesto, nel quale essa viene ad essere opposta ad ἀναιρεῖν τῷ ξίφει , ed a πληγὴν (cioè ferita) ἐμβαλεῖν τῷ ξίφει per fine di ammazzare. Lo Schotto traduce gladii lamina verberans: non so se intese bene il senso, non avendo forse posto mente all’italianismo, francesismo ec. della locuzione di Fozio (o di Conone, che Fozio quivi compendia).

Alla p. 4208. capoverso 1. Nè ciò solo; ma credevano anche che le anime s’innamorassero, e usassero insieme e avessero figliuoli. Tolomeo Efestione nel quarto libro περὶ τῆς εἰς πολυμάθειαν καινῆς ἱστορίας (Novae ad variam eruditionem historiae) appresso Fozio, cod. 190. ed. gr. lat. col. 480., dice ὡς Ἑλένης καὶ Ἀχιλλέως ἐν μακάρων νήσοις παῖς πτερωτὸς γεγόνοι (cum alis), ὃν διὰ τὸ τῆς χώρας εὔφορον (fertilitatem), Εὐφορίωνα ὠνόμασαν. καὶ ὡς ἐρᾷ τούτου Ζεὺς, καὶ ἀποτυχών, (minime potiens) κεραυνοῖ ἐν Μήλῳ τῇ νήσῳ καταλαβών διωκόμενον. καὶ τὰς νύμφας, ὅτι θάψειαν αὐτόν, εἰς βατράχους μετέβαλε. (Bologna. 3. Ott. 1826.).

Juillet.

Alla p. 4167. Aristides, Orat. εἰς βασιλέα (M. Aurel.) ed. Canter. t. 1. p. 114-5. ἀπελθούσης τῆς Βρισηΐδος παρ' αὐτοῦ (Αχιλλέως), καὶ χρόνον τινὰ ποιησάσης παρ' Ἀγαμέμνονι (cum Agamem. vixisset. Canter.)

Fare per giovare, servire. Phot. cod. 190. fin. col. 493. ed. gr. lat. ἐν τούτῳ (τῷ ἰχθῦϊ) λίθον εὑρίσκεσθαι (φησὶ Πτολεμαῖος ὁ Ἡφαιστίων) τὸν ἀστερίτην, ὃν εἰς ἥλιον τεθέντα, ἀνάπτεσθαι (incendi) ποιεῖν δὲ καὶ πρὸς φίλτρον (valere etiam ad philtrum. Schottus.) V. p. 4225.

Così ridondante. Καὶ ἡ μεταφορὰ αὐτῷ τῶν λέξεων οὐκ εἰς τὸ χάριεν καὶ γεγοητευμένον περιήνθισται, ἄλλ' οὕτως ἁπλῶς καὶ ἀπεριμερίμνως παραλαμβάνεται. Dove lo Schotto assai male trasporta la voce οὕτως più sotto, per non avere inteso qui il senso di essa, nè quello del periodo seguente, nel quale va letto ὃ δ' ἐγγὺς per ὁ δ'ἐγγὺς, e non come corregge lo Schotto. Phot. Cod. 192. col. 501. ed. graec. lat. V. p. 4224.

Ταῦτα μὲν, εἰ καὶ κατὰ τὸ μᾶλλον καὶ ἧττον ἀλλήλων διαφέροντα, ὅμως εἰς τὴν πρακτικὴν χειραγωγεῖ φιλοσοφίαν τὰ ὀκτὼ τῶν λογίων . Questi otto libricciuoli, o vero sermoncini, (λόγοι ἀσκητικοὶ di un tal Marco Monaco), tutti, sebben colla differenza tra loro del più e del meno, conducono, sono conducenti, all’esercizio della filosofia pratica (intende delle virtù cristiane ed ascetiche). Fozio, cod. 200. verso il fine. col. 522. ed. grec.-lat. Male lo Schotto: Qui quidem octo libri, etsi plus minusve sint inter se diversi; omnes tamen ad operantem sapientiam quasi manu ducunt. (Bologna 4. Ott. Festa di S. Petronio. 1826.). V. p. seg.

Alla p. 4165. capoverso 5. Similmente da Aristide Orat. εἰς βασιλέα cioè in lode di M. Aurelio, ed. Canter. t. 1. p. 106. lin. penult. -ult.

Alla p. 4166. Usasi la stessa locuzione, τὸ αὐτοῦ μέρος , nello stesso senso e modo, da Fozio, Cod. 219. col. 564. ed. gr.-lat. V. Plat. ed. Astii, t. 1. p. 192. lin. 11.

Alla p. qui dietro. Così cod. 240. col. 993. δίδωσιν ἐννοεῖν V. p. 4213.

L’autor greco della Vita di S. Gregorio Papa, detto il Magno, avendo parlato delle opere di questo Santo, e particolarmente de’ suoi Dialoghi, soggiunge (appresso Fozio. cod. 252. col. 1400. ed. grec. lat. Credo però che questa Vita si trovi stampata intera, e sarà in fronte alle opp. di S. Gregorio): Ἀλλὰ γὰρ πέντε καὶ ἑξήχοντα καὶ ἑκατὸν ἔτη οἱ τὴν ῥωμαίαν φωνὴν ἀφιέντες τῆς ἐκ τῶν πόνων αὐτοῦ ὠφελείας μόνοι ἀπήλαυον. Ζαχαρίας δὲ, ὃς τοῦ ἀποστολικοῦ ἀνδρὸς ἐκείνου χρόνοις ὕστερον τοῖς εἰρημένοις κατέστη διάδοχος, τὴν ἐν τῇ ῥωμαϊκῇ μόνῃ συγκλειομένην γνῶσιν καὶ ὠφέλειαν, εἰς τὴν Ἐλλάδα γλῶσσαν ἐξαπλώσας, κοινὸν τὸ κέρδος τῇ οἰκουμένῃ πάσῃ φιλανθρώπως ἐποιήσατο. οὐ τοὺς διαλόγους δὲ καλουμένους μόνους, ἀλλὰ καὶ ἄλλους αὐτοῦ ἀξιολόγους πόνους ἐξελληνίσαι ἔργον ἔθετο. Ma per ispazio di 165 anni, solamente quelli che parlano latino godettero della utilità delle sue opere. Poi Zacaria, che in capo al detto spazio di tempo successe a quell’apostolico uomo (nel papato), trasportati in lingua greca i colui scritti, fece cortesemente comune a tutta la terra la notizia e la utilità di quelli, ristretta fino allora ai soli Latini. E non solo i così detti dialoghi, ma prese anche a voltare in greco altri scritti del medesimo degni di considerazione. — Testimonianza insigne della universalità della lingua greca eziandio ai tempi dello scrittore di questa Vita, cioè, credo, nel sesto secolo, se costui fu contemporaneo o poco posteriore al detto Zaccaria papa. (Bologna. 5. Ott. 1826.).

Alla p. qui dietro. Proclo nella Crestomazia, appresso lo stesso Fozio, cod. 239. init. col. 981., dice ὡς (che) αἱ αὐταί εἰσιν ἀρεταὶ λόγου καὶ ποιήματος (della prosa e del verso), παραλλάσσουσι δὲ (differiscono) ἐν τῷ μᾶλλον καὶ ἦττον nel più e nel meno. Lo Schotto: in eo, quod plus, minusve est. (Bologna. 6. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4163. Phot. cod.279. col. 1588. ex Helladii Besantinoi Chrestomathiis, ed. gr. lat. πᾶσα γὰρ πρόθεσις βραχυκαταληκτεῖν θέλει perocchè ogni preposizione vuole (cioè dee) finire in sillaba breve. V. p. 4226.

Dell’uso del verbo τιθέναι per fare, come in ispagnuolo, poner. Elladio Besantinoo ne’ libri delle Crestomazie, appresso Fozio, cod. 279. col. 1588. ed. gr. lat. ὁ παρ' ἄλλοις μισθοῦ δουλεύων θὴς καλεῖται, ἢ παρὰ τὸ θεῖναι, ὃ δηλοῖ τὸ χερσὶν ἐργάζεσθαι καὶ ποιεῖν (καὶ γὰρ τοῖς παλαιοῖς λέγειν ἔθος τὸ ἔθηκεν ἐπὶ τοῦ τὶ δρᾶν, ὡς καὶ δραστικώτατος ἥρως διὰ τοῦτο κέκληται Θησεύς)• ἢ κατὰ μετάθεσιν κ. τ. λ.. Anche Orazio per grecismo: nunc hominem ponere (cioè facere, fabricare, fabrefacere) nunc deum. (Bologna. 8. Ott. Domenica. 1826.).

Πονηρος che vale ora laborioso, infelice ec. ed ora malvagio, del che altrove, ha diversa accentazione secondo il diverso significato. Veggansi i Lessici.

Ὅρος-ὁρίον, μεθόριον ec.; φῦκος-φυκίον;; ὅρκος ὅρκιον.

Alla p. 4210. Il fatto riferito da Agatarchide presso Stobeo, trovasi anche presso Plutarco nel principio del Parallelo dei fatti greci e romani (operetta da consultarsi al nostro proposito), il qual Plutarco lo paragona a quello di Muzio Scevola, e cita Agatarchide Samio 'εν β' τῶν περσικῶν. (Bolog. 9. Ott. 1826.).

Diluere-diluviare activ. V. Forcell.

Alla p. 4211. E cod. 224. col. 708. ἐδίδου τοῖς ὁρῶσιν ἐννοεῖν.

Οἱ γὰρ πάλαι ῥήτορες ἱκανὸν αὐτοῖς ἐνόμιζον εὑρεῖν τε τὰ ἐνθυμήματα, καὶ τῇ φράσει περιττῶς ἀπαγγεῖλαι (phrasi eximia) ἐσπούδαζον γὰρ τὸ ὅλον περί τε τὴν λέξιν καὶ τὸν ταύτης κόσμον• πρῶτον μὲν ὅπως εἴη σημαντικὴ καὶ εὐπρεπής (significativa et venusta) εἶτα καὶ ἐναρμόνιος ἡ τούτων σύνθεσις (compositio). ἐν τούτῳ γὰρ αὐτοῖς καὶ τὴν πρὸς τοὺς ἰδιώτας διαφορὰν ἐπὶ τὸ κρεῖττον περιγίνεσθαι (ex hoc enim se praestituros vulgo loquentium). Cecilio rettorico siciliano, parlando di Antifonte, uno dei 10. Oratori Greci, ap. Phot. cod. 259. col. 1452. ed. graec. lat.

Alla p. 4197. In inghilterra vi sono da qualche tempo scuole di pugilato (boxing), e vi vanno ad apprender l’arte, non già solo quelli che hanno intenzione di fare il mestier di boxer per guadagno, ma galantuomini d’ogni condizione in gran numero, per servirsene nell’uso della vita, la quale in quel paese offre assai spesso l’occasione di adoperar le pugna; e per difendersi dalle pugna degli altri.

Alla p. 4200. Solevano portar le donne intorno al collo e alle maniche de’ bottoncelli d’ariento indorato. Franc. da Buti ap. la Crus. in Bottoncello.

I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l’antico nel verso niente più che nella prosa: e senza l’antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che rigettarono, ad eccezione di pochissime e piccolissime parti conservate nel verso, quella poca antichità che avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro[a]

Notisi quindi che presso i latini ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non l’aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta l’avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l’abuso e la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.

[Chiudi]. Del resto l’avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl’italiani, rigettata ne’ loro buoni e perfetti secoli l’antichità della lingua, venne, fra l’altre cose, dal non aver essi avuto nelle loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl’italiani, ch’ebbero Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma (come i greci) la letteratura già stabilita, fissata e formata prima della lingua e della maturità della civilizzazione. (Bolog. 12. Ott. 1826.).

Istoria naturale. Curioso è l’osservare da quanto piccole, quanto disparate e lontane cause sieno determinate le assuefazioni e le idee degli uomini le più costanti, e le più universali. La così chiamata istoria naturale è una vera scienza, perocch’ella definisce, distingue in classi, ha principii e risultati. Se la si dovesse chiamare storia perch’ella narra le proprietà degli animali, delle piante ec., il medesimo nome si dovrebbe dare alla chimica, alla fisica, all’astronomia, a tutte le scienze non astratte. Tutte queste scienze narrano, cioè insegnano quello che si apprende dall’osservazione, la quale è il loro soggetto, come altresì della istoria naturale. Solo le arti possono dispensarsi dal narrare, bastando loro il dar precetti. Anche l’ideologia narra, benchè scienza astratta. Oltre che il nome di storia, secondo la sua generale accezione, significa racconto di avvenimenti successivi e susseguenti gli uni agli altri, non di quel che sempre accadde ed accade ad un modo. Questo racconto appartiene alle scienze. Esso è insegnamento. Or tale è il raccontar che fa la storia naturale. Perchè dunque si dà a questa scienza il nome di storia? Perocch’essa fu fondata da Aristotele: il quale la chiamò istoria, perchè questo nome in greco viene da istor (conoscente, intendente dotto), verbale fatto dal verbo isémi (scio) e vale conoscenza, notizia, erudizione, sapere, dottrina, scienza, φυσικὴ ἱστορία, notizia della natura. Così la Varia istoria d’Eliano, non è altro che Varia erudizione; così i libri παντοδαπῆς ἱστορίας d’altri scrittori greci, opere filologiche. E istoria equivale in certo modo in greco a filosofia, e spesso si prende per questa, specialmente da’ più antichi, o da’ sofisti-arcaisti. Quindi Aristotele intitolò anche istoria degli animali altra sua opera di zoologia, Teofrasto istoria delle piante opera di fitologia ec. Plinio Istoria naturale opera enciclopedica e non ristretta nei termini della Scienza così nominata. V. p. 4234. Ma noi che annettiamo tutt’altra idea al nome istoria, avremmo dovuto tradurlo , massime trattandosi del nome di una scienza; chè se nelle scienze ogni termine dev’esser preciso e non dar luogo ad equivoco, molto più il nome suo stesso. Nondimeno l’abbiamo adottato tal quale; e per effetto di questa disparatissima causa, il nome di questa scienza, nome che le è stato e sarà sempre e universalmente fisso e inseparabile, produce in tutti un’idea equivoca, che mescola le nozioni di storia a quella di scienza; che fa dare ai cultori e scrittori di questa il nome di storici della natura, il quale niun pensò mai di dare a Lavoisier nè a Volta, nè di chiamar Cassini o Galileo storici degli astri o del cielo. Confusione e imprecisione di idea, da cui niuno si potrà difendere finchè sarà conservato alla detta scienza il detto nome, che non le potrà essere mai tolto presso nazione alcuna sino all’estinzione della presente civiltà, (Bolog. 13. Ott. 1826.) e al sorgimento di un’altra che non derivi da questa.

Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di filosofia de’ rettorici. Demetrio (rettorico de’ più stimati) περὶ ἑρμηνείας della elocuzione, sezione 67. parlando delle figure della dizione ( σχήματα τῆς λέξεως opposte a σχήματα τῆς διανοίας sententiarum o sententiae: λέξεως verborum), le quali non sono altro che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d’uso ec. sgrammaticature, direbbe l’Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa abbondanza [a]

Non bisogna tuttavolta usar le figure a man piena: cosa goffa e che ec.

[Chiudi], chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. Gli antichi, i quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza figure. La cagione è che quelli le adoperano con arte . ( χρῆσθαι μέν τοι τοῖς σχήμασι μὴ πυκνοῖς• ἀπειρόκαλον γὰρ καὶ παρεμφαῖνόν τινα τοῦ λόγου ἀνωμαλίαν. Οἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ἐν τοῖς λόγοις τιθέντες, συνηθέστεποι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως τιθέναι.) L’osservazione è verissima in tutte le lingue; la causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure naturalmente, senz’arte, e per non saper bene le regole generali della grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati, diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon effetto o successo è da attribuirsi all’arte. Concedete qualche coserella alla natura, ed anche all’ignoranza, benchè voi siate un maestro di arte rettorica. V. p. 4222.

Alla p. 4206. Quell’altra storiella nota, dello Spartano: quo fugis, anima bis moritura ; sarà parimente inventata ad esaggerazione e derision di goffaggine, e di coraggio materiale e stupido.

Μέδω, μέδομαι, μήδω, μήδομαι, μηδέω ec. (dei quali verbi dico altrove, parlando di medeor, meditor ec.) debbono originariamente essere stati un verbo solo e medesimo, non pur tra di loro, ma eziandio con μέλω, μελέω, μέλομαι, μελέομαι, distinti solamente per la pronunzia, come δ ασύς - λ ασὺς, λάσιος e come in ispagn. dexar (oggi si scrive dejar coll’iota, che risponde al nostro sci e al franc. ch) da Laxare, lasciare, laisser, lâcher. Δ άκρυον — lacrima.

Alla p. 4200. Dicono anche i greci nello stesso senso ἀναλαμβάνειν. Ménnone storico, Istoria della città di Eraclea pontica cioè di Ponto, ap. Foz. cod. 224. col. 724. ed. gr. lat. καὶ ἀπορίας αὐτοὺς καταλαβούσης, ἀνελάμβανον οἱ ἀπὸ τῆς Ἡρακλείας, σῖτον εἰς Ἀμισὸν πέμποντες. Trovandosi in iscarsezza di vittovaglie, quelli di Eraclea li riebbero, mandando del frumento in Amiso. (Bologna 14. Ott. 1826.). Id. ap. eund. l. c. col. 732. καὶ παραυτίκα τὰ πρὸς τὴν χρείαν χορηγοῦντες ἀφθόνως τοῖς Χιώταις, τούτους ἀνελάμβανον. et tunc quidem, large rebus necessariis suppeditatis, reficiunt Chiotas (gli Sciotti). Id. col. 736. Λεύκολλος δὲ ἐπὶ τοῦ Σαγγαρίου ποταμοῦ στρατοπεδεύων, καὶ μαθὼν τὸ πάθος, λόγοις ἀνελάμβανεν ἀθυμήσαντας τοὺς στραριώτας. Lucullo che era accampato in riva al Sangario fiume, inteso il sinistro della rotta, confortò con parole i suoi soldati caduti d’animo. Simile frase usa il med. col. 753. dopo il mezzo.

Nuovamente, novellamente, di novello, di nuovo, per di fresco, di poco, poco innanzi, poco fa — Ὡς δ' ὅτε Πανδαρέου κούρη χλωρηΐς ἀηδὼν Καλὸν ἀείδησιν, ἔαρος νέον ἱσταμένοιο. Odiss. τ v. 518-9 νεῶτα cioè νέον ἔτος — anno nuovo per prossimo venturo. (Bologn. 14. Ott. 1826.).

Spicio o specio, conspicio ec. — conspicor, auspicor ec. suspicor.

Sperno — aspernor, aris.

Non ha molti anni (1823) che si è udito parlare nelle gazzette, di persone che emettevano scintille dal loro corpo, le cui mani o altre membra ardevano senza abbruciarsi, nè potersi estinguere il fuoco coll’acqua ec. E si ricordò a quel proposito il caso della celebre Bandi. Ora, qualunque fede meritassero ed ottenessero quei racconti, eccone dei paralleli presso gli antichi. Damascio, nella vita d’Isidoro filosofo, appresso Fozio, cod. 242. colonna 1040. ediz. graec. lat. scrive: τούτου (Σεβήρου) τοίνυν ὁ ἵππος, ᾧ τὰ πολλὰ ἐχρῆτο, ψηχόμενος (tractatus) σπινθῆρας (scintillas), ἀπὸ τοῦ σώματος πολλούς τε καὶ μεγάλους ἠφίει, ἕως αὐτῷ τὸ τέρας εἰς τὴν ὑπατικὴν ἀρχὴν (alla quale esso Severo fu assunto) ἐν ῾Ρώμῃ κατηνύσθαι. ἀλλὰ καὶ Τιβερίῳ (Imp.) ὄνος, ὡς Πλούταρχος ὁ Χαιρωνεὺς φησὶν (nella Vita di Tiberio, perduta), ἔτι μειρακίῳ ὄντι καὶ ἐν ῾Ρόδῳ ἐπὶ λόγοις ῥητορικοῖς διατρίβοντι , colonna 1041 τὴν βασιλείαν διὰ τοῦ αὐτοῦ παθήματος προεμήνυσεν. ἀλλὰ καὶ τὸν (leggo τῶν) περὶ Ἀτήλλαν ἕνα ὄντα τὸν Βαλέμεριν (Balemerin, unum ex Attilae aulicis. Schott.) ἀπὸ τοῦ οἰκείου σώματος ἀποπάλλειν (iecisse) σπινθῆρας. ὁ δὲ ἦν, ὁ Βαλίμερις (sic) Θευδερίχου πατὴρ, ὃς νῦν τὸ μέγιστον ἕχει κράτος Ἰταλίας ἀπάσης. Λέγει δὲ καὶ περὶ ἑαυτοῦ ὁ συγγραφεὺς (Damascio) ὡς καὶ ἐμοὶ ἐνδυομένῳ τε καὶ ἐκδυομένῳ, εἰ καὶ σπάνιον τοῦτο συμβαίνει, συμβαίνει δ' οὖν σπινθῆρας ἀποπηδᾶν ἐξαισίους (ingentes), ἔσθ' ὅτε καὶ κτύπον παρέχοντας• ἐνίοτε δὲ καὶ φλόγας ὅλας (integras) καταλάμπειν τὸ ἱμάτιον, (vestem), μὴ μέν τοι καιούσας• καὶ τὸ τέρας ἀγνοεῖν εἰς ὅ τελειτήσει. (Il buon Damascio si aspettava forse tra se e se un imperiuccio, o almeno almeno un Consolato, sebbene non ardisca dirlo) ἰδεῖν δὲ λέγει καὶ ἄνθρωπόν τινα ἀπὸ τῆς κεφαλῆς ἀφιέντα σπινθῆρας, ἀλλὰ καὶ φλόγα ἀνάπτοντα, ὅτε βούλοιτο, ἱματίῳ τινὶ τραχεῖ (veste asperiore) παρατριβομένης. (nempe τῆς αὑτοῦ κεφαλῆς)). (Bolog. 16. Ott. 1826.).

Alla p. 4208. Damascio nel luogo citato nel pensiero antecedente, colonna 1033. dice del suo maestro ed eroe Isidoro filosofo: ῾Ρητορικῆς καὶ ποιητικῆς πολυμαθίας μικρὰ ἥψατο, εἰς δὲ τὴν θειοτέραν φιλοσοφίαν ἐξώρμησε τὴν Ἀριστοτέλους. ὁρῶν δὲ ταύτην τῷ ἀναγκαίῳ μάλλον ἢ τῷ οἰκείῳ (proprio, privato, individuale) νῷ πιστεύουσαν, καὶ τεχνικὴν μὲν ἱκανῶς εἶναι σπουδάζουσαν, τὸ δὲ ἔνθεον ἢ νοερὸν οὐ πάνυ προβαλλομένην, ὀλίγον καὶ ταύτης ὁ Ἰσίδωρος ἐποιήσατο λόγον. ὡς δὲ τῶν Πλάτωνος ἐγεύσατο νοημάτων, οὐκέτι παπταίνειν ἠξίου πόρσιον, ὡς ἔφη Πίνδαρος ( Olymp. od. 1. et od. 3. fin. Phyth. od. 3.) ἀλλὰ τέλος ἔχειν ἤλπιζεν εἰ τῆς Πλάτωνος διανοίας εἴσω τῶν ἀδύτων δυνηθείη διαβαλεῖν (sic), καὶ πρὸς τούτῳ (in marg. Corrigitur τοῦτο) ὁ πᾶς αὐτῷ δρόμος ἐτέτατο τῆς σπουδῆς. Rhetoricas, poeticasque artes parum attigit: sed ad sanctiorem Aristotelis philosophiam se convertit, vidensque illam necessariis ratiocinationibus magis quam proprio sensui credere, et ut via ac ratione procedat, divinis autem imaginationibus non adeo uti, parum etiam de hac sollicitus fuit: ubi autem Platonis sententias gustavit, non iam aspicere, ut ait Pindarus, dignatus est ulterius. Sed finem consecuturum speravit (dic, perfectionem, vel quid simile) si in Platonis sententiarum adyta penetrare potuisset, et eo omne suum studium impetumque convertit. Versio Andreae Schotti. Τῶν μὲν παλαίτατα φιλοσοφησάντων, soggiunge Fozio, Πυθαγόραν καὶ Πλάτωνα θειάζει (cioè Damascio)... τῶν νεωστὶ δὲ Πορφύριον καὶ Ἰάμβλιχον καὶ Συριανὸν καὶ Πρόκλον, καὶ ἄλλους δὲ ἐν μέσῳ τοῦ χρόνου πολὺν θησαυρὸν συλλέξαι λέγει ἐπιστήμης θεοπρεποῦς. τοὺς μέν τοι θνητὰ καὶ ανθρώπινα φιλοπονουμένους, , colonna 1036. ἢ συνιέντας ὀξέως ἢ φιλομαθεῖς εἶναι βουλομένους, οὐδὲν μέγα ἀνύττειν εἰς τὴν θεοπρεπῆ καὶ μεγάλην σοφίαν. τῶν γὰρ παλαιῶν Ἀριστοτέλη καὶ Χρύσιππον, εὐφυεστάτους γενομένους, ἀλλὰ καὶ φιλομαθεστάτους γεγονότας, ἔτι δὲ καὶ φιλοπόνους, οὐκ ἀναβῆναι ὅμως τὴν ὅλην ἀνάβασιν. τῶν νεωτέρων Ἱεροκλέα τε καὶ εἴ τις ὅμοιος, οὐδὲν μὲν ἐλλείποντας εἰς τὴν ἀνθρωπίνην παρασκευήν, τῶν δὲ μακαρίων νοημάτων πολλαχῆ πολλῶν ἐνδεεῖς γενομένους φησίν. Θειάζει vuol dire esalta, divinizza, loda a cielo, voce e senso usitato a Fozio. Antiquissimos etc. De recentioribus etc. , et alios mediae aetatis, magnum thesaurum collegisse divinae scientiae dicit. Eos autem qui in caducis, et humanis studiis libenter occupantur, vel qui intelligere acute (cito), ac scire multa volunt, non magnopere conferre ad sublimem ac divinam sapientiam. Antiquorum enim Aristotelem et Chrysippum ingeniosissimos, et discendi cupidissimos, quin etiam laboriosos, nec tamen omnino ad summum ascendisse. Recentium vero Hieroclem, et similes, scientiis humanis nulli quidem fuisse inferiores, sed in divinis notionibus non admodum fuisse versatos tradit. Schott. Più sotto nella stessa colonna 1036. dice Damascio d’Isidoro: εξαίρετον δ' ἦν αὐτῷ παρὰ τοὺς ἄλλους καὶ τοῦτο φιλοσόφους• οὐκ ἠβούλετο συλλογισμοῖς ἀναγκάζειν μόνον, οὔτε ἑαυτὸν οὔτε τοὺς συνόντας, ἐπακολουθεῖν τῇ ἀληθείᾳ, μὴ ὁρωμένην κατὰ μίαν ὁδὸν πορεύεσθαι συνελαυνομένους ὑπὸ τοῦ λόγου, οἷον τυφλοῦ τινὸς ὀφθὴν ἀγομένου (in marg. ἀγομένους) πορείαν• ἀλλὰ πείθειν ἐσπούδαζεν ἀεὶ, καὶ ὄψιν ἐντιθέναι τῇ ψυχῇ, μᾶλλον δὲ ἐνοῦσαν διακαθαίρειν . Luogo corrotto, di cui però s’intende appresso a poco il senso. Hoc etiam a ceteris philosophis distabat Isidorus, quod non sola syllogismorum vi se at suos vellet adhaerere veritati: cumque veritas non una videatur via, nolebat eos ratione, veluti caeca in rectam viam ductrice, impelli. Sed persuadere semper adnisus est, et oculos ad animam referre (dic, visum, speciem intromittere): aut si inessent, repurgare. — Ridete? Or traducete queste che vi paiono stoltizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e voi vedrete accadere quello che dice il Dutens, cioè quante verità (qui però si tratterà di errori) si troverebbero negli antichi, credute moderne, se si sapessero tradurre i loro detti nella lingua modernamente adottata per la filosofia. Queste scempiaggini del filosofo mistico Isidoro, comuni in gran parte agli altri mistici di quello e dei vicini secoli, e dominanti in quei tempi di sogni e di creuseries, che altro sono se non, con solo diverse parole, le misticherie di quei moderni, che quando non ci possono provare con ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confessare che argomenti per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli argomenti in contrario, ricorrono alla gran prova del sentimento, e pretendono che questo debba esser l’unica guida, canone, maestro della verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi passi di Damascio, non ridiamo di queste sentenze moderne, anzi le ripetiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il caso del mutato nomine (propriamente il nome e non altro) de te fabula. Che altro è questo sentimento, questa sensibilità, questo entusiasmo, queste ispirazioni, che non tutti hanno da natura, o chi più chi meno, ma che ci si dà per il principal mezzo di conoscere il vero, ed a cui si debba subordinare ogni altro mezzo, compresa la ragione; che altro è, dico, se non quello che Isidoro chiamava εὐμοιρία in quest’altro luogo (che ci fa ridere) di Damascio ap. lo stesso Fozio, colonna 1033 ἀγχίνοιαν καὶ ὀξύτητα ὁ Ἰσίδωρος, φησίν (Δαμάσκιος), ἔλεγεν οὐ τὴν εὐκίνητον φαντασίαν, οὐδὲ τὴν δοξαστικὴν εὐφυΐαν, οὐδὲ μόνην (ὡς ἄν τις οἰηθείη) διάνοιαν εὔτροχον καὶ γόνιμον ἀληθείας• οὐ γὰρ εἶναι ταύτας αἰτίας, ἀλλὰ τῇ αἰτίᾳ δουλεύειν εἰς νόησιν. Τὴν δὲ εἶναι θείαν κατὰ κωχὴν (in marg. corrig. κατοχὴν), ἠρέμα διανοίγουσαν καὶ ὑποκαθαίρουσέαν τὰ τῆς ψυχῆς ὄμματα, καὶ τῷ νοερῷ φωτὶ καταλάμπουσαν, εἰς θέαν καὶ γνώρισιν τοῦ ἀληθοῦς καὶ τοῦ ψεῦδοῦς. εὐμοιρίαν ταύτην ἐκεῖνος ὠνόμαζε. καὶ ὡς οὐδὲν γένοιτ' ἂν ὄφελος ἄνευ εὐμοιρίας, ὡς οὐδὲ ὀφθαλμῶν ὑγιαινόντων ὄφελος ἄνευ τοῦ οὐρανίου φωτὸς, διετείνετο. Sollertiam et acrimoniam Isidorus dixit esse imaginationem non facile mobilem, neque ingenium facile opiniones comminiscens, neque solam, ut aliquis putarit, intelligentiam volubilem et gignentem veritatem. Neque enim has esse caussas, sed ad intelligendum caussae servire: divinum vero esse instinctum, sedate aperientem et repurgantem animae oculos, et intelligibili lumine illustrantem, ad verum falsumque et videndum et cognoscendum. Bonam constitutionem ipse appellavit, nullumque sine ea esse emolumentum, neque oculorum sanorum commodum sine coelesti lumine asseveravit. — Del resto, ho detto che questi principii erano comuni e dominanti in quei secoli; ma Damascio ha ragion di dire ἐξαίρετον δ' ἦν αὐτῷ ec. e di fare Isidoro singolare dagli altri, perchè pochi filosofi anteriori o contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la ragione, o sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione; disprezzare il senso universale per esaltar l’individuale; deprimere e condannare Aristotele, appunto perchè seguace τοῦ ἀναγκαίου cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare, di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone Pitagora ec. perchè non ragionatori, perchè πιστεύοντας al libero sentimento e all’immaginario, che Isidoro chiama divino. ec. (Bologna. 17. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4217. Lo stesso Demetrio ha nondimeno una bella osservazione sect. 197. Ἐναγώνιος (apta contentionibus. Gale.) μὲν οὖν ἴσως μᾶλλον ἡ διαλελυμένη λέξις (la dicitura senza congiunzioni, σύνδεσμοι) ἡ δ' αὐτὴ καὶ ὑποκριτικὴ (histrionica. Gale) καλεῖται. κινεῖ γὰρ ὐπόκρισιν ἡ λύσιςἃ γραφικὴ (idonea scriptionib. Gale) δὲ λέξις ἡ εὐανάγνωστος•· (quae facile legi potest.) αὕτη δέ ἐστιν ἡ συνηρτημένη καὶ οἷον ἠσφαλισμένη (connexa et tanquam munita) τοῖς συνδέσμοις. διὰ τοῦτο δὲ καὶ Μένανδρον ὑποκρίνονται (in Menandro actorum opera utuntur), λελυμένον ἐν τοῖς πλείστοις. Φιλήμονα δὲ ἀναγινώσκουσιν. Veramente ci sono alcuni scrittori, libri, o passi, che leggendoli, massime ad alta voce, pare che chiamino il gesto, e ci vuol tutta la forza dell’assuefazione e delle regole di civiltà francese per astenersene. E questi tali passi sono appunto, almeno il più delle volte, o forse sempre slegati. Ma però la causa del detto effetto non è mica la slegatura, ma quella che lo stesso Demetrio accenna più sotto, cioè la passione. Perocchè alle riferite parole egli immediatamente soggiunge, sect. 198. Ὅτι δὲ ὑποκριτικὸν (accommodata actori res) ἡ λύσις, παράδειγμα ἐγκείσθω τόδε. E qui recato un esempio che fa poco o nulla al caso ( ἐδεξάμην, ἔτικτον, ἐκτρέφω φίλε ), come sono quasi tutti gli esempi di cui Demetrio si serve (talora ei n’adopra un medesimo per due osservazioni, casi o precetti contrarii), ripiglia: οὕτως γὰρ λελυμένον ἀναγκάσει καὶ τὸν μὲν θέλοντα, ὑποκρίνεσθαι (actu adiuvare), διὰ τὴν λύσιν, εἰ δὲ συνδήσας εἴποις, Ἐδεξάμην καὶ ἔτικτον καὶ ἐκτρέφω, πολλὴν ἀπάθειαν (vacuitatem affectuum) τοῖς συνδέσμοις (insieme delle congiunzioni) συμβαλεῖς. πᾶν δὲ τὸ ἀπαθὲς, ἀνυπόκριτον. Ora, benchè il nostro rettorico abbia appena osservata e accennata di scorcio la vera causa, non si può negare che questa non sia una bella osservazioncella. E questa è forse quanto di buono o di notabile v’ha nel suo libro. (Bolog. 17. Ott. 1826.). V. p. 4224.

Bella proprietà della lingua italiana, massime antica, proprietà in mille casi utilissima al dir breve, anzi all’evitare un lunghissimo circuito di parole, proprietà d’altronde comune anche al francese (nonchalance, nonchaloir, v. Pougens, Archéologie française), all’inglese (nonsense, nonsensical ec.) ec., è quella di certi negativi, sia nomi, sia verbi, avverbi ec. fatti dal positivo, premessavi la non, congiunta o disgiunta da essa voce; come noncuranza, non cale, non calere ec. V. la Crusca in Non... e la Proposta del Monti , se non erro, in Non, o in Non... — Damascio nella Vita d’Isidoro filosofo (Damascio fu molto studioso dell’eleganza della lingua in essa opera e ricercatore di modi antichi e di voci) appresso Fozio, cod. 242. parlando di un certo Asclepiodoto, il quale per moltissimi tentativi che facesse a tal uopo, non potè ritrovare il genere di musica detto enarmonio (τὸ ἐναρμόνιον γένος) l’uso e la conoscenza del quale era perduta, dice, colonna 1054. lin.1. ediz. grec. lat. αἴτιον δὲ τῆς μὴ εὑρέσεως τὸ κ. τ. λ. la causa della non invenzione, cioè del non averlo egli potuto ritrovare, fu ec. (Bologna. 17. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4162. Id. sect. 240. p. 134. fin. φιλιφρόνησις γὰρ βούλεται εἶναι ἡ ἐπιστολὴ σύντομος. Expressio enim quaedam amoris debet esse epistola, concisa. Gale.

Tondeo, tonsum-detonsare, tosare ec.

Alla p. 4223. Demetrio, ib. sect. 285. Καθόλου δὲ τῆς λέξεως τὰ διαλελυμένον. Ad summam (generalmente) autem figurae verborum et actionem et contentionem praebent dicenti: in primisque dissolutum. Gale. (Bolog. 20. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4211. Arato Φαινόμενα v. 108. parlando degli uomini della età d’oro: Οὔπω λευγαλέου τότε νείκεος ἠπίσταντο, Οὐδὲ διακρίσιος περιμεμφέος, οὐδὲ κυδοιμοῦ• Αὕτως,Αὕτως , (così, come si sia, εἰκῆ) δ' ἔζωον. χαλεπὴ δ' ἀπέκειτο θάλασσα, Καὶ βίον οὔπω νῆες ἀπόπροθεν ἠγίνεσκον, κ. τ. λ.. E v. 179 Οὐδ' ἄρα Κηφῆος μογερὸν γένος Ἰασίδαο Αὕτως (ridondante) ἄῤῥητον (taciuto oscuro ignoto, ec.) κατακείσεται· ἀλλ' ἄρα καὶ τῶν Οὐρανὸν εἰς ὄνομ' ἦλθεν, ἐπεὶ Διὸς ἐγγύθεν ἦσαν. E così altrove più volte nello stesso poema usa l’avverbio αὕτως. E così ancora altri poeti; e prima di tutti probabilmente Omero. V. l’indice delle parole omeriche.

Alla p. 4210. lin.1. Questa inclinazione e quest’uso di applicare a luoghi e persone ben note e prossime i racconti (veri o finti) appartenenti a persone e luoghi lontani, ed anche di rimodernarli, cioè applicar de’ racconti vecchi, e talora vecchissimi, a tempi e persone moderne, ha mille esempi, che si possono notare anche giornalmente: ed io ho udito in città d’Italia, molto tra se distanti, raccontare varie novellette, varie pretese origini di proverbi, varie goffaggini insigni ec. come accadute nominatamente ad una tal persona di quella tal città; e così in ciascuna città; e per tutto la stessa novelletta con nome diverso; e molte di tali novellette io le aveva già sin dalla puerizia sentite raccontare nella mia patria e da’ miei, sotto i nomi di persone della mia città stessa o della provincia: ed alcune ne ho anche trovate negli antichi novellieri italiani, sotto altri nomi, le quali ora si raccontano come di poco tempo addietro, e di persone conosciute dagli stessi che le raccontano, o da quelli da cui essi le hanno udite. (Bolog. 23. Ottob. 1826.). Altra conformità degli antichi coi moderni, poichè anche gli antichi ebbero lo stesso vezzo, come si è veduto.

Alla p. 4202. Spesse volte in occasioni di gran travaglio e afflizione d’animo, io mi sono consolato così. Ho dimandato a me stesso: Certo questa è una sventura grande: ma posso io non affliggermi di questa cosa? L’esperienza mia propria, di più altre volte, mi obbligava a risponder di sì, che io poteva: ma il non affliggersene sarebbe cosa irragionevole: la sventura è grande e vera. — Lasciamo star che sia vera: ma affliggendomene la posso io dissipare o scemare? — Nulla. — Non affliggendomene, crescerà ella punto, o me ne verrà punto di danno? — Punto. — Dunque come sarà irragionevole il non affliggermene? E se questo è ragionevole, se mi è utilissimo (il che è manifesto), se io lo posso, perchè non lo vorrò? — Vi giuro che questo discorso era efficace; che la mia volontà si determinava secondo esso, ed otteneva il suo effetto; e che io mi consolava e non pativa. (Bologna. Domenica, 29. Ottob. 1826.).

Alla p. 4211. Nicias de Lapidibus, ap. Stob. serm. 98. περὶ νόσου, dice di una certa pietra della Tracia: ποιεῖ δ' ἄριστα πρὸς ἀμβλυωπίας ποιεῖ δ’ ἄριστα πρὶῖἶᾳἲ;;ς ἀμβλυωπίας fa benissimo. Callisthenes Sybarita libro 13. rerum Galaticarum, ib. εὑρίσκεται δ' ἐν τῇ κεφαλῇ αὐτοῦ (di un certo pesce) λίθος, χόνδρῳ παρόμοιος ἁλὸς (grumo salis), ὃς κάλλιστα ποιεῖ πρὸς τεταρταίας νόσους (ad quartanas. Gesner.). Archelaus lib. 1. de fluviis, ib. γεννᾶται δ' ἐν αὐτῷ (in un fiume dell’Etolia) βοτάνη ζάρισα προσαγορευομένη, λόγχῃ παρόμοιος, ποιοῦσα πρὸς ἀμβλυωπίας ἄριστα. Ctesias Cnidius lib.2. de Montibus, ib. γεννᾶται δ' ἐν αὐτῳ (in un monte della Misia) λίθος ἀντιπαθὴς προσονομαζόμενος, ὃς κάλλιστα ποιεῖ πρὸς ἀλφοὺς (vitiligines) καὶ λέπρας Clitophon Rhodius lib.1. Indicorum, ib. dice di un’erba dell’India: ποιεῖ δ' ἄριστα πρὸς ἰκτέρους (ad morbum regium). (Bologna 30. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4210. lin.1. Timica, donna Pitagorica, fatta tormentare da Dionigi tiranno di Siracusa, perchè rivelasse i secreti o misteri della sua setta, si tagliò co’ denti la lingua, e la sputò in faccia al tiranno. Giamblico, Vita di Pitagora, cap. 31. Imitazione della storia di Leena amica di Armodio e Aristogitone, come osserva il Menagio, il quale vedi, Hist. Mulier. philosopharum, segm. 94-98. E molte di siffatte narrazioni parallele si debbono interamente agli scrittori imitanti in altra materia le tradizioni e storie antiche ec. (Recanati 16. Nov. 1826.).

Μία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ. Fragm. Teletis ex commentario de comparatione divitiarum et paupertatis ap. Stob. serm. 95. σύγκρισις πενίας καὶ πλούτου , ed. Basil. 1549. p. 522. V. Mannuccii Adagia, Venet. 1609. col. 469. — Una rondine non fa Primavera . V. la Crus. Proverbio greco passato nel volgare e popolare italiano.

Alla p. 4212. fin. Perictyones Pythagoricae ex libro de Mulieris concinnitate , ap. Stob. serm. 83. Οἰκονομικός: Σκῆνος (corpus) γὰρ ἐθέλει (requirit) μὴ ῥιγέειν, μηδὲ γυμνὸν εἶναι, χάριν εὐπρεπείης ἄλλου δὲ οὐδενὸς χρήζει. Parla biasimando la sontuosità del vestire.

Alla p. 4165. È usato pur da Hierocles, lib. de Amore fraterno , ap. Stob. serm. 82. ὅτι κάλλιστον ἡ φιλαδελφία , p. 475. verso il fine, ed. Basil. 1549. (Recanati. 15. Nov. 1826.).

Bellissima è l’osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno , ap. Stobeo serm. ὅτι κάλλιστον ἡ φιλαδελφία etc. 84. Grot. 82. Gesner. che essendo la vita umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè circondato da persone benevole, e benchè senza inimici, pur mi ricordo di esser vissuto in una specie di timore o timidezza continua, rispetto ai mali indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed abbattuto e afflitto l’animo assai più del solito, non per altro se non perchè io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica natura, senza alleati, per la lontananza de’ miei; (Recanati. 16. Nov. 1826.) e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d’animo, al pensiero, all’aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie ec.

κογχίον diminutivo positivato per κόγχος. V. Casaub. ad Athenae. l. 4. c. 16.

Faquin, facchino ec. — φάκινος. V. Casaub. ad Athenae. l. 4. c. 16.

Indulgeo indultum-indultar spagn.

Senza porvi altro studio (cioè alcuno). Varchi, Ercolano, Venez. Giunti 1570. p. 94. verso la fine.

Io ho veduto delle Commedie più sporche e più disoneste che quelle d’Aristofane; ho veduto de’ Sonetti disonestissimi e sporchissimi; ho veduto delle Stanze che si posson chiamare la sporchezza e disonestà medesima. Id. ib. p. 245. E gran parte della lingua spagnuola ritiene ancora oggi della lingua de’ Mori. Ib. p. 260. (Recanati. 26. Nov. Domenica. 1826.).

I Francesi, per qualificare un uomo che stimino, soglion dire c’est un homme extrêmement aimable , gl’Inglesi he is a very sensible man , gl’Italiani, è un uomo di garbo ; segno manifesto, pare a me, di quanto i primi pongano sopra ogni altra cosa i piaceri della conversazione, e la scienza della urbanità; i secondi la ragionevolezza e il buon senso; gli altri la compostezza delle maniere, e l’accortezza di condursi nella vita. Algarotti, Lettere varie, Lettera al Sig. Barone N. N. a Hertzogenbrück. Berlino 10. Marzo 1752. fine. Opp. ed. Cremona, Manini 1778-84. tomo 9. 1783. p. 69. (28. Nov. 1826.).

Molto impropriamente la questione del sommo bene è stata chiamata la questione dei fini. Il fine dell’uomo è noto e certo a ciascuno che interroghi se medesimo: un piacere perfetto, non dico in se, e però non importa se sommo o non sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere che lo contenti del tutto. Questo è il nostro fine, notissimo a tutti, benchè poi non si possa conoscere di qual natura sia o possa essere questo piacere perfetto, niuno avendolo sperimentato mai; e per conseguenza che cosa e di qual natura sia o possa essere la felicità umana. Se la virtù, o la voluttà del corpo, o altre cose tali, possano proccurare all’uomo il piacere perfetto; o qual di loro più; o in somma donde possa o debba l’uomo conseguire il piacer perfetto che egli desidera, e che è il suo fine, questo può ben cadere e cade in questione; ma tal questione è dei mezzi, non già dei fini. Il fine è certo, il mezzo s’ignora, e la cagione di questa ignoranza è in pronto. La cagione, dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine, che niuno ha mai ottenuto, non esistono al mondo; che per conseguenza il sommo bene, che ci possa o debba dare il piacer perfetto che cerchiamo, non si trova, è un’immaginazione, come lo è questo piacer perfetto esso stesso, quanto alla sua natura; e che infine l’uomo sa e saprà ben sempre che cosa desiderare, ma non mai che cosa cercare, cioè che mezzo che cosa possa soddisfare il suo desiderio, dargli il piacer perfetto, cioè che cosa sia il suo sommo bene, dal quale debba nascere la sua felicità. (Recanati. 28. Nov. 1826.).

Ritorta-ritortola. Primulus a um, e primulum per primus e primum avv. Osservisi che son voci dei Comici, cioè del dir volgare.

Anticato per antico. V. Crusca.

Far le corna a unoκέρατά τινι ποιεῖν , detto della moglie. Artemidoro de somniis cap. 12. che lo chiama τὸ λεγόμενον. V. Tassoni Varietà di pensieri, lib. 9. cap. 30.

Datti de’ polli, latte, capretti, giuncate, e delle altre delizie, che tutto l’anno ti serba. Pandolfini Tratt. del governo della famiglia, ed. Milano 1811. p. 81. (Recanati 30. Nov. Festa di S. Andrea. 1826.). Vi si allegheranno degli altri. Caro Apologia, Parma 1558. p. 26. In Esiodo non sono delle voci che non sono in Omero? Ib. p. 26-27. E così spessissimo.

Senza fargli altra risposta, cioè niuna. Sannazz. Arcadia, prosa 11. fine.

Observe the French people, and mind how easily and naturally civil their address is, and how agreeably they insinuate little civilities in their conversation. They think it so essential, that they call an honest man and a civil man by the same name, of honnête homme; and the Romans called civility humanitas, as thinking it inseparable from humanity. Chesterfield Letters to his son, lett. 95.

È naturale all’uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, una perspicacia, una esperienza superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz’altra ragione; spessissimo eziandio, ne’ più gravi pericoli e ne’ più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la buona speranza e opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s’immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l’opinione e il giudizio che egli portava della cosa; nè più nè meno come s’io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo o veramente o nell’apparenza non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d’animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di tal rifugio. Ed è cosa mille volte osservata e veduta per prova come gli uomini di guerra, anche esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti, nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d’animo, e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov’è sommamente da temere o dolersi. E questa qualità dell’uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell’esito delle cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d’ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza cieca nell’autorità, nel senno, e nel provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).

Dilettare-dileticare, co’ derivati.

Intermittenza morale. Passioni e qualità morali intermittenti. — Aggiungerò che quest’odiosa passione (l’avarizia) provenendo sovente dalla debolezza della nostra costituzione, avviene che le infermità corporali talvolta la sviluppino. Una dama che per sei mesi dell’anno era soggetta ai vapori e alla malinconia, era pur anche durante quel tempo d’una sordida parsimonia; ma come appena le funzioni corporee ripigliavano la loro armonia, ella si faceva adorare per la sua grande generosità. Alibert, Physiologie des passions, nel N. Ricoglitore di Milano, quaderno 23. p. 788. — Questa osservazione si può sommamente estendere. Ciascuno di noi, se bene osserva, troverà in se questa sì fatta intermittenza. Io, inclinato all’egoismo, perchè debole e infermo, sono mille volte più egoista l’inverno che la buona stagione; nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza dell’avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico. — Quante cose poi non si potrebbero dire sopra questa medesima intermittenza, considerata, non nelle qualità, ma nelle facoltà intellettuali e sociali, sia ingenite, sia acquisite! (Recanati. 10. Dic. Festa della Venuta. 1826.).

Assai meglio scrisse (il Boccaccio) quando si lassò guidar solamente dall’ingegno ed instinto suo naturale, senza altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenza e fatica si sforzò d’esser più culto e castigato. Castiglione prefaz. del Cortegiano . Senza altro (cioè alcuno) impedimento. Ib. lib.2. ed. Venez. 1541. carta 79. p. 2. principio, ed. Venez. 1565. p. 198. fin. E così il medesimo autore nella citata opera altre più volte. Senz’altro strepito (cioè niuno). Ib. lib. 3. carta 126. principio. — p. 310.

Pare che la fanciullezza e la gioventù abbia ingenita e naturale una inclinazione a distruggere, e la età matura e avanzata, a conservare. Nè voglio io dedur questo dal vedere che i giovani sogliono scialacquare e mandare a male i patrimoni, dove che i provetti gli accumulano, conservano e accrescono[a]

Inconsideranza e spensieratezza del futuro.

[Chiudi]; la qual cosa facilmente si spiega, e nasce perchè i giovani sono confidenti, e poco riflettono, nè pensano all’avvenire, in vece che i vecchi sono timidi, cauti, e sempre solleciti del futuro. Ma vedesi quel che io ho detto, eziandio in cose dove non ha luogo alcuno nè il timore o la fiducia, nè la provvidenza o la improvvidenza dell’avvenire. Un fanciullo e un giovane spessissime volte si piglierà piacere di uccidere una mosca o altro animaletto, cacciandolo anco con fatica, senza altra ragione o altro fine che di prendersi gusto; rarissime volte si compiacerà, o gli verrà pure in capo, di salvar qualche animale, vedendolo in pericolo, e potendolo salvar senza affaticarsi. Un uomo maturo o un vecchio rare volte si piglierà diletto di uccidere, spesso si compiacerà di salvare tali creature, vedendole in qualche pericolo di perdersi, e potendo massimamente soccorrerle senza suo disagio. E ciò faranno gli uni e gli altri, come per instinto, e senza ragionarvi sopra. È manifesto poi come i giovani tendano alla novità, e non solo sieno vogliosi d’innovar propriamente, ma eziandio semplicemente di spegner l’antico, o di vederlo spento; e i provetti, per lo contrario, gelosi della conservazione delle cose che sono. Onde si potrebbe dire che la natura, sempre intenta e studiosa non meno a distruggere che a conservare o produrre, avesse dato stimolo e incarico a quelli che crescono e vengono innanzi nel mondo, di distruggere, quasi per farsi luogo; e a quelli che declinano, e si avviano alla partenza, di conservare e produrre, quasi per lasciar pieno il luogo loro, per lasciar cose che restino in loro scambio, per supplire il posto che essi son per lasciare. (Recanati. 12. Dic. 1826.).

Fare e dire ciò che lor occorre, così, senza pensarvi. Castiglione Cortegiano lib. 2. ed. Ven. 1541. carta 69. ed. Ven. 1565. p. 174.

Reperito as. V. Forcellini .

Cielo detto di camere, di carrozze ec. — Così in greco οὐρανὸς, οὐρανίσκος per volta ec. V. Casaubon. ad Athenae. l. 5. c. 6. l. 4. c. 5. Aristot. l’usa per palato. Scapula.

Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da oriuolo sono un’ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e non esiste, nè da se medesima, nè nel tempo, come membro di esso, non più di quel che ella esistesse prima dell’invenzione dell’oriuolo. In somma l’esser del tempo non è altro che un modo, un lato, per dir così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, o che possono o si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia o non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una proprietà del nulla l’esser luogo: proprietà negativa, giacchè anche l’esser di luogo è negativo puramente e non altro. Sicchè, come il tempo è un modo o un lato del considerar la esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi è spazio, e il nulla senza spazio non si può dare. Per tanto è manifesto che eziandio fuori degli ultimissimi confini dell’universo esistente, v’è spazio, poichè nulla v’è. E se qualche cosa potesse essere o creata o spinta di là da quegli estremi confini, troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla che la impedisse di andarvi o di starvi. La conclusione si è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi. E quelle innumerabili e immense quistioni agitate dalla origine della metafisica in qua, dai primi metafisici d’ogni secolo, circa il tempo e lo spazio, non sono che logomachie, nate da malintesi, e da poca chiarezza d’idee e poca facoltà di analizzare il nostro intelletto, che è il solo luogo dove il tempo e lo spazio, come tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e per se medesimi, e sian qualche cosa. (Recanati. 14. Dic. 1826.).

Ἑλένη cambiata in Σελήνη nei primi secoli della nostra era. V. Maffei Arte magica annichilata, lib. 3. cap. 5. par. 3 opp. ed. del Rubbi t. 2. p. 205.

Uso di porre il g avanti la n (come in cognosco, agnosco, agnatus, da nosco e natus), del quale in questi pensieri altrove. V. Maffei Appendice all’Arte magica annichilata, opp. ed. del Rubbi, vol. 2. p. 320.

Quanta fosse fin nel principio del secolo addietro la fama della letteratura italiana, e lo studio che vi mettevano gli stranieri si può conoscere anche da questo fatto, poco noto oggidì, che come nel fine di detto secolo si pubblicò in Ginevra il famoso Giornale della Bibliothèque britannique, espressamente per far conoscere e tenere al corrente l’Europa, dei progressi ec. della letteratura inglese, così nel principio di esso secolo, usciva a Ginevra altresì, un Giornale intitolato Bibliothèque italique, ou histoire littéraire de l’Italie, il quale aveva lo stesso scopo, rispetto all’Italia. Di tanto ancora era stimata degna la nostra letteratura. V. le opp. del Maffei ed. del Rubbi vol. 4. p. 7. segg. dove questo Giornale è chiamato un’opera che nacque in Francia con sommo credito, perchè composta da sette sapienti , e se ne citano gli estratti della Verona illustrata presi dal tomo 15. 16. e 17. di esso giornale; e il tomo 21. p. 8. dove si cita l’anno 1728. del medesimo Giornale. V. p. 4264. fin.

Alla p. 4216. marg. Così il Maffei intitolò Storia diplomatica, o piuttosto, come voleva egli, Storia de’ Diplomi (v. le sue opp. ed. del Rubbi, t. 21. p. 7. fin.), la sua opera contenente la scienza o notizia de’ diplomi.

La poesia, quanto a’ generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d’ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo. L’epico nacque dopo questo e da questo; non è in certo modo che un’amplificazione del lirico, o vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha assunta principalmente e scelta la narrazione, poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch’esso sulla lira o con musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno in onor degli eroi o delle nazioni o eserciti; solamente un inno prolungato. Però anch’esso è proprio d’ogni nazione anche incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in gran parte, e quelli ancora de’ bardi, partecipar tanto dell’epico e del lirico, che non si saprebbe a qual de’ due generi attribuirli. Ma essi son veramente dell’uno e dell’altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività dell’epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un’ispirazione, ma un’invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con regola e con misura, anzi n’esclude la misura affatto, n’esclude affatto l’armonia; giacchè il pregio e il diletto di tali imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di modo ch’ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze, i difetti. E tali imitazioni naturali poi, non sono mai d’un avvenimento, ma d’un’azione semplicissima, voglio dir d’un atto, senza parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura, è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell’ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l’epica, che è sua vera nepote. — Gli altri che si chiamano generi di poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L’elegiaco è nome di metro. Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci lirici, massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto lirici, detti θρῆνοι, quali furon quelli di Simonide, assai celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche μομῳδίαι, come quelle che di Saffo ricorda Suida. Il satirico è in parte lirico, se passionato, come l’archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che il linguaggio, il modo e i gesti per dir così. ec. (Recanati. 15. Dic. 1826.).

Alla p. 3177. Noterò qui, come cosa solamente poco nota oggidì, e curiosa da sapersi che lo stesso argomento della Gerusalemme, nello stesso tempo del Tasso fu trattato in un poema latino di 12 libri, intitolato la Siriade, da un altro Italiano, cioè da Pietro Angelio, o degli Angeli, da Barga (Castello di Toscana 20. miglia lontano da Lucca), nato del 1517. e morto del 1596. a’ 29. Febbraio (non un intero anno dopo il Tasso, morto a’ 25 Aprile 1595.), versificatore e prosatore italiano e latino, certo non indotto, e a’ suoi tempi, ed anche appresso, molto stimato, il quale aveva viaggiato in Levante, per la Grecia e per l’Asia, andato a Costantinopoli in compagnia d’uno inviato del Re di Francia, ed aveva per zelo ed onore della nazione italiana ucciso un francese chè parlavane con disprezzo, onde incorse poi in gravi pericoli. V. Tiraboschi secolo 16.o libro 3. capo 4. par. 5.o e Dati Prefaz. alle prose fiorent. nella Raccolta di prose a uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753. p. 633. Non saprei dire qual de’ due, il Tasso o l’Angelio, fosse primo a concepire questo bell’argomento, o se l’uno senza saputa dell’altro. Ciò solo interesserebbe in questo particolare. (19. Dic. 1826.). Vedi l’oraz. in lode dell’Angelio, recitata da Francesco Sanleolini fiorentino nell’Accademia della Crusca l’anno 1597. Prose fior. parte 1. vol. 1. oraz. 7. particolarmente verso la fine, ediz. di Venez., Occhi, 1730-1735. p. 105-106. dove l’oratore afferma e vuol provare che il primo a concepire il detto argomento fu il degli Angeli. V. il Tasso Apologia agli Accad. della Crusca, opp. ed. del Mauro. t. 2. p. 309. e le Lettere poetiche, dove si vede che il Tasso veniva facendo comunicare al Barga i pezzi del suo poema in iscriverlo, per avere il suo parere. (20. Dic. 1826. Vigilia di S. Tommaso apost.).

Dice (aiunt) che un certo poeta greco, per nome Simonide diceva di tenere appresso di se due cassette. A. M. Salvini nelle prose fiorentine, parte 3. vol. 1. lettera 99. (lett. al Signore Antonio Montauti) ediz. di Venez., Occhi, 1730-35. tomo 5. parte I. p. 152.

Tenacità dei greci verso la loro lingua, e loro ignoranza delle altre, in ispecie della latina. V. Dati, pref. alle prose fiorentine, nella Raccolta di prose ad uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753. p. 620. segg.

Universalità della lingua greca anticamente. V. Dati, loc. citato qui sopra, p. 627. fin. e segg.

Studio e pregio in cui era la lingua italiana presso gli stranieri nel Secolo 17.o V. Dati, loc. citato qui sopra, p. 630: e nella medesima Raccolta cit. qui sopra, v. le Orazioni del Lollio e del Buommattei e del Salvini in lode della lingua toscana. (Recanati. 20. Dic. 1826.).

Defectus per qui defecit o deficit. V. Forcellini .

Zocco-zoccolo. Fagus-fagulus (V. Forcell. Gloss. ec.) — faggio.

Scultare da sculptum, come in franc. sculpter. V. Crusca.

Sminuzzare-sminuzzolare.

Quell’idiotismo nostro e latino del sibi, o mihi ec. e del si, mi, ti, ci ec. ridondante, in vero o in apparenza, notato da me altrove, nell’uso dei verbi, anche attivi, ha molta corrispondenza coll’uso del verbo greco medio, nei quali verbi spessissimo a prima vista non si scorge ombra di azione reciproca, e paiono usati a puro capriccio, in vece dell’attivo; benchè poi, attentamente guardando, sempre o il più delle volte, massime ne’ buoni autori, vi si scuopra la cagion di usarli piuttosto che gli attivi, e un non so che di reciproco nella significazione. (Vigilia di Natale. Domenica. 1826. Recanati.).

Πάτανον-πατάνιον o βατάνιον, come appunto in latino patina-patella.

Senz’altro fiato (cioè nessuno). Galilei, Saggiatore, opp. ed. di Padova, t. 2. p. 284. luogo molto insigne e notabile al proposito.

Alla p. 4204. Bellissimo, e da vedersi e leggersi attentamente, è il capo 7. del libro VI. di Casaubono ad Athenaeum, dove parla degli antichi libri intitolati Διδασκαλίαι o περὶ διδασκαλιῶν (che potremmo tradurre delle Esposizioni dei drammi), libri che contenevano le istorie o croniche delle opere drammatiche, in quanto alle circostanze dei tempi, occasioni, modi, in cui furono esposte sulla scena. Intorno a tale argomento si affaticarono i primi letterati, incominciando da Aristotele, e massime i Critici. Erano libri, come bene osserva il Casaubono, utilissimi alla cronologia da una parte, e dall’altra alla storia sì delle vicende politiche e sì dei costumi, tanto generali della Grecia o di Atene (dove si esponevano i drammi), quanto individuali delle persone più cospicue e famose di ciascun tempo. Giacchè mille volte le vicende politiche davano occasione, e argomento intero, a questo o quel dramma, e vi erano figurati i caratteri dei principali personaggi dell’attuale repubblica. Tali erano le istorie teatrali dei greci; libri, dove quasi senz’avvedersene, s’imparava la storia politica, la storia più intima delle opinioni e dei costumi nazionali, civili, individuali della Grecia, anno per anno. Che cosa di comune potrebbero avere con queste le nostre istorie teatrali, le istorie, se ne avessimo, delle nostre esposizioni di arti; e simili libri? Quando presso di noi nè drammi, nè opere d’arte, nè cosa alcuna d’ingegno, suol rappresentare le circostanze dei tempi, nè essere occasionata e figlia legittima del tempo? In fatti quale interesse hanno le nostre istorie teatrali, se non forse per le compagnie degl’istrioni? (Recanati. 29. Dic. 1826.). V. p. 4294.

Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime e le ultime, mitologie. Gl’inventori delle prime mitologie (individui o popoli) non cercavano l’oscuro per tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il chiaro nell’oscuro; volevano spiegare e non mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quelle cose che l’uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora. Gl’inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi secoli della nostra era, decisamente cercavano l’oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove, altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create. Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic. 1826.).

Vi-g-ore coi derivati — vi-v-ore coi derivati. V. Crusca.

Violato per violaceo, violetto, o appartenente a viole. V. Crusca. Lanatus (V. Forcell. ), lanuto per lanosus, lanoso.

Violetto. Diminutivo aggettivo positivato.

Misceo, mixtus, misto-mestare (quasi da mesto per misto, come meschio per mischio, e meschiare, mescolare ec.) rimestare mesticare (noi marchegiani diciamo più alla latina misticare, misticanza ec.); coi derivati.

Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata da me in quell’assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826. in Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente colla impazienza, e colla inquietezza. Consiste in una non resistenza, una rassegnazione d’animo, una certa quiete dell’animo nel patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e chiamata vile: ella è pur necessaria all’uomo, nato e destinato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente, coll’abitudine del sopportare un travaglio o una noia. La pazienza e la quiete, è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende così tollerabile, p. e. a un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l’uomo fa a quella noia, e l’impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale passata, e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri. E in ciò consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che altrimenti. (30. Dic. 1826. Recanati.). V. p. 4267.

Circa la stima che gli antichi facevano della felicità, e il contarla come una delle principali doti dei loro eroi, e come soggetto principalissimo di lode, è curioso vedere come Giorgio Gemisto Pletone, nella sua breve ed elegantissima orazione in morte della imperatrice Elena, poi fatta monaca e detta Ipomone, pubblicata da Mustoxidi e Scinà nella loro συλλογὴ ἑλληνικῶν ἀνεκδότων, τετράδιον, cioè quaderno, γ', imitando nelle altre cose, e molto felicemente, gli antichi, gl’imiti anche in questo, di lodar principalmente quella donna per li favori della fortuna; sentimento alieno da’ suoi tempi. (Recanati. ultimo del 1826.).

Chi scrivendo oggi, cerca o consegue la perfezion dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni dell’arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettissimi degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico. Tanto è oggi (e sarà forse in futuro) cercare con quanto si sia successo, la perfezion dello stile nelle lingue vive, quanto cercarla ed anco trovarla nelle morte, come facevano molti illustri italiani del cinquecento nella latina. (2. 1827.).

Brancicare. Zoppicare.

Spruzzolare. Avvolticchiare. Svolticchiare. Magalotti Lett. familiari, lett. 8. circa fin. par. 1.

Non so s’io m’inganno, ma certo mi par di scorgere nella maniera sì di pensare e sì di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura, e non forzata, la stessa non disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una fiducia ed estimazion lodevole di se stesso, una generosità d’animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perchè avuta fin dal principio della vita, e nata dalla considerazione altrui riscossa fin da’ primi anni ed abituata. Io credo che questa tale magnanimità e di pensare e di scrivere, dico questa tale, e che non sia nè feroce, nè satirica, o mista dell’uno e dell’altro, non si troverà facilmente in iscrittori o uomini non nati nobili o di buon grado; se egli si guarderà bene. Vi si troverà sempre una differenza. Simili considerazioni si potrebbero fare intorno alla ricchezza, che suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse scialacquo. Simili intorno alla potenza, dignità, fortuna. Simili intorno ai contrarii. Vedi Alfieri Vita sua, capo 1. principio. Messala nitidus et candidus, et quodammodo prae se ferens in dicendo nobilitatem suam. Quintiliano 10.1. (6. 1827. Epifania.). Forse Galileo non riusciva, come fece, il primo riformatore della filosofia e dello spirito umano, o almeno non così libero, se la fortuna non lo facea nascere di famiglia nobile. V. p. 4419.

Dispetto e despetto, cioè disprezzato, per dispregevole.

Egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi son più, e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre che in sua gioventù a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d’impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno. Magalotti, Lettere familiari, parte I. lett. 28. Belmonte 9. Febbraio 1683. (cento e quarantaquattr’anni fa!!). (7. 1827. Recanati.). Se i sostenitori del raffreddamento progressivo ed ancor durante del globo, se il bravo Dott. Paoli (nelle sue belle e dottissime Ricerche sul moto molecolare dei solidi) non avessero avuto o avessero da assegnare altre prove di questa loro opinione, che la testimonianza dei nostri vecchi, i quali affermano la stessissima cosa che quello del Magalotti, allegando la stessa pretesa usanza, e fissandola allo stesso tempo dell’anno; si può veder da questo passo, che non farebbero grand’effetto con questo argomento. Il vecchio, laudator temporis acti se puero, non contento delle cose umane, vuol che anche le naturali fossero migliori nella sua fanciullezza e gioventù, che dipoi. La ragione è chiara, cioè che tali gli parevano allora; che il freddo lo noiava e gli si faceva sentire infinitamente meno, ec. ec. Del resto non ha molt’anni che le nostre gazzette, sulla fede dei nostri vecchi, proposero come nuova nuova ai fisici la questione del perchè le stagioni a’ nostri tempi sieno mutate d’ordine ec. e cresciuto il freddo; e ciò da alcuni fu attribuito al taglio de’ boschi del Sempione ec. ec. Quello che tutti noi sappiamo, e che io mi ricordo bene è, che nella mia fanciullezza il mezzogiorno d’Italia non aveva anno senza grosse nevi, e che ora non ha quasi anno con nevi che durino più di poche ore. Così dei ghiacci, e insomma del rigore dell’invernata. E non però che io non senta il freddo adesso assai più che da piccolo.

L’amor della vita e il timor della morte non sono innati per se: altrimenti niuno s’ammazzerebbe. Innato è l’amor di se, e quindi del proprio bene, e l’odio del proprio male: e però niun può non amarsi, nè amare il suo creduto male ec. È però naturale che ogni vivente giudichi la vita il suo maggior bene e la morte il maggior male. E infatti così egli giudica infallibilmente, se non è molto allontanato dallo stato di natura. Ecco dunque che la natura ha veramente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo error di giudizio; benchè non abbia ingenerato un amor della vita. Esso è un ragionamento, non un sentimento: però non può essere innato. Sentimento è l’amor proprio, di cui l’amor della vita è una naturale, benchè falsa conclusione. Ma di esso altresì è conclusione (bensì non naturale) quella di chi risolve uccidersi da se stesso. (8. 1827.).

Senza più oltre o più avanti o innanzi pensare, e simili, vagliono spesse volte semplicemente senza punto pensare. Così senza pensar più là. Così senza più, o solo, o accompagnato con verbi (senza più pensare) o con nomi, equivale spesso a senza nulla o niuno, appunto come in ispagn. mas per niuno, del che altrove. Senza pensar più oltre. V. Firenzuola Ragionam. ed. Classici ital. p. 229. cioè penult. Bembo Asolani p. 10. col. 1. fin., nelle sue opp.

Della diffusione della lingua italiana presso gli stranieri nel 500. v. anche Speroni Oraz. in lode del Bembo. Tasso opp. ed. del Mauro, t. 9. p. 148. lett. 238. Lettere di Principi o a Principi Ven. 1573. carta 226. versa.

Disprezzo e ignoranza dei greci per la letteratura latina. V. Speroni Diall. ed. Ven. 1596. p. 420. — Si potrebbero in ciò i greci assomigliare ai francesi.

Trovasi anco in inglese lo scambio della s coll’aspirazione. Salle franc. — hall ingl.

Altro per niuno o niente. Firenzuola Ragionamenti, ed. dei Classici ital. p. 89. lin.2. p. 230. cioè ult.

Tu profferisti chiunque con due sillabe; la qual parola non mi voglio ricordare che si truovi se non con tre. Firenzuola loc. cit. qui sopra, p. 84. Vuol dire non mi vuol venire alla mente, non mi posso ricordare. Grecismo. Simile alla p. 162. Lucrezia, chè così mi voglio ricordar che fusse il nome della vedova. Cioè così mi vuol dire, così mi dice, la memoria; così mi pare, mi vien fatto, di ricordarmi. (Domenica 14. 1827.).

Mia, tua, sua plurali fiorentini, e antichi.

Alla p. 4156. A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo, le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall’assuefazione. Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella resistenza che l’animo fa naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le disavventure, è il maggior dolore che prova l’uomo. Quando l’animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l’animo, questo ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma lo fa con lunghezza; e quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è dell’animo all’animo. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono più vive, così ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però travaglia assai meno l’animo; bensì perchè col corpo anco l’animo è abbattuto, perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l’animo e ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo; onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l’animo accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicchè quegli sfoghi sono veramente una medicina quasi un narcotico preparata dalla natura medesima, perchè l’uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro. V. p. 4283. (Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.).

Alla p. 4184. Molte cose si trovano presso gli antichi, come sarebbe questa opinione sopraddetta, che appartengono e fanno fede ad una squisita umanità, molto superiore ad ogn’idea moderna. Di tal genere era l’uso di quegli ἔρανοι tanto famosi presso i greci, e tanto usitati, fino a nascerne, come di ogni buona e umana istituzione o usanza, abusi che oggi paiono stranissimi. Veggansi nel Casaubono, ad Atenae. libro 7. capo 5. fin. (v. p. 4469.) E veggansi pure nel medesimo, libro 6. capo 19. princip. l’umanità con cui erano trattati i servi, cioè schiavi, dagli Ateniesi, e gli strani diritti che erano loro dati per le leggi di quella repubblica. V. la p. 4280, capoverso 3. (15. 1827.). V. p. 4286.

Melato, mellitus, per melleus o dulcis. Spedito, espedito, expeditus ec. Spigliato. Sforzato, sforzatamente (esforzado). Crusca.

Strascicare.

Attero, attritum-attritare, contritare. Crusca. V. Forcell. Gloss. ec.

Taranta. Speroni Dial. ed. Ven. 1596. p. 135. — Tarantola. Tarantella. Salvini. V. Diz. dell’Alberti. Tarande-tarantule. Tarantolato. V. gli spagn. ec.

Βάτος-βατὶς. v. i Lessici e Casaub. ad Athenae . Nome di pesce. σκίαινα-σκιαινὶς. v. Casaub. ib. lib. 7. c. 10. init. c. 20. fin. ἔγχελυς-ἐγχέλιον ib. c. 12. med.

In proposito del Sassetti, primo notificatore della lingua sascrita, come ho detto altrove, osservo che anche qui si verifica quella osservazione, che agl’italiani par destinato il trovare, e il lasciar poi agli altri l’usare e il perfezionare, e il raccoglier la gloria e l’opinione ancora della scoperta. (19. 1827.).

ὗς- gli antichi σῦς, σύαγρος ec. V. Ateneo, e i Lessici, coi composti e derivati ec.

Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove ec. V. nelle opp. del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spirto, leggiadre rime ec. e la Risposta del Tasso. (ed. del Mauro, t. 6.). V. ancora il Guidiccioni nelle Lett. di div. eccellentiss. uom. Ven. Giolito. 1554. p. 43-48.

Sevum, sevo-sego. Rovo-rogo.

Trasognato per trasognante. Straboccato, traboccato per traboccante, o che suol traboccare.

Τοιαύτην γὰρ ἡ φιλία βούλεται (cioè πέφυκε, debet) ποιεῖν ἑνότητα καὶ σύμπηξιν. (vuole, tende per sua natura a fare) Plutar. περὶ πολυφιλίας de amicorum multitudine, p. 95. A. V. Casaubon. ad Athenae. l. 7. C. 16. Volere assolutamente per dovere, vedilo nelle Giunte Veronesi. (Recanati. 25. 1827.).

Preciado spagn. per prezioso, come noi pregiato. Continuato o continovato per continuo, e così continué ec.

Vittuaglia, vittuaria-vittovaglia, vettovaglia, vettuvaglia. Vettuaglia, Ricordano cap. 125. 133. M. Vill. ap. Crus. in Casale. Capua, Padua, Mantua, coi derivati Capova, Padova, Mantova ec. ec. Balduino e Baldovino. Menovare, cioè menuare. v. Crus.

Auto, riceuto ec. negli antichi, come Ricordano ec. omesso il v, per avuto ec.

Monte Guarchi, in Ricordano spesso, per Montevarchi.

Da mutolo per muto, ammutolare, ammutolire per ammutare, ammutire disusati.

Nutrire per avere (io nutro speranza ec.). V. Crus. franc. spagn. ec. — τρέφω appunto per ἔχω. Casaub. ad Athenae. l. 7. c. 18. fin.

Disguizzolare. Parlottare. Borbottare.

Digiuna plur. per quattro tempora. Dino Comp. lib. 3. princip. La Crus. ha Digiune.

Ragionato per ragionevole, ragionatamente ec. V. Crusca. Minutus, minuto ec. da minuo, per piccolo. Svagato, divagato, distratto, distrait ec. per che suole essere svagato ec. Dissipito cioè non saputo per dissipiente, che non sa, non ha sapore. Dissapito. Dissaporito.

Sfondare-sfondolare, sfondolato. Aratro arato voce antica — aratolo.

Alla p. 4144. Io credo certo ch’Epitteto (il quale viveva in Roma) alluda in questo luogo al costume romano di chiamar le donne dominae, costume che certo ci dovette essere, e passare in consuetudine grandissima poichè nel nostro volgare domina (donna) è restato sinonimo, anzi vicario, di mulier. V. il Ducange in Domina, par. 6. e il Forcell. che dice così chiamate le madri di famiglia e le mogli, e queste, cioè le maritate, sono propriamente in ital. le donne. Questa è però, secondo me, la vera interpretazione del luogo di Epitteto, cioè che le femmine, appena maritate, divengono di nome donne, che val padrone. Del resto noi diciamo similmente le non maritate, donzelle, cioè padroncine. V. Ducange in Domicellus, ed anche vedilo in Domnus. I mariti ancora si chiamavano particolarmente domini. Forcell. (Recanati. 2. Feb. Festa della Purificazione di Maria Vergine Santissima. 1827.).

Magistrato [a]

Ministro, funzionario qualunq.

[Chiudi] da bene. Magistrato malvagio. Qual è il segno da riconoscerlo? Di tutte le altre cose non ne troverete una, dove stabilito ancora e confessato il fatto, non sieno vari e opposti giudizi, o interpretazioni qual buona qual sinistra. Rigoroso, severo: se tu lo lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele, ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati sotto specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione. Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vizi e dei malvagi, complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere. Se vi sono partiti, ed egli ne favorisce uno, l’altro o gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile, almeno un furbo. Così dell’ambizione; ec. ec. Ma quanto all’astinenza o all’appetenza dell’altrui o del pubblico, voi non troverete due persone che concordato il fatto, discordino nel lodarlo o nel biasimarlo, o anche nell’interpretarlo. E questo è quasi il solo capo dal quale in verità suol dipendere il nome che uno acquista nei magistrati di uomo da bene, o di tristo. Da bene è sinonimo di disinteressato, malvagio di cupido; integrità di disinteresse ec. Da ciò parrebbe che gli uomini non fossero d’accordo se non nel concetto della roba, e che l’ufficiale pubblico potesse a suo modo dispor della vita, dell’onore, della libertà, di tutti gli altri beni dei cittadini, purchè rispettasse i danari e le possessioni. (4. Feb. Domenica. 1827.).

Cano is, con-cino is ec. — Vati-cinor aris, ec. buccinare ec. V. Forc.

ἐθέλειν per δύνασθαι. V. Casaub. ad Athenae. l. 8. c. 10. sulla fine. Plat. ed Astii t. 4. p. 104. lin. 23. p. 200. lin. 9.

μοχθηρος ha diverso accento quando si scrive per infelice e quando per malvagio; μόχθηρος o μοχθηρὸς; come ho notato altrove di πονηρος. Puoi vedere Casaub. ad Athenae. l. 8. c. 10. titul. et init.

Del digamma eolico v. Casaub. ad Athenae. l. 8. c. 11. due volte.

Al detto altrove di curtus, cortar, scortare, scorciare, accorciare ec. aggiungi accortare.

Metior iris-metor aris. Ed anche metio (Lattanz. ha metiebantur passiv.) e meto.

Capperi. Origine greca di questa esclamazione. V. Menag. ad Laert. l. 7. segm. 32.

῾Ρακεία -racaille. V. Casaub. ad Athenae. l. 9. c. 5.

Sottosopra, sossopra, sozzopra ec. — ἄνω κάτω

Assegnato per parco ec. V. Crusca, e Caro. Lett. 175. vol. 1.

Certo molte cose nella natura vanno bene, cioè vanno in modo che esse cose si possono conservare e durare, che altrimenti non potrebbero. Ma infinite (e forse in più numero che quelle) vanno male, e sono combinate male, sì morali sì fisiche, con estremo incomodo delle creature; le quali cose di leggieri si sarebbono potute combinar bene. Pure perch’elle non distruggono l’ordine presente delle cose, vanno naturalmente e regolarmente male, e sono mali naturali e regolari. Ma noi da queste non argomentiamo già che la fabbrica dell’universo sia opera di causa non intelligente; benchè da quelle cose che vanno bene crediamo poter con certezza argomentare che l’universo sia fattura di una intelligenza. Noi diciamo che questi mali sono misteri; che paiono mali a noi, ma non sono;, benchè non ci cade in mente di dubitare che anche quei beni sieno misteri, e che ci paiano beni e non siano. Queste considerazioni confermano il sistema di Stratone da Lampsaco, spiegato da me in un’operetta a posta. (18. Febbraio. Domenica di Sessagesima. 1827.).

Ἄλλος ridondante. V. Casaub. ad Athenae. l. 9. c. 10. dopo il mezzo, dove il Casaub. non pare avere atteso a questa proprietà del grecismo, nè compresala bene.

Alla p. 4184. Del resto io posso per la mia inclinazione alla monofagia, esser paragonato all’uccello che i greci chiamavano porfirione, se è vero quel che ne raccontano Ateneo ed Eliano, che quando esso mangia, abbia a male i testimoni. V. Casaub. ad Athenae. 9. c. 10. sotto il principio. V. p. 4422.

Giuoco di mano, giuoco di villano, is a very true saying, among the few true sayings of the Italians. Chesterfield Letters to his son, lett. 259. Il conte di Chesterfield era veramente molto pratico e della lingua, ed anche dei particolari e minuti detti usuali nel nostro parlar familiare. Nè io disapproverei molti de’ suoi giudizi circa la letteratura e le cose nostre, come p. e. quello circa il Petrarca (lett. 217.), simile al parer del Sismondi: Petrarca is, in my mind, a sing-song love-sick Poet; much admired, however, by the Italians: but an Italian, who should think no better of him than I do, would certainly say, that he deserved his Laura better than his Lauro (alludendo alla coronazione del Poeta in Roma); and that wretched quibble would be reckoned an excellent piece of Italian wit. Io, con licenza di Milord, non credo che sia vera quest’ultima cosa, nè che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua opinione in quanto al Petrarca. V. p. 4263. Il qual giudizio troverà pochi approvatori in Italia fuori di me. Ma quello dei nostri detti e proverbi, è certamente falso ec. (Può servire per un articolo sopra i proverbi). (Recanati 27. Feb. ult. di Carnovale. 1827.).

Ultimatamente per ultimamente, Crusca. L’usa anco il Bembo nelle Lettere.

Il Bembo fu un Cesari del 500, il Cesari è un Bembo dell’800. Simili negli effetti che hanno operati, e nelle circostanze dei tempi quanto alla lingua, e nei mezzi usati e nelle opinioni, cioè nella divozione al 300. ec. Ma similissimi anco nell’esser loro naturale (lasciando l’esser vicini di patria, e d’una provincia stessa). Molta lettura e studio: nessuno ingegno da natura; nessuna sembianza di esso, acquistata per l’arte. Mai niun barlume, niuna scintilla di genio, di felice vena, ne’ loro scritti. Aridità, sterilità, nudità e deserto universalmente. Pochi o niuno de’ nostri autori e libri che hanno avuto fama e che si stampano ancora, furono mai così poveri per questa parte, come il Bembo e gli scritti suoi. (27. Feb. 1827.).

Pel Manuale di filosofia pratica. Desiderio naturale, necessario, e perpetuo nell’uomo, di un futuro miglior del presente, per buono che il presente possa essere. Importanza quindi dell’avere una prospettiva e una speranza, per esser felice. Importanza del sapersi fare, comporre e propor da se stesso tal prospettiva. Non sempre le circostanze, l’età ec. permettono una prospettiva di miglioramento e di avanzamento nello stato ec. Oltracciò gli avanzamenti e miglioramenti grandi sono di difficile conseguimento, e non conseguendosi, e ingannata la speranza, restiamo turbati. Utilità somma del sapersi proporre di giorno in giorno un futuro facile, o anche certo, ad ottenere; dei beni che avvengono d’ora in ora; godimenti giornalieri, di cui non v’ha condizione che non sia fornita o capace: il tutto sta sapersene pascere, e formarne la propria espettativa, prospettiva e speranza, ora per ora: questo è ufficio di filosofo, ed è pratica incomparabilmente utile al viver felice. (Recanati. 1.o dì di Quaresima. 28. Feb. 1827.).

Ho detto altrove che nella primavera l’uomo suole sentirsi più scontento del suo stato, che negli altri tempi. Così ancora nella state più che nel verno. La cagione è che allora l’uomo patisce meno. Però desidera più il godimento e il piacere diretto. Nella primavera poi tanto più sensibile è questo desiderio, quanto è più sensibile la privazione del patimento e dell’incomodità che reca il freddo, la qual cessa allora appunto. La infermità, il timore, il patimento di qualunque sorta volgono l’amor del piacere nell’amor del non patire, o del fuggire il pericolo. l’animo in quello stato, è meno esigente. Il non patire è più possibile ad ottenersi che il godere. Però nell’inverno si sente meno la scontentezza del proprio essere, che nella buona stagione. Nella quale l’animo ripiglia la sua avidità del piacere; e, come è naturale, nol ritrova mai. (Recanati 2. Marzo. 1827. I. Venerdì di Marzo.).

A vóto per frustra. — εἰς κενὸν V. Casaubon. ad Athenae. l. 11. c. 6. sul mezzo.

Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose Isocrate circa la collocazione delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l’avesse egli posta, fuorchè a proccurare la più perfetta, la più squisita, la maggior possibile, la più singolare chiarezza. Questa dote non si osserva negli altri autori che l’hanno, se non in quanto nel leggerli non si patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva, perchè non solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere. Negli altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un sapore proprio. Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di sentirvi quel gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e volontà di far moto, si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata. Io non credo che si trovi autor così chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è Isocrate (e certo senza compagni) nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è pur la più difficile (se non prevale in ciò la tedesca) di tutte le lingue del mondo. Tanto più mirabile in questo, quanto che si sa bene con quanto studio Isocrate cercasse gli altri pregi della dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; (il che egli ha fatto effettivamente e conseguito quasi da per tutto ed interamente) difficoltà certo grandissima, ed inceppamento; come ognun vedrebbe provandovisi; il quale però non ha punto impedito quella maravigliosa facilità. (7. Marzo. Mercordì di quattro tempora. 1827.).

Grispignolo. Lappa-lappula. lat. , lappola. ital.

Parrebbe che secondo ogni ragione, secondo l’andamento naturale dell’intelletto e del discorso, noi avessimo dovuto dire e tenere per indubitato, la materia può pensare, la materia pensa e sente. Se io non conoscessi alcun corpo elastico, forse io direi: la materia non può, in dispetto della sua gravità, muoversi in tale o tal direzione ec. Così se io non conoscessi la elettricità, la proprietà dell’aria di essere instrumento del suono; io direi la materia non è capace di tali e tali azioni e fenomeni, l’aria non può fare i tali effetti. Ma perchè io conosco dei corpi elastici, elettrici ec. io dico, e nessuno me lo contrasta; la materia può far questo e questo, è capace di tali e tali fenomeni. Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi; cioè uomini ed animali; che io non veggo, non sento, non so nè posso sapere che sieno altro che corpi. Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente. — Signor no; anzi voi direte: la materia non può, in nessun modo mai, nè pensare nè sentire. — Oh perchè? — Perchè noi non intendiamo come lo faccia. — Bellissima: intendiamo noi come attiri i corpi, come faccia quei mirabili effetti dell’elettricità, come l’aria faccia il suono? anzi intendiamo forse punto che cosa sia la forza di attrazione, di gravità, di elasticità; che cosa sia elettricità; che cosa sia forza della materia? E se non l’intendiamo, nè potremo intenderlo mai, neghiamo noi per questo che la materia non sia capace di queste cose, quando noi vediamo che lo è? — Provatemi che la materia possa pensare e sentire. — Che ho io da provarlo? Il fatto lo prova. Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono; e voi, che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. — Quei corpi non sono essi che pensano. — E che cos’è? — È un’altra sostanza ch’è in loro. — Chi ve lo dice? — Nessuno: ma è necessario supporla, perchè la materia non può pensare. — Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare. — Oh la cosa è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra di se: la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza più.

In fatti noi non possiamo giustificare altrimenti le nostre tante chimeriche opinioni, sistemi, ragionamenti, fabbriche in aria, sopra lo spirito e l’anima, se non riducendoci a questo: che la impossibilità di pensare e sentire nella materia, sia un assioma, un principio innato di ragione, che non ha bisogno di prove. Noi siamo effettivamente partiti dalla supposizione assoluta e gratuita di questa impossibilità per provare l’esistenza dello spirito. Sarebbe infinito il rilevare tutte le assurdità e i ragionamenti le contraddizioni al nostro medesimo usato metodo e andamento di discorrere che si sono dovuti fare per ragionare sopra questa supposta sostanza, e per arrivare alla conclusione della sua esistenza. Qui davvero che il povero intelletto umano si è portato da fanciullo quanto mai in alcuna cosa. E pur la verità gli era innanzi agli occhi. Il fatto gli diceva: la materia pensa e sente; perchè tu vedi al mondo cose che pensano e sentono, e tu non conosci cose che non sieno materia; non conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire, altro che materia. Ma non conoscendo il come la materia pensasse e sentisse, ha negato alla materia questo potere, e ha spiegato poi chiarissimamente e compreso benissimo il fenomeno, attribuendolo allo spirito: il che è una parola, senza idea possibile; o vogliam dire un’idea meramente negativa e privativa, e però non idea; come non è idea il niente, o un corpo che non sia largo nè profondo nè lungo [a], e simili immaginazioni della lingua piuttosto che del pensiero.

Che se noi abbiamo conchiuso non poter la materia pensare e sentire, perchè le altre cose materiali, fuori dell’uomo e delle bestie, non pensano nè sentono (o almeno così crediamo noi); per simil ragione avremmo dovuto dire che gli effetti della elasticità non possono esser della materia, perchè solo i corpi elastici sono atti a farli, e gli altri no; e così discorretela. (9. Marzo. 1827. 2.o Venerdì di Marzo.).

Il bambino, quasi appena nato, farà dei moti, per li quali si potrebbe intender benissimo che egli conosce l’esistenza della forza di gravità dei corpi, in conseguenza della qual cognizione egli agisce. Così di moltissime altre cognizioni fisiche che tutti gli uomini hanno, e che il bambino manifesta quasi subito. Forse che queste cognizioni e idee sono in lui innate? Non già: ma egli sente in se ben tosto, e nelle cose che lo circondano, che i corpi son gravi. Questa esperienza, in un batter d’occhio, gli dà l’idea della gravità, e gliene forma in testa un principio: del quale di là a pochi momenti gli parrebbe assurdo il dubitare, e il quale ei non si ricorda poi punto come gli sia nato nella testa. Il simile accade appunto nei principii e morali e intellettuali. Ma le idee fisiche ognun concede e afferma non essere innate: le morali, signor sì, sono. Buona pasqua alle signorie vostre. (9. Marzo. 1827. Recanati.).

Pregiudicato, spregiudicato. Volgare ital.

Gratito, as, avi, atum. Mutito. Mutuito. V. Forcell.

Ho notato che i continuativi dai verbi della prima coniugazione si fanno in ito, e possono perciò essere insieme o parimente frequentativi, come mussito ec. Similmente i continuativi formati da’ verbi che hanno i supini in itum (usitati o antichi), come domito, agito ec. Ma non so s’io abbia notato che dai verbi della quarta, supini in itum, si fanno i continuativi in ito (non ito), i quali perciò non si possono confondere coi frequentativi, malgrado la desinenza in ito. Come p. e. dormito as.

I know, by my own experience, that the more one works, the more willing one is to work. We are all, more or less, des animaux d’habitude. I remember very well, that when I was in business, I wrote four or five hours together every day, more willingly than I should now half an hour. Chesterfield, Letters to his son, lett. 318. I have so little to do, that I am surprised how I can find time to write to you so often. Do not stare at the seeming paradox; for it is an undoubted truth, that the less one has to do, the less time one finds to do it in. One yawns, one procrastinates; one can do it when one will, and therefore one seldom does it at all; whereas those who have a great deal of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it; and then they always find time enough to do it in. Lett. 320. It is not without some difficulty that I snatch this moment of leisure from my extreme idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state of affairs here. Lett. 321. (12. Marzo. 1827.). V. p. 4281.

Uomo ordinato e assegnato in ogni cosa. Guicciard. ed. Friburgo, t. 4. p. 67.

Brevetti d’invenzione non ignoti alle antiche repubbliche. V. Casaub. ad Athenae. l. 12. cap. 4.

Ἀριθμὸς, ἀριθμεῖν - ἄμιθρος, ἀμιθρεῖν. Casaub. ad Athenae. l. 12. c. 7.

Androcoto e Sandrocoto (nome proprio) appresso i greci. V. Casaub. ibid.

ἐπείγειν, κατεπείγειν, τὰ κατεπείγοντα ec. per δεῖ, τὰ ἀναγκαῖα ec. — urgentissimo per necessarissimo, Guicciard. ed. Friburgo, p. 238. t. 2. V. Crus. in urgenza, urgente ec. che noi usiamo realmente per necessità necessario ec. V. anche Forcell. in urgeo ec. se ha nulla, e i franc. e spagn. V. Toupio ad Longin. sect. 43. fin.

Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli altri, un’altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l’altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie: tanta è la scarsezza e l’oscurità delle notizie che abbiamo in questo particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di scriverne del medesimo Tasso. Ma noi veggiamo in Dante un uomo d’animo forte, d’animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all’avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie e vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice. (Recanati. 14. Marzo. 1827.). (Si può applicare all’epopea, drammatica ec.).

È molto notabile nella considerazione comparativa delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono tutte quante di situazione meridionali. Dell’Italia non era ben civile che la parte meridionale. Del resto dell’Europa, la Grecia sola. Dell’Asia, solo il mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì l’India, la Persia ec. Dell’Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta. Or questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima differenza, sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle instituzioni pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà moderna. Perchè, secondo quella verissima osservazione già fatta da altri, che la civiltà è andata sempre, e va tuttavia progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello; i popoli civili moderni sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli antichi; o certo risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel settentrione (ciò si vede anche in America), il resto dei popoli più o manco civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor civiltà. E in somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra è una civiltà settentrionale. Proposizione che siccome a prima vista si riconosce per verissima moralmente, così nè più nè meno è vera letteralmente presa, e geograficamente. Differenza del resto grandissima e sostanzialissima, se non principale, e includente in se tutte le altre. L’antichità medesima e la maggior naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo. (14. Marzo. 1827. Recanati.).

Alla p. 4253. Appunto, se noi diciamo un corpo che non sia nè largo nè lungo nè profondo, noi non ci pensiamo punto di avere perciò una menoma idea, nè chiara nè oscura, di tal cosa. Cambiamo la parola; diciamo uno spirito; a noi par di avere un’idea. E pur che altro abbiamo che una parola?

Formica-formicola. Crusca. Segneri, Incred. senza scusa, par. 1. c. 5. par. 5. V. Forcell.

Caprea-capreolus ec. Caprio cavrio (Segneri, ib. c. 13. par. 1.) — cavriuolo, capriuolo, capriatto ec.

Inviolato per inviolabile. V. Forcell. Efferatus, efferato, per fiero.

Undatus — undulatus. Ondato — ondeggiato, ondare — ondeggiare, coi derivati ec. ondazione (Segneri ib. c. 16. par. 2.) ondulazione, undulazione (Alberti). Ondoyer, ondoyé. Ondulation.

Osservate in qualunque letteratura, antica o moderna, quali sieno le opere più insigni e più grandi, e troverete sempre che sono quelle che furono fatte in tempo che la nazione non aveva ancora una letteratura; quelle che furono dagli autori immaginate e composte con tutt’altra mira, con tutt’altro spirito (almen principale) che il desiderio di fama letteraria (non ancora in uso, nè desiderata), o pur di altre ricompense letterarie; il desiderio di fare una bella opera di letteratura, di arte di scrivere. (Recanati. 17. Marzo. 1827.).

Sugo is — sugare. Crus. V. Forcell.

Uomo o cosa aggiustata, aggiustatamente, aggiustatezza ec.

Falco-faucon, falcone ec. V. spagn. Forcell. ec. Mugir meugler, meuglement; o beugler, beuglement. Flocon. Violette.

Uscia, plurale.

Noi diciamo rondinella (o rondinetta) per vezzo, e in verso e in prosa: così i nostri antichi scrittori: e val quanto rondine nè più nè meno. Non è ancor positivato, cioè non ha perduto il suo sentimento vezzeggiativo: ma può esser esempio di come l’hanno perduto gli altri diminutivi di animali e di piante, a forza di usarsi così semplicemente in cambio del positivo, andato a poco a poco, bene spesso, in disuso. (19. Marzo. Festa di S. Giuseppe. 1827.). Così pecorella ec. ec. i francesi dicono già hirondelle positivo, anticamente aronde.

Lodasi senza fine il gran magisterio della natura, l’ordine incomparabile dell’universo. Non si hanno parole sufficienti a commendarlo. Or che ha egli, perch’ei possa dirsi lodevole? Almen tanti mali, quanti beni; almen tanto di cattivo, quanto di buono; tante cose che vanno male, quante che camminan bene. Dico così per non offender le orecchie, e non urtar troppo le opinioni: per altro, io son persuaso, e si potrebbe mostrare, che il male v’è di gran lunga più che il bene. Ora un tal magisterio, sarà poi tanto grande? un tal ordine tanto commendevole? Ma il male par male a noi, non è veramente. E il bene, chi ci ha detto che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare dei fini, nè aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell’universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perchè vorremo noi dire che l’universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo, ch’è almeno altrettanto? Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e ciascuno di noi per questo conto l’avria saputo far meglio, avendo la materia, l’onnipotenza in mano. Cattivo è ancora per tutte le altre creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perchè tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch’è peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo. Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi (o se dal mal essere di tutte le parti, risulti il ben essere del tutto; il qual tutto non esiste altrimenti nè altrove che nelle parti; poichè la sua esistenza, altrimenti presa, è una pura idea o parola); se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest’ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende nè pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle. Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili. — Quel che ho detto di bontà e di cattività, dicasi eziandio di bellezza e bruttezza di questo ordine ec. (21. Marzo. 1827.). A veder se sia più il bene o il male nell’universo, guardi ciascuno la propria vita; se più il bello o il brutto, guardi il genere umano, guardi una moltitudine di gente adunata. Ognun sa e dice che i belli son rari, e che raro è il bello.

Graziato, aggraziato, disgraziato ec. per grazioso, mal grazioso ec. Purgato, épuré ec. per puro.

Scappare-scapolare. Saltabellare. Scartabellare.

περιστερά - περιστέριον, περιστερίδιον. V. Casaubon. ad Athenae. l. 14. c. 20. init.

Entro a pochi dì, per fra pochi dì. Bartoli, Missione al gran Mogol, ed. Roma 1714. p. 72. Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili.

Pel manuale di filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire una sillaba) tanto meno io era quieto nell’animo. Ogni menomo accidente che turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n’accadevano ogni giorno, perchè tali minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran differenza dalla tranquillità all’ozio. Le persone massimamente di una certa immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito Lord Nelvil); e le quali perciò appunto tendono all’amor del metodo, e alla fuga dell’azione e della società, e alla solitudine; s’ingannano in ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all’amor del metodo, della solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a temperarle co’ lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani. Ma certo un uom d’affari (senz’ombra di filosofia) ha l’animo più tranquillo nella continua folla e nell’affanno delle cure e delle faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di quello che l’abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e nell’ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo. 1827.).

Quanto più, in questo tal modo, si fuggono le sollecitudini e i dispiaceri, tanto più vi s’incorre: perchè mancandone le cause reali (o vogliamo dir di momento) e che sopravvengono di fuori, noi ce ne fingiamo e facciamo da noi medesimi e, per così dire, del nostro capitale proprio, assai più, ed infinite. E queste sollecitudini e questi dispiaceri così prodotti, non solo sono per noi di ugual momento che sarebbero i reali; ma si sentono, e travagliano molto più, per la mancanza di distrazioni e la monotonia della vita, di quel che fanno i grandissimi e sommi, nella vita agitata e attiva. Che è quanto dir che sono maggiori assai. E si sentono tutti, dove che nella vita attiva, moltissimi non si sentono, e però non sono nè pur dispiaceri. (Recanati 25. Marzo. Domenica. Festa dell’Annunziazione di Maria. 1827.).

Quanto, in quanto, per poichè, perocchè ec. — παρ' ὅσον, ovvero ὅσον ec. V. un esempio di παρ' ὅσον in questo senso, usato da Ateneo, ap. Casaubon. ad Athenae. l. 15. c. 2. verso il fine, e dallo scoliaste di Pindaro, ap. eumd. ib. c. 19. fin.

Dimonia. Demonia. Mulina. plurali.

Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl’inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra quel degli altri fuor di modo e ragione. Questo è natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un’altra sorgente d’orgoglio e di disistima altrui, sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l’assuefazione incominciata sin dall’infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl’Inglesi la stima della propria nazione. Tant’è: il più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo, più o meno, non dimostri esteriormente questa sua opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte ben distinta di orgoglio, e di stima di se, in pregiudizio o abbassamento d’altrui della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl’inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno, l’hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl’italiani forse l’ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d’Europa. Degl’italiani d’oggi non parlo; non so ben se ve n’abbia.

Questo sentimento della inferiorità dei forestieri, questo riguardarli e trattarli come d’alto in basso, è ai francesi e agl’inglesi, per l’abitudine, così naturalizzato e immedesimato, come è ad un uomo nato nobile e ricco, il parlare e trattare co’ poveri e co’ plebei, come con gente naturalmente inferiore: che anche l’uomo del più buon cuore del mondo, e il più filosofo, essendo nella detta condizione, li tratterà così, se non attenderà e non si sforzerà di proposito per fare altrimenti: perchè quell’opinione di sua superiorità sopra questi tali, è in lui non dipendente dal raziocinio, nè dalla volontà.

Molto utile può essere ed è senza fallo questa opinione che hanno i francesi e gl’inglesi di se. Sarebbe utile anche a chi l’avesse senza ragione. La stima grande di se stesso è il primo fondamento sì della moralità, sì delle mire ed azioni nobili e onorate. Pure, perchè il conoscere in altri un’opinione della inferiorità propria, e un certo disprezzo di se in qualunque cosa, è sempre dispiacevole; non è dubbio che il veder questo tale orgoglio nazionale nei francesi e inglesi, non riesca assai dispiacevole e odioso ai forestieri. E perchè la civiltà e la creanza comandano, e sopra tutto, che si nasconda il sentimento della superiorità propria, e il disprezzo di quelli con cui trattiamo, per ragionevole e fondato che ei sia; pare che i francesi e gl’inglesi dovrebbero nascondere quel lor sentimento tra forestieri. Gl’inglesi non si piccano di buona creanza; piuttosto di non averla, piuttosto di mala creanza: però di loro non ci maraviglieremo. I francesi non solo se ne piccano, ma vogliono essere, credono essere, e certo sono, la meglio educata gente del mondo. Anzi in questo fondano per gran parte quella loro opinione di superiorità. Perciò pare strano che al più ben creato francese non riesca o non cada in mente di tenersi, parlando o scrivendo a forestieri, dal dar loro ad intendere in qualche modo (ma chiaro), che esso li tiene senza controversia per da meno di se. Molto meno poi negli scritti che pubblicano.

Anco pare strana questa cosa, considerata la gran sensibilità e paura che hanno i francesi del ridicolo. Perchè se quella lor pretensione riesce ridicola a chi la stima giusta, e d’altronde utile e lodevole, come sono io; quanto non dovrà parere a quei che non pensano più che tanto, o che la stimano assolutamente vana, esagerata ec.? Il che dee naturalmente accadere con molti, ma con gl’inglesi accade di necessità. E già ogni pretension che si dimostra, ancorchè giusta, è soggetta a ridicolo, perchè il mostrar pretensione è ridicolo. E manco strano sarebbe che eglino non si guardassero co’ forestieri da questo ridicolo in casa propria; dove essi sono i più forti, perchè l’opinion comune è per loro, la lor superiorità è ricevuta come assioma, e l’uditorio è tutto dalla lor parte. Ma che non se ne guardino (come non se ne guardano punto) in casa dei medesimi forestieri, viaggiando tra loro, co’ loro medesimi ospiti? Questo veramente è strano assai ne’ francesi; ma molto più strano, che alla fin de’ fatti, essi viaggiano tra noi trionfalmente, dimostrandoci il lor disprezzo, mettendoci in ridicolo in faccia nostra propria e parlando a noi (non che tornati che sono a casa); e che da noi non ricevono il menomo colpo, il più piccolo spruzzo, di ridicolo nè in parole, quando noi trattiamo qui con loro, nè in lettere, nè in istampa. Da che vien questo? da bontà degl’Italiani, o da dabbenaggine, o da paura, o da che altro? (25. Marzo. 1827.).

Pennelleggiare. Tratteggiare.

Alla p. 4249. fin. Il medesimo Chesterfield nota più volte come pregi distintivi e dei principali della letteratura nostra, e come di quelli che principalmente la possono far degna della curiosità degli stranieri, l’aver degli eccellenti storici, e delle eccellenti traduzioni dal latino e dal greco, mostrando poi di aver l’occhio particolarmente a quelle della Collana. Va bene il primo capo. Il secondo non può servire ad altro che a mostrar l’ignoranza grande dei forestieri circa le cose nostre. Perchè se la nostra letteratura è povera in alcuno articolo, lo è certamente in quel delle buone traduzioni dal latino e dal greco. Di quelle specialmente della Collana non ve n’è appena una che si possa leggere, quanto alla lingua e allo stile, e per se; e che non dica poi, almeno per la metà, il rovescio di quel che volle dire e disse l’autor greco e latino. Tutte le letterature (eccetto forse la tedesca da poco in qua) sono povere di traduzioni veramente buone: ma l’italiana in questo, se non si distingue dall’altre come più povera, non si distingue in modo alcuno. Solamente è vero che noi cominciammo ad aver traduzioni dal latino e dal greco classico (non buone, ma traduzioni semplicemente), molto prima di tutte le altre nazioni. Il che è naturale perchè anche risorse prima in Italia che altrove, la letteratura classica, e lo studio del vero latino, e del greco. E n’avemmo anche in gran copia. E queste furono forse le cagioni che produssero tra gli stranieri superficialmente acquainted with le cose nostre quella opinione, che ebbe tra gli altri il Chesterfield. Nondimeno in quel medesimo tempo, anzi alquanto innanzi, avveniva al Maffei in Baviera, dov’ei si trovava, quel ch’egli scrive nella prefazione[a]

Scriveva il Chester. quelle cose circa il 1750: i Tradutt. ital. del Maff. furon pubblicati del 1720.

[Chiudi] de’ suoi Traduttori italiani ossia notizia de’ Volgarizzamenti d’antichi scrittori latini e greci, che sono in luce indirizzata a una colta Signora, da lui frequentata colà. Vostro costume era d’antepor la (lingua) francese alle altre, per l’avvantaggio di goder per essa gli antichi autori latini e greci, della lettura de’ quali sommamente vi compiacete, avendogli traslatati i francesi. Qui io avea bel dire, che questo piacere potea conseguirsi ugualmente con l’italiana, e che già fin dal felice secolo del 1500 la maggior parte de’ più ricercati antichi scrittori era stata in ottima volgar lingua presso di noi recata, che suscitandomisi contra tutti gli astanti, e gl’italiani prima degli altri, restava fermato, che solamente in francese queste traduzioni si avessero.

Ed ecco dagli stranieri negato agl’italiani formalmente, e trasferito alla letteratura francese quel medesimo pregio (e circa il medesimo tempo) che altri stranieri come il Chesterfield attribuivano alla italiana. Nella qual prefazione il Maffei afferma aver gl’italiani tradotto prima, più, e meglio delle altre nazioni . Per provar la qual proposizione, assunse di comporre, e compose quel suo catalogo dei nostri volgarizzatori. E quanto a me concedo e credo vere le due prime parti di essa proposizione, almen relativamente al tempo in cui il Maffei la scriveva. Concederò anche la terza, relativamente allo stesso tempo, purchè quel meglio delle altre , non escluda il male e il pessimamente assoluto. (Recanati. 27. Marzo. 1827.). V. p. 4304. fine.

Alla p. 4234. V. ancora la lettera del Manfredi, nelle Considerazioni sopra la Maniera di ben pensare ec. dell’Orsi, Modena 1735. tom.1. p. 686. fin. e l’Orazione di Girolamo Gigli in lode della toscana favella, che sta colle sue Lezioni di lingua toscana, Ven. 1744. 3.a ediz.

Alla p. 4194. A questo genere appartiene, cred’io, quell’aneddoto della femmina spagnuola di Buenos-Ayres in America, per nome Maldonata (avrà voluto dir Maldonada) alimentata lungo tempo, e poi casualmente salvata da una leonessa, da lei già beneficata, nel secolo decimosesto. Benchè questa istorietta sia riferita seriamente e con belle riflessioni filosofiche dal Raynal ( Leçons de littérature et de morale, cioè Antologia francese, par MM. Noël et Delaplace, 4.me édit. Paris 1810. tome 1. p. 16-18.) Ma essa, mutatis mutandis, è la stessissima che quella (ben più antichetta) dello schiavo fuggitivo per nome Androdo, alimentato in Numidia, e poi salvato da morte in Roma, da un leone, da lui beneficato. ( Gell. N. Att. l. 5. c. 14. Aelian. hist. animal. l. 7. c. 48.) Nè ardisco già dire che questa sia stata il primo e original tipo di questa favola. (Anzi ella mi ha sembianza di esser d’origine greca. Vedi altre simili storielle, appunto greche, in Plinio, l. 8. c. 16. che sono come primi abbozzi di questa.) Dico poi favola, sì per il sospetto, troppo fondato, d’imitazione; e sì perchè si sa molto bene che in America non sono e non furono mai leoni: e però, s’io non erro, nè anche leonesse; (Recanati. 29. Marzo. 1827.) dico di quelle nate quivi da se, e viventi nelle foreste e nelle caverne, come era quella; non trasportate d’altronde, e mantenute in gabbie e in serragli.

Noi italiani siamo derisi per le nostre cerimonie e i nostri titoli (che noi abbiamo avuti dagli spagnuoli) specialmente dai francesi, che hanno fama d’essere in ciò i più disinvolti. Frattanto noi non abbiamo il costume che hanno i francesi, che il Monsieur sia, per così dire, inseparabile da tutti i nomi di persone; che gli autori lo aggiungano al lor nome proprio nei frontespizi delle loro opere; che esso vi si conservi perpetuamente, o vi sia posto, anche quando gli autori son morti; e simili. (Recanati. 29. Marzo. 1827.).

λοφνία-λοφνὶς, λοφία o λοφίη-λοφὶς. V. Casaub. ad Athenae. l. 15. c. 18. φρουρὰ-φρούριον. ἴχνος ἴχνιον.

ἑλάνη-σελάνη. V. ibid.

Se era intenzione della natura, facendo l’uomo così debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben essere suo coll’ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè tante centinaia di nazioni selvagge e barbare dell’America, dell’Africa, dell’Asia dell’Oceanica, non vi sono arrivate ancora, non hanno fatto alcun passo per arrivarvi, e certo non vi arriveranno mai, nè saranno mai civili in niun modo (o non sarebbero mai state), se noi non ve li ridurremo (o non ve gli avessimo ridotti)? Le quali nazioni sono pure una buona metà, e più, del genere umano in natura. Perchè dato ancora che le popolazioni civili, nella somma loro, vincano di numero d’uomini la somma delle non civili nè state mai civilizzate, questa moltitudine di quelle è posteriore alla civilizzazione, ed effetto di essa: la quale favorisce la moltiplicazion della specie e l’aumento della popolazione. È stata dunque la natura così sciocca, e così mal provvidente, che ella abbia missed il suo intento per più della metà? (Recanati 30. Mar. ult. Venerdì. 1827.).

In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo. 1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi. V. p. 4273. E forse per questa ragione gli spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l’uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell’impeto, e cominciata la freddezza, e ridotto l’uomo a curarsi poco e a disperare omai del piacere. (30. Marzo. 1827.). Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale quanto più si cerca e si desidera per se e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro. Il desiderio stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco lei.

Alla p. 4240. La sopraddetta utilità della pazienza, non si ristringe al solo dolore, ma si stende anche ad altre mille occasioni; come se tu hai da aspettare, da fare un’operazione lunga, monotona e fastidiosa; da soffrire una compagnia noiosa, mentre hai altro da fare; ascoltare un discorso lungo di cosa che nulla t’importa, un poeta o scrittore che ti reciti una sua composizione; e così discorrendo: dove l’impazienza, la fretta, l’ansietà di finire, l’inquietudine ti raddoppiano la molestia. In somma si stende a tutte le occasioni e stati dove può aver luogo quello che noi chiamiamo pazienza e impazienza; a tutti i dispiaceri; o sieno dolori o noie. (Recanati. 31. Marzo. 1827.).

Quegli tra gli stranieri che più onorano l’Italia della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra classica, non considerano l’Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci hanno quella stima che si suole avere a questo genere di persone; quella che noi abbiamo in Roma agli usufruttuarii per così dire, delle diverse antichità, luoghi, ruine, musei ec. (31. Marzo. 1827.).

The ancients (to say the least of them) had as much genius as we; they constantly applied themselves not only to that art, but to that single branch of an art, to which their talent was most powerfully bent; and it was the business of their lives to correct and finish their works for posterity. If we can pretend to have used the same industry, let us expect the same immortality: Though, if we took the same care, we should still lie under a farther misfortune: They writ in languages that became universal and everlasting, while ours are extremely limited both in extent and in duration. A mighty foundation for our pride! when the utmost we can hope, is but to be read in one island, and to be thrown aside at the end of an age. Pope Prefazione generale alla Collezione delle sue Opere giovanili (Collezione pubblicata nel 1717.) data Nov. 10. 1716 . Pope era nato del 1688.

The muses are amicae omnium horarum; and, like our gay acquaintance, the best company in the world, as long as one expects no real service from them. Ibid.

We spend our youth in pursuit of riches or fame, in hopes to enjoy them when we are old; and when we are old, we find it is too late to enjoy any thing. Ibid. (31. Marzo. 1827.).

φλύω-φλύζω.

Vespa g u êpe , antic. g u espe .

Serpyllum, serpillo, serpollo-sermollino, serpolet. Tubo, tube-tuyau. Benda, bande-bandeau.

È notabile ancora e caratteristico delle antiche nazioni il modo come essi nominavano l’opposto dell’uomo di garbo, cioè il malvagio. Δειλὸς timido, codardo, vale anche malvagio presso gli antichissimi ( Casaub. ad Athenae. l. 15. c. 15. poco dopo il mezzo). Viceversa κακὸς malvagio è usato continuamente e con proprietà di lingua, per codardo, o da nulla; ignavus. Così ἀγαθὸς ed ἐσθλὸς e simili, per valoroso, utile, prode, strenuus. Similmente bonus e malus presso i latt. Φαῦλος da nulla, da poco, spesso è il medesimo che tristo, cattivo (come vaurien in franc.), tanto di uomo, quanto di cosa. Χρηστὸς è utile e buono (similmente χρηστότης); ἄχρηστος inutile e cattivo.

È osservazione antica che quanto decrescono nelle repubbliche e negli stati le virtù vere, tanto crescono le vantate, e le adulazioni; e similmente, che a misura che decadono le lettere e i buoni studi, si aumentano di magnificenza i titoli di lode che si danno agli scienziati e a’ letterati, o a quelli che in sì fatti tempi sono tenuti per tali. Il somigliante par che avvenga circa il modo della pubblicazione dei libri. Quanto lo stile peggiora, e divien più vile, più incolto, più εὐτελὴς, di meno spesa; tanto cresce l’eleganza, la nitidezza, lo splendore, la magnificenza, il costo e vero pregio e valore delle edizioni. Guardate le stampe francesi d’oggidì, anche quelle delle semplici brochures e fogli volanti ed efimeri. Direste che non si può dar cosa più perfetta in tal genere, se le stampe d’Inghilterra, quelle eziandio de’ più passeggeri pamphlets, non vi mostrassero una perfezione molto maggiore. Guardate poi lo stile di tali opere, così stampate; il quale a prima giunta vi parrebbe che dovesse esser cosa di gran valore, di grande squisitezza, condotta con grand’arte e studio. Disgraziatamente l’arte e lo studio son cose oramai ignote e sbandite dalla professione di scriver libri. Lo stile non è più oggetto di pensiero alcuno. Paragonate ora e le stampe dei secoli passati, e gli stili di quei libri così modestamente, così umilmente, e spesso (vilmente, abbiettamente) poveramente impressi; colle stampe e gli stili moderni. Il risultato di questa comparazione sarà che gli stili antichi e le stampe moderne paion fatte per la posterità e per l’eternità; gli stili moderni e le stampe antiche, per il momento, e quasi per il bisogno.

(Anche le stampe italiane d’oggi, benchè non possano sostenere il paragone delle francesi e inglesi, non temono pero quello di tutte l’altre, anzi sono sicure di uscirne vittoriose; e molte stampe italiane che oggi non paiono più che ordinarie, sarebbono parute splendide nel secolo passato, magnifiche e principesche nei precedenti.)

Noi però abbiamo buonissima ragione di non porre più che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso la brevità della vita che essi in ogni modo (non ostante la bontà della stampa) sono per avere. Se mai fu chimerica la speranza dell’immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti. Tutti i posti dell’immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli antichi classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero degl’immortali; oh questo io non credo che sia più possibile. La sorte dei libri oggi, è come quella degl’insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi: esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più longevi che la memoria di noi. Oggi si può dire con verità maggiore che mai: Οἵη περ φύλλων γενεὴ, τοιήδε καὶ ἀνδρῶν ( Iliad. 6. v. 146.) Perchè non ai soli letterati, ma ormai a tutte le professioni è fatta impossibile l’immortalità, in tanta infinita moltitudine di fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell’uomo civile, e la ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra. Io non dubito punto che di qua a dugent’anni non sia per esser più noto il nome di Achille, vincitor di Troia, che quello di Napoleone, vincitore e signore del mondo civile. Questo sarà uno dei molti, si perderà tra la folla; quello sovrasterà, per esser montato in alto assai prima; conserverà il piedestallo, il rialto, che ha già occupato da tanti secoli.

Del resto, come la impossibilità di divenire immortali, giustifica la odierna negligenza dello stile nei libri; così questa negligenza dal canto suo, inabilita, e fa impossibile ai libri, il conseguimento della immortalità. Notabili e vere parole di Buffon (Discours de réception à l’Académie française): Les ouvrages bien écrits seront les seuls qui passeront à la postérité; la quantité des connaissances, la singularité des faits, la nouveauté même des découvertes ne sont pas de sûrs garants de l’immortalité. Si les ouvrages qui les contiennent ne roulent que sur de petits objets, s’ils sont écrits sans goût, sans noblesse et sans génie, ils périront, parceque les connaissances, les faits et les découvertes s’enlèvent aisément, se transportent, et gagnent même à être mis en oeuvre par des mains plus habiles. Ces choses sont hors de l’homme, le style est l’homme même. Le style ne peut donc ni s’enlever, ni se transporter, ni s’altérer. S’il est élevé, noble, sublime, l’auteur sera également admiré dans tous les temps. Al che aggiungo io, che quando anche le mani qui enlèvent i pensieri, non sieno più habiles in materia di stile, (come certo oggi e in futuro è difficile che sieno), nondimeno il libro perira egualmente; perchè in esso non si troverà nulla di più che nelle sue copie; probabilmente assai meno (dico per il fondo, non per lo stile); e così i libri nuovi faranno dimenticare e sparire il vecchio: appunto, se non altro, perchè essi nuovi, e vecchio quello: del che abbiamo l’esperienza quotidiana per testimonio. (Anche intorno a libri bene scritti; quando si tratta di verità e di scienze; come sono quelli di Galileo, che da quale scienziato sono letti oggidì?).

E con questa osservazione di Buffon chiudo questo discorso non troppo lieto, e piuttosto malinconico che altrimenti. (Recanati 2. Aprile. 1827.).

(Similmente poi, per altra parte, la negligenza universale intorno allo stile, rende inutile la diligenza individuale, se alcuno sapesse e volesse usarne, intorno al medesimo. Perchè, in sì fatti generi, le cose quanto sono più rare, tanto meno si apprezzano. Il pubblico, appunto perchè in ciò negligente, ed assuefatto a trascurar tale studio, non ha nè gusto nè capacità nè per sentire nè per giudicare le bellezze degli stili, nè per esserne dilettato. Perchè certi diletti, e non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non innato; di una capacità di sentirli acquisita. A chi non l’ha, non sono diletti in niun modo. L’arte più sopraffina non sarebbe conosciuta: l’ottimo stile non sarebbe distinto dal pessimo. Così l’eccellenza medesima dello stile non sarebbe più una via all’immortalità, che senza essa, tuttavia, non si può dai libri conseguire.) (Recanati. 2. Aprile. 1827.).

(Molti libri oggi, anche dei beni accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili agli efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispazio di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi per arrivare a quello d’insetti alati, nel quale non durano più di due, di tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di una sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una, di due o di tre ore). (Encyclopéd. art. éphémères). (2. Apr. 1827.).

Pavot non sembra essere che un diminutivo positivato di papaver; contratte, per corrotta e precipitata pronunzia, le due prime sillabe pa, in una sola.

Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e di forze uguale a lui, p. e. con un grosso cane, difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l’uomo riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L’uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, se non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà volontariamente. Il fanciullo, e più il bambino, adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non trovo niente d’inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le sue braccia, come nell’altra battaglia, cioè in quella de’ serpenti. (3. Aprile. 1827.).

Fouiller probabilmente è da fodere, e quindi fratello di fodicare.

Metrodoro epicureo ap. Ateneo l. 12. p. 546. f. ὁ κατὰ φύσιν βαδίζων λόγος che cammina, procede, secondo natura. Il qual luogo è spiegato dal Casaubono negli Addenda Animadversionibus, al capo 12.

Nella version latina di quel passaggio del Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della toilette, fatta dal D. Parnell (versione assai bizzarra, e che parrebbe piuttosto fatta nell’ottavo secolo che nel decimottavo, poichè consiste di versi dei quali ogni mezzo verso rima coll’altro mezzo, p. e. Et nunc dilectum speculum, pro more retectum, Emicat in mensa, quae splendet pyxide densa , che sono i primi), trovo questi due versi, di séguito: Induit arma ergo Veneris pulcherrima virgo: Pulchrior in praesens tempus de tempore crescens , dove, come si vede, ergo fa rima con virgo, e praesens con crescens. Che dicono gl’italiani di questa pronunzia? (Recanati. 5. Aprile. 1827.). V. p. 4497.

Tricae-tracasserie, tracasser, tracassier ec.

Aerugo, o rubigo o robigo, ruggine-rouille, coi derivati.

Alla p. 4266. Io stesso, che pur non ho maggior piacere che il leggere, anzi non ne ho altri, ed in cui il piacer della lettura è tanto più grande, quanto che dalla primissima fanciullezza sono sempre vissuto in questa abitudine (e l’abitudine è quella che fa i piaceri) quando talvolta per ozio, mi son posto a leggere qualche libro per semplice passatempo, ed a fine solo ed espresso di trovar piacere e dilettarmi; non senza maraviglia e rammarico, ho trovato sempre che non solo io non provava diletto alcuno, ma sentiva noia e disgusto fin dalle prime pagine. E però io andava cangiando subito libri, senza però niun frutto; finchè disperato, lasciava la lettura, con timore che ella mi fosse divenuta insipida e dispiacevole per sempre, e di non aver più a trovarci diletto: il quale mi tornava però subito che io la ripigliava per occupazione, e per modo di studio, e con fin d’imparare qualche cosa, o di avanzarmi generalmente nelle cognizioni, senza alcuna mira particolare al diletto. Onde i libri che mi hanno dilettato meno, e che perciò da qualche tempo io non soglio più leggere, sono stati sempre quelli che si chiamano come per proprio nome, dilettevoli e di passatempo. (6. Aprile. 1827.).

Radiatus per radians ec. V. Forcellini .

Pel manuale di filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell’amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi coll’amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di non discolpar l’amico, e di non conoscere che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.).

Perchè l’esistenza dell’universo fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe provare che l’universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza infinita l’avesse potuto creare. La quale infinità dell’universo, nessuna cosa ce la può nè provare, nè darcela a congetturare probabilmente. E quando poi l’universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell’universo, non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell’essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l’universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinosisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l’universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro. Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe sempre ignoto e nascosto: dove che l’universo è palese e sensibile. (7. Apr. Sabato di Passione. 1827. Recanati.). Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?

Alla p. 4245. Un’altra cagione per la quale io amo la μονοφαγία è per non avere (come necessariamente avrei se mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto, d’ importuns laquais, épiant nos discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d’un oeil avide, s’amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d’un trop long dîner. ( Rousseau, Émile .) Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si compiacciano, di siffatti testimonii, l’occupazione e i pensieri dei quali in quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi a tavola si facevano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non curarsi, e di non temere le loro railleries e disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare tranquillamente, e pienamente senza disturbo alcuno, i piaceri della tavola. L’opinione che gli antichi avevano dei loro schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi dell’incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel luogo dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l’umanità e la cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire, e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n’è capace il corpo e lo spirito, avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò, quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo, non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta ragione, voglio mangiare a grand’agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che si affrettano d’ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile. (7. Apr. 1827.).

To pant inglese — panteler francese.

Allegano in favore della immortalità dell’animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch’io sono per dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un’opinione. Se l’uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l’egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c’inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l’offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl’infelici non s’ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l’odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore o avversione, nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita e l’essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto, non sia più.

Ma se crediamo questo, perchè lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è più? — Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.

In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c’intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch’io ho notato altrove; che il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l’ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o vero: questo è passato per sempre. V. p. 4282. Di modo che nel dolore che si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla rimembranza e su di essa fondato, il pensiero della caducità umana. Pensiero veramente non troppo simile nè analogo nè concorde a quello della nostra immortalità. Alla quale noi siamo così alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi dicessimo allora a noi stessi: io rivedrò però questo tale dopo la mia morte: io non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di non rivederlo mai più: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener fermo quel mai più; noi non piangeremmo mai per morti. Ma venga pure innanzi chi che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur una sola volta, accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e dall’aspettativa di rivedere una volta il suo caro defonto: che pur ragionevolmente, poste le opinioni che abbiamo della immortalità dell’uomo, e dello stato suo dopo morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si dovrebbe offrire alla mente. Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce, quali si sieno le nostre opinioni, la natura e il sentimento in simili occasioni ci portano senza nostro consenso o sconsenso a giudicare e tenere per dato, che il morto sia spento e passato del tutto e per sempre.

Concludo che per quanto permette la infinita diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla morte; noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura e semplice natura, che essi in sostanza, e nel fondo del loro cuore, piuttosto consentono in credere la estinzione totale dell’uomo, che la immortalità dell’animo: senza che, nella detta diversità ed assurdità, io pretenda che tal consentimento sia di gran peso. (Recanati. 9. Apr. Lunedì Santo. 1827.).

Embrasé per ardente. Ses regards embrasés. Barthélemy, Voyage d’Anacharsis , dove parla di Omero. Raffiné spesso per fin semplicemente.

Ἄβαξ-ἀβάκιον, abbaco. V. Forcell. ec.

Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del 20.o secolo.

Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v’abbia un’altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6. Ciò accade anche nei nostri bambini. V. Roberti Lettera di un bambino di 16 mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!! (Recanati. 13. Apr. Venerdì Santo. 1827.). V. p. 4419.

Badare-badigliare, sbadigliare ec.; badaluccare, badalucco ec. V. N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra, p. 162-3. Rosecchiare, rosicchiare.

Presso gli Spagnuoli, i quali si dicono essere quelli che nelle colonie meglio trattano gli schiavi, i Neri nell’isola di Cuba hanno diritto di forzar per giudizio i loro padroni a venderli ad altri, in caso di mali trattamenti. V. il N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra, p. 175. Così appunto gli schiavi aveano il diritto τοῦ πρᾶσιν αἰτεῖν presso gli Ateniesi, dov’erano meglio trattati che in alcun’altra parte di Grecia. V. Casaubon. ad Athenae. l. 6. c. 19. init. (Recanati. 15. Apr. dì di Pasqua. 1827.).

Dico altrove che la moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l’imitativo che aveva il suono della parola in latino, e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola. Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler, miaulement parole espressive della voce del gatto, nella lor forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l’italiano miagolare (o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l’uno e l’altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto affatto il franc. miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau. (16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.).

Miauler franc. maullar o mahullar spagn. — mia-g-olare.

Upupa lat. e italiano — bubbola. Hamus-hameau.

Alla p. 4255. principio. Vir gente et fama nobilis , dice il Reimar, Praefat. ad Dion. par. 6, di Giovanni Leunclavio, famoso erudito tedesco del secolo 16.o, quem merito admiratur Marquardus Freherus in epistola dedicatoria ad Leunclavii Jus Graeco-Romanum quod inter varias peregrinationes, in multis principum aulis, legationibus et negotiis occupatus, tot ac tanta opera summa accuratione ediderit, quot et quanta quis otiosus et huic uni rei operatus vix proferret in lucem. Le soprascritte osservazioni del Chesterfield spiegano questo fenomeno, ripetuto del resto assai spesso; e notato colla stessa ammirazione da molti, in molti e molti altri; e certamente non raro. Esse spiegano il simile e maggior fenomeno di Cicerone tra gli antichi, di Federico di Prussia tra i moderni, e di tanti altri tali. A segno che sarà forse più difficile il trovare un letterato, altronde ozioso e disoccupato, che abbia molto scritto e con accuratezza grande, di quello che un letterato che, occupato d’altronde, abbia prodotto molte e studiate opere. Certo di questi non è difficile a trovarne, e ciò conferma le osservazioni del Chesterfield; secondo le quali, le stesse occupazioni di siffatti uomini, debbono servire a render ragione della moltitudine e dell’accuratezza dei loro lavori, e a scemarne la meraviglia, mostrandole occasionate da un abito di attività prodotto o sostenuto da esse occupazioni; attività tanto maggiore e più viva ed acuta, quanto la copia e la folla e l’assiduità di esse occupazioni era più grande. (Recanati. 17. Aprile. Martedì di Pasqua. 1827.). Esempio mio, per lo più ozioso, ed inclinato all’inerzia, o per natura o per abito; pure in mezzo a questa inazione profonda, un giorno che io abbia occasione di adoperarmi, e molte cose da fare, non solo trovo tempo da sbrigar tutto, ma me ne avanza, e in quell’avanzo, io provo (e m’è avvenuto più volte) un vero bisogno, una smania, di far qualche cosa, un orrore del non far nulla, che mi pare incomportabile, come se io non fossi avvezzo a passar le ore, e per così dire i mesi, nella mia stanza colle braccia in croce. (Recanati. 17. Apr. Martedì di Pasqua. 1827.).

Uomo, viso, contegno, stile (ec.) sostenuto. Volg. ital. Onde è sostenutezza, usato dal Salvini, e registrato dalla Crusca.

Consummatus per summus. V. Forcellini .

Anche i francesi nel dir familiare usano autre per aucun, o ridondante. Così sans autre examen senz’altro esame, per sans aucun examen, in certi versi del modernissimo Andrieux, appresso MM. Noël e Delaplace, Leçons de littérature et de morale, 4.me édit. Paris 1810. tome 2. p. 58. Così ancora autrement per guère, o ridondante, pure nello stil familiare. v. Alberti , e Richelet, Dizz. (Recanati. 18. Apr. 1827.).

Homme, esprit, dissipé. Disapplicato.

Ἐν τούτῳ (cioè in questa, in questo, in questo mezzo). Dione Cass. ed. Reimar, p. 65. lin. 98. p. 192. lin. 5. (Recanati. 20. Apr. 1827.).

Nae-v-us — Ne-o. V. franc. spagn. ec.

Amouracher, s’amouracher. Flamboyer.

Culter, cultrum-cultellus, coltello, couteau ec. ec. V. Forcell. , gli Spagnuoli ec.

Alla p. 4278. Il qual dolore si prova anche lasciando uno stato penoso, e il fine del quale sia stato da noi desideratissimo, e ci sia attualmente oltremodo caro. Il carcerato posto in libertà, piangerà nell’uscir della sua prigione, non per altro che pensando alla fine del suo stato passato: Filottete, partendo per l’assedio di Troia, dà un addio doloroso all’isola disabitata e all’antro de’ suoi patimenti.

L’estate, oltrechè liberandoci dai patimenti, produce in noi il desiderio de’ piaceri, ci dà anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell’aria. Dalla qual sicurezza d’animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza che produce il freddo, nasce l’egoismo, l’indifferenza per gli altri ec.

Alla p. 4245. Aggiungi a queste cose la voluttà (ben conosciuta e notata dagli antichi) del piangere, del gemere, dello stridere, dell’ululare nelle disgrazie; della quale noi siamo privati. (Recanati. Domenica in Albis. 22. Aprile. 1827.).

Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi per gli altri, è la stima di se medesimo e l’aversi in pregio; siccome il primo fondamento dell’interessarsi per altrui, è l’aver buona speranza per se medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

Anticipare, posticipare, participare ec. da capere.

Summittere o submittere per sursum mittere o de subtus mittere. Subiectare, simile.

Bucherare. Spicciolato.

Fra giorno, cioè di giorno, nel giorno, dentro giorno, dentro il corso del giorno.

Innumerato per innumerabile. Palmieri (scrittore del sec. 15.), Della vita civile. V. Crus. Forcell. ec.

Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta. L’ho dimandato anco sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti (e così, io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti gli uomini. Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s’ignora quel della vita che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

È ben trista quella età nella quale l’uomo sente di non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell’uomo, il gran mobile de’ suoi atti, delle sue parole, de’ suoi sguardi, de’ suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d’inspirare, di communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

Una delle cause della imperfezione e confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette all’alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha quell’alfabeto. Ciò si vede specialmente nell’inglese, dove per conseguenza uno stesso segno vocale deve esprimere ora uno ora un altro suono, senza regola fissa, e servire a più suoni. I caratteri dell’alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne. E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue sono più distanti per origine e per proprietà dal latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado di ogni repugnanza, furono architettate.

Le contrazioni greche (sì quelle in uso ne’ vari dialetti, e sì quelle attiche, e passate nel greco comune) non sono che modi di pronunziare certi dittonghi o trittonghi ec.: come appunto in francese au, ai ec. che si pronunziano o, e ec.; in inglese ea, ee ec. che si pronunziano i, e ec. ec. Così in greco εα si contrae, cioè si pronunzia η; εο si pronunzia ου;; οο, ου;; αει, ᾳ;; εω, ω ec. ec. Ma non per questo i greci pronunziando (cioè contraendo) η scrivevano εα ec., benchè questa seconda fosse la pronunzia e la scrittura regolare; ma scrivevano η come pronunziavano. E non solo il greco comune, ma ciascun dialetto con tutte le irregolarità e idiotismi di pronunzia, si scriveva come si pronunziava. Perchè in francese, in inglese ec. (i quali anticamente e regolarmente pronunziarono certo au, ai, ea, ee ec. come ora scrivono) non si scrivono i dittonghi ec. come si pronunziano? (Firenze. 1. luglio. 1827.).

Successus particip. da succedo. V. Cic. Ep. ad. fam. l. 16. ep. 21.

Avvengachè tra gli scrittori che io ho visti, non si trovi in maniera alcuna chi altrimenti (ridondante) costui si fosse. Giambullari, Istoria dell’Europa, lib.7. principio, Pisa, Capurro. 1822. t. 2. p. 173.

Sull’orlo d’un laghetto, ch’era vicino a certe balze sopra le coste di Agnano, stavano una testuggine, e due altri uccelli pur d’acqua. Firenzuola, Discorsi degli animali . (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

L’amore e la stima che un letterato porta alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in ragione inversa dell’amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta a se stesso. (Firenze. 5. Luglio. 1827.).

Alla p. 4245. Di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ec. quei diritti d’ospizio ec. affinità d’ospizio ec. Ben diversi in ciò dai moderni. (5. Luglio. 1827.).

Cuna, cunula, culla.

Favonius-Faunus. V. The Monthly Repertory of english literature, Paris, N. 51. June 1811. vol. 13. p. 331.

Vino. Il piacer del vino è misto di corporale e di spirituale. Non è corporale semplicemente. Anzi consiste principalmente nello spirito ec. ec. (Firenze. 17. Luglio. 1827.).

Uno che costretto dai debiti, aveva venduto per cinquantamila scudi il suo patrimonio, non volendo dire di aver venduto, diceva (e certo con altrettanta verità) di aver comperato cinquantamila scudi. (Firenze. 19. Luglio. 1827.).

Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m’avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll’andar del tempo mi trovava sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio. 1827.). Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.

Veramente e perfettamente compassionevoli, non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri, quando sono nel fior dell’età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d’un altro mondo, perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche. Ma non v’ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d’altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell’appassimento del fiore de’ giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù. (Firenze. 23. Lugl. 1827.).

Vagheggiare, bellissimo verbo.

Naufragato, naufragé ec. per che ha naufragato. V. Forcell. ec. Scappato si dice volgarmente, anche in Toscana, di un giovane licenzioso ec. Osé.

Rempli per plein. Foncé per profond.

Béqueter. Nutrire, nodrire-nutricare nodricare. V. Forc. Frigere-fricasser.

Fra, infra, tra, intra tanto; entre tanto, per in tanto, en tanto.

Embraser co’ derivati. Aggiungasi al detto altrove, che le lettere br sogliono entrare nella composizione di voci dinotanti arsione ec.

Come ignotus, o notus per conoscente, così viceversa conoscente spesso per conosciuto; come: il dolor della morte degli amici e de’ conoscenti ec. ec. (Firenze. 17. Sett. 1827.).

La materia pensante si considera come un paradosso. Si parte dalla persuasione della sua impossibilità, e per questo molti grandi spiriti, come Bayle, nella considerazione di questo problema, non hanno saputo determinar la loro mente a quello che si chiama, e che per lo innanzi era lor sempre paruto, un’assurdità enorme. Diversamente andrebbe la cosa, se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia. Or così appunto dovrebbe esser disposto l’animo degli uomini verso questo problema. Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo. (Firenze. 18. Sett. 1827.).

Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de’ greci e de’ romani. Vedesi appunto da quel tanto d’instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l’uso della ginnastica, l’uso dei bagni e simili. Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d’ogni età dell’uomo, in ogni parte dell’igiene pratica, in tutto il fisico della civiltà, v. p. 4291. gli antichi ci sono ancora d’assai superiori: parte, se io non m’inganno, non piccola e non di poco momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto. (18. Sett. 1827.).

Addolcendosi i costumi, diffondendosi le cognizioni e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà, veggiamo che i grandi delitti o spariscono, o si fanno più rari. Se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l’effetto e l’esperienza della civilizzazion presente deciderà per la prima volta. — Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaro o semicivile piuttosto, una quantità di delitti atroci che vincono l’immaginazione, una quantità di azioni eroiche di virtù (spesso occasionate da quei medesimi delitti), che esaltano l’anima la più fredda (come è la mia). Certo niente o ben poco di simile nelle parti men barbare dell’Italia, e nel resto d’Europa, nè per l’una nè per l’altra parte. (Firenze. 18. Sett. 1827.).

C’est en conséquence de ces cruelles opinions, que l’on a vu enseigner publiquement, à la honte du Christianisme, que l’on ne devoit pas garder la foi aux hérétiques; sentiment que Clément VIII, qui d’ailleurs étoit assez honnête homme pour un Pape, approuvoit, ainsi que s’en plaint amèrement le Cardinal d’Ossat. L’inhumaine décision du concile de Constance, sur le mépris des saufs-conduits, est aussi le fruit de cette pernicieuse doctrine. ( Hist. du concile de Constance, préface de Lenfant. P. 47.) Examen critique des Apologistes de la religion chrétienne, par M. Fréret, chap. 10. édit. de 1766. p. 188-9. (Firenze, 19. Sett. 1827.).

Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l’u vocale. Credo che il vau dell’alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l’avessero nella lingua. Considerato come un’aspirazione (non altrimenti che l’f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il φ greco è una lettera aggiunta all’alfabeto antico, e considerata come doppia o composta, cioè di π e di H, ossia come un π aspirato), esso v, per l’imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all’u, ond’è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l’u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest’u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l’u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il simile dirò dell’f ec. ec. (20. Sett. 1827. Firenze.).

Alla p. 4289 — nella civiltà insomma del corpo, per dir così, o vogliamo dire, che spetta al perfezionamento o alla perfezione del corpo, —

Dice la Staël che la lingua tedesca è una scienza, e lo stesso si può, e con più ragione ancora, dir della greca. Quindi è accaduto che siccome le scienze si perfezionano, e i moderni sono in esse superiori agli antichi, per le più numerose e accurate osservazioni, così e per lo stesso mezzo la notizia del greco, dal rinascimento degli studi, si è accresciuta e si accresce tuttavia, e che i moderni sono in essa d’assai superiori a quelli del 5 o del 4 cento, e forse in alcune parti (come in quella delle etimologie, parte così favolosamente trattata da Platone), agli stessi greci antichi; anzi, che gli scolari di greco oggidì, ne sappiano più de’ maestri de’ passati tempi. E come le scienze non hanno limiti conosciuti nè forse arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, nè si può conoscere se e quando arriverà al non plus ultra, nè basta l’avere spesa tutta la vita in questo studio, per potersi vantare di essere un grecista perfetto. (Firenze. 20. Sett. 1827.).

Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l’analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di que’ corpi ch’io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là, ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all’ignorante, che guarda intorno da un’alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v’è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito. Ma come poi si è trovato per esperienza che il globo terracqueo, il qual pare infinito, e certamente per lungo tempo fu tenuto tale, ha pure i suoi limiti, così, secondo ogni analogia, si dee credere che la mole intera dell’universo, l’assemblage di tutti i globi, il qual ci pare infinito per la stessa causa, cioè perchè non ne vediamo i confini e perchè siam lontanissimi dal vederli; ma la cui vastità del resto non è assoluta ma relativa; abbia in effetto i suoi termini. — Il fanciullo e il selvaggio giurerebbero, i primitivi avriano giurato, che la terra, che il mare non hanno confini; e si sarebbono ingannati: essi credevano ancora, e credono, che le stelle che noi veggiamo non si potessero contare, cioè fossero infinite di numero. (20. Sett. 1827.).

L’estrema imperfezione dell’ortografia francese è confessata in modo très-éclatant dagli stessi francesi con que’ loro dizionari che contengono la prononciation figurée, cioè rappresentata in modo più conforme all’alfabeto ed alla ragion naturale. Che si dee pensare della scrittura di una nazione, la quale scrittura ha bisogno di essere scritta in un altro modo, di essere rappresentata con un’altra scrittura, e ciò alla stessa nazione, acciò che questa intenda ciò che quella significa? giacchè l’intendere come essa vada pronunziata, non è altro che intendere il suo valore. (Firenze. 21. Sett. 1827.).

Se fosse possibile che io m’innamorassi, ciò potrebbe accadere piuttosto con una straniera che con un’italiana. Quel tanto o di nuovo o d’ignoto che v’ha ne’ costumi, nel modo di pensare, nelle inclinazioni, nei gusti, nelle maniere esteriori, nella lingua di una straniera, è molto a proposito per far nascere o per mantenere in un amante quella immaginazion di mistero, quella opinione di vedere e di conoscere nella persona amata assai meno di quello che essa nasconde in se stessa, di quel ch’ella è, quella idea di profondità, di animo recondito e segreto, ch’è il primo e necessario fondamento dell’amor più che sensuale. Oltre alla grazia che accompagna naturalmente ciò ch’è straniero, come straordinario. (Firenze, 21. Sett. 1827.).

Doucereux.

Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec. il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze. (21. Sett. 1827.).

La differenza tra le voci di origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo, un’altra, tutta differente, e si considera come un altra voce da tutti, salvo solo i pochissimi che s’intendono delle origini della lingua. P. e. causa lat. , corrotta di forma e di significato dall’uso volgare, significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione. Ed è certo che causa ital. è voce, benchè ora volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de’ passati secoli dicevano ch’ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e senso, come una tutt’altra (occasione), benchè in origine sia la stessa. Franc. chose — cause, Spagn. cosa — causa ec. (Firenze. 21. Sett. 1827.). Leale, loyal, leal (spagn.) legale, légal, legal.

Diluvium — déluge.

Alla p. 4238. Ebbero i Greci ancora, come i moderni, degl’Itinerari, delle Descrizioni di città e di provincie, anche con dettagli appartenenti a storia, arti, monumenti, costumi, prodotti, statistica insomma (come quella di Pausania, e la Descriz. della Grecia di Dicearco, contemporaneo di Teofrasto, della quale son da vedere i frammenti nei Meletemata del Creuzer); delle Relazioni di Viaggi per mare e per terra (come i Peripli, il Viaggio di Nearco, di Arriano nell’Indica, quello di Megastene all’India, ed altri simili sotto titolo di Ἰνδικά, Αἰθιοπιχά, Περσικά ec.): e in fine non v’è quasi ricchezza letteraria fra’ moderni, di cui non si trovi fornita anche la Bibliografia greca. (Firenze. Domenica 14. Ottob. 1827.).

Persone la cui compagnia e conversazione ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di sforzarci e adoperarci d’essere stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la compagnia e conversazione delle donne non può esser durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima. (Firenze. Domenica 14. Ottobre. 1827.).

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Fin qui si stende l’Indice di questo zibaldone di
Pensieri
cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 Ottobre 1827 in Firenze.

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Peut-être que, si l’on examinait avec impartialité les moeurs de toutes les nations de la terre, on trouverait qu’il n’y a point de peuple si grossier qui n’ait quelques règles de politesse, et point de peuple si poli qui ne conserve quelque reste de barbarie. Franklin. Traduit de l’anglais. ( Mélanges de Morale, d’Économie et de Politique, extraits des ouvrages de Benjamin Franklin. 2.e édition. Paris, chez Jules Renouard. 1826. tom.2. p. 1-2. Observations sur les Sauvages de l’Amérique du Nord. 1784.). (Firenze. 1827. 25. Ottobre.).

Bisogna guardarsi dal giudicare dell’ingegno, dello spirito, e soprattutto delle cognizioni di un forestiere, da’ discorsi che si udranno da lui ne’ primi abboccamenti. Ogni uomo, per comune e mediocre che sia il suo spirito e il suo intendimento, ha qualche cosa di proprio suo, e per conseguenza di originale, ne’ suoi pensieri, nelle sue maniere, nel modo di discorrere e di trattare. Massime poi uno straniere, voglio dire uno d’altra nazione, ne’ cui pensieri, nelle parole, nei modi, è impossibile che non si trovi tanta novità che basti per fermar l’attenzione di chi conversa seco le prime volte. Ogni uomo poi di qualche coltura, ha un sufficiente numero di cognizioni per somministrar lauta materia ad uno o due entretiens; ha i suoi discorsi, le sue materie favorite, nelle quali, se non altro per la lunga assuefazione ed esercizio, è atto a figurare, ed anche brillare; ha qualche suo motto, qualche tratto di spirito, qualche osservazione piccante o notabile ec. familiari e consueti. Per poca di abilità che egli abbia nel conversare, per poca di perizia di società, di arte della parola, facilissimamente egli tira e fa cadere il discorso, ne’ suoi primi abboccamenti, sopra quelle materie dove consiste il suo forte, dov’egli ha qualche bella o buona o passabile cosa da dire; e facilissimamente trova modo di metter fuori e di déployer tutta la ricchezza della sua erudizione e della sua dottrina, di qualunque genere ella sia. Ad un letterato di professione massimamente, è difficile che manchi l’arte necessaria per questo effetto. Quindi è che chi lo sente parlare per la prima volta, resta sorpreso dell’abbondanza delle sue cognizioni, de’ suoi motti, delle sue osservazioni; lo piglia per un’arca di scienza e di erudizione, un mostro di spirito, un ingegno vivacissimo, un pensatore consumato, un intelletto, uno spirito originale. Ciò è ben naturale, perchè si crede che quel che egli mette fuori, sia solamente una mostra, un saggio di se e del suo sapere; non sia già il tutto. Così è avvenuto a me più volte: trovandomi con persone nuove, specialmente con letterati, sono rimasto spaventato del gran numero degli aneddoti, delle novelle, delle cognizioni d’ogni sorta, delle osservazioni, dei tratti, ch’esse mettevano fuori. Paragonandomi a loro, io m’avviliva nel mio animo, mi pareva impossibile di arrivarvi, mi credeva un nulla appetto a loro. Ciò avveniva non già perchè la somma del mio sapere e del mio spirito non mi paresse bastante ad uguagliar quella che tali persone mettevano fuori e spendevano attualmente meco: se io avessi creduto che la loro ricchezza non si stendesse più là, essa mi sarebbe paruta ben piccola cosa, anche a lato alla mia; ma io credeva che quello non fosse che un saggio del capitale, un argent de poche, corrispondente ad una ricchezza proporzionata. Ne’ miei pochi viaggi, spesso ho avuto di tali mortificazioni, specialmente con letterati stranieri. Ma poi qualche volta ha voluto il caso che io m’abbattessi a sentire qualche colloquio di alcuna di tali persone con altre a cui esse erano parimente nuove. Ed ho notato che esse ripetevano puntualmente, o appresso a poco, gli stessi pensieri, motti, aneddoti, novelle, che avevano dette ed usate meco. ec. L’effetto in quegli uditori era lo stesso che era stato in me. Ammirazione, interesse, entusiasmo. Che vastità di sapere, che notizia d’uomini e d’affari, che profondità, che erudizione immensa, che fecondità e vivacità di spirito!

Da queste osservazioni si possono cavar parecchie riflessioni utili, ma fra l’altre, due ben diverse, ed utili a due ben diversi generi di persone. La prima: che i viaggiatori, per quanto sieno intendenti e di buona fede, debbono restar facilmente ingannati nel giudicar dello spirito, ingegno, erudizione e dottrina delle persone che vedono. Questa sarà utile per chi legge le Relazioni di Viaggi fatti in Europa, che ora sono tanto alla moda. L’altra: che un viaggiatore, per poco capitale ch’egli abbia di spirito e di sapere, dev’essere ben povero d’arte conversativa, se dovunque egli passa, non si fa passare per un grand’uomo. E questa sarà utile a chi viaggia. Come anche sarà utile per un altro lato a chi viaggia, l’esempio dell’accaduto a me, come ho detto di sopra ec. (Pisa. 13. Novembre. 1827.).

Cratero (nome di medico, e vuol dire in generale al medico) magnos promittere montes. Persio, Sat. 3. vers. 65. — Prometter mari e monti.

Alla p. 4115. Persio Sat. 1. v. 112-14. Hic, inquis, veto quisquam faxit oletum. Pinge duos angues: pueri, sacer est locus, extra Mejite. Discedo. Traduz. di Monti. Niun qui, dici, a sgravar l’alvo si butti: E tu due serpi vi dipingi, e al piede: Pisciate altrove, è sacro il loco, o putti. Me la batto. Nota del medesimo. Angues. L’antica superstizione aveva consecrato i serpenti come immagine del genio tutelare, e simbolo dell’eternità. Solevano quindi dipingerli al muro ne’ luoghi pubblici che volevansi mondi d’ogni bruttura, onde gli adulti per riverenza, i fanciulli per paura non vi si accostassero a far puzza. — Vedi gli altri commentatori. Paragonisi questa usanza colla nostra di far dipingere, ed anche scolpire in pietra, delle croci ne’ luoghi che si vogliono salvare dalle brutture, e che d’altronde vi sarebbero assai esposti e comodi. Usanza che dà più che mai nell’occhio a Firenze, dove non solo ne’ luoghi tali, ma non v’è canto di edifizio e di strada sì pubblica e frequentata, dove non si veggano, non dico croci, ma lunghe file di croci dipinte nel muro a basso, in modo di siepi. Il che è ben ragionevole in quella sporchissima e fetidissima città, per li cui amabili cittadini ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro bisogni, e soprattutto ogni cominciamento o entrata di viottolo o di via (due cose poco diverse in Firenze): onde nessun luogo è sicuro da tali profanazioni senza tali ripari ed antemurali, e conviene moltiplicarli senza fine. Non entrerei però garante della validità di siffatti ripari per l’effetto desiderato, nè in Firenze nè altrove. (Pisa. 22. Novembre. 1827.). V. la p. seg. e p. 4300. e p. 4305.

Cader dalla padella nella brace ec. V. Crusca. — Platone nel fine del libro 8. πολιτείας (ed. Astii, t. 4. p. ult.) parlando della democrazia cangiata in tirannide, e della eccessiva libertà cangiata in servitù, dice: καὶ, τὸ λεγόμενον, ὁ δῆμος φεύγων ἂν καπνὸν δουλείας ἐλευθέρων (cioè ricusando l’obbedienza de’ magistrati liberi), εἰς πῦρ δούλων δεσποτείας (della dominazione dei servi, cioè de’ satelliti del tiranno ec.) ἂν ἐμπεπτωκὼς εἴη. (Pisa. 2. Dic. 1827.).

Alla p. qui dietro. Del resto, questo scompisciamento generale di Firenze procede da quell’eccessiva libertà individuale che vi regna, per la quale Firenze potrebbe molto bene paragonarsi ad Atene del tempo il più democratico, ed applicarsi a lei quello che, alludendo ad Atene, dice di una città eccessivamente democratica Platone nell’ottavo della Repubblica, opp. ed. Astii, tom. 4. p. 478. (Pisa. 5. Dic. 1827.).

Alla p. 4164. capoverso 3. Epicuro Epist. ad Herodot. , ap. Laert. X. segm. 37. ὅπως ἂν τὰ δοξαζόμενα ἢ ζητούμεναἢ ἀπορούμενα ἔχωμεν εἰς ὃ ἀνάγοντες ἀπικρίνειν. Quest’uso dell’infinito, è proprio, del resto, anche della lingua franc. spagn. ec.

D’Alembert nel Discours préliminaire de l’Encyclopédie, avendo parlato delle cure, delle fatiche prese, e delle grandissime difficoltà incontrate dagli enciclopedisti, e particolarmente da Diderot per acquistare intorno alle arti, mestieri e manifatture i lumi e le notizie necessarie a trattarne nella enciclopedia, soggiunge: C’est ainsi que nous nous sommes convaincus de l’ignorance dans laquelle on est sur la plûpart des objets de la vie, et de la difficulté de sortir de cette ignorance. C’est ainsi que nous nous sommes mis en êtat de démontrer que l’homme de Lettres qui sait le plus sa Langue, ne connoît pas la vingtieme partie des mots; que quoique chaque Art ait la sienne, cette langue est encore bien imparfaite; que c’est par l’extrême habitude de converser les uns avec les autres, que les ouvriers s’entendent, et beaucoup plus par le retour des conjonctures que par l’usage des termes. Dans un attelier, c’est le moment qui parle, et non l’Artiste. (Pisa. 17. Dic. 1827.).

S’andrà schernendo il giovinetto altero Senz’altra (alcuna) pena l’amoroso foco, Chi sarà poi che ’l tuo schernito impero, Voto d’ogni timor non prenda in gioco? Alamanni, Favola di Narcisso, stanza 17. (30. Dic. 1827. Domenica.).

Altronde per altrove. Angelo di Costanzo, Sonetto 44. Mancheran prima ec.

Avale-aguale.

Tallo-θαλλός.

Frugare — Frugolare. Malm. racq. 10.mo cantare, stanza 44. Spruzzo — Spruzzolo. Menzini, Satira 9. verso 48.

Cosa curiosa, e notabile per chi vuol conoscere la storia, e dalla storia inferire il valore, delle opinioni degli uomini intorno ai diritti e ai doveri, si è che ne’ secoli passati, i Negri erano creduti d’una origine e quindi d’una famiglia stessa co’ bianchi, e pur quei medesimi che li tenevano per tali, sostenevano la ineguaglianza naturale di diritti tra i bianchi e loro, la inferiorità dei Negri, e la giustizia della loro servitù, anzi schiavitù ed oppressione: oggi i Negri sono conosciuti di origine, e però di famiglia, onninamente diversa dai bianchi, e quelli che gli hanno per tali, sostengono la loro uguaglianza sociale rispetto a noi, e la parità de’ loro diritti, e la totale ingiustizia del farli schiavi, o maltrattarli, o dominarli, e l’assurdità dell’opinione antica in tal proposito. (Pisa 14. Gen. 1828.).

Alla p. 4298. Oh gente santa, Che non piscia lì dove vede impresso Segno di croce! Menzini, Sat. 9. vers.56-8.

Al detto altrove di non pareil per senza pari, grecismo; e di pareil, parejo, apparecchiare ec. diminutivi positivati ec. aggiungi. Chiabrera Canzonette, canzonetta 8.va al Sig. Luciano Borzone pittore (principio: Se di bella, che in Pindo alberga, musa) stanza 6 ed ult. versi 50-54 ed ultimi. Ah sciocchezza infinita Di qualunque sia core, E follia non parecchia! (senza pari) Pianger perchè si more, E non perchè s’invecchia . (Pisa. 15. Gennaio. 1828.).

Altronde per altrove. Giusto de’ Conti, Bella Mano, Canz. 2. st. 5. Capit. 4. v. 8.

Infamato per infame. Id. ib. Capit. 3. v. 88. Dannata (per dannevole) vista, e di mirarsi indegna . Chiabr. Canz. Cosmo, sì lungo stuol, lieto in sembianza. v. 25. stanz. 4. v. 1. Patito. Viso patito. Uomo, cavallo, panno patito ec. Si dice anche in Toscana.

Memorie della mia vita. La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio, e più speranze che desiderii ec. (Pisa. 19. 1828.).

V’è di quelli ostinati, Che per un blittri (della qual voce, derivata dal greco, dico altrove: vuol dire per un nulla) categorematico Lascerian stare la broda e ’l companatico. Magalotti, Sonetto colla coda; che incomincia: Acciò conosca ognun quanto diverso. vers.27-29. Parla de’ fanatici scolastici e peripatetici del suo tempo. (Pisa. 22. 1828.).

Raperonzo — raperonzolo. Cotogno — cotognolo. V. Crus.

τρίβειν — trebbiare, forse da tribulare, che forse è un frequentativo di un inusitato tribere da τρίβειν. (Pisa. 28. 1828.).

E disse fra suo core: l’ho mal fatto. Pulci Morg. maggiore, XII. 28.

Disse Rinaldo: A te, sanza altre scorte, (nessuna scorta) Venuti siam per l’oscura foresta. Ib. canto 17. st. 35.

E disse fra suo cor: costui fia quello. Ib. c. 22. st. 228.

Sottosopra fu buon sempre l’ardire: Ha la fortuna in odio un uom da poco, Ed è nimica de gli sbigottiti (soliti a sbigottirsi ec.). Berni, Orl. inn. c. 35. st. 3.

Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacchè gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a se, ec. (Pisa. 5. Feb. 1828.).

Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri: (Pisa. 15. Apr. 1828.) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa. 15. Feb. ult. Venerdì di Carnevale. 1828.).

Pelo matto, pasta matta ec. — μάτην, μάταιος.

Ciascuna stella negli occhi mi piove Della sua luce e della sua vertute. Dante Rime, lib. 2. Ballata 3. Io mi son pargoletta bella e nova. (Pisa. 19. Marzo Festa di S. Giuseppe. 1828.).

Βομβεῖν — bombire. A. di Costanzo, Stor. del R. di Napoli, lib. 6. nella traduzione della lettera del Petrarca sopra il terremoto di Napoli. (Pisa. 12. Apr. Sabato in Albis. 1828.). V. Crusca.

Prolato as.

M. Newton avoit donné la solution de ce problême...; e M. Fatio de Duillier venoit d’en publier une solution très embarassée... M. Bernoulli, effrayé des calculs de M. Fatio, se mit à cercher par une autre voie le solide de la moindre résistance, et ne fut pas long-tems à le trouver. Les grands Géometres connoissent certe éspece de paresse qui préfere la peine de découvrir une vérité à la contrainte peu agréable de la suivre dans l’ouvrage d’autrui; en général ils se lisent peu les uns les autres, (Nota. Nous ne disons point qu’ils ne se lisent pas, mais qu’ils se lisent peu: en ce genre un coup d’oeil jetté sur un ouvrage suffit aux maîtres pour le juger. Il n’en est pas de même en Littérature.) et peut-être perdroient-ils à lire beaucoup: une tête pleine d’idées empruntées n’a plus de place pour les siennes propres, et trop de lecture peut étouffer le génie au lieu de l’aider. Si elle est plus nécessaire dans l’étude des Belles-Lettres que dans celle de la Géométrie, la différence de leurs objets er des qualités qu’elles exigent, en est sans doute la cause. La Géométrie ne veut que découvrir des vérités, souvent difficiles à atteindre, mais faciles à reconnoître dès qu’on les a saisies; et elle ne demande pour cela qu’une justesse et une sagacité qui ne s’acquierent point. Si elle n’arrive pas précisément à son but, elle le manque entièrement; mais tout moyen lui est bon pour y arriver; et chaque esprit a le sien, qu’il est en droit de croire le meilleur: au contraire, le mérite principal de l’éloquence et de la Poësie, consiste à exprimer et à peindre; et les talens naturels absolument nécessaires pour y réussir, ont encore besoin d’être éclairés par l’étude réfléchie des excellens modeles, et, pour ainsi dire, guidés par l’expérience de tous les siècles. Quand on a lu une fois un problême de Newton, on a vu tout, ou l’on n’a rien vu, parce que la vérité s’y montre nue et sans réserve; mais quand on a lu et relu une page de Virgile ou de Bossuet, il y reste encore cent choses à voir. Un bel esprit qui ne lit point, n’a pas moins à craindre de passer pour un écrivain ridicule, qu’un Géometre qui lit trop, de n’être jamais que médiocre. D’Alembert, Éloge de M. Jean Bernoulli . Non si potrebbe dire della metafisica appresso a poco il medesimo che della Geometria, e così scusare chi in metafisica amasse più di pensare che di leggere; chi pretendesse di essere metafisico senz’aver letto o inteso Kant; chi si contentasse talvolta di conoscere i risultati e le conclusioni delle speculazioni e ragionamenti de’ metafisici celebri, per poi trovarne da se stesso la dimostrazione, o convincersi della loro insussistenza? La metafisica ha colle matematiche non poche altre somiglianze: anche in metafisica una proposizione dipende spesso da una serie di proposizioni per modo ch’è impossibile vederne colla mente la dimostrazione tutta in un punto; e spesso chi è salito per questa serie fino a quell’ultima verità, ne acquista la convinzione, e ne vede allora perfettamente le ragioni, che d’indi a poco non saprebbe più rendere nemmeno a se stesso, benchè la convinzione gli duri. Anche in metafisica, come in affari di calcolo, moltissime proposizioni e verità si credono sulla sola fede di chi ha fatto il lavoro necessario per iscoprirle e renderle certe; lavoro troppo lungo e difficile per essere rinnovato e rifatto, o seguito a passo a passo da altri, anche uomini della professione. (Pisa. 17. Aprile. 1828.). — (Il cui genio (di Laplace) è per me come quei Veri che pochi veggono, ma che son creduti da tutti, perchè uno spirito superiore li vede e li mostra. Daru, Risposta al discours de réception di Royer-Collard all’Accad. Franc. nell’Antologia di Firenze, n.86. p. 138.).

Alla p. 4264. De toutes les langues cultivées par les gens de lettres, l’italienne est la plus variée, la plus flexible, la plus susceptible des formes différentes qu’on veut lui donner. Aussi n’est-elle pas moins riche en bonnes traductions, qu’en excellente musique vocale, qui n’est elle-même qu’une éspece de traduction. D’Alembert, Observations sur l’art de traduire, premesse al suo Essai de traduction de quelques morceaux de Tacite.

Les taches qu’on peut faire disparoître en les effaçant, ne méritent presque pas ce nom; ce ne sont pas les fautes, c’est le froid qui tue les ouvrages; ils sont presque toujours plus défectueux par les choses qui n’y sont pas, que par celles que l’auteur y a mises. Id. ib. (Pisa. 8. Maggio. 1828.).

Alla p. 4298. fine. In Pisa, su un canto della piazza dello Stellino, oltre la croce dipinta, v’è la leggenda: Rispetto alla Croce. V. p. 4307.

Nous n’acquérons guere de connoissances nouvelles que pour nous désabuser de quelque illusion agréable, et nos lumieres sont presque toujours aux dépens de nos plaisirs. D’Alembert, Réflexions sur l’usage et sur l’abus de la philosophie dans les matieres de goût, lues à l’Académie Françoise le 14 mars 1757.

E molte forti a Pluto alme d’eroi Spinse anzi tempo, abbandonando i corpi Preda a sbranarsi a’ cani ed agli augelli. Foscolo. Molte anzi tempo all’Orco Generose travolse alme d’eroi, E di cani e d’augelli orrido pasto Lor salme abbandonò. Monti. E così gli altri. Ma Omero dice le anime (ψυχὰς) ed essi (αὐτοὺς), cioè gli eroi, non i loro corpi. Differenza non piccola, e secondo me, non senza grande importanza a chi vuol conoscere veramente Omero, e i suoi tempi, e il loro modo di pensare. Questa infedeltà, non di stile e di voci solo, ma di sostanza e di senso, nata dall’applicare alle parole d’Omero le opinioni contemporanee a’ traduttori; questa infedeltà, dico, commessa nel primo principio del poema, anche da’ traduttori più fedeli, dotti ed accurati, e in un caso in cui le parole son chiare e note, mostra quanto sia ancora imperfetta l’esegesi omerica (e in generale degli antichi), e quanto spesso si debba trovare ingannato, quanto spesso insufficientemente informato, chi per conoscere Omero, e gli antichi, e i loro tempi, costumi, opinioni ec. si vale delle traduzioni sole, e fonda su di esse i suoi discorsi ec. come per lo più i più eruditi francesi d’oggidì ec. ec. (Pisa. 10. Maggio. 1828. Sabato.).

Il est sans doute des lecteurs qui ne sont difficiles ni sur le fond ni sur le style de l’histoire; ce sont ceux dont l’ame froide et sans ressort, plus sujette au désoeuvrement qu’à l’ennui, n’a besoin ni d’être remuée, ni d’être instruite, mais seulement d’être assez occupée pour jouir en paix de son existence, ou plutôt, si on peut parler ainsi, pour la dépenser sans s’en appercevoir. D’Alembert, Réflexions sur l’histoire . I più degli oziosi sono piuttosto disoccupati che annoiati. Si dice male che la noia è un mal comune. La noia non è sentita che da quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Agli altri ogni insipida occupazione basta a tenerli contenti; e quando non hanno occupazione alcuna, non sentono la pena della noia. Anche gli uomini sono, la più parte, come le bestie, che a non far nulla non si annoiano; come i cani, i quali ho ammirati e invidiati più volte, vedendoli passar le ore sdraiati, con un occhio sereno e tranquillo, che annunzia l’assenza della noia non meno che dei desiderii. Quindi è, che se voi parlate della noia inevitabile della vita ec. ec. non siete inteso ec. ec. (Pisa. 15. Maggio. Ascensione. 1828.).

On peut dire en un sens de la Métaphysique que tout le monde la sait ou personne, ou pour parler plus exactement, que tout le monde ignore celle que tout le monde ne peut savoir. Il en est des ouvrages de ce genre comme des pieces de théatre; l’impression est manquée quand elle n’est pas générale. Le vrai en Métaphysique ressemble au vrai en matiere de goût; c’est un vrai dont tous les esprits ont le germe en eux-mêmes, auquel la plûpart ne font point d’attention, mais qu’ils réconnoissent dès qu’on le leur montre. Il semble que tout ce qu’on apprend dans un bon livre de Métaphysique, ne soit qu’une éspece de réminiscence de ce que notre ame a déjà su; l’obscurité, quand il y en a, vient toujours de la faute de l’auteur, parce que la science qu’il se propose d’enseigner n’a point d’autre langue que la langue commune. Aussi peut-on appliquer aux bons auteurs de Métaphysique ce qu’on a dit des bons écrivains, qu’il n’y a personne qui en les lisant, ne croie pouvoir en dire autant qu’eux. D’Alembert, Essai sur les élémens de philosophie, article 6. È facile il vedere che tutti questi periodi sono traduzioni l’uno dell’altro; ma la proposizione ch’essi contengono, è molto vera e notabile. (Pisa. 19. Maggio. 1828.).

Alla p. 4305. Pietro Aretino dice in una delle sue commedie: un cavalier senz’entrata è un muro senza croci, scompisciato da ognuno . Ginguené, t. 6. p. 229. not. (Pisa. 19. Maggio. 1828.).

Corpusculum per corpus. M. Aurelio in Frontone ( ad Marcum Caesarem et invicem , lib.5. ep. 47. 55. ed. Rom. 1823. p. 135-37.). Notisi che M. Aurelio era stoico.

Expergitus per experrectus. Fronto Princip. histor. ed. Rom. p. 319. v. 9.

Arcus intenditus per intentus. Ib. De Feriis alsiensibus, ep. 3. p. 208. v. 15.

Il codice frontoniano ha dilibutus, e 3 volte dilectus per delibutus e delectus. Così noi dilicato, e di preposiz. per de. Al che spettano que’ verbi latini digredior, diverto, diminuo, distillo, distringo, divello (e simili): tutti i quali nel detto codice si trovano scritti per de.

M. Aurelio nelle lett. a Frontone chiama costantemente Faustina sua moglie, domina mea (la mia donna). V. il luogo di Epitteto di cui altrove.

Leggendo la curiosa lettera di Vero a Frontone (ad Ver. imp. ep. 3. ed. Rom.) in cui lo prega di scrivere la storia delle gesta di esso Vero nella guerra partica, mi par proprio di leggere una lettera di qualche moderno scrittore a un giornalista sopra qualche sua opera. Lo stesso amor proprio, esagerazione, noncuranza del vero ec. E in verità quella lettera (v. anche quella di Cic. a Lucceio) ci mostra quanto dobbiamo fidarci di storie, anche contemporanee. Ma che differenza tra gli antichi e i moderni ancor qui! Questi raccomandano 1. delle operucce, 2. a un giornalista, 3. per un articolo; quelli 1. de’ fatti militari o civili, 2. a uomini famosi, 3. per una storia ec. ec. La lett. di Vero è senza niuna diversità nell’ediz. milanese e meriterebbe di esser citata tradotta. (Firenze. 21. Giugno, anniversario del mio primo arrivo a Firenze. 1828.).

Tanto è vero che tra gli antichi la prima lode era quella della felicità, che noi vediamo nelle Orazioni funebri, e in simili casi, gli Oratori dovendo lodare, p. e. de’ soldati morti per la patria, cominciar dal mostrare che essi non sono stati infelici, che la loro morte non è stata una sventura. Oggi al contrario: si cercherebbe d’intenerir gli uditori sopra il loro caso: il muover la compassione in tali circostanze era cosa al tutto ignota, era un vero controsenso presso gli antichi. Le loro Oraz. fun. sono tutte consolatorie.

Dionigi D’Alic. nei giudizi sopra gli scrittori antichi biasima Tucidide per aver preso un argomento di storia che conteneva le sventure della sua patria (Atene), e loda al paragone Erodoto per aver preso a tema le vittorie de’ greci sui barbari. Anche nelle storie questi rispetti, e a’ tempi di Dionigi. (Firenze 29. Giugno, dì di S. Pietro, e mio natalizio. 1828.).

Solone appo Erodoto 1. c. 32. parlando a Creso della costui prosperità chiama la divinità invidiosa τὸ θεῖον πᾶν ἐὸν (cioè ὂν) φθονερόν. (29. Giu. 1828.).

Paul-Louis Courier, Lettre à M. Renouard, libraire, sur une tache faite à un manuscrit de Florence, parlando del Longo di Amyot, da lui corretto nei luoghi dove la traduzione non rispondeva al testo, e supplito colla traduzione nuova del frammento fiorentino: Mais ce n’est pas seulement le grec et le français qui m’ont servi à terminer cette belle copie (la traduzione d’Amyot), après avoir si heureusement rétabli l’original (cioè completato il testo colla scoperta del supplemento fiorentino); ce sont encore plus les bons auteurs italiens, d’où j’ai tiré (per questo lavoro) plus que des nôtres, et qui sont la vraie source des beautés d’Amyot; car il fallait, pour retoucher et finir le travail d’Amyot, la réunion assez rare des trois langues qu’il possédait et qui ont formé son style. (Fir. 30. Giug. 1828.).

Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d’attraits, più d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione. Così almeno è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventù: così anche ad altri che se ne intendono (M. Merle). Ma veramente una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell’oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in quelle altre donne troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi più inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare una corrispondenza seco. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi. (Fir. 30. Giu. 1828.).

danske folkeeventyr. Contes populaires des Danois; recueillis per M. Winther. 1.re part. ; Copenhague; 1823. Récemment M. Thiele a publié 2 volumes de traditions et croyances populaires des Danois. Le recueil de M. Winther est à peu près du même genre. L’auteur a recueilli les contes qui amusent le paysan pendant les longues soirées d’hiver; il est assez remarquable que les Danois se soient appropriés de bonne heure les contes et fables des anciens, en transportant la scène sur leur territoire; c’est ainsi que le héros du conte d’Apulée, l’Âne d’or, est devenu un bondekard, ou jeune paysan danois, sous le nom de Hans: le principal personnage de la fable d’Amour et Psyché s’est transformé en prince Hvidbjaern (ae) dans lequel les Grecs auraient de la peine à reconnaître leur Amour. Les contes des Fées qui, dans l’ouvrage de Perrault, ont presque tous un caractère français, deviennent également danois sur les bords de la Baltique: Cendrillon est transformée en Kokketoes (oe), etc. D-G. (Depping). Bulletin Universel des sciences et de l’industrie, publié sous la direction de M. le B. de Férussac. 7.me Section. Bulletin des sciences historiques, antiquités, philologie. 1.re année; 1824; Avril. tome 1.r article 241. p. 209-10. (Firenze. 23. Luglio. 1828.).

M. Bredsdorff (Om Rune skriften oprindelse. i.e. Sur l’origine des caractères runiques; par Jacq. Hornemann Bredsdorff. In-4. 19 pag. Copenhague 1822.) pense que l’alphabet runique est dérivé de l’alphabet moesogothique (oe), dont on attribue l’invention à l’evêque Ulphilas, qui s’en servit pour écrire sa traduction du Nouveau-Testament, au 4.e siècle. Bulletin de Férussac, lieu cité ci-dessus, art. 243. 244. p. 211. (23. Luglio. 1828.). V. p. 4362.

De invidia, diis ab Herodoto et aequalibus attributa, pauca commentatus est P. Möller. 31. p. In-4. Copenhague. Bulletin de Férussac, l. c. art. 279. p. 240. (24. Luglio. 1828.).

Da applicarsi alle mie riflessioni sopra Omero e l’epopea. Avant de passer aux ouvrages d’Homère, l’auteur (Ideen über Homer, etc. Idées sur Homère et sur son époque; par C. E. Schubarth. In-8.o de 364 pag. ; Breslau; 1821.) dépeint (p. 108-134.) le caractère et les moeurs des deux nations qui combattent devant Troie. Il résulte de ce parallèle que les Grecs ont tous les vices des peuples sauvages; ils cédent a toutes les impulsions; la violence, l’indiscipline, les terreurs superstitieuses règnent dans leur camp. Ce n’est pas parmi eux, c’est chez les Troyens, que l’on trouve l’ordre, l’union, l’amour de la patrie, et ces sentimens généreux, qui font croire à une civilisation naissante, ou même déjà avancée. C’est sous ce point de vue, qui est conforme à ce que nous lisons dans Homère, que M. Schubarth envisage l’Odyssée et l’Iliade. Dans l’Iliade, Homère a chanté une guerre qui doit se terminer par la destruction de Troie, mais dont l’auteur laisse à peine entrevoir l’issue funeste placée avec art dans une perspective vague et lointaine. L’Odyssée retrace les suites malheureuses de cetre lutte. Les Troyens sont pour le lecteur l’objet d’une tendre pitié et de ce sentiment d’admiration, que font naître les actions nobles et généreuses, le patriotisme et le dévouement; toutefois ils doivent succomber après dix ans d’une défense héroïque, car ils sont inférieurs en nombre, et le Destin leur est contraire. Par opposition à certe peinture, Homère nous montre les Grecs animés d’un esprit de vengeance, vains, présomptueux, en proie à la discorde, toujours prêts à abuser de leur force. Le sort veut la ruine de Troie, et les Troyens supportent avec résignation ce malheur, qu’ils n’ont pas mérité, mais que les dieux leur envoient; tandis que les Grecs ne doivent qu’à eux-mêmes, à leur propres fautes, aux vices grossiers auxquels ils s’abandonnent, les justes punitions que ces mêmes dieux leur infligent.

C’est par des inductions semblable que M. Schubarth (p. 139-238.), s’ecartant de l’opinion reçue, essaie de démontrer que l’auteur des deux épopées grecques est né sur le sol de Troie (cioè dov’era stata Troia). Il faut convenir, en effet, que le poëte (car M. Schubarth n’admet pas avec Wolf que l’Iliade et l’Odyssée soient des productions dues à plusieurs rhapsodes), s’il eût été Ionien, aurait choisi pour la première de ses épopées un sujet bien étrange, bien peu propre à flatter les Grecs, auxquels il n’accorde d’autres avantages que ceux qui naissent de la supériorité des forces physiques. Tant que dure la guerre, la discorde les divise, et ils ne déploient d’autre vertu que leur courage; mais ce courage est sauvage et vindicatif. Sortis enfin victorieux de la lutte, c’est par de nouveaux désordres et de sanglantes querelles qu’ils signalent ce retour à la paix.

Il est très-remarquable que le poëte ait interrompu son chant au moment même où il n’aurait pu éviter de parler de la prise de la ville, et de tracer le tableau de sa destruction. Est-il vraisemblable qu’il se fût arrêté si brusquement, et eût négligé de célébrer un événement favorable aux Grecs, s’il s’avait eu à coeur de faire oublier aux Troyens, ses compatriotes, l’instant malheureux de leur chute[a]

(M. Schubarth n’a donc pas remarqué qu’Homère ne chante que la colère d’Achille et non la guerre entière de Troie? N. du R .).

[Chiudi]? On voit partout, dans l’Odyssée comme dans l’Iliade, que le poëte porte de l’affection aux Troyens. Énée, roi futur de Troie, ce héros favorisé des dieux, est sauvé par Neptune, le plus puissant dieu des Grecs. Leur plus dangereux ennemi, Hector, est peint sous des couleurs toujours favorables. Hector a le sentiment de la justice de sa cause; il n’est pas même soutenu par l’espoir du succès; mais il est pénétré de ses devoirs envers la patrie; il s’arrache aux affections les plus tendres, et s’immole sans hésiter. Sa mort est une expiation volontaire d’un seul instant d’oubli, d’une faute qui n’est pas la sienne. Mais les dieux, qui l’ont mal récompensé pendant sa vie, viennent eux-mêmes assister à ses funérailles, tandis qu’Achille vainqueur est tourmenté du pressentiment et des angoisses d’une mort prochaine.

Les bornes de ce journal ne nous permettent pas de donner plus d’étendue à cette analyse. Nous ne pouvons qu’engager nos lecteurs à lire dans l’ouvrage même ce que dit M. Schubarth pour appuyer une hypothèse qui nous paraît admissible, et qu’il développe avec un talent remarquable. (Cavato e tradotto dall’Jena. allg. Lit. Zeit. Gazzetta letteraria di Iena, Settemb. 1823.). Bulletin de Férussac, ec. loc. sup. cit. Juillet. tome 2. art. 54. p. 45-47.

Dalle mie riflessioni sopra Omero ec. si vede quanto male dai costumi fieri e selvaggi, dallo spirito di vendetta, dai vantaggi puramente fisici attribuiti da Omero ai Greci, e dalla compassione attaccata alla sorte dei Troiani, si arguisca che l’Iliade e l’Odissea furono composti in ispirito troiano e non greco, e quindi apparentemente per li Troiani, o nati sul suolo troiano, e non per li Greci di Jonia. Anzi si vede che appunto da queste cose medesime si dee concludere il contrario. (24 6. Lug. 1828.). V. p. 4447.

Da applicarsi pure alle mie riflessioni sopra Omero e l’epopea. Homerische Vorschule, etc. Introduction à l’étude de l’Iliade et de l’Odyssée; par W. Müller. 192. p. in 8. Leipzig; 1824. Élève du philologue Wolf, M. Müller annonce dans la préface qu’il est intimement persuadé de la vérité et de la solidité des opinions développées par son maître dans ses fameux Prolégomènes de l’Iliade, et qu’ayant médité sur ce sujet après avoir suivi les cours de Wolf, il croit devoir présenter une suite de considérations que cette matière lui a suggérées. Il avertit, en passant, le public de se mettre en garde contre les hypothèses trop hasardées que quelques savans cherchent à faire accréditer; il rappelle notamment les opinions de Payne Knight, savant anglais, mort récemment, et de Bernard Thiersch, qui n’est pas l’auteur de la Grammaire grecque publiée par M. Thiersch à Munich. M. Müller s’étonne que la nouvelle société littéraire de Londres ait couronné récemment un mémoire dans lequel on fait d’Homère le copiste de Moïse. ( Dissertation on the age of Homer, his writings and bis genius. Londres; 1823.).

Pour bien comprendre la manière dont l’Iliade et l’Odyssée ont été composées, il faut se pénétrer de l’esprit et des moeurs du peuple ionien. Ces colons grecs, amis des arts et de la poésie, avaient l’esprit vif et mobile, et s’interessaient avec la candeur de l’enfance aux événemens. Un poëte était chez eux le compagnon constant de tous les plaisirs. Partout où l’on se rassemblait, dans les banquets comme dans les assemblées publiques, la lyre du poëte faisait partie des réjouissances. Le poëte, ainsi que le ménestrel au moyen âge, exerçait un état généralement honoré, et était accueilli avec hospitalité partout où il faisait résonner sa lyre. Il ne chantait sans doute que ses inspirations particulières, qui souvent étaient des improvisations . (I menestrelli cantavano ben cose d’altri, e non solo d’altri, ma scritte espressamente dai dotti del tempo, in versi, per esser cantati o recitati da quelli. V. l’articolo del Perticari sopra il poemetto della Passione di Cristo attribuito al Boccaccio.) Ces morceaux n’étaient probablement pas très-longs, car dans les usages anciens nous ne voyons jamais les chants du poëte que comme des intermèdes. (Quando il poeta o il cantore cantava nelle piazze ec. in mezzo al popolo, come s’usa anche oggi, come a Napoli un del volgo legge alla plebe il Furioso o il Ricciardetto ec. e lo spiega in napoletano; allora i canti non erano intermezzi, erano come furon poi gli spettacoli ed acroamata.[a]

V. p. 4388.

[Chiudi]) La guerre de Troie, qui, sous tous les rapports, était un sujet propre à la poésie, était à peine finie, que dans les villes d’Ionie la lyre accompagnait déjà les vers composés sur cet événement national. Homère se distinguait parmi eux; mais il est évident qu’avant ce poëte l’usage des chants lyriques sur les événements publiques existait, et qu’il n’a point été le premier chantre national. (Femio, Demodoco ec.) Le rhythme de sa poésie prouve que ses vers étaient chantés et accompagnés de la lyre, peut-être aussi de la danse, du moins de mouvemens rhythmiques. (Il nome di ἔπη, di epico, di epopea, di ἐποποιὸς applicato con particolarità ai versi, poemi, e poeti narrativi, prova, secondo me, sì per la sua etimologia, o senso primitivo, di parola (ἔπος), dire (ἔπω, εἴπω) ec., sì per la distinzione da μέλη, μελικὸς, μελοποιὸς ec. che le poesie narrative non avevano alcuna melodia, non erano cantate ma recitate, o al più cantate a recitativo, come poi i versi non lirici de’ drammi, e come si canterebbero i nostri endecasillabi sciolti. Il verso epico (quasi parlativo) era la prosa di que’ tempi, ne’ quali non si componeva se non in versi. Omero, dice assai bene il Courier, nella pref. al Saggio di traduz. di Erodoto, fu uno storico, a que’ tempi che le storie non si solevano nè sapevano ancora narrare in prosa. Non credo dunque ben dette liriche le sue poesie, sebben forse accompagnate da qualche strumento, come i recitativi de’ drammi. V. p. 4328. capoverso 1. e p. 4390. fin.).

Il est ridicule de chercher dans les poësies homériques de savantes allégories et un sens profond: les poëtes ioniens rendaient naturellement les impressions faites sur leur imagination par les actions des héros, et ne se livraient point à des combinaisons étudiées; c’est la vie publique et particulière de leur temps qu’ils nous retracent et rien de plus. Ils n’écrivaient point, ils chantaient, et leurs inspirations se transmettaient par la tradition comme chez des peuples modernes à moitié barbares. (Le conseiller aulique Thiersch a lu ensuite (à la séance publique de la classe de philologie et d’histoire, de l’Académie des sciences de Munich, le 14 août, 1824.) un mémoire sur les poésies épiques transmises de bouche en bouche par le peuple. Ce qui a donné lieu à ce mémoire, c’est un écrit du professeur Vater à Halle, sur les longues poésies héroïques serviennes récemment publiées, et comparées à celles d’Homère et d’Ossian. Bull. de Férussac etc. Novemb. 1824. t. 2. art. 302. p. 321.) (V. p. 4336. fine.)

On a voulu voir un art savant dans les divers dialectes qui se trouvent dans Homère. Ce prétendu mélange des dialectes n’est point l’ouvrage du chantre: de son temps les Ioniens parlaient ainsi, et ce n’est que plus tard que la langue grecque se modifia, et que diverses provinces telles que l’Éolie, l’Ionie et la Doride conservèrent des restes de l’ancien idiome, restes qui alors furent considérés comme autant de dialectes divers.

Il paraît qu’ Homère a vécu au 2.e siècle après la destruction de Troie. L’éclat de son génie a fait oublier les noms des autres poëtes qui chantaient comme lui les hauts-faits des Grecs. Mais sans doute il a chanté comme eux des chants lyriques détachés, et il n’a probablement jamais songé à composer un poëme épique, et encore moins à en écrire un. De là ce qu’on dit de sa cécité et de son indigence, il aura passé dans la suite pour aveugle parce qu’il n’avait rien écrit; il aura passé pour indigent parce qu’il allait d’une ville a l’autre. Après sa mort, la réputation de ses chants alla toujours en croissant; les poëtes, perdant d’ailleurs le génie inventif, chantèrent les poésies d’Homère; il y eut alors des homérides. Pour flatter la vanité des villes dans lesquelles ils chantaient, ils intercalaient dans ces vers de leur prédécesseur, des éloges de villes et de peuples. On prétend que Lycurgue fut le premier qui fit rassembler et rédiger les poésies d’Homère. Mais ce législateur qui ne fit pas écrire ses propres lois, comment se serait-il occupé à faire écrire des vers dans Sparte ville pauvre et grossière? Solon régla l’ordre dans lequel les chantres dans les fêtes publiques (in queste, tali poésie non erano, apparemment, intermezzi, tanto più se si cantavano in ordine) devaient chanter les diverses poésies homériques, et Pisistrate les fit diviser ensuite en deux grands poëmes, l’Iliade et l’Odyssée. Aristarque les subdivisa en 24 livres d’après le nombre des lettres de l’alphabet grec. Alors se présenta une classe d’hommes, les diaskeuastes, espèce de censeurs ou de critiques qui cherchèrent à mettre de l’harmonie et de l’accord dans ces chants ainsi réunis et coordonnés; ils lièrent des parties détachées, levèrent des contradictions, supprimèrent des vers, des passages interpolés, etc. Mais ce travail ne fut pas fait avec assez d’art pour qu’on ne découvre des traces de leurs soudures; et leur jugement ne fut pas toujours assez sain pour qu’ils sussent distinguer ce qui appartenait à Homère d’avec les interpolations de ses successeurs. À l’exemple de Wolf, M. Müller signale plusieurs passages qui paraissent prouver que l’Iliade et l’Odyssée n’avaient point cette unité que ces poëmes presentent aujourd’hui, et qu’ils n’étaient dans l’origine que des chants lyriques détachés. Cependant Aristote ne les considéra que sous la forme qu’on leur avait donnée à Athènes, et célébra Homère comme poëte épique. Depuis, on ne vit plus dans l’Iliade et l’Odyssée que deux poëmes épiques. Assurément il règne une sorte d’unité dans chacun de ces deux poëmes; mais c’est la même qu’on trouve, par exemple, dans les romances espagnoles sur le Cid, lorsqu’on les lit de suite. Dans l’Odyssée on pourrait enlever les 4 premiers chants et la moitié du 15.e sans nullement faire tort à la marche de l’action; c’est que le poëte ne les vivait jamais reunis et n’avait jamais pensé faire un grand poëme. D’un autre côté l’Iliade et l’Odyssée ont des lacunes que les diaskeuastes n’ont pas été capables de cacher. Dans l’Iliade le i.er et le 5.e chants commencent par les mêmes récits: dans le 5.e les événemens sont racontés comme si le poëte n’en avait jamais parlé. Les débuts des deux poëmes paraissent avoir été ajoutés par les diaskeuastes. Suivant l’usage de l’ancien temps, les homérides faisaient précéder leurs chants d’une invocation religieuse. Ce sont-là les prétendus hymnes homériques qui n’ont de commun avec le grand poëte que d’avoir été chantés pour le début de ses morceaux liriques. D. G. (Depping.) Bulletin de Férussac, loc. cit. alla p. 4312. Octobre, 1824. tome 2. art. 239. p. 231-234.

In questa ipotesi, che è quasi una transazione coll’opinion comune, poichè riconosce l’esistenza di Omero, ed ammette in qualche modo l’unità di autore dell’Iliade e dell’Odissea, a differenza di Wolf che attribuisce quei poemi a vari autori, e di B. Constant, che li attribuisce a due; io ammetto assai volentieri che Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, nè anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno, cioè di fare una lunga poesia che avesse un principio, mezzo e fine corrispondenti, che formasse un tutto rispondente ad un certo disegno, che avesse una qualunque circoscritta e determinata unità. Credo che incominciasse le sue narrazioni dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta, le terminasse quando fu sazio di cantare, senza immaginarsi di esser giunto a uno scopo, senza intender di dare una conclusione al suo canto, nè di aver esaurita la materia o de’ fatti, o del suo piano, che nessuno egli n’ebbe.

Aggiungo che credo ancora che i suoi versi fossero ritmici, non metrici, fatti cioè ad un certo suono, non ad una regolata e costante misura; alla quale (mediante però l’ammissione di quelle loro infinite irregolarità ed anomalie, che furono chiamate e si chiamano eccezioni, licenze, ed ancora regole) fossero ridotti in séguito dai diascheuasti ec. Così è probabile che originalmente e nell’intenzione dell’autore fossero ritmici i versi di Dante, ridotti poi per lo più metrici nello stesso secolo, 14.o. E così, come ha provato un loro dotto editore, il Dott. Nott, che mi ha eruditamente parlato di questa materia, furono puramente ritmici i versi dell’inglese Chaucer. Lo furono ancora certamente quelli de’ più antichi verseggiatori nostri, provenzali, spagnuoli, francesi. V. p. 4334.4362.

Ma quello in cui la mia ragione non può trovare una probabilità, non solo nel caso di Omero, ma nè anche in quelli di Ossian e di qualunque altro si possa addurre in proposito, è che dei canti, certo in ogni modo assai lunghi, improvvisati p. e. a un convito o ad una festa pubblica, in mezzo a gente ubbriaca o dal vino o dalla gioia ec., da un poeta, forse ancor esso οὐ νήφοντος in quel momento, e ciò in un secolo privo di stenografi e di tachigrafi; dei canti che, secondo ogni verisimiglianza, dovevano esser dimenticati dal poeta stesso un momento dopo, anzi di mano in mano che li proferiva; si sieno, non solo quanto al soggetto, ma quanto alle parole, conservati nella memoria semplice degli ascoltanti in maniera, che trasmessi poi fedelmente di bocca in bocca per più secoli, distinti ben bene ne’ loro versi (ritmici o metrici poco vale), ora dopo 30 secoli si leggano begli e stampati in milioni d’esemplari, che li conserveranno ai futuri secoli in perpetuo. Apparentemente il Müller, che pone Omero nel secondo secolo dalla guerra troiana, (v. p. 4330. capoverso 3.) non riconosce nelle cose e nelle parole dell’Iliade e dell’Odissea, quei segni di avanzatissima civiltà e letteratura ionica o greca, che a tanti altri (come ultimamente a G. Capponi) sono sembrati così evidentissimi, certissimi ed innumerabili. Altrimenti come si potrebbe credere che quei poemi, da Omero o da altri, non fossero scritti subito? che l’uso della scrittura fosse ignoto o sì scarso in una letteratura e civiltà innoltratissima? come supporre sopra tutto una fiorente letteratura non scritta?

Ma se il Müller vuol persuadermi che i poemi d’Omero non fossero scritti (al che non farò resistenza, tanto più che è conforme alla tradizione ricevuta fra gli antichi stessi, a quel che si dice di Licurgo ec.), mi trovi qualche altro mezzo probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli d’inspirazioni e d’improvvisazioni; mi dica almeno che Omero prima di cantare i suoi versi, li componeva; che li cantava poi più e più volte (a diversi uditorii, o in varie occasioni), colle stesse parole, e quali gli aveva composti e cantati; che gl’insegnava ad altre persone, fossero del volgo, o fossero cantori e genti del mestiere, che solessero impararne da altri, non sapendo farne del loro, e col cantarli si guadagnassero il vitto. Allora, considerata anche la superiorità della memoria avanti l’uso della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e confermata dall’esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la conservazione di canti non scritti, sieno d’Omero o de’ Bardi ec.

Ma posto che Omero componesse veramente e meditatamente i suoi canti, in modo da ricordarsene esso poi sempre, e da insegnarli altrui, allora, esclusa anche ogn’idea di piano, non sarà poi fuor di luogo il supporre tra questi canti una certa tal qual relazione; il pensare che Omero nel compor gli uni, si ricordasse degli altri che aveva composti, e intendesse di continuarli, o vogliamo dire, di continuare la narrazione, senza (torno a dire) tendere perciò ad una meta. Anzi questa supposizione è più che naturale, trattandosi di canti che hanno un argomento comune: è certo che Omero nel compor gli uni di mano in mano, si ricordava de’ precedenti. E non è egli verisimile che li cantasse sovente tutti ad uno stesso uditorio, oggi un canto, domani un altro? che l’uditorio s’invogliasse di ascoltar domani la continuazione della storia d’oggi? (ricordiamoci che allora non v’erano altre storie che in versi) che Omero nel cantare i suoi diversi componimenti seguisse un ordine, quello de’ fatti? (sia il medesimo o altro da quello che si trova oggi ne’ suoi poemi) che seguisse anche quest’ordine nel comporli, cioè, che dopo aver cominciato dove il caso volle, andasse avanti immaginando e narrando, soggiungendo oggi al racconto di ieri, senza (ripeto ancora) mirar mai ad altro, che a tirare innanzi la narrazione?

Così sarà spiegata plausibilmente quella tal quale unità, quanto si voglia larga, ma sempre unità, che si trova ne’ suoi poemi, e massime nell’Odissea, nella quale bisogna pur convenire che è ben difficile il non riconoscere un legame qualunque tra le parti, una continuità nel racconto, un insieme, ed anche un principio e fine, nelle avventure romanzesche di quell’eroe. Ed osservo di più, che nell’uno e nell’altro poema, ma più nell’Iliade, moltissimi sono quei tratti di considerabile lunghezza, ai quali non si potrebbe mai dare un titolo a parte, che non fosse frivolo; staccati dal rimanente, non hanno nessuna ragionevole importanza, e riuscirebbero noiosissimi; essi non possono interessare che dipendentemente dalla relazione e connessione che hanno col resto del racconto, come accade ne’ poemi scritti con piano determinato; e in se stessi non offrono un argomento che potesse mai parer degno d’esser cantato isolatamente. Questi tratti sono troppo numerosi, troppo lunghi, e formano troppo gran parte de’ due poemi, perchè si possano credere interpolati appostatamente da’ diascheuasti per mettere de la liaison tra i canti di Omero.

Le ripetizioni, le cose inutili, le contraddizioni, oltre che a niuno potrebbero far meraviglia in poemi fatti, com’io dico, senza intenzione e senza piano, non annunziano che l’infanzia dell’arte, e non possono parere obbiezioni valevoli, anzi appena obbiezioni, a chi ha pratica e familiarità cogli scrittori antichi; dico assai meno antichi, assai più artifiziosi e dotti che non fu Omero; dico non solo poeti, ma prosatori. Quanto, e come spesso, debbono sudar gli eruditi commentatori per conciliare e por d’accordo seco stesso p. e. qualche antico storico, la cui opera fu certamente scritta, e con piano, e con materiali di fatti scritti da altri, o conservati da tradizione! V. p. 4330.

L’infanzia dell’arte in Omero, è annunziata ancora p. e. dalla sterile soprabbondanza degli epiteti, usati fuor di luogo, senza causa o proposito, e spessissimo, com’è noto, a sproposito. Lo stesso per l’appunto fanno i fanciulli quando scrivono i loro esercizi di rettorica: essi non sono mai semplici, anzi più lontani che alcun altro dalla semplicità. Così la maniera di Omero ha una certa naturalezza, ma non semplicità. Quella era effetto del tempo, non dell’autore: i fanciulli non l’hanno, perchè hanno letto, hanno che imitare, ed imitano. Ma la semplicità, come ho detto e sviluppato altrove, è sempre effetto dell’arte; sempre opera dell’autore e non del tempo. Chi scrive senz’arte, non è semplice. Omero anzi cercava tutt’altro che il semplice, cercava l’ornato, e quella sua naturalezza che noi sentiamo, fu contro sua voglia. I poeti greci posteriori hanno abbondanza di epiteti per imitazione di Omero: i più antichi però ne hanno meno, e più a proposito. V. p. 4328. capoverso 2., e la pag. 4350. fin.

Questa mia ipotesi, come si vede, sarebbe una nuova transazione fra l’opinione di Wolf e di Müller, e la comune. Secondo ambe le ipotesi, la mia e quella de’ due tedeschi, Omero sarebbe stato poeta epico senza volerlo; e sarebbe interessante e curioso il notare il modo della nascita del genere epico, nascita che verrebbe ad essere immaginaria, e pur questa semplice immaginazione avrebbe dato luogo ai lavori epici in che hanno speso la vita eccellentissimi ingegni, come Virgilio e il Tasso: non sarebbe questo il solo caso ridicolo che sarebbe stato originato dalla inclinazione dell’uomo a imitare, ed a sottomettere a regole e a forme il proprio genio. Del resto, ammessa la mia ipotesi, riman sempre luogo a qualche degna lode dell’arte di Omero per l’effetto dell’insieme dell’Iliade, benchè composta senza piano preliminare; l’effetto, dico, osservato nelle mie riflessioni sul poema epico. Ammessa però, in vece, l’ipotesi di Wolf o di Müller, tutta la lode sarà dovuta al solo caso, e risulterà dalle predette mie riflessioni che il caso è molto meglio riuscito nel formare e ordinare un corpo di poema epico, che l’arte de’ successori. E al caso si attribuiranno quelle lodi che io ho date all’arte di Omero per l’insieme del suo poema. Altra circostanza umiliante per lo spirito umano. (Firenze. 26 31. Luglio. 1828.). V. p. 4354. fine.

C’est par Aristote que commencent les écrivains qui emploient ce qu’on appelle le dialecte commun (διάλεκτος κοινή), et Démosthène lui-même n’est plus aussi pur (così puro scrittore attico) que Xénophon et Platon. Bull. de Féruss. loco cit. alla p. 4312. Juillet, 1824. t. 2. art. 13. p. 12. Sui pretesi dialetti d’Omero, v. la p. 4319. capoverso 1. (Fir. 31. Lugl. 1828.).

Alla p. 4318. Infatti Femio e Demodoco nell’Odissea cantano i loro versi narrativi accompagnandosi colla lira. Del resto queste mie osservazioni tendono a rivendicar come antica la differenza ora e da gran tempo riconosciuta fra le poesie lodative, passionate ec. dette liriche, meliche ec. e le narrative, dette epiche. (31. Lug. 1828.).

Alla p. 4326. La mancanza dell’arte necessaria per ottenere il semplice, fu una delle cause che ritardarono nella letteratura greca, già ricca di versi, la produzione di buone prose. Chi non voleva scriver plebeo, chi non era affatto ignorante, sapeva scrivere ornatamente (come sta bene in poesia), ma non (come vuolsi alla prosa) pianamente. La lingua de’ numi, dice il Courier (pref. al Sag. dell’Erodoto), era benissimo posseduta, mentre la lingua degli uomini non si sapeva ancora usare. I primi saggi di prosa greca, come quelli di Ecateo Milesio e di Ferecide, peccano principalmente, come osserva esso Courier, per il poetico che hanno, anche nella dizione. Lo stile riusciva gonfio, non se ne sapevano guardare: in poesia si trovavan più a loro agio, perchè quivi non era gonfiezza quel che lo era nella prosa. Anche Erodoto, a ben guardarlo, ha del poetico e del gonfio in mezzo alla naturalezza propria del tempo. Così noi avevamo Dante, e nessuna prosa di conto fino al Boccaccio. Le migliori erano le più plebee, scritte da’ più ignoranti, senza pretensione, senza neppure intenzione (per dir così), di scrivere. Ma i prosatori che volevano scrivere, riuscivano stranamente gonfi (in mezzo alla naturalezza effetto del tempo e della pochissima lettura), come Dino Compagni, similissimi per la meschina gonfiezza e declamazione, ai fanciulli di rettorica. (31. Lug. 1828.).

Se un buon libro non fa fortuna, il vero mezzo è di dire che l’ha fatta; parlarne come di un libro famoso, noto all’Italia ec. Queste cose diventano vere a forza di affermarle. Molti che l’affermino e lo ripetano, lo rendono vero senz’alcun dubbio. Se, per qualunque ragione, questo mezzo non si può usare, il miglior partito è di tacere, dissimulare, e aspettare se il tempo facesse qualche cosa. Ma niente di peggio che de se fâcher avec le public, gridare all’ingiustizia, al cattivo gusto de’ contemporanei, perchè non fanno caso del libro. Siano giustissime queste querele, sia classico il libro; dal momento che il suo cattivo esito è confessato e pubblicato, la miglior sorte che gli possa toccare è di essere riguardato come quei pretendenti che, privi di baionette, non hanno per se che i diritti e la legittimità. (Firenze. 10. Agosto. 1828. S. Lorenzo.).

Alfabeti. Ortografia. Difficoltà ed imperfezioni della scrittura de’ dialetti p. es. italiani, abbondanti di suoni mancanti all’alfabeto nazionale scritto ec. Arbitrario dell’applicazione dei segni di questo alfabeto ai detti suoni: due persone che si ponessero a scrivere uno stesso dialetto senza saper l’uno dell’altro, nè seguire un metodo già ricevuto, si può scommettere che non iscriverebbero una parola sola nello stesso modo. La più parte dei nostri dialetti hanno un alfabeto di suoni più ricco assai del comune. (Fir. 10. Agos. 1828.).

In letteratura, tutto quello che porta scritto in fronte bellezza, è bellezza falsa, è bruttezza. Verità fecondissima, e ricchissima di applicazioni, che occorrono ad ogni ora. (Fir. 10. Agos. 1828.).

Alla p. 4326. e il cui soggetto fu il vero, e non in gran parte il finto, come in Omero e ne’ poeti. (10. Agos. 1828.).

Dalle mie osservazioni su quel passo di Agatarchide comparato alla storiella di Muzio Scevola, si può dedurre che una delle principali fonti del favoloso trovato, massimamente dal Niebuhr, nella storia romana de’ primi tempi, sia l’avere i primi storici romani (seguiti poi dagli altri) copiato nella narrazione delle origini e de’ tempi oscuri di Roma, le storie o le favole de’ Greci, mutando i nomi. Così hanno fatto i primi storici di quasi tutte le nazioni, anche più recentemente, e ne’ bassi tempi ec. fra’ quali è insigne esempio quel Saxo nella Historia Danica. (10. Agos.).

Alla p. 4323. La presa di Troia, secondo i marmi di Paro, la cui cronologia è ora la più, anzi la generalmente seguìta, si pone nell’anno 108 avanti l’era Cristiana. Bull. de Féruss. ec. loc. cit. alla p. 4312. tom.3. art. 235. p. 275. fin. (10. Agos. 1828.). V. p. 4378.

Tutti dicono che la buona gente è rara assai. Questo in generale. Ma quando si viene al particolare, niente di più comune che il sentirsi dire di una famiglia: è buona gente, di un individuo: è un buon uomo, un buonissim’uomo. Rare volte il contrario: non sarà appena come uno a dieci. E nella pratica, io ho trovato buona gente da per tutto, anche per convivere: tanto che ora, di niente sono meno in pena che di trovar buona gente quella con cui debbo o dovrò avere a fare. Io credo che la bontà negli uomini sia men rara assai che non si crede: anzi, che abitualmente quasi tutti sieno buona gente. E credo che per trovar buona gente da per tutto, e senz’altri esami, non bisogni altro che esser buon uomo esso, ed aver buone maniere. (10. Agos. 1828. dì di S. Lorenzo. Firenze.). V. p. 4333.

Esse erano ancora in età ben giovanile, ma l’amore era scancellato dal loro volto; si vedeva che la gioventù n’era sparita per sempre. (M.lles Busdraghi). (10. Agos. 1828.).

Sur l’idiome moldave; extrait d’un manuscrit de M. le C. te d’Hauterive ( Wilkinson, Tableau de la Moldavie et de la Valachie; traduit par M. de La Roquette, 2.e édit., appendix, n. 9.) Cette langue, rude et grossière, est évidemment d’origine romaine; mais à ce sujet l’auteur établit une hypothèse particulière. Il suppose qu’il existait d’abord à Rome une langue populaire qui avait des articles, des verbes auxiliaires et toutes les formes embarrassantes qui, selon l’auteur, annoncent l’enfance de la civilisation. Pendant que les orateurs et les écrivains créèrent la langue classique, remarquable par sa précision et son élégance, la langue du peuple se propagea dans les provinces de l’empire et s’y modifia dans la suite d’après le génie, ou les relations des habitans. Ainsi, selon le comte d’Hauterive, le français, l’italien, l’espagnol, le moldave, ne sont pas dérivés de la langue de Cicéron et d’Auguste: ces idiomes ont une origine plus ancienne; ils viennent d’une langue antérieure, celle des premiers habitans de Rome. Le moldave surtout lui paraît être un reste de ce langage grossier. À l’appui de cette hypothèse l’auteur donne 6 tableaux, dont les deux premiers font connaître les temps des verbes auxiliaires être et avoir, en français et en moldave. On y voit que le moldave a des temps composés comme le français. Le troisième tableau comprend le verbe moldave iou laud, je loue. Le quatrième tableau tend à prouver que les 4 langues romaines vivantes, c’est-à dire le français, l’italien, l’espagnol et le moldave ont plus de rapport l’une avec l’autre qu’avec le latin. Il semble pourtant que ces exemples ne sont pas tous bien choisis; par exemple, le mot moldave zoon est aussi éloigné du mot français jour que du latin, et le mot moldave pugn ressemble encore plus au latin pugnus qu’au français poing. Dans le cinquième tableau l’auteur a rassemblé des mots communs aux quatre langues modernes, et qui, bien que romains, ne s’accordent pas avec le latin classique: par exemple ignis, se rend dans les quatre langues par feu , fuoco, fuego et fuoc; ensis par sabre (il fallait dire epée), sciabla, espada, sabbia; humerus par épaule, spale (sic), espala (sic), espal. Ces exemples ne prouvent pourtant pas que les 4 langues aient puisé dans un idiome plus ancien que le latin classique, car les mots cités par l’auteur peuvent tout aussi bien dater du temps de la décadence de l’empire et de la langue latine; ainsi feu , fuoco, fuego et fuoc sont du temps de la basse latinité, lorsque les mots anciens étaient déjà détournés en partie de leur véritable acception, et lorsque le mot de foyer (focus), qui désignait d’abord le lieu du feu, fut employé par les barbares pour exprimer le feu même. Enfin, dans le dernier tableau, l’auteur a voulu rassembler des mots communs au latin et moldave, et manquant aux trois autres langues, afin de prouver que le moldave ne dérive pas des langues modernes. Parmi ces exemples se trouvent verbum, verbe; magis, moi (sic). Cependant verbe et mais (autrefois dans le sens de magis) sont aussi français. Ces exemples ne peuvent donc servir de preuve. D-G. (Depping.) Bull. de Féruss. loc. cit. alla p. 4312. Févr. 1825. t. 3. art. 152. p. 118-9. (10-11. Agos. 1828.).

Alla p. 4331. E credo che i cattivi sieno assai più rari che i buoni uomini, purchè non si chiamino cattivi (come si fa sempre) quelli che trattano male noi perchè noi trattiamo male o indiscretamente loro; perchè non vogliamo, o non sappiamo (cosa frequentissima), trattarli bene.

La salute è considerata generalmente dalla società come il minimo de’ beni umani, se pur ne è fatto conto in modo veruno. Fra le mille prove (e non parlo qui d’individui, ma di corporazioni), osservate che non troverete mai un luogo, una città che sia cominciata ad abitarsi, che cresca giornalmente di popolazione, per rispetto della salubrità del sito, e neanche della clemenza dell’aria. Opportunità di commercio, vicinanza di mare, centralità, presenza della corte, mille cose fanno e che si scelga a principio un luogo per popolarlo, per fondarvi una città, e che una città cresca via via d’abitanti: ma la salubrità non mai. Non v’è città che debba la sua nascita a questa causa, nessuna che le debba il suo accrescimento. Troverete spesso un sito saluberrimo, con aria comodissima, affatto deserto, in vicinanza d’una o di più città, pessimamente situate e popolatissime. Tra Livorno e Firenze (di scellerata situazione) vedete un sito che par quasi miracolosamente favorito dalla natura; ci trovate anche una città, che è Pisa; una città che fu anche popolatissima. Livorno pel suo mare, Firenze per cento altri vantaggi, si accrescono ogni giorno prodigiosamente di popolo; e sulle loro porte, Pisa, da che ha perduto la sua potenza, il commercio, i vantaggi estranei alla salubrità, si spopola, divien sensibilmente deserta ogni giorno più. (Firenze. 11. Agos. 1828.).

Alla p. 4322. fin. Io per me sono persuaso che questo sia il vero e solo modo di render ragione delle irregolarità di misura che malgrado tutte le regole e sopraregole ed eccezioni arbitrariamente stabilite dagli antichi e dai moderni grammatici, malgrado tutti i sistemi, come quello del digamma eolico ec., si trovano sempre ne’ versi omerici. — Richard Bentley est le premier qui, s’étant aperçu de quelques irrégularités dans la mesure des vers d’Homère, supposa que ces irrégularités ne provenaient que de ce qu’on avait négligé le Digamma, dont sans doute la prononciation était tombée en désuétude quand on copia pour la première fois l’Iliade et l’Odyssée. Du Digamma dans les Poésies homériques. (Extrait d’un Nouveau Commentaire sur Homère );par M. Dugas-Montbel. Bull. de Féruss. loc. cit. Janv. 1825. art. 7. p. 9. — Le fait est que, malgré l’adoption du Digamma, on ne résout pas toutes les difficultés, et que M. Knight lui-même (Payne Knight, il quale nel 1820 pubblicò in Inghilterra un’edizione intera dell’Iliade e dell’Odissea col digamma, et avec une orthographe particulière qu’il suppose avoir été dans le principe celle d’Homère ; dopo che Upton e Salter avevano dato degli specimen di edizioni d’Omero col digamma, e che Heyne già nel suo Omero del 1802, au bas de son texte, où il suit l’orthographe ordinaire , aveva placé les mots avec le Digamma , in cui favore egli si è dichiarato) a laissé subsister des passages qui blessent son système (cioè, come si spiega in una nota, de’ passi dove una sillaba che dovrebb’esser breve, diventa lunga pel digamma; κρηγυον Ϝειπας ec.), tant il est difficile de rétablir la véritable orthographe sur de simples conjectures, et dans la privation absolue de tout monument écrit. Certainement quelque système qu’on adopte, il n’en est point qui ne présente des objections, parce que dans ces premiers âges de la poésie, où les lois de la prononciation n’étaient point encore soumises au frein de l’écriture qui les rend plus invariables, il devait y avoir une foule d’anomalies qu’on ne pouvait expliquer que par l’usage, plus fort que le raisonnement, et même que les règles de l’analogie; parce qu’enfin sous Pisistrate, quand on transcrivit pour la première fois les vers d’Homère, la prononciation avait déjà subi des altérations notables qu’il est impossible de déterminer précisément aujourd’hui. Ibidem, p. 13. — Ora con una pronunzia varia, incerta, e non ancora fissata, come supporre, come trovar possibile una misura di versi esatta e costante? — Payne Knight era morto già prima del 1824, o in quell’anno. (12. Agos. 1828.).

Sopra il digamma eolico, si trovano delle curiose e non inutili notizie nella breve Memoria di Dugas-Montbel citata nel pensiero precedente. Egli crede che le Digamma devait tenir de la prononciation du V consonne et de l’U voyelle des latins que nous prononçons ou... Si l’on observe que dans le midi de la France il n’est pas rare qu’on prononce le monosyllabe oui en faisant légèrement sentir le son du V (voui), peut-être aurait-on quelque chose d’analogue à la prononciation du Digamma . (Viceversa in Toscana spessissimo si sopprime il v, o si cambia in un’aspirazione: pióe o piohe per piove, doe per dove, ec. ec., e questo lo trovo anche scritto ne’ rusticali ec. V. p. 4365.) M. Dawes (gran partigiano del digamma ap. Omero; erudito inglese) veut que le Digamma se prononce et s’écrive comme le W anglais (Dawesii Miscellan. par. 4. p. 190. et seqq. édit. de 1817.) Je ne crois pas que certe forme ait jamais été connue de l’antiquité, cette lettre est toute du nord. Quant à la prononciation elle rentre à peu près dans celle que j’ai indiquée. p. 13-14. (12. Agos.).

Altra difficoltà enorme dell’invenzione della scrittura alfabetica: l’infinita varietà ed incertezza della pronunzia orale di qualunque lingua e parola: infinita sempre, ma più che mai avanti l’invenzione della scrittura alfabetica. La pronunzia non riceve qualche fissità se non dalla scrittura alfabetica, e viceversa l’invenzione di questa non par possibile senza una pronunzia già fissata. V. la p. qui dietro. (12. Agos.).

Alla p. 4319. Chants populaires des peuples grecs. À l’occasion de l’annonce des chants populaires de la Grèce moderne, par M. Fauriel, les Annales littéraires de Vienne, t. 26, font observer que ce recueil peut faire suite à un recueil semblable de chants serviens, publié récemment par Wuk Stephanowitsch; mais qu’il reste encore à recueillir les chants populaires de trois peuples, pour que l’on possède toute la poésie populaire de la nation grecque. Ces trois peuples sont: les Albanais, les Valaques et les Bulgares. Les Albanais, qui paraissent descendre des anciens Illyriens, doivent avoir beaucoup de chants. Il doit en être de même des Valaques de Macédoine. Quant aux Bulgares, Wuk assure positivement qu’ils ne cédent aux Serviens ni en poésies lyriques, ni en chants épiques. D’après le même auteur la langue bulgare forme une sorte de langue romane parmi les langues des 5 peuples grecs: ce que le latin a été pour les peuples d’Italie et de France, le Slave l’est encore pour les Bulgares. D-G. (Depping.) Bull. de Féruss. l. c. Janvier 1825. t. 3. art. II. p. 16-17. — Kleine serbische Grammatik. Petite grammaire servienne par Wuk Stephanowitsch, trad. en allem. avec une préface de J. Grimm, et des observations sur les chants héroïques des Serviens; par J. S. Varer (allora professore a Halla, morto a Halla 1826, linguista tedesco, famoso per aver continuato il Mithridates di Adelung, oltre ad altre opp.) Berlin; 1824. La langue servienne, trop prodigue de consonnes, est parlée par environ 4 millions d’individus, en Servie, en Croatie, en Esclavonie et en Monténégro. Elle a une quantité de poésies intéressantes dont il sera question dans un autre article. Cette langue mérite donc l’attention des savans. Wuk, auteur de la petite grammaire qui vient de paraître, a, de plus, fair imprimer à Vienne, en 1817-18, un dictionnaire servien, 36. f. in 4.o. L’auteur, nè dans le pays, était d’abord inspecteur des douanes serviennes, et, sous la domination de Czerni Georges, il occupait le poste de secrétaire du Sénat de son pays. Aucun Servien n’a peut-être étudié davantage son idiome national. On doit imprimer à Pétersbourg une trad. qu’il a fait en servien du N. Testament. Ib. Juin 1825. t. 3. art. 548. p. 439-40. — Narodne srpske pjesme skupio, ii na swijet izdao, etc. Chansons nationales serviennes, recueillies et publiées par Wuk Stephanowitsch Karadshitch. 3 vol. Leipzig; 1824. Les serviens ont une foule de chansons nationales qui n’avaient jamais été recueillies, et dont un grand nombre n’avait peut-être jamais été mis par écrit, lorsque le savant servien Wuk eut l’heureuse idée d’en faire un recueil, qu’il a porté en Allemagne, et qui y a été publié. C’est une nouveauté intéressante, qui nous fait connaître la poésie d’un peuple dont la littérature, à la vérité peu riche, existait à l’insu de l’Europe. La première partie du recueil contient une centaine de petites pièces de vers, que l’auteur appelle chansons féminines, parce que les femmes en composent et chantent beaucoup dans leur ménage. Ces pièces sont faites sans art, la plupart en vers blancs, et peut-ètre improvisées; elles sont généralement médiocres sous le rapport de la poésie. Il y en a sur toutes sortes de sujets, sur l’amour, sur la moisson, sur les fêtes du pays; on y trouve même des chansons magiques pour obtenir de la pluie, que chantent les jeunes filles en parcourant les villages. Par-ci, par-là on trouve des pensées d’un naturel agréable ou des comparaisons originales ou singulières. Les deux autres parties contiennent les chansons héroïques qui abondent chez ce peuple belliqueux. Ce sont des vers monotones, où les mêmes épithètes et les mêmes formules reviennent sans cesse. Quelquefois les aventures qu’elles chantent ont de l’intérêt. Le héros favori des Serviens, Marko, fils d’un roi, y joue un grand rôle. Les batailles y sont peintes avec une sorte de prédilection, surtout celle de 1389 qui ôta l’indépendance à la Servie. D-G. Ib. Juillet 1825. t. 4. art. 22. p. 17.

Faeroeiscke quaeder om Sigurd Fofnersbane og hans aet. Chansons des îles Foeroeer (oe, oe) sur Sigurd Fofnersbane, et sur sa race; recueillies et traduites en danois par H. C. Lyngbye, avec une introduction du prof. P. E. Müller; 592 pag. in-8.o. 1822. Dans les îles Foeroeer (oe, oe) s’est conservé un dialecte particulier de l’ancien scandinave, et dans ce dialecte le peuple conserve plus de 150 chansons qui se chantent pour la plupart sur des airs de danse, et servent en effet à accompagner celles des paysans. M. Lyngbye a recueilli onze de ces chansons; elles ont un caractère épique, et chantent Sigurd, héros célèbre dans tout le nord, et dans les romans allemands du moyen âge. Les insulaires des îles Foeroeer (ae, oe) chantent ces poésies dans leurs réunions, et se les transmettent oralement de père en fils; il est probable qu’elles sont fort anciennes. Quoique le sujet ressemble à celui de divers passages de l’Edda, il ne paraît pourtant pas qu’elles soient imitées de l’islandais; du moins l’Edda n’a point cette forme de chanson sous laquelle le roman de Sigurd est presenté dans les chants foeroeériens; en Islande, en Norvège et en Danemark, on n’a pas d’ailleurs la coutume d’accompagner la danse de vieilles chansons en petits vers tels que ceux de Foeroeer (oe, oe). Le style de ces poésies est simple et naïf; les images y sont moins hardies que dans les poésie islandaises; quelquefois on y trouve des comparaisons relatives à la nature locale de cet archipel; des yeux bleus y sont comparés avec le plumage des pigeons sauvages, qui sont de cette couleur aux Foeroeer (ae, oe). M. Lyngbye a fait de ces poésies épiques une traduction en vers, et il a expliqué dans les notes les termes qui pourraient être difficiles pour les Danois. Dans le supplément l’éditeur a inséré d’autres chansons qui n’ont pas de rapport à Sigurd, et un vieil air noté de ces îles. Il resterait maintenant à publier les autres chansons des Foeroeer (ae, oe), et peut-être aussi le vocabulaire foeroeérien (oe, oe) faisant partie d’une description de cet archipel, composée vers 1782 par M. Svaloe, et conservée en 7. vol. in-4.o. parmi les manuscrits de la bibliothèque royale de Copenhague. Ib. art. 21. p. 16-17. (12-13. Agos. 1828.). V. p. 4352.4361.

Wertheidigung des Wilhelm Tell. Defense de Guillaume Teli, par X. Zuraggen; nouv. édit. in-8.o. Fluelen, dans le canton d’Uri; 1824. La vérité de l’histoire de Guill. Tell ayant souvent été mise en doute, et notamment dans une brochure qui a paru en 1760, intitulée, Guillaume Tell, conte danois; l’auteur cherche à venger la mémoire du héros, et à démontrer son existence par des documens authéntiques. ( Journ. gén. de la littérat. étrang., septembre 1824, p. 264.) Bull. de Féruss. Mai, 1825. l. c. t. 3. art. 526. p. 422-3. (13. Agos.). V. p. 4362.

On attribue l’invention de l’alphabet mongol à Bogdo-Khotokhtou-Tchoidja-Bandida, appelé du Thibet en Mongolie par le Khan Khoubilaï-Tsétsèn-Khan, petit-fils de Gengiskhan; et sa correction au lama Tchoïdja-Ostyr, qui vivait du temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan, mort au commencement du 14 siècle, et sous le règne duquel cet alphabet fut introduit parmi les peuples mongols. Selon les écrivains mongols on n’employa jusqu’au temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan, à la cour des souverains de ce pays, que les lettres thibétaines, alors appelées Oïgoures (étrangères). Les Chinois prétendent dans l’histoire que, jusques à l’introduction d’un alphabet particulier, les Mongols s’étaient servis des caractères chinois ou ouvouitsk .

(Così moltissimi libri giapponesi sono scritti in caratteri cinesi, e questi sono anco della letteratura giapponese, i più noti, anzi quasi i soli noti agli Europei. Bulletin ec. t. 4. art. 197. Al qual proposito il Bull. di Féruss. ib. p. 175, osserva: L’emploi d’une écriture syllabique (la scrittura propria giapponese, composta di 47 sillabe primitive) dérivée de l’écriture figurative des Chinois, et l’usage qu’on fait de cette dernière en l’appliquant à une langue pour laquelle elle n’avait pas été formée (alla lingua giapponese), sont deux phénomènes capables d’intéresser les hommes qui font de l’étude des langues, un sujet de méditations philosophiques.)

Les Mongols écrivent de gauche à droite comme nous, mais perpendiculairement du haut en bas, comme on pourra le voir par l’alphabet comparé Mongol et Kalmouk. Malgré les traits qui changent souvent la forme des lettres, il est impossible de ne pas remarquer qu’elles viennent presque toutes des caractères grecs et syriaques, et par conséquent elles sont peut-être un des monumens les plus anciens qui servent à prouver la liaison des peuples qui les ont adoptées avec les peuples de l’Occident. Outre l’alphabet élète ou Kalmouk, celui des Mongols a encore donné naissance aux lettres mantchouriennes qui n’en diffèrent que par quelques légers changemens. Les Mongols avaient encore un autre alphabet inventé du temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan par un certain Lama-Pakba, dont les lettres ont été nommées carrées en raison de leur forme; mais on n’a rien pu découvrir d’écrit en ce genre. Au contraire nombre d’anciens livres mongols sont écrits en lettres de Tchoïdja-Bandida. Bull. de Féruss. ec. l. c. t. 4. art. 238. p. 242-3. septembre 1825. (13. Agos. 1828.).

Quibus actus uterque Europae atque Asiae fatis concurrerit orbis. Virg. Aen. 7. 223. Il pieno senso di questo luogo e di quell’uterque non credo sia stato mai bene inteso nè si possa intendere senza ricordarsi dell’antica divisione del mondo in due sole parti, Europa ed Asia; divisione di cui è da vedersi una dotta nota di Letronne al v. 3. dell’Iscrizione greca metrica scoperta nell’isola di Philae da Hamilton (nel Bull. de Féruss. l. c. t. 3. p. 403-2. art. 499. intitolato: Explication d’une inscription grecque en vers, découverte dans l’île de Philae par M. Hamilton. Extraite de la suite des Recherches pour servir à l’histoire de l’Égypte pendant la domination des Grecs et des Romains; par M. Letronne, de l’Institut.): il qual Letronne dice ch’ella tiene evidentemente alla geografia omerica, e mostra come fosse propria della geografia poetica greca e latina. Fu anche seguita da vari scrittori dell’una e dell’altra lingua, in prosa; e fino da Procopio, il quale comprende l’Affrica nell’Asia, laddove gli antichi la mettevano nell’Europa. V. anche Berkel. ad Steph. Byz. p. 383., ed Uckert, Geograph. der Griechen und Roemer, t. 1, parte 2. p. 280. richiamati in nota dal Letronne. (Fir. 13. Agos. 1828.).

Dalle bellissime ed acutissime osservazioni del Wolf ( Prolegom. ad Homer. par. 17. Halis Saxonum 1795, vol. I. p. LXX-LXXIII.) dalle quali risulta che, secondo ogni verisimiglianza, il principio della cultura della prosa e le prime opere di prosatori appresso i greci, furono contemporanee all’epoca in cui la scrittura appresso i medesimi divenne di comune uso, e tale da poterne far de’ volumi; anzi che scripturam tentare et communi usui aptare plane idem videtur fuisse, atque prosam tentare et in ea excolenda se ponere (p. LXXII.), il che accadde sul principio del 6. sec. av. G. C. (p. LXX.); da queste osservazioni, dico, si raccoglie la vera causa del fenomeno, in apparenza singolare, che presso tutte le nazioni, nel loro primo ingresso alla civiltà, la letteratura poetica ha preceduto la prosaica: fenomeno osservato da moltissimi, da nessuno, nè prima nè dopo Wolf, bene spiegato, e tuttavia naturalissimo, ovvio e semplicissimo. Chi potea mai pensare a comporre in prosa prima dell’uso (facile, comune, in carta o simili materie portabili, non in bronzo o marmo o legno) della scrittura? come conservare tali composizioni? Parlare in prosa, anche a lungo, si poteva, e parlavasi, raccontavasi in prosa, arringavasi, e simili, ancora in pubblico; ma nè i parlatori nè gli altri pensavano a desiderare non che a proccurar durazione a tali prose, stantechè nessuno neppur sospettava la possibilità che tali prose si conservassero, perchè la memoria non le potea ritenere. Da altra parte, gli uomini inclinati naturalmente alla poesia ed al canto, come apparisce dal vedere che quasi tutte le nazioni selvagge hanno delle poesie, poetavano e componevano in versi: da prima senza speranza nè disegno che questi si conservassero, non più che i discorsi in prosa; poi, visto che la memoria potea ritenerli, si pensò, si provvide alla loro conservazione: quando il conservarli e l’impararli fu divenuto cosa comune, quando vi furono degli uomini che ne fecero un mestiere (i rapsodi appo i greci), allora naturalmente anche la composizione de’ versi divenne una specie d’arte; fu più accurata, più colta; infine v’ebbe una letteratura poetica; e ciò senza scrittura, e mentre che la prosa, non ancora coltivata in niun modo perchè non conservabile, era affatto lontana dal poter far parte di letteratura. Quindi è naturale che quando la scrittura fu divenuta comune e però si potè comporre in prosa, questa fosse infante, mancasse l’arte, mentre la poesia era già molto avanzata; e la lingua poetica fosse già formata da più secc. mentre la prosaica era anco informe. Vedi la p. 4238. capoverso 2. V’ebbe una letteratura assai prima della scrittura, cioè del comune uso di essa ma tal letteratura non fu e non poteva essere che poetica. V. p. 4354.

Tutto ciò accadde naturalmente e non già per disegno. Ridicolo è l’attribuire a popoli bambini nella civiltà, l’acutezza di conoscere, e il desiderio di provvedere che la cognizion delle cose si trasmettesse alla posterità pel solo mezzo che allora ci aveva; versi consegnati alla memoria; e di compor versi apposta per questo fine. V. p. 4351. princip.

In quella letteratura antiscritturale, il solo modo di pubblicare i propri componimenti, era il cantarli esso, o insegnarli ad altri che li cantassero. Fuitque diu haec (ars rhapsodorum) unica via publice prodendi ingenii ( Wolf par. 23. p. XCVIII) Queste furono per più secoli le edizioni de’ greci. Tanto che anche dopo reso comune l’uso della scrittura, etiam Xenophanem poëmata sua ipsum ῥαψῳδῆσαι legamus , osserva il Wolf (ib.) citando il Laerzio, IX. 18. male inteso da altri. E forse ancora di qui venne che Erodoto, un de’ primi scrittori di prosa, anche la sua prosa (se è vero quel che si racconta; e forse questa osservazione potrebbe farlo più probabile) volle recitare in pubblico. (V. p. 4375.) Stante l’uso delle passate età, e l’assuefazione, non pareva pubblicato, edito, quello che non fosse comunicato veramente e di viva voce al popolo. Lascio che per lungo tempo dopo il detto uso della scrittura, si continuò appresso i greci la recitazione pubblica o canto de’ versi d’Omero e degli altri poeti antichi. Ac primo quidem tempore et paene ad Periclis usq. aetatem Graecia Homerum et ceteros ἀοιδοὺς suos adhuc auditione magis quam lectione cognoscebat. Paucorum etiam tum erat cura scribendi, lectio operosa et difficilis; itaque rhapsodis maxime operam dabant captique mira dulcedine cantus ab illorum ore pendebant. In clarissimis huius saeculi (secolo di Pericle) rhapsodis memoratur circa Olymp. 69. Cynaethus, Pindaro aequalis, qui Chio commigravit Syracusas, vel ibi maxime artem factitavit. ( Wolf par. 36. p. CIX.) Noti sono i rapsodi del tempo di Socrate, di Platone, (ib. p. CLXI. not. 22.) e di Senofonte, par. 23. p. XCVI. e l’autore dell’Ipparco, dialogo che va tra le opere di quest’ultimo, dice che anche al suo tempo si recitavano da’ rapsodi alle feste de’ Panatenei quinquennali, i versi di Omero, con quell’ordine che, secondo lui, da Ipparco figlio di Pisistrato era stato ingiunto ai rapsodi da osservarsi nel recitarli. E durò fino agli ultimi tempi della Grecia l’uso di recitare a memoria ne’ conviti e nelle conversazioni colte, degli squarci di poesia, or d’uno or d’altro autore; il che si chiamava ῥῆσιν εἰπεῖν e simili; v. p. 4438. e vedine il Comento del Coray a’ Caratteri di Teofr. e del Casaubono ad Ateneo. Possono considerarsi come una continuazione dell’ antica usanza rapsodica quei tanti componimenti di genere letterario ed epidittico che i sofisti e retori a’ tempi romani, e massime nel 2.o secolo, andavano declamando pubblicamente per le città della Grecia, dell’Asia, della Gallia, ora in lode di esse città, ora degl’imperatori ora degli Dei o eroi ec. del paese, or sopra argomenti di morale, di filologia nazionale ec. V. p. 4351.

Noi ridiamo di quell’antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. Certo non potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale), e vera pubblicazione. Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla. Pubblicare allora, era dare ed esporre al popolo, che oggi è straniero alle nostre edizioni. Come già Plato ( Phaedr. p. 274. E) atque alii veteres philosophi iudicaverunt inventas litteras profuisse disciplinis, sed obfuisse discentibus, adeo ut quae inventio medicamen memoriae dicta esset, eadem non immerito noxa ejus et pernicies diceretur ( Wolf, par. 24. p. CI-CII), così non sarebbe men paradosso e forse più vero il dire che la scrittura, celebrata per aver popolarizzata l’istruzione, è stata al contrario per una parte la causa di depopolarizzar la letteratura, la quale una volta non poteva vivere che presso il popolo, e di separar dal popolo i letterati, i quali già ne fecero necessariamente parte. La scrittura sola ha reso possibile una letteratura più colta, polita e perfetta, la quale di sua natura non può essere, e non sarà mai, popolare. (Oggi siamo a un punto, che per farla tale, bisogna sperfezionarla, tornarla a una specie d’infanzia, a una rozzezza, sacrificando il bello all’utile.) V. p. 4367. Nè solo la prosa, e le scritture dottrinali, ma la poesia, che da prima, come si è veduto, ebbe per suoi propri uditori il popolo; che costituì tutta la letteratura quando la letteratura fu popolare; che anche oggi si grida, e per tutti i secoli antichi e moderni, si è gridato, dover esser popolare, esserlo già essa di sua natura; la poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura; anzi esso è il genere più lontano dal popolare, e il più difficile ad esser tornato tale; anzi impossibile, se non quando la poesia di qualunque nazione e letteratura moderna, non si riformi, ma si sbandisca affatto, e se ne crei una in tutto e per tutto nuova. V. p. 4352.

Componendo senza scrivere, non fidando i propri componimenti che alla memoria ( ex eo Musarum, memorum dearum, diligens et in Iliade enixe repetita invocatio: Wolf. par. 20. p. LXXXIX.), Omero e i poeti di que’ tempi erano ben lungi dall’ aspirare all’immortalità. Quid? quod ne nominis quidem immortalitas tum quenquam impellere potuit ut ei duraturis monumentis prospiceret; idque de Hom. credere, optare est, non fidem facere. Nam ubi is tali studio se teneri significat? ubi professionem eiusmodi, ceteris poëtis tam frequentem, edit, aut callide dissimulat? (par. 22. p. XCIV.) Non si era ancora concepita l’idea dell’immortalità, molto meno il desiderio. Ben desideravasi la gloria, cioè l’onore e la lode de’ contemporanei, cioè de’ conoscenti e de’ cittadini o compatrioti, in vita e ne’ primi dì dopo la morte: stimolo ben sufficiente alle più grandi azioni. Omnino autem satis habuit illa aetas, quasi sub nutrice ludendo et divini ingenii impetum sequendo, res pulcherrimas experiri et ad aliorum oblectationem prodere: mercedem si quam petiit, plausus fuit et laus aequalium auditorum , dice il Wolf (par. 22. p. XCIV-V. e cita Oraz. Ep. II. I. 93.). E quel ch’ei dice de’ poeti di que’ tempi dee dirsi parimente de’ guerrieri, magistrati, uomini forti, giusti, virtuosi. V. p. 4352. Altro vantaggio anche questo de’ tempi Omerici, ignorare l’immortalità del nome: 1.o non erano tormentati da un desiderio sì difficile ad adempire, 2.o molto più filosoficamente e ragionevolmente di noi (come sono sempre più filosofi di noi i primitivi) limitavano i lor desiderii a quel che è sensibile, e naturale a desiderarsi, la lode dei presenti; non estendevano le loro viste al di là di quel che è concesso all’individuo, al di là dello spazio assegnatogli dalla natura, cioè della vita; in fine non si curavano di quello che nulla ci può veramente nè giovare nè nuocere, nè piacere, nè dispiacere, di quel che si penserà di noi dopo la nostra morte.

E qui è curioso e filosofico, egualmente che tristo, il riflettere che Omero senza desiderare nè aspirare all’immortalità, l’ha ottenuta; e noi che la desideriamo, noi per effetto appunto della scrittura che ci ha ispirato tal desiderio, non l’otterremo. I versi e gli eroi di Omero, fidati alla sola memoria, han varcati quasi 30 secoli, e dureranno quanto, per dir così, la presente stirpe umana, quanto la presente cronologia; i nostri componimenti ed i nostri eroi, fidati alla scrittura, che avrebbe oramai de’ milioni di componimenti e di eroi da conservare, non giungeranno appena alla generazione futura. Altro paradosso verissimo: la scrittura che sola o principalmente ha prodotto l’idea e ’l desiderio della immortalità, la scrittura considerata come istrumento di essa immortalità, la medesima moltiplicando a dismisura gli oggetti consegnati alla tradizione, sola o principalmente, ha reso a quest’ora impossibile il conseguirla. Anche i sommi uomini, scrittori e fatti si pérdono ora necessariamente nella folla: consegnati alla sola memoria, non si confondevano in gran moltitudine, e quell’istrumento in apparenza sì debole, dico la memoria semplice, sapeva ben conservarli a perpetuità. Il che non può più la scrittura. Essa nuoce alla fama, di cui è creduta il fonte e l’organo principalissimo e necessario. V. p. 4354.

Quanto alle letterature moderne in cui la poesia precedè la prosa, come l’italiana e l’inglese, la ragione di ciò è d’un altro genere. E prima bisogna distinguere. Se si tratta di versi e di prose qualunque, il fatto non è vero. Noi abbiamo prose, anche di quelle destinate e fatte perchè durassero, e che compongono una qualunque letteratura; abbiamo croniche (Ricordano, Dino ec.), leggende ec., tanto antiche quanto i nostri più antichi versi; o sarà ben difficile il provare ne’ versi un’anteriorità. Se si tratta di classici, certo Dante p. e. precedette ogni nostro classico prosatore. La ragione è che le lingue moderne in principio furono credute inette alla letteratura. E ciò è naturale: prima ch’esse fossero colte, la letteratura era considerata risiedere nella lingua colta, in quella lingua semimorta e semiviva, in cui sola si avevano buoni libri e dottrine. V. p. 4372. Quindi i prosatori che aspiravano ad esser colti, scrivevano nella lingua colta, benchè diversa da quella ch’essi parlavano. Ma il poeta ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti nella lingua nella quale egli pensa, e trova ogni altra lingua incapace di renderli. Si dice che Dante per compor la D. Commedia tentasse prima il latino, ma dovè poi naturalmente ridursi al volgare. Del Petrarca è noto. Ma essendo allora comune l’uso della scrittura, la prosa colta non poteva star troppo a tener dietro alla colta poesia. Il Boccaccio fu pochi anni dopo Dante, e solo più giovane del Petrarca; dove che le prime prose culte che si vedessero in Grecia, non si videro che 400 anni dopo l’epoca omerica. Nè questa era stata forse la prima che producesse alla Grecia delle poesie culte. Anzi tutto persuade il contrario. Quum Homerica dictio longe longeque reducta sit ab eo sono, quem in infantia gentium horror troporum et imaginum inflat, atq. in verbis et locutionib. castigata admodum, aequabili verecundoque tenore suo quasi praenunciet pedestrem dictionem proxime secuturam, quam tamen amplius tria saecula a nemine tentatam reperimus (il Wolf pone Om. 950 an. av. G. C. V. p. 4352. capoverso 2.); ita mea fert opinio, ut non cultum ingeniorum, sed alia quaedam maximeq. difficultatem scribendi arbitrer in mora fuisse, quo minus poëticam prosa eloquentia tam celeri, quam natura ferret gradu sequeretur ( Wolf, par. 17. p. LXXXI-II.) (21-22. Agos. 1828.). V. p. 4352. princ.

Alla p. 4344. fin. Quanto pensasse Omero alla conservazione della memoria de’ fatti, e a far le veci di storico, come lo chiama il Courier (v. la pag. 4318.), vedesi dalle favole di divinità, che egli senza necessità alcuna di superstizione, ma per bellezza, e manifestamente di sua invenzione, mescola a’ suoi racconti, sino a comporli di favole per buona parte. V. p. 4367.

Alla p. 4346. Sempre, o certo maggiormente e più a lungo d’ogni altra, la letteratura e i letterati greci ricercarono il popolo, lo ebbero in vista nel comporre, mirarono al suo utile e piacere, e si nutrirono all’aura del suo favore; a differenza soprattutto di quel che fece, anche nel suo più bel fiore, la letteratura di una nazione il cui stato politico pur non fu niente men popolare che quel della Grecia. Dico la letteratura romana, la quale in punto di perfezione d’arte superò la stessa greca, e forse supera tutte le letterature conosciute; ma del resto non divenne ma fu sempre essenzialmente impopolarissima. Effetto della sua stessa arte e perfezione e dell’esser essa non nata nel Lazio, ma importata. Siccome per lo contrario non è dubbio che la perpetua popolarità della letteratura greca non derivasse in gran parte da una quasi memoria della sua origine, da un’influenza esercitata da questa continuamente, dall’impulso primitivo, dallo spirito originario e non mai spento, dall’andatura presa in principio. V. p. 4354. La letteratura greca, dice il Courier (préf. du Prospectus d’une nouv. traduct. d’Hérodote) è la sola che sia nata da se nel proprio terreno, dagl’ingegni stessi de’ nazionali, non da altra letteratura. Il che non è vero parlando in universale, perchè molti altri popoli ebbero o hanno letterature autoctone, e queste appunto, come la primitiva greca, consistenti in sole poesie, e poesie non mai scritte, o scritte più secoli dopo composte (v. la p. 4319 e le ivi richiamate.). È vero però il detto del Courier rispetto alle letterature a noi più note, cioè la latina e le più colte delle moderne.

Alla p. 4350. fin. Vedi la p. 4326, capoverso 2. — Quanto ad altre nazioni, come quelle accennate nella fine della p. qui dietro, di esse non è esatto il dire che la poesia ha preceduto la prosa, ma che non hanno altra letteratura che poetica. (22. Agos. 1828.).

Alla medesima margine. Primam aetatem (Carminum Homeric.) ponimus ab origine ipsorum, h.e. tempore cultioris poësis Ionum, (circiter ante Chr. 950.) ad Pisistratum , etc. Wolf. par. 7. p. XXII. (22. Agos. 1828.).

Alla p. 4348. Nè credo io ancora che Milziade a Maratona, nè che i 300 alle Termopoli, aspirassero alla immortalità del nome, come poi, divulgato l’uso delle storie e de’ libri, vi aspirarono Filippo ed Alessandro.

Alla p. 4347. Quegli antichi potrebbero dire con gran ragione, che i loro versi, semplicemente cantati, erano pubblicati, e che i nostri libri, stampati, sono sempre inediti. V. la p. 4317, e la p. 4388. capoverso ultimo.

Alla p. 4340. Atqui tales fere ordines hominum (per totam vitam huic uni arti vacantium, ut vel pangerent Carmina, quae mox canendo divulgarent, vel divulgata ab aliis discerent) in aliis quoque populis reperimus (oltre i greci), apud Hebraeos scholas, quas dicunt, Prophetarum, tum cognatiores nobis Bardos, Scaldros (sic), Druidas. De his quidem postremis Caesar et Mela referunt (Ille B. G. VI, 14. hic III, 2. — not.), propriam eorum fuisse disciplinam, in qua nonnulli ad vicenos annos permanserint, ut magnum numerum versuum ediscerent, litteris non mandatorum. (Simile quiddam et alias saepe et nuperrime de natione Ossiani narratum est a G. Thorntono in Transactt. of the Americ. philos. Society at Philadelphia vol. III. p. 314. sqq. In illa natione etiam nunc senes esse qui tantam copiam antiquorum Carminum memoria custodirent, ut velocissimum scribam per plures menses dictando fatigaturi essent. — not.) Quam vellem tantillum nobis Graeci tradidissent de vatibus et rhapsodis suis! Nam et horum propriam quandam disciplinam et singulare studium artis fuisse, pro comperto habendum arbitror. ( Frid. Aug. Wolf. loc. cit. alla p. 4343. par. 24. p. CII-CIII.) — Haec quum ita sint, sub imperio Pisistratidarum Graecia primum vetera Carmina vatum mansuris monumentis consignari vidit. Talemque aetatem sub incunabula litterarum et maioris cultus civilis apud se viderunt plures nationes, quarum comparatio accurate instituta iis, quae hic disputamus, multum lucis afferre possit. Nam, ut duas obiter tangam, et inter se et Graecis omni parte dissimillimas, constat inter doctos, in Germania nostra, quae domestica bella et principum ducumque suorum gesta iam ante Tacitum Carminibus celebraverat[a] has primitias rudis ingenii a Carolo M. tandem collectas esse et libris mandatas; itemque Arabes non ante VII. saec. inconditam poësin priorum aetatum memoria propagatam collectionibus (Divanis) comprehendere coepisse, ipsumque Coranum diversitate primorum textuum similem Homero fortunam fateri. Praeter hos et alios populos comparandi erunt Hebraei, apud quos litterarum et scribendorum librorum usus mihi quidem haud paullo recentior videtur, quam vulgo putatur, et minus adeo genuinum corpus scriptorum, praesertim antiquiorum. Sed de his et Arabicis illis collectionibus viderint homines eruditi litteris Orientis. (par. 35. p. CLVI.)

Alla p. 4351. Per quanto le cose col progresso si alterino, corrompano, sformino e travisino, sempre conservano qualche segno della loro origine, e qualche poco dello spirito e stato loro primitivo. In Roma dove la letteratura fu impopolare in origine, anche le orazioni al popolo, che certo si pronunziavano in istile e lingua popolare, erano scritte (a differenza delle attiche) in maniera impopolarissima, perchè quando si scrivevano, entravano nel dominio della letteratura, e si scrivevano non pel popolo ma pei letterati. (23. Agos.).

Sinizesi. Dittonghi. — Dittonghi greci e vocali lunghe, avanti a vocali brevi, spesso divengono brevi perchè si suppone elisa la 2a vocale del dittongo, e l’una delle due vocali componenti la lunga. Così presso Virg. Te, Corydon, O Alexi. Pelio Ossam. Ilio alto. Ne’ quali due ultimi esempi l’o non resta eliso interamente in forza della sua duplicità, come vocale lunga. Dugas-Montbel, loc. cit. alla p. 4334. in nota. V. p. 4467.

Alla p. 4344. Divulgato l’uso della scrittura, è ben naturale che si pensasse a comporre e a scrivere nel modo il più naturale, cioè in prosa. Forse però non subito, perchè è anche naturale che le cose e i modi più semplici ed ovvi non si trovino al più presto: massime essendo inveterata, come nel nostro caso, un’usanza diversa. Del resto, riman fermo che le prime composizioni del mondo, e per gran tempo le sole, furono in versi, non per altro, se non perchè si compose assai prima che si scrivesse. V. p. 4390.

Alla p. 4349. Oggi più che mai bisogna che gli uomini si contentino della stima de’ contemporanei, o per dir meglio, de’ conoscenti; e i libri, della vita di pochi anni al più. (Oggi veramente ciascuno scrive solo pe’ suoi conoscenti.)

Alla p. 4327. Sarebbe questo il caso del Gialiso di Protogene (o di Apelle), dove l’azzardo fece meglio, anzi fece quello, che l’arte non aveva potuto. Del resto, o che Pisistrato, o che alcun altro per suo ordine, o che il suo figlio Ipparco, o che parecchi letterati di quel tempo, amici e aiutatori di questi due o dell’un d’essi (Wolf. p. CLIII-V.), fossero quei che raccolsero i versi omerici, li disposero in quell’ordine che ora hanno, e li dividessero ne’ due corpi dell’Iliade e dell’Odissea, ad essi forse si apparterrebbe tutta la lode dell’effetto che risulta dall’insieme di questi due corpi, e la creazione del poema epico, se non fosse manifesto che anch’essi crearono il poema epico senza saperlo, e non ebbero altra intenzione che di porre quei canti in ordine, di classarli e dividerli secondo i loro argomenti. I διασκευασταὶ d’Omero furono politori e limatori, che emendarono probabilmente il metro e la dizione in assai luoghi, aggiunsero, tolsero, mutarono quello che parve lor necessario, per dare unità, insieme, liaison scambievole, e continuità a quei canti. Diversi dai Critici, il cui officio fu cercare quel che il poeta avesse scritto in fatti, non quello che stesse meglio; emendare i testi, non limarli. ( Wolf. CLI-II.) Onde è diversa cosa διασκευὴ e recensio, sì in queste e sì nelle altre opere antiche. (p. CCLVI. not.) Il Wolf crede (p. CLII.) che i διασκευασταὶ, ch’egli interpreta exactores seu politores , travagliassero alla riduzione de’ canti omerici una cum Pisistrato vel paulo post. Non ne ha però alcuna prova; non si trovano menzionati che negli scoliasti; io li credo molto più recenti (perchè così mi par naturale), benchè molto anteriori, com’ei pur dice, ai critici alessandrini. Ad essi un poco più propriamente si dee dunque parte dell’effetto dell’insieme di que’ due corpi, atteso ch’in essi v’ebbe l’intenzione. V. p. 4388.

In somma il poema epico nelle nostre letterature, non è nato che da un falso presupposto. Omero, e i poeti greci di quello e de’ seguenti secoli non conobbero in tal genere che degl’inni. Quippe vocabulum ὕμνος latius patet, et saepe omne genus ἐπῶν complectitur. Unde illud in fine trium Hymnorum (homericor.), manifestum istius moris vestigium: Σεῦ δ' ἐγὼ ἀρξάμενος μεταβήσομαι ἄλλον ἐς ὕμνον ( Wolf. par. 25. p. CVII. not.) Cioè passerò a qualcuno de’ canti omerici, a cui gl’inni sacri servivano di proemii, perciò dagli antichi sovente chiamati προοίμια προοίμιον Διός, προοίμιον Ἀπόλλωνος etc. I rapsodi componevano o cantavano or l’uno or l’altro di tali proemii secondo il luogo e l’occasione del recitare gli squarci omerici, il nume protettor del paese, la solennità ec. Vedi le mie osservazioni sui 3. generi di poesia, lirico, epico, drammatico; le quali riceveranno luce altresì dalle presenti. V. p. 4460.

E in fatti il poema epico è contro la natura della poesia. 1.o Domanda un piano concepito e ordinato con tutta freddezza: 2.o Che può aver a fare colla poesia un lavoro che domanda più e più anni d’esecuzione? la poesia sta essenzialmente in un impeto. È anche contro natura assolutamente impossibile che l’immaginazione, la vena, gli spiriti poetici, durino, bastino, non vengano meno in sì lungo lavoro sopra un medesimo argomento V. p. 4372. È famosa, non meno che manifesta, la stanchezza e lo sforzo di Virgilio negli ultimi 6. libri dell’Eneide scritti veramente per proposito, e non per impulso dell’animo, nè con voglia. V. p. 4460. — Il Furioso è una successione di argomenti diversi, e quasi di diverse poesie; non è fatto sopra un piano concepito e coordinato in principio; il poeta si sentiva libero di terminare quando voleva; continuava di spontanea volontà, e con una elezione, impulso, ὁρμὴ primitiva ad ogni canto; e certo in principio non ebbe punto d’intenzione a quella lunghezza. — I lavori di poesia vogliono per natura esser corti. E tali furono e sono tutte le poesie primitive (cioè le più poetiche e vere), di qualunque genere, presso tutti i popoli.

Si obbietterà la drammatica. Direi che la drammatica spetta alla poesia meno ancora che l’epica. Essa è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, nè le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un carattere ch’ei non ha (cosa necessaria al drammatico) è cosa alienissima dal poeta; non meno che l’osservazione esatta e paziente de’ caratteri e passioni altrui. Il sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta, il solo che egli provi inclinazione ad esprimere. Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico. In fatti i maggiori geni e poeti che hanno coltivata la drammatica, (coltivata perchè l’hanno creduta poesia, ingannati dal verso, come Virgilio fece un poema epico perchè credè che Omero ne avesse fatto), peccano sempre in questo, di dar se stessi più che altrui. V. p. 4367. L’estro del drammatico è finto, perch’ei dee fingere: un che si sente mosso a poetare, non si sente mosso che dal bisogno d’esprimere de’ sentimenti ch’egli prova veramente V. p. 4398. Noi ridiamo delle Esercitazioni de’ sofisti: che avrà detto Medea ec. che direbbe uno il quale ec. Così delle Orazioni di finta occasione, come tante nostre del 500, cominciando dal Casa. Or che altro è la drammatica? meno ridicola perchè in versi? Anzi l’imitazione è cosa prosaica: in prosa, come ne’ romanzi, è più ragionevole: così nella nostra commedia, dramma in prosa, ec.

L’imitazione tien sempre molto del servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa, metterla colla pittura ec. Il poeta immagina: l’immaginazione vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta. Quum philosophus ille (Plato), primus, ut nobis videtur, ex aliquot generibus, maxime scenico,poëticae arti naturam affingeret μίμησιν etc. Primariam illius sententiam de arte poëtica suscepit Aristoteles in celebratiss. libello, correctam quidem passim a se, verum ne sic quidem explicatam, ut cuique generi Carminum satis conveniret; adeo didascalicum genus ab eo prorsus excluditur. Neque post Aristot. quisquam philosophor. veram vim illius artis aut historicam interpretationem recte assecutus videtur. ( Wolf. 36. p. CLXIV-V.). Questa definizione di Platone, definizione di quel genere dialettico, esercitativo, anzi ludicro, secondo cui egli metteva p. e. la rettorica colla μαγειρική ec. (v. il Gorgia, e il Sofista, specialmente in fine.), è la sola origine di questa sì inveterata opinione che la poesia sia un’arte imitativa. V. p. 4372. fine.

Ma, lasciando questo discorso ad altra occasione, basta ora rispondere che in origine e presso i greci (come tutte le cose in origine sono più ragionevoli), i drammi furono assai più brevi componimenti che ora, e quasi senza piano, cioè con intreccio semplicissimo. Omnino vero utilissimum esset, undecumque collecta unum in locum habere, quae in libris veterum vel praecepta de arte poëtica, vel iudicia de poëtis suis sparsim leguntur. Docerent ea, ni fallor, cum optimis, quae exstant, Carminibus comparata, quam sero Graeci in poeti didicerint totum ponere, ac ne Horatium quidem, qui illud praecipit, eius praecepti eosdem fines ac nostros philosophos constituisse. Erunt ei praecipue haec disquirenda, qui dramata Graecorum ad antiquae artis leges exigere volet. Quodsi in his saepius ab historica ratione deflexit Aristoteles, tanto magis admiranda est viri perspicacitas, qua saeculum suum praecucurrit. V. p. 4458. ( Wolf par. 29. p. CXXV. not.)

Del resto, vedesi insomma che l’epica, da cui apparentemente derivò la drammatica[a] (anzi piuttosto da’ canti, non ancora epici, ma lirici, de’ rapsodi: Wolf.), si riduce per origine alla lirica, solo primitivo e solo vero genere di poesia: solo, ma tanto vario, quanto è varia la natura dei sentimenti che il poeta e l’uomo può provare, e desiderar di esprimere. (29. Agos. 1828.). V. p. 4412. fine.

Quanti errori, assurdi, contraddizioni per aver voluto giudicare Omero secondo i costumi, le opinioni, le instituzioni moderne o più note, ed applicarle a’ suoi poemi! Si è supposta in lui una mostruosa mescolanza di dialetti, perchè il dialetto o lingua ch’egli usò, si divise poi in più dialetti diversi. V. p. 4405. Si è creduto ch’egli fosse esattissimo pittore de’ costumi eroici, greci e troiani, quando in fatti egli non ha dipinto che i costumi de’ suoi propri tempi, ed ai troiani ha dato nomi e costumi greci. V. p. 4408. fin. ( Necesse haberem longam disputationem ingredi de omni ratione qua Homerus in descriptione heroicae vitae versari solet. Non enim apud illum nisi bis terve hoc genus reperio eruditae artis, quod poëtae cultiorum aetatum affectant, quum superiorum fabulosa gesta scenae reddentes cavent sedulo, ne priscam sinceritatem novis moribus infucent, quo facilius lectorib. vel spectator., propter antiquitatis peritiam incredulis, imponant, eosque rebus ac personis, quibus cummaxime volunt, interesse et tota mente quasi cum illis vivere cogant. Wolf. loc. cit. alla p. 4343. par. 1. p. XCII. arte non posseduta neanche dai drammatici greci. Scilicet, ut nihil dicam de more Tragicorum (graec.), novas consuetudines in heroicum aevum transferendi , ec. par. 19. p. LXXXIII. not.): e poi nel tempo stesso, come se Omero avesse avuto e descritto opinioni caratteri e costumi moderni, egli è stato ripreso per le assurdità, le inumanità ec. che a giudicare i suoi poemi secondo queste opinioni e costumi, vi si ritrovano. (V. le mie osservazioni sopra il dritto delle genti a que’ tempi, la compassione, il patriotismo ec. ec.) Altro di questi errori vedilo p. 4383-4. Finalmente gli si è attribuita un’intenzione e un’arte di poema epico, ch’egli non ha mai avuta, e che gli è d’assai posteriore; e poi egli è stato straziato, deriso ec. perchè i suoi poemi in mille cose si son trovati lontanissimi dal rispondere alle regole di quest’arte, che noi dicevamo aver cavate da essi; a quel piano, che noi abbiamo formato ed attribuito loro; a quell’unità che noi abbiam fatto l’onore di prestar loro ec. (31. Agos. 1828.). Ma ben in cose più gravi di queste, ad errori ed assurdi ben più dannosi, ci ha tratti e trae di continuo la nostra frenesia di volere accomodare ogni cosa al nostro modo di vedere, e spiegare ogni cosa secondo le nostre idee. (30. Agosto. 1828.).

M. Bilderdijk, poeta il più riputato degli Olandesi viventi, ed anche famoso erudito e scienziato (viveva 1826.), in una memoria van het Letterschrift (sur les caractères d’écriture), in-8.o. Rotterdam 1820., adhère à l’opinion que les anciens alphabets ne contenaient que des consonnes. ( Bull. de Féruss. loc. cit. alla p. 4312. t. 6. 1826. art. 152. p. 183.) Questo però per ragioni e spiegazioni diverse da quelle da me addotte altrove. (31. Agosto 1828.).

Alla p. 4340. Il a paru cette année (1824.) à Leipzig un livre qui doit attirer l’attent. des amat. de la littér. slavonne. C’est un recueil de chansons serviennes en 3. vol. publié par Vouk Stéphanovitch littérateur servien très connu et auteur d’une grammaire et d’un lexique servien. Voici le compte qu’en a rendu le journal des savans de Goettingue (1823. n. 177. et 178.) «Ces chants serviens n’ont point été émpruntés aux vieilles chroniques; ils ont été recueillis de la bouche même du peuple. Comme ils ne furent jamais écrits, jamais non plus ils n’ont ni vieilli ni ne sauraient vieillir». Ib. t. 5. Janv. 1826. art. 24. p. 26. (31. Agos. 1828.). V. p. 4372.

Vouk Stéphanovitch et quelques autres littérateurs serviens modernes ont cru bien faire d’introduire de nouvelles lettres ainsi qu’une orthographe étrangère tout-à-fait barbare chez les Slaves. Pourquoi ne pas s’en tenir à l’ancien alphabet cyrillien? (V. il pensiero precedente e quelli a cui si riferisce). Ib. extrait du Fils de la patrie (Giorn. russo), n.26, p. 241, 1824. (31. Agos. 1828.).

Commentatio historico-critica de Rhapsodis. in 4.o. de 22 pag. Vienne 1824. Cet opuscule contient, en premier lieu, l’étymologie du mot ῥαψῳδὸς. ἀπὸ τοῦ ῥάπτειν τὴν ᾠδὴν, ou ἀπὸ τοῦ ἐπὶ ῥάβδῳ ᾀδειν. L’Auteur expose ensuite les raisons qui lui font adopter cette étymologie. ῾Ράπτειν ᾠδὴν est expliqué d’après Wolf (par. 23. p. XCVI. not. dei Prolegom. ec.): Carmina modo et ordine publicae recitationi apto connectere . V. p. 4366. Ὁμηρισταὶ et Ὁμηρίδαι sont désignés comme synonymes dans le sens de ῥαψῳδοὶ. Viennent ensuite des obss. historiques sur l’art des rhapsodes grecs, divisées en 4 périodes. La 1. va jusqu’à Homère; la 2. comprend l’âge d’or des rhapsodes, jusqu’à Pisistrate; la 3, l’âge d’argent, jusqu’à Socrate; la 4, l’âge d’airain, s’occupe de la dégradation de l’art des rhapsodes. L’énumération des rhapsodes distingués termine cet opuscule. Ib. Mars, art. 231. p. 170. (Agos. 1828.).

Alla p. 4312. Plusieurs peuplades de l’Afrique, de l’Amérique ou de la Polynésie, chez lesquelles une écriture tout-à-fait étrangère s’est introduite avec la prédication du christianisme, lorsque leur langage avait été élaboré, dans l’absence de toute écriture, pendant une longue suite de siècles, pouvaient etc. Ib. 1826. t. 5. p. 338-9. art. 485.

Alla p. 4340 fin. Dissertatio, histor. inaug. de Guilielmo Tellio, libertatis Helveticae vindice, quam examini submittet J.7J. Hisely. In 8.o VIII et 69. pag. Groningen, 1824. ( Bek’s Allg. Repertor., 1825., 1.r vol., p. 213.)... Dans le chap. 2. l’aut. examine les faits historiques attaqués par Freudenberger. Il résulte de cet examen que G. Tell est injustement accusé d’homicide. Ib. 1826. t. 6. art. 138. p. 162. V. p. 4372.

Alla p. 4322. fin —. M. Granville Penn donne lecture (à la séance du 21 juin 1826, de la Société royale de Littérature de Londres) d’une notice intéressante sur le mètre du premier vers de l’Iliade. Des éditeurs et commentat. modernes se sont efforcés de démontrer que ce vers pouvait être rendu métrique (chi ne dubita, alterandolo a piacere?); cependant une grande autorité classique ( Plutarque, de Profect. virtut. sentiend. c. 9,) le déclare non-métrique (ἄμετρον). (E così chiamano gli antichi molti altri de’ versi d’Omero. V. p. 4414.) Pour le rendre métrique, dans leur sens, suivant la construction ordinaire du vers, ils ont contracté δεϊω, du mot πηλήίαδεϊω, (sic) en δω. Dans un autre passage Plutarque, expliquant dans quel sens il appelle ce vers non-métrique, avance que le 1.r. vers de l’Il. contient le même nombre de syllabes que le 1.r. vers de l’Odyssée, et qu’il en est de même du dernier vers de Il. à l’égard du dernier vers de l’Od. ( Sympos., l. 9., c. 3.) Or, le 1.r vers de l’Odys. se compose de 17 syllabes; savoir de 5 dactyles et d’un spondée, nombre exact contenu dans le vers, Μῆ-νιν ἄ-ει-δε, Θε-ὰ, Πη-λη ί-α-δε-ω Α-χι-λῆ-ος. C’est pourquoi M. Penn pense que le poëte, en articulant le vers, fit une pause au pentamètre, qui se termine par Θεὰ, et renouvela l’arsis sur la syllabe suivante: Μηνιν α ἣ ειδε, Θε ἣ ὰ, Πηλη ἣ ιαδε ἣ ϊω Αχι ἣ ληος. L’auteur soutient qu’il y a, malgré la transgression des lois du mètre, dans la réplétion et la volubilité du vers exordial, une magnificence d’images semblable à la première irruption des eaux d’une rivière, au moment où l’on ouvre l’écluse qui les retient, et avant que ces eaux, reprenant leur pente naturelle, coulent d’un cours uniforme et régulier; ce qui paraît beaucoup plus analogue au début de ce poëme majestueux, que le mètre rigoureusement mesuré qu’on lui a imposé. Bull. etc. 1826. t. 6. art. 207. p. 239. Il principio dell’Iliade, secondo Müller (v. la p. 4321. lin.16.) non è di Omero, ma aggiunto da’ διασκευασταὶ. Se ciò è vero, che dir de’ versi dell’eta omerici, se si trovano ametri anche quelli di tempi posteriori a Pisistrato?

Alla p. 4170. fin. La casa delle pitture, c’est ainsi qu’on nomme une maison découverte à Pompéi à cause des fresques quelle offre, les plus belles et les mieux conservées de toutes celles qu’on a trouvées jusqu’en ce moment. Le 12 février 1825, on commença à débarrasser l’entrée de cette maison. On trouva sous la porte un fragment de mosaïque d’un travail médiocre. Il représente un grand chien, la chaîne au cou, dans la position de défendre l’entrée de la maison. Au bas se trouvent les mots suivans: cave canem. Bull. de Féruss. loc. cit. alla p. 4312. janv. 1826. t. 5. art. 4.o. p. 45. (2. Sett. 1828.).

M. Letronne (Nouvel examen de l’inscription grecque déposée dans le temple de Talmis en Nubie par le roi nubien Silco [a]. (iscrizione illustrata già innanzi da Niebuhr Inscription. Nubiens. Romae 1820.) Journal des Savans, 1825.) examine ensuite pourquoi la langue grecque est employée dans l’inscription; ce qu’il explique par l’introduction (parmi les Nubiens) des livres saints et des liturgies écrites en cette langue. En effet, le style même de l’inscription, ces tournures bibliques, byzantines et d’une moderne grécité, prouvent assez clairement que l’usage de la lang. gr. n’a eu lieu dans ces contrées qu’après, ou plutôt à cause de l’introduct. de la rel. chrétienne. ... De toutes les inscriptions grecques païennes examinées par M. Letronne, il ne s’en est trouvé aucune au delà des limites de l’empire romain; une fois cette ligne franchie, tout ce qui est écrit en grec exprime des idées chrétiennes. Ainsi M. Letronne, après avoir prouvé (contro l’opin. di Niebuhr) par une foule de rapprochemens philologiques sur le style de l’inscript. , qu’elle appartenait à un roi chrétien, prouve ensuite que... ce n’est qu’au christianisme qu’on doit la connaissance de la lang. grecq. dans ces contrées. Bull. de Féruss. l. c. alla p. 4312. janv. 1826. t. 5. art. 36. p. 40-41. Altro mezzo di universalità per la lingua greca a quei tempi. L’iscrizione secondo Letronne non è più antica della metà circa del 6.o. sec. Niebuhr, che la fa pagana, la mette alla fine del sec. 3.o. (2. Sett. 1828.). V. p. 4471.

Alla p. 4336. marg. Trovo anche ne’ Rusticali caallo, portaa per portava, e infiniti simili, sempre. Di qui viene ancora l’imperf. dicea, sentia ec. per diceva ec. adottato nella lingua scritta, ma che non si ode mai se non in Toscana. Va’hia per vai via, cioè va via (imperativo,): volgo toscano. (2. Sett. 1828.).

Chi suppone allegorie in un poema, romanzo ec.; come sì è tanto fatto anticamente e modernamente nell’Iliade e Odissea; come fece il Tasso medesimo nella sua Gerusalemme; come ora il Rossetti nel comento alla Divina Commedia che si stampa in Londra, la vuol tutta allegorica, allegorico il personaggio di Francesca da Rimini, allegorico Ugolino ec.; distrugge tutto l’interesse del poema ec. Noi possiamo interessarci per una persona che sappiamo interamente finta dal poeta, drammatico, novelliere ec.; non possiamo per una che supponghiamo allegorica. Perchè allora la falsità è, e si vede da noi, nell’intenzione stessa dello scrittore. (2. Sett. 1828.). V. p. 4477.

Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de’ pregi e de’ piaceri di essi ec. ec., non si torrà dagli studi ogni diletto, perchè anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli. Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno; si scemerà di moltissimo la facoltà di dilettare che ha questo bellissimo trattenimento della vita: quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (e non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile.

Alla p. 4362. Alterum errorem iam sublatum puto (cioè già riconosciuto generalmente dagli eruditi), quo ex falsa notatione nominis ῥαψῳδοῦ collegerunt quidam, versatam esse operam eorum in versib. passim excerpendis et consarcinandis ad modum Centonum, quales ex Hom. a sanctis animis facti extant ridiculae ineptiae in summa gravitate rerum. Wolf. par. 23. p. XCVI-II. Tolto questo errore (che per altro è ancora comune nel volgo degli studiosi), il solo nome di rapsodi e di rapsodie sarebbe dovuto bastare ad avvertirci che le poesie omeriche non furono che canti staccati; siccome la tradizione costante dell’antichità che da Pisistrato, o per suo ordine, fossero primieramente raccolti e ordinati come ora sono i versi d’Omero, ( Wolf. par. 33.), doveva bastare a mostrarci sì la suddetta cosa, e sì che Omero e gli altri non lasciarono scritte quelle poesie. Pure per iscoprir queste verità ci è voluto acume grande, per avanzarle ardire, e fino a Wolf è avvenuto in questa ciò che avviene ancora in mille altre cose, e talune più gravi assai, che gli uomini non hanno alcuna difficoltà di conciliare, o piuttosto di congiungere ciecamente insieme credenze e nozioni incompatibili.

Alla p. 4347. È cosa dimostrata che il piacer fino, intimo e squisito delle arti, o vogliamo dire il piacere delle arti perfezionate (e fra le arti comprendo la letteratura e la poesia), non può esser sentito se non dagl’intendenti, perch’esso è uno di que’ tanti di cui la natura non ci dà il sensorio; ce lo dà l’assuefazione, che qui consiste in istudio ed esercizio. Perchè il popolo, che non potrà mai aver tale studio ed esercizio, gusti il piacer delle lettere, bisogna che queste sieno meno perfette. Tal piacere sarà sempre minore assai di quello che gl’intendenti riceverebbero dalle lettere perfezionate (altrimenti non sarebbe in verità un perfezionamento quello che le mette a portata de’ soli intendenti); e quindi ci sarà perdita reale; ma a fine che la moltitudine riacquisti il piacere perduto, e del qual solo ella è capace. V. p. 4388.

Alla p. 4357. Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è il più alieno di tutti i generi di letteratura, perchè è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro.

Alla p. 4351. È anche insufficiente il dire che la lingua dell’immaginazione precede sempre quella della ragione. Nel nostro caso, cioè nella Grecia a’ tempi di Solone, ed anche a’ tempi stessi d’Omero, già molto colti, (e similmente in tutti i casi dove trattasi di poesia e di prosa colta e letteraria), l’immaginazione avea già dato alla ragione tutto il luogo che bisognava perchè questa potesse avere una sua lingua. (5. Sett. 1828.).

Col perfezionamento della società, col progresso dell’incivilimento, le masse guadagnano, ma l’individualità perde: perde di forza, di valore, di perfezione, e quindi di felicità: e questo è il caso de’ moderni considerati rispetto agli antichi. Tale è il parere di tutti i veri e profondi savi moderni, anche i più partigiani della civiltà. Or dunque il perfezionamento dell’uomo è quello de’ cappuccini, la via della penitenza. (5. Sett. 1828.).

I detti, risposte ec. che Machiavelli attribuisce a Castruccio Castracani (nella Vita di questo), sono tutti o quasi tutti gli stessissimi che il Laerzio ec. riferiscono di filosofi antichi, mutati solo i nomi, i luoghi ec. Machiavelli del resto non sapeva il greco, poco o nulla il latino, ed era poco letterato. Non sarebbe maraviglia ch’egli avesse seguito una tradizione popolare che avesse conservati que’ motti mutando i nomi, e attribuendoli al personaggio nazionale di Castruccio, noto per singolare acutezza e prontezza d’ingegno. Il popolo fiorentino racconta ancora di Dante e dello stesso Machiavello vari tratti che si leggono negli antichi greci e latini, come quello di Esopo che diede un asse a chi gli tirò una sassata ec., il qual tratto (con modificazioni accidentali e non di sostanza) si racconta dal volgo in Firenze di Machiavelli. (Tengo queste cose da Forti e da Capei). Così non solo le nazioni, ma le città, tirano alla storia ed a’ personaggi propri, e in somma alle cose ed alle persone a se più cognite, i fatti delle storie altrui, noti al volgo per antiche tradizioni orali. A Napoli resta ancora in proverbio la sapienza e dottrina di Abelardo: ne sa più di Pietro Abailardo (Capei). In ogni modo quel libro di Machiavelli farebbe sempre al mio proposito molto bene. V. p. 4430.

Ed allo stesso proposito spetta quell’uso antichissimo e continuato perpetuamente, di attribuire agli autori più celebri le opere di autori anonimi, o sconosciuti, o di nome poco famoso; le opere, dico, appartenenti a quel tal genere in cui quegli autori hanno primeggiato; e ciò specialmente quando quegli autori sono i modelli e i capi d’opera nel genere loro. Quindi i tanti poemi attribuiti falsamente ad Omero, dialoghi morali ec. a Platone, opere filosofiche ad Aristotele, orazioni a Demostene, omelie, comenti scritturali ec. a S. Crisostomo S. Agostino ec. V. p. 4414. 4416. Quanto un autore è più celebre e primo nel suo genere, tanto è più copiosa la lista de’ suoi libri apocrifi. Raro fra gli antichi o ne’ bassi tempi quell’autore celebre, o riconosciuto per primo nel suo genere o nel suo secolo, che non abbia oppure spurie apocrife, esistenti o perdute. I detti Padri ne hanno quasi altrettante quante sono le genuine. Così Platone ec. Di molte di queste la critica non può scoprire i veri autori; altre si trovano o citate, o anche in alcuni loro esemplari, coi veri nomi, e nondimeno comunemente vanno sotto i nomi falsi, perchè i veri son di persone poco note.

Dans le ms. de Paris, qui, suivant les critiques, est le plus ancien et le meilleur, l’ouvrage a pour titre Διονυσίου Λογγίνου περὶ ὕψους; mais dans l’index, qui est écrit de la même main, comme le reste du ms. (qui contient en outre les problèmes d’Aristote), on le qualifie de Διονυσίου ἢ Λογγίνου περὶ ὕψους. Le cod. vaticanus que Amati appelle praestantissimus, donne dans cette dernière forme le nom de l’auteur; et dans le ms. de la bibl. laurentiane, l’inscript. Porte Ἀνωνύμου περὶ ὕψους. Bull. de Férus. l. c. alla p. 4312. tom.8. p. 11. art. 12. 1827. juill. — Essendo incerto ἀνώνυμος l’autore di quel trattato, fu detto: egli è di Dionisio d’Alicarnasso o di Longino: non per altro se non perchè nella media grecità questi furono i retori tecnici più conosciuti, i capi del genere rettorico. Esempio insigne del modo con cui si procedeva in simili attribuzioni: di Dionisio o di Longino: quasi vi fosse alcuna analogia fra lo scrivere di Dionisio, autore del 1. secolo, e quel di Longino ch’è del 3. Intanto la Critica riconosce manifestamente e senza molta fatica che quel trattato non può essere nè dell’uno nè dell’altro. (Bull. ec. ibidem.) — Weiske e l’autore di un libro pubblicato a Londra 1826. intitolato Remarks on the supposed Dionysius Longinus, riportano quel trattato al secolo d’Augusto. Amati l’attribuisce veramente a Dionisio d’Alicarnasso, non avendo osservata (come non l’ha nessun altro) la vera ragione per cui i mss. parig. e vatic. hanno il nome di Dionisio; e che, oltre la totale differenza dello stile, quel trattato è contro Cecilio Calattino, il quale fu amico di Dionisio Alicarnasseo, cosa parimente non osservata da altri. V. p. 4440.

Les amours de Cydippe et d’Acontius nous sont connues, surtout par les lettres qu’Ovide leur attribue dans ses Héroïdes. Callimaque fut la source où puisa Ovide: M. Buttmann (Ueber, die Fabel der Kydippe. Sur la fable de Cydippe, par Philippe Buttmann. Mémoir. de l’Acad. de Munich; to. 9. ann. 1823-1824., partie philologiq., p. 199-216.) rassemble et discute les fragmens de ce dernier poëte, où il est question de Cydippe. Cette fable, si nous en croyons le savant professeur, est identique avec l’histoire de Ctesylla (sic) et d’ Hermochares, rapportée par Antoninus Liberalis et Nicander Bull. etc. juill. 1827. t. 8. art. 34. p. 35. — E quante altre favole, o racconti appartenenti a tempi mitici o eroici, si trovano ripetuti con diversi nomi e luoghi in diversi scrittori, non solo greci e latini, ma anche greci solamente! — Codro, Eretteo ec. I Deci ec.

Le combat de trente Bretons contre trente Anglais, publié d’après les manuscrits de la Bibliothèque du roi, par M. Crapelet, imprimeur. Paris, 1827. Long-temps l’authenticité de ce combat fut contestée, et on n’avait pu produire jusqu’ici qu’un seul ms. de 1470, conservé dans la bibl. de Rennes. L’heureuse découverte du récit en vers du Combat des Trente, faite dans un recueil de pièces mss. de la Bibl. du Roi, par le chev. de Fréminville, donna lieu, en 1819, à une première publication d’un nouveau document; mais il était important que le texte fût reproduit avec la plus scrupuleuse exactitude. M. Crapelet a complété tout ce que laissait désirer à cet égard la 1. édit. Il a fait suivre cette publication d’une traduct. littérale du poëme et d’une autre relation du combat, extraite des chroniques de Froissart. L’ouvrage est orné d’une planche représentant le monument élevé en mémoire de ce combat, et les armoiries des 30 chevv. bretons, dessinées d’après les armoriaux de la Bibl. du Roi, et d’autres armoriaux particuliers et inédits. (Ib. t. 8. p. 389-90. art. 407. octob. 1827.) — V. nel Guicciardini ec. il famoso combattimento dei 10 italiani e 10 francesi all’assedio di Barletta sotto il Gran Capitano; e quello di un Bavaro e di un italiano nel Giambullari, riferito nella mia Crestomazia, p. 23. — Orazi e Curiazi ec. (9. Sett. 1828.).

Hordeum — fordeum. V. Forcellini .

Alla p. 4350. marg. I sonetti, canzoni ec. ed anche lunghi poemi in istile e forma puerile, di cui abbondavano prima di Dante le lingue volgari, non solo italiana ma francese spagnuola ec., non costituivano e non erano considerati costituire una letteratura. V. p. 4413.

Alla p. 4356. L’entusiasmo l’ispirazione, essenziali alla poesia, non sono cose durevoli. Nè si possono troppo a lungo mantenere in chi legge.

Alla p. 4361. Di queste poesie serviane sono state fatte, dopo la pubblicazione di Wuk, delle traduzioni ed imitazioni in tedesco. Ib. févr. 1827. art. 156. p. 124. t. 7. V. p. 4399.

Alla p. 4362. Guillaume-Tell et la Révolution de 1303; ou Histoire des 3 premiers cantons jusqu’au traité de Brunnen, 1315, et réfutation de la fameuse brochure Guillaume-Tell, fable danoise (répétée dans cet ouvrage); par J.7J. Hisely, D.r en philosophie et belles-lettres. In 8.o Delft 1826. (Ib. févr. 1827. t. 7. art. 210. p. 182.)

Alla p. 4358. Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla , ec. vera definizione del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. (10. Sett. 1828.). Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è più poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla. (10. Sett. 1828.).

L’auteur ( M. Faber. Synglosse, oder Grundsaetze der Sprachforschung. Synglose, ou Principes des recherches sur les langues, par Junius Faber. 213. p. in-12.o. Carlsruhe, 1826.) a été amené par tous ces rapprochemens à conclure qu’il n’y a qu’une seule langue, et que ce que l’on nomme ordinairement langues, ne sont que les dialectes de cet idiome unique, dans lequel la forme, et non pas le fond ou l’essence des mots s’est modifiée; enfin, que cette essence des mots est contenue dans les racines qui ont existé dès le commencement, et dont on peut prouver l’origine par des raisonnemens physiologiques. Depping. Bull. etc. l. cit. alla p. 4312. Mars, 1827. t. 7. art. 231. p. 202.

M. Kärcher ne doute pas que les langues connues ne proviennent toutes d’une langue primitive; il se propose etc. encouragé par le suffrage de M. Goulianof, qui se propose, dit-il, de démontrer la certitude de cette dérivation universelle des idiomes d’un seul qui fut la souche de tous. Il se pourrait que des critiques d’une autorité au moins égale à celle de M. Goulianof, fussent d’un avis tout opposé. Quoi qu’il en soit, et M. Kärcher est bien le maître de préférer son opinion à celle des autres, etc. Champollion-Figeac. Ib. Décem. 1827. t. 8. art. 430. p. 410. (10. Sett. 1828.).

M. Lindemann ( Novus thesaurus latinae linguae prosodiacus. in 8.o Zittaviae et Lipsiae, 1827.) s’est aussi attaché à la vieille prosodie (latine), à celle qui précéda Ennius, et qui est bien différente de celle que l’on nous enseigne aujourd’hui, ainsi que l’ont démontré des critiques modernes, et surtout M. Hermann. Bull. de Féruss. l. cit. alla p. 4312. mars, 1827. t. 7. art. 253. p. 221. È dunque ragionevole quel ch’io dico altrove della mutata pronunzia prosodiaca greca a’ tempi romani, de’ sofisti ec. e della sua influenza sulla struttura de’ periodi ec. (11. Sett. 1828.).

Observations sur le meilleur système d’orthographe portugaise; par Rodr. Ferreira da Costa. ( Memor. da Acad. real das scienc. de Lisboa, tom. 8, part. 1, p. 102.) En 1820 l’Académie de Lisbonne résolut de rédiger un vocabulaire orthographique pour son usage. À ce sujet un de ses membres a cru devoir poser les principes d’après lesquels il faudrait procéder. Il rappelle d’abord les divers systèmes auxquels on a ordinairement recours; les uns veulent écrire comme on prononce, d’autres veulent qu’on reste fidèle à l’étymologie, d’autres encore préfèrent l’usage général, d’autres encore combinent ces 3. systèmes, ce qui en fait un 4.e L’auteur en examine les avantages et les inconvéniens: ec. Ib. septem. 1827. t. 8. art. 216. p. 217. Risulta dalle sue osservazioni che l’ortografia portoghese non è ancora fissata. (11. Sett. 1828.).

Alla p. 4345. Quaestiones Herodoteae; par le docteur C. 7G.7L. Heyse. Part. 1. De vitâ et itineribus Herodoti; in 8.o de 141. p.; Berlin, 1827. — sect. 2. De recitatione, quam Olympiae habuisse fertur Herodotus ol. 81. sect. 3. Vitae decursus usque ad ol. 84, de recitatione Athenis habitâ, deque ec. Bull. etc. Déc. 1827. t. 8. art. 425. p. 408. (11. Sett. 1828.). V. p. 4400.

Lingua universalis communi omnium nationum usui accommodata; per A. Rethy. In 8.o. de 144. pag. Vienne, 1821. ( Leipzig. Liter. Zeitung; avr. 1827, p. 758.) Bien que ce projet, de créer une langue universelle, contienne plusieurs bonnes idées, il n’offre cependant qu’une nouvelle preuve en faveur de l’opinion que la solution de ce grand problème restera inexécutable, tant que les sciences philosophiques ne seront point portées à un plus haut degré de perfection. L’auteur s’étant attaché à reporter la construction de sa langue à celle de la langue qu’il affirme primitive, a fait violence à l’histoire des langues afin d’appuyer son système. D’après lui, la langue primitive n’a été composée que de mots monosyllabiques, destinés à désigner les idées les plus générales, et qui, au moyen de leurs diverses combinaisons, suffisaient, dit-il, pour faire entendre toutes les idées combinées. D’après la nature de cet aperçu fondamental, on peut se dispenser de suivre l’auteur dans ses applications. Ib. juillet, 1827. t. 8. art. 2. p. 3. (11. Sett. 1828.).

Alphabet phonométrique; découverte de huit lettres nouvelles; par Virard. In 8.o. Grenoble, 1827. M. Virard s’occupe, depuis plus de 20 ans, de tout ce qui se rapporte à la grammaire. Par une heureuse combinaison dégageant la langue de toutes les lettres qui tiennent dans les mots une place oisive, arbitraire, et tout-à-fait inutile à la prononciation, il a atteint plus qu’aucun autre le moyen d’écrire comme on parle. Les lettres et leur assemblage, dont il fait usage, ne répresentent que le son de la voix, et par les exemples qu’il donne, il ajoute à la démonstration de sa méthode qu’il ne croit point encore perfectionnée, appelant, sur ce sujet, les méditations des grammairiens les plus érudits. Lorsque la prononciation sera notée d’une manière sûre et invariable, ce sera le moyen d’en conserver la pureté, de détruire le mauvais accent des provinces, de faire entendre à l’étranger le véritable son du mot et de transmettre en tout temps, d’âge en âge, un accent pur, inaltérable, et de perpétuer l’harmonie du discours, quand la langue sera devenue morte. A. Métral. ib. févr. 1828. t. 9. p. 131-2. art. 109. Le 8 nuove lettere saranno per i suoni francesi che non corrispondono veramente a nessun de’ segni dell’alfabeto latino. Credo che lo scopo di M. Virard non sia d’introdurre nell’uso una nuova ortografia, ma solo di perfezionare il metodo rappresentativo usato p. e. in quei dizionari che hanno la prononciation figurée. Sicchè la lingua francese (e simili) avrebbe bisogno di due scritture ec. (13. Sett.).

— Journal grammatical et didactique de la langue française. rédigé par M. Marle. In 8., n.11 à 22. Paris, 1827 et 1828... L’esprit d’innovation gagne aussi la Société grammaticale (i compilatori di quel Giornale). Voilà qu’on veut réformer l’orthographe de la langue française pour la soumettre plus directement à l’influence de la prononciation. Nous répéterons ici ce que nous avons dit ailleurs, que l’orthog. et la prononc. sont réciproquement représentatives l’une de l’autre, mais à droits inégaux, c. à d. que l’orth. a des titres primitifs inviolables, qui sa compagne doit d’abord respecter, et devenir ensuite belle et euphonique, si elle le peut, tout en rendant hommage aus droits de son aînée. Ces droits primitifs de l’orth. procèdent de l’origine même des mots, ou de l’étymologie: corrompre l’orth. de ces mots aux dépens de l’étymologie et au bénéfice d’une manière d’écrire plus commode, pour l’ignorance surtout, c’est introduire la barbarie dans la langue, lui ouvrir une voie sans fin de corruption (l’es. dell’italiano dimostra il contrario), et faire de tous les mots de la langue ce qu’une femme célèbre disait d’un peuple qui reniait ses notabilités historiques, une famille d’enfans trouvés. La Société grammaticale doit renoncer à une entreprise que rien ne peut justifier. (Voir le n.21. du journal)... Champollion — Figeac. Ib. Mars, 1828. t. 9 p. 231 art. 206. (14. Sett. Domenica. 1828. Firenze.).

Alla p. 4330. La 2.e partie du travail de M. Petit-Radel (Examen analytique et tableau comparatif des synchronismes de l’histoire des temps héroïques de la Grèce, par L. C. F. Petit-Radel, de l’Institut royal de France. 1 vol. in-4.o de 296 pages. Paris 1827.) est précédée d’une note de M. Saint-Martin, dans laquelle ce savant académicien fournit un extrait des raisons qui ont engagé son confrère à adopter, pour époque de la prise de Troie, l’an 1199 avant J. C. , et à faire partir de cette base tous les calculs ascendans des dates portées sur le tableau. Ib. Avril. 1828. t. 9. art. 301. p. 329. (16. Sett. 1828.).

I SS. Cirillo e Metodio, fratelli, monaci greci, chiamati Apostoli degli Schiavoni, nel nono secolo, introducendo nella Moravia e nella Pannonia la liturgia schiavona, ( la lithurgie slavonne ), cioè gli uffici divini in lingua schiavona ( le service divin en langue slavonne ), inventarono per iscriverla l’alfabeto schiavone ( l’alphabet slavon ), che è ancora in uso comune, e che porta il nome di alfabeto cirilliano. Bull. de Féruss. ec. passim, e specialmente février, 1828. t. 9. p. 163-7. art. 141. (17. Sett. 1828.).

Ἕλλα (cioè καθέδρα. Hesych.) — sella. ἕζω, ἕδω ec. — sedeo. ἕδρα, ἕδος ec. — sedes. (17. Sett. 1828.).

Foscolo, Discorso sul testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante. — Prospetto (cioè sommario) del Discorso. L’abuso delle minime date d’anni, (cioè de’ minimi indizi di tempo ne’ libri antichi), rannuvola più che non illustra la storia letteraria; e il rigettarle tutte, o fondare sistemi sopra le incerte, ha diviso novellamente i tre critici maggiori della età nostra, in Epicurei, Pirronisti, e Stoici. Payne Knight, critico stoico. — Discorso, § 15. Un verso del libro sesto dell’Iliade basta a Wolfio, non solo a dare corpo, forza ed armi alla ipotesi del Vico, che Omero non abbia scritto poemi, ma inoltre a desumere in che epoca della civiltà del genere umano fosse incominciata la Iliade, e in quanti secoli, e per quali accidenti fosse continuata e finita, forse per confederazione del caso e degli atomi d’Epicuro. (apparentemente Foscolo non avea letto Wolfio). Heyne disponendo fatti, tempi e argomenti a cozzar fra di loro, forse per investire la filologia del diritto di asserire e negare ogni cosa, indusse il pirronismo nell’arte critica; e chi lo consulta,

mussat rex ipse Latinus
Quos generos vocet aut quae sese ad foedera flectat.
(Vuol dir che Heyne intorno alle questioni sopra Omero, non si decide, e tiene il metodo dell’Accademia, in utramque partem disputandi.) Al caso e agli atomi di Wolfio e al pirronismo di Heyne si aggiunse con alleanza stranissima lo stoicismo affermativo di Payne Knight illustratore recente di Omero; e incomincia: Octogesimo post Trojam captam anno, Mycenarum regnum tenente Tisameno Orestis filio jam sene, magna et infausta mutatio rerum toti Graeciae oborta est ex irruptione Dorum (Carmina Homerica a Rhapsodorum interpolationibus repurgata et in pristinam formam, quatenus recuperanda esset, tam e veterum monumentorum fide et auctoritate, quam ex antiqui sermonis indole ac ratione, redacta. Nota. È il titolo dell’Om. di Knight col digamma, Lond. 1820.) — e dalla irruzione de’ Doriesi, i quali costrinsero molto popolo Greco a rifuggirsi nell’Asia minore, la storia critica della lingua e della poesia omerica, e l’epoca e l’indole e la fortuna finor ignotissime del poeta, sono dedotte con arte e dottrina e perseveranza, e affermate con la dignità d’uomo che sente di avere trovato il vero. Onde taluni che non possono persuadersi mai della probabilità di que’ fatti, si sentono convinti alle volte dagli argomenti, e ascoltano con riverenza lo storico (sic) al quale non possono prestar fede. (questo è il sistema esposto e seguito da Capponi, Lez. 2.a sulla lingua, Antologia, maggio 1828.) par. 16. Questo Payne Knight era uomo di forte intelletto; di non vaste letture, ma che parevano immedesimate ne’ suoi pensieri e raccolte non tanto per nudrire i suoi studi, quanto per essere nudrite dalla sua mente. Era nuovo e luminosissimo in molte idee; e quantunque ei potesse dimostrarne alcune e ridurle a principj sicuri, intendeva che tutte fossero assiomi ai quali non occorrono prove; e dalle conseguenze ch’ei ne traeva escludeva inflessibile qualunque eccezione, ond’erano inapplicabili, e sembravano assurde: ma quantunque ei parlasse energicamente ad esporle, non pareva o non voleva essere eloquente a difenderle; e quando s’accorse d’avere errato, lo confessò. ( Ob multos errores in libro de hac re Anglice scripto piacularem esse profiteor. Prolegom. in Homerum, sect. CLI. Nota.) Aveva signorili costumi, e animo libero e sdegnoso d’applausi; nè fra molti avversarj gli mancarono nobili lodatori: ed Heyne non lo cita che non lo esalti. E certo se molti seppero notomizzare la poesia e la lingua Greca meglio di lui, pochi hanno potuto conoscerne l’indole al pari di lui; e nessuno lo ha mai preceduto, e pochi potranno seguirlo a investigarle nelle loro remotissime fonti. Studiando le reliquie dell’antichità ad illustrare i tempi omerici ne radunò molte a grandissimo prezzo, e sono da vedersi nel Museo Britannico ov’ei per amore di letteratura e di patria, e con giusta ambizione di nome le lasciò per legato. Venne, pochi mesi addietro, a visitarmi; e discorrendo egli intorno agli eroi più o meno giovani dell’Iliade, io notai che stando a’ suoi computi, Achille sarebbe stato guerriero imberbe. Risposemi, ch’ei non si dava per vinto; ma ch’ei cominciava a sentire la vanità della vita, e non gl’importava oggimai di vittorie. Nè la poesia nè la realtà delle cose giovavano più a liberarlo dal tedio che addormentava in lui tutti i sentimenti dell’anima; e dopo non molti giorni, morì: ed io ne parlo perchè i suoi concittadini ne tacciono. par. 17. Or quando scrittori di tanta mente per via di date congetturali prestano forme e certezza a nozioni vaghe e oscurissime, e le fanno risplendere come vere, ei costringono l’uomo, o alla credulità ed al silenzio, o a meschine fatiche e al pericolo di controversie, e per cose di poco momento al più de’ lettori. (Firenze. 19. Sett. 1828.).

Ivi, par. 150. Senza ritoccare la questione (e ne discorro altrove (forse nell’articolo sull’Odissea di Pindemonte), e la tengo oggimai definita) se i due poemi sgorgavano da un solo ingegno nella medesima età, ( Payne Knight, Carmina Homerica, Prolegomena, sect. LVIII. — e il volumetto, "A History of the text of the Iliad." Nota.) chi non vede che sono dissimili in tutto fra loro, e che tendevano a mire diverse? Perciò nell’Iliade la realtà sta sempre immedesimata alla grandezza ideale, sì che l’una può raramente scevrarsi dall’altra, nè sai ben discernere quale delle due vi predomini; e chi volesse disgiungerle, le annienterebbe. Bensì nell’Odissea la natura reale fu ritratta dalla vita domestica e giornaliera degli uomini, e la descrizione piace per l’esattezza; mentre gli incanti di Circe, e i buoi del Sole, e i Ciclopi,

Cetera quae vacuas tenuissent carmine mentes,
compiacciono all’amore delle meraviglie: ma l’incredibile vi sta da sè; e il vero da sè. (19. Sett. 1828.).

Ivi, par. 201. Ma quale si fosse il tenore della lingua e della verseggiatura di Dante, non è da trovarlo in codice veruno; e in ciò la Volgata con la dottrina e la pratica dell’Accademia predomina sempre in qualunque edizione ed emendazione. Avvedendosi "Che per difetto comune di quell’età" — e chi mai non se ne avvedrebbe quand’è più o meno difetto delle altre? — "l’ortografia era dura, manchevole, soverchia, confusa, varia, incostante, e finalmente senza molta ragione" ( Salviati, Avvertim. vol. 1. lib.3. cap. 4. Nota) — anzi vedendola migliore di poco nel miracoloso fra’ testi del Decamerone ricopiato dal Mannelli ( Discorso sul Testo del Decam. p. XI. seg. pag. CVI. Nota) — parve agli Accademici di recare tutte le regole in una, ed è: — "che la scrittura segua la pronunzia, e che da essa non s’allontani un minimo che". ( Prefazione al Vocabolario, sez. VIII. Nota). Guardando ora agli avanzi della Volgata Omerica di Aristarco, parrebbe che gli Accademici de’ Tolomei fossero di poco più savj, o meno boriosi de’ nostri. La prosodia d’Omero, per l’amore di tutte le lingue primitive alla melodia, gode di protrarre le modulazioni delle vocali. L’orecchio Ateniese, come avviene ne’ progressi d’ogni poesia, faceva più conto dell’armonia, e la congegnava nelle articolazioni delle consonanti; e tanto era il fastidio delle troppe modulazioni, chiamate iati dagli intendenti, che ne vennero intarsiate fra parole e parole le particelle che hanno suoni senza pensiero. Quindi gli Alessandrini alle strette fra Omero e gli Attici, e non s’attentando di svilupparsene, emendarono l’Iliade così che ne nasceva lingua e verseggiatura la quale non è di poesia nè primitiva, nè raffinata. I Greci ad ogni modo s’ajutavano tanto quanto come i Francesi e gl’Inglesi; ed elidendo uno o più segni alfabetici nel pronunziare, non li sottraevano dalla scrittura; così le apparenze rimanevano quasi le stesse. Ma che non pronunziassero come scrivevano, n’è prova evidentissima che ogni metro ne’ poeti più tardi, e peggio negli Ateniesi, ridonderebbe; nè sarebbero versi, a chi recitandoli dividesse le vocali quanto il metro desidera ne’ libri Omerici: e l’esametro dell’Iliade s’accorcerebbe di più d’uno de’ suoi tempi musicali, se avesse da leggersi al modo de’ Bisantini, snaturando vocali, o costringendole a far da dittonghi. Però i Greci d’oggi a’ quali la pronunzia letteraria venne da Costantinopoli, e serbasi nel canto della loro Chiesa, porgono le consonanti armoniosissime; ma non versi, poichè secondano accenti semplici e circonflessi, e spiriti aspri, e soavi — come che non ne aspirino mai veruno — ed apostrofi ed espedienti parecchi moltiplicatisi da que’ semidigammi ideati in Alessandria, talor utili in quanto provvedono alla etimologia e alle altre faccende della grammatica. Non però è da tenerne conto in poesia, dove la guida vera alla prosodia deriva dal metro; e il metro dipendeva egli fuorchè dalla pronunzia nell’età de’ poeti? Ad ogni modo i grammatici Greci sottosopra lasciarono stare i vocaboli come ve gli avevano trovati, sì che ogni lettore li proferisse o peggio o meglio a sua posta. Ma i Fiorentini non ricordevoli di passati o di posteri, uscirono fuor delle strette medesime con la regola universale — Che la scrittura non s’allontani dalla pronunzia un minimo che; e non trapelando lume, nè cenno di pronunzia certa dalle scritture, pigliarono quella che udivano. Però mozzando vocali, e raddoppiando consonanti, e ajutandosi d’accenti e d’apostrofi, stabilirono un’ortografia, la quale facesse suonare all’orecchio non Io, nè lo Imperio, o lo Inferno; ma I’, lo ’Mpero, lo ’Nferno: e con mille altre delle sconciature del dialetto Fiorentino de’ loro giorni, acconciarono versi scritti tre secoli addietro.

par. 202. Queste loro squisitezze erano favorite dalla dottrina, che la lingua letteraria d’Italia fioriva tutta quanta nella loro città. Lasciamo che ove fosse vera s’oppone di tanto alle dottrine di Dante, che non sarebbe mai da applicarla ad alcuna delle opere sue. Ma avrebb’essa potuto applicarsi se non da critici ch’avessero udito recitare i versi di Dante a’ suoi giorni? L’occhio umano, paziente, fedelissimo organo, è agente più libero e più intelligente degli altri, perchè vive più aderente alla memoria; ma non per tanto non può fare che passino cent’anni e che le penne tutte quante non si divezzino dalle forme correnti dell’alfabeto. Così ogni età n’usa di distinte e sue proprie; onde per chiunque ne faccia pratica bastano ad accertarlo del secolo d’ogni scrittura. Ma sono divarj permanenti nelle carte; arrivano a’ posteri; e si lasciano raffrontare dall’occhio. Non così l’orecchio; capricciosissimo, perchè raccoglie involontario, istantaneo e di necessità tutti i suoni; e gli organi della voce gli sono connessi, cooperanti passivi, e meccanici imitatori; e però niun uomo cresce muto se non perchè nasce sordissimo. Di quanto dunque più preste e più varie e più impercettibili che la scrittura non saranno le alterazioni della pronunzia? Ma si rimutano senza che mai lascino, non pure le forme delineate, come ne’ vocaboli scritti, ma nè una lontana reminiscenza. Or chi mai fra’ posteri potrà rintracciarle se non con l’orecchio? e dove le troverà egli? Ridomandandole all’aria, che se le porta? o al tempo che torna a ingombrare l’orecchio di nuovi suoni? Allagheri, com’ei scrivevalo, e poscia Aligieri, Alleghieri, Allighieri, era lungo o breve nella penultima? or è Alighieri; ma in Verona s’è fatto sdrucciolo, Aligeri. Certo se gli arcavoli risuscitassero in qualunque città penerebbero ad intendere i loro nepoti.

par. 203. ed ult. Ma perciò che i Fiorentini di padre in figlio continuarono a ingoiare vocali o rincalzarle raddoppiando consonanti, l’Accademia ideò che quel vezzo fosse nato a un parto co’ loro vocaboli. ( Avvertim. della Lingua, Vol. 2. p. 129-160. ed. Mil. de’ Classici. Nota.) Pur è sempre accidente più tardo; anzi comune ed inevitabile a ogni lingua parlata: e tutti i popoli con l’andare degli anni per affrettare e battere la pronunzia scemano modulazioni, perchè sono molli e più lunghe; e le articolazioni riescono vibrate insieme e spedite. De’ Greci è detto; e più numero tuttavia di vocali scrivono gli Inglesi, e pare che parlino quasi non avessero che alfabeto di consonanti: ma chi ne’ loro poeti antichi leggesse all’uso moderno, non troverebbe versi nè rime. Nè credo che altri possa additare poesia di gente veruna ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati di melodia; e che non vi dominassero le vocali; e che poi non si diminuissero digradando. Anche nella prosodia latina, che era meno primitiva e tolta di pianta da’ Greci, e in idioma più forte di consonanti finali, regge l’osservazione; ed anche nelle reliquie di Ennio pochissime, pur le battute de’ ventiquattro tempi dell’esametro su le vocali per via d’iato sono moltissime; e spesse in Lucilio; e parecchie in Lucrezio; non rare in Catullo; non più di sette, che io me ne ricordi, in Virgilio; e una sola in Orazio, nè forse una in Ovidio. Or quante, se pur taluna è da trovarne in Lucano e gli altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo strepitosissimo Claudiano? Ben diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de’ versi, avveniva più presto in Italia che altrove; perchè il Petrarca aveva temprato l’orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche più che la Siciliana che a Dante veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu scritta, nè mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all’occhio. Il danno della parola dissonante dalla scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un tempo (cioè la francese l’inglese ec.), è minore della sciagura che toccò alla Italiana, destinata anzi all’arte degli scrittori, che alla mente della nazione (vuol dire, scritta e non parlata, nè scritta pel popolo). A questo i tempi, quando mai la facciano parlata da un popolo, provvederanno. Per ora il potersi scrivere così che ogni segno alfabetico sia elemento essenziale del senso e del suono in ogni vocabolo, rimane pur quasi vantaggio su le altre sino da’ giorni di Dante. Onde mi proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie primitive, e alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non parlate, si rimane letteraria, permanente nelle apparenze, e svincolata de’ suoni accidentali e mutabili d’età in età nelle lingue popolari (francese inglese ec.), e ne’ dialetti municipali. Forse così la lezione della divina commedia, perdendo i vezzi di Fiorentina ritornerà schietta e Italiana. Fine del Discorso. (Firenze. Domenica. 21. Sett. 1828.). V. p. 4487.

Nel principio, e nel risorgimento degli studi, si credeva impossibile un’ortografia volgare, un’ortografia che non fosse latina, nel modo stesso che una letteratura volgare e non latina; e le lingue moderne si credevano incapaci di ortografia propria, così appunto come di letteratura. (21. Sett. Domenica. 1828.).

Alla p. 4367. Ci sarebbe ancora un altro partito, e ragionevolissimo. Avere due poesie e letterature, l’una per gl’intendenti, l’altra pel popolo. Così quelli non perderebbero, mentre questo ricupererebbe; non isparirebbero dal mondo i piaceri squisiti e divini (per chi gli può gustare) delle leterature perfezionate; ci potrebbe ancora essere chi provasse de’ trasporti di piacere leggendo Virgilio, come ci sono e saranno intendenti che ne provino mirando un quadro di Raffaello ec. ec. (21. Sett. 1828.).

Alla p. 4355. Sorte simile ad Omero ebbe anche in ciò il nostro Dante, il quale fino nello stesso sec. 14. ebbe forse tanti diascheuasti, cioè limatori del suo poema, più o meno arditi, quanti copiatori: onde quelle enormi e continue discrepanze de’ suoi codici e stampe anteriori alla edizione della Crusca. V. p. 4412.

Alla p. 4317. marg. Si legge così a Napoli anche l’Orlando innamorato del Berni e soprattutto la Gerusalemme del Tasso, e il popolo prende partito chi per l’uno di quegli eroi, chi per l’altro, e con tanto ardore, che dopo la lettura, discorrendo tra loro sopra quei racconti, e quistionando, talora vengono alle mani, e fino si uccidono. Una notte al tardi, due del volgo di Napoli che disputavano caldamente fra loro, andarono a svegliare il famoso Genovesi per saper da lui chi avesse ragione, se Rinaldo o Gernando (Gerusalemme del Tasso). Tengo tutto ciò dall’Imbriani padre, il quale mi dice che il popolo napoletano non ha bisogno che il lettore gli traduca quei poemi, ma che gl’intende da se. In questo modo quei poemi si possono dir veramente pubblicati. (22. Sett. 1828.). V. p. 4408.

Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriamente poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica. (22. Sett. 1828.). Però, chi dice che la letteratura greca fiorì principalmente in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec. (22. Sett. 1828.).

Chi presentandomi o raccomandandomi o parlando di me a qualcuno, uomo o donna, ha detto: mio grandissimo amico, grande ingegno, dotto ec. ec., non ha fatto nulla. Ci mancava la gran parola. Chi ha detto: uomo celebre, mi ha proccurato accoglienze e distinzioni e ricerche. Fama ci vuole, e non merito. Anche qui si verifica quello che ho detto altrove, la sola fortuna fa fortuna. Celebre equivale a ricco, nobile, potente, dignitario, ed altre fortune simili. (22. 7.bre 1828.).

L’eroismo ci strascina non solo all’ammirazione, all’amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l’amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado quello che aveano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c’innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste. (22. Sett. 1828.).

Alla p. 4354. marg. Potrebbe anco essere che i primi libri fossero in prosa, la prima applicazione della scrittura alla letteratura fosse alla prosa, continuando forse intanto a comporsi in versi senza scriverli, e consegnandoli solamente alla memoria, sì per l’inveterata abitudine, e sì per considerarsi la scrittura come non necessaria, anzi inutile, alla conservazione dei versi, e solo utile e necessaria a quella della prosa. In tal modo potrebbe esser passato molto tempo dopo che si scriveva in prosa, prima che si avessero versi scritti, nel qual tempo non si sarebbero avuti libri che in prosa. In tal caso, che mi par naturale, la prosa à son tour avria preceduto la poesia, come scritta, come opera di letteratura consegnata in libri. (22. Sett. 1828.). V. p. seg.

Alla p. 4318. marg. Ciclo epico, che comprendeva in varie poesie, incluse quelle d’Omero, la storia tutta del mondo, dalle Origini delle cose, cioè dalla teogonia ec. fino ad Ulisse; ciclo raccolto, secondo un critico tedesco, forse vivente (Bull. de Féruss. ec.) che ha fatto sopra di esso ciclo una dissertazione particolare, poco dopo il tempo de’ Pisistratidi. Le poesie comprese in questo ciclo, e i loro argomenti, non erano certamente epici nel senso che noi diamo a questa parola: nondimeno il ciclo si chiamava epico, cioè storico o narrativo. La poesia epica fu distinta dalla lirica, benchè anche τὰ ἔπη si cantassero sulla lira. ec. (23. Sett. 1828.).

Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire. (23. Sett. 1828.).

Alla p. qui dietro. Tutto ciò in quanto a possibilità o verisimiglianza. Ma in quanto a tradizione, par ch’ella provi che i libri in prosa o non precedettero, o solo di poco tempo, quegli in versi; poichè essa tradizione mette le prime prose greche nel principio del sec. 6. av. G. C. , tempo di Pisistrato che raccolse i versi Omerici, e tempo abbondante di altri poeti, i quali non pare al Wolf che potessero mancar di scrittura. Certo che di essi la tradizione non porta, come di Omero, che i loro versi fossero raccolti e scritti posteriormente. Nondimeno, benchè la tradizione non porti ciò neppur di Esiodo (V. p. 4397) (onde il Vico, lib.3. p. 400. Talchè Esiodo, che lasciò opere di sè scritte, poichè non abbiamo autorità che da’ Rapsodi fusse stato, com’Omero, conservato a memoria, si dee porre dopo de’ Pisistratidi), pure il Wolf pone anche Esiodo fra que’ poeti che non iscrissero, e le poesie esiodee (che egli reputa di vari autori) fra quelle che furono conservate lungamente per sola memoria. — Certior quidem historia adhuc saeculo VI. et V. ante Chr. Simonidi Ceo atque Epicharmo Siculo, antiquae Comoediae principi, satis insignes partes tribuit in litteris complendis et inveniendis novis, quas deinde cum prioribus in aptam seriem collectas a Callistrato quodam, ante alios Jonica Samos publice usurpavisse fertur. Atq. hoc Jonicum alphabetum 24 litterarum a populo Atheniensi tandem Euclide archonte, Olymp. 94, 2. ante Chr. 403 receptum, nec ibi ante hoc tempus usum duarum longar. vocalium publicatum tradunt plures et ex probatis auctoribus. Adeo sero litteratura Graecorum absoluta est et redacta in ordinem, primum, ut multis de causis coniicio, in iis civitatibus quae Sicil. et Magn. Graeciam tenebant, tum in illa posthac litterarum conficientissima urbe, Athenis. Sed cavendum est rursus ne tam serum usum scribendi credamus, aut in omni Graecia eodem tempore institutum. Jones quidem quum tot aliis rebus Europae cognatae exemplum nitidioris cultus darent et humani et civilis, matureque variis artibus et commerciis florerent, vel tacente historia verisimile esset, eos huius quoque praeclarae rei utilitatem primos animadvertisse et ad eam studium et ingenium contulisse suum. Quippe illis expectandus non fuit Callistratus Samius, ut aliquid scripto consignare tentarent: iam ante hunc papyro usi sunt; immo ante Simonidem et Epicharmum fuerunt lyrici poëtae, et Ionici et Aeolici, qui illo adminiculo faciendorum carminum carere vix possent. Deniq. in ea civitate (Athen.) quae antiq. alphabetum diutissime retinuit, Olymp. 39. minor numerus litterarum suffecit Draconis legibus ponendis. Quidni idem numerus suffecerit maximis voluminibus, si modo ea tum usitata fuerunt, sive ex pellibus, sive ex papyro Aegyptia? Wolf. par. 16. p. LXII-V. Certe Atticorum scriptorum non ante Persica tempora mentio fit aut signicatio cui non fidem deroget illius aevi et rei publicae facies et gravissimor. auctorum silentium. Sed non persequar quod tenere sine longis ambagibus non possum; ultro etiam concesserim, aliquanto ante Solonem Athenis hanc artem paullatim privato studio (del pubblico, in bronzo, marmo ec., non si dubita) usurpari coeptam: neque adeo dubito, quin id saeculis 8. et 7. in ceteris civitatibus, nominatim Joniae et Magnae Greciae, fecerint sollertiores quidam homines eorumq. exemplum vel secuti vel ipsi rem auspicati sint poëtae nonnulli, si non Asius, Eumelus, Arctinus, alii, sub primis Olympp. clari epicis Carminibus, at certe Archilochus, Alcman, Pisander, Arion et horum aequales: tamen si de universa Graecia et paullo tritiore usu artis institutoque conscribendorum librorum quaeris, iliud removendum non esse a Thaletis, Solonis, Pisistrati et eorum, qui Sapientes appellantur, aetate, i.e. ea qua oratio metro solvi coepit, ita significat nobis historia artium Graecarum omnium, ut infantiam suam obliti populi testimonium minime desiderandum videatur. De cultura prosae orationis ineunte saeculo ante Chr. VI. a pluribus et ipso Solone inchoata, deque causis novi incepti nihil hic habeo dicere: et quae ex veterum locis hauriri possunt, dicta sunt omnia. etc. Wolf. par. 17. p. LXIX-LXXI. — De cultura prosae, cioè della prosa colta in qualche modo e letteraria. Ma di una prosa rozza e mal culta, e simile a quella de’ nostri ducentisti, niente impedisce di credere ch’ella fosse scritta in libri e privatamente (poichè in monumenti pubblici non è dubbio) innanzi che si scrivessero versi: anzi la verisimiglianza mi pare che vi conduca, ed io sono di questa opinione, a differenza di ciò che sembra credere il Wolf. Però se per letteratura s’intendano libri scritti, io stimo, contro quello che si crede generalmente, che la letteratura prosaica precedesse in Grecia la poetica, cioè la scrittura della poesia. (25. Sett. 1828.).

Il Wolf conosce e cita per averlo preceduto nell’opinione che le poesie omeriche non fossero scritte, se non dopo, oltre Giuseppe ebreo, il Wood (inglese), il Rousseau e il Mairan; per l’opinione che esse da principio non costituissero poemi epici, ma non fossero che canti separati, raccolti poi da altri e ridotti nella presente forma, conosce e cita il Casaubono, il Bentley e l’abate Hedelin d’Aubignac, il cui libro, Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade , Paris 1715. 8.o. egli disprezza altamente. Ma non nomina punto mai il nostro Vico, il quale de’ cinque libri de’ suoi Principj di Scienza nuova, 3.a ediz. Napoli 1744. ne ha uno, cioè il 3.o intitolato Della discoverta del vero Omero, tutto dedicato alle quistioni Wolfiane. Nel qual libro, con minore abbondanza e sviluppamento di prove che il Wolf, ma pure con buone e forti ragioni, alcune delle quali non toccate da esso Wolf, asserisce e dimostra che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi (p. 399.), poichè infin’a’ tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui non si era ritrovata ancora la Scrittura Volgare (p. 394.); "che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria, e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perchè essi popoli greci furono quest’Omero (p. 404.);" "che perciò varjno cotanto l’oppenioni d’intorno alla di lui età, perchè un tal’Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla Guerra Trojana fin’a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocentosessant’anni (p. 404.)" (cioè che gli autori de’ versi omerici vivessero e componessero successivamente dalla guerra troiana fino a Numa) che "la cecità, e la povertà d’Omero furono de’ Rapsodi; i quali essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse Omero (ὅμηρος in lingua ionica), prevalevano nella memoria; ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d’Omero per le città della Grecia; de’ quali essi eran’Autori; perch’erano parte di que’ popoli, che vi avevano composte le loro Istorie;" (p. 404.) "che quest’Omero sia egli stato un’Idea, ovvero un Carattere Eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano cantando le loro storie;" (p. 403.) "l’Omero Autor dell’Iliade avere di molt’età preceduto l’Omero Autore dell’Odissea;" (p. 405.) "che quello fu dell’Oriente di Grecia verso Settentrione, che cantò la Guerra Trojana fatta nel suo paese: e che questo fu dell’Occidente di Grecia verso mezzodì, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suo Regno;" (p. 405.) e, dicendo l’autor περὶ ὕψους che Omero compose giovane l’Iliade e vecchio l’Odissea, che "Omero compose giovine l’Iliade, quando era giovinetta la Grecia; e ’n conseguenza ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta; le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità; onde ammirò Achille Eroe della Forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione: la qual’è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse Eroe della Sapienza. Talchè a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocità: a’ tempi d’Omero vecchio già gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle Sirene, i passatempi de’ Proci, e di, nonchè tentare, assediar’e combattere le caste Penelopi i quali costumi tutti ad un tempo sopra ci sembrarono incompossibili" (p. 404-5.) Finalmente "che i Pisistratidi Tiranni d’Atene eglino divisero, e disposero, o fecero dividere, e disponere i Poemi d’Omero nell’Iliade, e nell’Odissea: onde s’intenda quanto, innanzi, dovevan’essere stati una confusa congerie di cose; quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell’uno, e dell’altro Poema Omerico." (p. 399.) (26. Sett. 1828.).

Ecco l’Eroe (Achille), che Omero con l’aggiunto perpetuo d’irreprensibile canta a’ Greci popoli in esempio dell’Eroica Virtù! il qual’aggiunto, acciocchè Omero faccia profitto con l’insegnar dilettando, lo che debbon far’i Poeti, non si può altrimente intendere, che per un’huomo orgoglioso, il qual’or direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e sì predica la Virtù puntigliosa; nella quale a’ tempi barbari ritornati tutta la loro Morale riponevano i Duellisti: dalla quale uscirono le leggi superbe, gli ufizj altieri, e le soddisfazioni vendicative de’ cavalieri erranti, che cantano i Romanzieri. Ib. lib.2. p. 322-3. dopo aver descritto l’eroismo dell’Achille omerico, quanto sia lontano dalle idee nostre, ed anche antiche civili, circa il carattere eroico. (26. Sett. 1828.).

Alla p. 4392. marg. Dice per altro il Wolf p. XCVII-III. par. 23: Neque enim unius Homeri, sed et Hesiodi et aliorum Carmina, omneque epicum genus, mox lyricum quoque et iambicum, complexa est ars rhapsodorum. E in nota, p. XCVIII: Vide Plat. de Legg. II. p. 658. D., in Jone p. 530. B. (ed. Steph.) Athen. XIV. p. 620. C. Quanto ad Esiodo, ecco le sue parole. Sed Hesiodum quum dico, omne illud tempus intelligo, in quod Hesiodeorum quae nunc feruntur operum confectio incidit. Non uni enim illa tribuenda esse patet; et multo plura nomine eius ferebantur apud veteres. In Ἔργοις loci sunt multi πίνῳ venerandae vetustatis signati. Theogonia autem et Scutum Herc. et maxima pars eorum, quorum brevia fragmenta supersunt, Homerum toto certe saeculo subsequuntur. Huius rei argumento est, quod in iis plures notiones novae exstant et imitationes locorum Homericorum, in primis terrarum et populorum auctior et explicatior notitia. par. 12. not. p. XLII-III.

Alla p. 4357. L’imitazione drammatica non può essere spontanea e veramente secondo natura, se non in quanto a un solo personaggio, o 2 al più, e solo in alcune scene, cioè in quelle che corrispondano alla situazione attuale dell’animo del poeta. Ma qui è sempre il poeta egli stesso che si dipinge, o piuttosto parla, sotto altro nome; e quella non è veramente imitazione, ma quasi un travestimento. In tutti gli altri personaggi ed altre scene, la poesia è necessariamente sofistica. Del resto, tali scene, dove il poeta esprimesse i suoi sentimenti, passioni ec. attuali sotto nome di qualche personaggio storico, se si componessero staccate, potrebbero esser buona poesia: il poeta può aver buone ragioni per nascondersi sotto nome altrui; può trovarvisi, se non altro, più a suo agio; ed è anche poetico in qualche modo quel rapporto trovato ed espresso fra la propria situazione attuale, e quella d’alcun personaggio storico ec. (28. Sett. 1828.).

Alla p. 4372. Servian Popular Poetry. Poésies populaires des Serviens, traduites en vers anglais par M. Bowring. Londr. 1827. in— 12. Ces poésies, dont il doit paroître bientôt une traduction française, sont extraites d’un recueil publié à Vienne en 1824 par Stephanovich Vuk, auteur d’une grammaire servienne. Journ. des savans, 1827. p. 445. Juillet. (29. Sett. 1828.).

La Civilisation considérée sous le rapport du feu et relativement à la supériorité de l’homme sur le reste des animaux. Paris, Baudouin frères, in 8.o de 63 pages. Prix 1. fr. 50 cent. Ib. p. 445. 1826. Juillet, Livres nouveaux. (2. Ottob. 1828.).

Il reconnoît (M. Poirson, autore di un compendio di storia romana stampato a Parigi, 1825 e segg., e difensore per altro della verità della storia de’ primi secoli di Roma) qu’il y a de fortes présomptions contre la vérité des aventures d’Horatius Coclès, de Mucius Scaevola et de Clélie. Ib. 1826, août, p. 466. (3. Ott. 1828.).

Les Kirkis (nazione nomade, al Nord dell’Asia centrale) ont aussi des chants historiques (non scritti) qui rappellent les hauts faits de leurs héros; mais ceux-là ne sont récités que par des chanteurs de profession, et M. de Meyendorff (barone, viaggiatore russo, autore d’un Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820. Paris 1826; dal quale sono estratte queste notizie) eut le regret de ne pouvoir en entendre un seul. Ib. septemb. p. 518. Plusieurs d’entre eux (d’entre les Kirkis) , dice M. de Meyendorff, ib., passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. (3. Ottobre. 1828.).

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Grammatica Daco-romana, sive Valachica, latinitate donata et in hunc ordinem redacta a J. Alexi. Vindobonae 1826. in— 8.o Ib. Septemb. 1826. p. 573.

Alla p. 4375. Il Wesselingio nella Pref. all’Erodoto, in quella parte che riguarda la vita e gli scritti di questo, riportata dallo Schweighaeuser, con sue noterelle, appiè della propria sua pref. all’Erodoto, Argentorati 1816, t. 1., dice, a pag. XXII-III. di questa edizione: Tum patriam reliquit, inque Graeciam tetendit. Huc pertinent Luciani ista (In Herodoto cap. 1. p. 832. [T. IV. ed. Bipont. p. 116.]), difficilia quibusdam intellectu visa, πλεύσας γὰρ οἴκοθεν Herodotus ἐκ τῆς Καρίας εὐθὺ τῆς Ἑλλάδος, ἐσκοπεῖτο, videlicet, qua tandem ratione et minimo labore insignis ac celebris evaderet. Instabat per illi conmodum, Olympiorum tempus sollemne: properavit ad illud certamen, atque in magno Graecorum consessu recitavit Historias suas. Namque ea non docent, absolvisse Herodotum historiarum libros Halicarnassi, sed compositos in Samo insula, quod ex Suida adsciscendum, ex Caria ad Olympicum conventum secum portasse, et Graecis, ut illis innotesceret, praelegisse. Eligunt ad eam recitationem Olympiadem LXXXI. viri docti, quippe aetati Herodoti egregie congruam: neque mihi refragari animus est, eoque minus, quod pueriles Thucydidis anni Elidensem hanc Olympiadem sibi postulent. Aderat Thucydides una cum patre Oloro admodum adolescens ( Suidas in Θουκυδίδης), ἔτι παῖς ὢν, in summo Graecorum plausu recitanti, illacrymavitque, aemulatione quadam iam tum ad consimile laudis studium accensus; quo Herodotus animadverso, ad Olorum ( Marcellinus, Vit. Thucydid. p. 9.), οργᾷ ἡ φύσις τοῦ υἱοῦ σοῦ πρὸς τὰ μαθήματα, optime de puero XV. annorum, et gloriae desiderio lacrymante. Atque hic non obliviscor secundae recitationis, Athenis Olymp. LXXXIII. anno tertio institutae; quam Thucydidem auscultare potuisse, certum quidem est, sed iam virili aetate, non puerum. Erudite hoc H. Dodwellus exsecutus (Apparat. ad Annales Thucydid. p. 23.), adprobavit Ed. Corsino (Fast. Attic. T. III. p. 203. et p. 213.), sihi tamen non constanti, et eandem praelectionem in Olymp. LXXXIV. coniicienti. ... Certius habetur, Athenis suos eum libros legisse in consilio, uti Hieronymus scribit, et honoratum fuisse, idque festo Panathenaeorum die anni tertii Olympiadis LXXXIII., quae elegans ill. Scaligeri (Ad Eusebii Chronic. p. 104.) doctrina. Lo Schweighaeuser non ha a tutto questo passo alcuna sua nota. — Questa tradizione intorno ad Erodoto sembra provare almeno l’usanza che le prime prose fossero lette al popolo, e così edite, al modo de’ versi; o, se non altro, dee derivare dall’antico uso di recitare o cantare in pubblico i componimenti poetici. (7. Ottob. 1828.).

Il Wesselingio l. c. p. XXVI. In more ipsi (Herodoto) fuit (vid. lib.5, 36, l. 7. 93. et 213, l. 1. 75.) τὸν πρῶτον λόγον, τοὺς πρώτους λόγους primores libros, et sequentes τοὺς ὄπισθε λόγους, τοὺς ὀπίσω λόγους... adpellare. — Lo Schweighaeuser ivi in nota. Nec vero in hisce locis, aut horum similibus, vocabulum λόγος ita intelligi debet, quasi singulos e novem Historiarum suarum libris singulos λόγους diceret: sed λόγος in huiusmodi locis nihil aliud nisi narrationem, vel historiam, ut nos vulgo vocamus, significat: qua ratione etiam Hecataeus, ut hoc utar, λογοποιὸς Nostro dicitur, II. 143. v. 36. et 125. id est, Historiarum scriptor; de eodemque Hecataeo loquens idem Noster VI. 137. ait, Ἑκαταῖος ἐν τοῖσι λόγοισι, Hecataeus in suis Historiis; denique VII. 152. ubi πάντα τὸν λόγον ait, universam suam Historiam intelligit. Itaque, ubi se ait, de re quadam ἐν ἄλλῳ λόγῳ esse dicturum, non semper alium ex novem Historiarum suarum Libris intelligit, verum subinde etiam aliam eiusdem Libri partem; veluti, quae Lib. VI. c. 39. profitetur se ἐν ἄλλῳ λόγῳ expositurum, ea cap. 103. eiusdem sexti Libri exposita leguntur. Eodem modo Pausanias lib. III. cap. 2. quum ait Ἡρόδοτος ἐν τῷ λόγῳ τῷ ἐς Κροῖσον, non hoc dicit, Herodotus in Libro de Croeso, sed Herodotus in ea narratione (sive, in ea Historiarum suarum parte) quae ad Croesum spectat. Similiterque idem Pausanias, lib. V. cap. 26. p. 447. ait, Ἡρόδοτος ἐν τοῖς λόγοις, Herodotus in suis Historiis. Sed de hoc usu vocabuli λόγος vide mox ipsum Wesselingium verissime monentem. — Ciò è p. XXIX. Possum adfirmare veterum neminem Λόγους Herodoti Λιβυκοὺς (citati da lui medesimo. II. 161., e da alcuni creduti diversi dalle Istorie) ad testimonium excitasse, contra ex libro quarto (delle Istor.) res Afras depromsisse plures: immo solere illum partem libri λόγον et λόγους adpellare: de nece Cimonis, patris Miltiadae, τὸν μὲν ἐγὼ ἐν ἄλλῳ λόγῳ σημανέω (lib. VI. 39.): dixit autem eiusdem Musae, cap. 103. Geminum illi Libri primi cap. 75. — Scilicet (nota lo Schweigh. ib.), quam rem lib. I. cap. 75. ait se ἐν τοῖσι ὀπίσω λόγοισι declaraturum, eam non in sequentium librorum aliquo, sed in eodem lib. I. cap. 124. declaratam videmus. — V. p. 4467. Propriamente però λόγος in tali casi non vuol dir narrazionestoria, ma prosa, a differenza di ἔπη o μέλη (carmina-oratio); καταλογάδην in prosa; λογοποιὸς prosatore, a differenza di ἐποποιὸς ec. Ma o perchè le prime prose scritte fra’ greci fossero istorie, o perchè la più parte di esse fossero istoriche a que’ primi tempi, o finalmente perchè il genere storico non avesse alcun nome particolare a principio, e forse (com’e naturalissimo) non esistesse veramente distinto dagli altri generi, cioè non si avessero opere di pura storia, o narrative, ma materie e qualità miste e confuse ec. (11. Ottob. 1828.) fu appropriato alle storie il nome generale di prosa λόγος, ed Erodoto chiamò λογοποιὸν prosatore lo storico Ecateo. E quando poi le opere in prosa furono cominciate a dividere in libri, questi libri ancora furono chiamati prose λόγοι, prosa 1., prosa 2. ec. prose 9 (Ἡροδότου λόγοι ἐννέα è appunto il tit. dell’ediz. Aldina di Erod., I.a ediz. greca, Venez. 1502.): quasi per confermare che la confezion di libri, secondo l’opinione del Wolf, ebbe origine dai prosatori. E per luminosa conferma dell’opinione del medesimo che da principio scrittura e prosa fossero la cosa medesima, troviamo (cosa da lui nè da altri a questo proposito non osservata) συγγραφεὺς esser sinonimo di storico. V. Scapula etc. in σύγγραμμα, συγγραφὴ, λογοποιὸς. V. p. 4406.

Dialetti greci. Nec vero putandum est, cunctis eis in locis, ubi etiam nunc formae verborum communes praeeuntibus libris omnibus supersunt (nell’Erodoto), quum alibi in eisdem verbis formâ jonibus propriâ usum esse videamus Scriptorem, per librariorum aut temeritatem aut socordiam esse illas invectas. Licitum fuit ionico scriptori communibus verborum formis promiscue atq. illis uti quae Jonibus propriae erant: et haud dubiis document. intellexisse mihi videor, ut olim Homerum, sic etiam Herodotum, si quis alius, hanc sibi veniam sumsisse et ... variationem consulto esse secutum. Quo minus caussae esse equid. iudicavi, cur perspicua in hanc partem Hermogenis verba (de formis orationis l. 2. p. 513. coll. p. 406.), non pura sed mixta dialecto scripsisse Herod. docentis, cum doctis. Wesselingio nostro ( Diss. Herodotea, p. 147. seq.) aliam in partem interpretaremur. Schweighaeuser, praef. ad Herodot. p. VIII-IX. E ib. p. IX. in nota: Schaeferum, virum de Script. nostro praeclare merit. , postquam in edendis Musis coepisset, expulsis ubiq. formis verbor. communib., jonic. substituere formas, mox meliora edoctum abiecisse novimus istud consilium. (11. Ott. 1828.).

Alla p. 4359. Il luogo riportato nel pensiero qui anteced., mostra che tale opinione (oggi però rigettata comunemente dagli eruditi) fu tenuta fino nel 1816. (epoca dell’ed. Argentoraten. d’Erodoto) da un uomo come lo Schweighaeuser. (11. Ott. 1828.).

Enfin, l’objet de notre sympathie la plus habituelle (dans l’Iliade), c’est Hector: et si d’un côté nous sommes entraînés par le talent du poète à désirer la prise de Troie, nous éprouvons de l’autre une sensation constamment pénible, en voyant dans le défenseur de cette cité malheureuse, le seul caractère auquel tous nos sentimens délicats et généreux se puissent allier sans mélange. Ce défaut, car c’en serait un, si le poète avait eu pour but de former un tout consacré seulement à célébrer la gloire d’Achille; ce défaut, disons-nous, a tellement frappé des critiques, qu’ils ont attribué à Homère l’intention d’élever les Troyens fort au-dessus des Grecs; et la pitié qu’il cherche à exciter pour le malheur des premiers leur a paru confirmer cette opinion. B. Constant, de la Religion, liv. 8. ch. 1. t. 3. Paris 1827. p. 430-1. Notisi che anche il Constant (il quale assolve del resto la Iliade da questo difetto, sostenendo ch’essa non è in origine un poema unico), riconosce però in questo passo che l’eccitare la compassione ec. per Ettore ec. e le lodi che sembrano darsi ai Troiani ec., sieno tali anche nel senso del poeta, e sarebbero state contrarie all’unità dell’interesse per Achille ec.: benchè in quel medesimo lib. e nel precedente egli osservi e dimostri la differenza grande dai costumi e dalle idee de’ tempi civili a quelle de’ tempi dell’Iliade. (12. Ottob. 1828.). V. p. 4413.

Alla p. 4404. Ecco dunque storico, prosatore, e scrittore o compositore in iscritto (συγγραφεὺς); storia, prosa, libro, e scrittura o composizione in iscritto (σύγγραμμα, συγγραφὴ: v. l’indice greco dell’Anabasi di Arriano, in συγγραφὴ ), usati spesso in un medesimo senso. Qual maggior conferma dell’osservazione acutissima del Wolf? (12. Ottob.). V. p. 4431.

Les Sagas, ou traditions des Scandinaves, qui, de père en fils, avaient conservé dans leur mémoire des récits assez étendus pour qu’on en ait rempli des bibliothèques lorsque l’art d’écrire est devenu commun en Scandinavie, servent à nous faire concevoir la possibilité d’une conservation orale des poèmes homériques. L’histoire entière du Nord, dit Botin ( Histoire de Suède, ch. 8.), était rédigée en poèmes non écrits. (Il y a encore de nos jours, dans la Finlande, des paysans dont la mémoire égale celle des rhapsodes grecs. Ces paysans composent presque tous des vers, et quelques-uns récitent de très-longs poèmes, qu’ils conservent dans leur souvenir, en les corrigeant, sans jamais les écrire. ( Rühs, Finnland und seine Bewohner ). (Ed è ben naturale che de’ rozzi paesani per cui la scrittura non è ancora in uso o in possesso, coincidano co’ Greci di que’ tempi in cui la scrittura non era usata neppure dalle classi più colte). Bergmann ( Streifereyen unter den Calmucken, II, 213. V. p. 4412.), parle d’un poème Calmouk, de 360 chants, à ce qu’on assure, et qui se conserve depuis des siècles dans la mémoire de ce peuple. Les rhapsodes, qu’on nomme Dschangarti, savent quelquefois vingt de ces chants par coeur, c’est-à-dire un poème à peu près aussi étendu que l’Odyssée; car par la traduction que Bergmann nous donne d’un de ces chants, nous voyons qu’il n’est guère moins long qu’une rhapsodie homérique. [Ora sarebbe egli credibile che tutto questo poema fosse stato composto da un solo, quando anche i Calmucchi lo affermino per tradizione?]) Notre vie sociale, observe M. de Bonstetten ( Voy. en Ital. p. 12.), disperse tellement nos facultés, que nous n’avons aucune idée juste de la mémoire de ces hommes demi-sauvages, qui, n’étant distraits par rien, mettaient leur gloire à réciter en vers les exploits de leurs ancêtres. B. Constant, de la Relig. liv. 8. consacrato a provare che l’Iliade e l’Odissea sono d’autori e d’epoche differenti, e che questa è posteriore a quella, chap. 3. t. 3. Paris 1827. p. 443-4. (12. Ottobre. 1828.).

Alla p. 4389. Simile entusiasmo, del resto, producevano nel popolo greco, anche a’ tempi colti e dopo l’uso della scrittura, e quindi in condizione similissima a quella del popolo napoletano, le poesie recitate da’ rapsodi. V. il dialogo platonico Ione. (13. Ott.)

A. W. Schlegel pense que l’Iliade est composée de 3 poèmes, dont le 1.r finit avec le 9.e livre, le second avec le dix-huitième, et dont le 3.e comprend la mort de Patrocle, celle d’Hector. Il regarde comme des composit. à part la Dolonéide et le 24.e livre. Les derniers chants, dit-il, sauf les 30. vers qui terminent le tout, se rapprochent déjà de la pompe et de la majesté préméditée de la tragédie. Constant, l. c. ci-dessus, p. 462. not. (13. Ott. 1828.).

On ne peut lire les chants d’Ossian sans être frappé de leur uniformité, et néanmoins Ossian n’a certainement pas été un seul et même barde. Ib. 457-8. (13. Ott.).

Alla p. 4359. Mais toutes ces différences entre les deux races (dorienne et ionienne) sont bien postérieures aux âges homériques: ceux même qui les ont le mieux observées ont reconnu cette vérité. Les Grecs d’Homère, remarque M. Heeren, se ressemblent tous, quelle que soit leur origine. Il n’y a nulle distinction à faire entre les Béotiens, les Athéniens, les Doriens, les Achéens que nous rencontrons dans ses poèmes. Les héros de ces diverses peuplades n’ont rien de local. Les contrastes qui les séparent, proviennent de leur caractère individuel et de leurs qualités personnelles. ( Heeren, Ideen. Grecs, (sic) pag. 117.). Il en est de même des dieux. Bien que Junon soit la divinité spéciale de l’Argolide, Jupiter de l’Arcadie, de la Messénie et de l’Élide, Neptune de la Béotie et de l’Égialée, Minerve de l’Attique, toutes ces spécialités disparaissent dans la mythologie homérique. Ib. l. 7. ch. 3. p. 286-7. Questa mancanza di località ne’ caratteri ec. de’ Greci omerici, non verrebbe ella da difetto d’arte nel poeta, piuttosto che da reale uniformità di tutti i Greci di quel tempo (uniformità affatto inverisimile, trattandosi di tanti popoli, divisi di governo, e formanti in certa maniera tante diverse nazioni), come l’hanno creduto questi scrittori? (14. Ott. 1828.). In tal caso però i poemi omerici sarebbero o di un solo autore, o di autori tutti d’un medesimo paese, cosa non improbabile. Infatti essi non erano appena conosciuti nel Peloponneso al tempo di Licurgo, che li portò a Sparta, cioè portò seco rapsodi che li cantavano, dalla Ionia. (14. Ott. 1828.).

Les dieux sont jaloux, dit Homère ( Il. 7.455.), non seulement du succès, mais de l’adresse et du talent. Toute prospérité mortelle fait ombrage à l’orgueil divin. On trouve chez les Grecs mod. un vestige assez curieux de cette anc. idée, que les dieux sont jaloux de tout ce qui est distingué. Ils considèrent la louange comme pouvant attirer les plus grands malh. sur la pers. qui en est l’objet, ou qui est propriétaire de la chose qu’on admire; et ils demand. avec instance au panégyriste indiscret de détourner l’effet de ses éloges par quelque signe de mépris qui désarme le corroux céleste. ( Pouqueville, Voy. en Morée ). Ib. ch. 6. p. 344-5. testo e note. L’origine di ciò potrebbe però essere anco il timore delle concussioni turche, e la schiavitù. (14. Ott. 1828.).

La morte consideravasi dagli antichi come il maggior de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec. Sopra tutte queste cose da me osservate altrove, v. Constant, ib. liv. 7. ch. 9. t. 3. (14. Ott. 1828.).

Gli antichi déi della Grecia ec. erano nell’immaginazione de’ greci, ec. e ne’ loro simulacri, ec. di figura mostruosa e spaventevole; abbellita a poco a poco col progresso della civiltà: segno che l’origine della religione fu il timore ec., come dico altrove. V. ib. ch. 5 (14. Ott. 1828.).

Il y a chez tous les peuples, comme le remarque un érudit célèbre ( Wolff (sic), Prolegom., p. 69.), un fait qui constate l’époque à laquelle l’usage de l’écriture devient général; c’est la composition d’ouvrages en prose. Aussi longtemps qu’il n’en existe point, c’est une preuve que l’écriture est encore peu usitée. Dans le dénûment de matériaux pour écrire, les vers sont plus faciles à retenir que la prose, et ils sont aussi plus faciles à graver. La prose naît immédiatement de la possibilité que les hommes se procurent de se confier, pour la durée de leurs compositions, à un autre instrument que leur mémoire. Ib. l. 8. ch. 3. p. 441-2. (15. Ott. 1828.).

Dans la Grammaire comparée des langues de l’Europe latine avec celle des troubadours, page 302, j’ai prouvé que le présent de l’infinitif, précédé de la négation, tenoit parfois lieu de l’impératif; que cette forme se retrouvoit dans l’ancien français ainsi que dans l’italien: mais il faut nécessairement que le verbe soit précédé de la négation, comme le verbe l’est ici, ne t’accompagner mie À home de malvese vie . Raynouard. — J. des Savans, 1825. p. 184. Mars. (15. Ott. 1828.).

Sopra l’uso di ἀκμὴν (greco mod. ἀκόμη) p. ἔτι, è da vedersi M. Letronne nel Nouvel Examen critique et historique de l’Inscription grecque du roi nubien Silco, articolo 1. alla linea 12. dell’Iscriz., nel J. des Savans, 1825. p. 108. Février. (15. Ott. 1828.).

Alla p. 4364. Il vero modo di citare questa Memoria di M. Letronne, è: Nouvel Examen critique et historique de l’Inscription grecque du roi nubien Silco. Partie historique. Sect. II. — Journ. des Savans, 1825, Mai (3.me article, et dernier.) (15. Ott. 1828.).

Alla p. 4407. Il vero titolo è: Nomadische Streifereien unter den Kalmüken: (cioè Promenades nomades chez les Kalmuks.) Riga 1804. 4. vol. in 8.o. op. tradotta da M. Moris in francese: Voyage de Benjamin Bergmann chez les Kalmuks (fatto nel 1802 e 1803); Châtillon-sur-Seine, 1825. I. vol. in 8.o. (esso non comprende i 2. ult. vol. dell’op. tedesca, che contengono delle traduzioni dal mongolico ec.) ( Journ. des Savans, 1825. p. 363. sqq. Juin.)

Utilità della pazienza ec. Una faccenda noiosa o penosa, un viaggio ec., quando è sulla fine, riesce più molesto che mai, le ultime miglia paiono le più lunghe ec., non già perchè l’uomo allora è più stanco, ma perchè l’impazienza si accresce per quella smania di arrivare, che nasce dal vedere il termine da vicino. (17. Ottob. 1828. Firenze.).

Alla p. 4388. Questo es. potrebbe far credere vero che i diascheuasti omerici fossero di poco posteriori a Pisistrato, del che a p. 4355. (17. Ottob. 1828 .).

Alla p. 4359. L’epica, non solo per origine, ma totalmente, in quanto essa può esser conforme alla natura, e vera poesia, cioè consistente in brevi canti, come gli omerici, ossianici ec., ed in inni ec., rientra nella lirica. V. p. 4461.

Alla p. 4372. Infatti la lingua italiana tra le moderne è considerata per aver la più antica letteratura, perchè ha i più antichi libri veramente letterarii, e che abbiano esercitata ed esercitino ancora un’influenza perpetua sulla lingua e letteratura nazionale; mentre quanto all’antichità semplicemente di scrittura, cioè di versi e prose scritte in lingua volgare (anche lunghi poemi, lunghe Cronache ec.), la lingua italiana cede di gran lunga alla francese e spagnuola ec., per non parlare della tedesca ec. (anzi in ciò la lingua italiana è delle più moderne, se non la più.) Nondimeno è sempre vero che la letteratura italiana è la più antica delle viventi, perchè Dante, Petrarca Boccaccio sono i più antichi classici fra’ moderni, i più antichi che si leggano e nominino, non solo fra gli eruditi nazionali, ma fra tutti i colti d’Europa.

Quando io dico: la natura ha voluto, non ha voluto, ha avuto intenzione ec., intendo per natura quella qualunque sia intelligenza o forza o necessità o fortuna, che ha conformato l’occhio a vedere, l’orecchio a udire; che ha coordinati gli effetti alle cause finali parziali che nel mondo sono evidenti. (20. Ott. 1828.).

Alla p. 4406. Chi dicesse che i Persiani d’Eschilo sono di un persiano, o composti nel senso e spirito persiano, perchè l’interesse e la compassione quivi è tutta per i Persiani, direbbe bene nel senso de’ moderni, e pure avrebbe torto nel fatto. Essi sono di un greco, nazionale degli autori di quelle disgrazie, ec. (anzi se non erro, Eschilo militò contro i Persiani), e fatti per essere rappresentati ai greci. I Persiani, considerati in questo aspetto, sono propriamente il pendant dell’Iliade (e il comento), e il rovescio della Μιλήτου ἅλωσις di Frinico.

Umbra, ombra — sombra (spagn.), sombre (franc.)

Alla p. 4363. marg. Perocchè i grammatici, diascheuasti ec. non sono giunti di gran lunga a render metrici tutti i versi omerici.

Alla p. 4369. Così ad Ossian si attribuirono tutte le poesie caledonie: ad Omero tutte quelle che compongono oggi l’Iliade e l’Odissea; tra le quali, supposta per vera la persona di quest’Omero, è però ben difficile, come appunto nelle ossianiche, il determinare quali sieno sue, quali d’altri; ed anche se ve ne sia alcuna di sue; anzi è veramente impossibile. Taccio poi delle tante altre poesie epiche attribuite ad Omero (e ad Esiodo), compresa la Batracomiomachia, sì manifesta parodia dell’Iliade: e ciò fin dal tempo di Erodoto, che nomina τὰ Κύπρια ἔπεα come opera attribuita ad Omero, a cui egli però la nega (l. I. c. 117. Schweigh.), e gli Ἐπίγονοι parimente, de’ quali pure egli dubita se sieno d’Omero (l. 4. c. 32. Schweigh.) (21. Ott.).

Il vedere che Omero (per usare, come dice Constant, questo nome collettivo) parlando della sua poesia, non dice mai di scrivere, ma sempre cantare o dire, è prova assai maggiore che non si crede, che i suoi versi in fatto non furono scritti. Noi, quantunque i nostri versi si scrivano, diciamo di cantarli, perchè la lingua antica, cioè la lingua di Omero, ha usata questa espressione per il poetare. Ma nella lingua di Omero, non vi poteva essere altra ragione per usarla e per non parlar mai di scrittura, se non, che le poesie in fatti si cantavano senza scriverle. Ho dimostrato altrove che dovunque esiste una lingua poetica formata, questa lingua non è altro che lingua antica. Ma i tempi d’Omero non potevano avere una lingua poetica (se non per lo stile, come i francesi), perchè non avevano antichità di lingua. E in fatti non avevano lingua poetica a parte: e Omero nomina tutti gli usi di que’ tempi, nomina le città, i popoli, i magistrati ec. co’ loro nomi propri e prosaici. Così accade in tutte le poesie primitive, e così Dante è pieno di nomi propri e prosaici, spettanti a geografia (Montereggione ec. ec.), costumi de’ suoi tempi, dignità ec., nomi che ora o sono sbanditi dalla lingua poetica, o non vi sono ammessi se non come usati da Dante. V. p. 4426. Se dunque l’uso del tempo omerico fosse stato che le poesie si scrivessero, Omero avrebbe detto francamente di scriverle. Il veder che nol dice mai, nemmen per perifrasi o metafora (come fa l’autore della Batracomiomachia subito nel bel principio, nell’invocazione; il quale dice il Wolf come cosa provata, essere stato verisimilmente circa i tempi d’Eschilo[a]), è prova quasi parlante che non le scriveva. (21. Ott. 1828. Firenze.).

Perchè il moderno, il nuovo, non è mai, o ben difficilmente romantico; e l’antico, il vecchio, al contrario? Perchè quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente. (22. Ottobre. 1828. Firenze.).

Qu’on jette une poultre entre ces deux tours de Notre-Dame de Paris, d’une grosseur telle qu’il nous la fault à nous promener dessus, il n’y a sagesse philosophique de si grande fermeté qui puisse nous donner courage d’y marcher comme si elle estoit à terre. Montaigne, Essais, livre 2. chap. 12. Pascal ( Pensées ) si è appropriato questo pensiero. Le plus grand philosophe du monde, sur une planche plus large qu’il ne faut pour marcher à son ordinaire, s’il y avoit au-dessous un précipice, quoique sa raison le convainque de sa sûreté, son imagination prévaudra. I funamboli fanno più ancora; ma ciò non distrugge la convenienza dell’osservazione soprascritta. (Firenze. 23. Ottobre. 1828.).

La grazia in somma per lo più non è altro che il brutto nel bello. Il brutto nel brutto, e il bello puro, sono medesimamente alieni dalla grazia. (Firenze. 25. Ott. 1828.).

Alla p. 4369. Le nom d’Ésope étoit d’ailleurs devenu dans la Grèce une espèce de sceau banal, qu’on attachoit à tous les apologues utiles et ingénieux, comme ceux de Pilpay, de Lockman, de Salomon, dans l’Orient. (Così tutti i Salmi attribuiti a David, ec.). Charles Nodier, Questions de littérature légale, 2.de édit. Paris 1828. par. 8.p. 68-9. C’est le propre de l’érudition populaire de rattacher toutes ses connoissances à quelque nom vulgaire. Il y a peu de grandes actions de mer qu’on n’attribue à Jean Bart, peu d’espiègleries grivoises qu’on ne mette sur le compte de Roquelaure. Il en est de même, pour la foule, des auteurs à la portée desquels son intelligence peut s’élever. Il y a cent cinquante ans qu’un bon mot ne pouvoit éclore que sous le nom de Bruscambille ou de Tabarin. Ib. note, p. 68-9. (Firenze. 26. Ottob. 1828.).

Ho preso un poco di vino, quanto per dormire ὅσον καθεύδειν, o πρὸς τὸ καθεύδειν ec. (3. Nov. 1828.).

Οἶκος — vicus.

De’ diascheuasti italiani e latini v. Perticari (Scritt. del 300) dove parla della pessima ortografia autografa del Petrarca Tasso ec., e dove prova che i latini del buon secolo, copiando o citando Ennio e gli altri antichi, li riducevano in gran parte alla moderna. (3. Nov. 1828.).

La Divina Commedia non è che una lunga Lirica, dov’è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti. (Firenze. 3. Novembre. 1828.).

Ὡς ἔρχομαι φράσων, ὡς ἔρχομαι λέξως, περὶ οὗ ἔρχομαι λέξων e simili; frasi frequentissime di Erodoto, nel semplicissimo senso del francese comme je vais dire ec. (Firenze. 8. Nov. 1828. Sabato.).

Fratta — φράττω, καταφρακτὸς ec. (Recanati. 30. Nov. 1828. Domenica.).

Non saprei come esprimere l’amore che io ho sempre portato a mio fratello Carlo, se non chiamandolo amor di sogno. (30. Nov.).

Memorie della mia vita. — Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo. Passar le giornate senza accorgermene; parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle. V. p. 4477. — Piacere, entusiasmo ed emulazione che mi cagionavano nella mia prima gioventù i giuochi e gli spassi ch’io pigliava co’ miei fratelli, dov’entrasse uso e paragone di forze corporali. Quella specie di piccola gloria ecclissava per qualche tempo a’ miei occhi quella di cui io andava continuamente e sì cupidamente in cerca co’ miei abituali studi. (30. Nov.).

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (30. Nov. I.a Domenica dell’Avvento.). V. p. 4502.

È cosa notata che il gran dolore (come ogni grande passione) non ha linguaggio esterno. Io aggiungo che non ne ha neppure interno. Vale a dire che l’uomo nel grande dolore non è capace di circoscrivere, di determinare a se stesso nessuna idea, nessun sentimento relativo al suggetto della sua passione, la quale idea o sentimento egli possa esprimere a se medesimo, e intorno ad essa volgere ed esercitare, per dir così, il pensiero nè dolor suo. Egli sente mille sentimenti, vede mille idee confuse insieme, o piuttosto non sente, non vede, che un sentimento, un’idea vastissima, dove la sua facoltà di sentire e di pensare resta assorta, senza potere, nè abbracciarla tutta, nè dividerla in parti, e determinar qualcuna di queste. Quindi egli allora non ha propriamente pensieri, non sa neppur bene la causa del suo dolore; egli è in una specie di letargo; se piange (e l’ho osservato in me stesso), piange come a caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di che. Quei drammatici, e simili, che in circostanze di grandi passioni introducono de’ soliloqui, fondandosi sulla convenzione che permette a’ suoi personaggi di dire alto quello che essi direbbero tra se medesimi se fossero reali, sappiano che in tali circostanze l’uomo tra se non dice nulla, non parla punto neppur seco stesso. E fra tali drammatici ve n’ha de’ sommi (Shakespeare medesimo), se non son tali tutti. (30. Nov. 1828. Recanati.).

Alla p. 4280. Ho veduto io stesso un canarino domestico e mansuetissimo, appena presentato a uno specchio, stizzirsi colla propria immagine, ed andarle contro colle ali inarcate e col becco alto.

Alla p. 4241. Vedesi l’uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudicata ed originale, ed anche nella ragionevole e spregiudicata morale teologica del marchese Maffei; nello stile originale, nel modo individuale di pensare e di poetare, nel tuono ardito e sicuro, nella stessa fermezza e forza d’opinion religiosa e superstiziosa del Varano. (1. Dicembre. 1828. Recanati.).

Memorie della mia vita. — Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna. Io era allora incapace di conciliar l’una vita coll’altra; tanto incapace, che io giudicava questa riunione impossibile, e mi credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti a vivere esternamente, non provassero più vita interna di quella ch’io provava allora, e che i più non l’avessero mai conosciuta. La sola esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su questo articolo. Ma quello stato fu forse il più penoso e il più mortificante che io abbia passato nella mia vita; perch’io, divenuto così inetto all’interno come all’esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita. (1. Dic. 1828.).

Il giovane, per la stessa veemenza del desiderio che ne sente è inabile a figurare nella società. Non diviene abile se non dopo sedato e pressochè spento il desiderio, e il rimovimento di quest’ostacolo ha non piccola parte nell’acquisto di tale abilità. Così la natura delle cose porta che i successi sociali, anche i più frivoli, sieno impossibili ad ottenere quando essi cagionerebbero un piacere ineffabile; non si ottengano se non quando il piacere che danno è scarso o nessuno. Ciò si verifica esattamente: perchè se anco una persona arriva ad ottener de’ successi nella prima gioventù, non vi arriva se non perchè il suo animo percorrendo rapidamente lo stadio della vita, è giunto assai tosto (come spesso accade) a quello stato nel quale i successi sociali si desiderano leggermente, e poco o niun piacere cagionano. (1. Dic. 1828.).

Nelle mie passeggiate solitarie per le città, suol destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la vista dell’interno delle stanze che io guardo di sotto dalla strada per le loro finestre aperte. Le quali stanze nulla mi desterebbero se io le guardassi stando dentro. Non è questa un’immagine della vita umana, de’ suoi stati, de’ beni e diletti suoi? (1. Dicembre. 1828. Recanati.).

La Natura è come un fanciullo: con grandissima cura ella si affatica a produrre, e a condurre il prodotto alla sua perfezione; ma non appena ve l’ha condotto, ch’ella pensa e comincia a distruggerlo, a travagliare alla sua dissoluzione. Così nell’uomo, così negli altri animali, ne’ vegetabili, in ogni genere di cose. E l’uomo la tratta appunto com’egli tratta un fanciullo: i mezzi di preservazione impiegati da lui per prolungar la durata dell’esistenza o di un tale stato, o suo proprio o delle cose che gli servono nella vita, non sono altro che quasi un levar di mano al fanciullo il suo lavoro, tosto ch’ei l’ha compiuto, acciò ch’egli non prenda immantinente a disfarlo. (2. Dic. 1828.).

Memorie della mia vita. — Sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole. Credo però nondimeno che non vi sia giovane, qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo quelle stesse parole. (2. Dicembre. 1828. Recanati.).

La lingua spagnuola pare e parrà sempre ridicola agl’Italiani per la stessa ragione per cui la scimmia riesce un animale ridicolo all’uomo: estrema similitudine con gravi differenze. Ma questo ridere dello spagnuolo, assolutamente parlando, è per lo meno così irragionevole come il ridere della scimmia; e di più, è soggetto a reciprocità; giacchè è naturale che l’italiano riesca, e con altrettanta ragione, altrettanto ridicolo agli Spagnuoli. Lo spagnuolo ci riesce ridicolo nel modo e per la ragione che ci riesce tale un dialetto dell’italiano. Similmente l’italiano dee riuscire ridicolo agli spagnuoli come un dialetto della lingua spagnuola. Egli è dunque un vero pregiudizio negl’Italiani il considerar lo spagnuolo come lingua o pronunzia che abbia qualcosa di ridicolo in se, argomentando dall’effetto che essa fa in noi. (2. Dic. 1828.). (Vedi la pag. 4506.).

Alla p. 4248. fine. I greci molto ragionevolmente, checchè ne dica Cicerone, che preferisce la voce latina convivio, chiamavano il convito simposio, cioè compotazione, perchè in esso non era veramente comune, e fatto in compagnia, se non solo il bere, cosa ragionevolissima, e non il mangiare, come forse tra’ Romani ec. (V. il luogo di Cic. nel Forcell. in Convivium, o Sympos. o Compotat. ec.) (2. Dic. 1828.).

Guadagnoli recitante in mia presenza all’Accademia de’ Lunatici in Pisa, presso Mad. Mason, le sue Sestine burlesche sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del soggetto con quello dei gesti e della recitazione. Sentimento doloroso che io provo in casi simili, vedendo un uomo giovane, ponendo in burla se stesso, la propria gioventù, le proprie sventure, e dandosi come in ispettacolo e in oggetto di riso, rinunziare ad ogni cara speranza, al pensiero d’ispirar qualche cosa nell’animo delle donne, pensiero sì naturale ai giovani, e abbracciare e quasi scegliere in sua parte la vecchiezza spontaneamente e in sul fiore degli anni: genere di disperazione de’ più tristi a vedersi, e tanto più tristo quanto è congiunto ad un riso sincero, e ad una perfetta gaieté de coeur. (Recanati. 3. Dic. festa di S. Fr. Saverio. 1828.).

Io abito nel bel mezzo d’Italia, nel clima il più temperato del mondo; esco ogni giorno a passeggiare nelle ore più temperate della giornata; scelgo i luoghi più riparati, più acconci ed opportuni; e dopo tutto questo, appena avverrà due o tre volte l’anno, che io possa dire di passeggiare con tutto il mio comodo per rispetto al caldo, al freddo, al vento, all’umido, al tempo e simili cose. E vedete infatti, che la perfetta comodità dell’aria e del tempo è cosa tanto rara, che quando si trova, anche nelle migliori stagioni, tutti, come naturalmente, sono portati a dire: che bel tempo! che buon’aria dolce! che bel passeggiare! quasi esclamando, e maravigliandosi come di una strana eccezione, di quello che, secondo il mio corto vedere, dovrebbe pur esser la regola, se non altro, nei nostri paesi. Gran benignità e provvidenza della natura verso i viventi! (3. Dic. 1828.).

L’esclusione dello straniero e del suddito dai diritti (quantunque naturali e primitivi) del cittadino e della nazion dominante, esclusione caratteristica di tutte le legislazioni antiche, di tutte le legislazioni appartenenti ad una mezza civiltà; esclusione fondata implicitamente in una opinione d’inferiorità di natura delle altre razze d’uomini alla dominante o cittadina, ed esplicitamente basata sopra questo principio, e ridotta a teoria e dottrina scientifica e filosofica per la prima volta che si sappia (come tante altre opinioni e cognizioni del suo tempo) da Aristotele nella Politica (opera citata spesso da Niebuhr nella Storia Romana come genuina d’Aristotele); questa esclusione, dico, è manifestissima in tutte le legislazioni de’ bassi tempi, nelle quali il favor della legge in difesa delle proprietà o delle persone, ed ogni altro diritto, era quasi esclusivamente per li soli nobili. In Francia un nobile che uccidesse un ignobile, non aveva altra pena che di gettare cinque soldi sulla sepoltura dell’ucciso: tale era la legge. (Courier.) Così di tutti gli altri diritti. Ed è ben noto che le legislazioni moderne non sono ancora ben purgate di questo lor vizio originale di distinguere due razze d’uomini, nobili e ignobili ec. Ora i nobili, com’è osservato da’ giurisconsulti e storici, sono per lo più e quasi totalmente, in quelle semibarbare legislazioni, sinonimo di liberi, d’ingenui, di cittadini, di burghers in Germania, ( Niebuhr, Stor. rom. p. 283.) nazionali, appartenenti alla nazion dominante, e per la quale son fatte le leggi; e gl’ignobili non sono in origine che stranieri, sudditi, servi, membri della nazione vinta e conquistata. Tutte le deplorate perversità delle legislazioni de’ bassi tempi e moderne, relative alla nobiltà (sinonimo d’ingenuità, nazionalità) provengono da quel principio di distinzione tra cittadino e straniero relativamente ai diritti dell’uomo, che abbiamo spesso considerata ne’ più antichi popoli. Qua pure appartiene la legislazione turca relativamente ai raja, cioè schiavi, cioè greci, vinti e conquistati, uomini considerati diversi da’ turchi. (4. Dic. 1828.).

Conservare la purità della lingua è un’immaginazione, un sogno, un’ipotesi astratta, un’idea, non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso di una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alle dottrine, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto nulla da alcuna nazione straniera. La greca, per una stranissima combinazione di circostanze, si trovò, dopo la formazione della sua lingua e letteratura, per lunghissimo spazio di tempo, nel detto caso. Essa nazione greca (se non vogliamo associarvi la chinese) è fra le nazioni civili la cui storia sia conosciuta, il solo esempio reale di un caso siffatto, e la lingua greca è altresì la sola lingua colta che abbia per lungo spazio conservata una vera ed effettiva purità. La lingua latina fu impura tosto che divenne colta e letteraria. L’italiana fu impurissima nel suo stesso nascere come lingua scritta, piena di provenzalismi e di francesismi: poi, per la rara circostanza che l’Italia, divenuta maestra e lume e fonte alle altre nazioni, si trovò, come la Grecia, nel caso di non ricever nulla di fuori, essa lingua conservò una certa purità; finchè mutata (anzi ridotta all’opposto) la circostanza, essa divenne nuovamente, e rimane, impurissima. Alle nazioni presenti e future (e all’italiana soprattutto) durando il presente stato reciproco delle nazioni e delle letterature, la purità della lingua, presupposto che di questa lingua le nazioni vogliano far uso, è cosa immaginaria e impossibile. (5. Dic. 1828.).

Novem — (noundinae) nundinae: quasi novendiales, mercati o fiere che si tenevano ogni nono giorno, cioè ogni otto giorni (ch’era l’antica settimana degli Etruschi) una volta. (Niebuhr, Stor. rom.) (11. Dic. 1828.).

Alla p. 4415. Dante, dal quale egli (il Monti) tolse l’arte di ben fissare la fantasia del lettore sul luogo della scena, verseggiando la Geografia spesse volte assai più maestrevolmente che Dante stesso non faccia; e l’arte più notabile ancora, che in Dante stimava Rousseau, di chiamare le cose coi nomi lor propri. Antolog. di Fir. Ottob. 1828. vol. 32. num. 94. p. 177. (Recanati 13. Dic. 1828.).

Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Recanati. 14. Dic. Domenica. 1828.). V. p. seg. e p. 4471.

I o visI u ppiter , cioè Iovis pater (Iouppiter). L’etimologia data da qualche antico, juvans pater (v. Forcellini), mostra che già anticamente era poco nota o dimenticata la contrazione dell’ov, o ou, in u, propria dell’antico latino siccome di molte altre lingue. (21. Dic. Domen. festa di S. Tommaso. 1828.).

Il fut reçu ( M. Charles le Beau, auteur de l’Hist. du Bas Empire ) à l’académie des belles lettres, en 1759 ayant cette même année remporté le prix, dont le sujet étoit cette question importante et vraiment philosophique: Pourquoi la langue grecque s’est-elle conservée si long-temps dans sa pureté, tandis que la langue latine s’est altérée de si bonne heure . Encyclop. méthodique . Histoire: art. Beau (Charles le). (24. Dic. Vigil. di Natale. 1828.).

Alla p. preced. Il piacere che ci danno un certo stile semplice e naturale (come l’omerico), le immagini fanciullesche, e quindi popolari, circa i fenomeni, la cosmografia ec.; in somma il piacere che ci dà la poesia, dico la poesia antica e d’immagini; tra le sue cagioni, ha per una delle principali, se non la principale assolutamente, la rimembranza confusa della nostra fanciullezza che ci è destata da tal poesia. La qual rimembranza è, fra tutte, la più grata e la più poetica; e ciò, principalmente forse, perchè essa è più rimembranza che le altre, cioè a dire, perchè è la più lontana e più vaga. (1. del 1829.).

L’uso, comune a tante antiche (e moderne) nazioni e religioni, di conservare con grandissima gelosia il fuoco ne’ templi, e con tanta cura che non si spegnesse mai; non avrebb’egli per sua origine (come tante altre pratiche religiose dell’antichità, derivate, quali evidentemente, e quali in modo che oggi la loro origine appena si può indovinare, da bisogni o utilità sociali, da tradizioni scientifiche ec.) la rimembranza e la tradizione della difficoltà provata primitivamente per accender fuoco al bisogno, per conservarlo o rinnovarlo a piacere; e la tema di non perdere il fuoco affatto, cioè non poterlo riavere, se si fosse lasciato spegnere? (1. del 1829.).

Usarono gli antichi latini di aggiungere un d alla fine delle voci per evitare l’iato, o ne’ versi l’elisione ec. Anche nel mezzo delle voci composte; come in prosum: pro-d-es, pro-d-esse ec. — prodire, prodigere, redire, redigere ec. ec. (V. Forcell. in D littera ). Così i nostri, specialmente antichi, od, ned, ad, sed, ched ec., uso certamente non derivato da’ libri di quegli antichi latini. Segno che quest’uso conservossi per via del latino volgare ec. (1. del 1829.).

La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi. ec. ec. (Recanati. 2. Gennaio. 1829.). V. pag. 4513.

Quanto male, dal vedere che le radici di certe lingue non hanno somiglianza alcuna con quelle di certe altre, si concluda (come fa il Niebuhr, Stor. rom. p. 44. ediz. ingl.) e contro l’affinità istorica di esse lingue, e contro l’unità di origine dei linguaggi umani; si può raccogliere dal considerare le radici di quelle lingue le cui relazioni ci sono note. Figuriamoci che la lingua latina e la francese ci fossero quasi sconosciute; che si sapesse però che nell’una di quelle il giorno si chiamava dies, nell’altra jour: vi sarebbe egli alcuno che, non dico scoprisse, ma immaginasse, sospettasse solamente, la menoma analogia fra queste due voci? le quali non hanno comune neppure una lettera? E pur la francese deriva immediatamente dalla latina, essendo una semplice corruzione di diurnus o diurnum (sottinteso tempus), che nel latino basso o rustico si usò in vece della voce originale dies. V. p. 4442. E malgrado che il latino e il francese e la derivazione dell’una dall’altra sieno conosciutissimi, pure è probabile che neppure i dotti avrebbero indovinato l’etimologia della parola jour se non si fosse anche conosciuta la corrispondente e identica parola italiana giorno, che quantunque niente abbia anch’essa di comune con dies, serba però più somiglianza a diurnum (giorno per diorno, come viceversa i toscani diaccio, diacere ec. coi derivati, per ghiaccio, giacere ec.). Dimando io: se del francese e del latino non si conoscessero se non queste due voci (che son pure istoricamente quasi identiche), verrebbe egli in mente ad alcuno che quelle due lingue fossero analoghe? che l’una fosse figlia genuina dell’altra? Non si affermerebbe anzi confidentemente che esse lingue fossero di diversissime famiglie ec.? (3. Gen. 1829.). Ora se questo ci accade in lingue di cui abbiamo cognizione intera, viventi, derivate immediatamente l’una dall’altra, con milioni di mezzi per iscoprire l’etimologia delle loro radici; che ci accadrà in lingue remotissime, quasi ignote, antichissime, non figlie, non sorelle, ma bisnipoti, parenti lontanissime ec. ec.? chi ardirà di dire con sicurezza che una tal voce, perchè non ha somiglianza alcuna con un’altra di altra lingua, non abbia con essa niuna affinità istorica? E notate che la voce jour, dies ec. esprime un’idea quasi delle primitive, e delle più usuali nel discorso ec. V. p. 4485. Così, è provato che equus è la stessa voce che ἵππος ( Niebuhr, Stor. rom. p. 65. not. 223. t. 1.), ὕπνος che somnus, ec. ec.

Quanto presto e facilmente arrivi il fanciullo a cavar conclusioni dal confronto de’ particolari, a generalizzare, ad astrarre, e ad acquistar da se stesso la cognizione di principii e di astrazioni che paiono di acquisto difficilissimo (e certo è mirabile il conseguirlo), si può vedere, fra l’altre, da questa considerazione. Io ho notato, e tutti possono notare, bambini di due anni, profferire i verbi irregolari della lingua colle inflessioni che essi avrebbero dovuto avere se fossero stati regolari: p. e. dire io teno, io veno, io poto, per tengo, vengo, posso. Certamente, da nessuno sentivano essi dire io teno ec.; non dicevano dunque così per imitazione, ma per riflessione, per ragionamento; concludevano essi che se da sentire p. e. si fa io sento, da vedere, io vedo, la prima persona di tenere, potere, doveva essere io teno, io poto; di venire, io veno. E sbagliavano per esattezza di raziocinio e di generalizzazione. Avevano dunque già trovate da se le regole generali delle inflessioni de’ verbi, e formatosi già in mente il tipo, il paradigma, delle loro diverse coniugazioni: ritrovamento che esige tanta infinità di confronti, tanto acume di mente, e che pare uno sforzo dello spirito metafisico de’ primi grammatici: ai quali non è punto inferiore un tal bambino. ec. ec. Quest’osservazione merita grand’attenzione dagli psicologi e ideologi. V. p. 4519. (4. del 1829.).

Alla p. 4369. Socrate ancora appartiene a questo discorso. Dico ciò, avendo riguardo, non tanto ai Dialoghi di Platone, o platonici, ed ai Memorabili di Senofonte, quanto alla gran moltitudine di sentenze, similitudini o comparazioni, apoftegmi e detti morali, che sotto nome di Socrate, tratti da diversi autori e compilatori che li riferivano, si leggono nelle collezioni o florilegii di Stobeo, d’Antonio, di Massimo. (4. del 1829.). V. p. 4469. fin.

Al nostro da capo è anche analogo il greco ἄνωθεν per di nuovo, (quasi da cima, che noi diremmo anche appunto da capo). Socrate, ap. Stobeo, cap. 123. παρηγορικά: ed. Gesner., Tigur. 1559. πεττείᾳ τινὶ ἔοικεν ὁ βίος• καὶ δεῖ ὥσπερ ψῆφόν τινα τίθεσθαι τὸ συμβαῖνον· οὐ γάρ ἐστιν ἄνωθεν βαλεῖν οὐδὲ ἀναθέσθαι τὴν ψῆφον. Aleae ludo similis est vita: et quicquid evenit, veluti quandam tesseram disponere oportet. Non enim denuo jacere licet, neque tesseram aliter ponere (versio Gesneri.) Al qual luogo Io. Conradus Orellius, Opusc. Graecorum veterum sententiosa et moral. t. 1. p. 455-6. Lips. 1819., fa questa annotazione. Ἄνωθεν βαλεῖν) ἄνωθεν, denuo, iterum, wieder von vorne an. Sic et Paulus Apostolus Gal. IV. 9. οἷς πάλιν (questa voce è forse una glossa) ἄνωθεν δουλεύειν ἐθέλετε. et Josephus Antiquitt. Lib. I. Cap. XVIII. par. 3. φιλίαν ἄνωθεν ποιεῖται πρὸς αὐτόν. quem locum apposite citat Schleusner. in Lex . N. Test. h.v. (5. del 1829.).

Pitagora ap. Jamblich. de vit. Pyth. cap. 18. p. 183. ed. Kiesslingii (editio novissima, la chiama l’Orelli nel 1819): Ἀγαθὸν οἱ πόνοι• αἱ δὲ ἡδοναὶ ἐκ παντὸς τρόπου κανόν. Benissimo: ma che dire di quella o intelligenza o cieca necessità che ha ordinate così le cose? e a che pro le fatiche, se il piacere, che è il solo fine possibile, è sempre male? (6, 1829.).

Alla p. 4406. Giuliano, ep. 22. p. 389. B. Spanhem. Ὁ λογοποιὸς ὁ Θούριος (Erodoto). Strab. l. XIV. p. 656. e Diodoro, l. II p. 262 (Fabricius) chiamano Erodoto συγγραφέα. — Anche nelle lingue moderne, le prime prose scritte, voglio dire, i primi libri in prosa, sono ordinariamente storici, cioè cronache e simili. (6, 1829.). V. p. 4464.

Alla p. 4353. poemata etc. duntaxat decantata voce, perinde ut: apud veteres Germ. ac Getas carmina antiqua, quae Tac. in lib. de morib. etc. et Jornandes cap. 4 et 5 de reb. Geticis, celebrat. Fabric. B. G. I. I. p. 3-4. (6. 1829.).

Digamma. The history of Rome by B. G. Niebuhr, translated by Julius Charles Hare, M. A. and Connop Thirlwall, M. A. fellows of Trinity college, Cambridge. the first volume. Cambridge, 1828. sezione intitolata: Ancient Italy; p. 17. not. 33. Micali with great plausibility explains the Oscan Viteliu on the Samnite denary of the same age (the age of the Marsic war) to be the Sabellian form of Italia. T. I. p. 52. The analogy of Latium, Samnium, gives Italium, or with the digamma Vitalium, Vitellium; and Vitellio is like Samnio. Vitalia is mentioned by Servius among the various names of the country: on Aen. VIII. 328. — p. 18. In the Tyrrhenian or the ancient Greek (not. 36. In the former, according to Apollodorus Bibl. II. 5. 10.; in the latter, according to Timaeus quoted by Gellius XI. 1. Hellanicus of Lesbos cited by Dionysius, I. 35, does not determine the language. Tyrrhenian however here does not mean Etruscan, but Pelasgic, as in the Tyrrhenian glosses in Hesychius.) italos or itulos meant an ox. The mythologers connected this with the story of Hercules driving the Geryon’s herd (not. 37. Hellanicus and Apollodorus in the passages just referred to) through the country: Timaeus, in whose days such things were no longer thought satisfactory, saw an allusion to the abundance of cattle in Italy. (not. 38. Gellius XI. 1. Piso, in Varro de re r. II. 1, borrowed the explanation from the Greeks.)... In the Oscan name of the country (dell’antica Italia), which, as we have seen, was Vitellium, there is an evident reference to Vitellius, the son of Faunus and of Vitellia, a goddess worshipt in many parts of Italy. (not. 39. Suetonius Vitell. I.) — Altrove l’autore nota che Vitulus, cognome di una famiglia romana, non è che Italus; preso, come tanti altri, dal paese originario della famiglia. (7. 1829.).

Ib. sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p. 38-9. l’autore nota e dimostra that, according to manifold analogy, Sikelus and Italus are the same name (not. 122. as Σελλος and Ελλην. Aristot. Meteorol. I. 14. p. 33. Sylb. (vedi Cellar. t. 1. p. 886.) T and K are interchanged as in Latinus and Lakinius ); e che però ugualmente Sicilia ed Italia sono un nome solo e medesimo I Siceli, secondo l’autore, furono Pelasghi, di quelli chiamati Tirreni, che dall’Italia, cioè da quella parte della penisola che allora si chiamava propriamente Italia, cacciati dagli Aborigini, emigrarono in Sicilia, così detta d’allora in poi, dal nome di questi emigranti, Siceli, cioè Itali. (9. 1829.).

Ib. p. 40. not. 127. Salmasius saw that Maleventum or Maloentum, in the heart of what was afterward Samnium would in pure Greek have been Maloeis or Malus. E l’autore lo dimostra con altri esempi di nomi latini neutri in entum derivati da nomi greci mascolini in ας o ους, genitivo εντος. Vedi nel Cellar. e nel Forc. le sciocche etimologie di Maleventum date dagli antichi latini, le quali dimostrano la loro ignoranza o inavvertenza circa il digamma. (9. 1829.). Anzi da tale ignoranza sembra nato il nome di Beneventum dato a quel che prima fu Maleventum.

Ib. p. 50-1. We may observe a magical power exercised by the Greek language and national character over foreign races that came in contact with them. The inhabitants of Asia Minor hellenized themselves from the time of the Macedonian conquest, almost without any settlements among them of genuine Greeks: Antioch, though the common people spoke a barbarous language, became altogether a Greek city; and the entire transformation of the Syrians was averted only by their Oriental inflexibility. Even the Albanians, who have settled as colonies in modern Greece, have adopted the Romaic by the side of their own language, and in several places have forgotten the latter: it was in this way only that the immortal Suli was Greek; and the noble Hydra itself, the destructions of which we shall perhaps have to deplore before the publication of this volume, is an Albanian settlement. .. Calabria, like Sicily, continued a Grecian land, though Roman colonies were planted in the coasts: the Greek language only began to give way there in the 14th century; and it is not three hundred years since it prevailed (dominava) at Rossano, and no doubt much more extensively; for our knowledge of the fact as to that little town is merely accidental: indeed even at this day there is remaining in the district of Locri a population that speaks Greek. (not. 163. For the assurance of this fact, which is stated in several books of travels in a questionable manner, I am indebted to the Minister Count Zurlo; whose learning precludes the possibility of his having confounded the natives with the Albanian colonies.) (10. 1829.).

Ib. sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p. 57. Olsi, as it stands in the Periplus of Scylax (not. 190. Ὀλσοὶ. Peripl. 3.), is no errour of the transcriber; it is Volsi dropping the Digamma; hence Volsici was derived, and then contracted into Volsci... I have no doubt that the Elisyci or Helisyci, mentioned by Herodotus (VII. 165.) among the tribes from which the Carthaginians levied their army to attack Sicily in the time of Gelon, are no other people than the Volsci. — (10. 1829.).

Dispersar spagn. ( Quintana ).

Discorso sopra Omero, ec. Ateneo, l. 14. p. 619. E. F. 620. A. ricorda certe canzoni ( ᾠδαὶ ) popolari lamentevoli, solite cantarsi da’ villani ( οἱ ἀπὸ τῆς χώρας ) fra’ Mariandini, popolo dell’Asia, che abitò fra la Bitinia e la Paflagonia, sopra un loro antico; canzoni mentovate anche da Esichio v. Βῶρμον. — Ib. 620. b. c. parlando dei rapsodi, dice Χαμαιλέων δ' ἐν τῷ περὶ Στησιχόρου καὶ μελῳδηθῆναι φησίν (essere state cantate da’ rapsodi) οὐ μόνον τὰ Ὁμήρου, ἀλλὰ καὶ τὰ Ἡσιόδου καὶ Ἀρχιλόχου, ἔτι δὲ Μιμνέρμου καὶ Φωκυλίδου Ib. d. Ἰάσων δ' ἐν τρίτῳ περὶ τῶν Ἀλεξάνδρου ἱερῶν (sacrificiis. Dalechamp.), ἐν Ἀλεξανθδρείᾳ φησίν, ἐν τῷ μεγάλῳ θεάτρῳ, ὑποκρίνασθαι Ἡγησίαν τὸν κωμῳδὸν τὰ Ἡροδότου, Ἑρμόφαντον δὲ τὰ Ὁμήρου. Non so poi il come. Dalech. traduce historiam Herodoti egisse: Fabric. in Erodoto, dice in theatro decantata fuisse , citando semplicemente questo luogo, dove però ὑποκρίνασθαι è ben più che decantasse. Casaub. qui non ha nulla. (11. 1829. Domenica.).

Orelli, loc. cit. p. 4431. princip.; p. 519. Αὐτίκα. Exempli gratia, verbi causa, ut saepius. V. Ernesti ad Xenoph. Mem. IV. c. 7, 2. Ruhnken. ad Timaei Lex Plat. p. 56. ed. 2. et Fischer in Indice ad Aeschin. Socr. hac voce. (11. 1829.).

Considerazioni sopra Omero ec. Non solo le poesie omeriche, ma molti altri scritti, e forse tutti quelli della più alta antichità, non solo poesie ma prose ancora, esistenti in oggi o perdute, ebbero probabilmente i loro diascheuasti, che ridussero la loro ortografia e dicitura a forma più moderna e meno rozza ed irregolare: e in tal forma soltanto, cioè diascheuasmenoi più o meno, passarono essi scritti alla posterità. Ed io non posso tenermi dal credere che anche Erodoto, e anche quel che abbiamo di genuino d’Ippocrate, non ci sia pervenuto alterato e riformato da’ diascheuasti (che possiamo tradurre riformatori). Essi hanno ancora nella sintassi, e nella maniera, molta di quella irregolarità e di quella mancanza d’arte che si può aspettare dal loro tempo, ma non tanta: Senofonte ed altri del buon tempo ne hanno forse non meno: e in genere io trovo la costruzione e la dicitura loro molto più formata ed artifiziale di quel che mi paia verisimile in quell’età. Non vi è abbastanza visibile l’infanzia della prosa, sì manifesta nei nostri, non dico Ricordano o suoi coetanei, ma i Villani ec. (Così negli spagnuoli del 13. sec., ne’ francesi ec.) L’infanzia della prosa si vede bensì manifestissima in alcuni dei frammenti che restano di Democrito, contemporaneo all’incirca di Erodoto (morì di più di 100 anni nell’Ol. 94. Erod. fiorì Ol. 84. 440 anni circa av. G. C. Ippocrate morì circa l’Ol. 100: ne’ suoi scritti è citato Democrito). Veggansi specialmente nella collezione (manchevole però ed imperfetta) datane dietro Enrico Stefano dall’Orelli (loc. cit. p. 4431. princip.) p. 91-131. i frammenti morali 43. 50. 70. 73. 121. fisici 1. Una stessa cosa si ripete in uno stesso periodo, non vi è quasi sintassi, parole necessarie, ed intere frasi o periodi, si omettono e sottintendono, l’un membro del periodo non ha corrispondenza coll’altro, il discorso procede per via di quelle forme che i greci chiamano anacoluti (o anacolutie), cioè inconseguenti, che è quanto dire senza forme. Tali frammenti, cioè luoghi échappés (come di molti è naturale che accadesse) alla diascheuasi, possono servir di saggio della vera prosa di quell’età; sono similissimi al fare p. e. del nostro Gio. Villani; e paragonati col dir di Erodoto, possono servir di prova della mia opinione. Dico échappés ec. perchè certo, se Erodoto, anche Democrito subì la diascheuasi, e διεσκευασμένος corse fra gli antichi; negli altri suoi frammenti per la più parte, non si trova niente di simile; e Democrito passò fra gli antichi per egregio anche nello stile. ( Cic. in Oratore c. 20. (67.) Itaq. video visum esse nonnullis, Platonis et Democriti locutionem, etsi absit a versu, tamen, quod incitatius feratur, et clarissimis verbor. luminibus utatur, potius poema putandum quam comicorum poetar.; ap. quos, nisi quod versiculi sunt, nihil est aliud quotidiani dissimile sermonis. De Orat. I. 11. (49.) Si ornate locutus est, sicut fertur, et mihi videtur, physicus ille Democr.; materies illa fuit physici, de qua dixit; ornatus vero ipse verbor., oratoris putandus est.) Cicerone lo loda anche di chiarezza. ( de Divin. II. 64. (133.) valde Heraclitus obscurus; minime Democritus ). I frammenti sopra notati s’intendono solamente per discrezione. È ben vero che questa discrezione tutti l’hanno, e malgrado la forma perplessa e intricata, tutti gl’intendono alla prima. E in verità son chiari. Così i nostri antichi, così quasi tutti i libri di siffatti tempi e stili, primitivi, ingenui, con poca arte, quasi come natura détta: natura parla al lettore, come ha dettato allo scrittore; essa serve d’interprete. Del resto quei costrutti e quella maniera di dire, poichè l’uso dello scrivere in prosa fu divenuto comune, sparirono quasi affatto; non si trovano nè anche nelle scritture greche che si leggono su’ papiri venuti d’Egitto, tutte, benchè oscure, intricate, rozze, senz’arte, pure più logiche, più grammaticali, più regolari e formate, benchè fatte da persone ignoranti e prive dell’arte: come tra noi, anche un ignorante notaio, benchè scriva assai male, schiva le sgrammaticature de’ nostri storici e filosofi del 200, e 300. V. pag. 4466. Nella letteratura (greca) non saprei citarne altri esempi: se non che si trovano in buona parte de’ libri de’ primi Cristiani, sì de’ libri canonici, e sì di quelli detti apocrifi [a] e nei frammenti ercolanesi di Filodemo, monumenti d’ignoranza singolare in tal genere, e di negligenza. V. p. 4470. — Ma in vero non ci son giunti διεσκευασμένοι in qualche modo tutti, si può dire, i libri antichi? non è provato che Cicerone, p. e., non iscrisse con quella ortografia colla quale i suoi libri sono stampati? nè con quella de’ mss. che ne abbiamo? la quale è anche diversa da quella usata, e introdotta ne’ libri antichi, da’ grammatici latini del 4. secolo? ( Niebuhr, Conspectus Orthographiae codicis vaticani Cic. de repub., in fine) V. p. 4480. (12. Gen. 1829. Recanati.).

Cleobulo (un de’ 7. sapienti) ap. Stobeo, c. 3. Περὶ φρονήσεως ed. Gesn. Tigur. 1559. Μὴ ἐπιμαίνεσθαι τῷ σκώπτοντι· ἀπεχθὴς γὰρ ἔσῃ τοῖς σκωπτομένοις: Sed ἐπιμαίνεσθαι multo est exquisitius: amore alicujus quasi deperire . Vid. Hemsterhus. ad Lucian. Dial. Marin. I. t. 2. p. 346. ed. Bipont. ( Orell. loc. sup. cit. , p. 529.) (15. Gennaio. 1829.). alios subsannanti ne subrideas, invisus enim fies quibus illuditur. Id. ap. Laert. I. 93. μὴ ἐπιγελᾷν τοῖς σκωπτομένοις· ἀπεχθήσεσθαι γὰρ τούτοις. Per il Galateo morale. (14. 1829.).

Alla p. 4346. Παρὰ πόσιν, τοῦ ἀδελφιδοῦ (fratris filio) αὐτοῦ (Σόλωνος) μέλος τὶ Σαπφοῦς ᾀσαντος, ἤσθη τῷ μέλει (ὁ Σόλων), καὶ προσέταξε τῷ μειρακίῳ διδάξαι αὐτόν (volle che quel ragazzo, cioè il nipote, glielo insegnasse.) Stobeo, c. 29. Περὶ φιλοπονίας. ediz. Gesn. Tigur. 1559. (15. 1829.).

È più penoso il distrarre per forza la mente da un pensiero acerbo o terribile che si presenti, di quello che sia il trattenervisi. (17. 1829.).

Vivere senza se stesso al mondo, goder cosa alcuna senza se stesso, è impossibile. Però chi si trova senza speranza, chi si vede disprezzato da’ conoscenti e da tutti coloro che lo circondano, e quindi necessariamente è privo della stima di se medesimo, non può provar godimento alcuno, non può vivere, a dir proprio: perchè questo tale veramente manca di se medesimo nella vita. (17. 1829.). V. p. 4488.

N. N. legge di rado libri moderni; perchè, dice, io veggo che gli antichi a fare un libro mettevano dieci, venti, trent’anni; e i moderni, un mese o due. Ma per leggere, tanto tempo ci vuole a quel libro ch’è opera di trent’anni, quanto a quello ch’è opera di trenta giorni. E la vita, da altra parte, è cortissima alla quantità de’ libri che si trovano. Onde ec. (17. 1829.).

I forti, i fortunati, sentono e s’interessano per altrui ἐκ τοῦ περισσοῦ delle loro facoltà e forze: i deboli ed infelici non ne hanno abbastanza per se medesimi. Il sentimento per altrui non è veramente altro che un superfluo, un eccesso delle proprie facoltà misurate coi bisogni e colle occorrenze proprie. (17. 1829.).

In questo secolo sì legislativo, nessuno ha pensato ancora a fare un codice di leggi, civile e criminale, utopico, ma in tutte forme, e tale da servir di tipo di perfezione, al quale si dovessero paragonare tutti gli altri codici, per giudicare della loro bontà, secondo il più o meno che se gli assomigliassero; tale ancora, da potere, con poche modificazioni o aggiunte richieste puramente dalle circostanze di luogo e di tempo, essere adottato da qualunque nazione, almeno sotto una data forma di governo, almeno nel secolo presente, e dalle nazioni civili ec. (17. Gennaio. 1829.).

Tomber, tumbar (spagn.) — tombolare. Tumbo (spagn.) tombolo ec.

Muggine-mugella.

Machiavellismo di società. Chi si crede un coglione al mondo, lo è, e lo comparisce. — Le leggi ec. contenute in questo trattato, non sono già passeggere ec.; sono eterne, almeno quanto le leggi fisiche ec. (18. 1829.).

Alla p. 4370. Dionysio Halicarnass. (Caecilius) usus est familiarissime. V. Dionys. Hal. in Epist. ad Cn. Pompeium. Toup. ad Longin. sect. 1. p. 153. Aequalis et amicus (Caecil.) Dionysio Halicarnasseo. Casaub. ad Athen. VI. 21. init. — Del resto, è falso però quel che crede l’Amati, che un nome greco unito e preposto ad un cognome romano, come sarebbe in questo caso, Dionisio Longino, sia cosa senza esempio. Ella non è sì frequente come un nome greco unito e posposto a un nome romano gentile, p. e. Claudio Tolomeo, Claudio Galeno, Pedanio Dioscoride, Elio Aristide, Cassio Dione ec.; ma nondimeno esempi non ne mancano; e ne abbiamo, fra gli altri, uno famoso, Musonio Rufo, filosofo stoico del tempo di Nerone, del quale v. Reimar. ad Dion. l. 62. c. 27. p. 1023. sq. par. (cioè nota) 143. (18. Gennaio. 1829. Domenica.). E il Lambecio, Commentar. de Biblioth. Vindob. lib.8., congetturava che la traduzione greca che abbiamo del Breviarium d’Eutropio, e che porta nome di Peanio o Peania, fosse chiamato Peania Capitone: il primo nome greco, e l’altro romano. (19. 1829.). V. p. 4442.

Come in moltissime altre cose, il nostro tempo si riavvicina al primitivo anche in questo: che esso ha in poco pregio la poesia di stile [a], la poesia virgiliana, oraziana ec., anzi non questa sola, ma anche quella p. e. del Petrarca, ed ogni poesia che ἁπλῶς abbia stile, e richiede poesia di cose, d’invenzione, d’immaginazione; non ostante che ad un secolo sì eminentemente civile, questa paia del tutto aliena, quella del tutto propria. (19. 1829.).

Al discorso della eccellente umanità degli antichi paragonati ai moderni, (del che altrove), appartiene ancora il gius d’asilo che avevano presso loro non pure i templi o altri luoghi pubblici, ma eziandio il focolare d’ogni casa privata; e ch’era tanto più venerato che non è da noi. Orelli, loc. sup. cit. , p. 542. Ἑστίαν τίμα (precetto d’alcuno de’ 7. sapienti ap. Stob. c. 3.). Sensus est: Jus foci sanctum haheas, vel: Supplicem honorato qui foco assidet . (Ἱκέτας ἐλέει supra in Periandro Ald.) De supplicum more assidendi foco vel arulae illi aut larario, quod ad focum excitari solitum erat, ubi jus erat ἀσυλίας , v. Casaub. ad Dionys. Hal. Ant. Rom. l. 8. p. 1504. Reisk. et intpp. ad Thucyd. l. 1. c. 136. p. 227. ed. Bauer. — Così la misericordia verso i supplichevoli, anche nemici, offensori ec., protetti da Nemesi ec. e v. la nota favola delle Preghiere ec. ap. Omero. — Così l’onore singolare che si aveva ai vecchi ec. — Così il rispetto ai morti, anche nel parlare. Τὸν τεθνηκότα μηδεὶς κακῶς ἀγορευέτω. Legge di Solone, ap. Plut. in Solon. p. 89. ed. Francof. — Chi vuol vedere quasi compendiata, e ammirare, l’umanità degli antichi (anche antichissimi), vegga le sentenze e i precetti che correvano sotto nome dei 7. sapienti, (e sono di grande antichità certamente) e che, raccolti già in antico (ap. Stob. si nominano per autori di quelle due collezioni ch’esso riporta, dell’una Demetrio Falereo, dell’altra Sosiade) (19. 1829.) si trovano riportati da Stob. c. 3. περὶ φρονήσεως, ed. Gesn. Tigur. 1559. (vedili nell’Orelli l. c. , p. 138-156.). (19. Gen. 1829.).

Alonso, spagn. moderno — Al-f-ons, spagn. antico (in una scrittura del 13o sec. ec.). Ὕλη — sil-v-a. (20. 1829.).

Cerebrum — cervello.

Alla 4440. Non parlo dei Disticha de moribus assai noti e certamente antichi, che corrono sotto nome di Dionisio Catone; nome che non è fondato in alcuna probabile autorità. (22. Gen. 1829.).

Consulere-consilium ec. Exsul, exsulium-exsilium ec.

Alla p. 4428. fine. Così matutinum (tempus), il mattino, le matin, per mane; matutina (hora), la mattina, la mañana. Vespertinum, serum (le soir), sera (la sera), spagn. la tarde, per vespera. V. il Gloss. E ciò anche presso gli antichi: v. Forc. in queste voci. Così nelle Ore canoniche Matutinum, Prima, Tertia, Sexta, Nona. Hibernum, l’inverno, l’invierno (spagn.), l’hiver, per hiems. Aestivum (spagn. estío), per aestas. V. Gloss. e Forcell. anche in diurnus. Similmente Infernus (locus) negli scrittori Cristiani, e forse anche in Varrone. E tali altri aggettivi sostantivati. (24. 1829.). V. p. 4465.4474.

Ἄορνος — Avernus.

Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fine), sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p. 55. Apulus and Opicus are according to all appearance the same name, only with different terminations. That in ulus acquired the meaning of a diminutive only in the language of later times; in earlier such a sense must be entirely separated from it; as is evident from Siculus and Romulus, as well as from the words uniting the two terminations (quella in icus e quella in ulus), which is the commoner case, Volsculus (contratto da Volsiculus), Aequiculus, Saticulus; and even Graeculus. — Ib. sez. intit. Iapygia, p. 126. The Poediculians (such was the Italian name of the Peucetians) were etc. (not. 419. The simpler forms, Poedi and Poedici, have not been preserved in books.) — Ib. sez. intit. Various traditions about the Origin of the City p. 174. It was natural for them (the inhabitants of Rome) to call the founder of their nation Romus, or, with the inflexion so usual in their language, Romulus. — Ib. sez. intit. The Beginning of Rome and its Earliest Tribes, p. 251. Romus and Romulus are only two forms of the same name (not. 698. Like Poenus and Poenulus and others mentioned above p. 55); the Greeks on hearing a rumour of the legend about the twins (Romolo e Remo), chose the former (cioè ῾Ρῶμος) instead of the less sonorous name Remus [a]

Fausto e Faustolo, il pastore che salvò Romolo e Remo bambini.

[Chiudi]. — L’uso di questa terminazione in ulus senza alcuna forza diminutiva, uso proprio del latino sì antico, si è conservato perfettamente (e non men frequentemente) nell’italiano; specialmente in Toscana, e specialmente appresso quel volgo, il quale continuamente, per mero vezzo di linguaggio, aggiunge un lo appiè delle voci italiane, dicendo, p. e. ricciolo invece di riccio [a], e così mille altre, che con tal desinenza non son registrate nel Vocabolario; oltre le tante registrate. E che questo medesimo uso (unita anche sovente, come nell’antico, la terminazione in icus a quella in ulus) si conservasse perpetuamente nel latino volgare, apparisce dai tanti e tanti, non solo nomi, ma verbi, della bassa latinità, o derivati evidentemente da essa, da me notati passim, che la portano, senz’ombra di significazione diminutiva; come pariculus (parecchi, pareil ec.), appariculare (apparecchiare, aparejar ec.), superculus (v. la p. 4514. fin.) ec. ec.; nomi anche aggettivi ec. Non ardirei però di affermare col Niebuhr che questa inflessione in origine non fosse punto diminutiva. Il vederla senza questa significanza, non prova; apparendo da tanti, quasi infiniti, esempi (sì del greco, sì del latino basso sì dell’antico, sì delle lingue figlie della latina; e in queste, sì in forme venute dal latino, e sì in altre forme diminutive proprie loro e non latine) che sempre fu ed è vezzo di linguaggio, specialmente popolare, il profferire le voci con inflessione diminutiva, quasi per grazia, quantunque il caso sia alieno dal richieder diminuzione, e la significanza diminutiva sia affatto lontana da tal pronunzia. (25. Gennaio. 1829. Domenica quarta.). Del resto ho notato altrove quando l’ul. .. è semplice desinenza di voci derivative, come in speculum, iaculum ec. e così ne’ verbi, come fabulor ec. V. p. 4516.

Non solo le storie o storielle d’una nazione furono spessissimo, come ho detto altrove in più luoghi, trasportate ed applicate ad un’altra; ma quelle eziandio d’una nazione medesima, cambiati i nomi delle persone, e le circostanze di luogo, tempo, e simili, furono sovente trasportate e applicate da un’epoca della sua storia ad un’altra. Questa cosa è notata negli annali di Roma dal Niebuhr in più e più casi; ed egli ripete tale osservazione in più e più luoghi della sua storia. Fra gli altri, sezione intitolata The War with Porsenna, p. 484 seg., dice: It is a peculiarity of the Roman annals, owing to the barren invention of their authors, to repeat the same incidents on different occasions, and that too more than once. Thus the history of Porsenna’s war reflects the image of that with Veii in the year (di Roma) 277, which after the misfortune on the Cremera brought Rome to the brink of destruction. In this again the Veientines made themselves masters of the Janiculum; and in a more intelligible manner, after a victory in the field: here again the city was saved by a Horatius (come dal Coclite nella guerra con Porsenna); the consul who arrived with his army at the critical moment by forced marches from the land of the Volscians: the victors, encamping on the Janiculum, sent out foraging parties across the river and laid waste the country; until some skirmishes, which again took place by the temple of Hope and at the Colline gate, checked their depredations: yet a severe famine arose within the city. (26. Gen. 1829.).

Niebuhr, ib. sez. intit. The Patrician Houses and the Curies, p. 268. Each house (ciascuno dei γένη gentes nei quali era anticamente distribuito il popolo ateniese) bore a peculiar name resembling a patronymic in form; as the Codrids, the Eumolpids, the Butads: which produces an appearance, but a fallacious one, of a family affinity (perchè quelle gentes, come ap. i Romani, erano una mera divisione politica; ciascuna gens o casa era composta di più famiglie senz’alcun riguardo ad affinità scambievole). These names may have been transferred from the most distinguished among the associated families to the rest: it is more probable that they were adopted from the name of a hero, who was their eponymus. Such a house was that of the Homerids in Chios; whose descent from the poet was only an inference drawn from their name, whereas others pronounced that they were no way related io him (not. 747. Harpocration v. Ὁμηρίδαι. It may be warrantably assumed that a hero named Homer was revered by the Ionians at the time when Chios received its laws. See the Rhenish Museum (Museo Renano) I. 257.) In Greek history what appears to be a family, may probably often have been a house of this kind; and this system of subdivision is not to be confined to the Ionian tribes alone. (27. 1829.).

Ib. sez. intit. Aeneas and the Trojans in Latium, p. 166-7. These wars Virgil describes, effacing discrepancies and altering and accelerating the succession of events, in the latter half of the Aeneid. Its contents were certainly national; yet it is scarcely credible that even Romans, if impartial, should have received sincere delight from these tales. We feel but too unpleasantly how little the poet succeeded in raising these shadowy names (degli eroi di quelle guerre), for which he was forced to invent a character, into living beings, like the heroes of Homer. Perhaps it is a problem that cannot be solved, to form an epic poem out of an argument which has not lived for centuries in popular songs and tales as common national property, so that the cycle of stories which comprises it, and all the persons who act a part in it, are familiar to every one. V. p. 4475 — Assuredly the problem was not to be solved by Virgil, whose genius was barren for creating, great as was his talent for embellishing. That he felt this himself, and did not disdain to be great in the way adapted to his endowments, is proved by his very practice of imitating and borrowing, by the touches he introduces of his exquisite and extensive erudition, so much admired by the Romans, now so little appreciated. He who puts together elaborately and by piecemeal, is aware of the chinks and crevices, which varnishing and polishing conceal only from the unpractised eye, and from which the work of the master, issuing at once from the mould, is free. Accordingly Virgil, we may be sure, felt a misgiving, that all the foreign ornament with which he was decking his work, though it might enrich the poem, was not his own wealth, and that this would at last be perceived by posterity. That notwithstanding this fretting consciousness, he strove, in the way which lay open to him, to give to a poem, which he did not write of his own free choice, the highest degree of beauty it could receive from his hands; that he did not, like Lucan, vainly and blindly affect an inspiration which nature had denied to him; that he did not allow himself to be infatuated, when he was idolized by all around him, and when Propertius sang:

Yield, Roman poets, bards of Greece, give way,
The Iliad soon shall own a greater lay;

that, when death was releasing him from the fetiers of civil observances, he wished to destroy what in those solemn moments he could not but view with melancholy, as the groundwork of a false reputation; this is what renders him estimable, and makes us indulgent to all the weaknesses of his poem. The merit of a first attempt is not always decisive: yet Virgil’s first youthful poem shews that he cultivated his powers with incredible industry, and that no faculty expired in him through neglect. But how amiable and generous he was, is evident where he speaks from the heart: not only in the Georgics, and in all his pictures of pure still life; in the epigram on Syron’s (così, in vece di Sciron’s) Villa: it is no less visible in his way of introducing those great spirits that beam in Roman story. (29-30. 1829.).

Alla p. 4316. Ben d’altra qualità e d’altro peso è la congettura del Niebuhr fondata in profondissima dottrina, e scienza dell’antichità, that the Teucrians and Dardanians, Troy and Hector, ought perhaps to be considered as Pelasgian:... that they were not Phrygians was clearly perceived by the Greek philologers, who had even a suspicion that they were no barbarians at all. (loc. cit. p. 4431. fin., sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p. 28.) Egli reca i fondamenti di questa sua propria e particolare opinione, ib. Nella sez. intit. Conclusion di quella parte della sua storia che concerne gli antichi popoli d’Italia, p. 148, ripete questa sua congettura: In the very earliest traditions they (the Pelasgians) are standing at the summit of their greatness. The legends that tell of their fortunes, exhibit only their decline and fall: Jupiter had weighed their destiny and that of the Hellens; and the scale of the Pelasgians had risen. The fall of Troy was the symbol of their story. (L’autore riguarda la guerra di Troia come un mito. Sez. intit. Aeneas and the Trojans in Latium, p. 151. Let none treat this inquiry with scorn, because Ilion too was a fable... Mythical the Trojan war certainly is...: yet it has an undeniable historical foundation; and this does not lie hid so far below the surface as in many other poetical legends. That the Atridae were Kings of the Peloponnesus, is not to be questioned.) Altrove (sez. cit. nella parentesi qui sopra, p. 160-61.) egli reca di nuovo i fondamenti di questa opinione, e mette anco innanzi un’altra sua congettura, che la tradizione della venuta d’Enea nel Lazio, dell’avervi egli fondata una colonia donde Roma derivasse, e dell’essere i romani di origine troiana, non fosse altro che un effetto ed un’espressione della national affinity esistente fra i Troiani e i Romani, in quanto questi erano, secondo l’autore, di origine in parte Pelasgica. — I Pelasghi, secondo il Niebuhr (ed una delle parti più insigni ed eminenti e più originali della sua Storia consiste nelle nuove vedute e nei nuovi lumi ch’ei reca sopra questa misteriosa razza, com’ei la chiama; e nella nuova luce in che egli l’ha posta), furono una nazione distinta, e di origine e di costumi diversa, da quella degli Elleni, che noi co’ Latini chiamiamo Greci; e nel tempo medesimo grandemente affine: e parlarono una lingua peculiar and not Greek , e nondimeno grandemente affine alla greca; più affine della Latina, il cui elemento affine al linguaggio greco, quello elemento which is half Greek sembra, dice il Niebuhr, unquestionable che sia d’origine pelasgica. Tuttavia Pelasghi e Greci non s’intendevano insieme, come non s’intendono italiani e francesi ec. (p. 23, e passim). (31. Gen. 1. Feb. 1829.). V. p. 4519.

A viver tranquilli nella società degli uomini, bisogna astenersi non solo dall’offendere chi non ci offende, cosa ordinaria; ma eziandio, cosa rarissima, dal proccurare (dal cercare) che altri ci offenda. — Desiderio sincero di viver tranquilli nella società degli uomini, rarissimi sono che l’hanno veramente: avendolo, il conseguire l’effetto è cosa molto più facile che non si crede. (1. Feb. 1829.).

Tutti, cominciando dal Pindemonte nella sua Epistola, hanno biasimato l’introduzione di Ettore e delle cose troiane nel Carme dei Sepolcri; e tutti leggono quell’episodio con grande interesse, e segretamente vi provano un vero piacere. Certo, quell’argomento è rancido; ma appunto perch’egli è rancido, perchè la nostra acquaintance con quei personaggi dàta dalla nostra fanciullezza, essi c’interessano sommamente, c’interessano in modo, che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, produrre altrettanto effetto. (1. Feb. 1829.).

Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de’ versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta. (1. Feb. 1829.). Nessuno del Monti è tale.

ἀκμὴν per ἔτι. V. Orelli (loc. cit. p. 4431.) tom. 2. Lips. 1821. p. 529-30.

Grus (grue) — spagn. grulla, quasi grucula o gruicula. — Sol — soleil, quasi soliculus. — Legnaiuolo, armaiuolo ec. quasi lignariolus e simili. (2. Feb. 1829.).

Mirado (ammirato) per maravigliato; en la noche callada per tacente. Francisco de Rioja, Cancion á (cioè sobre) las ruinas de Itálica, strofa ultima.

Chi non sa circoscrivere, non può produrre. La facoltà della produzione è scarsa o nulla in quell’ingegno dove le altre facoltà sono troppo vaste e soprabbondano. (3. Feb. 1829.). (Vedi la pag. 4484.)

Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fine) sezione intitolata Beginning and Nature of the Earliest History, p. 216. segg. The greater is the antiquity of the legends: (dei miti ec. intorno ai fatti dei re di Roma, e ai primi tempi della città): their origin goes back far beyond the time when the annals (gli annali pontificali di Roma) were restored (furono rinnovati, dopo che gli antichi annali erano periti nell’incendio di Roma al tempo della presa della città fatta dai Galli). That they were transmitted from generation to generation in lays, that their contents cannot be more authentic than those of any other poem on the deeds of ancient times which is preserved by song, is not a new notion. A century and a half will soon have elapsed, since Perizonius (not. 627. In his Animadversiones Historicae, c. 6.) expressed it, and shewed that among the ancient Romans it had been the custom at banquets to sing the praises of great men to the flute ; (not. 628. The leading passage in Tusc. Quaest. IV. 2. Gravissimus auctor in Originibus dixit Cato, morem apud majores hunc epularum fuisse, ut deinceps, qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Cicero laments the loss of these songs; Brut. 18. 19. Yet, like the sayings of Appius the blind, they seem to have disappeared only for such as cared not for them. Dionysius knew of songs on Romulus [ ὡς ἐν τοῖς πατρίοις ὕμνοις ὑπὸ ῾Ρωμαίων ἔτι καὶ νῦν ᾀδεται , dice Dionisio 1. 79. della nota favola circa la nascita di Romolo e Remo, e la vendetta da loro presa di Amulio]) a fact Cicero only knew from Cato, who seems to have spoken of it as an usage no longer subsisting. The guests themselves sang in turn; so it was expected that the lays, being the common property of the nation, should be known to every free citizen. According to Varro, who calls them old, they were sung by modest boys, sometimes to the flute, sometimes without music. (not. 629. In Nonius II. 70. stessa voce: (aderant) in conviviis pueri modesti ut cantarent carmina antiqua, in quibus laudes erant majorum, assa voce, ei cum tibicine.) The peculiar function of the Camenae was to sing the praise of the ancients ; (not. 630. Fest. Epit. v. Camenae, musae, quod canunt antiquorum laudes.) and among the rest those of the kings. For never did republican Rome strip herself of the recollection of them, any more than she removed their statues from the Capitol: in the best times of liberty their memory was revered and celebrated. (not. 631. Ennius sang of them, and Lucretius mentions them with the highest honour.)

We are so thoroughly dependent on the age to which we belong, we subsist so much in and through it as parts of a whole, that the same thought is at one time sufficient to give us a measure for the acuteness, depth, and strength of the intellect which conceives it, while at another it suggests itself to all, and nothing but accident leads one to give it utterance before others. Perizonius knew of heroic lays only from books; that he should ever have heard of any then still current, or written down from the mouth of the common people, is not conceivable of his days: he lived long enough to hear, perhaps he heard, but not until a quarter of a century had passed since the appearance of his researches, how Addison (sic) roused the stupefied senses of his literary contemporaries, to join with the common people in recognizing the pure gold of poetry in Chevychase (v. The Spectator’s n. 70. 74.) For us the heroic lays of Spain, Scotland, and Scandinavia, had long been a common stock: the lay of the Niebelungen had already returned and taken its place in literature: (l’autore, p. 196. the German national epic poem, the Niebelungen lay.) and now that we listen to the Servian lays, and to those of Greece , (raccolti da Fauriel, che l’autore cita più volte), the swanlike strains of a slaughtered nation; now that every one knows that poetry lives in every people, until metrical forms, foreign models, the various and multiplying interests of every-day life, general dejection or luxury, stifle it so, that of the poetical spirits, still more than of all others, very few find vent: while on the contrary spirits without poetical genius, but with talents so analogous to it that they may serve as a substitute, frequently usurp the art; now the empty objections that have been raised no longer need any answer. Whoever does not discern such lays in the epical part of Roman story, may continue blind to them: he will be left more and more alone every day: there can be no going backward on this point for generations.

One among the various forms of Roman popular poetry was the nenia, the praise of the deceased, which was sung to the flute at funeral processions, (not. 632. Cicero de legib. II. 24.) as it was related in the funeral orations. We must not think here of the Greek threnes and elegies: in the old times of Rome the fashion was not to be melted into a tender mood, and to bewail the dead; but to pay him honour. We must therefore imagine the nenia to have been a memorial lay, such as was sung at banquets: indeed the latter was perhaps no other than what had been first heard at the funeral. And thus it is possible that, without being aware of it, we may possess some of these lays, which Cicero supposed to be totally lost: for surely a doubt will scarcely be moved against the thought, that the inscriptions in verse (not. 633. On the coffin of L. Barbatus the verses are marked and made apparent by lines to separate them: in the inscription on his son they form an equal number of lines, and may be recognized with as much certainty as in the former from the great difference in the length of them) on the oldest coffins in the sepulcre of the Scipios are nothing else than either the whole nenia, or the beginning of it (not. 634. The two following inscriptions are of this kind: I transcribe them, because it is probable many of my readers never saw them.
Cornélius Lúcius Scípio Barbátus,
Gnáivo (patre) prognátus, fortis vír sapiénsque,
Quoius fórma vírtuti paríssuma fuit,
Consúl, Censor, Aédilis, qúi fuit apúd vos:
Taurásiam, Cesáunam, Sámnio cépit,
Subícit omnem Lúcánaam, (cioè Lucaniam)
Obsidésque abdúcit.
The second is:
Hunc únum plúrimi conséntiunt Románi
Duonórum optumum fúisse virúm,
Lúcium Scipiónem, fílium Barbáti.
Consúl, Censor, Aédilis, híc fuit apúd vos.
Hic cépit Córsicam, Alériamque úrbem
Dédit tempestátibus aédem mérito.
I have softened the rude spelling, and have even abstained from marking that the final s in prognatus, quoius, and the final m in Taurasiam, Cesaunam, Aleriam, optumum, and omnem, was not pronounced. The short i in Scipio, consentiunt, fuit, fuisse, is suppressed, so that Scipio for instance is a disyllable; a kind of suppression of which we find still more remarkable instances in Plautus. In the inscription of Barbatus, v. 2, patre after Gnaivo is beyond doubt an interpolation: and in that on his son, v. 6, it is to be observed that the last syllable of Corsicam is not cut off.) These epitaphs present a peculiarity which characterizes all popular poetry, and is strikingly conspicuous above all in that of modern Greece. Whole lines and thoughts become elements of the poetical language, just like single words: they pass from older pieces in general circulation into new compositions; and, even where the poet is not equal to a great subject, give them a poetical colouring and keeping. So Cicero read on the tomb of Calatinus: hunc plurimae consentiunt gentes populi primarium fuisse virum: (not. 635. Cicero de Senectute 17.) we read on that of L. Scipio the son of Barbatus: hunc unum plurimi consentiunt Romani bonorum optumum fuisse virum. The poems out of which what we call the history of the Roman Kings was resolved into a prose narrative, were different from the nenia in form, and of great extent; consisting partly of lays united into a uniform whole, partly of such as were detached and without any necessary connexion. The history of Romulus is an epopee by itself: on Numa there can only have been short lays. Tullus, the story of the Horatii, and of the destruction of Alba, form an epic whole, like the poem on Romulus: indeed here Livy has preserved a fragment of the poem entire, in the lyrical numbers of the old Roman verse. (not. 636. The verses of the horrendum carmen I. 26.
Duúmviri pérduelliónem júdicent.
Si a duúmviris provocárit,
Provocátióne certáto:
Si víncent, caput óbnúbito:
Infélici árbore réste suspéndito:
Vérberato íntra vel éxtra pomoérium.

The description of the nature of the old Roman versification, and of the great variety of its lyrical metres, which continued in use down to the middle of the seventh century of the city, and were carried to a high degree of perfection, I reserve, until I shall publish a chapter of an ancient grammarian on the Saturnian Verse, which decides the question.) On the other hand what is related of Ancus has not a touch of poetical colouring. But afterward with L. Tarquinius Priscus begins a great poem, which ends with the battle of Regillus; and this lay of the Tarquins even in its prose shape is still inexpressibly poetical; nor is it less unlike real history. The arrival of Tarquinius the Lucumo at Rome: his deeds and victories; his death; then the marvellous story of Servius; Tullia’s impious nuptials; the murder of the just king; the whole story of the last Tarquinius; the warning presages of his fall; Lucretia; the feint of Brutus; his death; the war of Porsenna; in fine the truly Homeric battle of Regillus; all this forms an epopee, which in depth and brilliance of imagination leaves every thing produced by Romans in later times far behind it. Knowing nothing of the unity which characterizes the most perfect of Greek poems, it divides itself into sections, answering to the adventures in the lay of the Niebelungen: and should any one ever have the boldness to think of restoring it in a poetical form, he would commit a great mistake in selecting any other than that of this noble work (del poema of the Niebelungen).

These lays are much older than Ennius, (not. 637.
– Scripsere alii rem
Versibu’ quos olim Fauni vatesque canebant:
Quom neque Musarum scopulos quisquam superarat,
Nec dicti studiosus erat.

Horace’s annosa volumina vatum may have been old poems of this sort: though perhaps they are also to be understood of prophetical books, like those of the Marcii; which, contemptuously as they are glanced at, were extremely poetical. Of this we may judge even from the passages preserved by Livy (XXV. 12.): Horace can no more determine our opinion of them than of Plautus.) who moulded them into hexameters, and found matter in them for three books of his poem; Ennius, who seriously believed himself to be the first poet of Rome, because he shut his eyes against the old native poetry, despised it, and tried successfully to suppress it. Of that poetry and of its destruction I shall speak elsewhere: here only one further remark is needful. Ancient as the original materials of the epic lays unquestionably were, the form in which they were handed down, and a great pary of their contents, seem to have been comparatively recent. If the pontifical annals adulterated history in favour of the patricians, the whole of this poetry is pervaded by a plebeian spirit, by hatred toward the oppressors, and by visible traces that at the time when it was sung there were already great and powerful plebeian houses. The assignments of land by Numa, Tullus, Ancus, and Servius, are in this spirit: all the favorite Kings befriend freedom: the patricians appear in a horrible and detestable light, as accomplices in the murder of Servius: next to the holy Numa the plebeian Servius is the most excellent King: Gaia Cecilia, the Roman wife of the elder Tarquinius, is a plebeian, a Kinswoman of the Metelli: the founder of the republic and Mucius Scaevola are plebeians: among the other party the only noble characters are the Valerii and Horatii; houses friendly to the commons. Hence I should be inclined not to date these poems, in the form under which we know their contents, before the restoration of the city after the Gallic disaster at the earliest. This is also indicated by the consulting the Pythian oracle. The story of the symbolical instruction sent by the last King to his son to get rid of the principal men of Gabii, is a Greek tale in Herodotus: so likewise we find the stratagem of Zopyrus repeated (dal figlio di Tarquinio a Gabii): (anche la storia di Muz. Scev. è greca, cosa non notata dall’autore neppure a suo luogo, e da me osservata altrove; e greche sono quelle tante raccolte da Plutarco nel libro da me citato altrove in tal proposito) we must therefore suppose some knowledge of Greek legends, though not necessarily of Herodotus himself. (5-8. Feb. 1829.).

Alla p. 4359. Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fin.) sezione intitolata The Beginning of the Republic and the Treaty with Carthage, not. 1078. p. 456-7. This play (the Brutus of L. Attius) was a praetextata, the noblest among the three kinds of the Roman national drama; all which assuredly, and not merely the Atellana, might be represented by well-born Romans without risking their franchise. The praetextata merely bore an analogy to a tragedy: it exhibited the deeds of Roman Kings and generals (Diomedes III. p. 487. Putsch.); and hence it is self-evident, that at least it wanted the unity of time of the Greek tragedy; that it was a history, like Shakspeare’s. I have referred above (p. 431.) to a dialogue between the King (Tarquinio superbo) and his dream-interpreters in the Brutus (dialogo citato da Cic. de Divinat. I. 22.), the scene of which must have lain before Ardea: the establishment of the new government (del governo repubblicano a Roma), which must have been the occasion of the speech, qui recte consulat, consul siet (nel Brutus: parlata citata da Varrone de L. L. IV. 14. p. 24.), occurs at Rome: so that the unity of place is just as little observed. The Destruction of Miletus by Phrynichus and the Persians of Aeschylus were plays that drew forth all the manly feelings of bleeding or exulting hearts, and not tragedies: for the latter the Greeks, before the Alexandrian age, took their plots solely out of mythical story. It was essential that their contents should be known beforehand: the stories of Hamlet and Macbeth were unknown to the spectators: at present parts of them might be moulded into tragedies like the Greek; if a Sophocles were to rise up. (8. Feb. Domenica. 1829.).

Albino, antico autore, ap. Macrob. II. 16. Stultum sese brutumque faciebat . (Bruto l’antico). Si faceva, cioè si fingeva. Vecchissimo italianismo del latino. V. Forcell. ec. (8. Feb. Domenica. 1829.).

Storie o storielle trasportate da una nazione a un’altra. Vedi la pag. precedente, lin.10-17. (8. Feb. Domenica. 1829.).

Affatto greco è l’uso che noi abbiamo di parecchi aggettivi neutri in significato di sostantivi astratti: lo scarso (τὸ σπάνιον) per la scarsità, il caro per la carestia o la carezza, e simili. Uso tutto italiano, cioè non comune, che io mi ricordi, alle lingue sorelle; nè potuto derivare dal latino, al quale, pel difetto che ha di articoli, sarebbe mal conveniente. (11. Feb. 1829.).

Svariato per vario.

Gnaivus per Gnaeus. Vedi la pag. 4454. lin.4. — Achivus p. Achaeus (ἀχαῖος) è certamente da un Ἀχεῖος, come Argivus da Ἀργεῖος.

Sinizesi. Dittonghi ec. Elisione dell’m finale in latino. Vedi la pag. 4454. lin.17. segg. V. p. 4465.

Gli antichissimi scrivevano fut, fusse per fuit, fuisse. Vedi la pag. 4454. lin.20. Quindi anche fussem ec. per fuissem. E certamente così anco pronunziavano. Or questa antichissima pronunzia si è conservata nell’italiano: fu (fut. Anche in franc. fut) fusti, fuste, fummo (fumus per fuimus: franc. fûtes, fûmes), fussi ec. pronunzia de’ nostri antichi scrittori, ed oggi del popolo di più parti d’Italia, e del toscano costantemente. (15. Febb. Domenica. 1829.).

Alla p. 4356. Dionisio d’Alicarnasso (vedi la p. 4451. lin.9.), chiama inni gli antichi canti epici de’ Romani in lode de’ loro eroi.

Alla stessa pag. lin. ult. Gli antichi poemi epici de’ Romani non consistevano che in pezzi, in canti, di argomenti diversi, benchè coincidenti in un solo fino ad un certo segno. Così il poema epico antico nazionale tedesco, the lay of the Niebelungen. Vedi di sopra il pensiero che comincia p. 4450. capoverso ult. e specialmente le pagg.4455.4456.

Alla p. 4413. E vedi, a tal proposito, particolarmente la pag. 4356. capoverso 1. Gli antichi canti nazionali e poemi epici de’ Romani, epici per l’argomento e la forma, erano in metri lirici. Vedi il pensiero citato nella pag. preced. capoverso ult. , e specialmente la p. 4455. e la seguente. Anche il poema della guerra punica di Nevio (libri o carmen belli punici) era in versi lirici di diverse misure, come può vedersi ne’ frammenti di esso poema appresso Hermann, Elementa doctrinae metricae, III. 9. 31. p. 629. sqq. ( Niebuhr, Stor. rom. p. 162. not. 507. p. 176., not. 535.) (16. Febbraio. 1829.).

Nelle razionali speculazioni circa la natura delle cose, è da aver sempre avanti gli occhi questo assioma importantissimo: che dal vedere che da certe disposizioni poste dalla natura in certi esseri, facilmente e frequentemente (o anche sempre) nascono certe qualità; che certe qualità, pur date dalla natura, facilmente e frequentemente ricevono certe modificazioni; che certe cause facilmente e spesso producono certi effetti; dal vedere, dico, queste cose, non si può dedurre che ciò segua naturalmente; che quelle qualità, quelle modificazioni, quegli effetti sieno voluti dalla natura; che la intenzione della natura sia stata che essi avessero luogo, allorchè ella pose in quegli esseri quelle disposizioni, qualità o cause. Se uno fa una spada e un altro se ne serve a fettare il pane, non segue che l’intenzione del fabbricatore fosse che quello strumento fettasse il pane, benchè quella spada possa servire, e benchè serva attualmente, a quest’uso. Infiniti sono i disordini nel corso delle cose, non solo possibili, ma facilissimi ad accadere; moltissimi tanto facili, che quasi sono certi ed inevitabili: nondimeno son disordini manifesti, nè si possono attribuire ad intenzione della natura. Per un esempio fra mille: niente è più facile nè più frequente in certe specie di animali, che il veder le madri o i padri mangiarsi i propri figliuoli, bersi le proprie uova o quelle della compagna. Questo disordine orribile, che fa fremere, tende dirittamente e più efficacemente d’ogni altro alla distruzione della specie: è impossibile attribuire ad intenzione della natura, la cui tendenza continua alla conservazione delle specie esistenti, è una delle cose più certe che di lei si possono affermare, e che in lei sembrino manifestarci un’intenzione; attribuirle dico un disordine per cui il produttore stesso distrugge il prodotto, il generante il generato. Se la natura procedesse intenzionalmente in tal modo, già da gran tempo sarebbe finito il mondo. Da queste considerazioni segue, che per quanto il fenomeno dell’incivilimento dell’uomo sia possibile ad accadere; per quanto, considerate le disposizioni e le qualità poste in noi dalla natura e costituenti l’esser nostro, esso fenomeno possa parer facile, inevitabile; per quanto sia comune; noi non abbiamo il diritto di giudicarlo naturale, voluto intenzionalmente dalla natura. Grandissimi e vastissimi avvenimenti, fecondi di conseguenze sommamente moltiplici, importantissime, possono aver luogo a mal grado, per così dire, della natura. (16. Febb. 1829.) V. p. 4467. 4491.

L’autore anonimo della vita d’Isocrate pubblicata dal Mustoxidi nella Συλλογὴ ἑλληνιχῶν ἀνεκδότων, Venez. 1816. τετράδιον (quaderno 3); e ristampata dall’Orelli loc. cit. p. 4431., t. 2. Lips. 1821. — p. 10. del τετράδιον, ed. Mustox.; p. 5. ed. Orell. — λέγομεν δὲ ἡμεῖς ἀπολογούμενοι, ὅτι μάλιστα μὲν οὐδὲν τοῦτο ποιεῖ (e’ non fa nulla, il ne fait rien) εἰ εἶχε μετὰ τὴν τελευτὴν τῆς γυναικὸς ταύτην παλλακίδα (Ἰσοκράτης). ἔπειτα λέγομεν, ὅτι κ. τ. λ.. L’ Orelli, l. c., p. 523. fa questa nota. ὅτι μάλιστα μὲν οὐδὲν τοῦτο ποιεῖ i.e. hoc nullius fere vel perquam exigui momenti est. ut nos dicimus: es macht nichts pro es hat nichts zu sagen, es hat nicht viel auf sich. (17. Feb. 1829.).

Meride nell’ Ἀττικιστὴς.. Γέλοιον, βαρυτόνως, ἀττικῶς. γελοῖον, περισπωμένως, ἑλληνικῶς. E così sogliono i grammatici antichi, non solo in generale, ma anche ne’ casi particolari, distinguere costantemente dall’attico al greco comune, e riconoscere l’esistenza del secondo. (17. Feb. 1829.).

Rufino nella version latina dell’Enchiridion o Annulus aureus che porta il nome di Sesto o Sisto, num. 372. ed. Orell., loc. cit. p. 4431., t. I. p. 266. Quod fieri necesse est, voluntarie sacrificato . Nè il Forcell. nè il Du Cange non hanno esempio di sacrificare, sacrificium ec. in questo senso metaforico, sì comune nelle lingue figlie, specialmente nel francese. (17. Feb. 1829.).

S. Nilo vesc. e mart. Κεφάλαια ἢ παραινέσεις Capita seu praeceptiones sententiosae , num.199., ed. Orell. ib. p. 346. Λύχνῳ πρὸς τὰς πράξεις τῷ συνειδότι (conscientia) κέχρησο· τοῦτο γὰρ σοι ποίας (per τινὰς quali-quali: italianismo) μὲν ἐν βίῳ ἀγαθὰς (scil. πράξεις), ποίας δὲ πονηρὰς ὑποδείχνυσιν. (17. Feb. 1829.).

Il medesimo ap. Io. Damasc. Parallel. Sacr., Opp. ed. Lequien. t. 2. p. 419. et ap. Orell. ib. p. 362. lin.6. σαρκίον per σάρκα, carne, cioè corpo (σωμάτιον, all’uso stoico.) (17. Feb. 1829.).

Lysis in Epistola ad Hipparchum p. 52. edit. Epistolarum Socratis et Socraticorum, Pythagorae et Pythagoreorum, Io. Conr. Orellii, Lips. 1815. Ὅσιον κἀμὲ μνᾶσθαι τοῦ τήνου (Πυθαγόρου) θείων καὶ σεμνῶν παραγγελμάτων, μηδὲ κοινὰ ποιῆσθαι τὰ σοφίας ἀγαθὰ τοῖς οὐδ' ὄναρ (nemmen per sogno per in niun modo, niente affatto) τὰν ψυχὰν κεκαθαρμένοις ( Orell. ib. p. 600.) (18. Febbr. 1829.). V. p. 4470.

Alla p. 4165. Così Callimaco, οὕτω καὶ σύ γ' ἰών , nel noto epigramma sopra il tor moglie di condizione pari, verso ult. Vedilo nell’ Orelli ib. p. 176. e le note a quel luogo, ib. p. 555., e del Menag. ad Laert. ec., e nelle opp. di Callimaco. Il luogo di Teone citato nel pensiero a cui questo si riferisce, conferma la lezione σύ γ' ἰών per σύ Δίων, ed è qui assai notabile e prezioso. — Così noi diciamo anche andamenti, procedimenti, per azioni, o per modi di operare, di governarsi. ec. (18. Febbr. 1829.).

Gratari — gratulari. Trembler (tremulare).

Alla p. 4431. Tucidide, nel proemio, chiama gli storici λογογράφους.. Λογογραφέω è usato per iscrivere istoria, narrare, raccontare; λογογραφία per historiae scriptio; ἡ λογογραφικὴ da Eustazio per prosa, soluta oratio; ed anche λογογράφος si dice semplicemente per prosatore. Λογοποιὸς per istorico da Senofonte. Συγγράφω pur si dice particolarmente per διηγεῖσθαι, cioè ne’ significati qui sopra detti di λογογραφέω. Isocrate nell’epilogo del πρὸς Νικοκλέα , distingue espressamente τὰ ποιήματα e τὰ συγγράμματα ( τὰ συμβουλεύοντα καὶ τῶν ποιημάτων καὶ τῶν συγγραμμάτων ec.); ed Ammonio de Diff. Vocab. definisce il σύγγραμμα così: ὁ δίχα μέτρου λόγος, ὁ προσαγορευόμενος πεζός. Appunto come se τὰ ποιήματα non fossero συγγεγραμμένα, cioè scritti; o come se συγγράφειν non valesse anche, come vale, semplicemente scrivere, conscribere. Συγγραφεὺς per istorico passim: ποιηταὶ καὶ συγγραφεῖς poeti e scrittori, cioè prosatori, passim, e in Laerz. VI. 30. συγγραφὴ per istoria, narrazione, opera o composizione istorica, ap. Pausan. ( μέγα οὐδὲν ἐς συγγραφὴν παρεχομένη (πόλις) ) e specialmente Arriano ( Alexand. praef. 5. συγγραφὴ: 12. 7. IV. 10. 2. V. 4. 4. V. 6. 12. VI. 16. 7. VII. 30. 7. Indic. 19. 8. ξυγγραφὴ ). Καταλογάδην prosa oratione, prosaice. Plutar. Καὶ τῶν ἐμμέτρων ποιημάτων, καὶ τῶν καταλογάδην συγγραμμάτων Isocr. nell’esord. o προοίμιον dell’ad Nicocl.. (Scapula, Tusano, Budeo: i quali non citano Arriano; e il solo Tusano Ammonio, ad altro oggetto, e non riporta le parole.) (19. Febbr. 1829.).

Alla p. 4440. (la quale, del resto, è anch’essa d’imaginazione, come ho detto altrove, ec.) (19. Feb. 1829.).

φόρτος-φορτίον

Tardivo (ital.) — tardío (spagnuolo.).

Segnalato, señalado, signalé, per degno di essere segnalato, cioè notato; notevole.

Alla p. 4460. In the epitaph of L. Cornelius Scipio Barbatus, Lucanaa — The doubling the vowel belongs to the Oscan and old Latin: in the Julian inscription of Bovillae we find leege . Niebuhr, sezione intitolata The Sabines and Sabellians, not. 248. p. 72-3. (24. Feb. 1829.).

Alla p. 4442. Verano spagn. non è altro che vernum: verno per verno tempore o vere è assai frequente anche nel buon latino (Forcell.). Secondo l’ Amati, nel Giornale arcad. tom. 39., 3.zo del 1828, p. 240. l’appellazione di preivernum o privernum (oggi Piperno, antica città de’ Volsci), tiensi per gli uomini più istruiti di fabbrica latina; da preimum, o primum, e vernum, sottinteso tempus: essendo la posizione del paese, in monti aprici e non molto elevati, attissima ad anticipata primavera . (24. Feb. 1829.).

Primavera, cioè primum ver o vernum, pel semplice ver. Anche questo è d’antichissimo uso latino. Vedi il pensiero precedente, e il Forcell. in Ver. (24. Feb. 1829.).

Alla p. 4437. Ben sono frequentissimi gli esempi di tal genere, non solo quanto a voci, inflessioni e simili, non proprie della lingua scritta, e solamente volgari, ma quanto a sintassi e dicitura affatto sgrammaticata, anzi strana, nelle iscrizioni di gente popolare, sì greche, e sì massimamente latine; come è fra le mille, quella ritrovata in Ostia, e pubblicata ultimamente dall’ Amati. Giorn. arcad. t. 39., 3.zo del 1828., p. 234.

Hic iam nunc situs est quondam praestantius ille
Omnibus in terris fama vitaque probatus
Hic fuit ad superos felix quo non felicior alter
Aut fuit aut vixit simplex bonus atque beatus
Nunquam tristis erat laetus gaudebat ubique
Nec senibus similis mortem cupiebat obire
Set timuit mortem nec se mori posse putabat
Hunc coniunx posuit terrae et sua tristia flevit
Volnera quae sic sit caro biduata marito.
Vivo specchio del dir di Democrito, e di quel che, secondo ogni verisimiglianza, furono le prime prose greche. E quell’altra, edita dal med. ib. p. 236-7. Dis manibus Meviae Sophes C. Maenius (sic) Cimber coniugi sanctissimae et conservatrici desiderio spiritus mei quae vixit mecum an. XIX. menses III. dies XIII. quod vixi cum ea sine querella nam nunc queror aput manes eius et flagito Ditem aut et me reddite coniugi meae quae mecum vixit tan concorde ad fatalem diem. Mevia Sophe impetra si quae sunt manes ni (cioè ne) tam scelestum discidium experiscar diutius. Hospes ita post obitum sit tibe terra levis ut tu hic nihil laeseris aut si quis laeserit nec superis comprobetur nec inferi recipiant et sit ei terra gravis. (24. Feb. 1829.).

Alla p. 4354. Probabilissimamente nella primitiva e vera scrittura, nella quale le vocali oggi dette lunghe, erano veramente doppie, cioè 2 vocali brevi, in tali casi si scriveva omettendo la 2.da breve: p. es. in vece d’ἐγὼ ἀρξάμενος si scriveva ἐγο ἀρξ ovvero ἐγο' ἀρξ, giacchè la scrittura ordinaria di ἐγὼ era ἐγοὸ di ἤδη ἐέδεε ec. In somma le vocali ora dette lunghe, eran veri dittonghi, due suoni brevi; l’uno de’ quali si poteva elidere ec. (25. Febbr. 1829.). V. p. 4469.

Alla p. 4403. Senofonte nell’Anabasi, al principio dei libri 2. 3. 4. 5. 7., riepiloga brevissimamente tutto il narrato prima, e dice: queste cose ἐν τῷ πρόσθεν (lib.2 ἔμπροσθεν) λόγῳ δεδήλωται , cioè, non già nel libro precedente, il quale non contiene tutta quella narrazione ch’egli dice ed epiloga (e la divisione dell’Anabasi in libri forse è più recente di Senofonte), ma nella parte precedente di questa istoria, appunto come è usato λόγος da Erodoto. Il Leunclavio male traduce, lib. 2. e 3. superiore libro , men male lib. 4. superioribus commentariis , bene lib. 5. hactenus hoc commentario , e lib. 7. superiore commentario . Il lib. 6. comincia ex abrupto come il primo, e senza epilogo, nè proemio di sorta. (25. Feb. 1829.).

Alla p. 4462. E già le destinazioni, le cause finali della natura, in molte anco di quelle cose in cui è manifesta la volontà intenzionale di essa natura come loro autrice, o non si possono indovinare, o sono (se pur veramente vi sono) affatto diverse e lontane da quelle che parrebbono dover essere. Per un esempio a che servono in tante specie d’animali quegli organi che i naturalisti chiamano rudimenti, organi imperfetti, incoati solamente, ed insufficienti all’uso dell’animale; in certe specie di serpenti due, in altri quattro piedicelli, che non servono a camminare, anzi non toccano nè pur terra, benchè sieno accompagnati da tutto l’apparato per camminare, cioè pelvi, scapule, clavicole, e simili cose? in certe specie di uccelli, ale che non servono per volare? e così discorrendo. Il sig. Hauch, professore di storia naturale in Danimarca, in una sua dissertazione "Degli organi imperfetti che si osservano in alcuni animali, della loro destinazione nella natura, e della loro utilità riguardo la storia naturale", composta in italiano, e pubblicata in Napoli 1827. ( Giorn. arcad. t. 38., 2.do del 1828. p. 76-81.), crede che siffatti organi servano di nesso tra i diversi ordini di animali (p. e. quei piedicelli, tra i serpenti e le lucerte), di scalino o grado intermedio, per evitare il salto; e che essi sieno quasi abbozzi con cui la natura si provi e si eserciti per poi fare simili organi più sviluppati e perfetti di mano in mano in altri ordini vicini di animali. Non so quanto quest’oggetto, questa causa finale, possa parere utile, e degna della natura e della cosa. V. p. 4472. Ma ricevuta tale ipotesi (ch’è l’argomento e lo scopo di quel libro), vedesi quanto le cause finali della natura sarebbero in tali casi lontane da ogni apparenza, e da tutto il nostro modo di pensare. Giacchè chi di noi non tiene per evidente che i piedi sono fatti per camminare? (come l’occhio per vedere). E pure quei piedicelli con tutto il loro apparato da camminare, non sarebbero fatti per camminare, nè poco nè punto; ma per un tutt’altro fine. E in fatti non camminano; perchè vi sono insufficienti. E quelle ali non volano, benchè per altro perfettamente organizzate (Hauch: il quale nota ancora che in alcuni di quegli uccelli esse non bastano nè anche nè servono punto a bilanciarli ed aiutare il corso, come si dice di quelle dello struzzo): and so on. (26. Feb. giovedì grasso. 1829.).

Per un Discorso sopra lo stato attuale della letteratura ec. — Togliere dagli studi, togliere dal mondo civile la letteratura amena, è come toglier dall’anno la primavera, dalla vita la gioventù. (6. Marzo. 1829.).

Τῷ Βίωνι (Boristenita, filosofo) δοκεῖ μὴ δυνατὸν εἶναι τοῖς πολλοῖς ἀρέσκειν, εἰ μὴ πλακοῦντα γενόμενον ἢ Θάσιον. Dio Chrys. Orat. 66. de gloria. p. 612. ed. Reisk. Bione diceva: non è possibile piacere ai più, se tu non divieni un pasticcio o un vin dolce. (8. Marzo. Domenica. 1829.). Può servire al Galateo morale, o al Macchiavellismo.

Alla p. 4245. Di questi ἔρανοι discorre (mi pare) di proposito, e può vedersi, il Coray, Notes sur les Caractères de Théophraste . (8. Marzo. 1829.).

Sinizesi. V. Forcell. ec. in Suavis e simili voci.

Sperno is — aspernor aris .

Contemtus, despectus, neglectus ec. per contemnendus, contemnibilis ec. E così in italiano francese e spagnuolo. — Scitus, scite, scitulus, scitule ec. saputo, saputello ec.

Alla p. 4467. E così i dittonghi. I quali altresì, quando eran fatti brevi, si doveano scrivere senza l’ultima vocale: οὔ το' ἀπόβλητ' ἐστὶ, per οὔ τοι, come oggi si scrive. E similmente nel mezzo delle parole, i dittonghi e le vocali dette lunghe, quando eran fatte brevi, doveano scriversi semplici: ο per ω, οι ec.; ε per η, ει ec. ec. (8. Marzo. 1829.).

Alla p. 4430. Similmente quei tanti motti che sotto nome di Diogene cinico si trovano nel Laerzio, e nello Stobeo, Antonio e Massimo, ed altri, raccolti dall’ Orelli, loc. cit. p. 4431., t. 2. Lips. 1821.; moltissimi de’ quali si trovano attribuiti in altri luoghi ad altri diversissimi personaggi; mostrano che a Diogene si riferivano popolarmente tutti i detti mordaci, arguti ec. non solo morali o filosofici, ma qualunque. (8. Marzo. 1829.).

Il luogo del Laerz. ap. l’Orelli, loc. cit. nel pensiero preced., p. 84. num.111. da nessuno inteso, e peggio dal Kuhnio (la cui spiegazione è data per ottima dall’ Orelli, ib. p. 585-6. dove chiama questo luogo difficilissimo ), secondo il quale (v. l’Orelli p. 586.) avremmo dei galli πίπτοντας ἐπὶ στόμα caduti boccone, cioè sul becco, cosa finora non mai veduta; a me par chiarissimo, e contiene una satira contro i medici (dei quali Esculapio è il dio), che finiscono di ammazzare chi cade malato. Quel πλήκτης non era gallo, ma uomo, un lottatore, non reale, ma figurato, probabilmente in cera, secondo l’uso degli antichi, specialmente poveri, in tali ἀναθήμασι. V. un luogo analogo, e confermante questa spiegazione, ib. p. 102. n.216.; e la nota, p. 595.: anche questo luogo spetta a Diogene. Il gallo promesso da Socrate ad Esculapio, è venuto in mente al Kuhnio in questo proposito assai male a proposito, e l’ha indotto nell’errore. (9. Marzo. 1829.).

Alla p. 4464. Filone giudeo ha un luogo simile (οὐδ' ὄναρ) ap. Orell. ib. t. 2. p. 116. num. 269. Del resto, v. il Forcell. ec. (9. Marzo. 1829.).

Alla p. 4437. fin. Non per ignoranza nè per negligenza, ma volutamente e a bello studio, si accostò a quel dir perplesso ec. a quella maniera democritea, anzi senz’ordine o regola alcuna di frase, e ciò esageratamente e fuor di misura, l’autore di quelle cinque Διαλέξεις ( Orell. Dissertationes, Fabric. Disputationes ) in dialetto dorico, d’argomento morale, che si trovano appiè di parecchi mss. delle opp. di Sesto Empirico, e che furon pubblicate da E. Stefano, dal Gale, dal Fabricio, e ultimamente da Gio. Corrado Orelli (loc. cit. nella pag. qui dietro, fin.): il quale autore, certo non molto antico, ma che intese di farsi creder tale, volle usare quel modo per contraffare anche in questo l’antichità. (10. Marzo. 1829.). V. p. 4479.

Se gli scrittori conoscessero personalmente a uno a uno i lor futuri lettori, è credibile che non si prenderebbero troppa pena di proccurarsi la loro stima scrivendo accuratamente, nè forse pure scriverebbero. Il considerarli coll’immaginazione confusamente e tutti insieme, è quello che, presentandoli loro sotto il collettivo e indefinito nome e idea di pubblico, rende desiderabile o valutabile la loro lode o stima ec. (10. Marzo. 1829.).

Alla p. 4426. Notano quelli che hanno molto viaggiato (Vieusseux parlando meco), che per loro una causa di piacere viaggiando, è questa: che, avendo veduto molti luoghi, facilmente quelli per cui si abbattono a passare di mano in mano, ne richiamano loro alla mente degli altri già veduti innanzi, e questa reminiscenza per se e semplicemente li diletta. (E così li diletta poi, per la stessa causa, l’osservare i luoghi, passeggiando ec., dove fissano il loro soggiorno.) Così accade: un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per se, che non ha nulla di ciò, ma perchè ci desta la memoria di un altro luogo da noi conosciuto, nel quale poi se noi ci troveremo attualmente, non ci riescirà (nè mai ci riuscì) punto romantico nè sentimentale. (10. Marzo. 1829.).

Alla p. 4365. Certo, siccome la letteratura e le scienze greche, la filosofia ec., passando in Italia, furono causa che moltissime parole greche, appartenenti a tali rami, acquistassero cittadinanza latina, e di là sien divenute proprietà delle lingue moderne, non solo scritte, ma eziandio parlate; così anche la religione cristiana: e non dico delle voci tecniche della teologia, ma di tante altre voci proprie del cristianesimo traspiantate nel latino, e di là passate nelle lingue moderne (anche non figlie della latina), e in esse volgarissime d’uso, tanto che molte di loro sono sfiguratissime (o di forma o di significato) e appena lasciano scorgere la loro etimologia: come (in italiano) chiesa, clero, chierico, prete, canonico, vescovo, papa, battesimo, battezzare, cresima, eucaristia, catechismo, parroco, parrocchia, epifania, pentecoste, elemosina (limosina, limosinare ec.), accidia ec. (10. Marzo. 1829.), angelo, arcangelo, demonio, diavolo, patriarca, profeta, profezia, apostolo, martire, martirio, martìre, martoro, martoriare ec., cattolico, eretico, eresia (resia ec.), evangelo (vangelo), monaco, monastico, monasterio, eremo (ermo ec. eremita, romito, romitorio, ec.) anacoreta, mistero (trasportato anche ad ogni sorta di cose ignote, e fuor della religione), ec. Molte anche tradotte, come κατανύσσω, κατάνυξις, compungo, compunctio, prese nel senso morale; πειρασμὸς tentatio; ed altre tali infinite, non pur voci, ma frasi e frasario della scrittura (gran fonte di grecismo al basso latino e alle lingue moderne) o de’ padri greci, passate nelle nostre lingue, e coll’andar del tempo applicate anco a sensi ed usi affatto profani[a]

Prossimo (ὁ πλησίον, ὁ πέλας) p. simile ec., viene anche dal greco p. mezzo del Cristianes., quantunq. il Forc. abbia qualcosa di simile in autori pagani.

[Chiudi]. (12. Marzo. 1829.).

Alla p. 4468. Tale osservazione potrà parere soddisfacente come spiegazione del fenomeno, non del fine di esso. (12. Marzo.).

ἐς ἴσον τῷ frammento di Archita, o sotto nome di Archita, ap. Orelli, l. c. p. 4469. fine, p. 248. lin. 13. — à l’égal de. La Bruyère, e contemporanei — locuzione avverbiale, in senso di aeque ac. (12. Marzo. 1829.).

Galateo morale. Il y a des ménagements que l’esprit même et l’usage du monde n’apprennent pas, et, sans manquer à la plus parfaite politesse, on blesse souvent le coeur. Corinne, liv. 3. ch. I. 5.me éd. Paris 1812. t. I. p. 92. Les Anglais sont les hommes du monde qui ont le plus de discrétion et de ménagement dans tout ce qui tient aux affections véritables. liv. 6. chap. 4. t. I. p. 281. (13. Marzo. 2.do Venerdì. 1829.).

Mille piacer non vagliono un tormento. Or come può un piacere valer mille tormenti? e pure così è la vita. (14. Marzo. 1829.). Questo verso racchiude una sentenza capitale contro la vita umana, e contro chi consente a vivere, cioè tutti i viventi.

Monosillabi latini. Nix.

κέραμος-κεράμιον. V. Orelli, loc. cit. qui sopra, p. 279. fine, il qual luogo, come si dice nelle note, è copiato da Aristotele.

εὐθέως o εὐθὺς, come luego, per dunque, però, iccirco, conseguentemente, necessariamente V. Orelli ib. p. 312. lin.8-9., e la nota p. 697. Luogo notabile. Così, spesso, colla negazione: p. e. οὐ γὰρ εἰ ec. διὰ τοῦτο εὐθὺς καὶ ec., ovvero omesso il διὰ τοῦτο però. (23. Marzo. 1829.).

μωκάομαι, coi derivati e composti (v. Scapula in μῶκος , e Orell. ib. p. 752. fin.) — se moquer coi derivati ec. E notisi la forma neutra passiva, ossia reciproca, dell’uno e dell’altro verbo ec. (25. Marzo. 1829.).

σκίμπους οδος-σκιμπόδιον

cauneas-cave ne eas.

tenebrosus-tenebricosus. Nel dialetto popolare di Viterbo (Patrimon. di S. Pietro), menicare e trenicare, frequentativi di menare e tremare. ( Orioli nell’Antologia di Firenze.)

ἁρμάτιον per ἅρμα. Procop. Hist. arcan. p. 31. ed. Alemanni. (I Lessici e Gloss. nulla.)

Ἔπος da εἰπεῖν sembra essere stato considerato, e chiamato così, come un grado, un genere medio tra λόγος, da λέγειν, orazione, prosa; e μέλος. (27. Marzo. 1829.).

Ἁφὴ, ἐπαφὴ , usati in proposito d’istrumenti musici, ap. Orell. ib. p. 292. lin. 3., p. 302, lin. 13. 18. 23., p. 336. lin. 19. — tocco, toccare, toucher ec. nello stesso senso.

In generale la forma diminutiva (o disprezzativa o vezzeggiativa ec.) spagnuola in illo, e ico, ecillo, ecico, cillo, cico, e l’italiana in glio e chio (icchio, ecchio, acchio ec.), e la francese in il, ill; ail, aill; eil, eill ec.; sì de’ nomi, che de’ verbi (ne’ quali suol esser chiamata frequentativa), non è altro (anche nelle voci di origine non latina) che la mera latina in aculus, iculus, culus, iculare, culare, uscul. ec. contratta prima in clus, clum, iclus, clare ec. (27. Marzo. 1829.). V. p. 4486.

Fama rerum. Tac. Vit. Agric. in fine. Frase che desta un’idea vastissima, o una moltitudine di idee, e nel modo il più indefinito. Di tali frasi, e, in generale, della facoltà di esprimersi in siffatta guisa, abbondano le lingue antiche; la latina specialmente, anche più della greca: e quindi è che la prosa latina, per l’espressione e il linguaggio (non per le idee, e lo stile, come la francese) è sovente più poetica del verso, non pur moderno, ma greco; benchè il latino non abbia lingua poetica a parte. (28. Marzo. 1829.).

Monosillabi lat. , opposti alle voci greche corrispondenti. Do — δί-δω-μι, dal disusato δόω.

Sufficiente detto di uomo, sufficienza ec. — ἱκανὸς, ἱκανότης ec.

Alla p. 4442. Eremo sostant. da ἔρημος agg., sottint. τόπος. Deserto. V. Forcell. Nulla (res) per nihil. E per via di tali sottintendimenti, infiniti altri aggettivi, non sol di tempo o luogo, ma d’ogni genere, son passati, in ogni lingua, ad essere sostantivi, in vece de’ sostantivi originali loro corrispondenti. Del resto anche il greco abbonda di tali ellissi negli aggettivi di tempo o luogo. (28. Marzo. 1829.).

Error grande, non meno che frequentissimo nella vita, credere gli uomini più astuti e più cattivi, e le azioni e gli andamenti loro più doppi, di quel che sono. Quasi non minore nè meno comune che il suo contrario. (28. Marzo. 1829.).

Tanto, inquit, melius. Fedro. — tant mieux, tant pis.

Ce que les intérêts particuliers ont de commun (nella società) est si peu de chose, qu’il ne balancera jamais ce qu’ils ont d’opposé. Rousseau, Pensées, Amsterdam 1786. 1.re part. p. 23. (28. Marzo. 1829.).

On n’a de prise sur les passions, que par les passions; c’est par leur empire qu’il faut combattre leur tyrannie, et c’est toujours de la nature elle-même qu’il faut tirer les instrumens propres à la régler . ib. p. 46.

Strascicare e strascinare, sono certamente frequentativi corrotti da trahere.

Alla p. 4446. Verissima osservazione, siccome l’altra analoga, p. 4459., sopra i drammi. Ma tali memorie, leggende e canti, non possono trovarsi se non in popoli che abbiano attualmente una vita e un interesse nazionale; dico vita e interesse che risieda veramente nel popolo: e però non possono trovarsi se non che in istati democratici, o in istati di monarchie popolari o semipopolari, (come le antiche e del medio evo), o in istati di lotta nazionale con gente forestiera odiata popolarmente (come, al tempo del Cid, degli spagnuoli cogli arabi), o finalmente in istati di tirannie combattute al di dentro (come nella Grecia moderna, e in più provincie ed epoche della Grecia antica e sue colonie). Ma nello stato in cui le nazioni d’Europa sono ridotte dalla fine del 18.o secolo, stato di tranquilla monarchia assoluta, i popoli (fuorchè il greco) non hanno potuto nè possono avere di tali tradizioni e poesie. Le nazioni non hanno eroi; se ne avessero, questi non interesserebbero il popolo; e gli antichi che si avevano, sono stati dimenticati da’ popoli, da che questi, divenendo stranieri alla cosa pubblica, sono anche divenuti stranieri alla propria storia. Se però si può chiamare lor propria una storia che non è di popolo ma di principi. In fatti nessuna rimembranza eroica, nessuna affezione, perfetta ignoranza della storia nazionale, sì antica, sì ancora recentissima, ne’ popoli della moderna Europa. In siffatti stati, gli eroi delle leggende popolari non sono altri che Santi o innamorati: argomenti, al più, di novelle, non di poemi o canti eroici, nè di tragedie eroiche.

Quindi apparisce che il poema epico, anzi ancora il dramma nazionale eroico, di qualunque sorta, e sia classico o romantico, è quasi impossibile alle letterature moderne. Il vizio notato da Niebuhr nell’Eneide, è comune alle moderne epopee, al Goffredo particolarmente. Meglio, per questo capo, i Lusiadi; i cui fatti anco, benchè recentissimi, abbondavano di poetico popolare, per la gran lontananza, ch’equivale all’antichità, massime trattandosi di regioni oscure, e diversisime dalle nostrali. Meglio ancora l’Enriade, il cui protagonista vivea nella memoria del popolo, non veramente come eroe, ma come principe popolare.

Oltracciò quelle tradizioni di cui parla Niebuhr, dubito che possano aver luogo se non in tempi di civiltà men che mezzana (come gli omerici, quei de’ romani sotto i re, de’ bardi, il medio evo); nei quali hanno credito i racconti maravigliosi che corrono dell’antichità, e il moderno diviene antico in poco tempo. Ma in giorni di civiltà provetta, come quei di Virgilio e i nostri, l’antico, per lo contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non corrono altre leggende che quelle che narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno più, non pur dell’eroiche, ma di sorta alcuna; e non v’hanno luogo altre poesie fondate in narrative popolari, se non del genere del Malmantile. (29. Mar. 1829.).

Da queste osservazioni risulterebbe che dei 3 generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e l’esperienza de’ poeti moderni lo proverebbe); genere, siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche. (29. Marzo 1829.). — Ed anco in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l’età nostra si riavvicina alla primitiva. — Del resto quel che della poesia epica e drammatica, è anche della storia. Che importerebbe, che impressione, che effetto farebbe al popolo di Milano, di Firenze o di Roma, se oggi un nuovo Erodoto venisse a leggergli la storia d’Italia? (30. Mar.).

Alla p. 4418. Anche qui, come in tante altre cose della nostra vita, i mezzi vagliono più che i fini. (29. Mar. 1829.).

La felicità si può onninamente definire e far consistere nella contentezza del proprio stato: perchè qualunque massimo grado di ben essere, del quale il vivente non fosse soddisfatto, non sarebbe felicità, nè vero ben essere; e viceversa qualunque minimo grado di bene, del quale il vivente fosse pago, sarebbe uno stato perfettamente conveniente alla sua natura, e felice. Ora la contentezza del proprio modo di essere è incompatibile coll’amor proprio, come ho dimostrato; perchè il vivente si desidera sempre per necessità un esser migliore, un maggior grado di bene. Ecco come la felicità è impossibile in natura, e per natura sua. (30. Marzo. 1829.).

Alla p. 4366. Quindi l’aridità, il nessun interesse, la noia delle novelle, narrazioni, poesie allegoriche, come il Mondo morale del Gozzi, la Tavola di Cebete ec. Non parlo delle personificazioni ed enti allegorici introdotti come macchine in poemi, come nell’Enriade: perchè a quelli il poeta mostra di credere veramente, come farebbe ad altri enti favolosi e fittizi, umani o soprumani ec. (30. Marzo. 1829.).

Piombato, plombé (del color del piombo), per plumbeo.

Dépiter, se dépiter.

Vouloir per potere e per dovere. v. Alberti in vouloir fine.

Errori popolari degli antichi. — Parlerò di quegli errori che furono, o si può creder che fossero, propri de’ volgari, e di quella sorta di persone che in tutte le nazioni vanno considerate come appartenenti al volgo; non già di quegli errori che il popolo ebbe comuni coi saggi; molto meno di quelli che furono proprii de’ saggi; materia che sarebbe infinita. Gli errori de’ saggi, antichi e moderni, sono innumerabili. Il popolo ha pochi errori, perchè poche cognizioni, con poca presunzion di conoscere. Oltre che la natura, voglio dir la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte più rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata. E però non è raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di molte cose opinioni migliori o più ragionevoli che i sapienti; e non è temerario il dire che, generalmente, nelle materie speculative e in tutte le cose il conoscimento delle quali non dipende da osservazione e da esperienza materiale, i filosofi antichi errassero dalla verità, o dalla somiglianza del vero, meno che i filosofi moderni: se non in quanto i moderni, quando scientemente e quando senza avvedersene, sono tornati in queste cose all’antico. (31. Marzo. 1829.).

On ne s’égare point parce qu’on ne sait pas, mais parce qu’on croit savoir. Rousseau, pensées, II. 219. V. p. 4502.

Il dogma dell’invidia degli Dei verso gli uomini, celebrato in Omero, e soprattutto in Erodoto e suoi contemporanei, sembra essere di origine orientale, o divulgato principalmente in oriente. Poichè esso tiene alla dottrina del principio cattivo, ed a quelle idee che rappresentavano le divinità come malefiche e terribili; dottrina e idee aliene dalla religione della Grecia a’ tempi omerici ed erodotei, come ho osservato altrove. Ed esso è l’origine de’ sacrifizi, e delle penitenze, sì comuni in oriente, quasi ignote in Grecia. L’atto di Policrate samio (ap. Erodoto) che getta in mare il suo anello per proccurare a se medesimo una sventura, non è che una penitenza. (31. Marzo. 1829.).

Scherzava sul poetar suo in questa forma: diceva ch’egli seguia Cristofaro Colombo, suo cittadino; ch’egli volea trovar nuovo mondo, o affogare. Chiabrera, Vita sua. Questo motto pare oggi una smargiassata, e ci fa ridere. Che grande ardire, che gran novità nel poetar del Chiabrera. Un poco d’imitazione di Pindaro, in luogo dell’imitazione del Petrarca seguita allora da tutti i così detti lirici. E pur tant’è: a que’ tempi questa novità pareva somma, arditissima, facea grand’effetto. Oggi par poco, e basta appena a far impressione poetica tutta la novità e l’ardire che è nel Fausto o nel Manfredo. — Può servire a un Discorso sul romanticismo. (1. Aprile. 1829.).

L’imaginazione ha un tal potere sull’uomo (dice Villemain, Cours de littérature française, Paris 1828. nell’Antolog. N.97. p. 125. in proposito del generale entusiasmo destato dai canti ossianici al lor comparire, ed anco al presente), i suoi piaceri gli sono così necessari, che, anche in mezzo allo scetticismo di una società invecchiata, egli è pronto ad abbandonarvisi ogni volta che gli sono offerti con qualche aria di novità. — Verissimo. Il successo delle poesie di Lord Byron, del Werther, del Genio del Cristianesimo, di Paolo e Virginia, Ossian ec., ne sono altri esempi. E quindi si vede che quello che si suol dire, che la poesia non è fatta per questo secolo, è vero piuttosto in quanto agli autori che ai lettori. (1. Aprile. 1829.).

Alla p. 4470. Pur quelle διαλέξεις, così imposture come sono, le quali quantunque non antichissime, pur sono certamente antiche (l’Orelli, al quale però io non consento, nelle note, p. 633, le crede anteriori a Pirrone e agli Scettici; e nella pref. del vol. , scritta dopo le note, p. X. le stima poco posteriori al filosofo Crisippo, anzi, p. XI. sospetta che sieno più antiche di Crisippo e dello stesso Platone; benchè le riconosca indubitatamente per imposture nelle note, e per opera di un sofista nella pref.: e il Visconti, Mus. Pio-Clem. t. 3. p. 97. ed. Mil., nelle note all’imagine di Sesto Cheronese filosofo del tempo degli Antonini, le fa pluribus seculis antiquiores ( Orell. ), di esso Sesto), possono ben servire a darci un’idea dell’antichissima prosa greca, a noi necessariamente sì poco nota; poichè quell’impostore, per mentir l’antichità, giudicò servirsi di un linguaggio di quella forma. Nei frammenti, sì morali e politici, e sì matematici e fisici, che portano il nome di Archita pitagorico (i quali io non so se sieno di Archita ( Orell. pref. p. XI.), nè di quale Archita (ib. p. 672.); ma in parecchi di loro credo veder caratteri e segni certi di molta antichità), l’arte dello esprimere i pensieri in prosa, si vede non più bambina; non però adulta; ma quasi ancora fanciulla: un aggirarsi, un confondersi spesso, uno stentare (un sudare in) a darsi ad intendere, a disporre e congiungere insieme gl’incisi e i periodi. (2. Aprile. 1829.).

Stentato, stentatamente ec.

Alla p. 4438. E che altro che una diascheuasi era quella onde o libri interi, o passi e frammenti d’autori greci, dal dialetto in che erano scritti originalmente, venivano ridotti al parlar greco comune, e talora anche a qualche altro dialetto? ( Orelli, ib. t. 2. p. 720. fin.) cosa frequentissima. Così il moderno editore del libro περὶ τῆς τοῦ παντὸς φύσεως che porta il nome di Ocello lucano, Rudolph (Rudolphus), crede quel libro e dorica dialecto in communem conversum ( Orell. ib. p. 670. fin. p. 671. lin. 9.): e in fatti, che che sia dell’autenticità, certo assai sospetta, di quel libro ( Orell. ib. Niebuhr Stor. roman. ec.), la quale il Rudolph si sforza di sostenere contro il Meiners (che la combatte in Geschichte der Wissenschaften in Griechenland und Rom), certo è che, mentre il libro si legge ora in lingua comune, se ne trovano ap. Stob. (colla citazione del titolo di esso libro) alcuni passi in dialetto dorico. ( Libellus περὶ τοῦ παντὸς φύσιος etiamnum exstat integer: quanquam non Dorica dialecto qualis primum scriptus ab Ocello fuerat, ut ex fragmentis a Stob. servatis perspicue apparet: sed a Grammatico aliquo ut facilius a lectoribus intelligeretur, in κοινὴν dialectum transfusus... Loca ex hoc Ocelli libro ap. Stob. Eclog. phys. p. 44.45. (lib. I c. 24., ed. Canter.). Vide et p. 59. — Fabric. B. G. t. 1. p. 510. seq.) (2. Aprile. 1829.). Così nei florilegi di Stobeo, d’Antonio e di Massimo, e in questi ultimi due specialmente, molti frammenti di diversi autori, sono mutati dall’ionico, o da altro de’ dialetti greci, nel dir comune. ( Orell. ib. p. 729. num. 6., e t. 1. p. 114. lin. 26., p. 515. lin. 14-16., ec.) (2. Aprile. 1829. Recanati.).

Odio verso i nostri simili. Galateo morale. Umanità degli antichi. — Da che viene quel fenomeno sì incontrastabile, sì universale senza eccezione; che è impossibile essere spettatori di un piacer vivo, provato da altri (non solo uomini, anche animali), massime non partecipandone, senza sperimentare un irresistibile senso di pena, di rabbia, di disgusto, di stomaco? — piaceri sì morali, sì fisici. — piaceri venerei, insoffribili a vedere in altri, sì uomini, sì anche animali: insoffribili anche agli animali, sì in quei della propria specie, sì in altri. — Perchè sì spiacevole in natura la vista del piacer d’altri? — Il Casa nel Galateo prescrive che non si mangi o beva in compagnia o presenza altrui con dimostrazione di troppo gran piacere: Cleobulo ap. Laerz., notato da me altrove, che non si faccia carezze alla moglie in presenza d’altri. V. p. seg. — In fatto di donne generalmente, in fatto di galanteria, la cosa è notissima; insoffribile non solo la vista, ma i discorsi, i vanti, di fortune altrui. Il y a toujours dans les succès d’un homme auprès d’une femme quelque chose qui déplaît, même aux meilleurs amis de cet homme. Corinne, liv. 10. ch. 6., t. 2. p. 161. 5.me édit. Paris 1812. — Può servire anco al Galateo morale — e al Trattato de’ sentimenti umani (3. Apr. 1829.) — e al pensiero sulla monofagia, massime in proposito de’ servitori ec.

Alla p. preced. (V. Orell. Opusc. graec. moral. t. 1. p. 138, e le note) e ciò è anche oggi di creanza universale, e quasi naturale. (3. Apr. 1829.).

Dal pensiero precedente apparisce (e l’esperienza lo prova) che vera amicizia difficilmente può essere o durare tra giovani, malgrado il candore, l’entusiasmo ec. proprio dell’età. E ve ne sono anche altre ragioni. Più facile assai l’amicizia tra un giovane e un vecchio o un provetto. — L’odio verso i simili, che essendo di ogni vivente verso ogni vivente, è maggiore verso quei della specie, ancor nella specie stessa è tanto maggiore, quanto un ti è più simile. — Hanno gli Ebrei in un loro libro di sentenze e detti varii (che si dice tradotto di lingua arabica, ma verisimilmente è pur di fattura ebraica) ( Orell. Opusc. graec. moral. t. 2. Lips. 1821., praef. p. XV.), che non so qual sapiente, dicendogli uno: io ti sono amico, rispose: che potria fare che non mi fossi amico? che non sei nè della mia religione, nè vicino mio, nè parente, nè uno che mi mantenga? (sentent. 269. Apophthegm. Ebraeor. et Arabum ed. a Io. Drusio: Franequerae 1651.) — Quodam dicente, Amo te, Cur, inquit, me non amares? Non enim es ejusdem mecum religionis, nec propinquus meus, nec vicinus, nec ex iis, qui me alunt. Orell. ib. p. 506-7. (4. Apr. 1829.).

Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non passarli mai. (4. Apr. 1829.).

Moestus da moereo (moeritus, moesitus, moestus, come torreo — tostus, questus, quaestus ec.) 1. participio in us con senso neutro e presente. 2. participio aggettivato. 3. non più riconosciuto per participio. Vedi Forcell. ec. (4. Apr.). Se non è da maereor.

Alla p. 4437. (dove la sgrammaticatura continua e il balbettare, viene dall’esser gli autori forestieri, grecizzanti non greci, o dall’affettare il dir non greco, l’imitazione del linguaggio scritturale dei 70 ec.).

L’imperfetto indicativo pel congiuntivo. Se io sapeva (avessi saputo) questo, non andava (non sarei andato) ec. Ch’ogni altra sua voglia Era (sarebbe stata) a me morte, ed a lei infamia rea. Petr. Canz. Vergine bella . Anche il più che perfetto. S’io era ito ec., non mi succedeva ec. E in francese si j’étais (s’io fossi) ec. ec. — Pretto grecismo. (4. Apr. 1829.).

Ebbero anche i greci de’ libri di Mémoires secrets. Tali sono gli Aneddoti o Storia Arcana di Procopio, e gli altri mentovati dal Fabric. a questo proposito. Vedilo, B. Gr. t. 6. p. 253. sqq. e specialmente p. 255. not. (n.) (4. Apr. 1829.).

Sinizesi. Dittonghi ec. Deesse dissillabo. Cesare ap. Donat. Vit. Terent.

Alla p. 4415. εἵνεκ' ἀοιδῆς Ἣν νέον ἐν δέλτοισιν ἐμοῖς ἐπὶ γούνασι θῆκα. gratia carminis Quod nuper in libellis meis (meglio mea, cioè genua) super genua posui. Batracom. v. 2. 3. E la Batracomiomachia è pure una parodia omerica. Eschilo fu nel 5.to sec. av. G. C. , nato circa il 525. (4 Aprile. 1829.). Δέλτοι pugillares qui forma litterae Δ plicabantur: postea quivis liber. Scap.

L’interesse nell’epopea, nel dramma, non nasce dal nazionale, ma dal noto, dal familiare. Se le cose e le persone antiche e straniere ci sono (come sono in fatti) tuttavia più note, più familiari, più ricche di rimembranze che le nazionali e le moderne, anzi se le nazionali non ci sono nè familiari nè cognite; la conseguenza è chiara, quanto alla scelta dei soggetti, volendo cercare il piacere. I nazionali nostri sono i Greci, i Romani, gli Ebrei ec. coi quali siamo convissuti fin da fanciulli. (5. Aprile. Domen. di Passione. 1829.). Volendo poi mirare all’utile, è un altro affare; ma in tal caso non bisogna dimenticare quel detto della Staël ( Corinne, liv. 7. ch. 2): Il (Alfieri) a voulu marcher par la littérature à un but politique: ce but était le plus noble de tous sans doute; mais n’importe, rien ne dénature les ouvrages d’imagination comme d’en avoir un. (5.me édit. Paris 1812. t. I. p. 317.).

Errori popolari degli antichi. Parlerò di questi errori leggermente, come storico, senza entrare a filosofare sopra ciascuno di essi e sopra la materia a cui appartengono; cosa che mi menerebbe in infinito, e vorrebbe non un Trattatello, ma un gran Trattato. In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto facilissimamente diviene vastissimo. Tanto più è necessario, volendo pur fare un libro, che uno sappia limitarsi, che attenda diligentemente a circoscrivere il proprio argomento, sì nell’idea de’ lettori, e sì massimamente nella propria intenzione; e che si faccia un dovere di non trapassare i termini stabilitisi. (Chi non sa circoscrivere, non sa fare: il circoscrivere è parte dell’abilità negl’ingegni, e più difficile che non pare. Vedi p. 4450. capoverso 6.) Altrimenti seguirà o che ogni libro sopra ogni tenuissimo argomento divenga un’enciclopedia, o più facilmente e più spesso, che un autore, spaventato e confuso dalla vastità di ogni soggetto che gli si presenti, dalla moltitudine delle idee che gli occorrano sopra ciascuno, si perda d’animo, e non ardisca più mettersi a niuna impresa. Il che tanto più facilmente accadrà, quanto la persona avrà più cognizioni e più ingegno, cioè quanto più sarà atto a far libri. (6. Aprile. 1829.). — Io non presumo con questo libro istruire, solo vorrei dilettare.

Alla p. 4429. Però io per me, se uno mi chiedesse p. e.: credi tu che ἡμέρα abbia a far nulla con dies? risponderei: non so... Oh come? che nè pure una lettera hanno comune? — Così dies e giorno, replicherei, non han comune una lettera, e pur questa voce nasce da quella. (6. Apr. 1829.).

Sinizesi, Dittonghi ec. Le contrazioni e circonflessioni de’ greci, che altro sono che sinizesi ec. ec.? (6. Apr. 1829.)

Penato per penante. Crus. volg. marchegiano.

ἴλλος — ὗσΨ ίλλος, coi derivati ec. V. Scapula ec.

Seccare, seccatore ec. V. Scapula in Σικχός, coi derivati.

Merlo. merlotto. Scricchiolare, scricchiolata.

Rattenuto per cauto ec. Affermi, mal affermi per fermo, mal fermo.

Del Saggio sopra l’origine unica delle cifre e lettere di tutti i popoli, per M. De Paravey, Paris, 1826., Dissertazioni tre del P. Giacomo Bossi. Torino 1828. St. Reale (sic) 8.o di p. 103. (11. Apr.).

Chi ha viaggiato, gode questo vantaggio, che le rimembranze che le sue sensazioni gli destano, sono spessissimo di cose lontane, e però tanto più vaghe, suscettibili di fare illusione, e poetiche. Chi non si è mai mosso, avrà rimembranze di cose lontane di tempo, ma non mai di luogo. Quanto al luogo (che monta pur tanto, che è più assai che nel teatro la scena), le sue rimembranze saranno sempre di cose, per così dir, presenti; però tanto men vaghe, men capaci d’illusione, men soggette all’immaginazione e men dilettevoli. (11. Apr. 1829. Recanati.).

La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine. (11. Aprile.).

Delle cognizioni enciclopediche degli antichi (massimamente greci), e del loro scrivere sopra ogni ramo dello scibile, del che altrove, possono dare un’idea, e sono un esempio, anche gli scritti di Cicerone (fra superstiti e perduti) imitatore in ciò, come in tante altre cose, de’ greci: il quale a molte delle sue opere (filosofiche, rettoriche ec.) fu mosso, non da alcuna ispirazione ὁρμὴ particolare, da impulso, da affezione verso quegli argomenti, da trovarsi aver pensato con particolarità su di essi, ma dalla sola voglia, dal desiderio (che però la morte o gli affari gl’impedirono di soddisfare) di compire il ciclo (come Niebuhr chiama quello delle opere di Aristotele) de’ suoi scritti sopra ogni dottrina enciclopedica ec. V. la pref. de Officiis. (12. Apr. 1829.).

Alla p. 4473. Così i nostri diminutivi o disprezzativi o frequentativi ec. in accio acciare [a]

Pare che i lat., almeno de’ bassi tempi, usassero come disprezzativa la forma in Acul.

[Chiudi]uccio, ucciare (succiare — succhiare, per suggere); azzo, azzareuzzo, uzzare; aglio agliare — uglio ugliare (plebaglia, plebacula, germoglio, germogliare ec.). Tutti dal lat. acu — ucu — lus — a — um — lare; ulus, ulare. Gli spagn. in illo, illar ec. (se non forse pochi) non vengono già dal latino in illus (quantillus, tantillus, pusillus, tigillum, pulvillus, catilla, cioè cagnuola), illare (cantillare ec.), nè ci hanno punto che fare. Anche i greci hanno in ιλλος, η, ον. Anche i franc. in ache, acher (s’amouracher, amoraculari) ec. V. p. 4496. E in âche ec.

Frequentativi o diminutivi italiani, verbi e nomi [a]

I verbi, tutti della 1a.

[Chiudi]. V. il pensiero precedente e suoi annessi prima e poi.

Coccolone, penzolone ec. ec. (13. Apr.).

Oscillo as. freq. — Serva ancora per i miei pensieri sui verbi latini comincianti in sus, essendo da cillo e ob, interposta la s. Così oscillum ec. V. anche Forc. in obscenus; e in Obs... Os... Sus... Subs...

Alla p. 4388. E pure veggiamo che da 3 secoli che la presente ortografia italiana fu a un di presso introdotta, la pronunzia de’ parlanti è ancora la stessa: dico in chi parla bene, e la cui pronunzia fu voluta con siffatta ortografia rappresentare. Vale a dir che un Toscano parla oggidì e legge la nostra lingua com’ella sta nelle buone stampe del sec. 16., e come la scrivevano allora i corretti scrittori; eccetto gli h inutili, e non mai pronunziati, ed altre tali particolarità, che non rappresentavano la pronunzia neppur d’allora. Del resto, se quel che dice il Foscolo fosse vero, e d’altronde l’ortografia dovesse sempre star ferma, e lasciare andar la pronunzia, ne seguirebbe che prestissimo la lingua parlata e la scritta sarebbero 2. lingue affatto distinte; e la difficoltà dell’imparare a leggere sarebbe enormissima, come è già grande ai francesi inglesi ec., e maggiore senza comparazione che agl’italiani e spagnuoli. Non so che popolarità saria questa: la popolarità di quando la lingua scritta era latina, e la parlata volgare. Fatto sta che non fu ragione, non fu un principio di conservazione di stabilità, di etimologia, quel che produsse e mantenne la pessima e falsissima ortografia francese inglese ec., ma fu solo l’ignoranza e la mala abilità de’ primi che posero in iscrittura i volgari, i quali scrissero la lingua più, per così dire, in latino che in inglese ec.; e il non essersi rimediato poi a questo errore in Inghilterra in Francia ec., come si è fatto in Italia Spagna ec., anzi averlo seguitato. Le discrepanze delle nostre prime ortografie che Foscolo cita, non provano che l’inabilità di que’ primi a rappresentar la parola e la pronunzia stessa d’allora. (13. Apr.).

La vera (e naturale) perfezione dell’ortografia è che 1. ogni segno, come si pronunzia nell’alfabeto, così nella lettura sempre; 2. e nell’alfabeto esprima un suono solo. 3. non si scriva mai carattere da non pronunziarsi, nè si ometta lettera da pronunziarsi. (13. Apr.).

Alla p. 4439. Quando io mi sono trovato abitualmente disprezzato e vilipeso dalle persone, sempre che mi si dava occasione di qualche sentimento o slancio di entusiasmo, di fantasia, o di compassione, appena cominciato in me qualche moto, restava spento. Analizzando quel ch’io provava in tali occorrenze, ho trovato, che quel che spegneva in me immancabilmente ogni moto, era un’inevitabile occhiata che io allora, confusamente e senza neppure accorgermene, dava a me stesso. E che, pur confusamente, io diceva: che fa, che importa a me questo (la bella natura, una poesia ch’io leggessi, i mali altrui), che non sono nulla, che non esisto al mondo? V. p. 4492. E ciò terminava tutto, e mi rendeva così orribilmente apatico com’io sono stato per tanto tempo. Quindi si vede chiaramente che il fondamento essenziale e necessario della compassione, anche in apparenza la più pura, la più rimota da ogni relazione al proprio stato, passato o presente, e da ogni confronto con esso, è sempre il se stesso. E certamente senza il sentimento e la coscienza di un suo proprio essere e valere qualche cosa al mondo, è impossibile provar mai compassione; anche escluso affatto ogni pensiero o senso di alcuna propria disgrazia speciale, nel qual caso la cosa è notata, ma è ben distinta da ciò ch’io dico. E al detto sentimento e coscienza, come a suo fondamento essenziale, la compassione si riferisce dirittamente sempre; quantunque il compassionante non se n’accorga, e sia necessaria un’intima e difficile osservazione per iscoprirlo. Quel che si dice dei deboli, che non sono compassionevoli, cade sotto questa mia osservazione, ma essa è più generale, e spiega la cosa diversamente Ciò che dico del sentimento di se stesso, e della considerazione e stima propria, vale ancora per la speranza: chi nulla spera, non sente, e non compatisce; anch’egli dice: che importa a me la vita? Fate qualche atto di considerazione a chi si trova spregiato, dategli una speranza; una notizia lieta; poi porgetegli un’occasione di sentire, di compatire: ecco ch’egli sentirà e compatirà. Io ho provato, e provo queste alternative, e di cause e di effetti, sempre rispondenti questi a quelle: alternative attuali, o momentanee; ed alternative abituali e di più mesi, come, da città grande passando a stare in questa infelice patria, e viceversa. Il mio carattere, e la mia potenza immaginativa e sensitiva, si cangiano affatto l’uno e l’altra in tali trasmigrazioni. (Recanati. 14. Aprile. Martedì santo. 1829.).

Possibilis da possitum, secondo che ho mostrato altrove della formazione in bilis dai supini: nuova prova del sup. situm di esse. (14. Aprile.).

Lattato per latteo. E simili altri aggettivi di colori.

Lacteolus per lacteus. aggett. V. Forc. in aureolus, argenteolus ec. e negli altri aggettivi di colori.

Che l’antico bito sia un continuativo di vio as? onde viator, viaticus ec.

Vinciglio (vinculum), avvincigliare (avvinculare, altrimenti avvinchiare, avvinghiare.).

Romoreggiare. Pavoneggiare. Atteggiare. Veleggiare.

Il nostro favorare par dimostrato nel latino da favorabilis, favorabiliter, giusta il detto da me altrove della formazione in bilis dai supini de’ verbi. E così, da simili prove d’ogni genere, note generalmente o non note, altre infinite voci. E certo, che infinite voci volgari, anche radici ec., non superstiti nel latino noto, e che noi non sappiamo donde derivare, e cerchiamo forse nel settentrione ec., sieno pure e prette latine (latino scritto o solamente parlato, voglio dire non letterario), si conferma coll’osservazione d’ogni giorno. Borghesi ha trovato nelle lapidi (e dee stare nella nuova edizione del Forcell.) la voce drudus i, (17. Aprile. Venerdì Santo. 1829.) la cui origine, non che essa medesima, nessuno avrebbe cercato nell’ant. latino (18. Apr.).

Babil, babiller, babillard ec. Gaspiller, gaspillage ec. Gazouiller ec. Plumasserie, plumassier.

Observito as.

Beccare — bezzicare. Piccare — pizzicare. Piovizzicare (marchigiano), e pioviccicare (id.). Piluccare — spilluzzicare. Appiccare — appicciare, appiccicare.

Scioperato, désoeuvré. Homme répandu. ( Rousseau, pensées I. 202.). Dissipé.

Erto (erectus), participio aggettivato.

Perdonare, pardonner, perdonar, voce di forma ed apparenza affatto latina e antica: per, omnino, penitus, ad extremum, come in pereo, perdo, perimo, perdomo, perduro, ec. ec. e donare cioè condonare.

I participii in us de’ verbi neutri ec. sono comprovati da quelli di forma e senso corrispondente, che hanno i medesimi verbi in italiano francese spagnuolo.

Ci paiono poetichissime, ed amiamo a ripetere, moltissime frasi scritturali, che non sappiamo che significhino, anzi che rapporto abbiano quelle voci tra loro, (come l’abominazione della desolazione, ec. ec.): e ciò per quel vago, e perchè appunto non sappiamo precisare a noi stessi, e non intendiamo se non confusissimamente e in generalissimo, che cosa si voglian dire. (19. Aprile. Pasqua.).

Amitié, amistà, amistad — amicitas, nell’ignoto latino. V. Forc. Gloss. ec. Così nimistà ec.

Altra circostanza che muta alternamente il carattere, è il passare da città grande a piccola, da città forestiera alla patria, e viceversa. In quelle il carattere è più franco, aperto, benevolo; in queste al contrario, per la collisione degl’interessi, invidie de’ conoscenti, amor proprio continuamente punto ec. Esperienza mia propria ec. Quindi, come per tante altre cagioni (v. il mio Discorso sui costumi presenti degl’Italiani) più dabbene generalmente i privati nelle città grandi che ne’ luoghi piccoli ec. ec. Pensiero da molto stendersi e spiegarsi. (19. Apr. Pasqua. 1829.). V. p. 4520.

Alla p. 4462. Neanche per rapporto allo stato sociale sarebbe possibile di credere che tutte le qualità degli uomini sieno destinate dalla natura a svilupparsi. Lascio le cattive (come noi diciamo) e visibilmente dannose alia società (che sono infinite): neppur le buone ed utili. Vedi circa i talenti, Rousseau, Pensées, part. I. p. 197. fin. ep. 198. Amsterd. 1786. (19. Apr. 1829.).

Continuo — continovo, coi derivati e gli altri simili. Manuale — manovale, Mantua — Mantova.

Altro ostacolo alla durata della fama de’ grandi scrittori, sono gl’imitatori, che sembrano favorirla. A forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que’ suoi tanti pensierini pieni di grazia o d’affetto, quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perchè sono in fatti comunissimi. Interviene agl’inventori in letteratura e in cose d’immaginazione, come agl’inventori in iscienze e in filosofia: i loro trovati divengono volgari tanto più facilmente e presto, quanto hanno più merito. (20. Apr. 1829.).

L’on n’est heureux qu’avant d’être heureux. Rousseau, Pensées, I. 204. Cioè per la speranza.

La seule raison n’est point active; elle retient quelquefois, rarement elle excite, et jamais elle n’a rien fait de grand. Ib. 207.

Famulus ec. — familia ec.

Follico as.

Foetus a um, evidente participio senza verbo noto. V. Forc. Da foetus foeto as, evidente continuativo del verbo originale. Effoetus ec.

Fabula, fabulor ec. — favella, favellare: diminutivi ec. Prezzolare.

Il nostro antico fante per parlante, e di qui per uomo, co’ suoi diminutivi, come fanciullo (cioè uomicciuolo) che ancor s’usa, senza conoscerne la forza e l’etimologia, fantoccio ec. ec. non è egli evidentemente l’antico, e negli scritti perduto o disusato, fans, da for; di cui anche in-fans fa fede, e quasi nello stesso senso? Vedi Forcell. Gloss. ec. e Foscolo sopra l’Odissea di Pindemonte (21. Apr.). I marchegiani (gran conservatori del latino) ancor oggi: un lesto fante ec. in parlar burlesco.

Tympanus — timballo, diminut. V. franc. , spagn.

La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato, è dolorosa, quando esso è considerato come passato, finito, che non è, non sarà più, fait. Così o detto altrove del licenziarsi da persone anco indifferenti ec. (21. Apr. 1829.).

Specio-speculor.

Alla p. 4488. Ancora: che ardisco io formar de’ pensieri nobili, che da tutti son tenuto per uom da nulla. Il primo fondamento di qualunque o immaginazione o sentimento nobile, grande, sublime (e tali sono i poetici e sentimentali di qualunque natura: anche i dolci, teneri, patetici ec.: tutti inalzano l’anima), è il concetto di una propria nobiltà e dignità. Anzi la facoltà e l’efficacia di esse immaginazione e sentimento, sì abitualmente e sì attualmente sono in proporzione sempre del detto concetto, sì abituale, e sì attuale. Ogni sentimento o pensiero poetico qualunque è, in qualche modo, sublime. Poetico non sublime non si dà. Il bello, e il sentimento morale di esso, è sempre sublime. Ora il concetto di una propria nobiltà, sembra ridicolo, è respinto con dolore, come una illusione perduta, quando uno si trova disprezzato, abitualmente o attualmente, da quei che lo circondano. Però in questi casi, il provar quella quasi tentazione a sentire ec., è penoso, perchè vi rinnuova il pensiero della vostra abiezione. Certo, egli è proprietà ed effetto essenziale d’ogni immaginazione e sentimento di natura poetica, l’inalzar l’anima: al che si oppone direttamente quello stato di spregio ec., quel concetto, quel sentimento di se stessa, che la deprime. (22. Aprile. 1829, Recanati.). V. p. 4499.4515.

Indulgenza nelle città grandi verso le persone mediocri in qualunque genere, e verso i difetti e ridicoli (pur d’ogni genere) di queste e delle insigni (difetti che si perdonano in grazia de’ pregi, ed anche della semplice compagnia che quelle persone fanno) maggiore assai che ne’ luoghi piccoli; appunto al contrario di ciò che in questi si crede. ec. ec. (23. Aprile).

Affumare, affummare — affumicare. Arsiccio, arsicciare, abbruciacchiare ec.

Pallare-palleggiare. Che pallare per quassare, venga da πάλλω?

Pigna, dialetto marchegiano — pignatta, pignatto, pignattino ec. V. la p. 4498. Il diminut. pignatta dimostra il suo positivo pigna.

Homme ec. distingué. Arrondi per rond.

Agli uomini paghi in buona fede e pieni di se, gli altri uomini sono quasi tutti amabili; li veggono volentieri, ed amano la lor compagnia. Perocchè si credono stimati, ammirati, μακαριζομένους generalmente dagli altri; chè senza ciò non sarebbero nè pieni nè paghi di se. Ora è naturale che chi è creduto ammiratore, sia amabile agli occhi di chi si crede ammirato. Perciò questi tali (che parrebbe dovessero essere sommi egoisti) bene spesso sono benevoli, compagnevoli, servizievoli molto, buoni amici. Talvolta anche modesti, per la piena e tranquilla certezza (la certa e riposata credenza) che hanno del loro merito (o di loro vantaggi qualunque, come nobiltà, ricchezza, potenza e simili.) (Rosini). (26. Aprile.).

Coraggio propriamente detto non si dà in natura, è una qualità immaginaria e di speculazione. Chi nel pericolo non teme, non pensa al pericolo, o abituato a non riflettere, o avvezzo a quei tali casi, o distratto da faccende o da altri pensieri in quel punto. Chi pensa al pericolo, teme; eccetto se la morte, o quel qualunque danno imminente, nell’opinion sua non è male. In tal caso, quel pericolo non è pericolo a’ suoi occhi. Ma creder male una cosa, conoscersi in pericolo d’incorrervi, aver presente al pensiero il pericolo, e non temere; questo è il vero coraggio; e questo è impossibile alla natura. I così detti coraggiosi, rimangono maravigliati quando ne’ pericoli veggono altri che temono; e dimandano perchè. Essi non si erano accorti del rischio, o vi avevano fatto piccolissima attenzione. V. un tratto di Carlo 12 re di Svezia, assediato in Stralsund, ap. Voltaire, liv. 8. ed. Londr. 1735. t. 2. p. 160-1. (26. Aprile. 1829.).

Μακαρίζω, εὐδαμονίζω, μακαριστέος ec. Noi non abbiamo che invidiare invidiabile ec. (e così i francesi porter envie, digne d’envie, ec.), voci assai dure e incivili. Più umana, o per dir meglio, più civile in ciò, come in tante altre cose, anche la lingua dei Greci. (26. Apr.). Féliciter franc. si accosta talvolta a μακαρίζειν, per metafora, specialmente nel senso reciproco.

Ventare, sventare — ventolare, sventolare, ventilare (lat. ventilo), venteggiare.

Pargoleggiare ec. Vanare — vaneggiare. Per esser vano v. vaneggiare anche nel Petr. Tr. del Tempo: E vedrai ’l vaneggiar di questi illustri. (26. Apr.).

Tinea (noi tigna), teigne, intignare ec. — tignuola. V. Forcell.

Gringotter. Parlottare. Cantacchiare. Vezzeggiare. Bamboleggiare. Boursiller.

Acutus da acuo, participio aggettivato, e non più riconosciuto per participio. Argutus, cioè qui arguit. ; e participio aggettivato. Desolato per solo (uomo o luogo). V. Crus., Forcell.

Parvulus, parvolo. pargolo. Pluvia, piova — pioggia.

Pargolo è diminutivo. Pur è già antiquato, e nella prosa non si usa più che il sopraddiminutivo pargoletto. Tanta è la tendenza del popolo a diminuire. Così in Toscana oggi non odi più piccolo, ma piccino. (27. Apr.). In lat. pusillus per l’antiquato pusus.

Pina — pinocchio. V. Crus. Innamoracchiare, innamorazzare, amoreggiare.

Gravato per grave. Petr. L’aere gravato e l’importuna nebbia.

Ci piace e par bella una pittura di paese, perchè ci richiama una veduta reale; un paese reale, perchè ci par da dipingerci, perchè ci richiama le pitture. Il simile di tutte le imitazioni (pensiero notabile). Così sempre nel presente ci piace e par bello solamente il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezion di somiglianze e di rapporti, e in rimembranze. (Recanati. 27. Aprile. 1829.).

Life. to live. E simili innumerabili.

Folâtre, folâtrer. Folleggiare, pazzeggiare ec. V. Crus.

Dives, divitis, divititae ec. — dis, ditis, Dis Ditis, ditare ec.

Recupero — recipero. V. Forc.

Recisamentum par che indichi un recisare. V. Gloss.

Trouble, troubler (turbula, turbulare).

Fustigo, remigo, navigo, laevigo, fatigo, litigo.

Remotus, secretus, occultus, riposto ec. participii aggettivati.

Covaccio — covacciolo (accovacciare ec.). E simili altri in accio-acciolo, acciare — acciolare. Così in acchio acchiolo ec. Vedi la p. 4473. capoverso 9, coi pensieri annessi, anteriori o posteriori al presente. Notisi che la desinenza in ulus a um, ulare ec. già era compresa nella forma in accio, acchio, aglio ec. (come qui in covaccio, che è un cubaculum) acciare ec.; sicchè nella forma in acciolo, acchiolo, acciolare ec. viene ad essere ripetuta.

Alla p. 4486. Anche la forma in as asse (crevasse crevasser ec.[a]

Crever, se crever, — crevasser.

[Chiudi]) asser (frigo, fricasser [a]) ace acer spesse volte, non è altro che la latina in acul. .., la nostra in accio acciare, azzo azzare ec. Così la spagnuola in azo aza azar. Minae, minor, minaccia, minacciare, menace ec., amenaza ec. Così fors’anco in êche, eche, ec. ec. esse, isse, ec. oisse, ousse ec. isser ec.; e in ezo, izo (granizo) ec. izar ec. acho, echo ec. achar ec. Così talvolta la nostra in asso, assare, esso ec. Similmente le nostre in olo, olare, olo (gragnòla) ec. uolo uolare, icciuolo, o a-ucciuolo (filiolus, figliuolo) ec. tutte dal latino ul. .., o talvolta ol. .. V. p. 4498. — Così la francese analoga in eul, euil ec. ec. (linceul). Tutte queste forme vengono, dico, dall’unica latina, o che questa abbia forza diminut. ec., o che sia semplice desinenza, del che vedi la pag. 4442-4. — V. ancora il pensiero qui precedente. (30. Apr.). Anche sovente la spagnuola allo allarullo ullar; e forse la francese al alle, alleruller. Così forse spesso anche la nostra in allo (timballo per timpano) allareullo ullare (culla da cunula, cullare, colla, collare, da chordula, fanciullo (v. la p. 4492. capoverso 7.), maciulla, maciullare). Notandum però che anco i latini hanno la forma diminutiva ec. in ill. .., ell. .. oll. .. (corolla, v. p. 4505.), ull. .., fors’anche all. .., sì in verbi sì in nomi. — Mirabil cosa in quante maniere diverse si è corrotta la pronunzia latina, anche dentro una stessa nazione; cosa notabile assai nella scienza delle etimologie. E da ciò in gran parte deriva la tanta superiorità dell’italiano sul latino in abbondanza e varietà di forme frequentative, diminutive ec., superiorità notata da me altrove, parlando de’ frequentativi latini. — Vedi anche la p. 4490. capoverso 5. (1. Mag.). V. p. 4500.

Piovegginare. Piovigginare. Gergo — jargon. Frego — fregacciolo, sfregacciolo, fregacciolare. Impiastrare — impiastricciare. Ram-mentare — di-menticare, s-menticare ec.

Masticare: da un mansitum — mastum (pinsitus — pistus) di mandere, come da mixtum misticare.

Dello stesso secolo è mancare di poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l’utile, il linguaggio del popolo; bandirne l’eleganza; privarla della maggior parte del bello, ch’è la sua essenza; o, contro la propria natura di essa, subordinare il bello (e quindi il sublime, il grande ec. V. la p. 4492. fin. e sq.) al vero, o al così detto vero. È naturale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o men poetica ch’ei può; anzi una poesia non poesia. (2. Mag.).

Alla p. 4273. Così gli stranieri, dopo avere snaturata la loro scrittura per voler esprimer con essa piuttosto la pronunzia latina che la volgare, abituati poi a questo snaturamento, anzi dimenticatolo, e pigliando per naturale e per logico il loro modo di scrivere, vengono a snaturare la pronunzia latina, facendo dal latino scritto al pronunziato quella differenza che sono usati e necessitati a fare dalla pronunzia alla scrittura de’ loro volgari. (2. Mag. 1829. Recanati.). È naturale e conseguente, che chi scrive male la propria lingua, legga male le altre. Massime quelle che non gli sono note se non per iscrittura. (2. Mag.).

Alla p. 4496. Come parvolus per parvulus: e regolarmente dopo vocale, come lacteolus, flammeolus, bracteola, lanceola, Tulliola, filiolus ec., e così ne’ verbi. — Fors’anche la nostra forma in atto attare (attolo attolare), probabilmente da acchio ec. piuttosto che da asso. E quindi anche la diminuzione ec. in etto ettare, otto, utto ec. ec. E quindi anco la francese in et ette etter eter, ot ote (barbote) otte otter oter ec. (becqueter, piquer — picoter.): e la spagnuola in ito ecito ec. oto ec. Certo poi la spagnuola in ico ecico ec. ec. (3. Maggio. 1829.).

Che libertar sia un liberatare o liberitare (meritare — mertare), è provato anche da libertus, participio aggettivato, mera contrazione di liberatus.

L’assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch’è lo stato più ordinario della vita, non è nè indifferente, nè bene, nè piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d’altronde i mali non fossero più che i beni, nè maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia. (4. Maggio. 1829.).

Al detto altrove delle bestie e de’ pazzi, che metton fuori tutte le loro forze per ottenere i loro fini, a differenza degli uomini, aggiungi i fanciulli, i quali perciò alle volte vincono di vera e viva forza gli uomini fatti ec. (4. Maggio. 1829. Recanati.).

Alla p. 4493. Nessuna dolce e nobile ed alta e forte illusione può stare senza la grande illusione dell’amor proprio, l’illusione della stima di se stesso e della speranza. Togliete via questa, tutte le altre verranno meno immantinente, e potrete conoscere allora che questa era il fondamento e la nutrice, per non dir la radice e la madre di tutte l’altre. — Supponete uno nella più profonda estasi di sentimento o di entusiasmo: fategli un motto, un gesto solo di spregio, o ch’egli interpreti come tale; o ponete che qualche cosa gli richiami alla mente alcun dispregio sofferto altra volta: tutte le illusioni di quel punto spariscono come un lampo, l’entusiasmo si spegne, la persona resta di ghiaccio. (5. Mag. 1829.).

Scheda. schedola. V. Crus. Forcell. Viola, lat. ital. ec. — violette, franc.

Vos — os, spagn. Pluvia — pluie. Esca — vescor, vescus ec. Vedi Forcell.

Homme outré, soumis. Sommesso. Rimesso. Rassegnato ec.

Talus — talon, tallone. Cipolla, cebolla, forse da cepucula o cepulla (v. la p. 4497. princip.), diminutivo come tanti altri nomi d’erbe, piante, animali ec. del che altrove. Anche in francese ha forma diminutiva oignon: anche ciboule, ciboulette, cive (cepe), civette. V. Forcell. ec. Ceniza spagn. [a], cinigia (v. Alberti )[a], e noi marchigiani ciniscia, o ceniscia: forse da ciniscula o cinisculus, come pulvisculus. (6. Maggio.). V. Forc. ec.

Alla p. 4497. Fors’anche talvolta le nostre forme in a-u-gio, ggio, cio-are. Corrottamente scio ec. Forse talvolta dal lat. ascul. ... — uscul. .. Cinigia. V. la p. qui dietro, fin. V. p. 4504.

Si la tristesse attendrit l’ame, une profonde affliction l’endurcit. Rousseau, pensées, II. 205.

Le pays des chimeres est en ce monde le seul digne d’être habité, et tel est le néant des choses humaines, que hors l’être existant par lui-même, il n’y a rien de beau que ce qui n’est pas. ib. 206-7.

La stupenda conformità radicale tra i nomi della più parte de’ 10 primi numeri nelle lingue le più disparate, sembra provare unità d’invenzione e d’origine de’ nomi numerali, e conseguentemente della numerazione. (7. Maggio.).

La formazione incoativa de’ verbi, sì bella, e di tanto uso in latino, manca essa pure alla lingua greca. (7. Mag.).

Aisé, agiato, agiatamente ec. per agevole, agibilis. Falcato, quadrato, carré, quadratus ec., e simili altri participii aggettivati o aggettivi di forma participale, senza verbo; come saranno forse altri dei notati da me in tal proposito esprimenti figura.

Uomo ec. ordinato. (7. Mag.). Prolongé.

Bacherozzo-bacherozzolo. E simili infiniti in azzo-uzzo.

Les anciens politiques parloient sans cesse de moeurs et de vertus; les nôtres ne parlent que de commerce et d’argent. Rousseau, pensées, II. 230.

Plus le corps est foible, plus il commande; plus il est fort, plus il obéit. Rousseau, ib. 223.

Il n’y a point de vrai progrès de raison dans l’éspece humaine, parce que tout ce qu’on gagne d’un côté, on le perd de l’autre; que tous les esprits partent toujours du même point, et que le temps qu’on emploie à savoir ce que d’autres ont pensé, étant perdu pour apprendre à penser soi même, on a plus de lumieres acquises, et moins de vigueur d’esprit. Nos esprits sont comme nos bras exercés à tout faire avec des outils, et rien par eux-mêmes. ib. 221. V. p. 4507.

Machiavellismo di società. La véritable politesse consiste à marquer de la bienveillance aux hommes. (ib.222.) Ma con questa non fate che evitare di procurarvi la malvolenza loro. Per affezionarveli bisogna la falsa e finta politezza, che consiste in mostrare a tutti della stima. Un uso ordinario e mediocre di questa politezza vi fa gli altri benevoli, un uso eccellente e più che ordinario ve li fa amanti. Gli uomini si curano assai meno di essere benvoluti che stimati, ed hanno più gratitudine e più amore a chi gli stima, che, non solamente a chi gli ama, ma a chi li benefica. On peut résister à tout hors à la bienveillance, et il n’y a pas de moyen plus sûr d’acquérir l’affection des autres que de leur donner la sienne. (ib. 224.) Questo detto è molto più vero, applicato alle dimostrazioni di stima. La benevolenza, l’affetto, l’amore stesso, non che sieno sempre corrisposti, spessissimo generano noia, nausea, avversione verso l’amante. Gli esempi ne sono frequentissimi, non solo tra’ due sessi, ma tra padri e figliuoli, e tra altri parenti, massime di età e di generazioni diverse: tra’ quali non è raro trovare amore da una parte, vero odio costante, invincibile, dall’altra. Ma non è possibile conservare avversione nè indifferenza, resistere, non riconciliarsi, non voler bene a chi mostra di stimarci; massime se costui (cosa facilisima) ce lo persuade. (8. Maggio.).

Alla p. 4478. marg. Pour ne rien donner à l’opinion il ne faut rien donner à l’autorité, et la plupart de nos erreurs nous viennent bien moins de nous que des autres. ib. 228.

Machiavellismo sociale. Tout est plein de ces poltrons adroits qui cherchent, comme un dit, à tâter leur homme; c’est-à-dire à découvrir quelq’un qui suit encore plus poltron qu’eux et aux dépens duquel il puissent se faire valoir. ib. 227. (Condulmari. Galamini.) Oggi, e in Italia, che tutti sono poltroni, qui consiste tutta la società, e la vita sociale, e il mio Machiavellismo. (8. Mag.).

Je n’ai jamais vu d’homme ayant de la fierté dans l’ame en montrer dans son maintien. Cette affectation est bien plus propre aux ames viles et vaines. ib. 232.

Manuale di filosofia pratica. Par-tout où l’un substitue l’utile à l’agréable, l’agréable y gagne presque toujours. ib. 231. Serva a que’ miei pensieri ove dico che le occupazioni ec. il cui fine è il solo piacere, non danno mai piacere ec. (9. Mag.).

Alla p. 4418. L’existence des êtres finis est si pauvre et si bornée, que quand nous ne voyons que ce qui est, nous ne sommes jamais émus. Ce sont les chimeres qui ornent les objets réels, et si l’imagination n’ajoute un charme à ce qui nous frappe, le stérile plaisir qu’on y prend se borne à l’organe, et laisse toujours le coeur froid. ib. 242

Guardare per aspettare ec. del che altrove. Aguato, agguato, aguatare, agguatare ec. per insidiare, vagliono propriamente aspettare al passo, e in proprio senso equivalgono all’aguardar spagnuolo.

Navita — nauta; navis — naufragium ec.; e simili.

Forma diminutiva italiana in astro. Pollastro, vincastro ec. Disprezzativa. Giovinastro, medicastro, poetastro. ec. Fors’anche frequentativa, e in astrare. Così in francese: folâtre, folâtrer ec. (9. Maggio.). Verdastro, verdâtre per verdigno; e simili. Padrastro ec.

Torreo-tostum-tostar, spagn. Elixus, assus, forse participii; e quindi assare, elixare, forse continuativi. Livio VII. 10. linguam exserere , laddove l’antico annalista Quadrigario, ap. Gell. IX. 13., al quale allude lo stesso Livio, linguam exsertare: benissimo Quadrigario: e non è frequentativo, ma continuativo, perchè, come ho detto altrove, il frequentativo indica il soler fare (a non certi intervalli e tempi) una cosa, e il non farla continuamente di séguito e ripetutamente in un dato e piccolo spazio di tempo. Così considerati, anche i verbi in ico, e gli altri che si chiamano frequentativi, oltre quelli in ito, si vedranno essere più propriamente continuativi. (10. Maggio. 1829.).

Dal detto altrove sulla poesia di stile, quanta immaginazione richieda ec., apparisce che i veramente poeti di stile, sarebbero stati poeti d’invenzione, o per meglio dire, d’invenzion di cose, in altri tempi; e ch’essi sono i veri poeti de’ loro secoli. ec. (10. Mag.).

Per molto che uno abbia letto, è ben difficile che al concepire un pensiero, lo creda suo, essendo d’altri; lo attribuisca all’intelletto, all’immaginazione propria, non appartenendo che alla memoria. Tali concezioni sono accompagnate da certa sensazione che distingue le originali dalle altre; e quel pensiero che porta seco la sensazione, per così dire, dell’originalità, verisimilissimamente non sarà stato mai concepito ugualmente da alcun altro, e sarà proprio e nuovo; dico, non quanto alla sostanza, ma quanto alla forma, che è tutto quel che si può pretendere. Giacchè è noto che la novità della più parte de’ pensieri degli autori più originali e pensatori, consiste nella forma. (10. Mag.).

Similis — simulare, ec. ec.

Carduus, cardo ital. — chardon franc. , cardone ec. Juillet.

Debolezza amabile al più forte (come la forza al debole, il maschio alla femmina). Su ciò è fondata in gran parte la tenerezza naturale de’ genitori verso i figliuoli, la quale negli animali finisce affatto colla debolezza di questi. Anche l’amabilità de’ fanciulli agli uomini, delle femine ai maschi, degli animaletti piccini e teneri, (uccelli ec.), di tutto ciò (anche piante ec.) dove il senso o l’immaginazione percepisce un’idea di tenerezza, debolezza, inferiorità di forze ec. Anche la malattia, il pallore; e poi l’infelicità ec. ec. e tutto quel ch’è oggetto di compassione, si può ridurre a questo capo. La compassione è fonte d’amore ec. ec. V. p. 4519. fine. (11. Mag.).

Nel secolo passato le scienze si collegarono alle lettere; il secolo ebbe una letteratura filosofica (vera letteratura, e veramente propria di esso): nel nostro le hanno ingoiate; letteratura del secolo 19.o, a parlar propriamente, non v’è. Non è l’Italia sola che patisca oggi questo difetto di letteratura contemporanea; esso è comune a tutte le nazioni colte. Solo la Grecia, ed altri tali paesi ancor mezzo civili, avranno forse una letteratura del secolo 19.o: se l’influenza inevitabile delle nazioni convicine non uccide le lettere ancor presso quelli, e prima che si maturino. (11. Mag.).

Alla p. 4500. Calderugio per calderino, diminutivo di carduelis (chardonneret), del che altrove. — Raperugiolo — raperino. Fors’anco in cco-are. Piluccare, éplucher. Badalucco. Balocco. E simili disprezzativi o frequentativi — E in onzo-are, dal lat. unculus-are (avunculus, homunculus, latrunculus). V. p. 4513. Mediconzo-lo (quasi medicunculus), ballonzare, (ballonzìo, volg. tosc.) ec. E similmente in oncio-are. Baroncio ec. E in agno-ugno are, dal lat. nulus, o ngulus, o unculus, o simili. Verdognolo, (viridunculus), verdigno, rossigno, vecchigno ec. V. Crus. Ugna — ungula. E così in ñ... spagnuolo . E così le forme francesi e spagnuole analoghe a ciascuna di queste italiane. — Senza poi contare le desinenze in cui l’ul. .. lat. si trasforma nei volgari, e che in questi non hanno nessun valore diminutivo disprezzativo ec. ec. Come (oltre alcune forse delle sunnotate) la nostra in io, iare (unghia, nebbia, bacchio ec. ec.), e in lo, lare (isola, manipolo, accumulare, tumulo ec. ec.) la francese in ...le ...ler (combler, comble, accumuler, île, disciple, ridicule, oncle, ongle, fable ec.); la spagn. in lo, lar (habla, hablar, isla ec. ec.). Dico l’ul. .. lat. , o che questo sia diminutivo o no, o che il diminutivo latino sia noto o no; come piaggia, spiaggia, dall’ignoto plagula per plaga, trembler da un tremulare ec. Del resto, tutte queste desinenze sono notabili per l’osservazione etimologica fatta a p. 4497. lin.5. 7. (11. Mag.). V. p. seg.

Ala, mala, velum, palus — axilla, maxilla, vexillum, paxillus. Di questi forse diminutivi positivati, e loro simili, V. Forcell. in dette voci, e in X littera. Similmente paucus — paulus, o paullus-pauxillus.

Alla p. 4497. Contrazione di coronula, come patena — patella, catena — catella, catinum, catinus — catillum, catillus; e come appunto il nostro culla per cunula. Anche paullus o paulus a um, per pauculus-pauclus, se non è contrazione di pauxillus. V. il pensiero precedente.

Audeo ausum — osare, oser ec. Pulso as, detto di porte, strumenti ec., è ancora continuativo, al modo spiegato p. 4503. capoverso 2: pello sarebbe affatto improprio.

La facoltà di sentire è ugualmente e indifferentemente disposta a sentir piaceri e dolori. Or le cose che producono le sensazioni del dolore, sono incomparabilmente più che quelle del piacere. Dunque la facoltà di sentire è un male, per lo stato esistente delle cose, quando pur nol fosse per se. E quanto essa è maggiore, nella specie o nell’individuo, tanto quella o quello è più infelice: e viceversa. Dunque l’uomo è l’ultimo nella scala degli esseri, se i gradi si calcolano dall’infelicità ec. ec.

Becqueter. Picoter. Pulta, lat. polta, ital. — poltiglia. V. Forc. ec. Pungere — punzecchiare, marcheg. puncicare. Sputacchio, sputacchiare.

Alla p. 4505. Fors’anco in co-are, e que quer franc. (claquer ec.). Anche in ico icare, se lungo (perchè nelle nostre pronunzia l’icul. .. lat. è lungo nell’i); massime contratto in icl. .. ec., come sarebbe in questi casi se breve, è dal lat. ico as ec. V. p. 4509.

Parole greche possono esser venute in italiano ne’ bassi tempi, pel commercio e le conquiste de’ Veneziani, le Crociate, i Greci del Regno di Napoli e di Sicilia, e simili altri mezzi (esse sono, del resto, anteriori molto alla presa di Costantinopoli); ma non già le frasi, i costrutti, gl’idiotismi, vere proprietà di lingua, comuni all’italiano e al greco, da me spesso notate. (13. Mag.).

Una cosa, fra l’altre, che rende impossibile agli stranieri il gustar la poesia delle lingue sorelle alla loro propria, o affini (come sarebbe l’inglese alle nostre che vengono dal latino), si è che il linguaggio poetico di tali idiomi essendo, come il prosaico, composto di voci e modi che si ritrovano ancora nelle lingue sorelle, moltisime di tali voci e maniere che lo compongono, e che sono poetiche in quel tale idioma, cioè nobili, eleganti, pellegrine, e così discorrendo; nell’idioma dello straniero che legge, sono o basse, o familiari, o triviali, o prosaiche almeno, spesso ridicole e da beffe; hanno significati analoghi ma diversi; richiamano idee alienissime dalla poesia generalmente, o dal soggetto in particolare. Ciò è soprattutto notabile fra italiani e spagnuoli (v. la p. 4422.). (Un qualunque pezzo di poesia spagnuola potria servirmi di esempio chiarissimo). Ed è applicabile anco alla prosa elevata, oratoria, storica e simili. (13. Mag.).

Alla p. 4501. Non solo della ragione, ma anche del sapere, della dottrina, della erudizione, delle cognizioni umane, si può dubitare se facciano progressi reali. Pel moderno si dimentica e si abbandona l’antico. Non voglio già dir l’archeologia, ma la storia civile e politica, la letteraria, la notizia degli uomini insigni, la bibliologia, la letteratura, le scoperte, le scienze stesse degli antichi. Si apprende, si sa quel che sanno i moderni; quel che seppero gli antichi (che forse equivaleva), si trascura e s’ignora. Nè voglio dir solo i greci o i latini, ma i nostri de’ secoli precedenti, non escluso pure il 18.o. Guardate i più dotti ed eruditi moderni: eccetto alcuni pochi mostri di sapere (come qualche Tedesco) che conoscono egualmente l’antico e il moderno, la scienza degli altri enciclopedica, immensa, non si stende, per così dire, che nel presente: del passato hanno una notizia sì superficiale, che non può servire a nulla. In vece di aumentare il nostro sapere, non facciamo che sostituire un sapere a un altro, anco in uno stesso genere (senza che poi uno studio prevale in una età a spese degli altri). Ed è cosa naturalissima; il tempo manca: cresce lo scibile, lo spazio della vita non cresce, ed esso non ammette più che tanto di cognizioni. Anche le scienze materiali non so quanto progrediscano, a ben considerare la cosa. Bastando appena il tempo a conoscere le innumerabili osservazioni che si fanno da’ contemporanei, quanto si può profittare di quelle d’un tempo addietro? I materiali non crescono, si cambiano. E quante cose si scuoprono giornalmente, che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensava più. Ripeto che non parlo solo degli antichissimi; anco de’ recenti. Un’occhiata a’ Dizionarii biografici, agli scritti, alle osservazioni, alle scoperte, alle istituzioni di uomini ignoti o appena noti, e pur vissuti pochi lustri o poche diecine d’anni sono: si avrà il comento e la prova di queste mie considerazioni Gli uomini imparano ogni giorno, ma il genere umano dimentica, e non so se altrettanto. (13. Mag.).

Ciondoli, ciondolare ec., dondolare, cinguettare, linguettare, bredouiller, barbouiller, barboter, imbrodolare ec.

Trebbiare (tribulare. V. Forc. Gloss. ec.) — τρίβειν.

Un mio fratellino, quando la Mamma ricusava di fare a suo modo, diceva: ah, capito, capito; cattiva Mamà. Gli uomini discorrono e giudicano degli altri nella stessa guisa, ma non esprimono il loro discorso così nettamente (ἁπλῶς). (14. Mag.).

Quanto può l’autorità (come in ogni altra passione, p. e. la tristezza, la speranza, il timore, così) nel piacere! Dico ne’ piaceri realistici ec. In galanteria: donne amate da qualcun altro, famose per bellezza, spirito ec., quantunque a voi d’altronde non piacerebbero. In letteratura: se leggete un libro che il pubblico vi dica esser bello, classico ec., ci provate incomparabilmente maggior piacere, che se da voi stesso dovete avvedervi de’ suoi pregi. Il piacer dell’inaspettato, che si può provare in questo secondo caso, non ha nulla di comparabile a quello che nel primo caso ci deriva dall’autorità degli altri. Nè trattasi qui di rimembranze, lontananza, antichità venerabile, voto di secoli ec.; anche un libro nuovo, uscito pur ora ec. Il credito poi dell’autore, benchè vivente, quanto importa al piacere! È classico il detto di La Bruyere: è molto più facile il far passare un libro mediocre al favor di una riputazione già fatta, che acquistarsi una riputazione con un libro eccellente. Ed io ardisco dire che piace veramente più a leggere un libro mediocre (nuovo o antico) d’autor famoso, che un libro eccellente di scrittore non rinomato. (14. Mag.).

Barbio, barbo (Alberti) — barbeau. Tâtonner, ec., bourdonner. Brontolare ec.

βροντὴ ec. — brontolare.

Alla p. 4506. Nutricare però è da nutrico. Mendicare da mendico as ec. Del resto, anche le forme in chio chiare, co care, cio-zo-are, precedute da consonante (mischiare, bufonchiare, ballonchio anche questi, e simili, dal lat. uncul. .. ec. ec.). E così dicasi delle altre sunnotate forme italiane, ed anche francesi e spagnuole, ed anche latine: non solamente precedendo vocale. La forma in onzo, di cui sopra, è veramente in onzo (onzare ec.), e non solamente in onzolo (v. la Crusca in Romitonzolo), ed è corrotta da quella in oncio, e però, come questa, racchiude tutta intera la forma lat. in unculus. (Vedi la pag. 4496. capoverso 8. e la p. 4443.) Rapulum (cioè piccola rapa, parvum rapum) — raperonzo, raperonzolo — raiponce. V. spagn. ec. Raponzolo o ramponzolo; volg. marcheg. e Fr. Sacchetti nella Caccia. — E la forma franc. in ce cer, je jer, ye yer (côtoyer, guerroyer antico, ec.), in ie ier ec. ge, ger (bagage-bagaglio), precedendo consonante o vocale. Raiponce. V. qui sopra. (15. Maggio.). Sucer (succiare), della 1.a coniug., mentre sugo is è della 3.a. E in bro, brare, e simili, cangiata la l lat. in r. Sembrare da simulare o similare. Assembrare (assembler) assimulare, da simul. Così anche in ispagnuolo ec. — E in a-u-io-iare. (16. Mag.). V. p. 4511.

Odio verso i nostri simili. È proprio ancora, ed essenziale a tutti gli animali. Non si può tenerne due d’una stessa specie (se non sono di sesso diverso) in una medesima gabbia ec., che non si azzuffino continuamente insieme, e che il più forte non ammazzi l’altro, o non lo strazi. Uccelli, grilli ec. E v. il detto altrove, degli animali che si specchiano. (15. Mag.).

Ballonzare ballonzolare (Alberti.). Buffoneggiare. Bucacchiare. Bucherare. Fo-sfo-racchiare. Lampeggiare. Torreggiare. Criailler. Rimailler. Rioter.

Aguzzo — auzzo ec., sciaura, reina, reine franc. ec. magister-maestro ec.

Manco-mancino, diminut. aggett. Pisello. Fagiuolo. V. lat. franc. spagn. Asio, lat. — assiuolo.

Quel che si dice degli stupendi ordini dell’universo, e come tutto è mirabilmente congegnato per conservarsi ec., è come quel che si dice che i semi non si depongono, gli animali non nascono, se non in luogo dove si trovi il nutrimento che lor conviene, in luogo che loro convenga per vivere. Milioni di semi (animali o vegetabili) si posano, milioni di piante o d’animali nascono in luoghi dove non hanno di che nutrirsi, non posson vivere. Ma questi periscono ignorati; gli altri, e non so se sieno i più, giungono a perfezione, sussistono, e vengono a cognizione nostra. Sicchè quel che vi è di vero si è, che i soli animali ec. che si conservino, si maturino, e che noi conosciamo, sono quelli che capitano in luoghi dove possan vivere ec. Ovvero, che gli animali che non capitano, ec. non vivono ec. Questo è il vero, ma questo non vale la pena di esser detto. Or così discorrete del sistema della natura, del mondo ec. ap. a poco secondo le idee di Stratone da Lampsaco. (16. Mag.).

Trève-tregua.

Continuato, continuatamente ec. per continuo ec. V. franc. spagn. lat. ec.

Homme, ne cherche plus l’auteur du mal; cet auteur c’est toi-même. Il n’existe point d’autre mal que celui que tu fais ou que tu souffres, et l’un et l’autre te vient de toi. Le mal général ne peut être que dans le désordre, et je vois dans le système du monde un ordre qui ne se dément point. Le mal particulier n’est que dans le sentiment de l’être qui souffre; et ce sentiment, l’homme ne l’a pas reçu de la Nature, il se l’est donné. La douleur a peu de prise sur quiconque, ayant peu réfléchi, n’a ni souvenir ni prévoyance. Ötez nos funestes progrès, ôtez nos erreurs et nos vices, ôtez l’ouvrage de l’homme, et tout est bien. Rousseau, pensées, II. 200. — Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. Animali destinati per nutrimento d’altre specie. Invidia ed odio ingenito de’ viventi verso i loro simili: v. la p. 4509. capoverso 4. Altri mali anche più gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ec. Noi concepiamo più facilmente de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poichè il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale? (17. Mag.).

Amaricare, ital. V. Forc. Amareggiare. Armeggiare. Pareggiare. Corteggiare.

Cumbo is, conservato ne’ suoi composti — cubo as, coi composti ec. Posticipare.

Alla p. 4509. fin. Alla forma in olo, olare ec. aggiungi in giolo, ggiolo, ccolo, colo, e specialmente in ucolo (carrucola ec.). Anche occo ec. di cui sopra, è per lo più dal lat. ucul. .. (anitrocco, anitroccolo, bernoccolo, bernoccoluto ec.) siccome occhio (ranocchio, ginocchio ec.). V. p. 4513. In franc. cle, cler, gle, gler ec. E in ispagnuolo ec. — Aggiungi pure in giuolo, ggiuolo, zuolo ec. — La forma in ezzo ezzare può essere non solo da ecci..., ma da eggi... Careggiare carezzare. V. Crus. in amarezzare, marezzare ec. E così l’altre in zo ec. Libycus — libyculus — libeccio (Lebesche franc.); corticula — corteccia, scortecciare ec.; cangiato l’i lat. in e al solito, e come in tante altre diminuzioni (orecchia, pecchia ec., oveja ec. abeille ec. ec.), frequentazioni ec., nominatamente quella in ecchi... (e le corrispondenti franc. e spagn.) sì abbondante. Così, e secondo il detto a p. 4500. princ. , la nostra forma frequentativa ec., sì usitata, in eggio eggiare sarebbe pur dalla forma latina. — In tutte tali forme, se esse comprendono intera la forma latina, il lo lare, se vi si trova, è una giunta toscana. — Del resto, per forme ed esempi ec. v. l’indice di questi pensieri in Frequentativi, Diminutivi ec. (17. Magg.).

In una lingua assai ricca, non solo è povera, o limitata, quella di ciascuno scrittore, come dico altrove, ma anche quella del popolo, e generalmente la parlata. P. e. l’italiano parlato, ancora in Toscana, non è punto più ricco del francese, nominatamente in fatto di sinonimi ec. (18. Mag.).

A rivederla: solito saluto de’ Toscani, anche passando, senza punto fermarvi, o da lungi. Assurdità di queste nostre adulazioni dette complimenti. (18. Maggio.).

Troppe cure assidue insistenti, troppe dimostrazioni di sollecitudine, di premura, di affetto, (come sogliono essere quelle di donne), noiosissime e odiose a chi n’è l’oggetto, anche venendo da persone amorosissime. μία νόννα, ἀδ. μαέστρι, λὰ ζία Ἰσαβέλλα κὸν κάρλῳ. — Galateo morale. (18. Mag.).

Pullus — pollone; rejet — rejeton; surgeon (surculus). Poulet. Poitrine. Vagolare, svagolare (v. Alberti ). Guerreggiare, gareggiare, serpeggiare, tratteggiare (v. Alberti ), pennelleggiare, parteggiare, costeggiare, pompeggiare, pavoneggiare, patteggiare, osteggiare, campeggiare, aspreggiare, mareggiare.

Recondito. Uomo onorato, disonorato; azione disonorata ec.

Verbi in to da nomi femin. in tas. Nobilitas — nobilito. Debilito, mobilito.

Morve — morveau. Spia — espion, spione (la Crus. lo crede accrescitivo: male: e così d’altri tali, ec. ec.)

Misceo — mixtum — mestare, coi composti ec. Aggiungasi al detto altrove di meschiare ec.

Canto as, nel Forc., potrà somministrare esempi di uso continuativo.

Il detto intorno ai verbali in bilis, dicasi ancora circa quelli in ivus (nativus ec.), e gli altri tali.

Alla p. 4511. marg. — e in occio: figlioccio (filiuculus, non filiolus), moccio (muculus), bamboccio, femminoccia, fantoccio, santoccio, casoccia, ec. — Filleul (filiolus, in altro senso.).

Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perchè ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie. E i poeti che più hanno di tali concetti (supremamente poetici) ci sono più cari. V. p. 4515. Analizzate bene le vostre sensazioni ed immaginazioni più poetiche, quelle che più vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che esse, e il piacer che ne nasce, (almen dopo la fanciullezza), consistono totalmente o principalmente in rimembranza. (21. Mag.).

Alla p. 4428. Chi pratica poco cogli uomini, difficilmente è misantropo. I veri misantropi non si trovano nella solitudine, si trovano nel mondo. Lodan quella, sì bene; ma vivono in questo. E se un che sia tale si ritira dal mondo, perde la misantropia nella solitudine. (21. Mag.).

Alla p. 4504. Furunculus, carbunculus (carbonchio, carbunco, carboncolo, carbuncolo, carbunculo: in una sola terminazione d’una sola voce, quanta varietà di pronunzie! escarboucle) ec.: per lo più da voci che abbiano la n, nel nominativo o nel genitivo, se sono nomi. (21. Mag.). — Del resto, la contrazione di cul. .. in cl. .., deve estendersi a tutte l’altre desinenze in ul. .., specialmente in gul. .. ec. Dico, quanto alla corruzione subìta da tali desinenze nelle forme volgari. (22. Maggio. 1829. Recanati.). — Vannozzo, Vannoccio. Cerviatto, o cerbiatto. — Le voci in cul. .., specialmente precedendo consonante, sono contratte da icul. .., come tuberculum da tubericulum, laterculus da latericulus, onde lo spagn. ladrillo; mangiata la i come in tanti altri casi. — Che la desinenza acul. .. particolarmente, nel latino basso, o volgare ec., avesse forza disprezzativa, come accio acciare, as asse asser franc., azo azar spagn., rilevasi non solo dal consenso di queste 3 lingue figlie circa cotal forma e significato, ma anche dai nostri collettivi disprezzativi in aglia (marmaglia, plebaglia, canaglia, ciurmaglia, giovanaglia ec.), e così, mi pare, spagnuoli; e dalle voci francesi pur disprezzative in ail aille ailler (canaille, rimailler, rimailleur ec.). Non a caso queste 2 forme in aglio ed accio (e lor corrispondenti), che d’altronde nei nostri idiomi considerati da se non hanno niente di comune, si abbattono ad essere ugualmente disprezzative: esse derivano da una stessa forma latina la loro origine grammaticale: è naturale che da questo principio comune derivino anche la loro significazione disprezzativa. (23. Mag.). — Vittuaglia ec. Foraggio-are, fourrage-er: v. spagn. Bitorzo (bitorcio, quasi bitorculus), bitorzolo ec. Santocchieria. Foeniculum — (foenuculum) — finocchio — fenouil. — La desinenza in gn... ñ ec. è per lo più da neus ec.; p. e. castanea castagna. — Aveugle, aveugler — aboculus. Muraglia. Pagliuca (Alberti). Molliccio, molliccico. v. p. 4515.

Minuto, participio aggettivato, coi derivati ec. V. lat. franc. spagn.

Soperchio soperchiare, superculus superculare: dello stesso genere che parecchio apparecchiare, pariculus appariculare, di cui altrove; dove la desinenza in cul. . . è semplice desinenza e non diminuzione. Puoi vedere la p. 4443. ec.

Ruina-rovina ec.

Alla p. 4513. Similmente molte immagini, letture ec. ci fanno un’impressione ed un piacer sommo, non per se, ma perchè ci rinnuovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse o da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimamente nella fanciullezza o nella prima gioventù. Questa cosa è frequentissima: ardisco dire che quasi tutte le impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono di questo genere, benchè noi non ce ne accorgiamo, perchè non vi riflettiamo, e le prendiamo per impressioni primitive, dirette e non riflesse. Quindi ancora è manifesto che una poesia ec. dee parere ad un tale assai più bella che un’altra, indipendentemente dal merito intrinseco. ec. ec.

Zoppicare. Medeor — medico as.

Alla p. 4493. Com’è notato, una gran parte del piacere che i sentimenti poetici ci danno e ci lasciano, consiste in ciò, ch’essi c’ingrandiscono il concetto, e ci lasciano più soddisfatti, di noi medesimi. Appunto come i sentimenti, come le azioni, nobili, magnanime, pietose; come i sacrifizi ec. (e come la conversazione di chi ha la vera arte di esser amabile). E appunto come questi non cadono se non in chi sia felice, contento di se, in chi si stimi ec., così nè più nè meno i sentimenti poetici. (24. Mag.).

Alla p. 4514. Lucigno-lo. — In uomicci-uolo, omici-atto, omici-attolo, e simili, la solita moltiplicazione della forma latina in ulus. — Coraggio, per cuore (corazon, coraje, courage): v. Crus., quasi coraculum. Incorare-incoraggiare. Visage, envisager, ombrage, ombrager, language, usage, ouvrage ec. ec. Questa forma in age ager, è tutta francese, provenzale ec. Di là la nostra, sì abbondante anch’essa, in aggio, aggia, aggiare; e grandissima parte almeno delle voci che hanno questa desinenza (viaggio-are ec. Piaggia non è, come dico altrove, da plagula, ma da plage; e così spiaggia.) Però in ispagnolo tali nomi finiscono per lo più in e (viaje, mensaje ec. ec.). — V. ancora il pensiero seg. — V. p. 4518.4521.

Alla p. 4444. Vedi nella p. 4473. capoverso penult. e suoi annessi, l’immenso e svariatissimo uso fatto nel latino volgare o de’ bassi tempi, di questa medesima forma in icul. . . cul. . . ul. . . or con forza diminutiva frequentativa ec., or positivata, or come semplice desinenza. (25. Mag.). V. qui al fine della p. uso manifesto per le quasi infinite forme che ne derivarono nei nostri volgari. Dal che si vede che l’uso antichissimo di quella forma, non cessò mai, nè fu men frequente negli ultimi tempi del latino che nei primitivi.

Il detto altrove dell’incontrastabilmente maggior numero di suoni nelle lingue settentrionali che nelle nostre, causa, in parte della lor mala ortografia, per la scarsezza dell’alfabeto latino da loro adottato; è applicabile ai dialetti dell’Italia superiore, perciò difficilissimo ancora a bene scriversi. Mezzofanti diceva che al bolognese bisognerebbe un alfabeto di 40 o 50 o più segni. Non è questa la sola conformità che hanno que’ dialetti colle lingue settentrionali. Del resto, i dialetti generalmente sono più ricchi che l’alfabeto comune. Il toscano parlato ha anch’esso un po’ più suoni che le lettere, ma pochi più. Il marchigiano e il romano quasi nessuno: esse sono veramente (in ciò come in mille altre cose) l’italiano comune e scritto, o il volgare più simile a questo, che sia possibile. (25. Mag.).

Gracchiare (da gra gra: v. Forc. in graculus), scorbacchiare, scornacchiare, spennacchiare. Gorgheggiare.

Al capoverso 1. Anche qui i toscani abbondano più che gli altri, e spesso dove questi usano il positivo (nome o verbo), essi il diminutivo o frequentativo ec., benchè senza differenza di senso. Noi amiamo p. e. spennare, i toscani spennacchiare ec. ec. (26. Mag.).

La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perchè chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno. (27. Mag.).

Bollito per bollente. Patito. Indigesto per non digeribile, e per che non ha digerito.

Umanità degli antichi ec. Vecchi. Cosa lacrimevole, infame, pur naturalissimo, il disprezzo de’ vecchi, anche nella società più polita. Un vecchio (oggi, in Italia, almeno) in una compagnia, è lo spasso, il soggetto de’ motteggi di tutta la brigata. Nè solo disprezzo: trascuranza, non assisterli, non prestar loro quegli uffizi, quegli aiuti, il cui commercio è il fine e la causa della società umana, de’ quali i vecchi hanno tanto più necessità che gli altri. I giovani sono serviti, i vecchi conviene che si servan da se. In una medesima stanza, se ad una giovane cadrà di mano il fuso, il ventaglio, sarà pronto chi lo raccolga per lei; se ad una vecchia, a cui il levarsi in piedi, l’incurvarsi, sarà penoso veramente, la vecchia dovrà raccorselo essa. E così ancora in casi di malattie ec. ec. Spesso i vecchi, anco in uguaglianza di condizione, hanno ad aiutare e servire i giovani. E parlo d’aiuti e di servigi corporali. Ci scandalizziamo di quei Barbari che si fanno servir dalle donne: ma il fatto nostro è lo stesso, se non peggiore. E viene dallo stesso spietato e brutale, ma naturale principio, che il forte sia servito, il debole serva. (27. Mag.).

Alla p. 4516. La forma aiuolo e aiólo in legnaiuolo, erbaiuolo, vignaiuolo, stufaiuolo o stufaiolo, fruttaiuolo o fruttaiolo, calzaiuolo, pesciaiuolo, armaiuolo e simili, è altresì originariamente diminutiva da ariolus (lignariolus ec.). Così in aruolo, arólo (che è di noi marchegiani), eruolo: pizzicaruolo, pizzicarolo, (Alberti), pizzicheruolo. — Inguina — (inguinacula plural.). anguinaglia, anguinaia. V. franc. spagn. Ventraia.

Tombereau. Doucereux. Fiocco — flocon.

Manuale di filosofia pratica. Memorie della mia vita. Come i piaceri non dilettano se non hanno un fine fuori di essi, secondo dico altrove, così neanche la vita, per piena che sia di piaceri, se non ha un fine in totale ec. Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice. O gloria letteraria, o fortune, o dignità, una carriera in somma. Io non ho potuto mai concepire che cosa possano godere, come possano viver quegli scioperati e spensierati che (anche maturi o vecchi) passano di godimento in godimento, di trastullo in trastullo, senza aversi mai posto uno scopo a cui mirare abitualmente, senza aver mai detto, fissato, tra se medesimi: a che mi servirà la mia vita? Non ho saputo immaginare che vita sia quella che costoro menano, che morte quella che aspettano. Del resto, tali fini vaglion poco in se, ma molto vagliono i mezzi, le occupazioni, la speranza, l’immaginarseli come gran beni a forza di assuefazione, di pensare ad essi e di procurarli. L’uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de’ beni in tal modo. (31. Mag.).

Sfilare — sfilacciare — sfilaccicare (v. Crus. in Spicciare): filaccica (plural.).

Anche i verbi lat. in urio si formano da’ supini.

Alla p. 4449. Per altro, la conformità di costumi, governo, religione, riti, lingua ec. fra troiani e greci, che apparisce nelle poesie omeriche, nelle tradizioni ec. (e che par favorire la congettura del Niebuhr, la quale ha però altri fondamenti), può essa ancora essere ingannevole, e non significare che la poca arte e istruzione di que’ vecchi poeti, come dico altrove. Simili a quei pittori o artefici de’ tempi bassi, e ad alcuni anche de’ buoni secoli, che rappresentavano personaggi antichi e stranieri vestiti all’uso moderno e nazionale. Fra’ moderni, il Pontedera ( Julii Pontederae Antiquitatum lat. graecarumque enarrationes atq. emendatt. praecipue ad veteris anni rationem attinentes ; Patav. 1740.; praefat. libro che mi pare non conosciuto dal Niebuhr), fondandosi parte in detta conformità, parte in altri argomenti, congetturò Trojanos Graecorum quondam fuisse coloniam. (2. Giugno.).

Pésolo, pesolone. (pensulus per penzolo, pendulo ec.)

Sentito per sensibile, vivo; o per sensato. V. Crus.

Lego is — lego as, coi composti.

Spigolare, ruzzolare. Mugolare, mugghiare.

Alla p. 4430. Di tal genere è anco una grandissima parte degli errori e sgrammaticature (sien d’uso generale o individuale) del parlar plebeo, rustico, de’ dialetti ec.

Monofagia. Convivium, συμπόσιον, coena (se è vera l’etimologia da κοινή), tutti nomi significativi di comunanza. ec.

Alla p. 4504. marg. Anche il nemico, l’offensore, ridotto all’inferiorità all’impotenza, è, non pur compassionevole, ma amabile, allo stesso offeso. Par che la natura abbia dato alla debolezza l’amabilità come una sorta di difesa e d’aiuto. (17. Giugno.).

Beatus, participio aggettivato. Trambasciato, trangosciato ec. Trasognato. Moderato ec., smoderato, immoderato ec. Invisus per odioso.

Σχολὴ ozio chiamavano gli antichi i luoghi, i tempi ec. degli studi, e gli studi medesimi (onde ancora diciamo, senza intendere all’origine, scuola, e scolare per istudente, e gl’inglesi scholar per letterato, che dall’etimologia sonerebbe ozioso) che per gran parte di noi sono il solo o il maggior negozio. (7. Luglio.).

Succhio (succulus) per succo.

Δῖος, dius-divus.

Ieiunus 1. participio contratto, a quanto pare, da ieiunatus (così fors’anche festinus); 2. in senso di qui ieiunavit o ieiunat. Delirus.

Mordeo, morsum — morsicare, (corrottamente mozzicare, smozzicare), morsecchiare.

Simus costantemente per sumus. Augusto ap. Sveton. in Aug. c. 87.; Messala, Bruto ed Agrippa ap. Mario Vittorino de Orthographia p. 2456. Manibiae per manubiae pur costantemente nelle iscrizioni Ancirane composte pur da Augusto. Contibernali in un antico monumento ap. Achille Stazio ad Sveton. de Cl. Rhetoribus.

Bubulcitare.

Alla p. 4491. In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è. Vale a dire, che delle persone, per trovarsi ciò convenire ai loro interessi, saranno unite e collegate insieme per certo tempo (per lo più contro altre); ma non mai amiche. Amicizia non può essere che in città grandi, o pur fra persone lontane. (8. Luglio.). V. p. 4523.

. Alla p. 4512. La forma in accio acciare, azzo azzare, e le corrispondenti francesi e spagnuole (e così in eccio, iccio ec.), vengono veramente, almeno per lo più, dalla latina in aceus, iceus ec. Gallinaceus, gallinaccio.

Che fosse proprio del volgare latino il dar questa desinenza ai positivi, nomi o verbi, e ciò senz’alterazione di significato, e che da ciò venga il tanto uso della forma in accio ec. nelle lingue figlie, massime dove essa non altera la significazione (come in minae minacce, minari minacciare), può congetturarsi, fra l’altro, dal riferito da Svetonio (Aug. c. 87.) che Augusto soleva scrivere pulleiaceus in vece del positivo pullus. Augusto nelle singolarità delle sue voci ed ortografia riferite da Svetonio (ib. et c. 88.), si accostava al dir volgare: il suo baceolus è il nostro baggeo. Quest’osservazione dunque serva particolarmente pel Tratt. del Volg. lat. — La forma in ezzare, onde (e non viceversa) eggiare, e le corrispondenti francesi e spagnuole, sono dalla greca frequentativa in ίζειν, e dalla lat. issare, che di là viene. Il betissare di Augusto ap. Sveton. (87.), da noi si direbbe bietoleggiare. Cambiato, al solito l’i in e. (9. Luglio.). — Se però ezzare è per ecciare, allora apparterrà al detto qui sopra. E viceversa se azzo, izzo ec. è per aggio ec., allora non cadrà sotto il qui sopra detto. (10. Luglio.). — Incumulare — encumbrar — ingomberare.

Molti avverbi e preposizioni delle lingue nostre sono fatte coll’aggiunta di un de affatto pleonastico alle corrispondenti latine. De retro: diretro, dirietro, dreto, dietro (il volgo marchegiano appunto latinamente: de retro); e poi, raddoppiato ancora il di, di dietro; derrière, detras. De ubi: dove. De unde: donde. De ante: delante, dianzi, dinanzi, davanti, devant. De post: di poi, dopo, da poi, depuis, despues. De mane: dimani ec. demain. (11. Lugl.). Così di sopra, di sotto, da presso, da lungi, da vicino, da o di lontano. Quest’uso par fosse proprio del volgar latino 1.o perchè comune a tutte 3 le lingue figlie, 2.o perchè si trova già in parte nel latino scritto. Desuper, desubito, derepente; dove il de ridonda: dehinc, deinde; dove il de (come in donde) è ripetuto; perchè già il semplice hinc vale de hic, inde è de in (dein).

Iuvi per iuvavi , ad-iutum ec. per ad-iuvatum.

La prosa in verità, parlando assolutamente, precedette da per tutto il verso, come è naturale; ma il verso conservato precedette quasi da per tutto la prosa conservata. (11. Luglio.).

L’uso degli antichi filosofi greci, di abbracciar col circolo dei loro Trattati tutte le parti dello scibile (uso notato da me altrove), onde esso circolo veniva ad essere un’enciclopedia, fu seguito anche, ne’ bassi tempi, da’ latini: dico da quelli che scrissero, o in più opere separate o in una sola, de 4.r o de 7.m disciplinis (come Boezio, Cassiodoro, Marziano Capella, Beda, Alcuino) ec.; piccole enciclopedie, dove però si copiavano per lo più tra loro. E dico tra loro: i più antichi o non conoscevano, o non avevano, o non leggevano, o non potevano intendere. (11. Lugl.).

Alla p. 4520. fin. Chi non è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi vizi, così le vere e solide virtù sociali. E nel particolare dell’amicizia, la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee proprie della poesia o della storia, che nella vita reale e giornaliera non s’incontrano mai (e certo egli non si aspetta d’incontrarne mai nella sua). E s’inganna. Non dico Piladi e Piritoi, ma amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara.

Del resto, i servigi che si possono attendere dagli amici, sono, o di parole (che spesso ti sono utilissime), o di fatti qualche volta; ma di roba non mai, e l’uomo avvertito e prudente non ne dee richiedere di sì fatti (di tal fatta). (21. Luglio.).

Insatiatus per insatiabilis. Citus, particip. aggettivato.

Naevus-neo.

Frigus — frio (spagn.). Ragunare — raunare. Nego — nier. Raggi — rai.

Il vescovo Ulfila, se non fu il primo introduttore dell’alfabeto presso la sua nazione (i Goti), gli diede almeno quella forma che noi conosciamo. Castiglioni ap. la B. Ital. Maggio 1829. t. 54 p. 201.

Non solo noi diveniamo insensibili alla lode, e non mai al biasimo, come dico altrove, ma in qualunque tempo, le lodi di mille persone stimabilissime, non ci consolano, non fanno contrappeso al dolore che ci dà il biasimo, un motteggio, un disprezzo di persona disprezzatissima, di un facchino. (29. Lug.).

In un trattenimento, chi si vuol divertire, propongasi di passare il tempo. Chi vi cerca e vi aspetta il divertimento, non vi trova che noia, e passa quel tempo assai male. (29. Lug.).

Est Dicaearchi liber de interitu hominum, Peripatetici magni et copiosi, qui collectis ceteris causis, eluvionis, pestilentiae, vastitatis, beluarum etiam repentinae multitudinis, quarum impetu docet quaedam hominum genera esse consumta; deinde comparat quanto plures deleti sint homines hominum impetu, id est bellis aut seditionihus, quam omni reliqua calamitate. Cic. de Off. II. 5. (16.) (5. Sett. 1829.).

Luccicare. Albico as.

Rue — ruga (ital. antico).

Despicere — despicari: e simili.

Burrone, burrato, borro, botro — βόθρος. (12. Aprile. 1830. Lunedì di Pasqua.).

È curioso a vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito. (Firenze 31. Maggio 1831.).

Eccellente umanità degli antichi. Quid enim est aliud, erranti viam non monstrare, quod Athenis exsecrationibus publicis sancitum est, si hoc non est? etc. Cic. de off. l. 3. alquanto innanzi il mezzo. (Roma 14. Dic. 1831.).

Βρίαχος l’ubbriaco , appellativo di un Sileno in un vaso antico. Muséum étrusque du prince de Canino, n.1005 (Roma 14. Dic. 1831.).

ὅμως δὲ τοῦτο μὲν ἴτω (vada, cioè eveniat) ὅπῃ τῷ θεῷ φίλον. Plat. Apolog. Socr. haud procul ab init. ed. Ast. opp. t. 8. p. 102. (in marg. 19. A.) nel Critone (init. p. 164. in marg. 43. D.) dice pur Socrate: εἰ ταύτῃ τοῖς θεοῖς φίλον, ταύτῃ ἔστω.

τούτου πᾶν τοὐναντίον εὑρήσετε (tutto il contrario). ib. 138. (34. A.) e così altrove nella medesima Apologia.

οὐκ ἔσθ' ὅτι μᾶλλον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πρέπει οὕτως ὡς ec. (in vece di μᾶλλον...ἢ.) ib. 144. (36. D.) — nessuna cosa più... quanto ec. idiotismo nostro, usato anche da’ buoni e antichi.

ὄνομα ἕξετε καὶ αἰτίαν ὡς Σωκπάτη ἀπεκτόνατε. ib. 148. (38. C.) avrete nome di avere ucciso Socrate. (Roma 6. Gennaio 1832.).

Uomini originali men rari che non si crede.

Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle fedeli benchè sappiano il contrario. Così chi dee vivere in un paese, ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di credere la vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco, e tenero della sua moglie. (Firenze 23. Maggio. 1832.).

Cosa rarissima nella società, un uomo veramente sopportabile.

Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte.

Grande studio (ambizione) degli uomini mentre sono immaturi, è di parere uomini fatti, e quando sono uomini fatti, di parere immaturi. (16. Settem. 1832.).

La cosa più inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessisimo a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria. L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale. (Firenze. 4. Dic. 1832.).

Alla p. 2419. Come può esser bella una lingua che non ha proprietà? Non ha proprietà quella lingua che nelle sue forme, ne’ suoi modi, nelle sue facoltà non si distingue dalle forme, modi, facoltà della grammatica generale, e del discorso umano regolato dalla dialettica. Una lingua regolata da questa sola non ha niente di proprio; tutto il suo è comune a tutte le nazioni parlanti, e a tutte le altre lingue; il suo spirito, la sua indole, il suo genio non è suo, ma universale; vale a dire ch’ella non ha veruna originalità, e quindi non può esser bella, cioè non può esser nè forte, nè distintamente nobile, nè espressiva, nè varia (quanto alle forme), nè adattata all’immaginazione, perchè questa è diversissima e moltiplice, e nel tempo stesso ella è la sola facoltà umana capace del bello, e produttrice del bello. Ora che cosa vuol dire una lingua che abbia proprietà? Non altro, se non una lingua ardita, cioè capace di scostarsi nelle forme, nei modi ec. dall’ordine e dalla ragion dialettica del discorso, giacchè dentro i limiti di quest’ordine e di questa ragione, nulla è proprio di nessuna lingua in particolare, ma tutto è comune di tutte. (Parlo in quanto alle forme, facoltà ec. e non in quanto alle nude parole, o alle inflessioni delle medesime, isolatamente considerate.) Dunque se non è, nè può esser bella la forma di una lingua che non ha proprietà, non è nè può esser bella una lingua che nella forma sia tutta o quasi tutta matematica, e conforme alla grammatica universale. E così di nuovo si viene a concludere che la bellezza delle forme di una lingua (tanto delle forme in genere, quanto di ciascuna in particolare) non può non trovarsi in opposizione colla grammatica generale, nè esser altro che una maggiore o minor violazione delle sue leggi.

La lingua francese si trova nel caso detto di sopra: poich’ella in quanto alla forma, esattamente parlando, non ha proprietà, vale a dir che non ha qualità sua propria, ma tutte le ha comuni con tutte le lingue, e colla ragione universale della favella. Il che quanto noccia alla originalità, anzi l’escluda, e quanto per conseguenza favorisca la mediocrità, anzi la richieda e la sforzi, resta chiaro per se stesso. (Bossuet, scrittore non mediocre, ebbe bisogno di domare, come gli stessi francesi dicono, la sua lingua; e come dico io, fu domato e forzato alla mediocrità dello stile, dalla sua lingua. E così lo sono tutti quegli scrittori francesi che hanno sortito un ingegno naturalmente superiore al mediocre. Nè più nè meno di quello che la società, e lo spirito della nazion francese, sforzi alla mediocrità in ogni genere di cose gli uomini i più elevati della nazione, e gli spiriti più superiori all’ordinario. Essendo la mediocrità non solo un pregio, ma una legge in quella nazione, dove il supremo dovere dell’uomo civile, è quello d’esser come gli altri).

Dalle dette considerazioni segue che la lingua francese, non avendo nessuna o quasi nessuna proprietà, e quindi ripugnando alla vera e decisa originalità dello stile (ben diversa da quelle minime differenze dell’ordinario, che i francesi esaltano come somme originalità), non può aver lingua poetica; e così è nel fatto.

Segue ancora, che, non avendo niente di proprio, ma tutto comune a tutte le lingue, e tutto proprio del discorso umano in quanto discorso umano, dev’essere accomodata sopra tutte alla universalità: e così è realmente. (7. Maggio 1822.).

A voler esser lodato o stimato dagli altri, bisogna per necessità intuonar sempre altamente e precisamente alle orecchie loro: io vaglio assai più di voi: acciocchè gli altri dicano: colui vale alquanto più di noi, o quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia genere, o propriamente o almeno metaforicamente parlando, è sempre incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel cospetto di quanta gente tu vuoi, un’azione o una produzione ec. la più degna e la più lodevole che si possa immaginare; t’inganni a partito se credi che quell’azione ec. essendo manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima, gli altri debbano aprir la bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se non hai l’arte o il coraggio d’essere il primo a far questo. Ciò massimamente in questi tempi di perfezionato e purificato egoismo. Chi vuol vivere, si scordi della modestia. (7. Maggio. 1822.).

Che società, che amicizia, che commercio potresti tu avere con un cieco e sordo, o egli con te? Al quale nè coi gesti nè colle parole potresti communicare alcuno de’ tuoi sentimenti, nè egli a te i suoi? e per conseguenza qual comunione di spirito, cioè di vita e di sentimento potresti aver seco lui? qual sentimento di te penseresti d’aver destato, o di poter mai destare nell’animo suo? E nondimeno tu sai pur ch’egli vive, ed oltracciò di vita umana e d’un genere medesimo colla tua; ed egli potrebbe forse in qualche modo darti ad intendere i suoi bisogni, e beneficato esteriormente da te, o in altro modo influito, potrebbe aver qualche senso della tua esistenza, e formarsi di te qualche idea; anzi è certo che ti considererebbe come suo simile, non ch’egli n’avesse alcuna prova certa, ma appunto per la scarsezza delle sue idee; come fanno i fanciulli, che sempre inclinano a creder tutto animato, e simile in qualche modo a loro, non conoscendo, nè sapendo neppure insufficientemente concepire altra forma d’esistenza che la propria, nonostante ch’essi pur vedano la differenza della figura, e delle qualità esteriori.

Or se contuttociò, tu non crederesti di poter aver con costui nessuna o quasi nessuna società, e non ti soddisfaresti nè ti compiaceresti in alcun modo del suo commercio, che dovremo dire di quella società che i filosofi tedeschi e romantici, vogliono che il poeta supponga, anzi ponga e crei fra l’uomo e il resto della natura? La qual società vogliono che sia tale che tutto per immaginazione si supponga vivo bensì, ma non di vita umana, anzi diversissima secondo ciascun genere di esseri? Non è questa una società peggiore e più nulla di quella col cieco e sordo? Il quale finalmente è uomo. Ma qui sebben tu creda, e poeticamente t’immagini che le cose vivano, non supponendo che questa vita abbia nulla di comune colla tua, che sentimento di te puoi presumere di destare in loro, o qual sentimento della vita loro puoi presumere di ricever da essi, non potendo neppur concepire altra forma di vita se non la propria? Che giova alla tua immaginazione e alla tua sensibilità il figurarti che la natura viva? Che relazione può la tua fantasia fabbricarsi colla natura per questo? Ella è cieca e sorda verso te, e tu verso lei. Non basta al sentimento e al desiderio innato di quasi tutti i viventi che li porta verso il loro simile, il figurarsi che le cose vivano, ma solamente che vivano di vita simile per natura alla propria. Tolta questa non v’è società fra viventi, come non vi può esser società fra cose dissimili, e molto meno fra cose che in nessun modo si possono intendere l’une coll’altre, nè comunicarsi alcun sentimento, nè farsi scambievolmente verun segno di se, e neppur concepire o formarsi nessuna idea del genere di vita l’una dell’altra. Fra le bestie e l’uomo non è di gran lunga così, e perciò qualche società può passare e passa fra questo e quelle, e maggiore, quanto più la loro vita, e il loro spirito è simile al nostro, e quanto più esse mostrano di concepire le cose nostre, e noi le loro; e maggiore eziandio generalmente perchè l’immaginazione nostra (e probabilmente anche la loro) entra in questo commercio altresì, e ce le dipinge molto più simili a noi che forse non sono, e noi a loro parimente. Certo è poi che grandissima affinità e somiglianza passa tra la vita degli animali e la nostra, tra le loro passioni (radicalmente parlando) e fra le nostre ec. Affinità e somiglianza che non si trova o non apparisce fra l’esistenza delle cose inanimate e la nostra; che l’immaginazione antica, e fanciullesca, e, più o meno, quella di tutti i tempi, non vedendola, la suppone e la crea; che i bravi tedeschi non vogliono che si supponga, e che non per tanto s’immagini e si conservi un commercio scambievole fra le cose inanimate e l’uomo. (8. Maggio. 1822.).

Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale (come dice Cicerone in Lael.). Ed in tanto non l’odia sempre sopra ogni cosa, in quanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; p. e. quando un eccesso di dolor fisico gli fa desiderare anche naturalmente la morte, e preferirla a quel dolore. Vale a dire quando l’amor proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che colla morte. E perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè perchè gli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di liberarsi dal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto puramente dalla speranza.

Del resto l’odio della noia, è uno di quei tanti effetti dell’amor della vita (passione elementare ed essenziale nel vivente) che ho specificati in parecchi di questi pensieri. E l’uomo odia la noia per la stessa ragione per cui odia la morte, cioè la non esistenza. E quest’odio medesimo della noia è padre d’altri moltissimi e diversissimi effetti, e sorgente d’altre molte e varie passioni o modificazioni delle medesime, tutte essenzialmente derivanti da esso odio, delle quali ho pur detto in più luoghi. (8. Maggio 1822.).

Che le passioni antiche fossero senza comparazione più gagliarde delle moderne, e gli effetti loro più strepitosi, più risaltati, più materiali, più furiosi, e che però nell’espression loro convenga impiegare colori e tratti molto più risentiti che in quella delle passioni moderne, è cosa già nota e ripetuta. Ma io credo che una differenza notabile bisogni fare tra le varie passioni, appunto in riguardo alla maggiore o minor veemenza loro fra gli antichi e i moderni comparativamente; e per comprenderle tutte sotto due capi generali, io tengo per fermo (come fanno tutti) che il dolore antico fosse di gran lunga più veemente, più attivo, più versato al di fuori, più smanioso e terribile (quantunque forse per le stesse ragioni più breve) del moderno. Ma in quanto alla gioia, ne dubiterei, e crederei che, se non altro in molti casi, ella potesse esser più furiosa e violenta presso i moderni che presso gli antichi, e ciò non per altro se non perch’ella oggidì è appunto più rara e breve che fosse mai, come lo era nè più nè meno il dolore anticamente. Questa osservazione potrebbe forse servire al tragico, al pittore, ed altri imitatori delle passioni. Vero è che nel fanciullo e la gioia e il dolore sono del pari più violenti, ed altresì per la stessa ragione più brevi che nell’adulto. Ed è vero ancora che l’abitudine dell’animo de’ moderni li porta a contenere dentro di se, ed a riflettere sullo spirito, senza punto o quasi punto lasciarla spargere ed operare al di fuori, qualunque più gagliarda impressione e affezione. Contuttociò credo che la detta osservazione possa essere di qualche rilievo, massime intorno alle persone non molto o non interamente colte e disciplinate, sia nella vita civile, sia nelle dottrine e nella scienza delle cose e dell’uomo; e intorno a quelle che dall’esperienza e dall’uso della vita, della società, e de’ casi umani non sono stati bastantemente ammaestrati ad uniformarsi col generale, nè accostumati a quell’apatia e noncuranza di se stesso e di tutto il resto, che caratterizza il nostro secolo. (9. Maggio. 1822.).

Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell’amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente, si può rassomigliare al sistema dell’aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l’une l’altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e uguale l’uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l’equilibrio, e il sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna.

Nè più nè meno accade nel sistema della società presente, dove non ciascuna società o corpo o nazione (come presso gli antichi), ma ciascun uomo individuo continuamente preme a più potere i suoi vicini, e per mezzo di esso i lontani da tutti i lati, e n’è ripremuto da’ vicini e da’ lontani a poter loro nella stessa forma.

Dal che risulta un equilibrio prodotto da una qualità distruttiva, cioè dall’odio e invidia e nemicizia scambievole di ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno, e dal perenne esercizio di queste passioni (cioè in somma dell’amor proprio puro) in danno degli altri.

Con ciò resta spiegata una specie di fenomeno. Lo stato d’egoismo puro, e quindi di puro odio verso altrui (che ne segue essenzialmente) è lo stato naturale dell’uomo. Ma ciò non è maraviglia, spiegandosi esso, e dovendosi necessariamente spiegare, col negar la pretesa destinazione naturale dell’uomo allo stato sociale stretto (cioè diverso da quello ch’hanno fra loro quasi tutte le bestie, massime le più svegliate); al quale stato ripugnano per natura loro le dette qualità naturalissime e assolutamente proprie dell’uomo (come si può vedere anche nel fanciullo ec.). La maraviglia è ch’essendo tornato l’uomo allo stato naturale per questa parte (mediante l’annichilamento delle antiche opinioni e illusioni, frutto delle prime società e relazioni contratte scambievolmente dagli uomini), la società non venga a distruggersi assolutamente, e possa durare con questi principii distruttivi per natura loro. Il qual fenomeno resta spiegato colla sopraddetta comparazione. E questo equilibrio (certo non naturale, ma artifiziale), cioè questa parità e questa universalità d’attacco e di resistenza, mantiene la società umana, quasi a dispetto di se medesima, e contro l’intenzione e l’azione di ciascuno degl’individui che la compongono, i quali tutti o esplicitamente o implicitamente mirano sempre a distruggerla.

Dalla detta comparazione caveremo altresì un corollario morale. Se qualche colonna d’aria viene a rarefarsi, o a premer meno dell’altre, e far meno resistenza per qualunque accidente, ciascuna delle colonne vicine, e ciascuna delle lontane addossandosi alle vicine, senza un istante d’intervallo, corrono ad occupare il luogo suo, e non appena ella ha lasciato di resistere sufficientemente, che il suo luogo è conquistato. Così la campana pneumatica anderebbe in minutissimi pezzi, mancando la sufficiente resistenza dell’aria quivi rinchiusa, se non si provvedesse a questo colla configurazione della campana. Lo stessissimo accade fra gli uomini, ogni volta che la resistenza e reazione di qualcuno manca o scema, sia per impotenza, sia per inavvertenza, sia per volontà o inesperienza. E però son da ammonire i principianti della vita, che se intendono di vivere, e di non vedersi preso il luogo immediatamente, e non esser messi a brani o schiacciati, s’armino di tanta dose d’egoismo quanta possano maggiore, acciocchè la reazion loro sia, per quanto essi potranno, o maggiore o per lo meno uguale all’azione degli altri contro di loro. La quale, vogliano o non vogliano, credano o non credano, avranno infallibilmente a sostenere, e da tutti, amici o nemici che sieno di nome, e tanta quanta maggiore sarà in poter di ciascuno. Chè se il cedere per forza, cioè per causa della propria impotenza (in qual genere ch’ella si sia), è miserabile; il cedere volontariamente, cioè per mancanza di sufficiente egoismo in questo sistema di pressione generale, è ridicolo e da sciocco, e da inesperto o irriflessivo. E si può dire con verità che il sacrifizio di se stesso (in qual si voglia genere o parte) il quale in tutti gli altri tempi fu magnanimità, anzi la somma opera della magnanimità, in questi è viltà, e mancanza di coraggio o d’attività, cioè pigrizia, e dappocaggine; ovvero imbecillità di mente; non solamente secondo l’opinione degli uomini, ma realmente e secondo il retto giudizio, stante l’ordine e la natura effettiva e propria della società presente. (10. Maggio 1822.). V. p. 2653.

Non si nomina mai più volentieri, nè più volentieri si sente nominare in altro modo chiunque ha qualche riconosciuto difetto o corporale o morale, che pel nome dello stesso difetto. Il sordo, il zoppo, il gobbo, il matto tale. Anzi queste persone non sono ordinariamente chiamate se non con questi nomi, o chiamandole pel nome loro fuor della loro presenza, è ben raro che non vi si ponga quel tale aggiunto. Chiamandole o udendole chiamar così, pare agli uomini d’esser superiori a questi tali, godono dell’immagine del loro difetto, sentono e si ammoniscono in certo modo della propria superiorità, l’amor proprio n’è lusingato e se ne compiace. Aggiungete l’odio eterno e naturale dell’uomo verso l’uomo che si pasce e si diletta di questi titoli ignominiosi, anche verso gli amici o gl’indifferenti. E da queste ragioni naturali nasce che l’uomo difettoso com’è detto di sopra, muta quasi il suo nome in quello del suo difetto, e gli altri che così lo chiamano intendono e mirano indistintamente nel fondo del cuor loro a levarlo dal numero de’ loro simili, o a metterlo al di sotto della loro specie: tendenza propria (e quanto alla società, prima e somma) d’ogn’individuo sociale. Io mi sono trovato a vedere uno di persona difettosa, uomo del volgo, trattenersi e giocare con gente della sua condizione, e questa non chiamarlo mai con altro nome che del suo difetto, tanto che il suo proprio nome non l’ho mai potuto sentire. E s’io ho veruna cognizione del cuore umano, mi si dee credere com’io comprendeva chiaramente che ciascuno di loro, ogni volta che chiamava quell’uomo disprezzatamente con quel nome, provava una gioia interna, e una compiacenza maligna della propria superiorità sopra quella creatura sua simile, e non tanto dell’esser libero da quel difetto, quanto del vederlo e poterlo deridere e rimproverare in quella creatura, essendone libero esso. E per quanto frequente fosse nelle loro bocche quell’appellazione, io sentiva e conosceva ch’ella non usciva mai dalle loro labbra senza un tuono esterno e un senso e giudizio interno di trionfo e di gusto. (13. Maggio 1822.).

Juvare col dativo, caso comune al nostro giovare, è rarissimo negli scrittori latini, vedilo appresso Plauto, nel Forcellini. (21 Maggio 1822.).

Ho detto altrove d’una grande incertezza e di molti scambi che si trovano nell’uso latino circa i tempi dell’ottativo o soggiuntivo, ora scambiati fra se, ora sostituiti a quelli dell’indicativo: ed ho mostrato come questi usi che si tengono per pure eleganze degli scrittori latini, fossero comuni anche al volgare, e si conservino nelle lingue derivate, non certo dal latino elegante, ma da esso volgare. A questo proposito si può notare il presente ottativo latino, usato spessissimo ed elegantemente in vece dell’imperfetto ottativo, e in certo modo anche del futuro indicativo, come in Orazio Sat. 1. v. 19. l. i nolint per nollent, o nolent; od. 3. v. 66. e 68. l. 3. pereat, ploret, per periret, ploraret, o peribit, plorabit. E ciò massimamente (come appunto ne’ due luoghi citati), precedendo la condizionale si o simile, espressa o sottintesa: nel qual caso appunto ho notato altrove la detta varietà, e figurato uso dell’ottativo, e suoi diversi tempi. E vedi, fra gli altri pensieri relativi a questo, pag. 2221. fine, e 2257. (24. Maggio 1822.).

Di ciò che ho notato altrove che l’uso di fabbricar nuovi composti, e di supplir così al bisogno di esprimer nuove idee, o nuove parti d’idee (ch’è tutt’uno, secondo le osservazioni della moderna ideologia), essendo stato così comune alle lingue antiche, e alle stesse moderne ne’ loro principii, s’è poi quasi dimenticato, per utilissimo che sia; se ne possono dar, fra l’altre, le seguenti ragioni.

1. Che tutte le lingue ne’ loro principii sono per necessità più ardite che nel progresso, e le lingue antiche rispettivamente più ardite delle moderne. Or queste composizioni richiedono un certo ardire, massime trattandosi di farne un grand’uso, e d’applicar questa facoltà a quasi tutti i nuovi bisogni della lingua.

2. Che nelle lingue antiche la necessità di far grand’uso de’ composti, era molto ma molto maggiore che nelle moderne, a causa del tanto minor numero ch’esse avevano di parole originarie. Le radici, come ho detto altrove, e assegnatene le ragioni, son sempre scarsissime in una lingua nascente. Quindi l’assoluto bisogno della composizione, crescendo il numero delle cose da esprimersi, e volendosi perfezionar l’espressione delle cose, e distinguerla meglio; e arrivando gli uomini appoco appoco a staccare un’idea dall’altra, e a suddividerle (ch’è tutto il progresso dello spirito umano), e però avendo mestieri di nuove parole. E infatti si vede che l’incremento e il perfezionamento di qualunque lingua antica è stata ridotta a una certa perfezione, fu sempre compagno, o anch’effetto dell’uso di comporre più parole in una, arricchendo così la lingua: nel qual uso, e in quello dei derivativi (de’ quali parimente intendo qui di ragionare) i greci e latini furono singolari maestri.

Ma derivando le lingue moderne da lingue già perfezionate e letterate, la scarsezza delle radici non vi si osserva più, essendo divenute radicali, o in qualunque modo semplici e indipendenti per noi, quelle infinite parole che, p. e. in latino, sono evidentemente composte o derivate da altre, e che son rimaste in uso p. e. nell’italiano. Dove, quantunque la provenienza e dipendenza loro ci sia così manifesta e vicina, pur fanno offizio, ed hanno, relativamente alla lingua nostra, la vera natura di radicali 1. o perchè gli elementi di cui si compongono, separati che sieno, non significano niente in italiano, come significavano in latino, o quando anche l’un d’essi abbia qualche significato da se, l’altro, o gli altri, non l’hanno; 2. o perchè corrotte e travisate in modo che la forma de’ loro elementi è perduta affatto, quando anche essi elementi sussistano ancora per se stessi nell’italiano; 3. o perchè, essendo esse derivative in latino, non sussistono nell’italiano quelle voci latine da cui esse derivano; 4. o perchè, sussistendo anche queste voci, non sussiste più il costume di derivarne le altre parole in quei tali modi latini; e così le originarie e le derivate, quanto al latino, nella lingua nostra sono indipendenti l’une dall’altre, e rispetto alla nostra lingua, non hanno fra loro alcun’affinità (forse neanche di significato, per le solite alterazioni), ma l’une e l’altre quanto all’italiano, si debbono egualmente riconoscere per radicali.

Da tutte le quali cose è seguito che abbondando noi sommamente di radicali, abbiamo intermesso, e poi lasciato, e finalmente quasi dimenticato l’uso delle derivazioni, e principalmente delle composizioni di nuove parole; e con ciò resolo assai difficile a chi voglia richiamarlo. Il qual uso, sebbene non tanto quanto in greco e in latino, pur fu comune ai primi scrittori italiani, perciocchè la lingua era ancor povera di radici, come accade a tutte le lingue ne’ loro principii, e quindi si ricorse necessariamente a questo mezzo, a cui tutte le lingue ricorrono col perfezionarsi. Ma impinguata poi la lingua sì con questo mezzo, sì coll’arricchirla d’infinite parole latine, che per noi, come ho detto, vengono ad esser tante radici, si dimenticò l’uso della derivazione e composizione, come suol pure accadere alle altre lingue per cagioni simili; p. e. alla lingua latina accadde quando ella s’impinguò strabocchevolmente di parole greche, le quali per lei divenivan tante radicali, e così cresciuto di moltissimo il numero delle sue radici, dimenticò o scemò l’uso di comporre o derivare nuove parole dalle già esistenti, per li nuovi bisogni, come ho significato di proposito altrove.

Nè perciò la lingua latina ne divenne più potente che fosse prima: nè la lingua italiana similmente. Le radici, per quante vogliano essere, son sempre poche al bisogno, essendo infinite le idee, e la memoria e le facoltà degli uomini essendo limitatissime, e però incapaci di ritener precisamente tante parole quante sono le idee, e le parti e diversità loro; se queste parole sono affatto diverse e dissimili e indipendenti l’una dall’altra, come avverrebbe se tutte fossero radicali. E quindi l’uomo è incapace di possedere e di usare una lingua che abbia nel tempo stesso tante parole quante mai sono le cose da esprimersi, e che sia tutta composta di radici sole. La composizione e derivazione sono il mezzo più semplice e vero, riducendo infinite parole sotto pochi elementi, come ho spiegato altrove paragonando questo mezzo alla scrittura nostra, e una lingua tutta composta di radici alla scrittura Cinese.

Quindi non potendo mai bastar le radici, e avendo noi lasciato l’uso della derivazione e composizione di nuove parole dalle già esistenti, vediamo infatti che con tanto maggior numero di radici, la lingua nostra è infinitamente meno ricca e potente, e meno esatta e propria nell’espressione delle minime diversità delle idee, di quel che fossero la latina e la greca con tanto meno radici.

La conclusione è che bisogna a tutti i patti, e malgrado qualunque difficoltà, riassumer l’uso di spiegar le nuove idee col comporre, derivare, e formare nuove parole dalle radici della propria lingua; essendo questo, per natura delle cose (che tutto opera per modificazione degli elementi, e non per aggiunzione di sempre nuovi elementi, per modificazione o composizione e non per moltiplicazione), l’unico, proprio, ed assoluto mezzo di rendere una lingua sufficiente ed uguale a qualunque numero d’idee, ed a qualunque novità d’idee; e renderla tale non accidentalmente ma per propria essenza, e non per alcuni momenti, come può essere adesso p. e. la francese, ma per sempre finch’ella conserva il suo carattere: come s’è veduto manifestamente nella lingua greca che da’ tempi antichissimi fino a oggidì, è stata ed è eternamente capace di qualunque novità d’idee, antiche o moderne che sieno, e per diversissime che vogliano essere da quelle che correvano quando la lingua greca era in fiore. E simile in ciò credo che le sia la tedesca. Abbia cura di conservarsi tale.

Perocchè tali son tutte ne’ loro principii. Ma perfezionandosi, e però civilizzandosi, e pigliando commercio con lingue e letterature e nazioni straniere, e così impinguandosi di parole forestiere che per lei divengono radicali, dismette l’uso della composizione ec.: e per pochi momenti supplisce bene a’ suoi bisogni colle radici pigliate in prestito, ma di lì a poco, o diviene una stalla d’Augia a forza di stranierismi moltiplicati in infinito, o volendosi conservar pura, non può più parlare, perchè s’è lasciato cadere il solo istrumento che avesse per supplire alla novità delle idee conservandosi pura, cioè il coltivare e far fruttare le sue proprie radici. E forse perciò conservarono sempre i greci questa facoltà, perchè poco pigliarono da’ forestieri, o non volendo prenderne per la nota loro superbia nazionale, o perchè realmente non si trovavano intorno altra nazione letterata e civile, dalla quale potessero prendere, sebbene con molte commerciarono, ma la letteratura le scienze e la civiltà de’ greci, da’ tempi noti in poi, furono sempre puramente greche.

E così accadde cosa osservabilissima: cioè che la lingua greca per essersi conservata pura, divenne e si mantenne (ed ancora si mantiene) la più potente e ricca e capace di tutte le lingue occidentali. Non per altro se non perch’ella restringendosi in se sola, non lasciò mai di porre a frutto e a moltiplico il proprio capitale. E viceversa per esser divenuta così potente, si mantenne pura più lungo tempo di qualunqu’altra (ancor dopo ch’ebbe a fare con una nazione civile e signora sua, come la latina). Giacchè non ebbe alcun bisogno nè di parole nè di modi stranieri per esprimere qualunque cosa occorresse: e i greci avendo alle mani facile e pronto e spendibile il capitale proprio, non si curarono dell’altrui, il quale sarebbe stato loro più difficile a usare, e manco manuale del proprio. L’opposto di quello che avviene a noi per aver trasandato di porre a frutto il nostro bellissimo e vastissimo capitale, che benchè sia tale (oltre che la maggior parte ce n’è ignota), non basta nè potrà mai bastare al continuo e sempre nuovo bisogno della società favellante, se non lo faremo fruttare, come non solo concede amplissimamente, ma porta e vuole l’indole e la natura sua. (30. Maggio 1822.). V. p. 2455.

Beato colui che pone i suoi desiderii, e si pasce e si contenta de’ piccoli diletti, e spera sempre da vantaggio, senza mai far conto della propria esperienza in contrario, nè quanto al generale, nè quanto ai particolari. E per conseguenza beati gli spiriti piccoli, o distratti, e poco esercitati a riflettere. (30. Maggio 1822.).

Alla p. 2252. L’idea dell’eternità entra in quella di ultimo, finito, passato, morte, non meno che in quella d’infinito, interminabile, immortale. E vedi altro mio pensiero già scritto in questo proposito, (30. Maggio 1822.) cioè p. 2242. 2251.

Quanto sia più naturale e semplice l’andamento della lingua greca (tuttochè poeticissima), che non è quello della latina; e quindi quanto men proprio suo, e quanto la lingua greca dovesse esser meglio disposta all’universalità che non era la lingua latina, si può vedere anche da questo.

Sebben l’italiana e la spagnuola son figlie vere e immediate della latina, pure è molto ma molto più facile di tradurre naturalmente e spontaneamente in italiano o in ispagnuolo gli ottimi autori greci, che gli ottimi latini. E tanto è più facile quanto i detti autori greci son più buoni, cioè più veramente e puramente greci. Siccome per lo contrario, quanto ai latini, è tanto meno difficile, quanto meno son buoni, cioè meno latini, come p. e. Boezio tradotto con molta naturalezza dal Varchi, e le Vite de’ SS. Padri (che non hanno quasi più nulla del latino) tradotte egregiamente dal Cavalca, e gli Ammaestram. degli antichi da F. Bartolomeo da S. Concordio ec. ec. Cicerone, Sallustio, Tito Livio, difficilissimamente pigliano un sapore italiano, se non lasciano affatto l’indole e l’andamento proprio. Al contrario di Erodoto, Senofonte, Demostene, Isocrate ec. Ora essendo l’andamento delle lingue moderne generalmente assai più piano e meno figurato ec. delle antiche, questo è un segno che la lingua greca, adattandosi alle moderne molto più della latina, doveva esser molto più semplice e naturale nella sua costruzione e forma. (30. Maggio 1822.).

Se l’uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l’attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana, e il regolamento della medesima, e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine)[a]

Il fine della letteratura è principalmente il regolar la vita dei non letterati; è insomma l’utilità loro, ed essi se n’hanno a servire. Ora io non ho mai saputo che la condizione di chi è servito, fosse peggiore e inferiore che non è quella di chi serve.

[Chiudi], osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più, e più gran cose degli altri; non avesse in se maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii; e per natura ed inclinazione sua primitiva, non fosse più disposto all’azione e all’energia dell’esistenza, che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell’Alfieri (Corinne, t. 1. liv. dern.), anzi dice ch’egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de’ tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo. Fra’ quali siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare (altro che fagiolate), perciò nessuno o quasi nessuno è vero filosofo, nè letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri, massime degl’inglesi e francesi, i quali (per la natura de’ loro governi e condizioni nazionali) fanno, e sono nati per fare più degli altri. E quanto più fanno, o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente e straordinariamente pensano e scrivono. (30. Maggio 1822.).

Grazia dallo straordinario. I nei che altro sono se non difetti, e false produzioni della cute? E non sono stati considerati lungo tempo come bellezze? (Anzi così anche oggi volgarmente si sogliono chiamare). E le donne col porsegli dintorno non facevano insomma altro che fingersi dei difetti, e fabbricarseli appostatamente, per proccurarsi grazia e bellezza. (1. Giugno 1822.).

Qual fosse l’opinione di Socrate, o di Senofonte, e anche degli altri antichi, circa quelle arti e mestieri che da gran tempo si stimano e sono veramente necessarii all’uso del viver civile, anzi parte, alimento ec. della civilizzazione, e che intanto nocciono alla salute e al viver fisico, e in oltre all’animo, di chi gli esercita, v. l’Econom. di Senofonte cap. 4. par. 2. 3. e cap. 6. par. 5. 6. 7. (3. Giugno 1822.).

Τῶν δὲ σωμάτων θηλυνομένων (si corpora effeminentur), καὶ αἱ ψυχαὶ πολὺ ἀῤῥωστότεραι γίγνονται. Socrate ap. Senofon. Econom. c. 4. par. 2. (3. Giugno. 1822.).

Alla p. 2451. L’Alfieri fu arditissimo e frequentissimo formatore di parole derivate o composte nuovamente dalle nostrali, e sebbene io non credo ch’egli, facendo questo avesse l’occhio alla lingua greca, nondimeno questo suo costume dava alla lingua italiana una facoltà e una forma similissima (materialmente) all’una delle principalissime e più utili facoltà e potenze della lingua greca. Io non cercherò s’egli si servisse di questo mezzo d’espressione colla misura e moderatezza e discrezione che si richiede, nè se guardasse sempre alla necessità o alla molta utilità, nè anche se tutti i suoi derivati e composti, o se la maggior parte di loro sieno ben fatti. Ma li porto per esempio acciocchè, considerandoli, si veda più distintamente e per prova, quante idee sottili o rare o non mai ancora precisamente significate, quante cose difficilissime e quasi impossibili ad esprimersi in altro modo (anche con voci forestiere), si esprimano chiarissimamente e precisamente e facilmente con questo mezzo, senza punto uscire della lingua nostra, e senza quindi nuocere alla purità. Certo è che quando l’Alfieri chiama il Voltaire Disinventore od inventor del nulla, (vere principali e proprie qualità ed attributi della sapienza moderna) quel disinventore dice tanto e tal cosa, quanto e quale appena si potrebbe dire per via d’una lunga circollocuzione, o spiegare e sminuzzare pazientemente, stemperatamente e languidamente in un periodo. (3. Giugno. 1822.).

La religion Cristiana fra tutte le antiche e le moderne è la sola che o implicitamente o esplicitamente, ma certo per essenza, istituto, carattere e spirito suo, faccia considerare e consideri come male quello che naturalmente è, fu, e sarà sempre bene (anche negli animali), e sempre male il suo contrario; come la bellezza, la giovanezza, la ricchezza ec. e fino la stessa felicità e prosperità a cui sospirano e sospireranno eternamente e necessariamente tutti gli esseri viventi. E li considera come male effettivamente, perciocchè non si può negare che queste tali cose non sieno molto pericolose all’anima, e che le loro contrarie (come la bruttezza ec.) non liberino da infinite occasioni di peccare. E perciò quelli che fanno professione di devoti chiamano fortunati i brutti ec. e considerano la bruttezza ec. come un bene dell’uomo, una fortuna della società, e come una condizione, una qualità, una sorte desiderabilissima in questa vita. Similmente dico della prosperità, la quale rende naturalmente superbi, confidenti in se stessi e nelle cose, e quindi distratti e poco adattati all’abito di riflettere (ch’è necessarissimo alla cura della salute eterna), e dà molto attaccamento alle cose di questa terra. E quindi l’opinione che le disgrazie (o come le chiamano, le croci), sieno favori di Dio, e segni della benevolenza divina: opinione stranissima e affatto nuova; inaudita in tutta l’antichità e presso tutte le altre religioni moderne (tutte le quali consideravano anzi il fortunato solo, come favorito di Dio, onde fra gli antichi beato, μακάριος ὄλβιος ec. era un titolo di rispetto e di lode, e tanto a dire come sanctus, o come vir iustus etc. L’etimologia di εὐδαίμων è favorito dagli Dei, o che ha buon Dio cioè favorevole. Al contrario δυσδαίμων, infelice, che ha mali Dei. V. p. 2463. V. i Lessici: e nella stessa religion cristiana da principio si chiamavano beati, anche vivendo, gli uomini più distinti o per virtù o per dignità, come oggi si chiama Beatitudine il Papa); inaudita presso qualunque popolo non civile; e finalmente tale ch’io non so se verun’altra opinione possa esser più dirittamente contraria alla natura universale delle cose, e a tutto l’ordine dell’esistenza sensibile. (4. Giugno. 1822.).

Alla p. 1660. mezzo. Non so bene se il Salviati o il Salvini sia quel che dice dell’antica falsa, e latina ortografia degl’italiani, e particolarmente dell’et non mai pronunziato se non e, o ed. Tutte le lingue nascono, com’è naturale appoco appoco, e per lungo tempo non sono adattabili alla scrittura e molto meno alla letteratura. Cominciando ad adattarle alla scrittura, l’ortografia n’è incertissima, per l’ignoranza di quei primi scrittori o scrivani, che non sanno bene applicare il segno al suono: massime quando si servano, com’è il solito, di un alfabeto forestiero, quando è certo che ciascuna nazione o lingua ha i suoi suoni particolari, che non corrispondono a quelli significati dall’alfabeto di un’altra nazione. Venendo poi la letteratura, l’ortografia piglia una certa consistenza, ed è prima cura de’ letterati di regolarla, di ridurla sotto principii fissi, e generali, e di darle stabilità. Ma anche questa opera è sempre imperfettissima ne’ suoi principii. Per lo più la letteratura di una nazione deriva da quella di un’altra. Quindi anche l’ortografia in quei principii segue la forma e la stampa di quella che i letterati hanno sotto gli occhi, troppo deboli ancora per essere originali, e per immaginar da se, e seguire e conoscer bene la natura particolare de’ loro propri suoni ec.: le quali cose non son proprie se non di quello ch’è già o perfezionato o vicino alla perfezione. Nel nostro caso poi, questa lingua letterata, e di ortografia già regolatissima e costante, sopra la cui letteratura s’andavano formando le moderne, era anche immediatamente madre delle lingue moderne. E benchè queste (massime la francese), avessero perduto molti de’ suoi suoni, e sostituitone, o aggiuntone molti altri, contuttociò la somiglianza fra la madre e le figlie era tanta, e la loro derivazione da lei era così fresca, che cominciando a scrivere e poi a coltivare queste lingue non mai ancora scritte o coltivate, non si pensò di potersi servire d’altra ortografia che della latina. La quale ortografia già esisteva, e la nostra s’avea da creare: ma nessuna cosa si crea in un momento, massime che tante altre ve n’erano da creare allo stesso tempo, le quali occupavano tutta l’attenzione di quei primi formatori delle favelle moderne. Uomini che ad una materia putrida (giacchè tutte erano barbarissime corruzioni) aveano a dar vita, e splendore.

Quindi l’ortografia italiana del trecento, anche quella dei primi letterati, era tutta barbaramente latina. Si può vedere il manoscritto della divina Commedia fatto di pugno del Boccaccio e del Petrarca, e pubblicato quest’anno o il passato da una Biblioteca di Roma. Quindi conservato l’h che niun italiano pronunziava più (se non colla g, e c); quindi l’y, lettera inutile, avendo perduta la sua antica pronunzia di u gallico; quindi il k, ec. ec. E siccome per lunghissimo tempo, anche dopo stabilita la nostra letteratura, si durò a credere che il volgare non fosse capace di scrittura e d’uso più che tanto nobile e importante (e per molto tempo realmente non lo fu, perchè non v’era applicata); così fino al cinquecento, e massimamente fino a tutta la sua prima metà, si seguitò a scrivere l’italiano, con ortografia barbaramente latina, o non credendolo capace d’ortografia propria, o non sapendogliela ancora trovare, e ben regolare e comporre, o pedantescamente volendo ritornare il volgare al latino quanto più si potesse. Vedi la edizione della Coltivazione dell’Alamanni fatta in Parigi 1546. da Rob. Stefano, sotto gli occhi dell’autore, e ristampata colla stessa ortografia in Padova, Volpi 1718, e Bologna 1746. e quella delle Api del Rucellai, Venez. 1539, che fu la prima, (per Giananton. de’ Nicolini da Sabio) ristampata parimente ne’ detti luoghi. Dice il Volpi che quella maniera e di scrivere e di puntare che vedesi all’Alamanni esser piacciuta, è alquanto diversa non solo da quella che oggidì s’usa, ma da quella eziandio che a tempi di lui universalmente si costumava . (G. A. V. a’ Lettori). Vedi anche le lettere del Casa al Gualteruzzi, da un ms. originale, nelle sue op. t. 2. Venez. 1752. Io non so se sia vero, nè se quella del Rucellai p. e. se ne diversifichi notabilmente: non mi par che l’edizioni italiane di que’ tempi (come quella delle Rime del Firenzuola in Firenze, cit. nel Voc.) ne vadano molto lungi: ma se ciò fosse, verrebbe dalla dimora dell’Alamanni in Francia. V. p. 2466.

In somma la lingua italiana pericolava di stabilirsi e radicarsi irreparabilmente in quella stessa imperfezione d’ortografia, in cui si veniva formando, e poi per sempre si radicò la lingua francese. Fortunatamente non accadde, anzi ell’ebbe la più perfetta ortografia moderna: non lettere scritte le quali non si pronunzino: non lettere che si pronunzino e non si scrivano: ciascuna lettera scritta, pronunziata sempre e in ogni caso, come si pronunzia recitando l’alfabeto ec. V. p. 2464.

Cagioni di questo vantaggio furono l’infinita capacità, acutezza e buon gusto d’infinite persone in quel secolo, e l’altre circostanze ch’ho notate altrove. Alle quali si può e si dee forse aggiungere che i suoni della lingua latina, e generalmente la pronunzia e l’uso di essa, sopra la cui ortografia si formava naturalmente la nostra, era molto meno diverso dall’uso e pronunzia nostra e spagnuola, di quel che sia dal francese. Quindi essendo tutte tre queste ortografie formate da principio egualmente sulla latina, le due prime che poco avevano da mutarla per conformarla all’uso loro, facilmente la corressero (massime l’italiana) e ve l’uniformarono; ma la francese che avrebbe dovuto quasi trovare una nuova maniera di scrivere (essendo nella pronunzia, come in ogni altra parte, la più degenere figlia della latina), ed anche trovare in parte un nuovo alfabeto (come per le e mute ec.), fu incorrigibile.

Fra tanto queste osservazioni si debbono applicare a dimostrar con un esempio recente, quanto debbano essere state alterate le primitive lingue nell’applicarle alla scrittura e all’alfabeto o proprio o forestiero, e nella creazione della loro ortografia, e quanto poco ci possiamo fidare del modo in cui esse ci ponno essere pervenute, cioè pel solo mezzo della scrittura. (5. Giugno, vigilia del Corpus Domini. 1822.).

Alla p. 2457. marg. Qual nazione, se non dopo fatta Cristiana, non riputò per doni di Dio, e segni del favor celeste le prosperità, e per gastighi di Dio, e segni dell’odio suo le sventure? (Onde fra’ più antichi, e fra gli stessi ebrei, come i lebbrosi ec., si fuggiva con orrore l’infelice come scellerato, e quando anche non si sapesse, o non si fosse mai saputa da alcuno la menoma sua colpa, si stimava reo di qualche occulto delitto, noto ai soli Dei, e la sua infelicità s’aveva per segno certo di malvagità in lui, e se l’avevano creduto buono, vedendo una sua sciagura, credevano di disingannarsene.). Al contrario accadde nella nostra religione, la quale, se non altro, definisce per maggior favore, e segno di maggior favore di Dio l’infelicità, che la prosperità. (5. Giugno. 1822.).

Alla p. 2462. mezzo — non elementi dell’alfabeto inutili, o che esprimano più d’un suono indarno ec. come p. e. nello spagnuolo è inutile che il suono del j sia espresso anche nè più nè meno dal x avanti vocale, e dal g avanti l’e e l’i. E non solo inutile, ma in ispagnuolo produce ancor molta confusione e varietà biasimevole e inutile nel modo di scrivere una stessa parola, anche appresso un medesimo scrittore, in un medesimo libro: sebbene io credo che la moderna ortografia spagnuola (rettificata e resa più esatta, come tutte le altre, e come tutte le cose moderne) sia emendata in tutto o in parte di questi difetti, e di queste inutilità. Similmente la ç, o zedilla è un elemento inutile, e produce confusione, e varietà dannosa. ec. ec. (6. Giugno, dì del Corpus Domini. 1822.).

I greci θεῖος, gli spagnuoli Tio, gl’italiani zio, esprimendo questi col Z, quelli col T, il suono del t aspirato che nè gli uni nè gli altri hanno. Donde questa parola così necessaria e usuale e volgare in tutti i linguaggi, e usualissima e volgarissima nello spagnuolo e nell’italiano; donde, dico, e per qual mezzo può esser passata dal greco a questi volgari moderni, se non per mezzo del volgare latino, non trovandosi nel latino scritto? L’avranno forse presa gli spagnuoli e gl’italiani dal greco moderno, o da quello de’ bassi tempi (non si saprebbe con qual mezzo), e avrebbe potuto divenir usuale e volgarissima e scacciar la parola antica, una parola forestiera significante una cosa che tuttogiorno s’era nominata e si nomina? E siccome si potrebbe dubitare che alcune o tutte queste parole ch’io dimostro uniformi nel greco e ne’ nostri volgari, ci fossero derivate per mezzo del francese ne’ bassi tempi, e il francese l’avesse avute dalle colonie greche state anticamente in Francia ec. del che ho discorso altrove, notate che questo θεῖος si trova in tutti i volgari derivati dal latino, fuorchè appunto nel francese che da avunculus dice oncle. Oltre che la qualità della cosa significata da questa voce, non permetterebbe, come ho detto, ch’ella fosse passata così tardi, e potuta stabilirsi ne’ nostri volgari in luogo dell’antica denominazione; se questa, cioè, non fosse antica e antichissima. Vedi però il Forcell. il Gloss. i Diz. franc. ec. (8. Giugno 1822.). V. anche calare a cui la Crusca pone per greco χαλᾶν (9. Giugno 1822.).

Alla p. 2462. principio. Si scrivevano ancora (massime più anticamente, chè nel cinquecento la maggior dottrina dava un poco più di regola) le parole italiane o non latine in modo latino, o le parole latine (italianate) in modo non latino, e non conveniente all’italiano, come con lettere non italiane che in quelle tali parole non ci andavano neppure in latino: p. e. ymago o ymagine ec. Effetto dell’ignoranza in cui si era anco riguardo al latino e alla sua buona ortografia, (quando infatti non si sapeva di gran lunga bene nè pur la lingua latina, e i codici poi erano scorrettissimi ec. e pochi confronti s’eran potuti fare ec.) o del cattivo modo di scriver latino a quei tempi, e dell’imperfezione e infanzia dell’ortografia nostrale. Queste osservazioni serviranno a spiegare il perchè p. e. nella lingua francese, le imperfezioni dell’ortografia molte volte non paia ch’abbiano a far niente coll’ortografia latina, scrivendosi malamente anche delle parole non venute dal latino; e altre venute dal latino scrivendosi in maniera discordante così dalla buona ortografia latina, come dalla pronunzia francese. Intendo parlare delle parole francesi ch’erano in uso anche anticamente, perchè le più moderne, di qualunque origine siano, già si sa che nello scriverle s’è seguito il costume di quella tale imperfetta ortografia ch’era già stabilita. Ma la prima causa di questa imperfezione, fu secondo me, quella che ho detta, cioè la cattiva, indebita e puerile applicazione dell’ortografia latina (anch’essa in gran parte falsa e mal conosciuta, come anche la lingua latina, e cattiva) all’ortografia volgare. (10. Giugno 1822.).

Nelle annotazioni alle mie Canzoni (Canzone 6. stanza 3. verso 1.) ho detto e mostrato che la metafora raddoppia o moltiplica l’idea rappresentata dal vocabolo. Questa è una delle principali cagioni per cui la metafora è una figura così bella, così poetica, e annoverata da tutti i maestri fra le parti e gl’istrumenti principalissimi dello stile poetico, o anche prosaico ornato e sublime ec. Voglio dire ch’ella è così piacevole perchè rappresenta più idee in un tempo stesso (al contrario dei termini). E però ancora si raccomanda al poeta (ed è effetto e segno notabilissimo della sua vena ed entusiasmo e natura poetica, e facoltà inventrice e creatrice) la novità delle metafore. Perchè grandissima, anzi infinita parte del nostro discorso è metaforica, e non perciò quelle metafore di cui ordinariamente si compone risvegliano più d’una semplice idea. Giacchè l’idea primitiva significata propriamente da quei vocaboli traslati è mangiata a lungo andare dal significato metaforico il quale solo rimane, come ho pur detto l. c. E ciò quando anche la stessa parola non abbia perduto affatto, anzi punto, il suo significato proprio, ma lo conservi e lo porti a suo tempo. P. e. accendere ha tuttavia la forza sua propria. Ma s’io dico accender l’animo, l’ira ec. che sono metafore, l’idea che risvegliano è una, cioè la metaforica, perchè il lungo uso ha fatto che in queste tali metafore non si senta più il significato proprio di accendere, ma solo il traslato. E così queste tali voci vengono ad aver più significazioni quasi al tutto separate l’una dall’altra, quasi affatto semplici, e che tutte si possono omai chiamare ugualmente proprie. Il che non può accadere nelle metafore nuove, nelle quali la moltiplicità delle idee resta, e si sente tutto il diletto della metafora: massime s’ell’è ardita, cioè se non è presa sì da vicino che le idee, benchè diverse, pur quasi si confondano insieme, e la mente del lettore o uditore non sia obbligata a nessun’azione ed energia più che ordinaria per trovare e vedere in un tratto la relazione il legame l’affinità la corrispondenza d’esse idee, e per correr velocemente e come in un punto solo dall’una all’altra; in che consiste il piacere della loro moltiplicità. Siccome per lo contrario le metafore troppo lontane stancano, o il lettore non arriva ad abbracciare lo spazio che è tra l’una e l’altra idea rappresentata dalla metafora; o non ci arriva in un punto, ma dopo un certo tempo; e così la moltiplicità simultanea delle idee, nel che consiste il piacere, non ha più luogo. (10. Giugno 1822.). V. p. 2663.

Proma voce latina, feminino sustantivo di promus, è da aggiungersi al Lessico e all’Appendice del Forcellini. Il Forcellini dice: Promus i, m. (cioè mascolino) semplicemente, e non ha esempi del feminino, se non uno in aggettivo. Sta in un frammento del libro primo Œconomicorum di Cicerone, portato da Columella, e nella mia ediz. di Senofonte (Lipsiae 1804, cura Car. Aug. Thieme, ad recensionem Wellsianam) t. 4. p. 407. Vi si legge haec primo tradidimus. Errore. Leggi promae. Corrisponde al τῇ ταμίᾳ di Senofonte Οἰκονομικοῦ, c. 9. art. 10. ταῦτα δὲ τῇ ταμίᾳ παρεδώκαμεν. E che anche Cicerone l’abbia detto in femminino, e non v. g. promo, apparisce da quel che segue: eamque admonuimus etc ., cioè promam. Questo errore è anche nella mia ediz. di Columella l. 12. c. 3. (forte al. 4.) dov’è portato il detto passo. (10. Giugno 1822.).

Alla inclinazione da me più volte notata e spiegata, che gli uomini hanno a partecipare con altri i loro godimenti o dispiaceri, e qualunque sensazione alquanto straordinaria, si dee riferire in parte la difficoltà di conservare il secreto che s’attribuisce ragionevolmente alle donne e a’ fanciulli, e ch’è propria altresì di qualunque altro è meno capace o per natura o per assuefazione di contrastare e vincere e reprimere le sue inclinazioni. Ed è anche proprio pur troppe volte degli uomini prudenti ed esercitati a stare sopra se stessi, i quali ancora provano, se non altro, qualche difficoltà a tenere il segreto, e qualche voglia interna di manifestarlo (anche con danno loro), quando sono sull’andare del confidarsi con altrui, o semplicemente del conversare, o discorrere, o chiaccherare. Dico lo stesso anche di quando il segreto non è d’altrui ma nostro proprio, e quando noi vediamo che il rivelarlo fa danno solamente o principalmente a noi, e come tale, ci eravamo proposto di tacerlo, e poi lo confidiamo per isboccataggine.

Ma che anche questa inclinazione, non sia naturale nè primitiva (come pare), ma effetto delle assuefazioni, e dell’abito di società contratto dagli uomini vivendo cogli altri uomini, lo provo e lo sento io medesimo, che quanto era prima inclinato a comunicare altrui ogni mia sensazione non ordinaria (interiore o esteriore), così oggi fuggo ed odio non solo il discorso, ma spesso anche la presenza altrui nel tempo di queste sensazioni. Non per altro se non per l’abito che ho contratto di dimorar quasi sempre meco stesso, e di tacere quasi tutto il tempo, e di viver tra gli uomini come isolatamente e in solitudine. Lo stesso si dee credere che avvenga ai solitari effettivi, ai selvaggi, a quelli che o non hanno società o poca, e rara, all’uomo naturale insomma, privo del linguaggio, o con poco uso del medesimo, al muto, a chi per qualche accidente ha dovuto per lungo tempo viver lontano dal consorzio degli uomini, come naufragi, pellegrini in luoghi di favella non conosciuta, carcerati ec. frati silenziosi ec. (11. Giugno. 1822.).

Alle ragioni da me recate in altri luoghi, per le quali il giovane per natura sensibile, e magnanimo e virtuoso, coll’esperienza della vita, diviene e più presto degli altri, e più costantemente e irrevocabilmente, e più freddamente e duramente, e insomma più eroicamente vizioso, aggiungi anche questa, che un giovane della detta natura, e del detto abito, deve, entrando nel mondo, sperimentare e più presto e più fortemente degli altri la scelleraggine degli uomini, e il danno della virtù, e rendersi ben tosto più certo di qualunque altro della necessità di esser malvagio, e della inevitabile e somma infelicità ch’è destinata in questa vita e in questa società agli uomini di virtù vera. Perocchè gli altri non essendo virtuosi, o non essendolo al par di lui, non isperimentano tanto nè così presto la scelleraggine degli uomini, nè l’odio e persecuzione loro per tutto ciò ch’è buono, nè le sventure di quella virtù che non possiedono. E sperimentando ancora le soverchierie e le persecuzioni degli altri, non si trovano così nudi e disarmati per combatterle e respingerle, come si trova il virtuoso. In somma il giovane di poca virtù non può concepire un odio così vivo verso gli uomini, nè così presto, com’è obbligato a concepirlo il giovane d’animo nobile. Perchè colui trova gli uomini e meno infiammati contro di se, e meno capaci di nuocergli, e meno diversi da lui medesimo. Per lo che, non arrivando mai ad odiare fortemente gli uomini, e odiarli per massima nata e confermata e radicata immobilmente dall’esperienza, non arriva neppure così facilmente a quell’eroismo di malvagità fredda, sicura e consapevole di se stessa, ragionata, inesorabile, immedicabile ed eterna, a cui necessariamente dee giungere (e tosto) l’uomo d’ingegno al tempo stesso e di virtù naturale. (13. Giugno. 1822.).

Diciamo tuttogiorno in volgare: venir voglia a uno d’una cosa, venirgli pensiero, talento, desiderio, ec. ec. V. la Crusca e i Diz. francesi e spagnuoli. Or chi ardirebbe di dir questo in latino? Chi non lo stimerebbe un barbaro italianismo o volgarismo? Or ecco appunto una tal frase parola per parola nel poema più perfetto del più perfetto ed elegante poeta latino, e in un luogo che dovea necessariamente esser de’ più nobili, cioè nel principio e invocazione delle Georgiche: (l. 1. v. 37.) Nec tibi regnandi veniat tam dira cupido, Nè ti venga sì brutta voglia di regnare cioè nell’inferno . V. il Forcell. e il Gloss. se hanno niente al proposito. (14. Giugno. 1822.).

Dell’antica fratellanza della lingua greca colla latina, ossia della comune origine d’ambedue, e come in principio l’una non differisse dall’altra, ma fossero in Italia e in Grecia una lingua sola, vedi un bel luogo di Festo portato dal Forcellini v. Graecus in fine. (14. Giugno. 1822.).

Chi negherà che l’arte del comporre non sia oggi e infinitamente meglio e più chiaramente e distintamente considerata, svolta, esposta, conosciuta, dichiarata in tutti i suoi principii, eziandio più intimi, e infinitamente più divulgata fra gli uomini, e più nelle mani degli studiosi, e aiutata oltracciò di molto maggior quantità di esempi e modelli, che non era presso gli antichi? e massime presso quegli antichi e in quei secoli ne’ quali meglio e più perfettamente e immortalmente si scrisse? Eppure dov’è oggi in qualsivoglia nazione o lingua, non dico un Cicerone (quell’eterno e supremo modello d’ogni possibile perfezione in ogni genere di prosa), non dico un Tito Livio, ma uno scrittore che nella lingua e nel gener suo abbia tanto valore quanto n’ha qualunque non degli ottimi, ma pur de’ buoni scrittori greci o latini? E dov’è poi un numero di scrittori, non dico ottimi, ma buoni, uguale a quello che n’hanno i greci e i latini? Trovatemelo, se potete, ponendo insieme tutti i migliori scrittori di tutte le nazioni letterate, dal risorgimento delle lettere sino a oggidì. E dico buoni precisamente in quel che spetta all’arte del comporre, e del saper dire una cosa, e trattare un argomento con tutta la perfezione di quest’arte. Dico buoni quanto alla lingua loro, qualunqu’ella sia, e perfetti in essa e padroni, come fu Cicerone della latina, o come lo furono gli altri scrittori latini e greci, men grandi di Cicerone in questo e nel rimanente, ma pur buonissimi e classici. Dico buoni in questo senso, giacchè non entro nell’arte del pensare, ec. E quel che dico de’ prosatori, dico anche de’ poeti, colle stesse restrizioni, e quanto al modo di trattare e significare le cose immaginate: chè l’invenzione e l’immaginazione in se stesse e assolutamente considerate, appartengono a un altro discorso.

Fatto sta che oggi tutti sanno come vada fatto, e niuno sa fare. Niuno sa fare perfettamente, e pochissimi passabilmente. E gli ottimi scrittori moderni di qualunque lingua o tempo, appena si possono paragonare all’ultimo de’ buoni antichi. O se gli agguagliano in qualche parte o qualità, o se anche li vincono, sottostanno loro grandemente in altre parti, e nell’effetto dell’insieme, e nel complesso delle qualità spettanti all’arte del ben comporre, e ben enunziare i propri sentimenti, e formare un discorso. Siccome per l’opposto non è sì mediocre scolare di rettorica, il quale abbia pur letto la rettorica del Blair, e non ne sappia, quanto al modo e alla ragione del ben comporre, più di Cicerone.

Tant’è. Secondo l’osservazion del Democrito Britanno Bacon da Verulamio tutte le facoltà ridotte ad arte steriliscono, perchè l’arte le circonscrive . ( Gravina, Della Tragedia, cap. 40. p. 70. principio.). L’arte si trova sempre e perfezionata (ovvero inventata e formata), e divulgata e conosciuta da tutti, in quei tempi nei quali meno si sa metterla in pratica. A tempo d’Aristotele non v’erano grandi poeti greci: l’eloquenza romana era già spirata a tempo di Quintiliano (il quale forse, in quanto al modo di fare, se n’intendeva più di Cicerone). Lo stesso saper quel che va fatto è cagione che questo non si sappia fare. Anche qui si verifica che il troppo è padre del nulla, e che il voler fare è causa di non potere, ec. ec. Gli scrupoli, i dubbi, i timori di cader ne’ difetti già ben conosciuti ec. ec. legano le mani allo scrittore, e i più se ne disperano, e non seguendo nè i precetti dell’arte, nè essendo più a tempo di seguir la natura propria già in mille modi distorta, stravolta, e alterata dall’arte, scrivono, come vediamo, pessimamente, benchè sappiano ottimamente quel che s’abbia da fare a scriver bene. (15. Giugno. 1822.).

Quanto prevaglia nell’uomo la materia allo spirito, si può considerare anche dalla comparazione dei dolori. Perocchè i dolori dell’animo non sono mai paragonabili ai dolori del corpo, ragguagliati secondo la stessa proporzione di veemenza relativa. E sebben paia molte volte a chi è travagliato da grave pena dell’animo, che sarebbe più tollerabile altrettanta pena nel corpo; l’esperienza ragguagliata dell’una e dell’altra può convincere facilmente chiunque sa riflettere che tra’ dolori dell’animo e quelli del corpo, supponendoli ancora, relativamente, in un medesimo grado, non v’è alcuna proporzione. E quelli possono esser superati dalla grandezza o forza dell’animo, dalla sapienza ec. (lasciando stare che il tempo consola ogni cosa), ma questi hanno forza d’abbattere e di vincere ogni maggior costanza. (15. Giugno 1822.).

Molto ragionevolmente s’ammira la ritirata dei diecimila greci, eseguita per lunghissimo tratto d’un immenso paese nemico, e impegnato invano ad impedirla; dal core del regno, a’ suoi ultimi confini. ec. Or che si dovrà dire di una non ritirata, ma conquista di un regno anch’esso immenso, qual era quello del Messico, eseguita non da diecimila, ma da mille, o poco più spagnuoli, e in tanta maggior lontananza dal loro paese, e questa, di mare, ec. ec.? Quanto più corre il tempo, tanto più cresce la differenza ch’è tra uomini e uomini, e la superiorità degl’inciviliti sui barbari. Non erano così differenti i Persiani dai greci, benchè differentissimi, nè così inferiori, benchè sommamente inferiori, quanto i Messicani (benchè non privi nè di leggi, nè di ordini cittadineschi e sociali, nè di regolato governo, nè anche di scienza politica e militare ridotta a certi principii) per rispetto degli spagnuoli. E principalmente nelle armi, i Persiani e i greci non differivano gran cosa, laddove gli spagnuoli dai Messicani moltissimo. E così rispettivamente nella Tattica. (16. Giugno. Domenica. 1822.).

N. N. diceva che gli ossequi ec. e i servigi interessati rade volte conseguiscono l’intento loro, perchè gli uomini sono facili a ricevere e difficili a rendere. (tutti ricevono volentieri, e rendono mal volentieri e poco.) Ma eccettuava da questo numero quelli che i giovani prestano talvolta alle vecchie ricche o potenti. E soggiungeva che non v’ha lusinghe, ossequi o servigi meglio collocati di questi, nè che più facilmente e più spesso ottengano il loro fine. (17. Giugno. 1822.).

Grazia dal contrasto. La medesima insipidezza o del carattere, o delle maniere, o de’ discorsi, o degli scherzi, sentimenti ec. in una persona bella, fa molte volte effetto, ed è un charme tanto nelle donne rispetto agli uomini, come viceversa. La stessa rozzezza, o una certa poca delicatezza di modi ec. è spesse volte e per molti graziosa e attraente in una persona di forme delicate ec. (17. Giugno. 1822.).

Ho discorso altre volte della ferocia cagionata nell’uomo virtuoso, nel giovane, ec. dalla risoluzione di commettere a occhi aperti un primo delitto. Ho anche ragionato del danno involontariamente recato dal Cristianesimo e dallo stabilimento e perfezionamento della morale, stante che gli uomini (sempre inevitabilmente cattivi) operando oggi più chiaramente e decisamente contro coscienza, sono peggiori degli antichi, e calpestando il timore che hanno de’ gastighi dell’altra vita, ne divengono più feroci e più terribili nel malfare, come persone condannate e disperate, ec. Aggiungo che l’uomo il quale per la prima volta s’è risoluto a commettere un delitto, ha dovuto con gran fatica e pena trionfare della propria coscienza, e delle proprie abitudini: e si trova allora nell’atto di aver riportato questo trionfo. Il che è cagione di una gran ferocia, simile a quella che dicono del leone, o d’altra tal bestia salvatica, che va in furore, ed è più che mai terribile appena ch’ell’ha gustato, o veduto il sangue d’altro animale. Perocchè l’uomo in quel punto è come sparso e macchiato di sangue, cioè omicida della propria coscienza. E generalmente l’esecuzione di qualunque proposito è tanto più efficace ed energica ed infiammata ed avventata e pronta, quanto la risoluzione è stata più faticosa e difficile, e quanta maggior pena e contrasto è costato a formarla. Perocchè l’uomo teme di pentirsi, e s’avventa nell’esecuzione, come fuggendo con grand’impeto e fretta e spavento dal proprio pensiero, che dandogli luogo a discorrere ancora, potrebbe distorlo, o precipitarlo di nuovo nell’irresoluzione, che l’uomo teme e odia naturalmente, e ch’è uno de’ principali travagli dell’animo. Massime quando l’effetto della risoluzione (o sia il piacere, o sia l’utile, o sia la vendetta, o sia la soddisfazione di qualsivoglia passione umana) lo tira e lo invita gagliardamente, ed egli teme che il proprio pensiero gl’impedisca di cercarlo e di conseguirlo, e d’altra parte desidera vivamente di non perderlo, e non privarsene per proprio difetto. (17. Giugno. 1822.).

I francesi non hanno poesia che non sia prosaica, e non hanno oramai prosa che non sia poetica. Il che confondendo due linguaggi distintissimi per natura loro, e tutti due propri dell’uomo per natura sua, nuoce essenzialmente all’espressione de’ nostri pensieri, e contrasta alla natura dello spirito umano: il quale non parla mai poeticamente quando ragiona coll’animo riposato ec. come par che sieno obbligati di fare i francesi, se vogliono scrivere in prosa che sia per loro elegante e spiritosa ed ornata ec. (19. Giugno. 1822.).

Quanto sia vero che i talenti in gran parte son opera delle circostanze, vedasi che ne’ paesi piccoli è infinitamente maggiore che ne’ grandi, il numero delle persone di grado agiato e comodo e (negli altri luoghi) colto e civile, che non hanno il senso comune, e da’ quali non si può fidare l’esecuzione o il maneggio del menomo affare ec. Lo stesso dico proporzionatamente delle città meno grandi, rispetto alle più grandi, delle meno colte o socievoli rispetto alle più colte, delle capitali dove tutti son obbligati a conversare, a trattar negozi ec. rispetto alle città di provincia ec. (19. Giugno. 1822.).

Alla p. 2402. Qualunque inferiorità o svantaggio abbia un uomo o rispetto agli altri, o rispetto a qualcuno in particolare, l’unico rimedio è dissimularlo arditamente, costantemente e ostinatamente. E questo è ancora l’unico mezzo, se lo svantaggio e il male è compassionevole, e se pur si trova in alcuno la compassione, d’esserne compatito. Chi lo confessa per qualunque cagione, o perchè creda non poterlo dissimulare (ch’è falso, ancor che sia visibile, o notissimo, o in qualunque guisa manifesto), o per altro, e con ciò crede di guadagnar compassione, e pensa che negandolo o proccurando di nasconderlo, e mostrando di non avvedersene, gli altri lo debbano maggiormente disprezzare e deridere, e non compatire, s’inganna a partito, che anzi questo è il modo sicuro d’esserne disprezzato e deriso. L’uomo non lascia per qualunque cagione di profittare del vantaggio ch’egli ha sopra gli altri uomini, o sopra un tal uomo, se questi non fa grandissima forza perchè gli altri, quanto è possibile, non s’accorgano o ricordino del suo svantaggio, o non se ne possano profittare. E perciò dev’egli operare e portarsi sempre come se quello svantaggio non esistesse, o come s’egli non se n’avvedesse, e mostrare affatto di non sentirlo; e proccurare anche di far quelle cose che più si disdicono ec. a’ suoi pari rispetto al detto svantaggio. Quanto sono maggiori gli svantaggi che s’hanno, tanto più bisogna che l’individuo stia per se stesso. Perocchè gli altri uomini non istaranno mai per lui, e quel che desiderano e vogliono principalmente si è ch’egli si confessi loro inferiore. Il che dev’egli sempre fermamente ricusare. (21. Giugno 1822.).

Ho detto altrove del καλὸς κᾄγαθὸς de’ greci, come dimostri il sentimento e la forza ch’aveva in quella nazione la bellezza, e la sublimità che le attribuivano, pigliandola per parte e nome di virtù. Aggiungi l’uso della loro lingua di chiamar καλὰ tutte le cose buone, oneste, virtuose, utili. V. fra gli altri, Senof. Ἀπομν. β. γ'. κεφ. η'.. Alla immaginazione degl’italiani (come le sopraddette cose a quella de’ greci) si deve sotto lo stesso aspetto attribuire l’uso che fanno delle parole significanti la grazia esterna per dinotare la probità, onestà, bontà ec. de’ costumi: uomo di garbo, galant uomo. (21. Giugno. 1822.).

Quel che si dice, ed è verissimo, che gli uomini per lo più si lasciano governare dai nomi, da che altro viene se non da questo che le idee e i nomi sono così strettamente legati nell’animo nostro, che fanno un tutt’uno, e mutato il nome si muta decisamente l’idea, benchè il nuovo nome significhi la stessa cosa? Splendido esempio ne furono i romani, esecratori del nome regio, i quali non avrebbero tollerato un re chiamato re, e lo tollerarono chiamato imperatore, dittatore, ec. e dichiarato inviolabile (cosa nuova) col nome vecchio della potestà tribunizia. E che non avrebbero tollerato un re così detto, si vede. Perocchè Cesare il quale, bench’avesse il supremo comando, pur sospirava quel nome, non parendoli essere re, se non fosse così chiamato, (e ciò pure per la sopraddetta qualità dell’animo nostro, bench’egli fosse spregiudicatissimo), fattosi offerire la corona da Antonio ne’ Lupercali, fu costretto rigettarla esso stesso da’ tumulti ed esecrazioni di quel popolo già vinto e schiavo, e che poi chiamato di nuovo alla libertà, non ci venne. E gl’imperatori che furono dopo, e che da principio (cioè finchè il nome d’imperatore non fu divenuto anche nella immaginazion loro e del popolo, lo stesso e più che re) ebbero lo stesso desiderio di Cesare, non crederono che quel popolo domo si potesse impunemente ridurre a sostenere il nome di re, benchè non dubitarono di fargli avere un re e di fargli tollerare ed anche amare la cosa significata da questo nome. (22. Giugno. 1822.).

Alla p. 2414. fine. Tutti gli uomini e tutti gli animali amano se stessi nè più nè meno secondo la misura ed energia della loro vitalità. Quindi non mi par più vero quel ch’io dico altrove, che la quantità dell’amor proprio sia precisamente uguale in ciascun vivente. Perocchè le diverse specie di viventi, e i diversi individui d’una medesima specie, e questi medesimi individui in diversi tempi e circostanze hanno relativamente diverse somme di vitalità. Come altre specie hanno più spiriti, altre meno. E fra queste l’umana ne ha più di tutte. Ma fra gli uomini altri n’hanno più, altri meno: ed anche naturalmente questi nasce con più, questi con meno talento.

Di più l’amor proprio essendo una qualità del vivente, e queste qualità, come ho provato in più luoghi, essendo disposizioni, e queste disposizioni conformabili, e che possono fruttificare e produrre delle facoltà, e questo massimamente nell’uomo, ne segue che l’amor proprio, specialmente nell’uomo, è conformabile e coltivabile come le altre qualità. Anzi tanto più quanto egli abbraccia tutte le qualità dell’animo del vivente. Quindi anche l’amor proprio fa progressi, come ne fa lo spirito umano, ed è maggiore non solo in una specie o individuo naturalmente più vivo e sensitivo, ma anche in un individuo colto rispetto ad uno non colto, in un secolo colto rispetto ad un altro meno colto, in una nazione civile rispetto a una barbara, e in uno individuo medesimo, è maggiore dopo lo sviluppo delle sue qualità o disposizioni sensitive, sentimento, vitalità, ingegno, è maggiore, dico, che non era prima.

E siccome ho provato che l’infelicità dell’animale è sempre in ragion diretta dell’attività del suo amor proprio, così resta chiaro, e perchè l’uomo sia naturalmente meno felice degli altri animali, e perchè a misura ch’egli s’incivilisce, il che accresce di mano in mano l’attività dell’amor proprio, egli divenga ogni giorno più infelice, necessariamente, e quasi per legge matematica.

Che poi l’amor proprio sia conformabile, coltivabile, modificabile, sviluppabile, suscettivo d’incremento, e di maggiore o minore attività e influenza, si farà chiaro considerando l’amor proprio, come una passione. E infatti lo è, anzi non v’è passione che non sia amor proprio, e tutte sono un effetto suo non distinto dalla causa, e non esistente fuor di lei, la quale opera ora così, e si chiama superbia, ora così, e si chiama ira, ed è sempre una passione sola, primitiva, essenziale. Dimodo che le passioni sono piuttosto azioni ch’effetti dell’amor proprio, cioè non sono figlie sue in maniera che ne ricevano un’esistenza propria, e separata o separabile da lui.

Or p. e. l’ira o l’impazienza del proprio male, non è ella modificabilissima e diversissima, non solo in diverse specie, o individui, ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e coll’assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni parte di questa proposizione). Fate che questo medesimo non abbia mai provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla prosperità, o supponete in una di queste due circostanze un altro individuo, e sia egli di natura mansuetissima. Ogni menomo male lo pone in impazienza. Or qual effetto più sostanziale dell’amor proprio, che l’impazienza del male di questo sè che si ama? E pur questa impazienza è maggiore e minore secondo le nature, le specie, gl’individui, e le circostanze e le assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l’amor proprio del qual essa è opera. (22. Giugno. 1822.).

Intorno al suicidio. È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i teologi, si possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia lecito d’essere infelice contro natura (che non avea fatto l’uomo infelice), e non sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un modo contro natura, essendo questo l’unico possibile, dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa natura, e così irreparabilmente. (23. Giugno. 1822.).

Il fatto sta così e non si può negare. La somma della moralità pratica era ed è tanto maggiore presso gli antichi, i pagani, i selvaggi, che presso i moderni, i Cristiani, gl’inciviliti, quanto la somma della morale teorica, e la perfetta cognizione, definizione, analisi e propagazione della medesima è maggiore presso questi che presso quelli. E nella stessa proporzione si deve discorrere anche oggidì de’ Cristiani più rozzi, e meno (o più confusamente) istruiti de’ doveri sociali ed umani, per rispetto alla gente più colta e addottrinata ne’ medesimi doveri. (24. Giugno dì di S. Gio. Battista. 1822.).

Nè il titolo di filosofo nè verun altro simile è tale che l’uomo se ne debba pregiare, nemmeno fra se stesso. L’unico titolo conveniente all’uomo, e del quale egli s’avrebbe a pregiare, si è quello di uomo. E questo titolo porterebbe che chi meritasse di portarlo, dovesse esser uomo vero, cioè secondo natura. In questo modo e con questa condizione il nome d’uomo è veramente da pregiarsene, vedendo ch’egli è la principale opera della natura terrestre, o sia del nostro pianeta, ec. (24. Giugno. dì del Battista. 1822.).

L’amor proprio, il quale, come ho dimostrato più volte, è necessaria o quasi necessaria sorgente d’infelicità, era però (oltre l’essere una essenziale conseguenza e parte dell’esistenza sentita e conosciuta dall’esistente) necessario ancora e indispensabile alla felicità. Come si può dare amor della felicità senz’amor di se stesso? anzi questi due amori sono precisamente una cosa sola con due nomi. E come si potrebbe dar felicità senza amor di felicità? Giacchè l’animale non può godere e compiacersi di quel che non ama. Dunque non amando la felicità, non potrebbe goderla nè compiacersene. Dunque quella non sarebbe felicità, ed egli non la potrebbe provare. Dunque l’animale, se non amasse se stesso, non potrebbe esser felice, e sarebbe essenzialmente incapace della felicità, e in disposizione contraddittoria colla natura di essa. Quindi si deve scusar la natura, e riconoscere che sebbene l’amor proprio produce necessariamente l’infelicità (maggiore o minore), la natura non ha però sbagliato nell’ingenerarlo ai viventi, essendo necessario alla felicità, e però il suddetto inconveniente era inevitabile come tanti altri, e deriva come tanti altri da una cosa ch’è un bene, e fatta per bene. (24. Giugno. 1822.).

Quanto sia vero che l’amor proprio è cagione d’infelicità, e che com’egli è maggiore e più attivo, maggiore si è la detta infelicità, si dimostra per l’esperienza giornaliera. Perocchè il giovane non solo è soggetto a mille dolori d’animo, ma incapace ancora di godere i maggiori beni del mondo, e di goderli e desfrutarlos più che sia possibile, e nel miglior modo possibile, finchè il suo amor proprio, a forza di patimenti, non è mortificato, incallito, intormentito. Allora si gode qualche poco. Cosa osservata. Com’è anche osservatissimo che l’uomo è tanto più infelice quanto ha più e più vivi desiderii, e che l’arte della felicità consiste nell’averne pochi e poco vivi ec. (Ch’è appunto la cagione per cui il giovane nel predetto stato, con un ardore incredibile che lo trasporta verso la felicità, con la maggior forza possibile per poter gustare e sostenere i piaceri e anche fabbricarseli coll’immaginazione, proccurarseli coll’opera ec.; in un’età a cui tutto sorride, e porge quasi spontaneamente i diletti; contuttochè sia privo del disinganno, e però veda le cose sotto il più bell’aspetto possibile, e di più essendo nuovo e inesperto dei piaceri, sia ancor lontano e ben difeso dalla sazietà, e capace di dar peso a ogni godimento, non gode mai nulla, e pena più d’ogni altro, e si sazia più presto; e tanto più quanto egli è più vivo [così spesso il Casa] e sensitivo ec., e quindi per necessità più amante di se stesso.) Ora la misura dei desiderii, la loro copia vivezza ec. è sempre in proporzione della misura, vivezza, energia, attività dell’amor proprio. Giacchè il desiderio non è d’altro che del piacere, e l’amor della felicità non è altro che il desiderio del piacere, e l’amor della felicità non è altro che l’amor proprio. (24. Giugno. 1822.). V. p. 2528.

Quindi osservate che tutto quanto si dice dell’amor proprio si deve anche intendere dell’amor della felicità ch’è tutt’uno (v. p. 2494.). E però la misura, la forza, l’estensione, le vicende, gl’incrementi, gli scemamenti, tanto individuali che generali, dell’uno di questi amori, son comuni all’altro nè più nè meno. (24. Giugno. 1822.).

L’antichissima e propria significazione del verbo pareo, in luogo di cui vennero poi in uso i suoi composti adpareo, compareo ec. s’è conservata in uso familiarissimo e frequentissimo presso gl’italiani e gli spagnuoli (parere, parecer, si pare ec.). Per qual mezzo, se non del volgare antico latino? V. il Forc. e il Gloss. Così i francesi paroître, o paraître ec. (25. Giugno. 1822.).

Ho detto altrove che il timore è la più egoistica passione dell’uomo sì naturale e sì civile. Così anche degli altri animali. Ed è ben dritto, perocchè l’oggetto del timore pone in pericolo (vero o creduto) l’esistenza o il ben essere di quel sè che il vivente ama per propria essenza sopra ogni cosa. L’uomo il più sensibile per abito e per natura, il più nobile, il più affettuoso, il più virtuoso, occupato anche attualmente, poniamo caso, da un amore il più tenero e vivo, se con tutto ciò è suscettibile del timor violento, trovandosi in un grave pericolo (vero o immaginato) abbandona l’oggetto amato, preferisce (e dentro se stesso e coll’opera) la propria salvezza a quella di quest’oggetto, ed è anche capace in un ultimo pericolo di sacrificar questo oggetto alla propria salute, dato il caso che questo sacrifizio (in qualunque modo s’intenda) gli fosse, o gli paresse dovergli esser giovevole a scamparlo. Tutti i vincoli che legano l’animale ad altri oggetti, o suoi simili o no, si rompono col timore. (26. Giugno 1822.).

L’estrema possibile semplicità o naturalezza dello stile, dello scrivere o del parlar francese civile, è sempre di quel genere ch’essi medesimi (in altre occasioni) chiamano maniéré. Anche il Salvini lo chiama ammanierato . V. la definizione di maniéré ne’ Diz. francesi, dove lo diffiniscono per un’abitudine viziosa che deforma tutto, e fa proprio al caso. V. p. e. il Tempio di Gnido, e le Favole di La Fontaine. (26. Giugno 1822.).

Ho assegnato altrove come principio d’infinite e variatissime qualità dell’animo umano (p. e. l’amor delle sensazioni vivaci) l’amor della vita. Questo amore però è non solo necessaria conseguenza, ma parte, ovvero operazione naturale dell’amor proprio, il quale non può non essere amore della propria esistenza, se non quando quest’esistenza è divenuta una pena. Ma ciò non in quanto esistenza, chè l’esistenza in quanto esistenza, è per natura eternamente amata sopra ogni cosa dall’esistente. Perocchè tanto è amar la propria esistenza in quanto esistenza, quanto è amar se stesso. E sarebbe una contraddizione quasi impossibile a concepirsi, che l’esistenza non fosse amata dall’esistente; e quindi che in certo modo l’esistenza fosse odiata dall’esistenza, e combattuta dall’esistenza, e contraria all’esistenza, o anche semplicemente non cara e non gradita a se stessa, nemmeno inquanto se stessa. (26. Giugno. 1822.).

Alla p. 2405. Un corollario si può tirare molto ragionevolmente dal vedere che le scritture orientali mancano per lo più delle vocali. Ed è che quelle lingue fossero le prime ad esser coltivate, la scrittura orientale la prima ad essere inventata (appunto perchè più imperfetta, e similmente si potrebbe dire della struttura ec. delle loro lingue), le letterature orientali le prime a nascere, e in somma l’oriente il primo ad esser civilizzato, e quindi probabilmente il primo ad esser popolato, e ridotto alla società ec. Confermando con questa, le altre prove che già s’hanno delle dette proposizioni, e dell’origine che il genere umano ha dall’oriente. (26. Giugno. 1822.).

Per qual cagione il barbarismo reca inevitabilmente agli scritti tanta trivialità di sapore, e ripugna sì dirittamente all’eleganza? Intendo per barbarismo l’uso di parole o modi stranieri, che non sieno affatto alieni e discordi dall’indole della propria lingua, e degli orecchi nazionali, e delle abitudini ec. Perocchè se noi usassimo p. e. delle costruzioni tedesche, o delle parole con terminazioni arabiche o indiane, o delle congiugazioni ebraiche o cose simili, non ci sarebbe bisogno di cercare perchè questi barbarismi ripugnassero all’eleganza, quando sarebbero in contraddizione e sconvenienza col resto della favella, e cogli abiti nazionali. Ma intendo di quei barbarismi quali sono p. e. nell’italiano i gallicismi (cioè parole o modi francesi italianizzati, e non già trasportati p. e. colle stesse forme e terminazioni e pronunziazioni francesi, chè questo pure sarebbe fuor del caso e della quistione). E domando perchè il barbarismo così definito e inteso, distrugga affatto l’eleganza delle scritture.

Certo è che non ripugna alla natura nè delle lingue, nè degli uomini, nè delle cose, e non è contrario ai principii eterni ed essenziali dell’eleganza, del bello ec. che gli uomini di una nazione esprimano un certo maggiore o minor numero d’idee con parole e modi appresi e ricevuti da un’altra nazione, che sia seco loro in istretto e frequente commercio, com’è appunto la Francia rispetto a noi (ed anche agli altri europei) per la letteratura, per le mode, per la mercatura eziandio, e generalmente per l’influenza che ha la società e lo spirito di quella nazione su di tutta la colta Europa. Torno a dire che questo non ripugna naturalmente al bello, se quelle voci e modi non sono di forma assolutamente discorde e ripugnante alle forme della propria lingua. E tale si è appunto il caso nostro. Bisogna dunque cercare un’altra cagione fuori della natura generale e immutabile, perchè questo barbarismo distrugga sensibilmente l’eleganza, e non possa stare seco lei. Egli è pur certo, e tutti i maestri dell’arte l’insegnano e raccomandano, e io l’ho spiegato e dimostrato altrove, che non solo il pellegrino giova all’eleganza, ma questa non ne può fare a meno, e non viene da altro se non da un parlare ritirato alquanto (più o meno) all’uso ordinario, sia nelle parole, sia ne’ loro significati, sia ne’ loro accoppiamenti, nelle metafore, negli aggiunti, nelle frasi, nelle costruzioni, nella forma intera del discorso ec. Or come dunque il barbarismo, ch’è un parlar pellegrino, il barbarismo dico, quando anche non ripugni dirittamente, anzi punto, all’indole generale e all’essenza della lingua, nè all’orecchio e all’uso de’ nazionali, in luogo di riuscirci elegante, ci riesce precisamente il contrario, e incompatibile coll’eleganza? Ecco com’io la discorro.

I primi scrittori e formatori di qualsivoglia lingua, e fondatori di qualsivoglia letteratura, non solo non fuggirono il barbarismo, ma lo cercarono. V. Caro, Apologia, p. 23-40. cioè l’introduzione del Predella. Tolsero voci e modi e forme e metafore e maniere di stile e costruzioni ec. (e questo in gran copia) dalle lingue madri, dalle sorelle, e anche dalle affatto aliene, massimamente se a queste, benchè aliene, apparteneva quella letteratura sulla quale essi si modellavano, e dalla quale venivano derivando e imparavano a fabbricar la loro. Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione, e in particolare di provenzalismi (che vengono ad essere appunto presso a poco i gallicismi, tanto abominevoli oggidì); de’ quali abbondano parimente gli altri trecentisti, e i ducentisti ec. Di barbarismi abbonda Omero, com’è bene osservato dagli eruditi: di barbarismi Erodoto: di barbarismi i primi scrittori francesi ec.

E non è mica da credere nè che questi barbarismi de’ primi e classici scrittori, fossero, a quei tempi, comuni nella loro nazione, ed essi scrittori si lasciassero strascinar dall’uso corrente; ne che gli usassero e introducessero per solo bisogno, o per arricchir la loro lingua di parole e modi economicamente utili. Gli usarono, come si può facilmente scoprire, per espresso fine di essere eleganti col mezzo di un parlar pellegrino, e ritirato dal volgare. E sebben furono costretti, volendo essere intesi, a usar gran parte delle voci e modi correnti, e formarne il corpo della loro scrittura, pur molto volentieri e con predilezione s’appigliarono quando poterono alle voci e modi forestieri, per parlare alla peregrina, e per dare al loro modo di dire un non so che di raro, ch’è insomma l’eleganza. E p. e. di Dante, si vede chiaramente ch’egli si studiò di parlare a’ suoi compatrioti co’ modi e vocaboli provenzali, a cagione che la nazion provenzale era allora la più colta, ed aveva una specie di letteratura, abbastanza nota in Italia, e che rendeva la lingua provenzale così domestica agl’italiani colti, che le sue parole o frasi, italianizzandole, non erano enigmi per loro, e così poco volgare che le dette voci e frasi non erano ordinariamente nella loro bocca (come non lo sono ora le latine che p. e. i poeti derivano di nuovo nell’italiano, e che tutti intendono), nè in quella del popolo: il quale però eziandio era sufficientemente disposto ad intenderle (senza perdere il piacere del pellegrino) a causa delle canzoni provenzali, amorose ec. ch’andavano molto in giro, e si cantavano ec. Or dunque da queste canzoni, e dalla letteratura e dalla lingua provenzale tirò Dante molte voci e modi per essere elegante: e ci riuscì allora; e con tutti questi che oggi si chiamerebbero barbarismi, sì egli, come Omero, e tali altri scrittori primitivi, s’hanno da per tutto per classici, e taluni per eleganti; o se s’hanno per ineleganti, viene piuttosto dall’arcaismo che dal barbarismo.

In somma il barbarismo, quando è veramente un parlar pellegrino, e che non ripugna ec. come sopra, e che s’intende, è sempre (da qualunque lingua sia tolto, rispetto alla lingua propria) non solo compatibile coll’eleganza, ma vera fonte di eleganza.

Cresciuta, formata, stabilita la lingua, e la letteratura di una nazione, interviene le più volte, che introducendosi il commercio fra questa ed altre lingue e letterature, parte l’uso, e l’assuefazione di udire voci e modi forestieri, parte la necessità di riceverne insieme cogli oggetti coi libri coi gusti cogli usi colle idee che da’ forestieri si ricevono, parte l’amor delle cose straniere e la sazietà delle proprie, ch’è naturale a tutti gli uomini sempre inclinati alla novità (v. Omero Odiss. 1. v. 351-2.), parte fors’anche altre cagioni riempiono la favella nazionale di voci e modi forestieri in guisa che appoco appoco, dimenticate o disusate le voci e maniere proprie, divien più facile il parlare e lo scrivere con quelle de’ forestieri, che s’hanno più alla mano, e s’usano più giornalmente, e più familiarmente. Ed ecco un’altra volta introdotto il barbarismo nella lingua e letteratura nazionale, ma per tutt’altra cagione e fine, e con tutt’altro effetto che l’eleganza e l’arricchimento loro. Quanto all’arricchimento, questo è il punto in cui la lingua nazionale comincia a scadere e scemare sensibilmente, e impoverirsi, e indebolirsi fino al segno che dimenticate e antiquate la maggiore o certo grandissima parte delle sue voci e modi, e anche delle sue facoltà, ella non ha più forza nè capacità di supplire ai bisogni del linguaggio, e di fornire un discorso del suo, senza ricorrere al forestiero. (E la nostra lingua è già vicina a questo segno, non solo per le ricchezze proprie ch’avrebbe dovuto venire acquistando, e non l’ha fatto, ma anche per quelle infinite ch’aveva già, ed ha perdute, e molte irrecuperabilmente). E così dico della letteratura.

Quanto poi all’eleganza, quelle voci e modi, non essendo più pellegrini, non sono più eleganti. Anzi non c’è cosa più volgare e ordinaria di quelle voci e modi forestieri. Come accade appunto in Italia oggidì, che non si può nè parlare nè scrivere in un italiano più volgare e corrente, che parlando e scrivendo in un italiano alla francese. Il che è ben naturale e conseguente, secondo le cagioni che ho assegnate, le quali introducono questo secondo barbarismo in una lingua. Perocchè esse l’introducono ed influiscono direttamente, non negli scritti de’ grandi letterati e degli uomini di vero e raffinato buon gusto (come ho detto di quel primo barbarismo) ma nella favella quotidiana, e da questa passa il barbarismo nei libri degli scrittorelli che non istudiano, non sanno, non conoscono, e neanche cercano, nè si vogliono affaticare ad indagare altra lingua da quella che son soliti di parlare, e sentire a parlar giornalmente, e non si saprebbero esprimere in altro modo, nè possiedono altre voci e forme di dire. Di più seguono ed approvano (secondo il poco e stolto loro giudizio) l’uso corrente, la moda ec. ed accattano l’applauso e la lode del volgo, e si compiacciono di quella misera novità, e vogliono passar per autori alla moda: così che oltre all’ignoranza, li porta al barbarismo anche la volontà, ed il cattivo loro giudizio; e l’esempio gli strascina ec. Di più formandosi a scrivere sui soli o quasi soli libri stranieri divulgati nella loro nazione, non conoscono altre voci, frasi, e maniere di stile, che quelle di que’ libri, o non si vogliono impazzire a scambiarle coll’equivalenti nazionali, che non hanno punto alla mano. E così imbrattano sempre più la lingua e letteratura nazionale di cose forestiere, anche oltre all’uso della favella ordinaria de’ loro compatrioti.

Introdotto così, e fondato e propagato in una lingua il barbarismo per la seconda volta, la stessa sua propagazione lo rende inelegante al contrario della prima volta. Perocchè allora la lingua volgare non è quella che si chiama così e ch’è veramente nazionale, ma è quella barbara e maccheronica che si parla e scrive ordinariamente, e però chi scrive alla forestiera, scrive volgarissimo, e quindi inelegantissimo. Dov’è da notare che allora il barbarismo non è contrario all’eleganza come forestiero: chè anzi il forestiero bene inteso da’ nazionali, e non affettato, è sempre elegante. Ma per l’opposto è inelegante come volgare.

E laddove la prima volta, quand’esso non era volgare, riusciva elegante, e più elegante di quel ch’era nazionale, questa seconda volta il puro nazionale riesce molto più elegante del forestiero, non già come puro nè come nazionale (chè queste qualità non furono mai cagione di eleganza), ma come non volgare, come ritirato dall’uso corrente e domestico, come proprio oramai de’ soli scrittori, e questi anche pochi.

Ecco che la purità della favella è divenuta quasi sinonimo dell’eleganza della medesima: e questo con verità e con ragione, ma non per altro, se non perch’essa purità è divenuta pellegrina.

Così quelle voci e modi che una volta perchè familiari alla nazione non erano eleganti, anzi fuggite dagli scrittori di stil nobile ed elevato, o che tali pretendevano di essere; divengono già elegantissime e graziosissime perchè da una parte si riconoscono ancora facilmente per nazionali, e quindi sono intese subito da tutti, come per una certa memoria fresca, e non riescono affettate, dall’altra parte non sono più correnti nell’uso quotidiano. E così anche le parole e maniere una volta trivialissime e plebee nella nazione, aspirano all’onor di eleganti, e lo conseguiscono, come si potrebbe mostrare per mille esempi di voci e frasi individue.

In somma oggi, p. e. fra noi, chi scrive con purità, scrive elegante, perchè chi scrive italiano in Italia scrive pellegrino, e chi scrive forestiero in Italia scrive volgare.

Dal che si deve abbatter l’errore di quelli che pretendono che v’abbia principii fissi ed eterni dell’eleganza. V. la pag. 2521. sulla fine. Non v’ha principio fisso dell’eleganza, se non questo (o altro simile) che non si dà eleganza senza pellegrino. Come non v’ha principio eterno del bello se non che il bello è convenienza. Ma come è mutabile l’idea della convenienza, così è variabile il pellegrino, e quindi è variabile l’eleganza reale, effettiva e concreta, benchè l’eleganza astratta sia invariabile. Nè purità nè altra tal qualità delle parole o frasi, sono principii certi ed eterni dell’eleganza d’esse voci o frasi individue. Ineleganti una volta, divengono poi eleganti, e poi di nuovo ineleganti, secondo ch’esse sono o non sono pellegrine, giusta quelle tali condizioni del pellegrino, stabilite di sopra.

Queste verità sono confermate dalla storia di qualunque letteratura e lingua. La purità dell’Atticismo non divenne un pregio nell’idea de’ greci, nè fu sinonimo d’eleganza presso loro, se non dopo che i greci ebbero a udire ed usare familiarmente voci e frasi forestiere. Omero, Erodoto, Senofonte medesimo (specchio d’Atticismo) erano stati elegantissimi con voci e frasi forestiere, poco usate da’ greci de’ loro tempi; anzi per mezzo appunto d’esse voci e frasi, fra l’altre cose. Non si pregia la purità, nè anche si nomina, se non dopo la corruzione, cioè quand’essa è pellegrina. E prima della corruzione si pregia il forestiero perchè pellegrino. Ennio, Plauto, Terenzio, Lucrezio ec. specchi della eleganza latina, son pieni di grecismi, cioè di barbarismi. Al tempo di Cicerone, di Orazio, e molto più di Seneca, di Frontone ec. che l’Italia parlava già mezzo greco, erano sorti i zelanti della purità, e il grecismo lodato in Plauto e in Cecilio (Oraz. ad Pison.) era impugnato ne’ moderni, e proibito affatto da’ pedanti, e usato con moderazione dai savi, e Cicerone se ne scusa spesso, e loda ed ama e deplora la purità dell’antico sermone, e la favella di sua nonna, ch’al tempo di sua nonna tutti i buoni scrittori posponevano al grecismo, quanto potevano farlo senza riuscire oscuri presso un popolo allora ignorante del forestiero, e del greco, e delle voci e frasi che non fossero nazionali. Dal che, e non da altro, e forse dalla stessa poca loro perizia del greco, nacque che gli antichi scrittori latini, benchè abbondanti di grecismi e barbarismi, pur si riputassero e fossero modelli del puro sermone Romano, rispetto agli scrittori più moderni. E lo stesso dico degli antichi italiani.

E quella ricchissima, fecondissima, potentissima, regolatissima, e al tempo stesso variatissima, poetichissima e naturalissima lingua del cinquecento, ch’a noi (ne’ suoi buoni scrittori) riesce così elegante, forse ch’allora fu tenuta per tale? Signor no, ma per corrotta. E la buona lingua si stimava solo quella del trecento, e se ne deplorava la mutazione, chiamandola corruzione e scadimento totale della lingua, (come noi facciamo rispetto al 500), e gli scrittori tanto più s’avevano eleganti, quanto meno scrivevano nella lingua loro per iscrivere in quella di quell’altro secolo. Laddove a noi, a’ quali l’una e l’altra è divenuta pellegrina, tanto più piacciono i cinquecentisti quanto più seguono l’uso del loro secolo, e meno imitano il trecento. Ed è ben ragionevole perchè allora solo possono esser naturali e di vena, come è il Caro che non fu mai imitatore. (È notabile che di parecchi cinquecentisti, le lettere dov’essi ponevano meno studio, e che stimavano essi medesimi di lingua impurissima, mentr’era quella del loro secolo, sono più grate a leggersi, e di migliore stile che l’altre opere, dove si volevano accostare alla lingua del trecento, mentre nelle lettere usavano la lingua loro, e riescono per noi elegantissimi e naturalissimi.). V. p. 2525. Ma anche nel cinquecento non si stimava veramente elegante se non il pellegrino, e lo trovavano e cercavano nella lingua del trecento, che sola chiamavano pura, quando per noi è purissima quella del cinquecento. V. Salviati, Avvertim. della lingua, citati nelle op. del Casa, Venez. 1752. t. 3. p. 323. fine — 324. Nel trecento poi nemmen si parlava di purità, nè si poneva tra i pregi della lingua o dello scrivere; e la lingua del loro secolo non si stimava elegante (se non forse alcune smancerie fiorentine, di cui parla il Passavanti, e queste credo piuttosto che s’amassero nel resto di Toscana o d’Italia, che in Firenze, come accade veramente anche oggi): e quelli scrittori che più si stimavano eleganti, e che tali si credevano o pretendevano essi medesimi, erano non quelli che oggi più s’ammirano per la naturalezza e la semplicità, e che in somma usavano più puramente la lingua nazionale o patria del tempo loro, ma quelli che oggi meno s’apprezzano, cioè che la fornivano di parole e modi forestieri, e che si studiavano di tirarla alle forme d’altre lingue, e d’altri stili, come fece il Boccaccio rispetto al latino, e come anche Dante, la cui lingua, s’è pura per noi, che misuriamo la purità coll’autorità, niuno certamente avrebbe chiamato pura a quei tempi, s’avessero pensato allora alla purità, e gli stessi cinquecentisti non erano molto inchinati a stimarlo tale, nè ad accordargli un’assoluta autorità e voto decisivo in fatto di purità di lingua, restringendosi piuttosto al Petrarca e al Boccaccio. V. Caro Apolog. p. 28. fine ec. Lett. 172. t. 2. e se vuoi, anche il Galateo del Casa circa la stima ch’allora si faceva di tanto poeta.

Per le quali considerazioni e confronti, sebbene la lingua italiana di questo secolo sia bruttissima e pessima per ragioni e qualità indipendenti dalla purità e dal barbarismo, cioè perchè povera, monotona, impotente, fredda, inefficace, smorta, inespressiva, impoetica, inarmonica ec. ec. nondimeno ardisco dire che se gli scrittori barbari della moderna Italia, arriveranno ai posteri, quando la lingua italiana sarà già in qualunque modo mutata dalla presente, e se la prevenzione (che influisce moltissimo sopra il senso dell’eleganza e del bello in ogni cosa) e il giudizio del secol nostro non avrà troppa forza ne’ futuri, come non l’ha in noi il giudizio de’ cinquecentisti, questa nostra barbara lingua, si stimerà elegante, e piacerà, perchè divenuta già pellegrina, e forse il Cesarotti ec. passerà per modello d’eleganza di lingua.

Finalmente non è ella cosa conosciutissima che alla poesia non solo giova, ma è necessario il pellegrino delle parole delle frasi delle forme (niente meno che delle idee), per fare il suo stile elegante e distinto dalla prosa? Non lo dà per precetto Aristotele? ( Caro, Apolog. p. 25.). Il poetico della lingua non è quasi il medesimo che il pellegrino? O certo il pellegrino non è una qualità poetica nella lingua, e non serve di sua natura a poetichizzare il linguaggio e lo stile? Or ditemi se nelle poesie italiane d’oggidì si può trovar cosa più prosaica delle voci, frasi ec. forestiere? se più triviale, più ordinaria, in somma più decisamente impoetica e più distruttiva dell’eleganza del linguaggio, e in maggior contraddizione colla natura dello stil poetico? Tanto che, riuscendo sempre le dette voci e maniere, inelegantissime nella prosa, che pur è obbligata a minor eleganza, nella poesia riescono stomachevoli, e la cambiano affatto di poesia in cattiva prosa, onde osserva il Perticari (De’ 300isti), sebbene non con tutta verità, che il barbarismo insignorito delle prose italiane, pur non mise piede nelle poesie, come non ci potesse esser poesia con barbarismi. E questo perchè? essendo il pellegrino così proprio della poesia, ch’ella non ne può far senza? Perchè, torno a dire, se non perchè tali voci e frasi ec. forestiere, sono appunto le più volgari, giornaliere, correnti, usuali voci e maniere della nostra favella presente? e quindi distruttive del pellegrino? e se nuove nella scrittura o nella poesia, non nuove, anzi vecchie nell’uso volgare del discorso, e quindi distruttive della novità ch’è l’uno de’ principali pregi della lingua poetica? Laonde oggi sono eleganti le poesie scritte nella pura lingua italiana, e spesso anche in quella che una volta fu poco meno che trivialissima. Non per altro se non perchè quanto più sono italiane, tanto più dette poesie ci riescono pellegrine.

Concludo che il barbarismo è distruttivo dell’eleganza, sì della prosa, e sì massimamente della poesia (alla quale più si richiede il pellegrino), non come pellegrino, nè come semplicemente forestiero, e contrario alla purità (ch’è un nome astratto, e sempre variabile nella sua sostanza); ma per lo contrario, come distruttivo del pellegrino, e del nuovo, come volgare, come triviale, come quello che forma la parte più moderna, e quindi più corrente e ordinaria della favella. E che la purità è necessaria e giovevole all’eleganza, non in quanto purità, nè in quanto nazionale ec. (qualità alienissime dall’eleganza e dalla grazia), ma in quanto pellegrina e rara, e distinta dall’uso comune, e ritirata dal volgo, e diversa dalla favella giornaliera presente. (il che viene in somma a dire ch’ella non è più veramente purità, essendo bensì stata, ma non essendo più nazionale. E pure allora solamente viene in pregio la purità, quando ella non è più tale, cioè quando a volerla usare, non si usa la vera lingua nazionale corrente. Così lingua pura, è un abuso di parole, in vece di dire, lingua antica della nazione e degli scrittori nazionali.) V. p. 2529.

Tutte le sopraddette osservazioni, e particolarmente quelle della pagina 2512. fine — 13. si debbono applicare alla teoria della grazia derivante da quello ch’è fuor dell’uso. Le cagioni dell’eleganza delle parole o modi sono eterne, ed eternamente le stesse. Ma niuna parola o frase ec. di niuna lingua, è perpetuamente elegante, per elegantissima che sia o che sia stata una volta, nè viceversa triviale ec.: neanche durando la stessa indole, genio, spirito, carattere, forma ec. di quella tal lingua. E non solo niuna parola o modo, ma niun genere o classe di parole o modi.

Spesso una parola è inelegante, o (se si tratta di verso) impoetica in un senso, ed elegante e poetica in un altro, solamente perchè in quello è volgare, e in questo no, o poco frequentemente usata. Come chi dicesse varii in poesia per diversi, parecchi, non peccherebbe contro la buona lingua, avendovene molti esempi, e fra gli altri del Tasso (Discorso sopra vari accidenti della sua vita), ma sarebbe poco elegante, per esser questo significato della detta parola molto volgare e familiare. Ma chi dicesse, come il Petrarca, varie di lingue e d’armi e de le gonne , o come Virgilio Mille trahit varios adverso sole colores , non s’allontanerebbe punto dall’eleganza, per la ragione contraria. E notate ch’io non parlo solamente de’ sensi metaforici, i quali possono render poetica una voce usualissima, ed anche impoetichissima, ma parlo eziandio de’ significati propri, come dimostra l’addotto esempio, o de’ poco meno che propri. E quel che dico delle voci, dico delle frasi ec. (29. Giugno, dì di San Pietro, mio natalizio. 1822.).

Ovidio descrive, Virgilio dipinge, Dante (e così proporzionatamente nella prosa il nostro Bartoli) a parlar con proprietà, non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere, (come fa anche Virgilio ed Omero), ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti. (29. Giugno, 1822. dì di S. Pietro.).

Il giovane istruito da’ libri o dagli uomini e dai discorsi prima della propria esperienza, non solo si lusinga sempre e inevitabilmente che il mondo e la vita per esso lui debbano esser composte d’eccezioni di regola, cioè la vita di felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti, d’entusiasmo; ma più veramente egli si persuade, se non altro, implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso, che quel che gli è detto e predicato, cioè l’infelicità, le disgrazie della vita, della virtù, della sensibilità, i vizi, la scelleraggine, la freddezza, l’egoismo degli uomini, la loro noncuranza degli altri, l’odio e invidia de’ pregi e virtù altrui, disprezzo delle passioni grandi, e de’ sentimenti vivi, nobili, teneri ec. sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l’opposto, cioè quell’idea ch’egli si forma della vita e degli uomini naturalmente, e indipendentemente dall’istruzione, quella che forma il suo proprio carattere, ed è l’oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, e speranze, l’opera e il pascolo della sua immaginazione. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.).

Alla p. 2516. marg. fine — e sempre scrisse (il Caro) nella propria lingua del suo secolo, non del trecento, e della sua nazione, non di sola Firenze. Or vedasi nell’esempio del Caro non Fiorentino, come era bella e graziosa questa lingua nazionale del cinquecento, ch’allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè più nè meno di quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è che nessun Fiorentino nè del trecento nè del 500 nè d’altro secolo scrisse mai così leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro Marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto le non istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche oggidì, letto o bene imitato, è fresco e lontanissimo dall’affettazione la più menoma, come s’oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse, ebbe poco tempo di studiarlo, lasciando star le lettere, familiari, ch’egli scriveva anzi di malissima voglia, come dice spessissimo, e dice ancora: E delle mie (lettere) private io n’ho fatto molto poche che mi sia messo per farle (cioè con istudio) , e di pochissime ho tenuta copia (lett. 180. vol. 2. al Varchi.) Dal che si vede che quello stile e quella lingua gli erano naturali, e sue proprie, non altrui, cioè proprie del suo secolo e della sua nazione, benchè da lui modificate secondo il suo gusto, e benchè si professi molto obbligato nella lingua a Firenze, scrivendo al Fiorentino Salviati. (lett. ult. cioè 265. fine, vol. 2.). Vedi ancora quel ch’egli dice del poco studio e impegno con cui tradusse l’Eneide, la Rettor. d’Aristot. le Oraz. del Nazianz. Tutte opere, che siccome le lettere familiari (e forse queste anche più della Rettor. e delle Oraz.) ci riescono pur contuttociò di squisita e quasi inimitabile eleganza. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.).

Τοὺς δὲ (χώρους) μὴ ἔχοντας ἐπίδοσιν , (agros qui incrementum nullum haberent, cioè così ben coltivati già quando si comprano, che non si possano far migliori) οὐδὲ ἡδονὰς ὁμοίας ἐνόμιζε παρέχειν ἀλλὰ πᾶν χτῆμα καὶ θρέμμα τὸ ἐπὶ τὸ βέλτιον ἰὸν, τοῦτο καὶ εὐφραίνειν μάλιστα ὤετο. Dice queste cose Iscomaco di suo padre, il quale non voleva che si comprassero fondi ben coltivati, ma trascurati dal possessore, e le dice a Socrate presso Senofonte Del governo della casa, cap. 20. par. 23. Così tutto il piacere umano consiste nella speranza e nell’aspettativa del meglio, e posseduto non è piacere, e quello stato che non si può migliorare, benchè ottimo e desideratissimo per se, è sempre infelicissimo, come fu presso a poco quello d’Augusto divenuto padrone di tutto il mondo, e malcontento com’egli s’espresse. (29. Giugno 1822.).

Ho discorso altrove di quello che si suol dire, ch’ogni proposizione ha due aspetti, e dedottone che ogni verità è relativa. Notate che ogni proposizione, ogni teorema, ogni oggetto di speculazione, ogni cosa ha non solo due ma infinite facce, sotto ciascuna delle quali si può considerare, contemplare, dimostrare e credere con ragione e verità. E in tanto si dice che n’abbia due, in quanto d’ogni proposizione si può dir pro e contra, dimostrarla vera e falsa, e sostenere così la tal proposizione, come la sua contraria. E ogni proposizione e verità sussiste e non sussiste in quanto al nostro intelletto, e anche per se. E d’ogni cosa si può affermar questo o quest’altro, e parimente negarlo. Il che più vivamente e dirittamente dimostra come non sussiste verità assoluta. (29. Giugno, 1822. dì di S. Pietro e mio natalizio.).

Alla p. 2496. fine. Finchè si fa conto de’ piaceri, e de’ propri vantaggi, e finchè l’uso, il frutto, il risultato della propria vita si stima per qualche cosa, e se n’è gelosi, non si prova mai piacere alcuno. Bisogna disprezzare i piaceri, contar per nulla, per cosa di niun momento, e indegna di qualunque riguardo e custodia, i propri vantaggi, quelli della gioventù, e se stesso; considerar la propria vita gioventù ec. come già perduta, o disperata, o inutile, come un capitale da cui non si può più tirare alcun frutto notabile, come già condannata o alla sofferenza o alla nullità; e metter tutte queste cose a rischio per bagattelle, e con poca considerazione, e senza mai lasciarsi cogliere dall’irresoluzione neanche nei negozi più importanti, nemmeno in quelli che decidono di tutta la vita, o di gran parte di essa. In questo solo modo si può goder qualche cosa. Bisogna vivere εἰκῇ, témere, au hasard, alla ventura. (30. Giugno. 1822.). V. p. 2555.

Alla p. 2521. La conchiusione e la somma del discorso si è che in qualunque tempo e in qualunque letteratura è piaciuta una lingua diversa dalla presente nazionale parlata, per bonissima, utilissima e bellissima che questa fosse: e non s’è mai giudicata elegante la scrittura composta delle voci e de’ modi ordinari in quel tempo e correnti effettivamente nella nazione, per purissimi che questi fossero. E questa (bench’altre ancora ve n’abbia) è l’una delle principali cagioni per cui non piace, e si disapprova e si biasima e riesce inelegante nelle scritture la presente lingua della nostra nazione, e si richiama la nostra lingua antica. Con ragione, benchè non sia molto ragionevole il richiamarla come pura, chè nè essa era pura, nè la purità è un pregio necessario ed appartenente all’essenza dello scriver bene, e molte volte non è possibile, e in fine è piuttosto un nome che una cosa, non potendosi mai definir questa purità, nè trovar precisamente quel che sia la purità di una tal lingua individua, anzi non esistendo essa mai, perchè tutte le lingue sono composte di voci, modi ec. presi più o meno ab antico da molte e varie altre lingue. E non potendosi neppur circoscrivere la così detta purità dentro i termini dell’uso nazionale, perchè se ciò fosse, tutte le nazioni in tutti i tempi parlerebbero puramente, e tutti gli scrittori seguendo la lingua del tempo loro, scriverebbero puramente, massime conformandosi alla parlata, e non esisterebbe il contrario della purità, cioè l’impurità, perchè nessuna lingua in nessun tempo sarebbe mai impura, benchè tutta composta da capo a piedi di barbarismi. Sicchè resta che per lingua pura s’intenda come suo preciso sinonimo la lingua antica di una nazione, cioè quella lingua composta per la più parte di voci e modi venuti di fuori, che dagli antichi fu parlata e scritta. E in particolare quella che fu contemporanea della miglior letteratura e coltura nazionale, e in somma quella che fu il risultato, non già dell’abbozzo (ch’ebbe la lingua italiana da’ 300isti) ma del perfezionamento dato alla lingua nazionale, e massime alla scritta, dagli scrittori e letterati nazionali nel tempo in cui maggiormente e precisamente fiorì la letteratura e coltura nazionale, che fu per noi il 500.

Richiamare questa tal lingua, non pura, propriamente parlando, ma antica, e non come pura, ma come antica, richiamarla, dico, nella letteratura, è, come ho detto, ragionevole, ed autorizzato dall’esempio dell’altre nazioni antiche e moderne. Ed è ragionevole sì per li suoi pregi intrinseci e indipendenti dalle circostanze, e per la miseria e bruttezza propria assoluta e indipendente della nostra lingua moderna; sì per quello che ho dedotto dal precedente discorso, cioè che una lingua nazionale usitata e parlata presentemente non può mai riuscire elegante nelle scritture, quando anche, in se, fosse ottima e bellissima.

Potranno oppore a quest’ultima proposizione, e al mio precedente discorso, che gli scrittori classici del 500 ebbero gran fama ed onore, e piacquero anche al tempo loro, quando anche scrivessero appunto nella lingua nazionale usitata e parlata a quel tempo. Rispondo.

1. La maggior fama degli scrittori del 500 fu a que’ tempi, come verseggiatori, e specialmente lirici, e questi ognun sa ch’erano servili imitatori del Petrarca, e quindi del 300, e si veda nell’Apologia del Caro, la misera presunzione ch’avevano di scrivere come il Petrarca, e che non s’avessero a usar parole o modi non usati da lui, come anche nelle prose volevano restringer la lingua a quella sola del Boccaccio, e siamo pur lì. Certo è, nè per chiunque è pratico dello spirito che governava la repubblica nostra letteraria nel 500, è bisogno di molte parole a dimostrargli, che l’apice della letteratura, e quello a cui nondimeno aspiravano tanto gl’infimi quanto i sommi, era la lirica Petrarchesca, cioè 300istica, e non 500istica. E gli scrittori più grandi in ogni altro genere o prosaico o poetico, divenivano famosi principalmente pe’ loro sonetti e canzoni petrarchesche che si divulgavano come un lampo per l’Italia, si trascrivevano subito, si domandavano, erano il trattenimento delle Dame, e queste ne chiedevano ai letterati, e i letterati se ne chiedevano scambievolmente, e ne ricevevano e restituivano con proposte e risposte ec. E senza questi versi difficilmente s’arrivava alla riputazion di letterato. Osservate, per non allontanarmi dall’esempio più volte addotto, il Caro, le cui rime sono la sola cosa che di lui non si legga più. Aveva il Caro grandissima fama, ma dalle sue lettere vedrete che questa riposava essenzialmente e soprattutto nell’opinion ch’egli avea di poeta (che nol fu mai), e tutto il restante suo merito letterario, s’aveva in lui, come in tutti gli altri, per mero accessorio. E fu stimato gran poeta, non già per l’Eneide, ch’oggi s’ammira, e si ristampa, ch’è scritta in istile e lingua propria del suo tempo, benchè abbellita al suo modo, e arricchita di latinismi. Questa fu opera postuma e non levò molto grido nel 500. Il Caro fu creduto un sommo letterato perchè sapeva rimare alla Petrarchesca, e giudicar di tali pretese poesie. E la sua famosa Canzone fu strabocchevolmente ammirata (ed oggi non s’arriva a poterla legger tutta) perchè si disse che il Petrarca non l’avrebbe scritta altrimenti. ( Caro, Apolog. p. 18.). E chi non sa l’inferno che cagionò in Italia, e come nella disputa di quell’impiccio petrarchesco ci prese parte tutta la nazion letterata, considerandola come affar di tutta la letteratura? Fatto sta che le maravigliose prose del Caro, benchè stimate, non furono già ammirate nel 500 (quanto alla lingua). Ed è certo che la lingua del Caro, come l’immaginazione e l’ingegno di Dante, son venute principalmente in onore, e riposte nel sommo luogo che meritano, in questo e sulla fine del passato secolo. Il che, di Dante, si vede anche fra gli stranieri. E quanto a lui, ciò si deve al perfezionamento de’ lumi, e del gusto, e della filosofia, e della teoria dell’arti, e del sentimento del vero bello. Quanto al Caro, ciò viene in gran parte da circostanze materiali.

2. Le prose italiane ch’ebbero fama nel 500, l’ebbero per l’una di queste cagioni. 1o. Per essere scritte alla Boccaccevole (e quindi fuor dell’uso di quel secolo), come sono l’Arcadia del Sannazzaro nelle prose, le prose del Bembo, e tutte quelle del Casa, tolte le lettere. E notate che questi prosatori e i loro simili furono appunto i più stimati in quel secolo (al contrario del nostro), e dati per modello. Il che dimostra ad evidenza che il gusto del cinquecento nella lingua era quello ch’io dico, che s’apprezzava come elegante una lingua diversa dalla loro, e che sempre si disprezza la lingua attualmente corrente nella nazione, per bellissima ed ottima ch’ella sia.

2o. Per lo stile, per la imitazione de’ classici latini o greci indipendentemente dalla lingua. Questo studio era comune ai buoni prosatori (come anche poeti) del 500. Ed avendosi allora gran gusto e inclinazione per il classico, si stimavano e ricercavano le prose scritte nello stile e ad imitazione e colle forme degli antichi classici, benchè la lingua non piacesse gran fatto. E questa è una delle ragioni per cui si faceva conto anche delle lettere più familiari, e d’ogni bagattella, e schediasma, anche degli scrittori non celebri, con tutto che fossero scritte nella lingua del secolo, e si raccoglievano con diligenza che ora sarebbe ridicola, e si stampavano ec. benchè di niunissima importanza nelle cose. Perocchè quasi tutti, o certo moltissimi scrivevano allora in buono stile, essendo divulgatissimo lo studio de’ veri classici. Di più questo medesimo, benchè spettasse allo stile, pur essendo così strettamente uniti lo stile e la lingua, dava alle prose (come anche alle poesie) del 500. un sapor d’eleganza indipendente dalla lingua in se.

3o. Perchè molti (e questo fu vero e principal pregio del cinquecento, ed a cui fu dovuto il perfezionamento della nostra lingua) si studiavano anche di accostare e di modellare non solo lo stile, ma anche la lingua italiana, sulla latina e greca, in quanto lo potea comportare la sua natura. Questo fu comune alla massima parte de’ veri buoni scrittori del cinquecento, massime prosatori. E questo li rendeva eleganti anche presso i contemporanei. Ma questa eleganza veniva non da altro che dal pellegrino, (cioè dal latino e dal greco) benchè quegli scrittori volessero piuttosto perfezionare, accostare al latino o al greco, render classica la lingua del loro secolo, che quella del 300, parlassero, come facevano, e bene, più da 500isti, che da 300isti, più da moderni che da antichi italiani; usassero la lingua viva e non la morta, le parole moderne più che le antiche, e insomma innestassero il latino e il greco nella lingua del 500, e non del 300, e però l’eleganza loro non venisse dall’uso dell’antico italiano, nè dalla così detta purità, quantunque oggi per noi sieno purissimi. Ma tali non erano allora per li pedanti, i quali chiamavano corrotto e barbaro quel che non era del 300, proibivano il latinismo anche più di quello che facciano i pedanti oggidì, poichè s’ardivano di chiamar barbara ogni voce latina che non fosse stata usata dagli antichi, anzi dal Boccaccio o dal Petrarca, per convenientissima che fosse all’italiano, e anche nello stile, e nella composizione della dicitura, volevano piuttosto o quella del Boccaccio o del Petrarca o quella degl’ignoranti non iscrittori ma scrivani del 300, che quella de’ classici latini e greci. (V. le opposizioni del Castelvetro alla canzone del Caro, e l’Apol. del Caro).

4o. Si stimavano le prose (o le poesie) del 500, per le cose, per l’immaginazione, invenzione, concetti, sentenze, scoperte o dottrine scientifiche, ec. erudizione ec. ec. benchè la lingua non piacesse, essendo pur la pura e vera lingua corrente di quel secolo. Onde per noi tali scrittori riescono purissimi ed elegantissimi perchè antichi. Ma corrotti si stimavano allora, e negletti, e di niun conto in somma nella lingua. E la pura lingua del 500, quella che si dimostra pienamente nelle lettere familiari di quel secolo, scritte a penna corrente, e ch’è ricchissima potentissima ec. e per noi purissima ed elegantissima e spesso tanto più pura e graziosa quanto è più propria del secolo, e più naturale, si chiamava allora decisamente corrotta, e si deplorava, anche da’ veri letterati la degenerazione della lingua italiana, non per altro se non perchè non era più quella propriamente del 300, benchè dopo la corruzione del 400, fosse risorta più bella e potente di prima, il che affermo a chiunque ne conosca le intime qualità, e le vaste e riposte ricchezze e facoltà della propria lingua del 500. Lascio star che questa è regolata, e quella del 300 va dove e come vuole, e non se ne cava il costrutto, e per lo più bisogna indovinarne il senso. Del resto questi tali scrittori di lingua stimata allora cattiva e impura, e dispregiata, e condannata, s’apprezzavano anche allora per le cose, se in queste avevano merito, come accade proporzionatamente ai nostri moderni, indipendentemente dalla lingua, dalla purità e dall’eleganza.

5o. Ognuno de’ dialetti nazionali, fuori del suo distretto, è forestiero nella stessa nazione. Gran parte de’ cinquecentisti, toscani o no, prosatori o poeti, scrivevano, com’è noto, nel dialetto toscano, o se non altro n’infioravano i loro scritti. Con ciò erano stimati eleganti. Ma benchè scrivessero nel dialetto toscano del tempo loro, quest’eleganza, presso tutti i lettori non toscani, veniva anch’essa dal pellegrino. Ed anche presso i toscani veniva dal pellegrino, a causa che trasportandosi nelle scritture voci e modi popolari e perciò insoliti ad essere scritti, questi riuscivano straordinarii anche per li toscani, non in se ma nelle scritture. Ed ho spiegato altrove come anche la familiarità nello scrivere, e le voci e modi ordinari, riescano eleganti, non come ordinarii, anzi come straordinarii e pellegrini nella scrittura ordinata, studiata, civile (πολιτικὴ), e colta. E ciò massimamente nella poesia, dove molti adoperavano il volgare toscano, anche in poesia non burlesca, come fa il Firenzuola ec. In somma lo stesso linguaggio popolare molte volte dà eleganza agli scritti, perciò appunto ch’essendo popolare, non è domestico collo scriver de’ letterati, e vi riesce pellegrino. Aggiungi che a gran parte degli stessi lettori toscani (naturalmente non plebei) riuscivano e riescono nuove o poco familiari molte voci de’ loro o d’altri scrittori, tolte dalla lingua del loro popolo. Del resto l’eleganza derivante dall’uso del dialetto toscano nel colto scrivere, talvolta è minore per li toscani come poco pellegrina, o come triviale; talvolta maggiore, come non troppo pellegrina, nè tanto straordinaria che degeneri in disconveniente, affettato ec. siccome spesso fa per gli altri italiani. I toscani accusano il Botta fiorentinizzante nella sua storia, come troppo triviale e pedestre, e insomma inelegante. E in genere l’eleganza ch’essi ne sentono, e quella che deriva dal familiare, dal popolare ec. nel colto scrivere, è d’un altro sapore e d’un’altra qualità dall’eleganza ch’è prodotta dall’assoluto pellegrino: non essendo pellegrino per chi legge, il familiare e il popolare, se non relativamente, cioè rispetto alla colta scrittura. (30. Giugno — 2. Luglio. 1822.).

Quello ch’altrove ho detto del modo che in greco si chiama la malattia, cioè debolezza (ἀσθένεια), si deve anche dire del latino, infirmitas, infirmus. (4. Luglio. 1822.). Così anche languor ec.

Della vita e condizione d’Omero ogni cosa è nascosta. E pure in questa universale ignoranza, una tradizione antichissima ed universale e perpetua si mantiene, e tutti, che tutto ignorano intorno a lui, questo solo n’affermano ed hanno per certo, che fosse povero e misero. Così la fama non ha voluto che si dubiti, nè che resti nel puro termine di congettura che il primo e il sommo de’ poeti incontrasse la sorte comune di quelli che lo seguirono. Ed ha confermato coll’esempio dell’ἀρχηγὸς di questa infelice famiglia, che qualunque è d’animo veramente e fortemente poetico (intendo ogni uomo di viva immaginazione e di vivo sentimento, scriva o no, in prosa o in verso) nasce infallibilmente destinato all’infelicità. (4. Luglio 1822.).

Gli uomini semplici e naturali sono molto più dilettati e trovano molto più grazioso il colto, lo studiato e anche l’affettato che il semplice e il naturale. Per lo contrario non v’è qualità nè cosa più graziosa per gli uomini civili e colti che il semplice e il naturale, voci che nelle nostre lingue e ne’ nostri discorsi sono bene spesso sinonime di grazioso, e confuse con questa, come si confonde la grazia colla naturalezza e semplicità, credendo che sieno essenzialmente, e per natura, e per se stesse, qualità graziose. Nel che c’inganniamo. Grazioso non è altro che lo straordinario in quanto straordinario, appartenente al bello, dentro i termini della convenienza. Il troppo semplice non è grazioso. Troppo semplice sarà una cosa per li francesi, e non lo sarà per noi. Lo sarà anche per noi, e con tutto questo sarà ancora al di qua del naturale. (Tanto siamo lontani dalla natura, e tanto ella ci riesce straordinaria). Viceversa dico del civile rispetto ai selvaggi, naturali, incolti ec. Del resto possiamo vedere anche nelle nostre contadine che sono molto poco allettate dal semplice e dal naturale, o per lo meno sono tanto allettate dal nostro modo artefatto, quanto noi dalla loro naturalezza, o reale, o dipinta ne’ poemi ec. (4. Luglio 1822.).

Le Dee e specialmente Giunone, è chiamata spesso da Omero βοῶπις (βοώπιδος) cioè ch’ha occhi di bue. La grandezza degli occhi del bue, alla quale Omero ha riguardo, è certo sproporzionata al viso dell’uomo. Nondimeno i greci intendentissimi del bello, non temevano di usar questa esagerazione in lode delle bellezze donnesche, e di attribuire e appropriar questo titolo, come titolo di bellezza, indipendentemente anche dal resto, e come contenente una bellezza in se, contuttochè contenga una sproporzione. E in fatti non solo è bellezza per tutti gli uomini e per tutte le donne (che non sieno, come sono molti, di gusto barbaro) la grandezza degli occhi, ma anche un certo eccesso di questa grandezza, se anche si nota come straordinario, e colpisce, e desta il senso della sconvenienza, non lascia perciò di piacere, e non si chiama bruttezza. E notate che non così accade dell’altre parti umane alle quali conviene esser grandi (lascio l’osceno che appartiene ad altre ragioni di piacere, diverse dal bello): nè i poeti greci, nè verun altro poeta o scrittore di buon gusto, ha mai creduto che l’esagerazione della grandezza di tali altre parti fosse una lode per esse, e un titolo di bellezza, come hanno fatto relativamente agli occhi. Dalle quali cose deducete

1o. Quanto sia vero che gli occhi sono la principal parte della sembianza umana, e tanto più belli quanto più notabili, e quindi quanto più vivi. E che in essi veramente si dipinge la vita e l’anima dell’uomo (e degli animali); e però quanto più son grandi, tanto maggiore apparisce realmente l’anima e la vitalità e la vita interna dell’animale. (Nè quest’apparenza è vana.) Per la qual cosa accade che la grandezza loro è piacevole ancorchè sproporzionata, indicando e dimostrando maggior quantità e misura di vita. 2o. Quanta parte di quella che si chiama bellezza e bruttezza umana sia indipendente ed aliena dalla convenienza, e quindi dalla propria teoria del bello. Giacchè, come accade nel nostro caso, anche quello ch’è sproporzionato e fuor della misura ordinaria, piace a causa dell’inclinazione ch’ha l’uomo alla vita, e si chiama bello. Ma di questo bello è cagione, non già la convenienza, ma la detta inclinazione e qualità umana indipendente dalla convenienza, e in dispetto della convenienza, e quindi del vero, proprio e preciso bello. (4. Luglio. 1822.).

La quistione se il suicidio giovi o non giovi all’uomo (al che si riduce il sapere se sia o no ragionevole e preeleggibile), si ristringe in questi puri termini. Qual delle due cose è la migliore, il patire o il non patire? Quanto al piacere è cosa certa, immutabile e perpetua che l’uomo in qualunque condizione della vita, anche felicissima secondo il linguaggio comune, non lo può provare, giacchè, come ho dimostrato altrove, il piacere è sempre futuro, e non mai presente. E come, per conseguenza, ciascun uomo dev’essere fisicamente certo di non provar mai piacere alcuno in sua vita, così anche ciascuno dev’esser certo di non passar giorno senza patimento, e la massima parte degli uomini è certa di non passar giorno senza patimenti molti e gravi, ed alcuni son certi di non passarne senza lunghissimi e gravissimi (che sono i così detti infelici; poveri, malati insanabili, ec. ec.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors’anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire, (giacchè la natura e l’amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere, che c’è più grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo non poter godere) ma il godere essendo impossibile all’uomo, resta escluso necessariamente e per natura da tutta la quistione. E si conchiude ch’essendo all’uomo più giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è matematicamente vero e certo che l’assoluto non essere giova e conviene all’uomo più dell’essere. E che l’essere nuoce precisamente all’uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilità. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl’istanti della nostra vita, in ciascuno de’ quali noi preferiamo il vivere al non vivere. E lo preferiamo col fatto non meno che coll’intenzione, col desiderio, e col discorso più o meno espresso, più o meno tacito ed implicito della nostra mente. Effetto dell’amor proprio ingannato come in tante altre cattive elezioni ch’egli fa considerandole sotto l’aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga in quelle tali circostanze.

Che poi l’uomo debba esser certo di non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e dolori accidentali che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini, si dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che l’uomo dev’esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocchè l’assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente, e in ciascuno istante, per natura, per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella teoria del piacere): perocchè l’uomo e il vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicità, senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e l’infelicità non v’è condizione di mezzo. Quella è il fine necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell’animale. Non ottenendolo, l’animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti, nei quali desiderando il detto fine, ossia la felicità, infinitamente, come fa sempre, non l’ottiene e n’è privo, come lo è sempre. E però l’uomo dev’esser fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma istante, senza patire. E tutta la vita è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto di patimenti necessarii, e ciascuno istante che la compone è un patimento.

Di più l’uomo dev’esser certo di provare in vita sua più o meno, maggiori o minori, ma certo gravi e non pochi di quei patimenti accidentali che si chiamano mali, dolori, sventure, o che provengono dai vari desiderii dell’uomo ec. E quando anche questi non dovessero comporre in tutto se non la menoma parte della sua vita, (com’è certo che ne comporranno la massima), essendo egli d’altra parte certissimo di passar tutta la vita senza un piacere, la quistione ritorna a’ suoi primi termini, cioè se essendo meglio il non patire che il patire, e non potendosi vivere senza patire, sia meglio il vivere o il non vivere. Un solo, anche menomo dolore riconosciuto per inevitabile nella vita, non avendo per controbilancio neppure un solo e menomo piacere, basta a far che l’essere noccia all’esistente, e che il non essere sia preferibile all’essere.

Tutto questo essendo applicabile ad ogni genere di viventi in qualunque loro condizione (niuno de’ quali può esser felice, e quindi non essere infelice, e non patire) e d’altronde posando sopra principii e fondamenti quanto profondi altrettanto certissimi, e immobili, ed essendo esattissimamente ragionato e dedotto, e strettamente conseguente, serva a far conoscere la distruttiva natura della semplice ragione, della metafisica, e della dialettica, in virtù delle quali tutto il mondo vivente, dovrebb’esser perito, per volontà e per opera propria, poco dopo il suo nascere. (5. Luglio 1822.).

Alla p. 2529. Finchè il giovane conserva della tenerezza verso se stesso, vale a dire che si ama di quel vivo e sensitivissimo e sensibilissimo amore ch’è naturale, e finchè non si getta via nel mondo, considerandosi, dirò quasi, come un altro, non fa mai nè può far altro che patire, e non gode mai un istante di bene e di piacere nell’uso e negli accidenti della vita sociale. (6. Luglio. 1822.). A goder della vita, è necessario uno stato di disperazione.

Il grand’uso che gl’italiani (forse anche gli spagnuoli e i francesi) fanno della preposizione compositiva di o dis nel senso negativo (come disamore, disfavorire; e per apocope in questo e mill’altri casi, sfavorire; disutile, e mill’altre da formarsi anche a piacere: v. la Crusca), essendo molto poco e scarso nel latino scritto (come in dispar dissimilis discalceatus dove il dis nega: v. il Forcell. in di), e d’altra parte non significando niente in italiano, in francese in ispagnuolo la detta preposizione per se (la quale sembra venire dal greco δὺς usata come in δυσέρως, δυσωπία, δυστυχὴς), par che dimostri d’essere stato molto più comune nel latino volgare di quello che nello scritto, e d’aver tenuto il luogo di vera particella negativa, così frequente e manuale nella composizione come la greca α privativa, e come lo è la detta particella presso di noi ad arbitrio del parlatore o scrittore che ha bisogno d’un qualunque composto che dica il contrario di quel che dice la tale o tal altra radice italiana. Del resto il dis latino nelle parole dissimilis, dispar, secondo me, ha più tosto una tal qual forza disgiuntiva, che veramente negativa. E in discalceatus, discingo ec. io credo che propriamente abbia piuttosto la forza del greco ἀπὸ in composizione (come qui appunto ἀποζωννύω discingo), e del latino ex pure in composizione, (come appunto excalceatus ch’è lo stesso), di quello che la vera forza privativa del greco α che tiene presso di noi, sebbene discalceatus ec. passò poi a significar privativamente senza scarpe. E forse in questa maniera, cioè dalla forza di ἀπὸ, e di ex composti, passò la particola dis presso di noi, al significato assoluto di privazione o negazione. Ma vedendosi p. e. dalla voce discalceatus (e v. il Forcell. in Dis...) che questo passaggio l’avea fatto la detta preposizione anche fra gli antichi latini, si dimostra quel ch’io dissi da principio, cioè che il suo uso negativo o privativo, così frequente e familiare come nel latino scritto non si trova, ci dev’esser venuto dal latino volgare. (9. Luglio 1822.). V. p. 2577.

Quanto gli uomini sieno allontanati dalla vera loro natura, dalle qualità e distintivi destinati alla loro specie, l’osservo anche nella gran differenza fisica che s’incontra fra gli uomini da individuo a individuo. Lascio i mostri, difettosi ec. dalla nascita, o dopo la nascita, che sono infiniti presso gli uomini; e fra qualunque genere d’animali appena se ne troverà uno per mille dei nostri, in proporzione della numerosità della specie: anche escludendo affatto quelli che tra gli uomini hanno contratto imperfezioni fisiche, per cause accidentali, visibili, e se non facili, almeno possibili ad evitarsi. Lascio gli Etiopi, gli Americani che non avevano barba, certe differenze di costruzione negli Ottentotti, i Patagoni (se ve n’ha), i Lapponi ( che forse nascono e vivono in un clima non destinato dalla natura alla specie umana , come a tante altre specie d’animali, piante ec. ha negato questo o quel clima, o paese ec. o tutti i climi e paesi, fuorchè un solo.). Tutto ciò si potrà considerare come differenze delle varie specie tra loro, dentro uno stesso genere, nel modo che p. e. il genere dei cani ha diversissime specie, e diverse o in uno stesso clima, e paese, o in diversi climi destinati a tale o tal altra di esse ec.

Ma che in un medesimo clima, in un medesimo paese, da due medesimi genitori, nascano dei figli così differenti fisicamente, come accade tra gli uomini, che di due concittadini, di due fratelli, l’uno sarà p. e. di statura gigantesca, e di temperamento robustissimo, l’altro fiacchissimo e piccolissimo; e che questo accada indipendentemente da ogni causa visibile, o accidentale, o amovibile; che accada nonostante una medesimissima educazione ed esercizio fisico; che accada e resti manifestamente determinato fin dalla nascita dell’uno e dell’altro: questo, dico io, in qual altra specie d’animali si trova? Specie, dico, e non genere, perchè p. e. diverse specie di cani sono diversissime di grandezza, ma non così gl’individui di ciascuna d’esse specie fra se stessi, neppur pigliandoli da diverse famiglie, da diverse patrie, da diversi paesi, da diversi climi.

E fermandomi e ristringendomi alla differenza che passa fra le proporzioni fisiche degl’individui umani, io dico che i due estremi di questa differenza sono così lontani, che niun’altra specie d’animali, considerata nelle stesse circostanze di famiglia, patria, clima ec. offre di grandissima lunga due individui così differenti di grandezza come sono gl’individui umani tutto giorno, e massimamente pigliandoli da’ due sopraddetti estremi.

Certo è che la natura a ciascuna specie d’animali (come anche di piante ec.) ha assegnato certe proporzioni nè tanto strette che l’uno individuo sia precisamente della misura dell’altro, nè tanto larghe che non si possa quasi definir nemmeno lassamente la grandezza propria degl’individui di quella specie. Ora di qualunque specie d’animali vi discorra un naturalista, ve ne dirà presso a poco la grandezza, e qualunque individuo voi ne veggiate, corrisponderà, o si discosterà poco da quella, e in somma la misura della grandezza sarà sempre per voi una qualità distintiva di quella specie d’animali, e pigliandola a un dipresso, (tanto più a un dipresso quanto la loro grandezza specifica è maggiore assolutamente) non t’ingannerà mai. Poniamo anche caso che d’una specie tu non abbia veduto se non un solo individuo, e che questo sia l’estremo o della grandezza o della piccolezza della specie. Ancorchè tu ti formi l’idea della grandezza di quella specie sopra quel solo individuo, vedendone poi degli altri, non ti trovi ingannato gran cosa, nè sproporzionatamente lontano dalla tua idea, nè per causa della differente grandezza (purchè siano in fatto della medesima specie), ti accade di non riconoscerli per individui di quella tale specie, o di dubitare che non lo sieno. E ciò quando anche fossero gli estremi contrari del primo individuo da te veduto.——

Questo pensiero, considerate ben le cose, trovo che non è vero, e però lo lascio a mezzo. La differenza delle proporzioni fisiche tra gl’individui umani, ci par maggiore che nell’altre cose, per le ragioni ch’ho detto altrove. Ma in realtà non è maggiore nè sproporzionata relativamente, e n’esiste altrettanta fra gli altri individui animali, in proporzione della loro maggiore o minor grandezza specifica, e parlando sempre, come si deve, a un dipresso: benchè in essi animali non ci dia così nell’occhio e non ci paia tanta. Ma colla misura facilmente si scopre che la detta differenza negli animali è maggiore, e negli uomini è minore ch’a noi non sembra. (9-10. Luglio 1822.).

L’uomo non è perfettibile ma corrottibile. Non è più perfettibile ma più corrottibile degli altri animali. È ridicolo, ma contuttociò è naturale, che la nostra corrottibilità, e degenerabilità, e depravabilità, sia stata presa, e si prenda a tutta bocca da’ più grandi e sottili e perspicaci e avveduti ingegni e filosofi per perfettibilità. (10. Luglio 1822.).

Per lo più noi riconosciamo alla sola voce anche senza vederle le persone da noi conosciute, per moltiplici che siano le nostre conoscenze, per minima che sia la diversità di tale o tal altra voce da un’altra, per pochissimo che noi abbiamo praticata quella tal persona, o praticatala pure una sola volta. Non così ci accade nelle voci degli animali, nelle quali, neppure avvertitamente pensandoci, sappiamo riconoscer differenza tra molti individui d’una stessa specie, o riconosciutane, non ci resta in mente. Anche, con difficoltà riconosciamo le voci, p. e. in paese forestiero di lingua, o dialetto, pronunzia ec., e le confondiamo spesso; almeno a principio. L’ho osservato in me. Effetti dell’assuefazione, dell’attenzione parziale e minuta ec. da riferirsi a quei pensieri dove ho portato altri esempi simili. (11. Luglio. 1822.).

Noi abbiamo oscuro da obscurus, e scuro. Obscurus è certo un composto, come dimostra la preposizione ob. Tolta la quale resta scurus. Che questa voce esistesse una volta, non si può dubitare, dovendo esistere il semplice prima del composto. V. il Forcell. Obscurus, principio. Ma questa voce ignota presso i latini, si conserva nell’italiano. E questa medesima è una prova ch’esistesse, come viceversa le cose dette sono una prova che la nostra voce sia antica, e venutaci col volgare latino. Osservate se credeste che scuro fosse fatto per apocope volgare da oscuro, che l’apocope dell’o iniziale, per quello che mi pare, non è punto in uso nel nostro popolo. (12. Luglio 1822.).

Ho notato, mi pare, in Floro, il quoque messo innanzi alla voce da cui dipende. Vedilo similmente nella Volgata Gen. 12. v. 8. confrontando questo versetto col precedente. (12. Luglio 1822.).

È egli possibile che nella morte v’abbia niente di vivo? anzi ch’ella sia un non so che di vivo per natura sua? come dunque credere che la morte rechi, e sia essa stessa, e non possa non recare un dolor vivissimo? Quando tutti i sentimenti vitali, e soli capaci del dolore o del piacere, sono non solamente intorpiditi come nel sonno o nell’asfissia ec. (ne’ quali casi ancora, le punture, i bottoni di fuoco ec. o non danno dolore, o ne danno meno dell’ordinario, in proporzione dell’intorpidimento, della gravezza p. e. del sonno, ch’è minore o maggiore, com’è somma nell’ubbriaco) ma anzi il meno vitali, il meno suscettibili e vivi che si possa mai pensare, essendo quello il punto in cui si spengono per sempre, e lasciano d’esser sentimenti. Il punto in cui la capacità di sentir dolore s’estingue interamente, ha da esser un punto di sommo dolore? Anzi non può esser nemmeno di dolore comunque, non potendosi concepir l’idea del dolore, se non come di una cosa viva, e il vivo è inseparabile dal dolore, essendo questo un irritamento, un aigrissement dei sensi, che si risentono, cosa di cui non sono capaci nel punto in cui in vece di risentirsi, si dissentono per sempre. Così non si dee creder nemmeno che quel piacer fisico ch’io affermo esser nella morte, sia un piacer vivo ma languidissimo. E il piacere, a differenza del dolore, opera languidamente sui sensi, anzi osservate che il piacer fisico per lo più consiste in qualche specie di languore, e il languor de’ sensi è un piacere esso stesso. Però i sentimenti ne son capaci anche estinguendosi, e perciò medesimo che si estinguono. (16. Luglio. 1822.).

Una macchina dilicata (cioè più diligentemente e perfettamente organizzata) è più facile a guastarsi che una rozza: ma ciò non toglie che la non sia più perfetta di questa, e che andando come deve andare non vada meglio della rozza, supponendole anche tutt’e due in uno stesso genere, come due orologi. Così l’uomo è più dilicato assai di tutti gli altri animali, sì nella costruzione esterna, sì nelle fibre intellettuali. E perciò egli è senza dubbio il più perfetto nella scala degli animali. Ma ciò non prova ch’egli sia più perfettibile; bensì più guastabile, appunto perchè più delicato. E d’altra parte l’esser più facile a guastarsi, non toglie che non sia veramente la più perfetta delle creature terrestri, come ogni cosa lo dimostra. (18. Luglio. 1822.).

Tutto è arte, e tutto fa l’arte fra gli uomini. Galanteria, commercio civile, cura de’ propri negozi o degli altrui, carriere pubbliche, amministrazione politica interiore ed esteriore, letteratura; in tutte queste cose, e s’altre ve ne sono, riesce meglio chi v’adopra più arte. In letteratura, (lasciando stare quel che spetta alla politica letteraria, e al modo di governarsi col mondo letterato) colui che scrive con più arte i suoi pensieri, è sempre quello che trionfa, e che meglio arriva all’immortalità, sieno pure i suoi pensieri di poco conto, e sieno pure importantissimi e originalissimi quelli d’un altro che non abbia sufficiente arte nello scrivere: il quale non riuscirà mai a farsi nome, e ad esser letto con piacere, e nemmeno a far valutare, e pigliare in considerazione e studio i suoi pensieri. La natura ha certamente la sua parte, e la sua gran forza; ma quanta sia la parte e la forza della natura in tutte queste cose, rispettivamente a quella dell’arte, mi pare che dopo le gran dispute che se ne son fatte, si possa determinare in questo modo, e precisare in questi termini. Supposto in due persone ugual grado d’arte, quella ch’è superiore per natura, riesce certamente meglio dell’altra nelle sue imprese. Datemi due persone che sappiano ugualmente scrivere. Quella che ha più genio, sicuramente trionfa nel giudizio de’ posteri e della verità. Datemi due galanti egualmente bravi nel mestier loro. Quello ch’è più bello (in parità d’altre circostanze, come ricchezza, fortuna d’ogni genere, comodità ed occasioni particolari ec.) soverchia sicuramente l’altro. Ma ponete un uomo bellissimo senz’arte di trattar le donne; un gran genio senza scienza o pratica dello scrivere; e dall’altra parte un bruttissimo bene ammaestrato e pratico della galanteria, un uomo freddissimo bene istruito ed esercitato nella maniera d’esporre i propri pensieri, questi due si godranno le donne e la gloria, e quegli altri due staranno indubitatamente a vedere. Dal che si deduce che in ultima analisi la forza dell’arte nelle cose umane è maggiore assai che non è quella della natura. Lucano era forse maggior genio di Virgilio, nè perciò resta che sia stato maggior poeta, e riuscito meglio nella sua impresa; anzi che veruno lo stimi nemmeno paragonabile a Virgilio.

Queste considerazioni debbono determinare secondo me la parte che ha la natura in quello che si chiama talento, cioè quanto v’abbia di naturale e d’innato nelle facoltà intellettuali di qualunque individuo. Sebbene il talento si consideri come cosa affatto naturale, non è di gran lunga così, come ho mostrato altrove. Ma non è nemmen vero ch’egli sia tutto effetto delle circostanze e assuefazioni acquisite: come si dimostra cogli esempi e comparazioni precedenti. Certo è bensì che di due talenti uguali per natura, ma l’uno coltivato e l’altro non coltivato, quello si chiama talento, e questo neppur si chiama così, non che sia messo al paro di quello. Dal che di nuovo s’inferisce che la maggior parte del talento umano, e delle facoltà intellettuali è opera delle assuefazioni, e non della natura, è acquisita e non innata; benchè non si fosse potuta acquistare in quel grado senza possedere primitivamente quell’altra minor parte, o sia disposizione naturale, e assuefabilità, suscettibilità, conformabilità. (19. Luglio. 1822.).

Dire che la lingua latina è figlia della greca, perchè vi si trovano molte parole e modi greci introdottivi parte dalla letteratura, parte dal commercio e vicinanza delle colonie greco-italiane, parte dall’antico commercio avuto colla nazione greca sempre mercatrice, parte derivanti dalla stessa comune origine d’ambe le lingue, è lo stesso appunto che vedendo la nostra presente lingua italiana piena di francesismi, e modellata sulla francese, conchiudere che la lingua italiana è figlia della francese. Anzi v’ha più di francese nella presente lingua italiana (che è quasi una traduzione, e una scimia della francese) di quel che v’abbia di greco nella lingua latina, massime poi dell’antica. Del resto la parità va molto bene a proposito, perchè infatti le lingue italiana e francese sono appunto sorelle, come la greca e la latina. (20. Luglio 1822.).

Omero è il padre e il perpetuo principe di tutti i poeti del mondo. Queste due qualità di padre e principe non si riuniscono in verun altro uomo rispetto a verun’altra arte o scienza umana. Di più, nessuno riconosciuto per principe in qualunque altra arte o scienza, se ne può con questa sicurezza, cagionata dall’esperienza di tanti secoli, chiamar principe perpetuo. Tale è la natura della poesia ch’ella sia somma nel cominciare. Dico somma e inarrivabile in appresso in quanto puramente poesia, ed in quanto vera poesia, non in quanto allo stile ec. ec. Esempio ripetuto in Dante, che in quanto poeta, non ebbe nè avrà mai pari fra gl’italiani. (21. Luglio 1822.).

Non c’è virtù in un popolo senz’amor patrio, come ho dimostrato altrove. Vogliono che basti la Religione. I tempi barbari, bassi ec. erano religiosi fino alla superstizione, e la virtù dov’era? Se per religione intendono la pratica della medesima, vengono a dire che non c’è virtù senza virtù. Chi è religioso in pratica, è virtuoso. Se intendono la teorica, e la speranza e il timore delle cose di là, l’esperienza di tutti i tempi dimostra che questa non basta a fare un popolo attualmente e praticamente virtuoso. L’uomo, e specialmente la moltitudine non è fisicamente capace di uno stato continuo di riflessione. Or quello ch’è lontano, quello che non si vede, quello che dee venir dopo la morte, dalla quale ciascuno naturalmente si figura d’esser lontanissimo, non può fortemente costantemente ed efficacemente influire sulle azioni e sulla vita, se non di chi tutto giorno riflettesse. Appena l’uomo entra nel mondo, anzi appena egli esce dal suo interno (nel quale il più degli uomini non entra mai, e ciò per natura propria) le cose che influiscono su di lui, sono le presenti, le sensibili, o quelle le cui immagini sono suscitate e fomentate dalle cose in qualunque modo sensibili: non già le cose, che oltre all’esser lontane, appartengono ad uno stato di natura diversa dalla nostra presente, cioè al nostro stato dopo la morte, e quindi, vivendo noi necessariamente fra la materia, e fra questa presente natura, appena le sappiamo considerare come esistenti, giacchè non hanno che far punto con niente di quello la cui esistenza sperimentiamo, e trattiamo, e sentiamo ec. La conchiusione è che tolta alla virtù una ragione presente, o vicina, e sensibile, e tuttogiorno posta dinanzi a noi; tolta dico questa ragione alla virtù (la qual ragione, come ho provato, non può esser che l’amor patrio), è tolta anche la virtù: e la ragione lontana, insensibile, e soprattutto, estrinseca affatto alla natura della vita presente, e delle cose in cui la virtù si deve esercitare, questa ragione, dico, non sarà mai sufficiente all’attuale e pratica virtù dell’uomo, e molto meno della moltitudine, se non forse ne’ primi anni, in cui dura il fervore della nuova opinione, come nel primo secolo del Cristianesimo (corrotto già nel secondo. V. i SS. Padri.) (21. Luglio 1822.).

Alla p. 2558. Anche gli spagnuoli hanno la particella compositiva des corrispondente al nostro dis, ed è fra loro frequentissima. Queste spesso significano cessazione, come desamparar, disguardare, dismettere (che vuol dir cessare da un’opera ec. laddove intermettere vale lasciarla per un poco) ec. ec. Tali particelle potrebbono venire dalla latina de corrotta in des o dis, come da dedignari, disdegnare, desdeñar, ec. e il sopraddetto dismettere forse viene da dimittere che in molti significati non ha la forza della particella di, ma di de, mutata forse in di per la composizione o per corruzione. V. il Forcell. in Dimitto. In ogni modo i nostri composti formati colla particella dis, e gli spagnuoli colla des, ec. possono dimostrare l’esistenza antica di molti tali composti nel latino volgare, non conosciuti nel latino scritto: o che in esso volgare la detta particella si pronunziasse de, o dis, come abbiamo anche veduto, o nell’un modo e nell’altro, o comunque. (23. Luglio. 1822.).

La lingua latina ebbe un modello d’altra lingua regolata, ordinata, e stabilita, su cui formarsi. Ciò fu la greca, la quale non n’ebbe alcuno. Tutte le cose umane si perfezionano grado per grado. L’aver avuto un modello, al contrario della lingua greca, fu cagione che la lingua latina fosse più perfetta della greca, e altresì che fosse meno libera. (Nè più nè meno dico delle letterature greca e latina rispettivamente; questa più perfetta, quella più originale e indipendente e varia.) I primi scrittori greci, anche sommi, ed aurei, come Erodoto, Senofonte ec. erano i primi ad applicar la dialettica, e l’ordine ragionato all’orazione. Non avevano alcun esempio di ciò sotto gli occhi. Quindi, com’è naturale a chiunque incomincia, infinite sono le aberrazioni loro dalla dialettica e dall’ordine ragionato. Le quali aberrazioni passate poi e confermate nell’uso dello scrivere, sanzionate dall’autorità, e dallo stesso errore di tali scrittori, sottoposte a regola esse pure, o divenute regola esse medesime, si chiamarono, e si chiamano, e sono eleganze, e proprietà della lingua greca. Così è accaduto alla lingua italiana. La ragione è ch’ella fu molto e da molti scritta nel 300, secolo d’ignoranza, e che anche allora fu applicata alla letteratura in modo sufficiente per far considerare quel secolo come classico, dare autorità a quegli scrittori, presi in corpo e in massa, e farli seguire da’ posteri. I greci o non avevano affatto alcuna lingua coltivata a cui guardare, o se ve n’era, era molto lontana da loro, come forse la sascrita, l’egiziana, ec. e poco o niente nota, neanche ai loro più dotti. Gl’italiani n’avevano, cioè la latina e la greca. Ma quel secolo ignorante non conosceva la greca, pochissimo la latina, massime la latina buona e regolata. (Fors’anche molti conoscendo passabilmente il latino, e fors’anche scrivendolo con passabile regolatezza, erano sregolatissimi in italiano, per incapacità di applicar quelle regole a questa lingua, che tutto dì favellavano sregolatamente; di conoscere o scoprire i rapporti delle cose ec.) Quei pochi che conobbero un poco di latino, scrissero con ordine più ragionato, come fecero principalmente i frati, Passavanti, F. Bartolommeo, Cavalca ec. Dante, e più ancora il Petrarca e il Boccaccio che meglio di tutti conoscevano il buono e vero latino, meno di tutti aberrarono dall’ordine dialettico dell’orazione. Questi principalmente diedero autorità presso i posteri a’ loro scrittori contemporanei, la massima parte ignoranti, non solo di fatto, ma anche di professione laici e illetterati, e che non pretendevano di scrivere se non per bisogno, come i nostri castaldi. I quali abbondarono di sragionamenti, e disordini gramaticali d’ogni sorta.

Di tali aberrazioni n’hanno tutte le lingue quando si cominciano a scrivere, e tutte nel séguito ne conservano più o meno, sotto il nome di proprietà loro, benchè non sieno in origine e in sostanza, se non errori de’ loro primi scrittori e letterati, perpetuati nell’uso della scrittura nazionale. Meno d’ogni altra fra le antiche, n’ebbe o ne conservò la lingua latina, per la detta ragione, fra l’altre. Meno di tutte fra l’antiche e le moderne, ne conserva la lingua francese, non per altro se non perch’ella ha rinunziato e derogato e fatta assolutamente irrita l’autorità de’ suoi scrittori antichi, i quali abbondarono di tali aberrazioni o quanto gli altri, o più ancora. Parlo dei veramente antichi, cioè del sec. 160. e non del 170. quando lo spirito, la società e la conversazione francese era già in un alto grado di perfezione.

La ricchezza, il numero e l’estensione, ampiezza ec. delle facoltà di una lingua, è per lo più in proporzione del numero degli scrittori che la coltivarono prima delle regole esatte, della grammatica, e della formazione del Vocabolario. La lingua francese che ha rinunziato all’autorità di tutti gli scrittori propri anteriori alla sua grammatica e al suo Vocabolario (ch’erano anche pochi e di poco conto, e perciò hanno potuto essere scartati), è la meno ricca, e le sue facoltà son più ristrette che non son quelle di qualunqu’altra lingua del mondo. V. p. 2592. (25. Luglio, dì di S. Giacomo, 1822.).

Il piacere che noi proviamo della Satira, della commedia satirica, della raillerie, della maldicenza ec. o nel farla o nel sentirla, non viene da altro se non dal sentimento o dall’opinione della nostra superiorità sopra gli altri, che si desta in noi per le dette cose, cioè in somma dall’odio nostro innato verso gli altri, conseguenza dell’amor proprio che ci fa compiacere dello scorno e dell’abbassamento anche di quelli che in niun modo si sono opposti o si possono opporre al nostro amor proprio, a’ nostri interessi ec., che niun danno, niun dispiacere, niuno incomodo ci hanno mai recato, e fino anche della stessa specie umana; l’abbassamento della quale, derisa nelle commedie o nelle satire ec. in astratto, e senza specificazione d’individui reali, lusinga esso medesimo la nostra innata misantropia. E dico innata, perchè l’amor proprio, ch’è innato, non può star senza di lei. (25. Luglio, dì di S. Giacomo maggiore 1822.).

Adesso chi nasce grande, nasce infelice. Non così anticamente, quando il mondo abbondava e di pascolo (cioè di spettacolo e trattenimento), e di esercizio, e di fini, e di premi all’anime grandi. Anzi a quei tempi era fortuna il nascer grande come oggi il nascer nobile e ricco. Perocchè siccome nella monarchia quelli che nascono di grande e ricca famiglia, ricevono le dignità, gli onori, le cariche dalla mano dell’ostetrice (per servirmi di un’espressione di Frontone ad Ver. l. 2. ep. 4. p. 121.), così nè più nè meno accadeva anticamente ai grandi e magnanimi e valorosi ingegni. I quali nelle circostanze, nell’attività e nell’immensa vita di quei tempi, non potevano mancare di svilupparsi, coltivarsi e formarsi; e sviluppati, formati e coltivati non potevano mancar di prevalere e primeggiare; come oggidì possono esser certi di tutto il contrario. Lascio che quanto gli animi erano più grandi, tanto meglio erano disposti a godere della vita, la quale in quei tempi non mancava, e di tanto maggior vita erano capaci, e quindi di tanto maggior godimento; e perciò ancora era da riputarsi a vera fortuna e privilegio della natura il nascer grand’uomo, e s’aveva a considerare come un effettivo e realizzabilissimo mezzo di felicità: all’opposto di quello che oggi interviene. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1822.).

Nelle parole si chiudono e quasi si legano le idee, come negli anelli le gemme, anzi s’incarnano come l’anima nel corpo, facendo seco loro come una persona, in modo che le idee sono inseparabili dalle parole, e divise non sono più quelle, sfuggono all’intelletto e alla concezione, e non si ravvisano, come accadrebbe all’animo nostro disgiunto dal corpo. (27. Luglio. 1822.).

Ho paragonato altrove gli organi intellettuali dell’uomo agli esteriori, e particolarmente alla mano, e dimostrato che siccome questa non ha da natura veruna facoltà (anzi da principio è inetta alle operazioni più facili e giornaliere), così niuna ne portano gli organi intellettuali, ma solamente la disposizione o possibilità di conseguirne, e questa più o meno secondo gl’individui. Nello stesso modo io non dubito che se meglio si ponesse mente, si troverebbero anche negli organi esteriori dell’uomo, p. e. nella mano, molte differenze di capacità, non solo relativamente alle diverse assuefazioni, e al maggiore o minore esercizio di detto organo, ma naturalmente, e indipendentemente da ogni cosa acquisita; come accade negl’ingegni, che per natura sono qual più qual meno conformabili, e disposti ad assuefarsi, cioè ad imparare. E forse a queste differenze si vuole attribuire l’eccessiva e maravigliosa inabilità di alcuni che non riescono (anche provandosi) a saper far colle loro mani quello che il più degli uomini fanno tuttogiorno senza pure attendervi nè anche pensarvi; e l’altrettanto mirabile facilità ch’altri hanno d’imparare senza studio, e d’eseguire speditissimamente le più difficili operazioni manuali, che il più degli uomini o non sanno fare, o non fanno se non adagio, e con attenzione. Vero è che si trova molto minor differenza individuale fra la capacità generica della mano di questo o di quello, che fra la capacità de’ vari ingegni. Ma questo nasce che tutti in un modo o nell’altro esercitano la mano, e quindi le danno e proccurano una certa abilità e assuefabilità generale: non così l’ingegno. Ed è molto maggiore, generalmente parlando, il divario che passa fra l’esercizio de’ diversi ingegni, che fra l’esercizio della mano de’ diversi individui. Divario che non è naturale, e non ha che far colle disposizioni native di tali organi. (28. Luglio. Domenica 1822.).

È frequentissimo e amplissimo nell’Italiano o nello Spagnuolo l’uso della voce termine nel suo plurale massimamente, la quale piglia diversi significati, secondo ch’ell’è applicata. (Questi per lo più importano condizione, stato, essere sustantivo o cosa simile.) Vedi la Crus. Non così nel latino scritto, dov’essa voce non ha che la forza di confine o limite ec. Pur vedi presso il Forcell. nell’ultimo esempio di questa voce, ch’è di Plauto, una frase tutta italiana e spagnuola, la qual può dimostrare che detta voce nel volgare latino avesse o tutti o in parte quegli usi appunto ch’ell’ha nelle dette lingue. V. Du Cange, s’ha nulla. V. anche l’Alberti Diz. franc. Terme in fine. (29. Luglio. 1822.).

A un giovane il quale essendo innamorato degli studi, diceva che della maniera di vivere, e della scienza pratica degli uomini se n’imparano cento carte il giorno, rispose N. N. ma il libro (ma gli è un libro) è da 15 o 20 milioni di carte . (30. Luglio 1822.).

Da coquere diciamo cocere (che per più gentilezza e per proprietà italiana si scrive cuocere) mutato il qu radicale, in c parimente radicale. Che questa lettera fosse radicale anche ab antico si può raccogliere dalla voce praecox (cioè praecocs) praecocis, la quale (spogliata della prep. prae) forse contiene la radice di coquere. E molte altre pronunzie volgari di voci derivate dal latino, si potrebbono forse dimostrare antichissime con simili osservazioni delle loro radici (o già note, o scopribili), delle voci loro affini ec. (30. Luglio. 1822.). V. Forcellini Coquo, Praecox ec. e il Glossario.

Da quello che altrove ho detto de’ numeri ec. si deduce che gli animali, non avendo lingua, non sono capaci di concepir quantità determinata ec. se non menoma, e ciò non per difetto di ragione, e insufficienza e scarsezza d’intendimento, ma per la detta necessarissima causa. (30. Luglio 1822.). Onde l’idea della quantità determinata (benchè cosa materialissima) è esclusivamente propria dell’uomo.

La letteratura greca fu per lungo tempo (anzi lunghissimo) l’unica del mondo (allora ben noto): e la latina (quand’ella sorse) naturalissimamente non fu degnata dai greci, essendo ella derivata in tutto dalla greca; e molto meno fu da essi imitata. Come appunto i francesi poco degnano di conoscere e neppur pensano d’imitare la letteratura russa o svedese, o l’inglese del tempo d’Anna, tutte nate dalla loro. Così anche, la lingua greca fu l’unica formata e colta nel mondo allora ben conosciuto (giacchè p. e. l’India non era ben conosciuta). Queste ragioni fecero naturalmente che la letteratura e lingua greca si conservassero tanto tempo incorrotte, che d’altrettanta durata non si conosce altro esempio. Quanto alla lingua n’ho già detto altrove. Quanto alla letteratura, lasciando stare Omero, è prodigiosa la durata della letteratura greca non solo incorrotta, ma nello stato di creatrice. Da Pindaro, Erodoto, Anacreonte, Saffo, Mimnermo, gli altri lirici ec. ella dura senza interruzione fino a Demostene; se non che, dal tempo di Tucidide a Demostene, ella si restringe alla sola Atene per circostanze ch’ora non accade esporre. V. Velleio lib.1. fine. Nati, anzi propagati e adulti i sofisti e cominciata la letteratura greca (non la lingua) a degenerare, (massime per la perdita della libertà, da Alessandro, cioè da Demostene in poi), ella con pochissimo intervallo risorge in Sicilia e in Egitto, e ancora quasi in istato di creatrice. Teocrito, Callimaco, Apollonio Rodio ec. Finito il suo stato di creatrice, e dichiaratasi la letteratura greca imitatrice e figlia di se stessa, cioè ridotta (come sempre a lungo andare interviene) allo studio e imitazione de’ suoi propri classici antichi, l’esser questi classici, suoi, e questa imitazione, di se stessa, la preserva dalla corruzione, e purissimi di stile e di lingua riescono Dionigi Alicarnasseo, Polibio, e tutta la φορὰ di scrittori greci contemporanei al buon tempo della letteratura latina; i quali appartengono alla classe, e sono in tutto e per tutto una φορὰ d’imitatori dell’antica letteratura greca, e di quella φορὰ durevolissima di scrittori greci classici, ch’io chiamo φορὰ creatrice. Corrotta già la letteratura latina, e sfruttata e indebolita, la greca sopravvive alla sua figlia ed alunna, e s’ella produce degli Aristidi, degli Erodi attici, e altri tali retori di niun conto nello stile (non barbari però, e nella lingua purissimi), ella pur s’arricchisce d’un Arriano, d’un Plutarco, d’un Luciano, ec. che quantunque imitatori, pur sanno così bene scrivere, e maneggiar lo stile e la lingua antica o moderna, che quasi in parte le rendono la facoltà creatrice. Aggiungi che in tal tempo la Grecia, colla sua letteratura e lingua incorrotta, era serva, e l’Italia signora colla sua letteratura e lingua imbastardita e impoverita. (30. Luglio 1822.).

La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente umana. ( L’histoire de chaque langue est l’histoire des peuples qui l’ont parlée ou qui la parlent, et l’histoire des langues est l’histoire de l’esprit humain.) (31. Luglio, dì di S. Ignazio Loiola. 1822.).

Intorno all’etimologia di favellare. L’altre due voci sono favellare e cicalare: l’una si è dir favole; e cicalare si è il cigolare degli uccelli . Cellini Discorso sopra la differenza nata tra gli Scultori e Pittori circa il luogo destro stato dato alla Pittura nelle Essequie del gran Michelagnolo Bonarroti. fine. Opere di Benvenuto Cellini, Mil. 1806-11. vol. 3. p. 261. Parla di tre voci che s’usano in lingua toscana per esprimere il parlare, e la prima detta dal Cellini si è ragionare, il che egli dice che vuol fare, e non favellarecicalare. (2. Agosto, dì del perdono. 1822.).

Le stelle, i pianeti ec. si chiamano più o men belle, secondo che sono più o meno lucide. Così il sole e la luna secondo che son chiari e nitidi. Questa così detta bellezza non appartiene alla speculazione del bello, e vuol dir solamente che il lucido, per natura, è dilettevole all’occhio nostro, e rallegra l’animo ec. ec. (3. Agosto. 1822.).

Alla p. 2581. marg. Fra le lingue antiche, la greca non solo ebbe infiniti scrittori prima della sua grammatica, ma prima ancora d’ogni grammatica conosciuta. Quindi la sua inesauribile ricchezza, e la sua assoluta onnipotenza. La lingua latina per verità non dico che avesse Vocabolari (sebbene ebbe forse parecchie nomenclature ec. come la greca col tempo ebbe i suoi libri detti Ἀττικισταὶ ec. ec.), e certo ebbe parecchi scrittori anteriori alla sua grammatica (fra’ quali se vogliamo porre Cicerone, sarà certo che questi furono i migliori), ma la grammatica essa già l’aveva in quella della lingua greca, studiando la qual lingua per principii e nelle scuole ec. (cosa che i greci non avevano mai fatto con altra lingua del mondo) necessariamente i latini imparavano le regole universali della grammatica e l’analisi esatta del linguaggio, e applicavano tutto ciò alla lingua loro: lasciando star gl’infiniti libri di grammatica greca che già s’avevano dal tempo de’ Tolomei in giù. Quindi la lingua latina, per antica, riuscì meno libera e meno varia d’ogni altra. Laddove la lingua italiana scritta primieramente da tanti che nulla sapevano dell’analisi del linguaggio (poco o nulla studiando altra lingua e grammatica, come sarebbe stata la latina), venne, per lingua moderna, similissima di ricchezza e d’onnipotenza alla greca. La lingua tedesca ha veramente grammatica, ma non so quanto sia rispettata dagli scrittori tedeschi; ovvero le eccezioni superando le regole, queste vengono ad essere illusorie, e il grammatico non può far altro ch’andar qua e là dietro chi scrive, per vedere e notar come scrivono. Di più ella non ha vocabolario riconosciuto per autorevole, e questo in una lingua moderna è una gran cosa conducentissima alla ricchezza, potenza, libertà della lingua. (4. Agosto. 1822.).

Ho detto altrove che le voci greche nelle lingue nostre non sono altro che termini (in proporzione però del tempo da ch’elle vi sono introdotte: p. e. filosofia e tali altre voci greche venuteci mediante il latino, sono alquanto più che termini), cioè ch’elle non esprimono se non se una pura idea, senz’alcun’altra concomitante. Per questa ragione appunto, oltre le altre notate altrove, le voci greche sono infinitamente a proposito nelle nostre scuole e scienze, perocch’elle rappresentano costantemente e schiettamente quella nuda, secca e semplicissima idea alla quale sono state appropriate; e perciò servono alla precisione molto meglio di quello che possano mai fare le voci tolte dalle proprie lingue, le quali voci benchè fossero formate, composte ec. di nuovo, sempre porterebbero seco qualche idea concomitante. Ma per questa medesima ragione le voci greche sono intollerabili nella bella letteratura (barbare poi nella poesia, benchè i francesi si facciano un pregio, un vezzo e una galanteria d’introdurcele), dove intollerabili sono le idee secche e nude, o la secca e nuda espressione delle idee. (6. Agosto 1822.).

A ciò che ho detto altrove di quel verso dell’Alfieri, Disinventore od inventor del nulla , soggiungi. Quest’appunto è la mirabile facoltà della lingua greca, ch’ella esprime facilmente, senza sforzo, senza affettazione, pienamente e chiarissimamente, in una sola parola, idee che l’altre lingue talvolta non possono propriamente e interamente esprimere in nessun modo, non solo in una parola, ma nè anche in più d’una. E questo non lo conseguisce la detta lingua per altro mezzo che della immensa facoltà de’ composti.

Quanta sia l’influenza dell’opinione e dell’assuefazione anche sui sensi, l’ho notato altrove coll’esempio del gusto, che pur sembra uno de’ sensi più difficili ad essere influiti da altro che dalle cose materiali. Aggiungo una prova evidente. Io mi ricordo molto bene che da fanciullo mi piaceva effettivamente e parevami di buon sapore tutto quello che (per qualunque motivo ch’essi s’avessero) m’era lodato per buono da chi mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose, ch’effettivamente secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi piacciono, ma mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti cibi s’è mutato a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente mia s’è avvezzata a giudicar da se, e s’è venuta rendendo indipendente dal giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la sensazione. La qual assuefazione ch’è propria dell’uomo, e ch’è generalissima, potrà essere ridicolo, ma pur è verissimo il dire che influisce anche in queste minuzie, e determina il giudizio del palato sulle sensazioni che se gli offrono, e cambia il detto giudizio da quello che soleva essere prima della detta assuefazione. In somma tutto nell’uomo ha bisogno di formarsi; anche il palato: ed è cosa facilissimamente osservabile che il giudizio de’ fanciulli sui sapori, e sui pregi e difetti dei cibi relativamente al gusto, è incertissimo, confusissimo e imperfettissimo: e ch’essi in moltissimi, anzi nel più de’ casi non provano punto nè il piacere che gli uomini fatti provano nel gustare tale o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio i villani, e la gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di cibi, il cui giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch’essi ne provano) è poco meno imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa dell’inesercizio del palato.

Del resto quello ch’io ho detto di me stesso, avviene indubitatamente a tutti, e ciascuno se ne potrà ricordare. Perchè sebbene non tutti, col crescere, si liberano dall’influenza della prevenzione, e acquistano l’abito di giudicare da se generalmente parlando, pure, in quanto alle sensazioni materiali, difficilmente possono mancare di acquistarlo, essendo cosa di cui tutti gli spiriti sono capaci. Nondimeno anche questo va in proporzione degl’ingegni, e della maggiore o minore conformabilità, ed io ho espressamente veduto uomini di poco, o poco esercitato talento, durar lunghissimo tempo a compiacersi di saporacci e alimentacci ai quali erano stati inclinati nella fanciullezza. E ho veduto pochi uomini il cui spirito dalla fanciullezza in poi abbia fatto notabile progresso, pochi, dico, n’ho veduti, che anche intorno ai cibi non fossero mutati quasi interamente di gusto da quel ch’erano stati nella puerizia.

Ben potrebbono tuttavia esser poco conformabili i sensi esteriori, o qualcuno de’ medesimi, in un uomo di conformabilissimo ingegno. Ma si vede in realtà che questo accade di rado, e per lo più la natura degli individui (come quella delle specie, e dei generi, e come la natura universale) si corrisponde appresso a poco in ciascuna sua parte. E in questo caso particolarmente ciò è ben naturale, poichè la conformabilità non è altro che maggiore o minor dilicatezza di organi e di costruzione; e difficilmente si trovano affatto rozzi, duri, non pieghevoli i tali o tali organi in un individuo che sia dilicatamente formato nell’altre sue parti. Come infatti è osservato da’ fisici che l’uomo (della cui suprema conformabilità di mente diciamo altrove) è parimente di tutti gli animali il più abituabile, e il più conformabile nel fisico: però il genere umano vive in tutti i climi, e uno individuo medesimo in vari climi ec. a differenza degli altri animali, piante ec. Così mi faceva osservare in Firenze il Conte Paoli. (6. Agosto. 1822.).

L’uniformità è certa cagione di noia. L’uniformità è noia, e la noia uniformità. D’uniformità vi sono moltissime specie. V’è anche l’uniformità prodotta dalla continua varietà, e questa pure è noia, come ho detto altrove, e provatolo con esempi. V’è la continuità di tale o tal piacere, la qual continuità è uniformità, e perciò noia ancor essa, benchè il suo soggetto sia il piacere. Quegli sciocchi poeti, i quali vedendo che le descrizioni nella poesia sono piacevoli hanno ridotto la poesia a continue descrizioni, hanno tolto il piacere, e sostituitagli la noia (come i bravi poeti stranieri moderni, detti descrittivi): ed io ho veduto persone di niuna letteratura, leggere avidamente l’Eneide (ridotta nella loro lingua) la qual par che non possa esser gustata da chi non è intendente, e gettar via dopo i primi libri le Metamorfosi, che pur paiono scritte per chi si vuol divertire con poca spesa. Vedi quello che dice Omero in persona di Menelao: Di tutto è sazietà, della cetra, del sonno ec. La continuità de’ piaceri, (benchè fra loro diversissimi) o di cose poco differenti dai piaceri, anch’essa è uniformità, e però noia, e però nemica del piacere. E siccome la felicità consiste nel piacere, quindi la continuità de’ piaceri (qualunque si sieno) è nemica della felicità per natura sua, essendo nemica e distruttiva del piacere. La Natura ha proccurato in tutti i modi la felicità degli animali. Quindi ell’ha dovuto allontanare e vietare agli animali la continuità dei piaceri. (Di più abbiamo veduto parecchie volte come la Natura ha combattuto la noia in tutti i modi possibili, ed avutala in quell’orrore che gli antichi le attribuivano rispetto al vuoto.) Ecco come i mali vengono ad esser necessarii alla stessa felicità, e pigliano vera e reale essenza di beni nell’ordine generale della natura: massimamente che le cose indifferenti, cioè non beni e non mali, sono cagioni di noia per se, come ho provato altrove, e di più non interrompono il piacere, e quindi non distruggono l’uniformità, così vivamente e pienamente come fanno, e soli possono fare, i mali. Laonde le convulsioni degli elementi e altre tali cose che cagionano l’affanno e il male del timore all’uomo naturale o civile, e parimente agli animali ec. le infermità, e cent’altri mali inevitabili ai viventi, anche nello stato primitivo, (i quali mali benchè accidentali uno per uno, forse il genere e l’università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti, e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e collocati e ricevuti nell’ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità. E ciò non solo perch’essi mali danno risalto ai beni, e perchè più si gusta la sanità dopo la malattia, e la calma dopo la tempesta: ma perchè senza essi mali, i beni non sarebbero neppur beni a poco andare, venendo a noia, e non essendo gustati, nè sentiti come beni e piaceri, e non potendo la sensazione del piacere, in quanto realmente piacevole, durar lungo tempo ec. (7. Agosto 1822.).

Ἔργα νέων, βουλαὶ δὲ μέσων, εὐχαὶ δὲ γερόντων. Verso di non so qual poeta antico, applicabile e proporzionabile alle diverse età del genere umano, come lo è qualunque cosa si possa dire intorno alle diverse età dell’individuo. E infatti del secol nostro non è proprio altro che il desiderio (eternamente inseparabile dall’uomo anche il più inetto, e debole, e inattivo e non curante; per cagione dell’amor proprio che spinge alla felicità, la qual mai non s’ottiene) e il lasciar fare. (7. Agosto. 1822.).

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Ho mostrato altrove che quasi tutte le principali scoperte che servono alla vita civile sono state opera del caso, e tiratone le sue conseguenze. Voglio ora spiegare e confermar la cosa con un esempio. L’arte di fare il vetro, anzi l’idea di farlo, e la pura cognizione di poterlo fare (la qual arte è antichissima), è egli credibile che sia mai potuta venire all’uomo per via di ragionamento? Cavar dalle ceneri, e altre materie la cui specie esteriore è toto coelo distante dalla forma e qualità del vetro (v. l’Arte Vetraria d’Antonio Neri ) un corpo traslucido, fusibile, configurabile a piacimento ec. ec. può mai essere stato a principio insegnato da altro che da uno o più semplicissimi e assolutissimi casi? Ora quanta parte abbia l’uso del vetro nell’uso della vita e delle comodità civili, com’esso appartenga al numero dei generi necessari, come abbia servito alle scienze, quante immense e infinite scoperte si sieno fatte in ogni genere per mezzo de’ vetri ridotti a lenti ec. ec. ec., quanto debbano al vetro l’Astronomia, la Notomia, la Nautica (tanto giovata e promossa dalla scoperta dei satelliti di Giove fatta col telescopio ec.), tutte queste cose mi basta accennarle. Ma le accenno affinchè si veda che quando anche le successive scoperte, perfezionamenti ec. fatti, acquistati ec. intorno al vetro, o per mezzo del vetro ec. non sieno stati casuali ma pensati (sebbene l’invenzione dell’occhiale e del Cannocchiale si dice che fosse a caso): contuttociò si debbono tutti, esattamente parlando, riconoscere per casuali, essendo casuale la loro origine, cioè l’invenzione del vetro, senza la quale niente del sopraddetto avrebbe avuto luogo. E però tutta quella parte (non piccola) del sapere, dei comodi, della civiltà umana che ha dipendenza e principio ec. dall’invenzione del vetro, e che senza questa non si sarebbe conseguita, è realmente casuale, e per puro caso acquistata.

E che queste ed altre simili innumerevoli scoperte sieno state veri casi, si può arguire anche dal vedere che moltissimi popoli composti di esseri che per natura, ingegno naturale, ec. erano e sono in tutto come noi, non essendosi dati presso loro, i casi che si son dati presso noi, mancavano o mancano affatto di queste o quelle invenzioni e di tutti i progressi dello spirito umano che ne son derivati: e ciò quando anche detti popoli fossero in molta società, ed avessero fatto molte altre scoperte, quali erano p. e. in America i Messicani, popolo in gran parte civile, che non per tanto mancava appunto del vetro.

Di più osservo che quantunque la Chimica abbia fatto oggidì tanti progressi, e sia così dichiarata e distinta ne’ suoi principii, in maniera da parere ch’ella potesse e dovesse far grandi scoperte, non più attribuibili al caso, ma solo al ragionamento; niuna mai ne ha fatta che abbia di grandissima lunga l’importanza e l’influenza di quelle che ci son venute dagli antichi, fatte in tempi d’ignoranza, e senza principii, o con pochissimi e indigesti e mal intesi principii delle analoghe scienze (la scoperta della polvere, del vetro ec.) Tutto quel ch’ha fatto è stato di perfezionar le antiche, o di farne delle analoghe (come quella della polvere fulminante) che non si sarebbero fatte se le antiche non fossero state già conosciute. E quel che dico della Chimica dico delle altre scienze. Voglio inferire che quelle principali scoperte che o subito, o col perfezionamento, accrescimento, applicazione ch’hanno poi subìto, decisero e decidono, cagionarono e cagionano in gran parte i progressi dello spirito umano, originariamente non sono effetti della scienza nè del discorso, ma del puro caso, essendo state fatte ne’ tempi d’ignoranza, e non sapendosene far di gran lunga delle simili colla maggior possibile scienza. E che per tanto tutta quella parte del sapere e della civiltà, tutto quel preteso perfezionamento dell’uomo e della società che dipende in qualunque modo dalle predette scoperte (la qual parte è grandissima anzi massima), non è stato nè preordinato nè prevoluto dalla natura, perchè quegli che non ha preordinato nè prevoluto le cause e le prime indispensabili origini (le quali, come dico, sono state assolutamente accidentali), non può avere ordinato nè voluto gli effetti. (10. Agosto, dì di S. Lorenzo. 1822.).

Quello che ho detto del vetro, si dee dire di mille e mille altre importantissime invenzioni, che senza una benchè menoma notizia e traccia ec. che però il solo caso ha potuto somministrare, non si sarebbero mai potute fare, e però son tutte casuali, per applicate, accresciute, perfezionate che sieno state in seguito, e quando anche non si possano più riconoscere da quel che furono a principio, non si possa neanche investigare la loro prima origine e forma e natura, ec. ec. (10. Agosto. 1822.).

Così tosto come il bambino è nato, convien che la madre che in quel punto lo mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà. E l’uno de’ principali uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocchè i dolori e i mali e le passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non a quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per Dio! perchè dunque nasce l’uomo? e perchè genera? per poi racconsolar quelli che ha generati del medesimo essere stati generati? (13. Agosto 1822.).

Si può scrivere in italiano senza scrivere in maniera italiana, laddove non si può quasi scrivere in francese che non si scriva alla maniera francese. E si può scrivere e parlare in italiano e non all’italiana: scrivere un italiano non italiano ec. (16. Agosto, dì di S. Rocco. 1822.).

Sallustio, Catil. c. 23. Maria montesque polliceri. Non si trova, ch’io sappia, questo proverbio, oggi volgarissimo in Italia, se non in questo scrittore studiosissimo delle voci e maniere antiche, e che per conseguenza bene spesso declina alle voci e maniere popolari, come sempre accade agli scrittori studiosi dell’antichità della lingua, della quale antichità principal conservatrice è la plebe. (17. Agosto. 1822.).

La nazione spagnuola poetichissima per natura e per clima fra tutte l’Europee (non agguagliata in ciò che dall’Italia e dalla Grecia), e fornita di lingua poetichissima fra le lingue perfette (non inferiore in detta qualità se non all’italiana, e non agguagliata di gran lunga da nessun’altra) non ha mai prodotto un poeta nè un poema che sia o sia stato di celebrità veramente europea. Tanto prevagliono le istituzioni politiche alle qualità naturali. Ἥμισυ γὰρ τ’ ἀρετῆς ἀποαίνυται δοᾣύλιον ἦμαρ (Homer.). E questa osservazione può molto servire a quelli che sostengono la maggiore influenza del governo rispetto al clima. (18. Agosto. Domenica. 1822.).

L’immenso francesismo che inonda i costumi e la letteratura e la lingua degl’italiani e degli altri europei, non è bevuto se non dai libri francesi, e dall’influenza delle loro mode, e coll’andarli a trovare in casa loro, il che per quanto sia frequente, non può mai esser gran cosa. Laddove Roma e l’Italia da’ tempi del secondo Scipione in poi, e massime sotto i primi imperatori, era piena di greci (greci proprii, o nativi d’altri paesi grecizzati); n’eran piene le case de’ nobili, dove i greci erano chiamati e ricevuti e collocati stabilmente in ogni genere di uffici, da quei della cucina, fino a quello di maestro di filosofia ec. ec. (V. Luciano περὶ τῶν ἐπὶ μισθῷ συνόντων , e l’epig. di Marziale del graeculus esuriens ec. ec.); n’eran pieni i palazzi e gli offici pubblici: oltre che tutti i ricchi mandavano i figli a studiare in Grecia, e questi poi divenivano i principali in Roma e in Italia, nelle cariche, nel foro ec. Quindi si può stimar quale e quanto dovesse necessariamente essere il grecismo de’ costumi, e letteratura, e quindi della lingua in Italia a quei tempi. Aggiunto che anche le donne avevano a sapere il greco, lo studio che tutti più o meno facevano de’ loro libri, e il piacere che ne prendevano, e le biblioteche che ne componevano ec. ec. (18. Agosto. Domenica. 1822.).

Dicasi quel che si vuole. Non si può esser grandi se non pensando e operando contro ragione, e in quanto si pensa e opera contro ragione, e avendo la forza di vincere la propria riflessione, o di lasciarla superare dall’entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in essa un ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e raffreddatrice. (22. Agosto 1822.).

Nessuna cosa è vergognosa per l’uomo di spirito nè capace di farlo vergognare, e provare il dispiacevole sentimento di questa passione, se non solamente il vergognarsi e l’arrossire. (22. Agosto. 1822.).

Non basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: e in ciò consiste la perfezion dell’arte, e la somma qualità dell’artefice. Alcuni de’ pochissimi che meritano nell’Italia moderna il nome di scrittori (anzi tutti questi pochissimi), danno a vedere di essere padroni dello stile: vale a dir che il loro stile è fermo, uguale, non traballante, non sempre sull’orlo di precipizi, non incerto, non legato e rétréci, come quello di tutti gli altri nostri moderni, francesisti o no, ma libero e sciolto e facile, e che si sa spandere e distendere e dispiegare e scorrere, sicuro di non dir quello che lo scrittore non vuole intendere, sicuro di non dir nulla in quel modo che lo scrittore non lo vuol dire, sicuro di non dare in un altro stile, di non cadere in una qualità che lo scrittore voglia evitare; procede a piè saldo senza inciampare nè dubitare di se stesso, non va a trabalzoni, ora in cielo ora in terra, or qua or là, ec. Tutte queste qualità nel loro stile si trovano, e si dimostrano, cioè si fanno sentire al lettore. Questi tali son padroni del loro stile. Ma il loro stile non è padrone delle cose, vale a dir che lo scrittore non è padrone di dir nel suo stile tutto ciò che vuole, o che gli bisogna dire, o di dirlo pienamente e perfettamente: e anche questo si fa sentire al lettore. Perciocchè spessissimo occorrendo loro molte cose che farebbero all’argomento, al tempo, ec. che sarebbero utili o necessarie in proposito, e ch’essi desidererebbero dire, e concepiscono perfettamente, e forse anche originalmente, e che darebbero luogo a pensieri notabili e belli; essi scrittori, ben conoscendo questo, tuttavia le fuggono, o le toccano di fianco, e di traverso, e se ne spacciano pel generale, o ne dicono sola una parte, sapendo ben che tralasciano l’altra, e che sarebbe bene il dirla, o in somma non confidano o disperano di poterle dire o dirle pienamente nel loro stile. La qual cosa non è mai accaduta ai veri grandi scrittori, ed è mortifera alla letteratura. E per ispecificare; i detti scrittori sono e si mostrano sicuri di non dare nel francese (cioè in quel cattivo italiano che è proprio del nostro tempo, e quindi naturale anche a loro, anzi solo naturale), ma non sono nè si mostrano sicuri di poter dire nel buono italiano tutto quello che loro occorra; come lo erano i nostri antichi. Anzi lasciano ottimamente sentire, che molte cose quasi necessarie, e delle quali si compiacerebbero se le avessero potuto e saputo dire nel buono italiano, e la cui mancanza si sente, e che molte volte sono anche notissime a tutti in questo secolo, essi le tralasciano avvertitamente, e le dissimulano, almeno da qualche necessaria parte, e se ne mostrano o ignoranti, o poco istruiti, o di non averle concepite, quando pur l’hanno fatto anche più degli altri, e che in somma non ardiscono dirle per timore di offendere il buono italiano e il proprio stile. Il qual timore e la quale impotenza assicurerebbe alla letteratura e filosofia italiana di non dar mai più un passo avanti, e di non dir mai più cosa nuova, come pur troppo si verifica nel fatto. (27. Agosto. 1822.).

Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodo non è mai legato col precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de’ periodi, come nelle altre lingue è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa nè può nè dee mai prendere quell’andamento piano, modesto disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano, anche parlando, e proprio di tutte le altre nazioni; questo tale scrivere, dico io, fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell’avventato del suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non trovano degno alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo scrittore e il lettore hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E par proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel polmone, e perciò gli convenga spezzare il suo dire, e fare i periodi corti, per fermarsi a respirare. (28. Agosto 1822.). Effettivamente il tuono di qualunque scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che parla ad alta voce. Tale riesce almeno per chi non è francese, e per chi non è assuefatto durante tutta la sua vita a letture francesi ec. Quel tuono moderato del discorso naturale, col qual tuono gli antichi aprivano anche le loro Orazioni, e fra queste, anche [le] più veementi e passionate, è una qualità eterogenea anche alle lettere familiari de’ francesi. (28. Agosto 1822.).

In questa, come in molte altre qualità, lo scriver francese si rassomiglia allo stile orientale, il quale anch’esso per le medesime ragioni, e per loro necessaria conseguenza è tutto spezzato, come si vede ne’ libri poetici e sapienziali della scrittura. La lingua ebraica manca quasi affatto di congiunzioni d’ogni sorta, e non può a meno di passar da un periodo all’altro senza legame, se pure vuol servire alla varietà, perchè altrimenti tutti i suoi periodi comincerebbero, come moltissimi cominciano, dall’uau. Ma ciò può esser virtù per gli orientali, essendo difetto ne’ francesi: perchè a quelli è naturale, a questi no. Neppur noi italiani, neppur gli spagnuoli hanno quella tanta soprabbondanza di sentimento vitale, e quella tanta veemenza e rapidità naturale e abituale e fisica d’immaginazione che hanno gli orientali; a cui perciò riesce insoffribilmente languido e lento quell’andamento dello scrivere che per noi è moderato, e quelle immagini ec. che per noi tengono il giusto mezzo; e a cui riesce moderatissimo quel che riesce eccessivo per noi. Ma se neppur gl’italiani e neppur gli spagnuoli hanno la forza abituale e fisica della vita interna che hanno gli orientall, molto meno ci arriveranno i francesi. E in verità il modo del loro scrivere è per loro abito, non già natura, come si può vedere anche ne’ loro scrittori antichi. (28. Agosto. 1822.).

La niuna società dei letterati tedeschi, e la loro vita ritirata e indefessamente studiosa e di gabinetto, non solo rende le loro opinioni e i loro pensieri indipendenti dagli uomini (o dalle opinioni altrui), ma anche dalle cose. Laonde le loro teorie, i loro sistemi, le loro filosofie, sono per la più parte (a qualunque genere spettino: politico, letterario, metafisico, morale, ec. ed anche fisico) poemi della ragione. In fatti delle grandi e vere e sode scoperte sulla natura e la teoria dell’uomo, de’ governi ec. ec. la fisica generale ec. n’han fatto gl’inglesi (come Bacone, Newton, Locke), i francesi (come Rousseau, Cabanis) e anche qualche italiano (come Galilei, Filangieri ec.), ma i tedeschi nessuna, benchè tutto quello che i loro filosofi scrivono, sia, per qualche conto, nuovo, e benchè i tedeschi abbondino d’originalità in ogni genere sopra ogni altra nazion letterata (ma non sanno essere originali se non sognando): e benchè la nazion tedesca abbia tanti metafisici, computando anche i soli moderni, quanti non ne hanno le altre nazioni tutte insieme, computando i moderni e gli antichi: e bench’ella sia profondissima d’intelletto per natura, e per abito. Di più i letterati tedeschi hanno appunto in sommo grado quello che si richiede al filosofo per non esser sognatore, e per non discostarsi dal vero andandone in cerca: il che i filosofi delle altre nazioni non sogliono avere. Vale a dir che i tedeschi hanno un sapere immenso, una cognizione quasi (s’egli è possibile) intera e perfetta di tutte le cose che sono e che furono. Ed essendo essi così padroni della realtà per forza del loro studio, e gli altri letterati essendo così poco padroni de’ fatti, è veramente maraviglioso, come certissimo, che laddove l’altre nazioni oramai tutte filosofano anche poetando, i tedeschi poetano filosofando. E si può dir con verità che il menomo e il più superficiale de’ filosofi francesi (così leggieri e volages per natura e per abito) conosce meglio l’uomo effettivo e la realtà delle cose, di quel che faccia il maggiore e il più profondo de’ filosofi tedeschi (nazione sì riflessiva). Anzi la stessa profondità nuoce loro: e il filosofo tedesco tanto più s’allontana dal vero, quanto più si profonda o s’inalza; all’opposto di ciò che interviene a tutti gli altri. (29. Agosto. 1822.). I tedeschi incontrano molto meglio e molto più spesso nel vero quando scherzano, o quando parlano con una certa leggerezza e guardando le cose in superficie, che quando ragionano: e questo o quel romanzo di Wieland contiene un maggior numero di verità solide, o nuove, o nuovamente dedotte, o nuovamente considerate, sviluppate ed espresse, anche di genere astratto, che non ne contiene la Critica della ragione di Kant. (30. Agosto 1822.). Vedi l’abbozzo del mio discorso sopra i costumi presenti degl’italiani.

È curioso l’osservare come l’universalità sia passata dalla lingua greca ch’è la più ricca, vasta, varia, libera, ardita, espressiva, potente, naturale di tutte le lingue colte, alla francese ch’è la più povera, limitata, uniforme, schiava, timida, languida, inefficace, artifiziale delle medesime. E più curioso che l’una e l’altra lingua abbiano servito all’universalità appunto perchè possedevano in sommo grado le predette qualità, che sono contrarie direttamente fra loro. E pur tant’è, ed anche oggidì dalla lingua francese in fuori, non v’è, e mancando la lingua francese, non vi sarebbe lingua meglio adattata all’universalità della greca, ancorchè morta, (2. Settem. 1822.) ed ancorch’ella sia precisamente l’estremo opposto alla lingua francese. (2. Sett. 1822.).

Alla p. 1271. Io tengo per certissimo che l’invenzione dell’alfabeto sia stata una al mondo, voglio dir che la scrittura alfabetica non sia stata inventata in più luoghi (o al medesimo tempo o in diversi tempi) ma in un solo, e da questo sia passata la cognizione e l’uso della detta scrittura di mano in mano a tutte le nazioni che scrivono alfabeticamente. Non è presumibile che un’invenzione ch’è un miracolo dello spirito umano (o forse ha la sua origine dal caso come il più delle invenzioni strepitose) sia stata ripetuta da molti, cioè fatta di pianta da molti spiriti. E la storia conferma ciò ch’io dico. 1. Le nazioni che non hanno, o non hanno avuto commercio con alcun’altra, o con alcun’altra letterata, non hanno avuto o non hanno alfabeto. Cento altre nostre cognizioni mirabili si son trovate sussistenti presso questo o quel popolo nuovamente scoperto: l’alfabeto (primo mezzo di vera civilizzazione) non mai. Il Messico avea governo, politica, nobiltà, gerarchie, premi militari, anzi Ordini cavallereschi rimuneratorii del merito, calendario, architettura, idraulica, cento belle arti manuali, navigazione, ec. ec. ed anche storie e libri geroglifici, ma non alfabeto. La China ha inventato polvere, bussola, e fino la stampa; ha infiniti libri, ha prodotto un Confucio, ha letteratura, ha gran numero di letterati, fino a farne più classi distinte, con graduazioni, lauree, studi pubblici ec. ec. ma non ha alfabeto (benchè i libri cinesi si vendano tutto dì per le strade della China al minutissimo popolo, e anche ai fanciulli, e la professione del libraio sia delle più ordinarie e numerose). 2. Si sa espressamente per tradizione che gli alfabeti son passati da paese a paese. La Grecia narra d’avere avuto il suo dalla Fenicia; così ec. ec. ec. 3. Grandissima parte degli alfabeti dimostra l’unità dell’origine guardandone sottilmente o il materiale, o i nomi delle lettere (come quelli del greco paragonati agli ebraici ec. ec.). E questo, non ostante che le nazioni siano disparatissime, e niun commercio sia mai stato fra talune di esse, come tra gli ebrei e i latini antichi che ricevettero l’alfabeto (forse) dalla Grecia, che l’ebbe dalla Fenicia, che l’ebbe da’ samaritani o viceversa ec. ec. e così l’alfabeto latino vien pure a ravvicinarsi sensibilmente all’ebraico. 4. Se alcuni alfabeti non dimostrano affatto alcuna somiglianza con verun altro, nè per figura nè per nomi ec. ciò non conclude in contrario. Ma vuol dire, o che l’antichità tolse loro, o agli alfabeti nostri ogni vestigio della loro primissima origine; o piuttosto che quelle tali nazioni ricevendo pur di fuori, come le altre, l’uso della scrittura alfabetica, o non adottarono però l’alfabeto straniero, o adottatolo lo vennero appoco [appoco] perfezionando, cioè accomodando alla loro lingua, finchè lo mutarono affatto: o vero tutto in un tratto gliene sostituirono un altro nuovo e proprio loro, come fu dell’alfabeto armeno, sostituito al greco ch’era stato usato fino allora dalla nazione, la quale col mezzo di esso aveva imparato a scrivere, e conosciuto l’uso dell’alfabeto, del che vedi p. 2012. (2. Sett. 1822.).

Le nazioni civili dell’Asia, dopo la conquista d’Alessandro erano veramente δίγλωττοι cioè parlavano e scrivevano la lingua greca, non come propria, ma come lingua colta, e nota universalmente, e letta da per tutto (e così deve intendersi il luogo di Cic. pro Archia), e come noi o gli svedesi o i russi o gli olandesi scrivono il francese: noi (più di rado) per cagione della sua universalità; quegli altri, come anche i polacchi, e al tempo di Federico i prussiani, per non aver lingua che sia o fosse ancora abbastanza capace ec. Nè si dee credere che le lingue patrie di quelle nazioni, fossero spente, neanche diradate dall’uso, e sostituita loro la greca nella conversazione quotidiana, come accadde della latina, nelle nazioni latinizzate. Restano anche oggi le lingue asiatiche antiche, o dialetti derivati da quelle, o composti di quelle e d’altre forestiere, come dell’arabica ec. E v. ciò che s’è detto altrove di Giuseppe Ebreo, e Porfirio Vit. Plotini c. 17. nel Fabric. B. G. t. 4. p. 119-120. (e quivi la nota) κατὰ μὲν πάτριον διάλεκτον. Di questi δίγλωττοι che scrivevano in lingua non loro, e pure scrivevano anche egregiamente, fu Luciano da Samosata, v. le sue opp. , dove fa cenno della sua lingua patria, e tali altri di que’ tempi; anzi tutti gli Asiatici che scrissero in greco (eccetto quelli delle Colonie, come Arriano, Dionigi Alicarnasseo ec.), alcuni Galli non Marsigliesi nè d’altra colonia greco-gallica (come Favorino), alcuni Africani, massime Egiziani (perchè nel resto dell’Affrica, esclusa la Cirenaica, trionfò la lingua latina, ma come lingua de’ letterati e del governo ec. non come popolare, per quanto sembra), alcuni italiani (come M. Aurelio) ec. ec. (9. Sett. 1822.).

Questo appunto fu quello che la lingua latina non ottenne mai, o quasi mai, cioè d’esser bene intesa, parlata, letta, scritta da quelli che non la usavano quotidianamente come propria, e così si deve intendere il citato luogo di Cic. latina suis finibus, exiguis sane, continentur. Pur non erano tanto ristretti neppur allora, quanto all’uso quotidiano, essendo già stabilito il latino in Affrica ec.

Visto non è altro che una contrazione del participio visitus (come quisto di quesitus in ispagnuolo), ignoto agli scrittori latini. (14. Sett. 1822.).

Per la Dissertazione dell’antico volgare latino vedi fra gli altri il Pontedera, Antiquitatum latinarum graecarumque enarrationes atque emendationes. Patav. Manfrè, typis Seminarii, 1740. 4.to epist. 1.2. principalmente. (15. Sett. dì della B. V. Addolorata. 1822.). V. anche il Lanzi Saggio sulla lingua etrusca .

Ho detto in più luoghi che l’opinione è Signora degli individui e delle nazioni, che tali sono e furono e saranno quelli e queste, quali sono o furono o saranno le loro opinioni e persuasioni e principii. La cosa è naturalissima, e conseguenza necessaria dell’amor proprio in un essere ragionante. Perocchè l’amor proprio porta l’uomo a sceglier sempre quello che se gli rappresenta come suo maggior bene. Ma qual cosa se gli rappresenti come tale, ciò dipende dall’opinione, e così la libertà dell’uomo è sempre determinata dall’intelletto. Quindi sebben l’uomo alle volte si scosta da’ suoi principii, considerando per allora come suo maggiore bene quello che pur è contrario ai medesimi, nondimeno è naturale che la massima parte delle operazioni, desiderii, costumi ec. sì degl’individui sì de’ popoli sia conforme ai principii tenuti dal loro intelletto stabilmente e abitualmente. (16. Sett. 1822.).

Ho detto altrove che le antiche nazioni si stimavano ciascuna di natura diversa dalle altre, non consideravano queste come loro simili, e quindi non attribuivano loro nessun diritto, nè si stimavano obbligate ad esercitar cogli esteri la giustizia distributiva ec. se non in certi casi, convenuti generalmente per necessità, come dire l’osservazion de’ trattati, l’inviolabilità degli araldi ec. cose tutte, la ragion delle quali appoggiavano favolosamente alla religione, come quelle che da una parte erano necessarie volendo vivere in società, dall’altra non avevano alcun fondamento nella pretesa legge naturale. Quindi gli araldi amici e diletti di Giove presso Omero ec. quindi il violare i trattati era farsi nemici gli Dei (v. Senof. in Agesilao) ec. Ho citato l’Epitafios attribuito a Demostene per provare che questa falsa, ma naturale idea della superiorità loro ec. ec. sulle altre nazioni, le confermavano le nazioni antiche, e poi le fondavano sulle favole, e sulle storie da loro inventate, tradizioni ec. dando così a questo inganno una ragione, e una forza di massima e di principio. Anche più notabile in questo proposito è quel che si legge nel Panegirico d’Isocrate verso il principio, dove fa gli Ateniesi superiori per natura ed origine a tutti gli uomini. V. anche l’oraz. della Pace, dove paragona gli Ateniesi coi Τριβαλλοί , e coi Λευκανοί. Similmente il popolo Ebreo chiamavasi il popolo eletto, e quindi si poneva senza paragone alcuno al di sopra di tutti gli altri popoli sì per nobiltà, sì per merito, sì per diritti ec. ec. e spogliava gli altri del loro ec. ec. (25. Settembre 1822.).

Pausa, posa, posare (per riposare), riposo, riposare (reposare) e simili vengono indubitatamente da παύω-παύσω-παῦσις ec. (28. Sett. 1822.).

Isocrate nel Panegirico p. 133. cioè prima del mezzo, (quando entra a parlare delle due guerre Persiane) lodando i costumi e gl’istituti di coloro che ressero Atene e Sparta innanzi al tempo d’esse guerre, dice, ἴδια μὲν ἄστη τὰς ἑαυτῶν πόλεις ἡγούμενοι, κοινὴν δὲ πατρίδα τὴν Ἑλλάδα νομίζοντες εἶναι. (30. Settembre 1822.).

Isocrate nel Panegirico p. 150, cioè poco dopo il mezzo, raccontando i mali fatti da’ fautori de’ Lacedemoni (Λακωνίζοντες) alle loro città, dice dei medesimi: εἰς τοῦτο δ' ὠμότητος ἅπαντας ἡμᾶς κατέστησαν, ὥστε πρὸ τοῦ μὲν διὰ τὴν παροῦσαν εὐδαμονίαν, κᾂν ταῖς μικραῖς ἀτυχίαις, πολλοὺς ἕκαστος ἡμῶν (parla dei privati cioè di ciascun cittadino) εἶχε τοὺς συμπαθήσοντας• ἐπὶ δὲ τῆς τούτων ἀρχῆς, διὰ τὸ πλῆθος τῶν οἰκείων κακῶν, ἐπαυσάμεθα ἀλλήλους ἐλεοῦντες. Οὐδενὶ γὰρ τοσαύτην σχολὴν παρέλιπον, ὥσθ' ἑτέρῳ συναχθεσθῆναι. E veramente l’abito della propria sventura rende l’uomo crudele ὠμὸν , come dice costui. (30. Sett. 1822.). Vedi la p. seg. pensiero primo.

Da quello che altrove ho detto e provato, che il piacere non è mai presente, ma sempre solamente futuro, segue che propriamente parlando, il piacere è un ente (o una qualità) di ragione, e immaginario. (2. Ott. 1822.).

A ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite, hermitage, hermita ec. tutte fatte dal greco ἔρημος, aggiungi lo spagnuolo ermo, ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare, vastare, appunto come il greco ἐρημόω. (3. Ottobre. 1822.). Queste voci e simili sono tutte poetiche per l’infinità o vastità dell’idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali immagini di solitudine, silenzio ec.

Le sensazioni o fisiche o massimamente morali che l’uomo può provare, sono, niuna di vero piacere, ma indifferenti o dolorose. Quanto alle indifferenti la sensibilità non giova nulla. Restano solo le dolorose. Quindi la sensibilità, benchè assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che una maggior capacità di dolore. Quindi è che necessariamente l’uomo sensibile, sentendo più vivamente degli altri, e quel che l’uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo altro che dolore, dev’esser più infelice degli altri. Egli più capace d’infelicità, e questa capacità non può mancar d’esser empiuta nell’uomo. (5. Ottobre 1822.).

Ho detto altrove che il timore è la più egoistica delle passioni. Quindi ciò ch’è stato osservato, che in tempo di pesti, o di pubblici infortuni, dove ciascun teme per se medesimo, i pericoli e le morti de’ nostri più cari, non ci producono alcuno o quasi alcun sentimento. (5. Ottobre. 1822.).

Ho detto che gli scrittori greci hanno ciascuno un vocabolarietto a parte, dal quale non escono mai o quasi mai, e nella totalità del quale ciascun d’essi si distingue benissimo da ciascun altro, e ch’esso vocabolario, massime ne’ più antichi è molto ristretto, e che la lingua greca ricchissima in genere, non è più che tanto ricca in veruno scrittore individuo; e tanto meno è ricca quanto lo scrittore è più antico e classico, e quindi i più antichi e classici si distinguono fra loro nelle parole e frasi più di quel che facciano parimente fra loro i più moderni, che son più ricchi assai, ed abbracciano ciascuno una maggior parte della lingua, onde debbono aver fra loro più di comune che gli antichi non hanno fra loro medesimi, come che le parole e frasi di ciascuno generalmente prese, sieno tutte ugualmente proprie della lingua.

Tutto ciò si dee specialmente intendere delle radici, nelle quali gli antichi greci sono ristrettissimi, ciascuno quanto a se, e notabilmente diversi gli uni dagli altri, nella totalità del Vocabolario delle medesime. Laddove i moderni ne sono incomparabilmente più ricchi (come Luciano, Longino, ed anche più i più sofistici e di peggior gusto, e i più pedanti; rispetto p. e. ad Isocrate, Senofonte ec.), ed hanno in esse radici molto più di comune fra loro. Ma quanto ai composti o derivati fatti da quelle radici che sono familiari a ciascuno di loro, niuno scrittor greco è povero, nè scarso, nè troppo uniforme. Ma quando mai, sarebbero più poveri in questa parte i più moderni, che i più antichi. Certo sono più timidi e servili, ed attaccati all’esempio de’ precedenti, e parchi e ritenuti e guardinghi e cauti nella novità. La qual novità quanto alle voci, non può consistere in greco se non se in nuovi composti o derivati. (5. Ott. 1822.).

Dalle suddette cose si può conoscere che l’immensa ricchezza della lingua greca, non pregiudicava alla facilità di scriverla, e quindi non s’opponeva alla sua universalità, non essendo necessaria più che tanta ricchezza (o usata o conosciuta e posseduta) non solo per iscrivere e parlar greco, ma eziandio per iscriverlo e parlarlo egregiamente; e bastando poche radici per questo; poichè restavano liberi i composti all’arbitrio dello scrittore, o quando anche non restassero liberi, infiniti composti e derivati portava seco ciascuna radice, onde lo scrittore pratico di poche radici veniva subito ad avere una lingua molto sufficiente a tutti i suoi bisogni. Il che scemava infinitamente la difficoltà che si prova nelle lingue, perchè un vocabolario sufficientissimo allo scrittore o parlatore si riduceva sotto pochi elementi, e procedeva da pochi principii ossia radici, e quindi era molto più facile ad impararlo ed impratichirsene, che se esso senza essere niente maggiore, avesse contenuto tutta la lingua, ma fosse proceduto da più numerose e diverse radici. Tutte queste circostanze siccome quelle notate nel pensiero precedente non si trovavano nella lingua latina, che meno ricca della greca, era però per la sua ricchezza più difficile a scrivere e a parlare che la greca non fu, perchè la ricchezza (ancorchè minore) della latina, bisognava averla tutta in contanti, a volere scrivere e parlar latino, e massimamente a farlo bene. E l’orecchie latine erano delicatissime come le francesi, circa il vero e proprio andamento (e la purità) della loro lingua, che rispetto alla greca era liberissimo, cioè sommamente vario, ed in gran parte ad arbitrio. (8. Ottobre. 1822.).

La lingua greca ch’è la più antica delle colte ben conosciute, è anche fra tutte le lingue colte la più capace di significar l’idee e gli oggetti più propriamente moderni cioè i più difficili a significarsi e di supplire ai bisogni d’espressioni, prodotti dall’ampiezza, varietà e profondità delle nozioni moderne. E il fatto stesso lo dimostra, ricorrendosi tutto dì alla lingua greca ec. come ho detto altrove. (10. Ottobre. 1822.).

Ταύτης δὲ τῆς ἀνωμαλίας καὶ τῆς ταραχῆς αἴτιόν ἐστιν ὅτι τὴν βασιλείαν, ὥσπερ ἱεροσύνην, παντὸς ἀνδρὸς εἶναι νομίζουσιν, ὃ (τ. 'ε. ἡ βασιλεία) τῶν ἀνθρωπίνων πραγμάτων μέγιστόν ἐστιν, καὶ πλείονος προνοίας (all. codd. πλείστης) δεόμενον. Isocr. πρὸς Νικοκλέα p. 37. cioè a meno di tre piccole pagine dal principio dell’Oraz. (10. Ott. 1822.).

Non c’è regola nè idea nè teoria di gusto universale ed eterno. Qual potrebb’ella essere, se non la natura? (e qual cosa è, o vero, essendo, si può immaginare e intendere e concepire da noi, fuori della natura?) ma qual natura, se non l’umana? Poichè le cose che cadono sotto la categoria del buon gusto o del cattivo gusto, non sono considerate se non per rispetto all’uomo. Or non è ella cosa manifestissima, che la natura dell’uomo si diversifica moltissimo secondo i climi, secoli, costumi, assuefazioni, governi, opinioni, circostanze fisiche, morali, politiche, ec. e queste, individuali, nazionali ec. ec.? Resta dunque per tutta idea e teoria di gusto universale ed eterno, un idea ed una teoria, che comprenda solamente, e si fondi, e si formi di quei principii che, relativamente al gusto, si trovano esser comuni a tutti gli uomini, e tenere alla primitiva e immutabile natura umana. Ma questi principii, dico io che sono pochissimi, ed applicabilissimi, conformabilissimi, e fecondi di numerosissime e diversissime conseguenze (siccome lo sono tutti i principii naturali, e veramente elementari, perchè la natura è semplicissima, pochi principii ha posto, e questi, infinitamente e diversissimamente e anche contrariamente [a]

Contrariamente. Non si trovano forse mille contrarietà fra le indoli, opinioni, costumi, di diversi tempi, nazioni, climi, individui, popoli civili fra loro, e rispetto ai non civili, e questi fra se medesimi, ec.? Pur tutti hanno i medesimi principii elementari costituenti la natura umana.

[Chiudi] modificabili): dal che segue che questa idea e questa teoria d’un gusto che sia veramente universale ed eterno, si riduce a pochissime regole, ed è infinitamente meno circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e lascia luogo a infiniti gusti diversissimi ed anche contrarii fra loro (che noi riproviamo, e perchè ripugnano al gusto nostro o individuale o nazionale, e questo forse momentaneo, li crediamo, al nostro solito, contrarii all’universale ed eterno): anzi non solo lascia loro luogo, ma li produce, non meno che quello ch’a noi pare il solo vero buon gusto ec. (13. Ott. 1822.).

Ma senza alcun fallo gli uomini comunemente hanno questo difetto, e tutti generalmente in ciò pecchiamo, che noi della nostra vita speriamo assai, ed il nostro tempo largo misuriamo, e dello altrui per lo contrario sempre temiamo, e siamone scarsi e solleciti, debole e breve reputandolo. Perocchè chi è quello che tanto oltre sia, o che così vicino alla fossa abbia il piede, che non si faccia a credere di dover quattro o sei anni poter campare, e che a ciò ogni cosa opportuna non apparecchi? Veramente io credo che niuno ce ne abbia fra noi; nè maraviglia sarebbe di ciò, se noi questa medesima speranza avessimo similmente della altrui vecchiezza, che noi abbiamo della nostra, e non ci facessimo beffe in altrui di quello che in noi medesimi approviamo. Casa, Orazione seconda per la Lega. Lione (Venezia) appresso Bartolommeo Martin. senza data di tempo. appiè del 3. tomo delle opere del Casa, Venez. Pasinelli 1752. p. 41. Tre altre pagine mancano per la fine dell’Oraz. (13.-14. Ottobre. 1822.).

Ho detto altrove che gran parte delle voci che in poesia si chiamano eleganti, e si tengono per poetiche, non sono tali, se non per esser fuori dell’uso comune e familiare, nel quale già furono una volta (o furono certo nell’uso degli scrittori in prosa); e conseguentemente per essere antiche rispetto alla moderna lingua, benchè non sieno antiquate. E ciò principalmente cade nelle voci (o frasi) che sono oggidì esclusivamente poetiche. Ho detto ancora che per tal cagione, non potendo i primi poeti o prosatori di niuna lingua, aver molte voci nè frasi antiche da usare ne’ loro scritti, e quindi mancando d’un’abbondantissima fonte d’eleganza, è convenuto loro tenersi per lo più allo stile familiare, come familiarissimo è il Petrarca ec., e sono stati incapaci dell’eleganza Virgiliana.

Aggiungo ora che in fatti la poesia, appresso quelle nazioni ch’hanno lingua propriamente poetica, cioè distinta dalla prosaica (e ciò fu tra le antiche la greca, e sono tra le moderne l’italiana e la tedesca, e un poco fors’anche la spagnuola) è conservatrice dell’antichità della lingua, e quindi della sua purità, le quali due qualità sono quasi il medesimo, se non che la prima di queste due voci dice qualcosa di più. Dell’antichità, dico, è conservatrice la lingua poetica, sì ne’ vocaboli, sì nelle frasi, sì nelle forme, sì eziandio nelle inflessioni, o coniugazioni de’ verbi, e in altre particolarità grammaticali. Nelle quali tutte essa conserva (o segue di tratto in tratto a suo arbitrio) l’antico uso, stato comune ai primi prosatori, e quindi sbandito dalle prose. Ed ha notato il Perticari nel Trattato degli Scrittori del Trecento che in tanta corruzione ultimamente accaduta della nostra lingua parlata e scritta, lo scriver poetico s’era pur conservato e si conserva puro; il che fino a un certo segno, e massime ne’ versificatori che non hanno molto preteso all’originalità (come gli arcadici, i frugoniani ec. a differenza de’ Cesarottiani ec.) si trova esser verissimo. Così fu nella lingua greca, che la poesia fu gran conservatrice delle parole, modi, frasi, inflessioni, e regole e pratiche grammaticali antiche. Ond’ella ha una lingua tutta diversa dalla sua contemporanea prosaica. E ciò accade (parlo del conservar l’antichità e purità della lingua), accade, dico, proporzionatamente anche nelle poesie che non hanno lingua appartata, come la francese, e forse l’inglese. Se non altro, queste poesie sono sempre più pure dello scriver prosaico appresso tali nazioni, rispetto alla lingua. (15. Ottobre 1822.).

Mania, smania, smaniare e lo spagnuolo mania, e il francese manie, maniaque ec. dal greco μανία, μαίνομαι ec. cioè furor, furere ec. furore frenesia ec. (22. Ottobre. 1822.).

L’amor della vita cresce quasi come l’amor del danaio, e, com’esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocchè i giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch’è pur dolce, e di cui molto avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono sommamente, e sono gelosissimi della propria vita, ch’è miserabilissima, e che ad ogni modo poco hanno a poter conservare. E così il giovane scialacqua il suo, come s’egli avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio accumula e conserva e risparmia come s’avesse a provvedere a una lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob. 1822.).

Cara spagn. cioè faccia, e così cera, e chère nello stesso senso, vengono dal greco. V. Perticari Apol. di Dante part. 2. c. 5. not. 1. p. 75. (28. Ott. 1822.).

È bello a paragonare il luogo di Cicerone pro Archia da me recato altrove, sulla ristrettezza geografica della lingua latina al suo tempo, col luogo di Plutarco sulla sua immensa propagazione a tempo di Traiano, il qual luogo è portato dal Perticari l. sop. cit. c. 8. princip. p. 88. (28. Ottob. 1822.). Vedi anche il med. Pertic. ib. p. 89. e 92-94.

L’uomo odia l’altro uomo per natura, e necessariamente, e quindi per natura esso, sì come gli altri animali è disposto contro il sistema sociale. E siccome la natura non si può mai vincere, perciò veggiamo che niuna repubblica, niuno istituto e forma di governo, niuna legislazione, niun ordine, niun mezzo morale, politico, filosofico, d’opinione, di forza, di circostanza qualunque, di clima ec. è mai bastato nè basta nè mai basterà a fare che la società cammini come si vorrebbe, e che le relazioni scambievoli degli uomini fra loro, vadano secondo le regole di quelli che si chiamano diritti sociali, e doveri dell’uomo verso l’uomo. (2. Nov. dì de’ Morti. 1822.).

Se l’uomo esce fuori della naturale puritade, allora pecca. Servando dunque la nostra condizione e virtù, bastiti o uomo, lo naturale ornamento, e non mutare l’opera del tuo Creatore, perocchè volerla mutare è un guastare . Vite de’ Santi Padri, parte 1. capitolo 9. fine, p. 25. e son degne d’esser vedute anche le cose precedenti a queste parole. Le quali sono in bocca di Sant’Antonio, e nella sua Vita, il cui testo originale greco è di S. Atanasio. (Recanati — Roma. Novembre. 1822.).

La storia greca, romana ed ebrea contengono le reminiscenze delle idee acquistate da ciascuno nella sua fanciullezza. Ciascun nome, ciascun fatto delle dette storie, e massime i principali e più noti ci richiamano idee quasi primitive per noi, e sono in certo modo legati alla storia della vita, e della fanciullezza massimamente, delle cognizioni, de’ pensieri di ciascuno di noi. Quindi l’interesse che ispirano le dette storie, e loro parti, e tutto ciò che loro appartiene; interesse unico nel suo genere, come fu osservato da Chateaubriand (Génie ec.); interesse che non può esserci mai ispirato da verun’altra storia, sia anche più bella, varia, grande, e per se più importante delle sopraddette; sia anche più importante per noi, come le storie nazionali. Le suddette tre sono le più interessanti perchè sono le più note; perchè sono le più domestiche, familiari, pratiche, e quasi strette parenti di ciascun uomo civile e colto, ancorchè di patria diversissimo da queste tre nazioni. E perciò elle sono le più, anzi le sole, feconde di argomenti storici veramente propri d’epopea, di tragedia, ec. e all’interesse dei detti argomenti, massime nella poesia, non si può supplire in verun conto, nè con veruna industria, cavando argomenti o dall’immaginazione, o dalle altre storie, neppur dalle patrie. Aggiungasi alle tre dette storie, quella della guerra troiana, la quale interessa sommamente per le dette ragioni, anzi più delle altre tre, perchè i poemi d’Omero e di Virgilio, l’hanno resa più nota e familiare a ciascuno, che verun’altra, e perch’ella a cagione dei detti poemi, delle favole ec. è più legata alle ricordanze della nostra fanciullezza, che non sono la storia greca e romana, e neanche l’ebrea. Tutto ciò è relativo, e l’interesse delle dette storie non deriva particolarmente dalle loro proprie e intrinseche qualità, ma dalla circostanza estrinseca dell’essere le medesime familiari a ciascuno fin dalla sua fanciullezza; tolta la qual circostanza, che ben si potrebbe togliere, dipendendo dalla educazione ec., questo interesse o si confonderebbe e agguaglierebbe con quello delle altre storie, e argomenti storici, o sarebbe anche superato. (Roma. 25. Nov. 1822.).

La formation d’une langue est l’oeuvre des grands écrivains; l’Italie en compte trop peu: plus de la moitié de l’esprit et du coeur humain n’a pas encore passé sous la plume des Italiens, et par conséquent dans leur langue. Lettres sur l’Italie par Dupaty en 1785. let. 41. Tome 1. à Gênes 1810, p. 185. Non solo dello spirito e del cuore umano, ma neppur la metà delle cognizioni che sopra queste materie s’avevano al tempo di Dupaty, e molto meno di quelle che s’hanno presentemente. (30. Nov. 1822. Roma.).

Sopra i dialetti della lingua latina. Estratto da un articolo: Del Dialetto Veneto: Lettera di un Viaggiatore oltramontano (inglese), che sta nelle Effemeridi letterarie di Roma t. 2. p. 58-70. (Genn. 1821.). = L’antica lingua di questi popoli (Veneti) traspariva nel loro Latino, come è agevole di riconoscere dalle inscrizioni raccolte dal Maffei[a]

Le lapidarie inscrizioni Latine ritrovate nelle città subalpine d’Italia ci fanno spesso conoscere di quale provincia ne fossero gli autori. Così la lettera W che è uno de’ segni più caratteristici di alfabeto oltramontano, si trova in quelle che appartengono alle Colonie Galliche. = p. 58.

[Chiudi]: ed è probabile che gli originarj dialetti delle diverse nazioni che si stabilirono in Italia, sieno una rimota cagione della varietà de’ linguaggi che vi si parlano presentemente.

Ma checchè sia pure degli elementi della lingua loro (de’ primi Veneti), è cosa notoria ch’essi ne avevano una a se, comunque fosse composta; la quale rimase in seguito, come le altre di tutti gl’Italiani aborigeni, assorta nel Latino; e molte prove si potrebbero addurre per dimostrare che una tal lingua (come accadde di quella dei Galli ec.) tinse de’ suoi propri colori la massa colla quale si confuse (la lingua latina): e le Iscrizioni lapidarie raccolte dal Maffei nel territorio Veneto fanno vedere quella stessa provincialità antica (benchè di un genere diverso) che caratterizza quelle delle Colonie Galliche; e vi si riconosce lo stesso scambiamento di lettere che è frequentissimo nel dialetto Veneto che ora si parla. Cicerone nelle sue Lettere familiari fa menzione di certi termini che erano in voga in queste provincie (Venete), e sconosciuti a Roma. Tito Livio fu accusato di patavinità o padovanismo (checchè si debba intendere sotto questa espressione): fu anche detto di Catullo d’aver egli introdotte certe nuove forme di dire nella Lingua Latina: e si potrebbero addurre alcune prove di questi suoi Veronismi. Ne sia una il nome di Pronus con cui egli chiama un torrente: termine che io non so che sia usato da alcun altro. Nè si supponga che questo non sia che uno degli ordinarj ed adattati epiteti sostituiti al sostantivo. Giacchè Pronio nella provincia di Verona ritiene anche presentemente il significato di Torrente. Ho già fatto sentire l’opinione in cui sono che quello ch’io cerco di dimostrare relativamente agli Stati Veneti (l’antichissima origine di quegli elementi e proprietà del suo dialetto che non vengono dal latino, e non sono del comune Italiano; e la loro derivazione dalla lingua veneta anteriore al latinizzamento di quella provincia, qualunque fosse essa lingua), possa probabilmente applicarsi all’Italia tutta. In conferma della qual opinione giova il ricordare che l’Algarotti cita, non so dove, una lettera di Varo a Virgilio, nella quale commentando un certo epigramma, critica la parola putus asseverando non essere Latina. Presentemente il vocabolo Putto, quantunque naturalizzato nell’Italiano, credo però che sia usato familiarmente dai soli Mantovani, e ne’ paesi confinanti, e che non sarebbe inteso dal volgo di Toscana. = p. 62-63. (3. Dic. 1822.).

Da rullus cioè circulator, roule, rouler etc. (8. Dic. 1822. dì della Concezione di Maria SS.a)

Alla p. 2441. Luciano nel Dial. Χάρων ἢ ἐπισκοποῦντες , dopo i due terzi del Dial. in bocca di Caronte dice: Ὁρῶ ποικίλην τινὰ τύρβην, καὶ μεστὸν ταραχῆς τὸν βίον, καὶ τὰς πόλεις γε αὐτῶν (ἀνθρώπων) ἐοικυίας τοῖς σμήνεσιν, ἐν οἷς ἅπας μὲν ἰδιόν τι κέντρον ἔχει, καὶ τὸν πλησίον κεντεῖ. ὀλίγοι δέ τινες, ὥσπερ σφῆκες, ἄγουσι και φέρουσι τὸν ὑποδεέστερον.(Roma 13. Dic. 1822.).

Il vero certamente non è bello: ma pur anch’esso appaga o, se non altro, affetta in qualche modo l’anima, ed esiste senza dubbio il piacere della verità e della conoscenza del vero, arrivando al quale, l’uomo pur si diletta e compiace, ancorchè brutto e misero e terribile sia questo tal vero. Ma la peggior cosa del mondo, e la maggiore infelicità dell’uomo si è trovarsi privo del bello e del vero, trattare, convivere con ciò che non è nè bello nè vero. Tale si è la sorte di chi vive nelle città grandi, dove tutto è falso, e questo falso non è bello, anzi bruttissimo. (Roma 13. Dic. 1822.).

Codicis (Vatic. Cic. de Repub.) orthographia miris laborat varietatibus et inconstantia. Est enim id fatum latinae scripturae ac pronunciationis, quod grammaticorum tot pugnantia praecepta infinitaeque quaestiones demonstrant. Hinc merito Cassiodorius (Inst. praef.) orthographia apud graecos plerumque sine ambiguitate probatur expressa; inter Latinos vero sub ardua difficultate relicta monstratur; unde etiam modo studium magnum lectoris inquirit. Exempli gratia, labdacismus (for. lambdacismus, sed in emendd. nihil) proprius Afrorum fuit; sicut colloquium pro conloquium, teste Isidoro (Orig. 1. 32.) Quid porro? nonne ipsa latinitas, uti observabat Hieronymus (Prol. lib. II. comm. ad Gal.) (scil. ad ep. S. Paul. ad Galat.) et regionibus quotidie mutabatur et tempore? postea praesertim quam tanta barbarorum peregrinitas in imperium rom. infusa est, lingua autem generis quarti esse coepit, quod Isidorus (Orig. IX. 1.) mixtum appellat. Maius. M. Tulli Cic. de Re pub. quae supersunt edente Ang. Maio Vaticanae Bibliothecae praefecto. Romae in Collegio Urbano apud Burliaeum 1822. Praefat. cap. 13. p. XXXVII. (Roma. 16. Dic. 1822.).

Ed in vece di et si legge nel Cod. antichissimo vaticano palimpsesto della rep. di Cic. l. 1 c. 3. p. 10. dell’ediz. qui sopra citata, ed disertos; e c. 15. p. 43. ed ipse, come avverte il Mai nelle note, benchè nel testo riponga et. (17. Dic. 1822.). Anzi ivi l. 3. c. 2. p. 218. dove l’ediz. ha et ut, il copista avea scritto nel cod. e ut, e l’antico emendatore fece ed ut, forse schivando il concorso delle due sillabe simili et, ut.

Quin adeo de fin. 1. 3. ausus est Cicero latinam quoque linguam dicere locupletiorem quam graecam, qua de re saepe se disseruisse confirmat. Sed contradicunt merito primum ipse Cicero tusc. II. 15. et apud Augustinum contra acad. II. 26; tum Lucretius 1. 140. 831; Fronto apud Gellium II. 26. Maius ad Cic. de repub. p. 67. not. (18. Dic. 1822.).

De Massiliae graecis legibus et litteratura, triplicique lingua, graeca scilicet, latina et gallica, lege Varron. apud Isid. Orig. XV. 1. 63. et ap. Hieron. prolog. lib. II. comm. ad Gal. (scil. in ep. D. Pauli ad Galat.). Confer etiam Caesarem Bell. Civil. II. 12. Tacitum Agric. IV. Silium XV. 169. Homeri editio seu recensio massiliensis laudatur inter nobiles in scholiis venetis. Maius loc. sup. cit. p. 75. not. 1. (18. Dic. 1822.).

Quod quantae fuerit utilitati post videro (onninamente per videbo) Cic. de re publ. l. 2. c. 9. Rom. 1822. p. 142. v. ult. Luogo da aggiungersi a quelli che ho recati altrove per dimostrare l’uso antico del futuro ottativo in vece del futuro indicativo; uso da cui sono nati tutti i futuri di tutti i verbi italiani francesi e spagnuoli, distintiva de’ quali futuri e caratteristica è sempre la r. (19. Dic. 1822.).

Ad Cic. de re publ. II. 10. p. 143. v. ult. ubi legitur septem, haec Maius editor ib. not. c. Cod. septe. Iam m finalem omitti interdum in antiquis codicibus exploratum est. An vero illud septe e lingua rustica est? Certe ita fere nunc loquuntur Itali . (19. Dic. 1822.). Nel Conspectus Orthographiae Codicis Vaticani aggiunto dal Niebuhr a questa ediz., si legge p. 352. col. 2. septe (II. 10.) et mortus (II. 18.) a desciscente in vulgarem sermone tracta sunt . Le sillabe finali am em ec. s’elidevano ne’ versi. Dunque l’m infatti non si pronunziava. V. i miei pensieri sulla sinizesi. V. la pag. 2658.

Καὶ τῷ ὄντι τὸ ἄγαν τὶ ποιεῖν, μαγάλην φιλεῖ εἰς τοὐναντίον ματαβολὴν ἀνταποδιδόναι, ἐν ὥραις τε καὶ ἐν φυτοῖς καὶ ἐν σώμασι, καὶ δὴ καὶ ἐν πολιτείαις οὐχ ἥκιστα. Plato de rep. l. 8. p. 563. Il qual luogo è riportato da Cic. de rep. 1. 44. p. 111-112. (citato il nome di Platone fin dal c. preced. p. 107.), esprimendolo liberamente così: Sic omnia nimia, cum vel in tempestate vel in agris vel in corporibus laetiora fuerunt, in contraria fere convertuntur, maximeque (suppl. cum Maio, id) in rebus publicis evenit. Le quali sentenze fanno a quella mia, che il troppo è padre del nulla. In fatti, come seguono a dire Cic. e Plat. dalla troppa libertà nasce la servitù, cioè, dicon essi, il contrario della libertà, ed io dico, il nulla della libertà, cioè la fine; la niuna libertà. (19. Dic. 1822.).

Quoties g est ante n, toties memini me videre in antiquis codd. si quando vocabulum divideretur (nel fine o della riga o della pag.), litteram g adhaerere priori vocabuli parti, n autem posteriori. Ergone Hispani Angli et Germani melius quam Itali pronunciare haec verba videntur? Maius ad Cic. de re publ. II. 19. p. 165. v. 7. (dove la pag. del cod. finisce in mag, e la seguente comincia in na; cioè magna) not. b (20. Dic. 1822.). Bisogna però vedere in che paese sieno stati scritti questi codd. come p. e. in Ispagna. V. p. 3762.

Nella republ. di Cic. succitata, al c. 37. del lib.2. p. 203. v. 1.-2, dove l’edizione ha res publica richiedendosi in fatti il nominativo, il Cod. ha repubblica, quasi fosse italiano. Dal che apparisce che anche anticamente s’usava di tralasciare l’s finale nel pronunziare le voci latine, come si lascia nelle nostre lingue. (21. Dic. 1822.). Infatti è nota l’apocope della s nella fine delle voci presso gli antichi poeti latt. V. la p. 2656, marg.

Eademque (mens aut ratio aut sapientia, ut supplet Maius in notis et in addendis, nam superiora in cod. desiderantur) cum accepisset homines inconditis vocibus incohatum quiddam et confusum sonantis (sonantes), incidit (incídit) has et distinxit in partes; et ut signa quaedam, sic verba rebus inpressit, hominesque antea dissociatos iucundissimo inter se sermonis vinclo conligavit. A simili etiam mente, vocis qui videbantur infiniti soni, paucis notis inventis, sunt omnes signati et expressi, quibus et conloquia cum absentibus et indicia voluntatum, et monumenta rerum praeteritarum tenerentur. accessit eos numerus, (post interventas scil. voces et litteras) res cum ad vitam necessaria, tum una inmutabilis et aeterna: quae prima inpulit etiam ut suspiceremus in caelum, nec frustra siderum motus intueremur, di numerationibusque noctium ac dierum ... (desunt reliqua) Cic. De re publica, l. 3. c. 2. Rom. 1822. p. 218-9. (22. Dic. 1822.).

Il verbo sum ebbe antichissimamente un participio presente e questo non fu il più moderno ens entis, conservato ancora nella nostra lingua, e nella spagnuola, ma sens sentis. Testimonio le voci prae-sens, ed ab-sens, e con-sens, la quale ultima in verità non è altro che la preposizione cum congiunta al participio presente di sum, e vale qui simul est, onde Dii Consentes, Dii qui simul sunt. V. Forcell. in Consens, praesens ec. Quindi si fortifica la mia conghiettura e che il verbo sum avesse anche un participio passato, in us, come anticamente l’avevano gli altri neutri, ed anche gli attivi in senso attivo (p. e. peragratus, cioè qui peragravit, da peragro attivi), e che questo incominciasse per s, onde da esso fosse formato il verbo sto. (Roma 22. Dic. 1822.).

Cic. de rep. l. 3. c. 8-20. p. 230-48. sotto la persona di L. Furio Filo disputa contro la giustizia, e dimostra la non esistenza della legge naturale, e reca in mezzo le varietà e discordanze de’ costumi e delle leggi presso i diversi popoli, e de’ giudizi degli uomini e de’ vari secoli intorno al retto e al giusto, e a’ loro contrarii. Degna d’esser letta è questa disputazione, massime per ciò che riguarda i vari e ripugnanti giudizi delle antiche nazioni circa il così detto diritto naturale e universale, o idea innata del giusto e del bene. E cita il Mai (nella 3. nota della p. 232.) sopra questo proposito S. Girolamo in Iovin. II. 7. sqq. Sesto Empirico III. 24. et contra eth. 190. seqq. ed Erodoto III. 38. quos auctores haud paenitendo cum fructu ii legent qui naturali civilique historiae student. (22. Dic. 1822.).

Nella sopraddetta disputazione è notabile un frammento (c. 15. p. 243.), dove Cicerone in persona di Filo ricorda quella favolosa opinione che avevano gli Arcadi e gli Ateniesi d’essere αὐτόχθονες cioè terrae filii, perlochè stimandosi di diversa origine e natura dagli altri uomini, niente stimavano di dovere alle altre nazioni, benchè riconoscessero leggi e diritti che obbligassero ciascuno individuo della propria nazione verso gli altri individui della medesima. E v. quivi la nota 1. del Mai. (22. Dic. 1822.). V. p. 2665.

Et quamquam optatissimum est, perpetuo fortunam quam florentissimam permanere; illa tamen aequabilitas vitae non tantum habet sensum, (mallem sensus 2do casu, quod magis tullianum est) quantum cum ex saevis et perditis rebus ad meliorem statum fortuna revocatur . Cic. ap. Ammian. Marcell. XV. 5. (23. Dic. antivigilia di Natale 1822.).

E pensatamente io chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima formazion della lingua, ma dal più ordinario modo de’ parlatori presenti. Imperocchè ciò che fu figura in un tempo, non riman poi figura quando è sì accomunato dall’uso, che divien la più trivial maniera del linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi dall’arbitrio degli uomini, tanto nell’introdursi, quanto nell’alterarsi; ed essendo i Gramatici non legislatori, come alcun pensa, ma compilatori di quelle Leggi che per avanti la Signoria dell’Uso ha prescritte. Trattato dello Stile e del Dialogo del Padre Sforza Pallavicino della Compagnia di Gesù. Capo 4. Modena 1819. p. 22. (26. Dicembre; festa di Santo Stefano Protomartire. 1822.).

Circa la mia opinione che troia nell’antico latino volesse dire come in italiano scrofa, vedi nel Forcellini troianus aggiunto di porcus, e che cosa ne dica. (Roma 28. Dicembre 1822.).

Il Padre Sforza Pallavicino nel Trattato dello Stile e del Dialogo, Capo 27, intitolato Si stabilisce quali Autori deono esser seguiti nelle materie scientifiche da quelli che scrivono in Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena 1819. pag. 175-8.) dà decisa ed universale, e non relativa ma assoluta preferenza agli scrittori, stile e lingua del 500, (e del seguente secolo ancora, in cui egli scriveva) sopra quelli e quella del 300. (5. Gennaio 1823.).

In ristretto (in somma), la favella e la Scrittura sono indirizzate a’ coetanei, ed a’ futuri, non a’ defunti . Pallavic. loc. sup. cit. pag. 181 fine. (5. Gen. 1823.).

Nemo enim orator tam multa, ne in graeco quidem otio, scripsit, quam multa sunt nostra. Cic. Orator, num.108, parlando delle sue orazioni. (9. Gen. 1823.).

Alla p. 2470. Delle metafore Cic. nell’Oratore, num.134, comandando che l’Oratore ne faccia grand’uso dice: Ex omnique genere (subintell. rerum) frequentissimae translationes erunt, quod eae propter similitudinem transferunt animos, et referunt ac movent huc et illuc; qui motus cogitationis, celeriter agitatus, per se ipse delectat. (10. Gen. 1823.).

In un luogo di Lucilio portato da Cic. nell’Oratore num.149. leggi Aptae pavimento per Arte. Vero è che la sillaba seconda del verso precedente è breve. (10. Gen. 1823.).

Anticamente i latini dicevano maxilla axilla etc. ( Cic. Orator, n.155.), indi fecero mala, ala, ec. Or noi conserviamo l’antico: mascella, ascella, tassello. Dicevano anche siet per sit (vedi ib. num.159.); or quello e non questo si dovette sempre conservare nell’uso del popolo, come apparisce da sia, soit, sea. (10. Gen. 1823.). Notisi il nostro uso simile, di aggiungere un’e alle vocali accentate: virtue, fue ec.

Nell’Oratore di Cic. num.196. illa ipsa delectarent, leggi non delectarent. (11. Gen. 1823.).

Transferenda tota dictio est ad illa quae nescio cur, quum Graeci κόμματα et κῶλα nominent, nos non recte incisa et membra dicamus. Neque enim esse possunt rebus ignotis nota nomina; sed, quum verba aut suavitatis aut inopiae causa transferre soleamus, in omnibus hoc fit artibus, ut, quum id appellandum sit quod, propter rerum ignorationem ipsarum, nullum habuerit ante nomen, necessitas cogat aut novum facere verbum, aut a simili mutuari. Cic. Orator, num.209. (11. Gen. 1823.).

Nell’Oratore di Cicerone num. 231. cioè molto presso alla fine, leggi reperiant ipsâ eâdem ec. per reperiam. (11. Gen. 1823.). Ivi, num. 11. cioè non molto dopo il principio, e durante ancora l’esordio, leggi ut sine causâ alte repetita videatur , in vece d’ut non sine causâ alte repetitâ videatur. (12. Gen. 1823.). Ivi, num.16. leggi de moribus sine multa in vece di de moribus? Sine ec. Ivi 19. poterimus fortasse discere per dicere. Ivi 32. nomen eius non extaret per nomen eius extaret. (12. Gen. 1823.). Ivi 83. leggi recte quidam vocant Atticum , e v. num. 75. Ivi 88. leggi aut tempore alieno non alienum, giacchè questa voce si riferisce a ridiculo. (12. Gen. 1823.). Ivi, 107. leggi laudata. 138. leggi quid caveat. (13. Gen. 1823. Roma, in letto.). 150. leggi in dicendo. (13. Gen. 1823.). 182. leggi quid accideret o quid accidisset. 195. leggi quisque o quique per cuique. (13. Gen. 1823.).

Alla p. 2661. Dell’antica presuntuosa opinione avuta da vari popoli, e massime dagli Ateniesi, d’essere αὐτόχθονοι, e perciò differenti di nascita o di diritti dagli altri uomini, con che giustificavano le conquiste, le preminenze nazionali, le pretensioni che ciascun popolo aveva sugli altri popoli, l’essere sciolti da ogni legge verso i forestieri, la schiavitù di questi o nazionale o individuale, l’oppressione degl’inquilini o stranieri domiciliati, l’odio in somma verso l’altre nazioni, mentre professavano amore alla propria, e si stimavano obbligati dalla legge e dalla natura verso i propri cittadini o connazionali, vedi anche l’orazione funebre recitata da Socrate in persona d’Aspasia nel Menesseno di Platone, verso il principio. (2. Febbraio, dì della Purificazione di Maria SS. 1823.). V. p. 2675.

La prosa francese (nazione e lingua la più impoetica fra le moderne, che sono le più impoetiche del mondo) è molto più poetica della stessa prosa antica scritta nelle lingue le più poetiche possibili. Lo stesso mancare affatto di linguaggio poetico distinto dal prosaico fa che lo scrittor francese confonda quello ch’è proprio dell’uno con quel ch’è proprio dell’altro, e che come il poeta francese scrive prosaicamente così il prosatore scriva poeticamente, e che la lingua francese manchi non solo di linguaggio e stile poetico distinto per rispetto al prosaico, ma anche di linguaggio e stile veramente prosaico, e ben distinto e circoscritto e definito per rispetto al poetico. Questa è l’una delle cagioni della poeticità della prosa francese. Altre ancora se ne potranno addurre, ma fra queste, una che ha del paradosso e pure è verissima. La prosa francese è poetica perchè la lingua francese è poverissima. Quindi la necessità di metafore di metonimie di catacresi di mille figure di dizione che rendono poetica la lingua della prosa, e secondo il nostro gusto, gonfia, concitata ed aliena da quella semplicità, riposatezza, calma, sicurezza ed equabilità e gravità di passo che s’ammira nelle prose latina e greca, le più poetiche lingue dell’occidente. P. e. non avendo i francesi una parola che significhi unitamente il padre e la madre, (come noi, che diciamo i genitori), sono obbligati a dire spesso les auteurs de ses jours, des jours de quelqu’un, de celui-là etc. Queste tali frasi necessarie e forzate, obbligano poi lo scrittor prosaico francese a formar loro un contorno conveniente, a seguire una forma di dire, uno stile, dove queste frasi, figure ec. non disdicano, e quindi a innalzare il tuono della sua prosa, e dargli un color poetico tanto nello stile quanto nella lingua: e così la povertà della lingua francese rende poetica la sua prosa, e per le figure che l’obbliga ad usare in cambio delle parole che le mancano, e per le figure che queste medesime figure forzate richiedono intorno a se, e quasi portano con se, e per lo stile e il linguaggio e il tuono che queste figure forzate domandano per non disdire. (2. Feb. 1823.).

Chi mi chiedesse quanto e fino a qual segno la filosofia si debba brigare delle cose umane e del regolamento dello spirito, delle passioni, delle opinioni, de’ costumi, della vita umana; risponderei tanto e fino a quel punto che i governi si debbono brigare dell’industria e del commercio nazionale a voler che questi fioriscano, vale a dire non brigarsene nè punto nè poco. E sotto questo aspetto la filosofia è veramente e pienamente paragonabile alla scienza dell’economia pubblica. La perfezione della quale consiste nel conoscere che bisogna lasciar fare alla natura, che quanto il commercio (interno ed esterno) e l’industria è più libera, tanto più prospera, e tanto meglio camminano gli affari della nazione; che quanto più è regolata tanto più decade e vien meno; che in somma essa scienza è inutile, poichè il suo meglio è fare che le cose vadano come s’ella non esistesse, e come anderebbero da per tutto dov’ella e i governi non s’intrigassero del commercio e dell’industria; e la sua perfezione è interdirsi ogni azione, conoscere il danno ch’essa medesima reca, e in somma non far nulla, al quale effetto gli uomini non avevano bisogno d’economia politica, ma s’ella non fosse stata, ciò si sarebbe necessariamente ottenuto allo stesso modo, e meglio. Ora tale appunto si è la perfezione della filosofia e della ragione e della riflessione ec. come ho detto altrove. (2 3. Feb. 1823.).

Sopra quello che ho detto altrove che l’uso de’ sacrifizi nacque dall’egoismo del timore. Toutes les fois que le courroux des dieux se déclare par la famine, par une épidémie ou d’autres fléaux on tâche de le détourner sur un homme et sur une femme du peuple, entretenus par l’état pour être, au besoin, des victimes expiatoires, chacun au nom de son sexe. On les promène dans les rues au son des instrumens; et après leur avoir donné quelques coups de verges, on les fait sortir de la ville (d’Athènes). Autrefois on les condamnoit aux flammes et on jetoit leurs cendres au vent. ( Aristoph. in equit. v. 1133. Schol. ibid. Id. in ran. v. 745. Schol. ib. Hellad. ap. Phot. p. 1590. Meurs. graec. fer. in thargel.). Voyage du jeune Anacharsis en Grèce t. 2. ch. 21. 2e édit. Paris 1789. p. 395. Vedete anche nello stesso capit. la 3a pag. avanti a questa, circa i sacrifizi di vittime umane, i quali si facevano principalmente ne’ maggiori pericoli e timori, come dice altrove il medesimo autore. (7. Feb. 1823.). V. p. 2673.

Sopra la riunione del sacerdozio e dello stato civile nelle medesime persone, presso gli antichi, del che ho detto altrove; e come le funzioni del sacerdozio non impedissero in modo alcuno gli antichi preti di servire alla patria. Chaque particulier peut offrir des sacrifices sur un autel placé a la porte de sa maison, ou dans une chapelle domestique. ( Hesych. in ὕδραν. Lomey. de lustrat. p. 120.) Même ouvrage, même chap. p. 397. (V. anche Aristoph. in Plut. v. 1155. et Schol. ibid.) Cette espèce de sacerdoce ne devant exercer ses fonctions que dans une seule famille, il a fallu établir des ministres pour le culte public. Ibid. Tous (les prêtres de la Grèce) pourroient se borner aux fonctions de leur ministère, et passer leurs jours dans une douce oisivité . ( Isocr. de permut. t. 2. p. 410.) Cependant plusieurs d’entre eux empressés a mériter par leur zèle les égards dus à leur caractère, ont rempli les charges onéreuses de la république, et l’ont servie soit dans les armées, soit dans les ambassades. ( Herodot. l. 9. c. 85. Plut. in Aristid. p. 321. Xenoph. hist. graec. p. 590. Demosth. in Neaer. p. 880.) Ibid. p. 403. Vedi il 2o dell’Eneide intorno a Panto sacerdote, e l’Iliade intorno ad Eleno ec. (7. Feb. 1823.).

Parmi plusieurs de ces nations que les Grecs appellent barbares, le jour de la naissance d’un enfant est un jour de deuil pour sa famille. ( Herodot. l. 5. c. 4. Strab. l. 11. p. 519. Anthol. p. 16.) Assemblée autour de lui, elle le plaint d’avoir reçu le funeste présent de la vie. Ces plaintes effrayantes ne sont que trop conformes aux maximes des sages de la Grèce. Quand on songe, disent-ils, à la destinée qui attend l’homme sur la terre, il faudroit arroser de pleurs son berceau. ( Eurip. fragm. Cresph. p. 476. Axioch. ap. Plat. t. 3. p. 368. Cic. tusc. l. i. c. 48. t. 2. p. 273.) Même ouvrage ch. 26. t. 2. p. 3. (8. Feb. 1823.).

Le plus grand des malheurs est de naître, le plus grand des bonheurs, de mourir. ( Sophocl. Oedip. Colon. v. 1289. Bacchyl. et alii ap. Stob. serm. 96. p. 530. 531. Cic. tusc. l. i. c. 48. t. 2. p. 273.) La vie, disoit Pindare, n’est que le rêve d’une ombre (Pyth. 8. v. 136.); image sublime, et qui d’un seul trait peint tout le néant de l’homme. Même ouvrage. ch. 28. p. 137. t. 3. (10. Feb. 1823.).

Les plaisirs de l’esprit ont des retours mille fois plus amers que ceux des sens. ib. p. 139. (10. Feb. 1823.).

Μὴ προθυμεῖσθαι εἰς τὴν ἀκρίβειαν φιλοσοφεῖν, ἀλλ'εὐλαβεῖσθαι ὅπως μὴ πὲρα τοῦ δέοντος σοφώτεροι γενόμενοι, λήσετε διαφθαρέντες. Plato in Gorgia ed. Frider. Astii. Lips. 1819 –... t. 1. p. 362-4. Ne enitamini ut diligenter philosophemini, sed cavete ne, supra quam oportet, sapientiores facti ipsi inscientes corrumpamini. Φιλοσοφία γὰρ τοί ἐστιν, ὦ Σώκρατες, χαρίεν, ἄν τις αὐτοῦ μετρίως ἅψηται ἐὰν δὲ περαιτέρω τοῦ δέοντος ἐνδιατρίψῃ, διαφθορὰ τῶν ἀνθρώπων. ib. p. 356. Philosophia enim, o Socrate, est illa quidem lepida, si quis eam modice attingit, sin ultra quam opus est ei studet, corruptela est hominum. Tutta la vituperazione della filosofia che Platone in quel Dial. mette in bocca di Callicle, dalla p. 352. alla p. 362. è degna d’esser veduta. V’è anche insegnata (sebben Platone lo fa per poi negarla e confutarla) la vera legge naturale, che ciascun uomo o vivente faccia tutto per se, e il più forte sovrasti il più debole, e si goda quel di costui. (Roma 12. Feb. 1823. primo dì di Quaresima.)

Alla p. 2670. Le peuple de Leucade qui célèbre tous les ans la fête d’Apollon, est dans l’usage d’offrir à ce dieu un sacrifice expiatoire, et de détourner sur la tête de la victime tous les fléaux dont il est menacé. On choisit pour cet effet un homme condamné à subir le dernier supplice. On le précipite dans la mer du haut de la montagne de Leucade. Il périt rarement dans les flots; et après l’en avoir sauvé, on le bannit à perpétuité des terres de Leucade. ( Strab. l. 10. p. 452. Ampel. memorab. c. 8.) Voyage d’Anacharsis etc. ch. 36. t. 3. p. 402. (17. Feb. 1823.).

Pianger si de’ il nascente ch’incomincia Or a solcare il mar di tanti mali, E con gioia al sepolcro s’accompagni, L’uscito de’ travagli della vita. Poeta antico appo Plutarco Come debba il giovane udir le poesie, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane, pagina ultima, cioè p. 169. del tomo primo Opuscoli morali di Plutarco volgarizzati da Marcello Adriani il giovane stampati per la prima volta in Firenze, Piatti, 1819. (19. Feb. 1823.). V. la p. seg.

Dei beni umani il più supremo colmo È sentir meno il duolo . Sentenza che racchiude la somma di tutta la filosofia morale e antropologica. Poeta antico nel luogo citato qui sopra. (19. Feb. 1823.).

Ἔμβραχυ per insomma, denique ec. come noi diciamo appunto in breve. Platone, Gorgia, ed. principe Ald. t... p. 457. A. (19. Feb. 1823.).

Grave non è nè a farsi nè a soffrirsi Quello a che noi necessità costringe. Tragico antico, ap. Plut. Discorso di consolazione ad Apollonio, una pagina avanti il mezzo. Volgarizzamento di Marcello Adriani il giovine. Fir. 1819. t. 1. p. 194. (20. Feb. 1823.).

Alla p. antecedente. V. un detto di Crantore, e un frammento d’Aristotele in questo proposito, appresso il medesimo Plutarco dell’Adriani, nel Discorso di consolazione ad Apollonio t. 1. p. 203-4. e un verso di Menandro ib. 213. (21. Feb. 1823.).

On ne fait entrer dans la cavalerie (Lacédémonienne) que des hommes sans expérience, qui n’ont pas assez de vigueur ou de zèle. C’est le citoyen riche qui fournit les armes, et entretient le cheval. ( Xen. hist. gr. l. 6. p. 596.). Si ce corps a remporté quelques avantages il les a dus aux cavaliers étrangers que Lacédémone prenoit à sa solde (Id. de magistr. equit. p. 971.). En général les Spartiates aiment mieux servir dans l’infanterie: persuadés que le vrai courage se suffit à lui-même, ils veulent combattre corps à corps. J’étois auprès du roi Archidamus, quand on lui présenta le modèle d’une machine à lancer des traits, nouvellement inventée en Sicile. Après l’avoir examinée avec attention: C’en est fait, dit-il, de la valeur. ( Plut. apophth. Lac. t. 2. p. 219.) Voy. d’Anach. ch. 50. t. 4. p. 252. Applicate tutto questo all’invenzione ed uso delle armi da fuoco ed alla milizia moderna. (23. Feb. 1823.).

Alla p. 2665. Les Arcadiens se regardent comme les enfans de la terre, parce qu’ils ont toujours habité le même pays, et qu’ils n’ont jamais subi un joug etranger. (Thucy. l. 1. c. 2. Xen. hist. gr. l. 7. p. 618. Plut. quaest. roman. t. 2. p. 286.). Même ouvrage ch. 52. t. 4. p. 295. (23. Feb. 1823.).

Dans les transports de sa joie (Cydippe la prêtresse de Junon), elle supplia la Déesse d’accorder à ses fils (Biton et Cléobis) le plus grand des bonheurs. Ses voeux furent, dit-on, exauces: un doux sommeil les saisit dans le temple même (de Junon, entre Argos et Mycènes) et les fit tranquillement passer de la vie à la mort; comme si les dieux n’avoient pas de plus grand bien à nous accorder, que d’abréger nos jours. ( Herodot. I. 31. Axioch. ap. Plat. t. 3. p. 367. Cic. Tusc. I. 47. Val. Max. v. 4. estern. 4. Stob. serm.169. p. 603. Serv. et Philarg. in Georg. III. 532.) Même ouvrage ch. 53. t. 4. p. 343-4. Aggiungi Plutarco nel libro della consolazione ad Apollonio, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovine. Fir. 1819. t. 1. p. 189. e vedi ciò ch’egli soggiunge a questo proposito. Al qual luogo egli ha rispetto nella pag. 213. da me citata qui a tergo. (25. Feb. 1823.).

La statue de Telesilla (famosa poetessa d’Argo, e guerriera, salvatrice della sua patria) fut posée sur une colonne, en face du temple de Vénus; loin de porter ses regards sur des volumes représentés et placés à ses pieds, elle les arrête avec complaisance sur un casque qu’elle tient dans sa main, et qu’elle va mettre sur sa tête. (Pausan. 11. 20. p. 157.). Même ouvrage. l. c. p. 338. Così potrebb’essere rappresentata la nazione latina, la nazion greca e tutta l’antichità civile: inarrivabile e inarrivata nelle lettere e arti belle, e pur considerante l’une e l’altre come suoi passatempi, ed occupazioni secondarie; guerriera, attiva e forte. (25. Feb. 1823.).

Gli scrittori greci più eleganti ed attici e antichi sogliono usare la voce φησὶ per φασὶ nel significato di aiunt, è fama, on dit, il singolare invece del plurale (forma ellittica per φησί τις uom dice, altri dice). Così noi volgarmente tutto giorno, e non solo noi nel parlare, ma eziandio gli scrittori nostri, massime del trecento, usiamo dice per dicono, altri dice, l’uom dice, un dice (on dit). Passavanti Ediz. Venez. del Bortoli p. 251. E così dice che fa il Leone . Mi ricordo di aver trovato questa frase anche in altri trecentisti, e mi par senza fallo nelle Vite de’ Santi Padri. Quest’uso che noi abbiamo comune cogli antichissimi e più eleganti e puri scrittori greci, per qual mezzo ci può esser venuto se non per quello dell’antico volgar latino? Sempre ch’io trovo qualche conformità frappante fra il greco e l’italiano (massime l’italiano volgare, popolare, corrente e parlato) e così il francese e lo spagnuolo, conformità che non appartenga alla natura generale delle favelle, ma alle proprietà arbitrarie ed accidentali delle lingue, se quella tal qualità o parte ec. sopra cui cade questa conformità, non si trova negli scrittori latini, io tengo per fermo ch’ella si trovasse nel latino parlato, cioè nel volgar latino. Giacchè questo ebbe commercio col volgar greco, e quel ch’è più, venne da una medesima fonte col greco; e da esso volgar latino è venuto il nostro volgare. Ma qual commercio ebbe mai il nostro volgare col volgar greco, cioè col greco parlato, e massime coll’antico? qual commercio poi col greco scritto, e questo pure antichissimo? Quanto al nostro caso, io non credo che negli scrittori latini si trovi p. e. ait in vece di aiunt. Ma veggasi il Forcellini. (Roma 2. Marzo 1823.). V. p. 2987.

Tutti gl’imperi, tutte le nazioni ch’hanno ottenuto dominio sulle altre, da principio hanno combattuto con quelli di fuori, co’ vicini, co’ nemici: poi liberati dal timore esterno, e soddisfatti dell’ambizione e della cupidigia di dominare sugli stranieri e di possedere quel di costoro, e saziato l’odio nazionale contro l’altre nazioni, hanno sempre rivolto il ferro contro loro medesime, ed hanno per lo più perduto colle guerre civili quell’impero e quella ricchezza ec. che aveano guadagnato colle guerre esterne. Puoi vedere p. 3791. Questa è cosa notissima e ripetutissima da tutti i filosofi, istorici, politici ec. Quindi i politici romani prima e dopo la distruzion di Cartagine, discorsero della necessità di conservarla, e se ne discorre anche oggidì ec. L’egoismo nazionale si tramuta allora in egoismo individuale: e tanto è vero che l’uomo è per sua natura e per natura dell’amor proprio, nemico degli altri viventi e se-amanti; in modo che s’anche si congiunge con alcuno di questi, lo fa per odio o per timore degli altri, mancate le quali passioni, l’odio e il timore si rivolge contro i compagni e i vicini. Quel ch’è successo nelle nazioni è successo ancora nelle città, nelle corporazioni, nelle famiglie ch’hanno figurato nel mondo ec. unite contro gli esteri, finchè questi non erano vinti, divise e discordi e piene d’invidia ec. nel loro interno, subito sottomessi gli estranei. Così in ciascuna fazione di una stessa città, dopo vinte le contrarie o la contraria. V. il proem. del lib.7. delle Stor. del Machiavello. Ed è bello a questo proposito un passo di Plutarco sulla fine del libro Come si potria trar giovamento da’ nimici ( Opusc. mor. di Plut. volgarizz. da Marcello Adriani il giovane. Opusc. 14. Fir. 1819. t. 1. p. 394.) La qual cosa ben parve che comprendesse un saggio uomo di governo nominato Demo, il quale, in una civil sedizione dell’isola di Chio, ritrovandosi dalla parte superiore, consigliava i compagni a non cacciare della città tutti gli avversarj, ma lasciarne alcuni, acciò (disse egli) non incominciamo a contendere con gli amici, liberati che saremo interamente da’ nimici: così questi nostri affetti (soggiunge Plutarco, cioè l’emulazione, la gelosia, e l’invidia) consumati contra i nimici meno turberanno gli amici . V. ancora gl’Insegnamenti Civili di Plut. dove il cit. Volgarizz. p. 434. ha Onomademo in vece di Demo: ὄνομα Δῆμος.

Ora nello stesso modo che alle famiglie, alle corporazioni, alle città, alle nazioni, agl’imperi, è accaduto al genere umano. Nemici naturali degli uomini furono da principio le fiere e gli elementi ec.; quelle, soggetti di timori e d’odio insieme, questi di solo timore (se già l’immaginazione non li dipingeva a quei primi uomini come viventi). Finchè durarono queste passioni sopra questi soggetti, l’uomo non s’insanguinò dell’altro uomo, anzi amò e ricercò lo scontro, la compagnia, l’aiuto del suo simile, senz’odio alcuno, senza invidia, senza sospetto, come il leone non ha sospetto del leone. Quella fu veramente l’età dell’oro, e l’uomo era sicuro tra gli uomini: non per altro se non perch’esso e gli altri uomini odiavano e temevano de’ viventi e degli oggetti stranieri al genere umano; e queste passioni non lasciavano luogo all’odio o invidia o timore verso i loro simili, come appunto l’odio e il timore de’ Persiani impediva o spegneva le dissensioni in Grecia, mentre quelli furono odiati e temuti. Quest’era una specie d’egoismo umano (come poi vi fu l’egoismo nazionale) il quale poteva pur sussistere insieme coll’individuale, stante le dette circostanze. Ma trovate o scavate le spelonche, per munirsi contro le fiere e gli elementi, trovate le armi ed arti difensive, fabbricate le città dove gli uomini in compagnia dimoravano al sicuro dagli assalti degli altri animali, mansuefatte alcune fiere, altre impedite di nuocere, tutte sottomesse, molte rese tributarie, scemato il timore e il danno degli elementi, la nazione umana, per così dire, quasi vincitrice de’ suoi nemici, e guasta dalla prosperità, rivolse le proprie armi contro se stessa, e qui cominciano le storie delle diverse nazioni; e questa è l’epoca del secolo d’argento, secondo il mio modo di vedere; giacchè l’aureo, al quale le storie non si stendono, e che resta in balìa della favola, fu quello precedente, tale, quale l’ho descritto. (4. Marzo 1823.).

Plutarco nel principio degl’Insegnamenti civili, volgarizzamento cit. di sopra, Opusc. 15. t. 1. p. 403. Molto meno arieno ancora gli Spartani patito l’insolenza, e buffonerie di Stratocle, il quale avendo persuaso il popolo (credo Ateniese, o Tebano) a sacrificare come vincitore; che poi sentito il vero della rotta si sdegnava, disse: Qual ingiuria riceveste da me, che seppi tenervi in festa, ed in gioja per ispazio di tre giorni? Agli Spartani si possono paragonate i filosofi, anzi questo secolo, anzi quasi tutti gli uomini, avidi del sapere o della filosofia, e di scoprir le cose più nascoste dalla natura, e per conseguenza di conoscere la propria infelicità, e per conseguenza di sentirla, quando non l’avrebbero sentita mai o di sentirla più presto. E la risposta di Stratocle starebbe molto bene in bocca de’ poeti, de’ musici, degli antichi filosofi, della natura, delle illusioni medesime, di tutti quelli che sono accusati d’avere introdotti o fomentati, d’introdurre o fomentare o promuovere de’ begli errori nel genere umano, o in qualche nazione o in qualche individuo. Che danno recano essi se ci fanno godere, o se c’impediscono di soffrire, per tre giorni? Che ingiuria ci fanno se ci nascondono quanto e mentre possono la nostra miseria, o se in qualunque modo contribuiscono a fare che l’ignoriamo o dimentichiamo? (5. Marzo. 1823.).

Grazia dal contrasto. Conte Baldessar Castiglione, Il Libro del Cortegiano. lib. 1. Milano, dalla Società tipogr. de’ Classici italiani, 1803. vol. 1. p. 43-4. Ma avendo io già più volte pensato meco, onde nasca questa grazia, lasciando quegli che dalle stelle l’hanno, trovo una regola universalissima; la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane, che si facciano, o dicano, più che alcuna altra; e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa, e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia: perchè delle cose rare, e ben fatte ognun sa (p. 44. dell’ediz.) la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario, lo sforzare, e, come si dice, tirar per i capegli, dà somma disgrazia, e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. (Roma 14. Marzo. 1823. secondo Venerdì di Marzo.).

In vero rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie degli scrittori, nè gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi. Il medesimo, ivi, p. 79. Da quanto pochi adunque può sperar degna, vera ed intima e piena e perfetta stima e lode il perfetto scrittore o poeta! e per quanto pochi scrive e prepara piaceri colui che scrive perfettamente! V. p. 2796. (15. Marzo. 1823.).

Nè altro vuol dir il parlar antico, che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa sarebbe amar il parlar antico, non per altro che per voler più presto parlare come si parlava, che come si parla. Il medesimo, ivi, p. 64. (15. Marzo 1823.).

Quelques sages, épouvantés des vicissitudes qui bouleversent les choses humaines, supposèrent une puissance qui se joue de nos projets, et nous attend au moment du bonheur, pour nous immoler à sa cruelle jalousie. ( Herod. I. 32. III. 40. VII. 46. Soph. in Philoct. v. 789.) Voyage d’Anacharsis. ch. 71. p. 136. t. 6. (Roma 26. Marzo. 1823.).

«L’excès de la raison et de la vertu, est presque aussi funeste que celui des plaisirs ( Aristot. de mor. II. 2. t. 2. p. 19.); la nature nous a donné des goûts qu’il est aussi dangereux d’éteindre que d’épuiser.» Même ouvrage ch. 78. t. 6. p. 456. (29. Marzo. Sabato Santo. 1823.).

L’uomo sarebbe felice se le sue illusioni giovanili (e fanciullesche) fossero realtà. Queste sarebbero realtà, se tutti gli uomini le avessero, e durassero sempre ad averle: perciocchè il giovane d’immaginazione e di sentimento, entrando nel mondo, non si troverebbe ingannato della sua aspettativa, nè del concetto che aveva fatto degli uomini, ma li troverebbe e sperimenterebbe quali gli aveva immaginati. Tutti gli uomini più o meno (secondo la differenza de’ caratteri), e massime in gioventù, provano queste tali illusioni felicitanti: è la sola società, e la conversazione scambievole, che civilizzando e istruendo l’uomo, e assuefacendolo a riflettere sopra se stesso, a comparare, a ragionare, disperde immancabilmente queste illusioni, come negl’individui, così ne’ popoli, e come ne’ popoli, così nel genere umano ridotto allo stato sociale. L’uomo isolato non le avrebbe mai perdute; ed elle son proprie del giovane in particolare non tanto a causa del calore immaginativo, naturale a quell’età, quanto della inesperienza, e del vivere isolato che fanno i giovani. Dunque se l’uomo avesse continuato a vivere isolato, non avrebbe mai perdute le sue illusioni giovanili, e tutti gli uomini le avrebbero e le conserverebbero per tutta la vita loro. Dunque esse sarebbero realtà. Dunque l’uomo sarebbe felice. Dunque la causa originaria e continua della infelicità umana è la società. L’uomo, secondo la natura sarebbe vissuto isolato e fuor della società. Dunque se l’uomo vivesse secondo natura, sarebbe felice. (Roma 1. Aprile. Martedì di Pasqua. 1823.).

Ὀλίγου δέω τοῦτο ποιεῖν ἢ παθεῖν ὀλίγου δεῖν καὶ ἀπόλωλα ὀλίγου δεῖ τοῦτο γενέσθαι πολλοῦ γε καὶ δεῖ πολλοῦἢ μικροῦ ἐδέησεν ἢ ἐδέησα μικροῦ δεῖν ec. Peu s’en faut: beaucoup s’en faut: peu s’en fallut ec. poco mancò che ec. di poco fallò, per poco, per poco non, ec. V. p. 3817.(1. Aprile. 1823.).

A noi pare bene spesso di provar del piacere dicendo, o fra noi stessi o con altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero che il piacere non può mai esser presente, e quantunque da ciò segua ch’esso non può neanche mai esser passato, tuttavia si può quasi dire ch’esso può piuttosto esser passato che presente. (Roma. 12. Aprile 1823.).

Le ciel qui nous donna la réflexion pour prévoir nos besoins, nous a donné les besoins pour mettre des bornes à notre réflexion. Études de la Nature par Jacques-Bernardin-Henri de Saint-Pierre. Paul et Virginie. dans le Dialogue entre Paul et le Vieillard. Paris de l’imprimerie de Monsieur. 3e édit. tom. 4. p. 132. (Roma 14. Aprile 1823.).

En Europe le travail des mains déshonore. On l’appelle travail méchanique. Celui même de labourer la terre y est le plus méprisé de tous. Un artisan y est bien plus estimé qu’un paysan. loc. cit. pag. 136. Tutto l’opposto era fra gli antichi, appresso i quali gli agricoltori e l’agricoltura erano in onore, e l’arti manuali o meccaniche (αἱ βαναυσικαὶ τέχναι) e i professori delle medesime erano infami. V. Cic. de Offic. l. i . e l’Economico di Senofonte, e quello attribuito già ad Aristotele. (14. Aprile 1823.).

Sopra il verbo difendere usato già dagli antichi Latini come da’ francesi e dagli antichi italiani e dagli spagnuoli per proibire, vedi Perticari Apologia di Dante p. 157. (Recanati 12. Maggio 1823.).

Usano i buoni scrittori greci elegantemente l’infinito dei verbi in luogo della seconda e della terza persona dell’imperativo. Τοῦτο ποιεῖν invece di τοῦτο ποίει σὺ, o di τοῦτο ποιείτω ἐκεῖνος, o di τοῦτο ποιείσθω (hoc fiat) o di τοῦτο ποιητέον o di τοῦτο ποιεῖν δεῖ la quale ultima parola si sottintende in questa formola ellittica di τοῦτο ποιεῖν. Simile a quest’uso è quello degl’italiani di usare l’infinito in vece della seconda persona singolare dell’imperativo, quando precede una particella negativa ossia vietativa. Non fare, non dire per non fa, non di’. Il qual uso viene dal comune rustico romano, ossia da quella lingua in cui degenerò il latino d’Europa ne’ bassi tempi, che si parlò in tutta l’Europa latina, e da cui nacquero le lingue italiana, francese, spagnuola, portoghese, e i loro dialetti. V. il Perticari, Apologia di Dante p. 170. Ma quest’uso figurato è rimasto ai soli italiani, benchè già fosse proprio anche dei provenzali, come dimostra il Perticari, loc. cit. I greci dicevano ancora μὴ τοῦτο ποιεῖν per μὴ τοῦτο ποίει. Così ancora invece delle seconde e terze persone imperative plurali, cioè invece di μὴ τοῦτο ποιεῖτε o ποιείτωσαν. V. Senofonte Πόροι, c. 4. num. 40. Platon. Sophist. t. 2. Astii p. 346. v. 11. E. (12. Maggio 1823.).

Il Perticari nell’Apolog. di Dante p. 207. not. 19. trovando in un’antica canzone provenzale il verbo arsare dice che questa è la radice della voce arso, la quale finora è sembrato vocabolo senza radice, giacchè dal verbo ardere dovrebbe derivare arduto e non arso. S’inganna: ed anzi il verbo arsare deriva da arso di ardere che n’è la radice. I participii de’ nostri verbi sono per lo più i participii latini, quando il verbo è latino. Se in questi participii è qualche anomalia, la ragione e l’origine della medesima, non si deve cercare nell’italiano nè nel provenzale, ma nel latino, sia che quest’anomalia esista anche nel latino, sia che quel participio (e così dico delle altre voci) ch’è anomalo per noi, non lo sia per li latini. Giacchè l’uso italiano, massime nel particolare dei participii, ha seguito ordinariamente l’uso latino senza guardare se questo corrispondesse o no alle regole o all’analogia della nuova lingua che si veniva formando. E moltissime irregolarità della nostra lingua e delle sue sorelle vengono dalla sua cieca conformità colla lingua madre. Da sospendere, prendere, accendere, discendere ec. secondo l’analogia della nostra lingua, verrebbe sospenduto, prenduto, accenduto, discenduto, difenduto ec. Ma i latini dicevano suspensus, prensus, defensus ec. Dunque anche gl’italiani sospeso, preso, acceso, disceso, difeso ec. Nè la radice p. e. di preso è il prensare (che anzi viene da prensus) ma il prehendere o prendere de’ latini. Al contrario i latini da vendere facevano venditus; qui la nostra lingua segue la sua analogia e dice venduto da venditus [a]

Puoi vedere la p. 3075.

[Chiudi], non veso, perchè il latino non dice vensus. Credo anch’io che gli antichi latini dicessero suspenditus, prenditus, accenditus ec. ma se poi dissero diversamente, l’anomalia di preso, acceso ec. non è d’origine italiana nè provenzale, ma latina. Così da ardere noi dovremmo fare arduto. Ma sia che i primi latini dicessero arditus da ardeo, come dissero ardui per arsi, sia che nol dicessero mai, certo è che poi e comunemente dissero arsi, arsurus, arsus, supino arsum. Noi dunque non diciamo arduto ma arso, e diciamo arso perchè così dissero i latini, e l’origine di quest’anomalia si cerchi nel latino dov’ella pur fu e donde ella venne, non nell’italiano o nel provenzale o nella lingua romana o romanza; quando è chiaro ch’ell’è tanto più antica di tutte queste lingue. Similmente da audeo dovevasi fare auditus. Ma i latini a noi noti fecero ausus. Anomalia della stessa natura e condizione di arsus da ardeo, seconda congiugazione come audeo. Quest’ausus è il nostro oso nome: da questo nome oso viene osare, che i provenzali dissero o almeno scrissero anche ausar (Perticari l. c. p. 210. lin.7.): ed infatti osare non è che un continuativo barbaro d’audere ch’è la sua radice prima, e l’immediata è ausus. Ma il Perticari viceversa direbbe che oso ed ausus viene da osare e da ausare, giacchè dice che arso viene da arsare. Quasi che, anche secondo l’analogia della nostra lingua, da arsare si potesse far arso: e non piuttosto arsato, ch’è il suo vero participio, e ben differente da arso ch’è participio d’un altro verbo.

Questo e altri tali errori del Perticari e d’altri moltissimi grammatici antichi e moderni, vengono dalla poca notizia che costoro hanno avuta della formazione e derivazione de’ verbi in are da’ participii regolari o anomali d’altri verbi; formazione usitatissima da’ latini, presso de’ quali i verbi così formati erano continuativi; e seguitata ad usare larghissimamente ne’ tempi bassi e ne’ principii delle moderne lingue dell’Europa latina.

Ausus sum: son oso. Questa frase italiana corrispondente alla latina, conferma, seppur ve n’è bisogno, l’identità del nome oso col participio ausus, sola voce del verbo audere che si sia conservata nell’uso delle lingue figlie della latina, e madre di più voci moderne, come osare, oser, osadìa, osado (participio d’ausare), osadamente ec. (Recanati 15. Maggio 1823.).

Somma conformabilità dell’uomo. Le bestie sono più o meno addomesticabili, secondo che sono più o meno assuefabili e conformabili di natura. Ma nè le bestie domestiche convivendo coll’uomo, nè queste o altre bestie convivendo con bestie di specie diversa dalla loro, contraggono il carattere e i costumi umani o di quelle altre bestie, nè i caratteri di più bestie di specie diversa si mescolano tra loro per convivere che facciano insieme; ma solamente le bestie domestiche ricevono certe assuefazioni particolari, e certi costumi non naturali portati dalle circostanze, i quali non hanno però che far niente coi costumi dell’uomo. Ma l’uomo convivendo colle bestie, contrae veramente gran parte del carattere di queste, ed altera il suo proprio per una effettiva mescolanza di qualità naturali alle bestie con cui convive. È cosa osservata nella campagna romana, e nota quivi alle persone che per mestiere per abito e per natura sono tutt’altro che osservatrici, che i pastori e guardiani delle bufale, sono ordinariamente stupidi, lenti, goffi, rozzissimi, selvatici e tali che poco hanno dell’uomo: che i pastori de’ cavalli sono svelti, attivi, pronti, vivaci, arguti, agili di corpo e di spirito: quelli delle pecore, semplici, mansueti, ubbidienti ec. (Recanati 16. Maggio 1823.). E tra gli abitanti della campagna romana i due estremi della zotichezza e della spiritualité e furberia, della torpidezza e del brio, della dappocaggine, pigrizia ec. e dell’attività, sono i guardiani delle bufale e quei de’ cavalli; come lo sono i caratteri di queste specie di animali fra quelle che abitano nella detta campagna. (16. Maggio. 1823.).

Degli scrittori non romani che scrissero in latino, e son tenuti classici in quella lingua e letteratura vedi Perticari, Apologia di Dante, capo 30. p. 314-16. (Recanati 16. Maggio. 1823.).

Del disprezzo in cui fu tenuta dai dotti la lingua italiana (detta volgare) nel 300, nel 400 e nel 500, a paragone della latina, vedi Perticari loc. cit. capo 34. (16. Maggio 1823.). Vedi anche il fine della Lezione dell’ordine dell’Universo di Pier Francesco Giambullari nelle Prose Fiorentine par. 2. vol. 2. (Venez. 1735. t. 3. par. 2. p. 24.fine-25.) (17. Maggio 1823.). V. altresì Perticari Degli Scritt. del 300. l. i. c. 13. p. 77. c. 16. p. 88. segg. c. ult. fine. p. 98. l. 2. c. 9. p. 163.

Formata una volta una lingua illustre, cioè una lingua ordinata, regolare, stabilita e grammaticale, ella non si perde più finchè la nazione a cui ella appartiene non ricade nella barbarie. La durata della civiltà di una nazione è la misura della durata della sua lingua illustre e viceversa. E siccome una medesima nazione può avere più civiltà, cioè dopo fatta civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova, ciascuna sua civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata, corrotta, decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di civiltà e di lingua illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute, o vogliamo piuttosto dire, nella storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello della nazione italiana. Perchè niuna delle altre nazioni state civili in antico, sono risorte a civiltà moderna e presente, e niuna delle nazioni presentemente civili, fu mai civile (che si sappia) in antico, se non l’italiana. Così niun’altra nazione può mostrare due lingue illustri da lei usate e coltivate generalmente, (come può far l’italiana) se non in quanto la nostra antica lingua, cioè la latina, si diffuse insieme coi nostri costumi per l’Europa a noi soggetta, e fece per qualche tempo italiane di costumi e di lingua e letteratura le Gallie, le Spagne, la Numidia (che non è più risorta a civiltà) ec.

Ma tornando al proposito nostro, siccome la Grecia, in tutta la storia conosciuta, è la nazione che per più lungo tempo ha conservato una civiltà, così la lingua greca illustre è di tutte le lingue illustri conosciute nella storia antica o moderna, quella che ha durato più lungo tempo. Sebbene nei secoli bassi la civiltà greca fosse in gran decadenza, e similmente e proporzionatamente la lingua greca illustre, nondimeno la Grecia non divenne assolutamente barbara, se non dopo la presa di Costantinopoli, conservandosi almeno qualche parte della civiltà greca, se non altro, nella Corte di Bisanzio finchè questa durò. E fino a questo medesimo termine durò ancora la lingua greca illustre, in maniera che gli scrittori greci di questi ultimi tempi, come Teofilatto e quei della Storia Bizantina, sono per la più parte intelligibili e piani senz’altro particolare studio, a tutti quelli che intendono Omero ed Erodoto. Di modo che la lingua greca illustre durò sempre una e sempre quella, per 23 secoli, cioè da Omero fino all’ultimo imperatore greco. Durata maravigliosa: ma tale altresì fu quella della greca civiltà. Perchè la Grecia per niuna circostanza di tempi non divenne mai interamente barbara finchè non fu tutta suddita de’ turchi; nè mai per tutto l’intervallo de’ secoli antecedenti fu priva di letteratura, neanche ne’ peggiori secoli, come si può vedere, considerando anche solamente la Biblioteca di Fozio scritta nel nono secolo, e le varie opere di Tzetze scritte nel 12.o oltre il Violario d’Eudocia Augusta, il Lessico di Suida ec. opere che in niun’altra parte del mondo fuor della parte greca, quando pur fossero state tradotte nelle rispettive lingue, si sarebbero a quei tempi sapute neppure intendere, non che comporne delle simili.

La lingua illustre latina nata tanto più tardi, tanto più presto morì, perchè la civiltà italiana e quella di tutta l’Europa latina per diverse circostanze finì pochissimi secoli dopo nata. Già quando Costantino trasportò la corte in Bisanzio, la Grecia vinceva d’assai e per civiltà e per letteratura il mondo latino, e massimamente l’Italia. E forse questa fu una delle cagioni che indussero Costantino a quel traslocamento, il quale fu poi un’altra circostanza che contribuì a mantenere la civiltà in Grecia, e seco la lingua illustre (coltivata poi da Temistio, da Libanio, da Giuliano imperatore da Giamblico, da Gregorio, da Basilio ben superiori in grecità a quello che furono in latinità Girolamo, Agostino, Ambrogio, Gregorio e Leone Papi, Ammiano, Boezio), ed aiutò la corruzione ed estinzione della civiltà e della lingua illustre latina, massime in Italia, dove mancò affatto una corte latina. La quale per poco tempo fu nelle Gallie, e vi produsse Sidonio e Pacato e gli altri nobili letterati di que’ tempi, e fece per allora quella provincia superiore senza comparazione per latinità, letteratura e civiltà alla stessa Italia che le avea compartite alle Gallie. Finchè le conquiste fatte dai Barbari distrussero affatto e la civiltà e la lingua illustre in tutta l’Europa latina.

La nuova nostra lingua illustre fu sufficientemente organizzata e stabilita nel 300 insieme colla nuova civiltà italiana. Questa ancor dura e non s’è mai più perduta. Dunque anche la lingua italiana illustre del 300, nè si è mai perduta, e dura ancora dopo ben cinque secoli: e quei trecentisti che più si divisero dal parlar plebeo e dai particolari dialetti separati, o (come in Dante) mescolati, quali sono il Petrarca, il Boccaccio, il Passavanti, il traduttore delle Vite de’ Padri, eccetto alcune poche e sparse parole o frasi, sono ancora moderni per noi, e la loro lingua è fresca e viva, come fosse di ieri. La differenza tra essi e noi sta quasi tutta nello stile e ne’ concetti. V. p. 2718.

Al contrario le lingue non bene o sufficientemente organizzate e regolate, variano continuamente e in breve si spengono quasi affatto, e fanno luogo a lingue quasi nuove, anche durando il medesimo stato della nazione, sia di civiltà (se pur vi fu mai civiltà non accompagnata da lingua illustre), sia di maggiore o minore barbarie. La lingua provenzale benchè scritta da tanti in poesia ed in prosa, pure perchè non ordinata sufficentemente nè ridotta a grammatica, è tutta morta dopo brevissima vita. E degli stessi trecentisti italiani, quelli che più s’accostarono al dir plebeo e provinciale, fosse fiorentino o qualunque, siccome tanti scrittori fiorentini o toscani di cronichette o d’altro, sono già da gran tempo scrittori di lingua per grandissima parte morta; giacchè infinite delle loro voci, frasi, forme e costruzioni più non s’intendono nelle stesse loro provincie, o vi riescono strane, insolite, affettate, antiquate e invecchiate. Vedi Perticari Apologia di Dante, capo 35. e specialmente p. 338.-45. (17. Maggio. 1823.).

La cagione per cui negli antichissimi scrittori latini si trova maggiore conformità e di voci e di modi colla lingua italiana, che non se ne trova negli scrittori latini dell’aureo secolo, e tanto maggiore quanto sono più antichi, si è che i primi scrittori di una lingua, mentre non v’è ancora lingua illustre, o non è abbastanza formata, divisa dalla plebea, fatta propria della scrittura, usano un più gran numero di voci, frasi, forme plebee, idiotismi ec. che non fanno gli scrittori seguenti; sono in somma più vicini al plebeo da cui le lingue scritte per necessità incominciano, e da cui si vanno dividendo solamente appoco appoco, usano una più gran parte della lingua plebea ch’è la sola ch’esista allora nella nazione, o che non è abbastanza distinta dalla lingua nobile e cortigiana ec. sì perchè quella lingua che si parla (com’è la cortigiana) tien sempre più o meno della plebea; sì perchè allora i cortigiani ec. non hanno l’esempio e la coltura derivante dalle Lettere nazionali e dalla lingua nazionale scritta, per parlare molto diversamente dalla plebe. Ora l’unica lingua che possano seguire e prendere in mano i primi scrittori di una lingua, si è la parlata, giacchè la scritta ancor non esiste. E siccome la lingua italiana e le sue sorelle non derivano dal latino scritto ma dal parlato, e questo in gran parte non illustre, ma principalmente dal plebeo e volgare, quindi la molta conformità di queste nostre lingue cogli antichissimi e primi scrittori latini. Vedi un luogo di Tiraboschi appresso Perticari, Apologia di Dante, capo 43. pag. 430. (20. Maggio 1823.).

Materia della pigrizia non sono propriamente le azioni faticose, ma quelle, faticose o no, nelle quali non è piacere presente, o vogliamo dire opinione di piacere. Niuno è pigro al bere o al mangiare. Lo studio è cosa faticosissima. Ma se l’uomo vi prova piacere, ancorchè pigro ad ogni altra cosa, non sarà pigro a studiare, anzi travaglierà nello studio gl’interi giorni. E forse la massima parte delle persone assolutamente studiose, sono infingarde, e pure nello studio operano e si affaticano continuamente. Il fine dei pensieri e delle azioni dell’uomo è sempre e solo il piacere. Ma i mezzi di conseguir quello che l’uomo si propone come piacere, ora hanno piacere in se stessi, ora no. Questi ultimi sono materia della pigrizia, ancorchè domandino pochissima fatica, ancorchè il piacere a cui condurrebbero sia vicinissimo e prontissimo e certissimo, ancorchè l’uomo faccia molta stima di questo piacere e lo desideri, ancorchè finalmente il fine al quale questi mezzi conducono sia necessario, o molto utile ad ottenere altri piaceri. Così l’uomo si astiene di comparire a una festa (dove crede che si sarebbe trovato con piacere) per non assettarsi; e se si fosse trovato all’ordine, o se non se gli fosse richiesto d’assettarsi, sarebbe andato alla festa: la qual era pure un piacer vicino e pronto, e che si otteneva certamente con un’ora di pochissima fatica. Così la pigrizia ritiene ancora da quei travagli che sono necessari a procacciarsi il mangiare e il bere, perchè essi in se non hanno piacere. Così da cento altre azioni utili, cioè conducenti più o men tosto al piacere (giacchè questo è il significato di utile), ma non piacevoli in se: e tanto più quanto più è lontano il piacere ch’esse procacciano, e quanto elle sono più faticose, più lunghe, e meno piacevoli. (20. Maggio 1823.).

La voce popolare bobò che significa presso di noi uno spauracchio de’ fanciulli simile al μορμὼ ec. dei greci, alle Lammie de’ latini ec. (V. il mio Saggio sugli errori popolari) non è altro che un sostantivo formato dalle due voci bau bau (colla solita mutazione dell’au in o), o piuttosto le stesse due voci sostantivate, e ridotte a significare una persona o spettro che manda fuori quelle voci bau bau. Le quali sono voci antichissime e comuni ai greci che con esse esprimevano l’abbaiare dei cani, e quindi fecero il verbo βαΰζειν; ai latini che ne fecero nello stesso senso il verbo baubari, e a noi che ne abbiamo fatto baiare e quindi abbaiare (se pur questi verbi non vengono dal suddetto latino), onde il francese antico abaïer e il moderno aboyer de’ quali verbi vedi il Dizionario di Richelet. Vedi anche la pag. 2811.-13. Ma dall’esprimere la voce de’ cani, le parole bau bau passarono a significare una voce che spaventasse i fanciulli. V. la Crusca in Bau. Quindi il nostro Bobò sostantivo di persona. Presso i francesi bobo è voce parimente puerile che significa un petit mal, cioè quello che le nostre balie dicono bua, la qual voce fu pur delle balie latine, ma con altro significato, cioè con quello che le nostre dicono bumbù, o come ha la Crusca, bombo. V. Forcellini . I Glossari non hanno nulla al proposito. (20. Maggio 1823.).

Di alcune cagioni che anche ne’ bassi tempi poterono introdurre vocaboli e modi greci nel volgare o ne’ volgari d’Italia, vedi Perticari Apologia di Dante, capo 39. p. 386.(21. Maggio 1823.).

Dell’antico volgare latino, vedi Perticari Degli scrittori del 300. lib.1. cap. 5. 6. 7. (21. Maggio 1823.).

È pur doloroso che i filosofi e le persone che cercano di essere utili o all’umanità o alle nazioni, sieno obbligate a spendere nel distruggere un errore o nello spiantare un abuso quel tempo che avrebbono potuto dispensare nell’insegnare o propagare una nuova verità, o nell’introdurre o divulgare una buona usanza. E veramente a prima vista può parer poco degno di un grande intelletto, e poco utile, o se non altro, di seconda o terza classe nell’ordine de’ libri utili, un libro, tutta la cui utilità si riduca a distruggere uno o più errori. (Tali sono p. e. i due Trattati di Perticari, e tutta la Proposta di Monti). Ma se guarderemo più sottilmente, troveremo che i progressi dello spirito umano, e di ciascuno individuo in particolare, consistono la più parte nell’avvedersi de’ suoi errori passati. E le grandi scoperte per lo più non sono altro che scoperte di grandi errori, i quali se non fossero stati, nè quelle (che si chiamano, scoperte di grandi verità) avrebbero avuto luogo, nè i filosofi che le fecero avrebbero alcuna fama. Così dico delle grandi utilità recate ai costumi, alle usanze ec. Non sono, per lo più, altro se non correzioni di grandi abusi. Lo spirito umano è tutto pieno di errori; la vita umana di male usanze. La maggiore e la principal parte delle utilità che si possono recare agli uomini, consiste nel disingannarli e nel correggerli, piuttosto che nell’insegnare e nel bene accostumare, benchè quelle operazioni bene spesso, anzi ordinariamente, ricevano il nome di queste. La maggior parte de’ libri, chiamati universalmente utili, antichi o moderni, non lo sono e non lo furono, se non perchè distrussero o distruggono errori, gastigarono o gastigano abusi. In somma la loro utilità non consiste per lo più nel porre, ma nel togliere, o dagl’intelletti o dalla vita. Grandissima parte de’ nostri errori scoperti o da scoprirsi, sono o furono così naturali, così universali, così segreti, così propri del comune modo di vedere, che a scoprirli si richiedeva o si richiede un’altissima sapienza, una somma finezza e acutezza d’ingegno, una vastissima dottrina, insomma un gran genio. Qual è la principale scoperta di Locke, se non la falsità delle idee innate? Ma qual perspicacia d’intelletto, qual profondità ed assiduità di osservazione, qual sottigliezza di raziocinio non era necessaria ad avvedersi di questo inganno degli uomini, universalissimo, naturalissimo, antichissimo, anzi nato nel genere umano, e sempre nascente in ciascuno individuo, insieme colle prime riflessioni del pensiero sopra se stesso, e col primo uso della logica? E pure che infinita catena di errori nascevano da questo principio! Grandissima parte de’ quali ancor vive, e negli stessi filosofi, ancorchè il principio sia distrutto. Ma le conseguenze di questa distruzione, sono ancora pochissimo conosciute (rispetto alla loro ampiezza e moltiplicità), e i grandi progressi che dee fare lo spirito umano in séguito e in virtù di questa distruzione, non debbono consistere essi medesimi in altro che in seguitare a distruggere.

Cartesio distrusse gli errori de’ peripatetici. In questo egli fu grande, e lo spirito umano deve una gran parte de’ suoi progressi moderni al disinganno proccuratogli da Cartesio. Ma quando questi volle insegnare e fabbricare, il suo sistema positivo che cosa fu? Sarebbe egli grande, se la sua gloria riposasse sull’edifizio da lui posto, e non sulle ruine di quello de’ peripatetici? Discorriamo allo stesso modo di Newton, il cui sistema positivo che già vacilla anche nelle scuole, non ha potuto mai essere per i veri e profondi filosofi altro che un’ipotesi, e una favola, come Platone chiamava il suo sistema delle idee, e gli altri particolari o secondari e subordinati sistemi o supposizioni da lui immaginate, esposte e seguite. (21. Maggio. 1823.).

Paragonando la filosofia antica colla moderna, si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente perchè i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare. Il che se gli antichi tal volta facevano, niuno però era che in questo caso non istimasse suo debito e suo interesse il sostituire[a]

V. p. 3469.

[Chiudi]. Così fecero anche nella prima restaurazione della filosofia Cartesio e Newton. Ma i filosofi moderni, sempre togliendo, niente sostituiscono. E questo è il vero modo di filosofare, non già, come si dice, perchè la debolezza del nostro intelletto c’impedisce di trovare il vero positivo, ma perchè in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori, e sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi, senza prestar loro le qualità ch’esse non hanno. La natura ci sta tutta spiegata davanti, nuda ed aperta. Per ben conoscerla non è bisogno alzare alcun velo che la cuopra: è bisogno rimuovere gl’impedimenti e le alterazioni che sono nei nostri occhi e nel nostro intelletto; e queste, fabbricateci e cagionateci da noi col nostro raziocinio. Quindi è che i più semplici più sanno: che la semplicità, come dice un filosofo tedesco, (Wieland) è sottilissima, che i fanciulli e i selvaggi più vergini vincono di sapienza le persone più addottrinate: cioè più mescolate di elementi stranieri al loro intelletto. Di qui si conferma quel mio principio che la sommità della sapienza consiste nel conoscere la sua propria inutilità, e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella mai non fosse nata: e la sua maggiore utilità, o per lo meno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’è possibile) appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento. E quello ch’io dico qui dell’intelletto, dico altrove, e qui ridico, anche per rispetto alla vita, e a tutto quello che appartiene all’uomo, e che ha qualsivoglia relazione colla sapienza. (21. Maggio 1823.).

I filosofi antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione e il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’esperienza. (E questa è la gran diversità fra la filosofia antica e la moderna). Ora quanto più osservano tanto più errori scuoprono negli uomini, più o meno antichi, più o meno universali, propri del popolo, de’ filosofi, o di ambedue. Così lo spirito umano fa progressi: e tutte le scoperte fondate sulla nuda osservazione delle cose, non fanno quasi altro che convincerci de’ nostri errori, e delle false opinioni da noi prese e formate e create col nostro proprio raziocinio o naturale o coltivato e (come si dice) istruito. Più oltre di questo non si va. Ogni passo della sapienza moderna svelle un errore; non pianta niuna verità, (se non che tali tuttogiorno si chiamano le proposizioni, i dogmi, i sistemi in sostanza negativi). Dunque se l’uomo non avesse errato, sarebbe già sapientissimo, e giunto a quella meta a cui la filosofia moderna cammina con tanto sudore e difficoltà. Ma chi non ragiona, non erra. Dunque chi non ragiona, o per dirlo alla francese, non pensa, è sapientissimo. Dunque sapientissimi furono gli uomini prima della nascita della sapienza, e del raziocinio sulle cose: e sapientissimo è il fanciullo, e il selvaggio della California, che non conosce il pensare. (21. Maggio 1823.).

Ho detto che la filosofia moderna, in luogo degli errori che sterpa, non pianta nessuna verità positiva. Intendo verità semplicemente nuove; verità di cui vi fosse alcun bisogno, che avessero alcun valore, alcuno splendore, che meritassero di essere annunziate e affermate, che non fossero al tutto frivole e puerili, che non fossero manifestissime e conseguenti per se medesime, se gli errori contrarii non avessero avuto luogo, o non esistessero oggidì nelle menti degli uomini. Per esempio la filosofia moderna afferma che tutte le idee dell’uomo procedono dai sensi. Questa può parere una proposizione positiva. Ma ella sarebbe frivola, se non avesse esistito l’errore delle idee innate; come sarebbe frivolo l’affermare che il sole riscalda, perchè niuno ha creduto che il sole non riscaldasse, o affermato che il sole raffredda. Ma se questo fosse avvenuto, allora neanche quella verità o proposizione, che il sole riscalda, sarebbe tenuta frivola. Di più l’intenzione e lo spirito di quella proposizione che tutte le nostre idee vengono dai sensi, è veramente negativo, ed essa proposizione è come se dicesse, L’uomo non riceve nessuna idea se non per mezzo dei sensi; perch’ella mira espressamente ed unicamente ad escludere quell’antica proposizione positiva che l’uomo riceve alcune idee per altro mezzo che per quello dei sensi; ed è stata dettata dalla sottile speculazione di chi ben guardando nel proprio intelletto s’avvide che niuna idea gli era mai pervenuta fuori del ministerio dei sensi. Questo è un procedere affatto negativo, sì nella scoperta, sì ancora nell’enunciazione, perchè infatti da principio quella verità fu annunziata come negazione dell’errore contrario che allora sussisteva. Così discorrete d’infinite altre proposizioni o dogmi ec. della filosofia moderna, che hanno aspetto di positivi, ma che nello spirito, nella sostanza, nello scopo, e nel processo che il filosofo ha tenuto per iscoprirli, sono, o certo originalmente furono, negativi. (22. Maggio 1823.).

Perticari, Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 2. p. 106-7. fa derivare il nome italiano carogna da un’antica voce greca. (22. Maggio 1823.).

Di quelli che nel 500. volevano restringere la lingua italiana della poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella del solo Boccaccio, vedi Perticari Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 12. p. 178. colle similitudini che ivi pone de’ greci e de’ latini, e Apologia di Dante c. 41. p. 407-10. (23. Maggio 1823.).

Ho detto altrove che la lingua francese, povera di forme, è tuttavia ricchissima e sempre più si arricchisce di voci. Distinguo. La lingua francese è povera di sinonimi, ma ricchissima di voci denotanti ogni sorta di cose e di idee, e ogni menoma parte di ciascuna cosa e di ciascuna idea. Non può molto variare nella espressione d’una cosa medesima, ma può variamente esprimere le più varie e diverse cose. Il che non possiamo noi, benchè possiamo ridire in cento modi le cose dette. Ma certo è sempre varia quella scrittura che può esser sempre propria, perchè ad ogni nuova cosa che le occorre di significare, ha la sua parola diversa dalle altre per significarla. Anzi questa è la più vera, la più sostanziale, la più intima, la più importante, ed anche la più dilettevole varietà di lingua nelle scritture. E quelle scritte in una lingua soprabbondante di sinonimi, per lo più sono poco varie, perchè la troppa moltitudine delle voci fa che ciascheduno scrittore per significare ciaschedun oggetto, scelga fra le tante una sola o due parole al più, e questa si faccia familiare e l’adoperi ogni volta che le occorre di significare il medesimo oggetto; e così ciascheduno scrittore in quella lingua abbia il suo vocabolarietto diverso da quel degli altri, e limitato: come altrove ho detto accadere agli scrittori greci ed italiani. E osservo che sebbene la lingua greca è molto più varia della latina, nondimeno per la detta ragione le scritture greche, massime quelle degli ottimi e originali, sono meno varie delle latine per ciò che spetta ai vocaboli e ai modi. (23. Maggio 1823.). V. p. 2755.

Chi vuol vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove; e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore. Perciocchè Platone in queste orazioni adopra e vocaboli e frasi e costrutti notabilissimamente e visibilmente diversi da quelli che compongono la lingua ordinaria de’ suoi Dialoghi, sebbene in questi egli tratta bene spesso le medesime o simili materie a quelle delle tre suddette orazioni, massime dell’ultima. E i vocaboli, le frasi, i costrutti dell’ultima orazione (di stile tutta poetica, ma non perciò tumida o esagerata o eccessiva o tale che non sia vera prosa) sono pure diversissimi da quelli delle altre due. Nè in veruna di queste tre lo scrittore fa forza alla lingua, o dimostra affettazione, come fecero poi quei greci più recenti che si scostarono dalla maniera propria per seguire e imitare l’altrui. Ma certo chi non conoscesse altra lingua greca che la consueta di Platone, non senza una certa difficoltà potrebbe intendere quelle tre orazioni. (23. Maggio. 1823.).

Alla p. 2699. Di quelli scrittori del 300 che usarono lingua più illustre e comune, o manco plebea e provinciale o municipale, vedi Perticari Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 6. È da notare che molte differenze che s’incontrano in questi scrittori fra la loro lingua e la presente, non sono da attribuire alla lingua di quel secolo. Ma elle sono tutte proprie degli scrittori medesimi. I quali in quei primi cominciamenti della nostra lingua illustre, in quella scarsezza di esempi, e quindi di regole della lingua volgare scritta, seguirono quali una strada e quali un’altra, sì nel trovare o crear le voci ai dati oggetti, sì nel collegarle, come quelli ch’erano i primi; e spesso per mancanza d’arte, per cattivo gusto, per povertà di voci o di modi propria loro o della lingua, per vaghezza di novità, o per sola ignoranza, e poca conoscenza della loro stessa lingua scritta o parlata, e per non sapere scrivere, divisero le loro scritture dalla lingua parlata molto più che non si doveva, o in quelle cose e in quelle guise che non si doveva; non volendo esser plebei, furono qua e là mostri di locuzione; non sapendo esprimersi, inventarono parole e forme tutte loro, tutte barbare; introdussero nelle scritture molti vocaboli e modi latini o provenzali durissimi e ripugnanti all’indole della favella comune o particolare, illustre o plebea, di quel medesimo secolo. Della qual favella pertanto in queste cose non si può nè si dee fare argomento da quelle scritture. Perchè quelle mostruosità e stranezze, che noi crediamo e chiamiamo comunemente arcaismi, come non si parlano ora nè si scrivono, così non furono mai parlate nè pure in quel secolo, nè scritte se non da uno o da pochi; e quindi non sono proprie della lingua del 300 ma di quei particolari scrittori. E neanche nei secoli seguenti al suddetto, fino a noi, non furono mai parlate da alcuno in Italia, nè scritte se non da qualche pedantesco imitatore, e razzolatore degli antichi, de’ quali pedanti ve n’ha gran copia anche oggidì. Ma l’autorità di questi non fa la lingua nè presente nè passata. Vedi anche circa queste mostruosità arbitrarie e particolari di tale o tale trecentista, il Perticari loc. cit. p. 13-5. e massime p. 136. fine. (23. Maggio 1823.).

Anche il Gelli confessava (ap. Perticari Degli Scritt. del Trecento l. 2. c. 13. p. 183.) che la lingua toscana non era stata applicata alle scienze. (24. Maggio 1823.).

Della impossibilità o dannosità di sostituire ai termini delle scienze o delle arti 1. le circollocuzioni, 2. i termini generali, 3. i metaforici e catacretici o in qualunque modo figurati, vedi Perticari loc. cit. p. 184-5. (24. Maggio 1823.).

Aristotele diceva più essere le cose che le parole : e il Perticari loc. cit. p. 187-8. spiega ed applica questa sentenza alla necessità di far sempre nuovi vocaboli per le nuove cognizioni e idee. (24. Maggio 1823.).

Della necessità di far nuove voci alle nuove cose, o alle cose non mai trattate da’ nazionali, e che ciascuna scienza o arte abbia i suoi termini propri e divisi da quelli delle altre scienze e del dir comune, vedi Cicerone de finibus l. 3. c. 1-2. (24. Maggio 1823.).

Delle lingue vive non accade quello che delle lingue le quali più non si parlano. Queste, a guisa di pianta che più non vegeta, non possono ricevere accrescimento; e tutto quello, che a lor riguardo si può fare da noi, si è di serbarle diligentemente nello stato in cui sono; perciocchè in esse ogni alterazione tende a corrompimento. Al contrario le lingue che sono vive, vegetano tuttora, e possono crescere di più in più: e in esse le piccole mutazioni, che si vanno facendo di tempo in tempo, non sono segnali certi di corrompimento; anzi sono talora di sanità e vigoria. E però coloro, i quali non vorrebbon che i nostri scritti avessero altro sapore che di Trecento, nocciono alla lingua, perchè si sforzano di ridurla alla condizione di quelle che sono morte, e, in quanto a loro sta, ne diseccano i verdi rami, sicch’ella non possa, contro all’avviso d’Orazio, più vestirsi di nuove foglie . Quest’autore vivea pure nel secol d’oro della lingua latina, e nel tempo in cui essa era nel suo più florido stato: e tuttavia perch’ella era ancor viva, egli pensava ch’essa potesse arricchirsi vie maggiormente e ricevere nuove forme di favellare. Nota dell’Abate Colombo alle Lezioni sulle Doti di una colta favella con una non più stampata sullo stile da usarsi oggidì ed altre operette del medesimo autore (cioè dell’Abate Colombo). Parma per Giuseppe Paganino 1820. (ediz. 2da delle tre prime Lezioni e delle altre operette, fuorchè d’una). Lezione IV. Dello Stile che dee usare oggidì un pulito Scrittore. pag. 96. (antepenultima delle Lezioni). nota a. (25. Maggio. Domenica della SS. Trinità. 1823.).

I pedanti che oggi ci contrastano la facoltà di arricchir la lingua, pigliano per pretesto ch’essa è già perfetta. Ma lo stesso contrasto facevano nei cinquecento quand’essa si stava perfezionando, anzi nel momento ch’ella cominciavasi a perfezionare, come fece il Bembo, il quale volea che questo cominciamento fosse il toglierle la facoltà di crescer mai più, e ’l ristringerla al solo Petrarca e al solo Boccaccio. Lo stesso contrasto fecero al tempo di Cicerone e d’Orazio, cioè nel secolo d’oro della lingua latina, nel quale ella si perfezionava, e fino al quale non fu certamente perfetta. Ma la pedanteria nasce presto, e gli uomini impotenti presto, anzi subito credono e vogliono che sia perfetto e che non si possa nè si debba oltrepassare nè accrescere quel tanto, più o manco, di buono ch’è stato fatto, per dispensarsi dall’oltrepassarlo ed accrescerlo, e perch’essi non si sentono capaci di farlo. (25. Maggio 1823.). E come pochissimo ci vuole a superare l’abilità degli uomini da nulla, così pochissimo artifizio, e pochissima bontà basta a fare ch’essi la credano insuperabile, qual è veramente per loro, ancorchè piccolissima. Oltre che al loro scarso e torto giudizio spesso e in buona fede il mediocre pare ottimo, e l’ottimo mediocre, e il cattivo buono, e al contrario. (27. Maggio. 1823.).

Per quanto voglia farsi, non si speri mai che le opere degli scienziati si scrivano in bella lingua, elegantemente e in buono stile (con arte di stile). Chiunque si è veramente formato un buono stile, sa che immensa fatica gli è costato l’acquisto di quest’abitudine, quanti anni spesi unicamente in questo studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato unicamente a ciò, quanti confronti, quante letture destinate a questo solo fine, quanti tentativi inutili, e come solamente a poco a poco dopo lunghissimi travagli, e lunghissima assuefazione gli sia finalmente riuscito di possedere il vero sensorio del bello scrivere, la scienza di tutte le minutissime parti e cagioni di esso, e finalmente l’arte di mettere in opera esso stesso quello che non senza molta difficoltà è giunto a riconoscere e sentire ne’ grandi maestri, arte difficilissima ad acquistare, e che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile; bensì la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta spessissimo senza l’arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno sempre avuta tutta la loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi e lontanissimi da questi, come può mai essere che mettendosi a scrivere, scrivano bene, se per far questo si richiede un’arte tutta propria della cosa, e che domanda tutto l’uomo, e tanti studi, esercizi, e fatiche? E come si può presumere che gli scienziati si assoggettino a questi studi e fatiche, non avendoci amore alcuno, ed essendo tutti occupati e pieni di assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando loro assolutamente il tempo necessario per un’arte che domanda più tempo d’ogni altra? Oltre di ciò i più perfetti possessori di quest’arte, dopo le lunghissime fatiche spese per acquistarla, non sono mai padroni di metterla in opera senza che lo stesso adoperarla riesca loro faticosissimo e lunghissimo, perchè certo neppure i grandi maestri scrivono bene senza gravissime e lunghissime meditazioni, e revisioni, e correzioni, e lime ec. ec. Si può mai pretendere o sperare dagli scienziati questo lavoro, il quale è tanto indispensabile come quello che si richiede ad acquistare l’arte di bene scrivere?

Per gli scienziati ch’io escludo dalla possibilità di scriver bene ed elegantemente, non intendo i moralisti, i politici, gli scrutatori del cuore umano e della natura umana, i metafisici, insomma i filosofi propriamente detti. Le scienze di costoro non sono molto lontane da quella che si richiede a bene scrivere, nè le loro abitudini ripugnano all’abitudine e alla riflessione che produce il bello, il semplice, l’elegante. Anzi Cicerone diceva che senza filosofia non si dà perfetto oratore; e lo stesso si può dire del perfetto scrittore d’ogni genere. La scienza del bello scrivere è una filosofia, e profondissima e sottilissima, e tiene a tutti i rami della sapienza. Di più la materia stessa di tali discipline è suscettibilissima d’eleganza. Quindi molti ottimi scrittori antichi e moderni ha fornito questa sorta di dottrine.

Ma io escludo dal bene scrivere i professori di scienze matematiche o fisiche, e di quelle che tengono dell’uno e dell’altro genere insieme, o che all’uno o all’altro s’avvicinano. E di questa sorta di scienze in verità non abbiamo buoni ed eleganti scrittori nè antichi nè moderni, se non pochissimi. I greci trattavano queste scienze in modo mezzo poetico, perchè poco sperimentavano e molto immaginavano. Quindi erano in esse meno lontani dall’eleganza. Ma certo essi ne furono tanto più lontani, quanto più furono esatti. Platone è fuori di questa classe. Gli antichi lodano assai lo stile d’Aristotele e di Teofrasto. Può essere ch’abbiano riguardo ai loro scritti politici, morali, metafisici, piuttosto che ai naturali. Io dico il vero che nè in questi nè in quelli non sento grand’eleganza. (Quel ch’io ci trovo è purità di lingua e un sufficiente e moderato atticismo: l’uno e l’altro, effetto del secolo e della dimora anzi che dello scrittore, e insomma natura e non arte. Niuna eleganza però nè di stile nè di parole. Anzi sovente grandissima negligenza sì nella scelta sì nell’ordine e congiuntura de’ vocaboli; poca proprietà, e non di rado niuna sintassi.) Ben la sento e moltissima in Celso, vero e forse unico modello fra gli antichi e i moderni del bello stile scientifico-esatto. Col quale si potrà forse mettere Ippocrate. I latini ebbero pochi scrittori scientifici-esatti. E di questi, fuori di Celso, qual è che si possa chiamare elegante? Non certamente Plinio, il quale se si vorrà chiamar puro, si chiamerà così, perchè anch’egli per noi fa testo di latinità. Lascio Mela, Solino, Varrone, Vegezio, Columella ec. Il nostro Galileo lo chiami elegante chi non conosce la nostra lingua, e non ha senso dell’eleganza. (Vedi Giordani Vita del Cardinale Pallavicino). Il Buffon sarebbe unico fra’ moderni per il modo elegante di trattare le scienze esatte: ma oltre che la storia naturale si presta all’eleganza più d’ogni altra di queste scienze; tutto ciò che è elegante in lui, è estrinseco alla scienza propriamente detta, ed appartiene a quella che io chiamo qui filosofia propria, la quale si può applicare ad ogni sorta di soggetti. Così fece il Bailly nell’Astronomia. Sempre che usciamo dei termini dottrinali e insegnativi d’una scienza esatta, siamo fuori del nostro caso. La scienza non è più la materia ma l’occasione di tali scritture; non s’impara la scienza da esse, nè questa fa progressi diretti, per mezzo loro, nè riceve aumento diretto dalle proposizioni ch’esse contengono: elle sono considerazioni sopra la scienza. (28. Maggio. Vigilia del Corpus Domini. 1823.). I pensieri di Buffon non compongono e non espongono la scienza, non sono e non contengono i dogmi della medesima, o nuovi dogmi ch’esso le aggiunga, ma la considerano, e versano sopra di lei e sopra i suoi dogmi. Si può ornare una materia coi pensieri e colle parole. Tutte le materie sono capaci dell’ornamento de’ pensieri, perchè sopra ogni cosa si può pensare, e stendersi col pensiero quanto si voglia, più o meno lontano dalla materia strettamente presa. Ma non tutte si possono ornare colle parole. Il Buffon adornò la scienza con pensieri filosofici, e a questi pensieri non somministrati ma occasionati dalla storia naturale, applicò l’eleganza delle parole, perch’essi n’erano materia capace. Ma i fisici, i matematici ordinariamente non possono e non vogliono andar dietro a tali pensieri, ma si ristringono alla sola scienza.

Chiamo qui scienze esatte[a]

Le scienze al tutto esatte nel lor modo di dimostrare e nelle loro cognizioni, proposizioni, parti e dogmi, insegnam. soggetti ec. come sono le matematiche, lo Speroni (Dial.i Ven. 1596. p. 194. mezzo) le chiama scienze certe. Generalmente però quelle che io qui intendo, le chiama dimostrative (p. 160. mezzo. 161. princ. ec. e così ragioni dimostrative p. 181. opposte alle probabili e persuasive o congetturali); il qual nome abbraccia sì le esatte sì le men certe, speculative e morali o materiali ec. che sieno.

[Chiudi] tutte quelle che ancorchè non sieno ancora giunte a un cotal grado di perfezione e di certezza, pure di natura loro debbono esser trattate colla maggior possibile esattezza, e non danno luogo all’immaginazione (della quale il Buffon fece grandissimo uso), ma solamente all’esperienza, alla notizia positiva delle cose, al calcolo, alla misura ec. (30. Maggio. 1823.).

In proposito della prontissima decadenza della letteratura latina, e della lunghissima conservazione della greca, è cosa molto notabile, come dopo Tacito, cioè dall’imperio di Vespasiano in poi (fino al quale si stendono le sue storie) la storia latina restò in mano dei greci, e le azioni nostre furono narrate da Appiano, Dione, Erodiano, anche prima della traslocazione dell’imperio a Constantinopoli, e dopo questa da Procopio, Agazia, Zosimo ec. Senza i quali la storia del nostro impero da Vespasiano in poi, sarebbe quasi cieca, non avendo altri scrittori latini che quei miserabili delle Vite degli Augusti, piene di errori di fatto, di negligenza, di barbarie, e Ammiano non meno barbaro, per non dir di Orosio e d’altri tali più miserabili ancora. Così quella nazione che ne’ tempi suoi più floridi aveva narrato le sue proprie cose, e i suoi splendidissimi gesti, e le sue altissime fortune, e forse prima d’ogni altra, aveva dato in Erodoto l’esempio e l’ammaestramento di questo genere di scrittura; dopo tanti secoli, quando già non restava se non la lontana memoria della sua grandezza, estinto il suo imperio e la sua potenza, fatta suddita di un popolo che quando ella scriveva le sue proprie storie, ancora non conosceva, seguiva pure ad essere l’istrumento della memoria dei secoli, e i casi del genere umano e di quello stesso popolo dominante che l’aveva ingoiata, ed annullato da gran tempo la sua esistenza politica, erano confidati unicamente alle sue penne. Tanto può la civilizzazione, e tanto è vero che la civilizzazione della Grecia ebbe una prodigiosa durata, e vide nascere e morire quella degli altri popoli (anche grandissimi), i quali erano infanti, anzi ignoti, quand’ella era matura e parlava e scriveva; e giunsero alla vecchiezza e alla morte, durando ancora la sua maturità, e parlando essa tuttavia e scrivendo. Veramente la Grecia si trovò sola civile nel mondo ai più antichi tempi, e senza mai perdere la sua civiltà, dopo immense vicissitudini di casi, così universali come proprie, dopo aver veduto passare l’intera favola del più grande impero, che nella di lei giovanezza non era ancor nato; dopo aver communicata la sua civiltà a cento altri popoli, e vedutala in questi fiorire e cadere, tornò un’altra volta, in tempi che si possono chiamar moderni, a trovarsi sola civile nel mondo, e nuovamente da lei uscirono i lumi e gli aiuti che incominciarono la nuova e moderna civiltà nelle altre nazioni.

Lascio la Storia Ecclesiastica, della quale i greci hanno tanti scrittori, e i latini, si può dir, niuno se non S. Ilario, della cui storia restano alcuni frammenti, che non so però quanto abbiano dello storico, nè se quella fosse veramente storia. V. i Bibliografi, e le opp. di S. Ilario, e una Dissert. del Maffei appiè dell’opp. di S. Atanas. ediz. di Pad. 1777. Lascio le Croniche d’Africano e d’Eusebio, opere che niuno avrebbe pur saputo immaginare a quei tempi nell’Europa latina, che furono il modello di tutte le miserabili Cronografie latine uscite dipoi (di Prospero, Isidoro ec.), che furono recate allora nella lingua d’Italia, come nell’infanzia della letteratura latina furono tradotte le opere di Omero, di Menandro, ec. che furono anche recate nelle lingue d’Oriente (armena, siriaca ec.), di quell’Oriente che di nuovo riceveva la civiltà e letteratura dalla Grecia, e quivi ancora servirono di modello, come alla Cronica di Samuele Aniese ec. (30. Maggio. 1823.).

Nam si quis minorem gloriae fructum putat ex graecis versibus percipi, quam ex latinis, vehementer errat; propterea, quod graeca leguntur in omnibus fere gentibus, latina suis finibus, exiguis sane, continentur. Quare si res hae, quas gessimus, orbis terrae regionibus definiuntur, cupere debemus, quo manuum nostrarum tela pervenerint, eodem gloriam, famamque penetrare. Cic. Orat. pro Archia poeta, cap. 10. Dunque se le cose latine continebantur suis finibus, le cose greche legebantur anche extra suos fines, dunque anche da quelli che non parlavano naturalmente il greco, dunque s’elle legebantur in omnibus fere gentibus, quasi tutte le nazioni intendevano il greco benchè non fossero greche, dunque il mondo era δίγλωσσος, dunque la lingua greca era universale di quella universalità ch’oggi ha la francese. Nè per suis finibus si possono intendere i termini dell’impero latino, i quali certamente non erano angusti ai tempi di Cicerone, e lo dimostra anche quello che segue nel medesimo passo addotto. (31. Maggio. 1823.).

È cosa indubitata che i giovani, almeno nel presente stato degli uomini, dello spirito umano e delle nazioni, non solamente soffrono più che i vecchi (dico quanto all’animo), ma eziandio (contro quello che può parere, e che si è sempre detto e si crede comunemente), s’annoiano più che i vecchi, e sentono molto più di questi il peso della vita, e la fatica e la pena e la difficoltà di portarlo e di strascinarlo. E questa si è una conseguenza dei principii posti nella mia teoria del piacere. Perciocchè ne’ giovani è più vita o più vitalità che nei vecchi, cioè maggior sentimento dell’esistenza e di se stesso; e dove è più vita, quivi è maggior grado di amor proprio, o maggiore intensità e sentimento e stimolo e vivacità e forza del medesimo; e dove è maggior grado o efficacia di amor proprio, quivi è maggior desiderio e bisogno di felicità; e dove è maggior desiderio di felicità, quivi è maggiore appetito e smania ed avidità e fame e bisogno di piacere: e non trovandosi il piacere nelle cose umane è necessario che dove n’è maggior desiderio quivi sia maggiore infelicità, ossia maggior sentimento dell’infelicità; quivi maggior senso di privazione e di mancanza e di vuoto; quivi maggior noia, maggior fastidio della vita, maggior difficoltà e pena di sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza della medesima. Quindi tutte queste cose debbono essere in maggior grado ne’ giovani che ne’ vecchi; siccome sono; massime in questa presente mortificazione e monotonia della vita umana, che contrastano colla vitalità ed energia della giovanezza; in questa mancanza di distrazioni violente che stacchino il giovine da se medesimo, e lo tirino fuori del suo interno; in questa impossibilità di adoperare sufficientemente la forza vitale, di darle sfogo ed uscita dall’individuo, di versarla fuori, e liberarsene al possibile; in somma in questo ristagno della vita al cuore e alla mente e alle facoltà interne dell’uomo, e del giovane massimamente.

Il qual ristagno è micidiale alla felicità per le ragioni sopraddette. Ora esso è l’effetto proprio del moderno modo di vivere, e il carattere che lo distingue dall’antico, e quello che osservato da Chateaubriand, volendo fare un romanzo di carattere essenzialmente moderno, e ignoto e impossibile da farsi o da concepirsi agli antichi, gl’ispirò il René, che si aggira tutto in descrivere e determinare questo ristagno, e gli effetti suoi. Da ciò solo si conchiuda se la vita antica o la moderna è più conducente alla felicità, ovvero qual delle due sia meno conducente all’infelicità. E poichè lo Chateaubriand considera questo ristagno come effetto preciso e proprio del Cristianesimo, vegga egli qual conseguenza se ne debba tirare intorno a questa religione, per ciò che spetta al temporale. In verità si trova ad ogni passo che le sue più fine, profonde, nuove e vere osservazioni e i suoi argomenti intorno al Cristianesimo, e agli effetti di lui, ed alla moderna civiltà, ed al carattere e spirito dell’uomo Cristiano, o moderno e civile, provano dirittamente il contrario di quello ch’egli si propone. E può dirsi che ogni volta ch’egli reca in mezzo osservazioni nuove, travaglia per la sentenza contraria alla sua, accresce gli argomenti che la fortificano, e somministra nuove armi ai suoi propri avversari, credendosi di combatterli. (1. Giugno. Domenica. 1823.). V. p. 2752.

Opra sincope di opera si trova in Ennio (ap. Forcell. v. opera, fin.), come nei nostri poeti opra e oprare e adoprare ec. Tan alla spagnuola per tam nel cod. antichissimo di Cic. de Repub. l. 1. c. 9. p. 26. ed. Rom. 1822. dove vedi la nota del Mai. (3 Giugno. 1823.).

Per esempio d’uno dei tanti modi in cui gli alfabeti, ch’io dico esser derivati tutti o quasi tutti da un solo, si moltiplicarono e diversificarono dall’alfabeto originale, secondo le lingue a cui furono applicati, può servire il seguente. Nell’alfabeto fenicio, ebraico, samaritano ec. dal quale provenne l’alfabeto greco, non si trova il ψ, carattere inutile perchè rappresenta due lettere; inventato, secondo Plinio, da Simonide, proccurato vanamente dall’Imperatore Claudio d’introdurre nell’alfabeto latino, che parimente ne manca, sebbene derivi dall’origine stessa che il greco; e in luogo del quale si trovano negli antichi monumenti greci i due caratteri π σ. (Secondo i grammatici il ψ vale ancora βσ e φσ; ma essi lo deducono dalle inflessioni ec. come ἄραψ ἄραβος, ἄραβες ἄραψι ec. Non so nè credo che rechino alcun’antica inscrizione ec.) V. p. 3080. Ora ecco come dev’esser nato questo carattere che distingue l’alfabeto greco dal fenicio. Nella lingua greca, per proprietà sua, è frequentissimo questo suono di ps: ed ogni lingua ha di questi suoni che in lei sono più frequenti e cari che nelle altre. Gli scrivani adunque obbligati ad esprimerlo bene spesso, incominciarono per fretta ad intrecciare insieme quei due caratteri π σ ogni volta che occorreva loro di scriverli congiuntamente. Da quest’uso, nato dalla fretta, nacque una specie di nesso che rappresentava i due sopraddetti caratteri; e questo nesso che da principio dovette conservare parte della forma d’ambedue i caratteri che lo componevano, adottato generalmente per la comodità che portava seco, e per la brevità dello scrivere, appoco appoco venne in tanto uso che occorrendo di scrivere congiuntamente il π e il σ, non si adoperava più se non quel nesso, che finalmente per questo modo venne a fare un carattere proprio, e distinto dagli altri caratteri dell’alfabeto, destinato ad esprimere in qualunque caso quel tal suono: ma destinato a ciò non primitivamente, nè nella prima invenzione o adozione dell’alfabeto greco, e nella prima enumerazione de’ suoni elementari di quella lingua o della favella in genere; ma per comodità di quelli che già si servivano da gran tempo del detto alfabeto. Di modo che si può dire che questo carattere non sia figlio del suono ch’esso esprime, come lo sono quelli ch’esprimono i suoni elementari, ma figlio di due caratteri preesistenti nell’alfabeto greco, e quindi quasi nepote del suono che per lui è rappresentato. La grammatica e le regole dell’ortografia ec. non esistevano ancora. Venute poi queste, e prendendo prima di tutto ad esaminare e stabilire l’alfabeto nazionale, trovato questo nesso già padrone dell’uso comune, e sottentrato in luogo di carattere distinto e non doppio ma unico, lo considerarono come tale, gli diedero un posto proprio nell’alfabeto greco tra i caratteri elementari, e fissarono per regola che quel tal suono ps si esprimesse, come già da tutti si esprimeva, col ψ, e non altrimenti. Ed eccovi questo nesso, introdotto a principio dagli scrivani per fretta e per comodo, non riconoscendosi più la sua origine, o anco riconoscendosi, ci viene nelle grammatiche antiche e moderne come un carattere proprio dei greci, e come uno degli elementi del loro alfabeto. Lo stesso accadde allo ξ, che non è fenicio, introdotto come nesso per rappresentare due caratteri, cioè γσ, o κσ, o χσ: e ciò per essere questi suoni, frequentissimi nella lingua greca, siccome anche nella lingua latina, nel cui alfabeto pertanto ha pure avuto luogo questo medesimo nesso, considerato come carattere. In luogo del quale gli antichi greci scrivevano γσ, o κσ. Lo stesso dicasi del φ, carattere (originariamente nesso) che non si trova nell’alfabeto fenicio (perciocchè il *** o *** è veramente il π, latino P, giacchè l’ Ϝ è il digamma eolico), e che fu introdotto in vece del PH che si trova negli antichi monumenti greci, dove pur si trova il KH in vece del χ, carattere non fenicio. Questi due suoni composti, anzi doppi, ph e ch, frequentissimi nella lingua greca, non si udivano nella latina. Dunque l’alfabeto latino non ebbe questi due segni. I tre caratteri ξ, φ, χ s’attribuiscono presso Plinio (7. 56.) a Palamede, aggiunti da lui all’alfabeto Cadmeo o Fenicio. Lo stesso dite dell’ ω, che s’attribuisce presso il medesimo a Simonide ec.

Ne’ tempi più hassi, moltiplicandosi le scritture, o piuttosto la necessità di scrivere in fretta per la scarsezza degli scrivani e del guadagno, e di scrivere in poco spazio per la scarsezza della carta ec., e massimamente la negligenza e sformatezza e il cattivo gusto della scrittura, e quindi impicciolendosi e affrettandosi sommamente le forme dei caratteri, si moltiplicarono anche a dismisura i nessi, le abbreviature ec. d’ogni genere (delle quali gli antichi erano stati parchissimi, e alle quali anche poco si prestava la forma del loro carattere); di modo che non v’è quasi codice o greco o latino di quelle età che non offra nuove differenze di legature e abbreviature ec. Ma oltrechè la stessa moltitudine e varietà loro impediva che questi tali caratteri doppi o tripli o quadrupli ec. non fossero ricevuti nell’alfabeto; esisteva già la grammatica e le regole ortografiche, e gli alfabeti delle rispettive lingue erano da sì gran tempo, per sì lungo uso, e sì pienamente determinati, fissati e circoscritti, che non davano più luogo nemmeno ai nessi più costantemente e universalmente, e con più certa significazione adottati in quei tempi.

Se non che forse negli alfabeti delle lingue che si formarono dopo i detti tempi, e massimamente delle settentrionali, rimase alcun vestigio di quel barbaro uso de’ caratteri composti, il quale è probabilmente l’origine del W, del Ç ec.

Negli alfabeti Orientali, settentrionali antichi ec. (alcuni de’ quali abbondano perciò strabocchevolmente di caratteri, impropriamente chiamati lettere da’ nostri, come il sascrito, che n’ha più di 50.) si trovano moltissimi caratteri rappresentanti due, tre, quattro o anche più suoni elementari unitamente. I quali caratteri non si debbono creder sincroni all’invenzione o adozione di quegli alfabeti, ma nati dalla fretta e dal comodo degli scrivani come nessi, e ricevuti poi facilmente come caratteri semplici (benchè così numerosi) negli alfabeti di lingue le cui grammatiche e regole ortografiche o non esistono, o nacquero tardi, o non sono abbastanza fisse, ferme, certe, stabilite, invariabili, o abbastanza precise, minute, determinate, esatte, particolari, distinte, o abbastanza note e adottate universalmente nella rispettiva nazione, o tardi hanno conseguito queste qualità. E dico tardi, rispetto alla maggiore o minore antichità della scrittura e letteratura presso quelle nazioni; presso alcune delle quali esse sono molto più antiche che presso la greca, come la scrittura e letteratura sascrita presso gl’indiani.

Nondimeno questa prodigiosa moltiplicità di caratteri rappresentanti de’ suoni composti, nasce in alcuni dei detti alfabeti dal mancare in essi totalmente o in parte i segni rappresentanti i suoni semplici della favella. La qual mancanza, ch’è la maggiore imperfezione che possa essere in un alfabeto, cagiona necessariamente e immediatamente un’assoluta e indeterminata moltiplicità di segni nell’alfabeto medesimo. Ma questa mancanza ed imperfezione non è già una prova che quegli alfabeti abbiano un’origine diversa da quella degli alfabeti Europei. Essa mancanza ed imperfezione, e la moltiplicità di caratteri che ne deriva, e l’uso di segni rappresentanti de’ suoni composti, sono tutte qualità che dovettero necessariamente essere nell’alfabeto primitivo; perchè l’uomo non arriva al semplice e agli elementi se non per gradi, anzi queste sono le ultime cose a cui egli arriva, e nell’arrivarvi consiste appunto la maggior possibile perfezione delle sue idee in qualunque genere. Ora nessuna cosa umana è perfetta nel suo principio, e massime un’invenzione così difficile e astrusa come fu quella dell’alfabeto. Non fu poco, anzi fu maravigliosissimo il pensiero di applicare i segni della scrittura ai suoni delle parole, invece di applicarli alle cose e alle idee, come si fece nella scrittura primitiva e nella geroglifica, come facevano i messicani nelle loro pitture scrittorie, come fanno i selvaggi, e i chinesi. Dopo concepito questo mirabile pensiero, che fu l’origine dell’alfabeto, questo pensiero ch’io dico essere stato unico nel mondo, cioè concepito da un uomo solo (e in questo senso io sostengo che l’origine di tutti gli alfabeti sia stata una sola) molto ancora vi volle, e molto tempo dovette passare, e molti tentativi farsi, e molti alfabeti passare in uso presso varie nazioni, prima che l’uomo arrivasse a distinguere i suoni veramente semplici della favella, cioè quelli di cui si componevano tutti gli altri suoni che formavano le parole. Ma da principio, e poi successivamente a proporzione, finchè non si giunse al detto punto, moltissimi suoni composti dovettero parer semplicissimi e indecomponibili. Il numero di questi, e dei segni destinati a rappresentarli, e quindi dei caratteri dell’alfabeto, dovette andar sempre scemando a misura che l’uomo si avvicinava a scoprire i puri elementi dei suoni. Ma in questo intervallo gli alfabeti che si usavano, dovevano aver molti caratteri, perchè questi rappresentavano dei suoni composti. Non tutte le nazioni poterono profittare della scoperta che finalmente si fece dei suoni veramente semplici. Quelle nel cui uso erasi già confermato un alfabeto più o meno composto di segni rappresentanti de’ suoni più o manco moltiplici; quelle presso cui la scrittura era già comune; quelle massimamente che avevano già una letteratura, dovettero conservare il loro alfabeto, o tal qual era, o semplificato di poco, perchè l’uso vince ogni ragione. (Basti osservare che la China presso cui l’uso della scrittura s’era forse o introdotto o diffuso prima che fra le altre nazioni, non potè neppure o non volle ricevere l’uso dell’alfabeto assolutamente.) Così l’alfabeto fenicio, e gli alfabeti europei derivati da quello, si perfezionarono, mentre molti alfabeti orientali ec. rimasero nell’imperfezione, e questa si radicò e si mantenne in essi perpetuamente fino al dì d’oggi.

Vedesi dalle sopraddette cose, ch’io distinguo due epoche nelle quali l’uso de’ caratteri rappresentanti de’ suoni composti dovette introdurli ne’ vari alfabeti. L’una prima del perfezionamento dell’alfabeto, l’altra dopo la sua intera perfezione. Nell’una e nell’altra epoca (specialmente però nella prima) questi caratteri contribuirono grandemente a distinguere l’alfabeto di una nazione da quello di un’altra, benchè tutti gli alfabeti derivassero da un’origine sola. Anzi parlando delle diversità intrinseche ed essenziali de’ vari alfabeti (cioè di quelle che non consistono nella forma de’ caratteri ec.), questa è forse la loro cagione principale. (3-4. Giugno. 1823.). Si possono facilmente riconoscere i caratteri composti appartenenti alla seconda epoca da quelli della prima, considerando se essi si trovano o no nell’alfabeto da cui più o meno immediatamente deriva quello in questione. Non trovandosi, è segno ch’essi appartengono alla seconda epoca. Come, non trovandosi nell’alfabeto fenicio, da cui viene il greco, i caratteri composti o doppi ψ, φ, χ, ω, ξ, è segno che questi appartengono alla seconda epoca, nel modo che si è mostrato di sopra. Questo però non è sempre un segno certo, potendo una nazione anche in quella prima imperfezione dell’alfabeto, avere adottato dei caratteri composti che non si trovassero in quell’alfabeto da cui derivava il suo, ed avergli adottati per diverse ragioni, come per bisogni particolari della sua lingua, a cui non bastassero i caratteri che bastavano all’altra, o alcuni di questi soprabbondassero e non servissero, altri mancassero. La vera, intrinseca, ed essenziale differenza tra i caratteri composti della prima epoca e quelli della seconda, si è che quelli sono figli immediati de’ suoni, cioè trovati per rappresentare immediatamente i suoni, e questi sono figli d’altri caratteri, cioè trovati per rappresentare due o più caratteri già esistenti e noti, e così sono nipoti de’ suoni. (4. Giugno. 1823.).

Alla p. 2739. fine. In primavera non è dubbio che la vita nella natura è maggiore, o, se non altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa della diminuzione e torpore di esso sentimento cagionato dal freddo, e del contrasto tra il nuovo sentimento, o fra il ritorno di esso, e l’abitudine contratta nell’inverno. Questo accrescimento di vita (chiamiamolo così) è comune in quella stagione, come alle piante e agli animali, così agli uomini e massime agli individui giovani, sì delle predette specie, come dell’umana. Ora indubitatamente non è alcuno, se non altro de’ giovani, che in quella stagione non sia più malcontento del suo stato e di se, che negli altri tempi dell’anno (parlando astrattamente e generalmente, senza relazione alle circostanze particolari, o vogliamo dire, in parità di circostanze). Tanto è vero che il sentimento dell’infelicità si accresce o si scema in proporzione diretta del sentimento della vita, e che l’aumento di questo è inseparabile dall’aumento di quello. (4. Giugno 1823.). V. p. 2926. fine. Così una sventura particolare opera maggior effetto e più dolorosa impressione in un temperamento forte e vivo, e lo abbatte di più che non un temperamento debole, contro quello che parrebbe dovesse essere, e che il volgo crede e dice. E la causa di ciò, non è, come si suol dire, la maggior resistenza che un temperamento forte oppone alla sventura e al dolore, ma il maggior grado di vita, e quindi la maggiore intensità di amor proprio e il maggior desiderio di felicità, che nasce dal maggior vigore; nè qui ha che far la rassegnazione, o piuttosto essa non è altro che un sentir meno il dolore. Se il dolore faceva quasi una strage nell’uomo antico, siccome fa nel selvaggio; se gli antichi, come ora i selvaggi, erano portati dalla sventura fino alle smanie e al furore, a incrudelire contro il proprio corpo, al deliquio, al totale spossamento di forze, al deperimento della salute, all’infermità, alla morte o volontaria o naturale, ciò non proveniva, come si dice, dal non essere assuefatti al dolore. Qual è l’uomo vivo che non sia accostumato a soffrire? Ma proveniva dal maggior vigore di corpo ch’era negli antichi ed è ne’ selvaggi, a paragone de’ moderni e civili. E forse questa, più che la minore assuefazione, è la causa che i giovani siano più sensibili alle sventure e più suscettibili di dolore che i vecchi; o certo questa n’è in grandissima parte la causa. Massimamente osservando che questa differenza si trova anche fra giovani assuefattissimi alle calamità, ed informatissimi, per dottrina, di quanto convenga patire in questa vita, e vecchi assuefatti ad aver sempre avuto ogni cosa a lor modo, ignorantissimi, e persuasissimi che questa terra sia la più felice abitazione del mondo, e la vita il sommo bene degli uomini (4. Giugno 1823.).

Alla p. 2717. Dico che la lingua francese è più ricca dell’italiana quanto alle parole non sinonime. Intendo de’ nomi e de’ verbi. Nelle altre parti dell’orazione la ricchezza nostra è incomparabile non solo colla lingua francese, ma pur colla latina, e forse con ogni lingua viva. Questa ricchezza è utile, e reca alla nostra lingua un’immensa ed inesauribile fecondità di frasi e di forme, e allo scrittore italiano la facoltà di poterne sempre foggiar delle nuove, non solo conformi all’indole e proprietà della lingua, ma che non paiano neppur nuove (forse neanche allo stesso scrittore), perchè nascono come da se, dal fondo della lingua, chi ben lo conosce, e lo sa coltivare e scaturiscono dalla natura di essa. Da ciò deriva una incredibile varietà. Ma la sostanziale e necessaria ricchezza di una lingua non può consistere nelle particelle ec. bensì ne potrebbe nascere, se queste si applicassero alla composizione delle parole, come fa la lingua greca, la quale è ricchissima di nomi e di verbi (che sono la sostanza e la principal ricchezza di una favella) non per altra cagione principalmente, se non per la estrema abbondanza di preposizioni e particelle d’ogni sorta, e per l’uso larghissimo ch’ella ne fa nella composizione d’ogni maniera di vocaboli. (5. Giugno. ottava del Corpus Domini. 1823.).

Ritenere per ricordarsi o tenere a mente (v. la Crusca in ritenere par. 7.) onde ritenitiva e retentiva per memoria, viene dal latino. V. Forcellini in Retinere fine. Aggiungi Cassiodoro De artibus ac disciplinis liberalium litterarum. Cap. 5. cioè De Musica opp. Cassiod. ed. Venet. 1729. t. 2. p. 557. col. 2. (la detta opera s’intitola più comunemente de septem disciplinis). Apud Latinos autem magnificus vir Albinus librum de hac re ( de Musica ), compendiosa brevitate conscripsit; quem in bibliotheca Romae nos habuisse, atque studiose legisse retinemus . Vedi ancora il Forcell. in Retinentia. Il Glossario non ha niente in proposito. (6. Giugno. 1823.).

È proprietà della nostra lingua di contrarre i participii de’ verbi della prima congiugazione, togliendo dalla loro desinenza in ato, le due prime lettere, cioè at: i quali participii così contratti, e serbano il loro valore di participii, servendo pure alla congiugazione de’ loro verbi coll’ausiliare; e bene spesso passano a fare uffizio di aggettivi; e molti semplici aggettivi della nostra lingua non sono altro che participii così contratti o di verbi italiani originati dal latino o d’altronde, o di verbi pur latini ec. V. Bartoli Il Torto e ’l diritto del non si può. capo 137. e la pag. 3060-3. 3035-6. ec. Ora questo medesimo costume di contrarre in questo medesimo modo i participii in atus della prima, togliendo loro le due lettere at caratteristiche della desinenza, si vede essere stato anche fra’ latini, fra’ quali Virgilio ed altri fecero inopinus per inopinatus, e da necopinatus, necopinus, e così d’altri participii, o aggettivi così formati, di molti de’ quali forse non si riconosce ora più la prima origine e forma di participii in atus, mancando loro le caratteristiche at. Odorus per odoratus. E tanto maggiormente si dee credere che questa sorta di contrazione familiarissima a noi, fosse anche più familiare al volgo latino che agli scrittori, quanto che il popolo ama sempre le contrazioni e accorciamenti. (10. Giugno. 1823.).

Io udii un uomo di campagna, avvezzo per la sua professione a considerare i rovesci degli elementi come sciagure e calamità, raccontando gli effetti d’una inondazione da lui poco innanzi veduta, e raccontandoli come dannosissimi, e compiangendoli, soggiungere che nondimeno ella era stata una cosa bella e piacevole a vedere e udire, per l’impeto e il rombo, la grandezza e la potenza della piena. Tanto è vero che l’uomo è inclinato per natura alla vita, e che tutte le sensazioni forti e vive, quand’elle non recano dolore al corpo, e non sono accompagnate col danno o col presente pericolo di chi le prova, sono per la loro stessa forza e vivezza, piacevoli, ancorchè per tutte le altre loro qualità ed effetti siano dispiacevoli o terribili ancora. (10. Giugno 1823.).

Chi vuol manifestamente vedere la differenza de’ tempi d’Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla civilizzazione, e alle opinioni che s’avevano intorno alla virtù e all’eroismo, siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico; e chi vuol notare la totale diversità che passa tra il carattere e l’idea della virtù eroica che si formarono questi due poeti, e che l’uno espresse in Achille e l’altro in Enea, consideri quel luogo dell’Eneide (X. 521-36.) dov’Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo, risponde, che morto Pallante, non ha più luogo co’ Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la celata, gl’immerge la spada dietro al collo per insino all’elsa. Questa scena e questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso da Agamennone, che senza alcuna pietà uccide il troiano già vinto e supplichevole.

Ma chiunque bene osservi vedrà che siccome questa scena riesce naturalissima e conveniente in Omero, così riesce forzatissima e fuor di luogo in Virgilio, e ripugna all’idea che il lettore si era formato sì del carattere di Enea, sì della virtù eroica generalmente, dietro alle tracce di quel poema: anzi, dirò anche, ripugna all’idea che se n’era formata lo stesso Virgilio. E tutto quel luogo del suo decimo libro, dov’Enea fa lo spietato e il terribile, si riconosce a prima giunta per tirato d’altronde, (cioè dall’imitazione d’Omero, e dal carattere eroico-omerico) alieno dall’indole del poema e dell’eroe, alieno dal concetto medesimo di Virgilio: tanto che quella che si chiama inumanità, sembra in quel luogo come affettata da Enea, ed ascitizia, e quasi finta e par ch’egli ci sia inesperto e non la sappia esercitare; laddove negli eroi di Omero ella par vera e propria e che venga loro da natura.

La ragione si è che Omero e tutti quei del suo tempo concepivano l’inumanità verso i nemici come appartenente alla virtù eroica, come parte, come debito della medesima, e tanto è lungi che la tenessero per colpa o eccesso, che anzi la stimavano una dote e un attributo degno e proprio dell’eroe: ed intendevano di lodar quello a cui l’attribuivano; e l’attribuivano ed esageravano, volendo lodare, eziandio a chi non l’avesse o non l’avesse in quel tal grado; come fanno i panegiristi circa ogni sorta di virtù. Laddove Virgilio la concepiva, secondo le idee incivilite del suo tempo, come un vizio, e un biasimo; e concepiva come virtù e pregio la benignità ed umanità verso i nemici, il che sarebbe stato ridicolo o assurdo ai tempi d’Omero, come lo sarebbe ora presso i selvaggi, e questa umanità pose come parte essenziale e notabilissima della virtù eroica, ed espressela nel suo Enea, anzi gliel’attribuì come qualità caratteristica e principale della sua indole. E quei tratti d’inumanità non li tolse nè li ritrasse dalla forma dell’eroismo ch’egli avea nella sua mente, nè da quella del carattere di Enea ch’egli si era composta; ma dal poema che s’aveva e s’era sempre avuto per modello dei poemi eroici, e in cui si stimava universalmente, essere rappresentata la vera idea del carattere eroico. E ne li tolse quasi contro sua voglia; o più veramente non s’accorse che questa idea a’ suoi tempi, in questa parte, era mutata; e non era, in questo, l’idea sua nè quella de’ suoi contemporanei; e ch’essa era, in ciò, ben diversa dal concetto ch’egli s’era formato e ch’aveva espresso, del suo Enea. Laonde non vide che quei tratti, benchè propri della virtù eroica appresso Omero, ed appartenenti al carattere di quegli eroi, non avevano che fare col suo poema. Ma esso gli appropriò ad Enea pensandosi d’aver espresso fino allora, e di esprimere nel suo poema un eroe come quelli di Omero, e un carattere eroico come l’eroismo espresso da Omero; nel che s’ingannava; e pensandosi che l’eroismo per li suoi tempi fosse quella cosa medesima ch’era stato per li tempi d’Omero, nel che pur s’ingannava. Siccome anche s’ingannava pensandosi d’aver fatto un eroe che fosse potuto essere a quei tempi ne’ quali egli lo supponeva; o ch’essendo, fosse potuto essere stimato eroe da’ suoi contemporanei. Perchè infatti Virgilio nel formare il carattere di Enea, non salvò la verisimiglianza, rispetto ai tempi in cui fu questo eroe, e peccò di anacronismo in questo carattere molto peggio che nell’episodio di Didone; siccome peccò di gravissimo anacronismo lo Chateaubriand nei Martiri, supponendo le opinioni religiose, la religiosità e le superstizioni de’ tempi di Omero, ne’ tempi di Luciano.

L’inumanità verso i nemici non era biasimo ai tempi di Omero, perchè i nemici non erano considerati come uomini, o come parte di quel corpo a cui apparteneva il loro avversario. Gli antichi (e i selvaggi altresì) erano ben lontani dal considerare tutto il genere umano come una famiglia, e molto più dal considerare i nemici come loro simili e fratelli. Simili e fratelli non erano per gli antichi, e non sono per li selvaggi, se non gl’individui della loro stessa società; o nazione o cittadinanza o esercito che la vogliamo chiamare e considerare. Di questo ho detto altrove. Quindi essere inumano verso i nemici, tanto era per gli antichi, quanto essere inumano verso i lupi o altri animali che non sono del genere umano, anzi gli nocciono. Siccome appunto i nemici nocevano o cercavano di nuocere a quella società, dentro i limiti della quale si conteneva tutta quella famiglia umana a cui gli antichi si stimavano appartenere. E come a chi prendesse a difendere o a vendicare la sua società contro gli animali nocivi, sarebbe lode il non perdonar loro in alcuna maniera, ma sterminarli tutti a poter suo; così agli antichi era lode l’inumanità verso i nemici, che non si reputavano aver diritto all’umanità, non istimandosi aver nulla di umano, cioè nulla di comune con quegli uomini che li combattevano; e l’eccesso o il sommo grado di questa inumanità si giudicava proprissima dell’eroe. Massimamente che tutte le passioni o azioni forti erano fra gli antichi stimate molto più degne, o certo più eroiche che le deboli; e quindi la spietatezza verso chi non aveva alcun titolo alla clemenza, quali si stimavano i nemici, era creduta molto più eroica che la compassione, affetto dolce, molle, e stimato femminile; la vendetta molto più eroica che il perdono, siccome il risentimento era giudicato ben più degno dell’uomo che la pazienza delle ingiurie, la quale non andava mai disgiunta dalla riputazione e dal biasimo di viltà o dapocaggine.

Quando Omero, introduce Priamo ai piedi d’Achille, quando ci commuove fino all’anima coll’amaro spettacolo di tanta grandezza ridotta a tanta miseria, quando par che impieghi ogni artifizio, che accumuli ogni circostanza, propria a destarci la compassione più viva, e nel tempo stesso ci rappresenta Achille, il protagonista del suo poema, il modello della virtù eroica da lui concepita, così difficile, così tardo a lasciarsi piegare, piangente sopra il capo di Priamo, non già le sventure di Priamo, ma le sue proprie e il suo vecchio padre, e il suo Patroclo, della cui morte esso Priamo era venuto a chiedergli in certo modo il perdono, quando finalmente non lo fa risolvere di concedere al supplichevole e infelicissimo re la sua misera domanda, se non in vista dell’ordine espresso già ricevutone da Giove per mezzo di Teti, senza il quale egli dimostra e fa intendere assai chiaramente che nè le preghiere nè il pianto nè il dolore nè tutto il misero apparato di quel re domo e prostratogli dinanzi, l’avrebbero vinto; a noi pare che questo Achille sia quasi un mostro, e che anche una virtù secondaria anzi minima, non che primaria, (come si rappresenta la sua in quel poema) anche molto più gravemente offesa, anche già meno acerbamente vendicata, anche con minori cagioni d’intenerirsi, avesse dovuto e commuoversi ben tosto, e sommamente, e concedere già molto prima di quel ch’ella fa, la domanda del supplichevole, e concedere anche assai di più, potendo farlo, e farlo di volontà sua. Ma Omero stimò di doverci rappresentare in quel punto Achille come egli rappresentollo. E non si creda ch’egli nel far questo abbia solamente in mira di conservare la simiglianza del carattere feroce di Achille, da lui fino allora espresso, e di non farne un personaggio diverso da quel che l’aveva fatto essere. Omero attende a salvare il suo eroe dal biasimo della compassione, cioè della mollezza, e della facilità di lasciarsi commuovere, e della tenerezza di cuore; come noi attenderemmo (e come infatti i più moderni epici ec. attesero ec.) a salvarlo dal biasimo della durezza della insensibilità, della crudeltà verso il nemico, e a proccurargli appunto la lode della compassione verso il nemico, come cosa magnanima ec. Omero non ha solamente riguardo all’Achille tal quale egli l’ha fatto, ma alla virtù eroica tal quale allora si concepiva; egli introduce quell’episodio compassionevole in grazia del sommo interesse e del gran contrasto di affetti a cui dà luogo, ma guarda che Achille non offenda in alcuna parte le leggi dell’eroismo; non si mostri leggero, flessibile, dappoco perdonando; non sia ripreso d’essere stato umano co’ nemici della sua nazione e suoi.

Tali erano i tempi di Omero, e molto più quelli ch’egli dipinge: e tali bisogna considerarli volendo ben conoscere ed estimare la somma arte imitativa di quel grande spirito, anche nelle situazioni più difficili. Siccome appunto era questa, assai più difficile per lui, stante le predette considerazioni, che non sarebbe per noi. Nella quale quanto più a noi può parere ch’egli abbia peccato, quanto più egli si allontana dalla nostra opinione, e delude ed étonne la nostra aspettativa, tanto la sua arte è maggiore, la sua imitazione più vera, la sua osservazione e conservazione de’ caratteri, de’ tempi, de’ personaggi più costante, e più mirabile la sua riuscita, e la felicità con cui egli si trae fuori delle difficoltà somme di questo passo. E tanto eziandio erano e si denno valutar maggiori esse difficoltà. (11. Giugno. 1823.).

Noi diciamo fumo per superbia, fasto, vanità, onori vani o l’orgoglio che ne nasce, e il vanto ch’altri ne fa: insomma applichiamo in molti modi e casi quella parola a significare la superbia e le cose che a questa appartengono. Vedi Caro lett. 20. vol. 1. principio. Nè più nè meno fanno i greci della voce τύφος, (il cui proprio significato si è fumo), e de’ suoi derivati e composti. Siccome anche noi similmente di fumoso, e fumosità. (12. Giugno 1823.).

Matto non verrebb’egli da μάτην, μάταιος, e mattia cioè mattezza da ματία? (12. Giugno 1823.).

Come la lingua latina abbia conservato l’antichità più della greca, si dimostra ancora con queste considerazioni. 1. La lingua latina conserva nell’uso comune de’ suoi buoni tempi e de’ seguenti (non solo degli anteriori) i temi, o altre voci regolari di verbi che tra’ greci, avendo le stesse radici che in latino, ma essendo però difettivi o anomali, non conservano i loro primi temi o quelle tali voci regolari, o non le usano se non di rarissimo, o talmente ch’essi temi ed esse voci non si trovano se non presso gli antichissimi autori, o presso i poeti soli, i quali in ciascuna lingua che ha favella poetica distinta, conservano sempre gran parte d’antichità per le ragioni che ho detto altrove. Dovechè la lingua latina usa essi temi ed esse voci universalmente sì nella prosa come nel verso, ed usale ne’ secoli in ch’ella era già formata e piena, ed usale eziandio non come rare, nè come quasi licenze o arcaismi, ma tutto dì e regolarmente e come temi e voci proprie e debite di quei verbi a’ quali appartengono. Per esempio il verbo do, si è il tema di δίδωμι (e nota che questo verbo in greco non è neppure anomalo nè difettivo, ma l’uso l’ha cangiato interamente dal suo primo stato, a differenza del verbo latino do.). Il qual tema conservasi nel latino in tutti i composti d’esso verbo, come credo, edo, trado, addo, subdo, prodo, vendo, perdo, indo, condo, reddo, dedo, ec. (ne’ quali per istraordinaria anomalia è mutata la coniugazione di do dalla prima nella terza: non così in circumdo as, venundo as, pessundo as ec.) Ma in nessun composto del verbo δίδωμι comparisce nel greco il suo vero tema. Ἔδω voce e tema di verbo anomalo o difettivo, non si troverà credo, in greco se non presso i poeti, ma tra’ latini edo e il suo composto comedo sono voci e verbi di tutti i secoli e di tutte le scritture. Eo ἔω tema da cui nascono in greco tanti verbi, non si trova nè fra’ poeti greci nè fra’ prosatori ma egli è comune e proprio ai latini, e ne nasce un verbo usitatissimo, co’ suoi composti, che tutti conservano il tema intatto e conservano altresì tutta la sua coniugazione perfettamente, redeo, abeo, exeo, ineo, subeo, coeo, adeo, circumeo, pereo, intereo, obeo, prodeo, introeo, veneo, praetereo, transeo, ec. Nessun composto greco conserva il tema ἔω. Lateo è il medesimo che λήθω, voce, e tempo ben raro negli scrittori greci, e verbo difettivo in greco, ma tema comune e usitatissimo, e verbo quasi perfetto e regolare in latino. Il tema λήθω trovasi espressamente in Senofon. Simpos. c. 4. par. 48. I Dori e gli Eoli dicevano probabilmente λάθω. Patior che sta in luogo dell’attivo patio (il quale pur si trova nell’antica latinità) è più vicino al πήθω, (Dor. ed Eol. πάθω) inusitato in greco, che non è l’usitato πάσχω. Composti, per-petior ec. Il verbo fero, s’io non m’inganno, ha più voci in latino che in greco. Del tema sto equivalente all’inusitato στάω, altrove.

Il tema στάω non si trova, ch’io sappia in greco. Il verbo si trova, cioè ἔστην ἕστηκα στήσας, στάς ec. ma è difettivo. Il verbo sto è intero.

Viceversa saranno ben pochi quei verbi anomali o difettivi latini il cui proprio puro e vero tema, disusato in latino, o le cui voci che in latino sieno o perdute o irregolari, si conservino, e regolari, nell’uso greco universale d’ogni buon secolo e d’ogni genere di scrittura. Tale per esempio sarebbe il verbo μνάω, tema di memini (il qual memini è fatto per duplicazione della m, come in greco μέμνημαι e come molti preteriti latini, cecini, cecidi, dedi, steti, fefelli, poposci, pepuli, tetuli antico, da tulo o tollo, tetigi, pepigi, peperci, cecidi, spopondi, dedidi, tetendi, peperi, totondi, pependi, didici v. Gell. 7. 9) ec. Di questo verbo μνάω si conservano alcune voci nel greco, ma piuttosto presso i poeti che altrove: e dubito che in alcun luogo si trovi esso tema μνάω Puoi vedere la p. 3691.

E qui osservo che la lingua latina conserva ordinariamente i suoi temi più semplici e puri cioè composti di minor numero di lettere, che non fa la lingua greca. Il che si può vedere e per gli esempi sopraddotti, e per alcuni che s’addurranno, e per moltissimi che si potrebbero addurre. Per esempio da δῶ o δόω, i greci, per la solita duplicazione o anadiplasiasmo, oltre l’inflessione in μι, fecero δίδωμι; come da περάω πιπράσκω, da φάω o φάσκω πιφάσκω o πιφαύσκω, da τρόω τιτρώσκω, da τράω τιτράω o τιτραίνω o τίτρημι, da θέω τίθημι, da πλήθω πίμπλημι o πιμπλάω o πιμπλάνω o πίπλημι, da τείνω e da τίω o da τίνω τιταίνω, da βάω, βῆμι, βαίνω βιβάω o βίβημι, o βιβάσθω, da χράω κιχράω o κίχρημι, da ὄνημι ὀνίνημι, da καλέω κικλήσκω, da πρήθω ec. πίμπρημι, ec. da μνάω μιμνήσκω, da δράω διδράσκω, e mille altri. I latini conservarono il puro do. Così da λήθω λανθάνω. I latini lateo. Così da λήβω λαμβάνω, da λήχω λαγχάνω, da τεύχω τυγχάνω, da μήθω μανθάνω, da δάρθω δαρθάνω, da βάω βαίνω, da πετάω πεταννύω o πετάννυμι, da χάζω χανδάνω, da φάω φαίνω o φαείνω e simili, da ἵζω ἱζάνω, da ἐρύκω ἐρυκάνω ec., da δύω δύνω, da διώκω ἀμύνω, διωκάθω ἀμυνάθω, da κιχέω κιχάνω, da εἴκω εἰκάθω, da ἴσχω ἰσχάνω e ἰσχανάω, da βλάστω βλαστάνω, ἁμαρτάνω, ἐρυγγάνω, οἰδάνω. Cento forme e figure avevano i greci (o provenienti dalla varietà e proprietà de’ dialetti, o d’altronde) sì di alterare, come di accrescere gli elementi de’ loro temi. Non così i latini. Quindi i loro temi o sono monosillabi, o più facili da ridursi alla radice monosillaha. V. p. 2811.

2. Molte radici (o primitive o secondarie) di vocaboli greci che non si trovano nel greco, o non sono in uso, quantunque lo fossero già, si conservano nel latino, e sono usitate. Può servir d’esempio la voce do, radice del verbo δίδωμι, il quale non è nè anomalo nè difettivo come ho detto di sopra. Ma δίδωμι è veramente lo stesso do (non un suo derivato) alterato cioè duplicato ed inflesso alla maniera greca. Ἁρπάζω si è un vero derivato di ἅρπω, il quale però non si trova ne’ greci, o è rarissimo e solamente poetico. Ben si trova il suo participio fem. sostantivato ἅρπυιαι, che nella 2.da iscrizione triopea, è adoperato in forma aggettiva. I latini hanno rapio, che per metatesi è appunto il tema ἅρπω. Nello Scapula trovo senza esempio ἁρπῶ ed ἁρπῶμαι. Questo sarebbe contrazione di ἁρπάω (v. Schrevel. in ἁρπάω), del quale ἁρπάζω non sarebbe un derivato ma quasi un’inflessione, come da πειράω, πειράζω. Ma di ἁρπάω non può venire ἅρπυιαι, bensì ἁρπηκυῖαι o ἡρπηκυῖαι. V. p. 2786.

3. Com’è detto qui sopra, p. 2774-5. la lingua latina è solita di conservar le parole molto più semplici quanto agli elementi, che non fa la lingua greca. E ciò si deve intendere non solo de’ temi de’ verbi o delle radici di qualunque vocabolo, ma d’ogni altra qualsivoglia voce. Per ὀδοὺς ὀδόντος i latini hanno dens-tis. Ὀλολύζω dev’essere un’alterazione di ὀλολύω come τροχάζω di τροχάω, πειράζω, di πειράω, di δοκάζω di δοκάω, σκεπάζω di σκεπάω, διστάζω di διστάω da δίς e στάω, v. p. 2825.3169. ἀνύττω o ἀνύτω di ἀνύω ec. Infatti ὀλολύω è molto più imitativo e conveniente che ὀλολύζω dove il ζ, quanto all’imitare, ci sta a pigione. Or questo verbo in origine è formato e nato evidentemente dall’imitazione del suo soggetto, come ululo. E non è maraviglia, perciocchè egli è vocabolo significativo d’un suono. V. p. 2811. e lo Scap. in ἀλαλάζω. I latini hanno ululo, che certo è originalmente tutt’uno con ὀλολύζω, ed è tanto più semplice negli elementi. Γιγνώσκω, verbo difettivo o anomalo, è fatto per anadiplasiasmo da γνώσκω, il quale non è già il suo tema, ma sibbene γνόω, onde γνώσκω come da τρόω τιτρώσκω, da βρόω βρώσκω, da βόω βώσκω, da βάω inusitato βάσκω poetico da περάω περαάσκω poetico da βιόομαι βιώσκομαι, da γηράω inusitato γηράσκω, da ὄνημι ὀνίσκω, da φάω φασκω, da περάω (contratto πράω) πιπράσκω. I latini hanno nosco senza l’anadiplasiasmo e senza il g. E qui pure si noti nel latino la conservazione dell’antichità. I greci medesimi dicono comunemente anche γινώσκω. Ma il puro tema di questo verbo, ch’è νοΐσκω e per sineresi νώσκω fatto da νόω (come i sopraddetti βρόω ec.), da cui gli Eoli γνόω (v. Lexic.), non si trova in tutta la grecità, e trovasi nel latino. Nel quale il verbo nosco è così regolare come i suoi uniformi, cresco, suesco, nascor, scisco e simili e in parte adolesco, exolesco, inolesco ec. pasco ec. V. la pag. 3688. sqq. E comparisce nel latino il g eolico ne’ composti di nosco, agnosco, cognosco, ignosco, dignosco (trovasi anche dinosco), prognosticum (sebben questa è voce tolta dal greco a dirittura, ai tempi di Cic. o circa). Negli altri composti praenosco, internosco, il g non comparisce. V. p. 3695.

4. Molti attivi di verbi che in greco non conservano se non il medio ἅλλομαι —salio (in senso attivo, o passivo, o in ambedue), o il passivo, (in senso passivo o attivo ec.) l’uno e l’altro, o parte dell’uno, parte dell’altro, (com’è ordinarissimo), segni certissimi di un verbo greco attivo perduto (come lo sono i deponenti in latino), o che in greco sono appena conosciuti, o solamente poetici, o antiquati o insoliti, sono comuni ed usitati universalmente in latino, o se non altro si conservano. Di ciò si potrebbero addurre non pochi esempi. Bastimi il verbo gigno, attivo di γίγνομαι che significa gignor e che in greco manca non solo di voce ma eziandio di significazione attiva. E notate che il verbo latino gigno nel perfetto e ne’ tempi che dal perfetto si formano e nel supino, muta la i radicale in e, e perde il secondo g come appunto accade nel greco γίγνομαι nelle sue inflessioni. Serva per altro esempio il verbo volo, il quale io dico esser la voce attiva di βούλομαι, cioè βούλω, mutato il b in v, come in tanti altri casi (p. e. da βάδω vado), vedi p. 4014. e fatto dell’ου, ω, alla Dorica, cioè βώλω, come di βοῦς i dori βῶς, i latini bos, di ὕπνος gli Eoli ὥπνος (come ὠψηλὸς da ὑψηλὸς), i latini somnus, di νὺξ νὼξ, nox: v. p. 3816. oltre le solite mutazioni volgari di vulgus vulpes ec. in volgus volpes. (12-13. Giugno 1823.). Βούλω si trovò certamente nell’antica lingua greca, come mostra il suo medio βούλομαι. E forse sì βούλω che θέλω ed ἐθέλω furono fatti per πρόσθεσιν dal tema monosillabo λῶ volo, onde λωΐων, λώϊστος ec. V. Lexic. E così θέλω volo viene forse dalla stessa radice del suo sinonimo βούλομαι, di cui però v. Ammon. de Different. vocabulor. (Ἀβουλέω nolo è di Plat. e di Demost. nelle epist.) Di tal πρόσθεσις se n’ha appunto un esempio in θέλω-ἐθέλω. V. p. 3842.

Alle osservazioni da me fatte circa il verbo expectare nel principio della mia teoria de’ continuativi, aggiungi che anche in greco δοκάζειν vale osservare o stare a vedere guardare, e nel medesimo tempo aspettare, onde προσδοκᾶν (13. Giugno 1823.).

Che il proprio tema de’ verbi ἱστάω, ἵστημι, ἵσταμαι fosse στάω, come forse ho detto nella mia teoria de’ continuativi parlando di sisto, e che l’iota sia una giunta fatta al tema per proprietà di lingua, si conosce sì dalle molte voci di questi verbi che mancano di quell’i paragogico, e da tutti i loro derivati che parimente ne mancano, sì dal verbo ἵπταμαι il quale colla medesima paragoge (ch’esso perde in molte voci) è fatto dall’inusitato πτάω (v. la Gramm. di Pad. p. 210.) o πετάω, onde πετάομαι, πέταμαι, πέτομαι che vagliono altresì volare, e che in origine non debbon esser altro che il verbo πετάω pando explico che ancora esiste, trasportato alla significazione del volare per lo spiegar delle ali ec. e vedi la pag. 2826.

Del resto niente impedirebbe che sto e στάω non avessero niente di comune nella loro origine, o ch’essi fossero nati da una stessa lingua madre, ma indipendentemente l’uno dall’altro, giacchè l’uno significa stare ed anche essere (vedi Forcellini ), e l’altro stabilire, il cui passivo o medio ἵσταμαι, passivando il significato di stabilire, viene a prendere la significazione neutra di stare (quasi essere stabilito).

Ma supponendo che sto e στάω sieno in origine uno stesso verbo, niente pure impedisce che il greco sia derivato dal verbo latino, e che tuttavia il latino sisto, ben diverso da sto e per coniugazione e per significato e per tutto, sia nato dal greco ἱστάω, ἱστῶ.

Chi può saper le varie vicende dei commerci antichissimi fra le lingue latina e greca, dopo che l’una e l’altra nacquero dalla stessa madre; quando la storia delle due nazioni comincia per noi così tardi, e massime la storia veridica, e certa; e la storia non alterata dalle favole ambiziose di cui è tutta piena l’antica istoria greca? Chi può con certezza negare che in quel lunghissimo tratto di tempi oscurissimi non vi fossero delle epoche nelle quali la lingua greca si arricchisse delle spoglie della sorella, ed altre, o successivamente o anche allo stesso tempo, in cui la lingua latina si arricchisse, come certo fece, delle spoglie della greca, ed anche ricevesse sotto nuova forma alcune di quelle medesime voci ch’erano nate da lei e da lei passate nella lingua greca, o alcuni derivati di quelle? Come sarebbe nella nostra supposizione; cioè che sto, nato nella lingua latina dal participio di sum, passato in Grecia sotto forma di στάω, ridotto quivi per paragoge alla forma di ἱστάω, e per contrazione a quella d’ἱστῶ e mutata significazione per affinità, ritornasse nel latino colla forma di sisto, il qual verbo verrebbe così ad essere originalmente il medesimo che sto.

Osservando la cosa ne’ tempi moderni, non sappiamo noi che la lingua francese è venuta d’Italia? e che dal medesimo fonte nacque una lingua sorella della francese, cioè l’italiana? E non vediamo noi quante parole nate o allevate nel nostro paese, cioè nella lingua latina; di qua passate in Francia; quivi alterate o di forma o di senso o d’ambedue; sono ritornate in Italia come forestiere ed altrui, e ricevute in questa lingua sorella della francese, e ciò fino dal cento o dal dugento o dal trecento, e tuttogiorno nella metà dell’ultimo secolo e in questo? E chi dicesse per questa ragione che la lingua francese è madre e non sorella dell’italiana, o chi negasse che la lingua francese sia provenuta d’Italia, s’apporrebb’egli al vero?

Credo eziandio che non poche voci venute dalla stessa lingua italiana (non dall’antica latina), e passate in Francia; di là ci sieno tornate, e ci tornino tuttavia bene spesso come forestiere: o che quelle nostre sieno dimenticate, o che queste sieno alterate in modo che non si riconoscano essere originalmente tutt’une colle nostre ancora esistenti, e già preesistenti alle sopraddette francesi. (Quanto a molte voci e forme italiane passate anticamente fra’ provenzali, ed ora credute provenzali di origine, o perchè si trovano nei loro scrittori, e non più presso noi; o perchè, alquanto mutate dalla prima figura e significazione, le ritolsero dai provenzali i nostri primi poeti o que’ del 300, e i commerci di que’ tempi, vedi Perticari Apologia capo 11. 12. p. 108-17. e capo 19. fine p. 176-7.). Così dico di molte voci spagnuole ricevute nella nostra lingua durante il 500 e il 600, ne’ quali secoli la letteratura spagnuola nata dall’italiana, modellavasi pur tutta sull’italiana, e quindi certo la loro lingua doveva abbondare, e abbondava, di parole e maniere provenutele dall’italiano.

Ma lasciando questo, potremo anche dire che il sistema de’ continuativi fosse proprio della lingua onde nacquero la latina e la greca; che di lei fossero il verbo sum (il quale certo si trova tutto nella sascrita) e il verbo sto che ne deriva; che da lei li pigliassero le dette due lingue; e che poi dalla greca venisse nella latina, coll’andar del tempo e de’ commerci, il verbo sisto. Così discorrete de’ verbi apo ed apto, ἅπτω ed ἅπτομαι, de’ quali nella mia teoria de’ continuativi.

In questa supposizione la lingua latina resterebbe pur molto superiore alla greca, rispetto alla conservazione dell’antichità. 1. Ella avrebbe conservato il sistema de’ continuativi, e la greca no. Di più ella n’avrebbe conservato il modo cioè la formazione da’ participii passivi, il che alla lingua greca è impossibile. 2. Il suo verbo sum sarebbe più conforme a quello della lingua madre. E ciò si proverebbe, primo perch’esso, come ho detto, si trova molto più simile a quello della lingua sascrita antichissima, che non il greco εἰμί: secondo, perchè esso si presterebbe ottimamente per la sua forma grammaticale, come altrove ho mostrato, alla formazione del verbo sto, il quale nella nostra supposizione sarebbe venuto dalla lingua madre, e in essa, come in latino, sarebbe stato un continuativo formato da sum: e perchè esso sum si presterebbe a questa formazione secondo la regola ordinaria de’ continuativi latini, la qual regola nella nostra supposizione sarebbe provenuta dalla lingua madre.

Laddove nella lingua greca il verbo στάω per ragione grammaticale, e per origine considerata dentro i termini d’essa lingua, non ha che far niente con εἰμί, ed è un tema intieramente distinto. Il tema στάω non si trova nel greco, ma ἵστημι, ἱστάνω, ἑστήκω, e tali alterazioni. Ma in latino il tema sto si trova, non pur semplice, anche ne’ composti adsto ec. ec. chiaro e puro. E il verbo sto si può dir quasi regolare, se non fosse il duplicamento nel perfetto steti, usitato però in molti altri verbi ancora, come in do monosillabo, di coniugazione affatto simile a sto ec. 3. Perchè il medesimo sto e per forma e per significato si riconoscerebbe in latino per derivato espressamente da sum, come abbiamo supposto ch’ei fosse nella lingua madre: laddove in greco nè per forma nè per significato avrebbe che far nulla con εἰμί. In somma tutta la ragione grammaticale e dei continuativi in generale, e in particolare del verbo sto considerato come continuativo e derivativo di sum, la qual ragione abbiamo supposto che fosse nella lingua madre, sussisterebbe piena e perfetta nella lingua latina; laddove nella greca sarebbe intieramente perduta. Così discorrete della ragione grammaticale, e della origine e derivazione di apto o ἅπτω, le quali si troverebbero intere nella lingua latina, e per nulla nel greco; oltre al tema apo conservato nel latino e perduto nel greco. (13-14. Giugno 1823.).

Alla p. 2776. La voce ἁρπυῖαι properispómena può benissimo essere un antico participio di un verbo ἅρπω (v. la p. 2826. marg.) come εἰκυῖα di εἴκω, εἰδυῖα di εἴδω per sincope di εἰδηκυῖα, da εἷδα sincope di εἴδηκα [a]

Altri vogliono, ed è verisimile, che εἰδὼς, ἑστὼς, βεβὼς ec. sieno part. preter. perf. medii. V. p. 2975. e lo Scap. in Μέλει.

[Chiudi]. Non così di ἁρπάω al quale non può in nessun modo appartenere. Che se i grammatici fanno questa voce ἁρπυῖαι proparossìtona, scrivendo ἅρπυιαι, 1. non tutti così fanno, e vedi Schrevel. e Forcell. in Harpyiae: 2. può ben essere che questa voce sia proparossìtona ne’ due luoghi dell’Odissea, e in quello della Teogonia (v. 267.) ne’ quali è usurpata per antonomasia, come vuole il Visconti che sia nell’Odissea, o per nome appellativo, come è nella Teogonia: perciocchè perduta la sua forma e significazione di participio, e ridotta a sostantivo, e mutato uso, condizione e significato, non è maraviglia ch’esso muti l’accentazione come accade in altre mille parole. Ma tale ancora, ella si riconosce per un participio femminino, il quale non può venire se non da ἅρπω parossìtono, e non da ἁρπῶ, nè da ἁρπάω nè da ἁρπάζω, e il cui mascolino sarebbe ἁρπὼς. E nel luogo delle iscrizioni triopee, dov’ella è aggettivo, io son d’opinione che vada scritta properispómena. Non so come la scriva il Visconti: la lapide non ha accenti. 3. Ognun sa che in queste materie degli accenti, come in tante altre, non è da prestar gran fede ai grammatici che abbiamo, benchè greci, e ch’essi sono stati corretti cento volte dagli eruditi moderni colla più accurata osservazione dell’antichità; delle origini, delle derivazioni, delle analogie, della ragion grammaticale della lingua greca. E se ciò accade anche nelle cose che appartengono alla lingua di Tucidide o di Platone, quanto minor forza avrà un’obbiezione fondata sull’autorità di sempre recenti e semibarbari e poco dotti grammatici in materie così antiche, come è questa; nella quale poi in particolare, i grammatici, secondo il Visconti, errarono nella stessa significazione della parola, pigliando per démoni alati, per tempeste, procelle, venti ec. (vedi lo Scapula e il Tusano) quelle che, secondo il Visconti, non erano altro che le Parche.

Del resto, quando ben si volesse che ἁρπυῖαι fosse participio di ἁρπάω (il che io non credo) fatto per sincope d’ ἁρπηκυῖαι, (come anche ἑστὼς da ἑστηκὼς o ἑστακὼς o ἑσταὼς o ἑστεὼς, βεβὼς da βεβηκὼς o da βεβαὼς, βεβρὼς da βεβρωκὼς o da βεβροὼς) e che il latino rapio non fosse un disusato ἅρπω (supposto dal Visconti) ma questo ἁρπάω (del quale trovo nel Tusano: Ἁρπάω, pro ἁρπάζω, usurpatur, Etym.) resterebbe sempre fermo e che ἁρπυῖαι o ἅρπυιαι fosse in origine un participio ec. e che la lingua latina conservi qui l’antichità più della greca, nella quale quest’ ἁρπάω, che sarebbe, certo più antico di ἁρπάζω, sarà pur sempre o inusitato o rarissimo, e forse noto per lo solo Etimologico. (14. Giugno 1823.). Nota che il Visconti, se ben mi ricordo, non cita se non due luoghi dell’Odissea, e questi sono, s’io non m’inganno, α, 241. ξ, 371. In due altri luoghi Omero usa quella voce, l’uno Odiss. υ, 77. dov’ella sta parimente per le Parche, l’altro Iliade, π, 150. dov’ella è puro aggettivo d’una cavalla, e viene a dir veloce, benchè gl’interpreti la rendono per Harpyia sostantivo o appellativo, come negli altri luoghi d’Omero. Raptim dicono i latini per cito ec. Così ἅρπυια o ἁρπυῖα per veloce. V. ne’ Lessici ἁρπακτικῶς, ἁρπάγδην, ἁρπαλέως, καρπάλιμος, καρπαλίμως, ἀναρπάζω, ἀνάρπαστος, ed ἁρπάζω per ὀξέως νοῶ, cito intelligo et mente percipio, quasi mente corripio, usato da Sofocle. V. anche i lessici latini in rapio e suoi derivati e composti. Noi diciamo ratto (cioè raptus) aggettivo e avverbio per veloce, presto ec. Così rattezza, rattamente ec. E i latini rapidus, rapido, francese rapide ec. V. lo spagnuolo in questa radice, o in altra metafora di velocità, tolta dal rapire in qualunque sia voce o modo. (14. Giugno. 1823.). V. la Crus. in Rapina par. 1. Rapinosamente, Rapinoso, e questi pensieri p. 4165. fin.

Il nome di Arpalice (della quale vedi Forcell. in Harpalyce) non credo che sia nato, nè si debba cercare altronde che dalla velocità ec. Io poi son d’opinione che nel citato luogo della Teogonia, 265-9, la voce ἁρπυίας non sia punto un appellativo, come hanno creduto i grammatici, gl’interpreti e i Lessicografi, ma un puro aggettivo significante ratte, veloci, il che mi persuadono sì il confronto del citato luogo dell’Iliade, sì le addotte osservazioni in proposito, sì tutto il contesto del luogo d’Esiodo.

Θαύμας (figlio di Nereo e della Terra) δ'Ὠκεανοῖο βαθυῤῥείταο θύγατρα..

Ἠγάγετ' Ἠλέκτρην ἡ δ' ὠκεταν τέκεν Ἶριν

Ἠϋκόμους θ' Ἁρπυίας (così scrivono con lettera maiuscola) Ἁελλώ τ' Ὠκυπέτην τε , (nomi propri, e simboleggiano le procelle e i venti, come indica la loro etimologia, e come pur dicono i grammatici e gli interpreti)

Αἵ ῥ' ἀνέμων πνοιῇσι καὶ οἰωνοῖς ἅμ' ἕπονται

Ὠκείῃς πτερύγεσσιἃ• μεταχρόνιαι γὰρ ἴαλλον.

Io tengo per fermo che ἁρπυίας sia un secondo epiteto compagno di ἠϋκόμους. Il duplicare o moltiplicare gli epiteti senza congiungerli fra loro con alcuna particella congiuntiva, poco usitato dai poeti latini, è familiarissimo ai poeti greci; e proprissimo di Omero, e dietro lui, degli altri: siccome di Dante (secondochè osserva Monti nella Proposta) e degli altri poeti italiani. Vedi fra gli altri infiniti luoghi, Odiss. α, 96-100, il qual luogo è ripetuto più d’una volta nell’Iliade, e s’io non fallo, anche nell’Odissea.

Del resto il luogo dell’iscrizione triopea Ἅρπυιαι κλωθῶες ἀνηρείψαντο μέλαιναι , dove ἅρπυιαι è manifesto aggettivo e sta per rapaci, notisi essere espressamente imitato dai seguenti versi dell’Odissea, ed averli l’autore avuti onninamente in vista.

Νῦν δέ μιν ἀκλειῶς ἅρπυιαι ἀνηρείψαντο.. α, 241. ξ, 371.

Τόφρα δὲ τὰς κούρας ἅρπυιαι ἀνηρείψαντο.. υ, 77.

Notisi ancora l’aggettivo μέλαιναι compagno d’ἅρπυιαι e tuttavia non legato con questo per nessuna congiunzione.

Il disuso del tema da cui venne il participio ἁρπυῖαι, il disuso di questa voce in senso o di participio o d’aggettivo, e l’uso comune della medesima per significare con nome appellativo quelle favolose bestie alate delle quali vedi Forcell. in Harpyiae, uso e favola che par più recente dei tempi d’Omero e d’Esiodo, dovettero indurre in errore i grammatici e gl’interpreti greci (e quindi i moderni) sopra il vero senso di quella voce negli addotti luoghi de’ due poeti, e massime in quelli dell’Odissea. Vedi l’interpretazione che ne dà Eustazio presso lo Scapula ec. Quando però non si voglia credere che la stessa mala intelligenza della voce ἅρπυιαι appresso Omero ec. (la qual mala intelligenza dev’essere molto antica) abbia dato origine ovvero occasione alla favola delle Arpie, il quale accidente non mancherebbe di esempi. Delle Arpie vedi le note a Luciano, opp. Amstel. 1687. t. 1. p. 94. not. 5. (15-16. Giugno 1823.).

Et ferruginea (Charon) subvectat corpora cymba. Aen. 6. 303. Chi non sente che questo subvectat è continuativo, e indica costume di subvehere tuttodì? Ma per meglio sentirlo, sostituiscasegli la voce subvehit, e veggasi se la proprietà latina di questo luogo non va tutta in fumo. Vedi altri simili esempi nel Forcellini in vecto, convecto, advecto ec. (16. Giugno 1823.).

Traslatare, trasladar, translater continuativi barbari di transferre. (16. Giugno 1823.).

Gli scrittori greci de’ secoli medii e bassi, cioè dal terzo inclusive in poi, sono pieni d’improprietà di lingua (com’è quella di Coricio sofista del sesto secolo nell’Orazione εἰς Σοῦμμον στρατηλάτην in Summum ducem, par. 11. ap. Fabric. B. G. edit. vet. vol. 8. p. 869. lib.5. cap. 31. di usare la voce δικαστὴς in vece di κριτὴς o di μάρτυς), pieni di frasi strane quanto alla lingua, pieni di solecismi, e di mille contravvenzioni alle antiche regole della sintassi e grammatica greca, ma non hanno barbarismi. La loro lingua per tutto ciò che appartiene all’eleganza, è diversissima da quella degli antichi scrittori: ma per tutto il resto è la stessa. Si può dir ch’essi ignorino il buon uso della lingua che scrivono, che non la sappiano adoperare; ma la lingua che scrivono è quella degli antichi: quella che gli antichi scrissero bene, essi la scrivono male. Molte loro parole che non si trovano negli antichi, sono però cavate dal fondo della lingua greca o per derivazione o per composizione ec.; rade volte ripugnano all’indole d’essa lingua, e per esser chiamate buone, greche, pure e di buona lega, non manca loro se non la sanzione dell’antichità. In somma il grecismo di questi scrittori è per lo più cattivo o pessimo, ma la loro lingua è pura. Le voci e frasi poetiche versate a due mani nelle prose, le voci o frasi antiquate, le metafore o strane affatto e barbare, o poetiche, non offendono la purità della lingua, ed appartengono piuttosto al conto dello stile. Il periodo di questi scrittori, il giro della dicitura, per lo più rotto, slegato, saltellante, ineguale, ovvero intralciato, duro, aspro, monotono, e lontanissimo dalla semplicità e dalla maestà dell’antica elocuzione greca, appartiene certo in gran parte alla lingua, al cui genio è contrarissima la struttura dell’orazione di quei bassi scrittori, ma non nuoce alla purità. Il numero e l’armonia è diversissimo in questi scrittori da quel ch’egli è negli antichi, ma ciò non solo per la negligenza di quelli, bensì ancora per la diversa pronunzia introdotta appoco appoco nella lingua greca, massimamente estendendosi ella a tanti e sì diversi e tra se lontani paesi, e subentrando a sì diverse favelle, o prendendo luogo accanto ad esse e in compagnia di esse, o in mezzo ad esse: giacchè bisogna considerare che la più parte degli scrittori greci dal 3. secolo in poi, non furono greci di nazione, o certo non furono greci di paese, ma Asiatici ec., e greci solamente di lingua, e questo ancora non sempre dalla nascita, ma per istudio, come p. e. Porfirio, della cui lingua patria, vedi la Vita di Plotino, capo 17. e l’Holstenio de Vita et scriptis Porphyrii cap. 2. V. p. 2827. (17. Giugno. 1823.).

Una delle proprietà comuni alle tre lingue figlie della latina, le quali proprietà si debbono per conseguenza credere originate dalla lingua madre di tutt’e tre, come ho detto altrove, si è quella di usare causa (cosa, chose) per res. (18. Giugno 1823.).

Καὶ μοι δοκεῖ, εἴ τις τῶν θεῶν πάντας ἀνθρώπους εἰς ἕνα που χῶρον συναγαγῶν, ἕκαστον ἀπαιτήσει τὴν ἑαυτοῦ διηγήσασθαι τύχην, εἶτα πάντων εἰπόντων, ἑκάστου πύθοιτο πάλιν, ποίαν ἔχειν ἕλοιτο; πάντας ἂν ἀποροῦντας σιγῆσαι μηδένα ζηλωτὸν θεωμένους. Ἐντεῦθεν ἄρα τινὲς, Τραύσους οἶμαι τὸ γένος (nationem hanc) προσαγορεύουσι, τικτομένου μέν τινος ὠλοφύροντο σκοποῦντες, εἰς ὅσα ἦλθε κακὰ, ἀπιόντος δὲ πανήγυριν (festum) ἦγον, ὅσων ἠλευθέρωται δυσχερῶν ἐννοόυμενοι. Χορικίου Σοφιστοῦ Ἐπιτάφιος ἐπὶ Προκοπίῳ Σοφιστῇ Γάζης. Oratio funebris in Procopium Sophistam-Gazaeum (par. 35. p. 859.) primum edita gr. et lat. a Fabric. in B. G. edit. vet. t. 8. p. 841-63. lib.5. c. 31 (19. Giugno 1823.).

Alla p. 2683. marg. Da questa verissima osservazione del Castiglione, segue che tutte le immense fatiche che un perfetto scrittore deve spendere per dare a’ suoi scritti la finitezza, la grazia, la leggiadria, la nobiltà, la forza, insomma la bellezza della lingua, non possono esser nè valutate, nè gustate, neppur sentite dagli stranieri, che non sono assueti a scrivere in quella tal lingua, o non sono assueti a scriverla bene, il che è tutt’uno; e quindi elle sono tutte gittate per gli stranieri, e tutte inutili alla gloria dello scrittore riguardo agli esteri. Ma quanta parte dello stile è quasi tutt’uno colla lingua! Anzi chi può veramente o gustare o giudicare dello stile di un’opera, non potendo della lingua? E si può ben dire che ogni lingua ha il suo stile, o i suoi stili, che non si possono non che giudicare, appena ben concepire, se non si è in grado di giudicare e gustare quella tal lingua perfettamente, anzi di bene scriverla, perchè neppure i nazionali gustano quegli stili se non sono sperimentati nello scrivere la propria lingua. Dunque neppure i pregi dello stile di un perfetto scrittore possono esser valutati dagli stranieri, e tanto meno quanto egli è più perfetto, divenendone i pregi del suo stile come oggetti finissimi che sfuggono interamente alle viste deboli e ottuse, laddove se essi fossero stati più grossolani sarebbero potuti esser veduti. Ora quanta parte di un’opera è lo stile! Togliete i pregi dello stile anche ad un’opera che voi credete di stimare principalmente per i pensieri, e vedete quanta stima ne potete più fare. Dunque gli stranieri non sono assolutamente in grado nè di valutare nè di gustare nessuna opera di un perfetto scrittore, nemmeno, se non imperfettissimamente, per la parte dei pensieri. Dunque tutta la vera piena e ragionata stima che si può far d’un perfetto scrittore si restringe dentro i termini della sua nazione. E tra’ suoi nazionali quanti sono che sappiano bene scrivere e quindi ben gustarlo e valutarlo? Che cosa è dunque quella gloria per cui tanto ha sudato un perfetto scrittore, per cui ha forse speso in una sola opera tutta la vita? E quanto piacere ed a quanti proccura questa tale opera tanto lungamente e studiosamente travagliata e sudata a solo fine ch’ella proccurasse sommo e pieno e perfetto piacere? E in verità quanto alle opere di letteratura, tutte le sopraddette cose, e la conseguenza che io ne traggo, sussistono a tutto rigore[a]

Veggasi la p. 3673-5.

[Chiudi]. (19. Giugno 1823.).

Τοὶ δὲ Σκύθαι καλὸν νομίζοντι, ὃς ἄνδρα κτανών, ἐκδείρας τὰν κεφαλὰν, τὸ μὲν κόμιον πρὸ τοῦ ἵππου φορεῖ, τὸ δ' ὀστέον χρυσώσας καὶ ἀγρυρώσας, πίνει ἐξ αὐτοῦ καὶ σπένδει τοῖς θεοῖς ἐν δὲ τοῖς Ἕλλασιν οὐδέ κ' ἐς τὰν αὐτὰν οἰκίαν συνεισελθεῖν βούλοιτ' ἄν τις τοιαῦτα ποιήσαντι. Scythis quidem honestum, ut cum quis hominem occiderit, capitis, cute divulsa, partem crinitam ante equum gestet, osseam vero auro vel argento obducens, ex illa bibat Diisque ipsis libamina fundat. Graecorum autem nullus easdem aedes ingredi vellet una cum viro, qui tale quid fecerit. (Ex versione Io. Northi). Scrittore incerto di alcune διαλέξεις in dialetto Dorico, che si trovano sovente nei Codici appiè de’ libri di Sesto Empirico, e furono pubblicate da Enrico Stefano tra i frammenti de’ Pitagorici, e dal Fabricio, B. G. edit. vet. vol. 12. p. 617-35. lib.6. cap. 7. par. 6. Il Fabricio le chiama Disputationes Antiscepticae, ma in verità sono anzi esercitazioni scettiche in ciascuna delle quali si sostiene il pro e il contra, e questo vuol dire il titolo ch’è premesso a queste διαλέξεις nel Codice Cizense, e riferito dal Fabricio p. 617. nel qual titolo queste διαλέξεις sono chiamate ὑπομνήματα πρὸς ἀντίῤῥησιν. Il soprascritto passo è nella seconda διάλεξις, intitolata περὶ καλῶ καὶ αἰσχρῶ, ap. Fabric. l. c. p. 622. (21. Giugno 1823.).

[2800 - 2999]

È massima molto comune tra’ filosofi, e lo fu specialmente tra’ filosofi antichi, che il sapiente non si debba curare, nè considerar come beni o mali, nè riporre la sua beatitudine nella presenza o nell’assenza delle cose che dipendono dalla fortuna, quali ch’elle si sieno, o da veruna forza di fuori, ma solo in quelle che dipendono interamente e sempre dipenderanno da lui solo. Onde conchiudono che il sapiente, il quale suppongono dover essere in questa tale disposizion d’animo, non è per veruna parte suddito della fortuna. Ma questa medesima disposizione d’animo, supponendo ancora ch’ella sia più radicata, più abituale, più continua, più intera, più perfetta, più reale ch’ella non è mai stata effettivamente in alcun filosofo, questa medesima disposizione, dico, già pienamente acquistata, ed anche, per lungo abito, posseduta, non è ella sempre suddita della fortuna? Non si sono mai veduti de’ vecchi ritornar fanciulli di mente, per infermità o per altre cagioni, l’effetto delle quali non fu in balia di coloro l’impedire o l’evitare? La memoria, l’intelletto, tutte le facoltà dell’animo nostro non sono in mano della fortuna, come ogni altra cosa che ci appartenga? Non è in sua mano l’alterarle, l’indebolirle, lo stravolgerle, l’estinguerle? La nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia della fortuna? Può nessuno assicurarsi o vantarsi di non aver mai a perder l’uso della ragione, o per sempre o temporaneamente; o per disorganizzazione del cervello, o per accesso di sangue o di umori al capo, o per gagliardia di febbre, o per ispossamento straordinario di corpo che induca il delirio o passeggero o perpetuo? Non sono infiniti gli accidenti esteriori imprevedibili o inevitabili che influiscono sulle facoltà dell’animo nostro siccome su quelle del corpo? E di questi; altri che accadono ed operano in un punto o in poco tempo, come una percossa al capo, un terrore improvviso, una malattia acuta; altri appoco appoco e lentamente, come la vecchiezza, l’indebolimento del corpo, e tutte le malattie lunghe e preparate o incominciate già da gran tempo dalla natura ec. Perduta o indebolita la memoria non è indebolita o perduta la scienza, e quindi l’uso e l’utilità di essa, e quindi quella disposizion d’animo che n’è il frutto, e di cui ragionavamo? Ora qual facoltà dell’animo umano è più labile, più facile a logorarsi, anzi più sicura d’andar col tempo a indebolirsi od estinguersi, anzi più continuamente inevitabilmente e visibilmente logorantesi in ciascuno individuo, che la memoria? In somma se il nostro corpo è tutto in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all’azione delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l’animo, il quale è tutto e sempre soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi, quale mai non esistette, quale non può essere se non immaginario, tale ancora, sarebbe interamente suddito della fortuna, perchè in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella stessa ragione sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima. (21. Giugno 1823.).

Altro è il timore altro il terrore. Questa è passione molto più forte e viva di quella, e molto più avvilitiva dell’animo e sospensiva dell’uso della ragione, anzi quasi di tutte le facoltà dell’animo, ed anche de’ sensi del corpo. Nondimeno la prima di queste passioni non cade nell’uomo perfettamente coraggioso o savio, la seconda sì. Egli non teme mai, ma può sempre essere atterrito. Nessuno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato. (21. Giugno 1823.).

Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte il coro. Del qual uso molto si è detto a favore e contro. Vedi il Viaggio d’Anacarsi cap. 70. Il dramma moderno l’ha sbandito, e bene stava di sbandirlo a tutto ciò ch’è moderno. Io considero quest’uso come parte di quel vago, di quell’indefinito ch’è la principal cagione dello charme dell’antica poesia e bella letteratura. L’individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso disprezzabile. Il bello e il grande ha bisogno dell’indefinito, e questo indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la moltitudine. Tutto quello che vien dalla moltitudine è rispettabile, bench’ella sia composta d’individui tutti disprezzabili. Il pubblico, il popolo, l’antichità, gli antenati, la posterità: nomi grandi e belli, perchè rappresentano un’idea indefinita. Analizziamo questo pubblico, questa posterità. Uomini la più parte da nulla, tutti pieni di difetti. Le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di compassione, d’amor patrio sonavano negli antichi drammi sulle bocche del coro, cioè di una moltitudine indefinita, e spesso innominata, giacchè il poeta non dichiarava in alcun modo di quali persone s’intendesse composto il suo coro. Esse erano espresse in versi lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati dalla musica degl’istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo condannare quanto ci piace come contrarie alla verisimiglianza, come assurde, ec. quale altra impressione potevano produrre, se non un’impressione vaga e indeterminata, e quindi tutta grande, tutta bella, tutta poetica? Quelle massime non erano poste in bocca di un individuo, che le recitasse in tuono ordinario e naturale. Per grande e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima d’individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o concezione indeterminata ed immensa. Queste qualità contrastano con quelle, e quelle avrebbero direttamente impedita questa concezione, non che potessero produrla. Gli uditori avrebbero conosciuto il nome, le azioni, le qualità, le avventure di quell’individuo. Egli sarebbe stato sempre quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di Tebe, uccisore del padre, marito della madre, e cose simili. La nazione intera, la stessa posterità compariva sulla scena. Ella non parlava come ciascuno de’ mortali che rappresentavano l’azione: ella s’esprimeva in versi lirici e pieni di poesia. Il suono della sua voce non era quello degl’individui umani: egli era una musica un’armonia. Negl’intervalli della rappresentazione questo attore ignoto, innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle profonde o sublimi riflessioni sugli avvenimenti ch’erano passati o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie dell’umanità, sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta dell’innocenza e della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in questo mondo, cioè l’esecrare che fa il pubblico e la posterità gli oppressori delle medesime; esaltava l’eroismo, rendeva merito di lodi ai benefattori degli uomini, al sangue dato per la patria. (V. Oraz. art. poet. v. 193-201.). Questo era quasi lo stesso che legare sulla scena il mondo reale col mondo ideale e morale, come essi sono legati nella vita: e legarli drammaticamente, cioè recando questo legame sotto i sensi dello spettatore, secondo l’uffizio e il costume del poeta drammatico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare quello che è. Questo era personificare le immaginazioni del poeta, e i sentimenti degli uditori e della nazione a cui lo spettacolo si rappresentava. Gli avvenimenti erano rappresentati dagl’individui; i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti ch’essi producevano o dovevano produrre nelle persone poste fuori di essi avvenimenti erano rappresentati dalla moltitudine, da una specie di essere ideale. Questo s’incaricava di raccogliere ed esprimere l’utilità che si cava dall’esempio di quelli avvenimenti. E per certo modo gli uditori venivano ad udire gli stessi sentimenti che la rappresentazione ispirava loro, rappresentati altresì sulla scena, e si vedevano quasi trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro parte; o imitati dal coro, non meno che si fossero gli eroi imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche quando il coro prendeva parte diretta all’azione, questo fare agir nel dramma la moltitudine, era più poetico, e doveva produrre maggiore e più vivo effetto, che il divider tutta l’azione fra pochi individui, come noi facciamo.

Da queste considerazioni si argomenti se sia giusto il dire che l’uso del coro nuoce all’illusione. Qual grata illusione senza il vago e l’indefinito? E qual dolce grande e poetica illusione doveva nascere dalle circostanze sovra esposte! (21. Giugno. 1823.). Nelle commedie la moltitudine serve altresì all’entusiasmo e al vago della gioia, alla βακχείᾳ, a dar qualche apparente e illusorio peso alle cagioni sempre vane e false che noi abbiamo di rallegrarci e godere, a strascinare in certo modo lo spettatore nell’allegrezza e nel riso, come accecandolo, inebbriandolo, vincendolo coll’autorità della vaga moltitudine. V. p. 2905.

Io non so quali abbiano ragione intorno all’origine del verbo latino accuso, o quelli che lo derivano da causa, o quelli che lo fanno venire da un verbo cuso continuativo di cudere, del qual cuso non recano però nessuno esempio. (V. Forcell. v. accuso fin. v. cuso.). Forse a questi ultimi potrebbe esser favorevole il nostro antico cusare, il quale se venisse da cuso e non da causari, o se non fosse uno storpiamento d’accusare, sarebbe un antichissimo tema perduto o disusato nel latino scritto, e conservato nell’italiano; e sarebbe il semplice dei verbi composti accuso, incuso, excuso, recuso. È da notare però che il nostro volgo (almeno quello della Marca) usa il verbo causare nel significato appunto del nostro antico cusare, e del latino causari, cioè in senso, non di cagionare, ma di recare per cagione o come cagione, accagionare: l’usa dico in questa frase avverbiale causando che, cioè atteso che, poichè. Il qual significato di causare e il qual modo avverbiale non è notato dalla Crusca, ma trovasi pure usato da Lorenzo de’ Medici nella famosa lettera a Gio. de’ Medici Card. suo figliuolo, poi Papa Leone X, verso il fine, dove però nella raccolta di Prose, stampata in Torino 1753. vol. 2. p. 782. trovo cagionando che per causando che, che sta nelle Lettere di diversi eccellentissimi huomini, raccolte dal Dolce, Venez. appresso Gabriel Giolito de’ Ferrari et fratelli 1554. p. 303. e nelle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni stampate da Paolo Manuzio in Venez. 1544. carte 6. p. 2. (In ogni modo anche la frase avverbiale cagionando che manca nella Crusca.) Nelle Lettere di XIII Huomini illustri, Ven. per Comin da Trino di Monferrato 1561. p. 485. trovo pensando che. Vedi il Magnifico di Roscoe, dove quella lettera è riportata.

Del resto il verbo accuso o accudo, o cudo cusus semplice ha il suo continuativo o frequentativo accusito. (23. Giugno. 1823.). Se accuso è quasi accauso, tanto e tanto è da notare questo continuativo, che sarà quasi accausito dal participio accausatus.

Alla p. 2775. Il verbo δείδω che oggi si pone come tema, non è certamente altro che reduplicazione di un tema più semplice, il che è dimostrato sì dalla voce δέος, sì dal verbo δίω presso Omero, sì dalla voce δεῖσθαι usata più volte da Plutarco per temere. Κάρχαρος, χαρχαρέοι, καρχαρίας da χαράσσω per reduplicazione. ὀπιπτεύω da ὀπτεύω. βέβαιος da βαίνω o da βέβαα. V. p. 4109. Anche in latino titillo è fatto per duplicazione da τίλλω. E altre tali duplicazioni alla greca si trovano pure in latino (come quelle de’ perfetti memini, cecidi ec.), sieno veramente latine di origine, o greche, o comuni anticamente ad ambe le lingue, ec. ec. (23. Giugno. 1823.).

Institutum autem eius (Moeridis in Ἀττικιστῇ) est annotare et inter se conferre voces quibus Attici, et quibus Graeci in aliis dialectis, maxime illa κοινῇ utebantur: interdum notat et κοινὸν vulgi, illudque diversum facit non modo ab Attico sed etiam ἑλληνικῷ, ut in ἐξίλλειν, εὐφήμει, κάθησο, λέμμα, οἰδίπουν, οἶσε, σχέατον. Fabric. B. G. edit. vet. l. 5. c. 38. par. 9. num.157. vol. 9 p. 420. (23. Giugno. 1823.).

Alla p. 2776. margine. Lo stesso discorso si può fare di βαΰζω, il quale è pur verbo esprimente un suono, e fatto per imitazione di questo suono; il qual suono come è similissimo a quello di βαΰω, così non ha niente che fare con βαΰζω. Ma questa e simili interposizioni della lettera ζ e d’altre tali, sono state fatte o per evitare l’iato o per altre diverse cagioni, nel processo della lingua, quando già non v’era più bisogno che il vocabolo per essere inteso, esprimesse e rappresentasse collo stesso suo suono l’oggetto significato, ma egli era già inteso generalmente per se, e non per virtù della sua origine; e quando già nella lingua si guardava più alla dolcezza ec. che alla necessità ec. ne’ quali modi le parole in tutte le lingue si sono allontanate dalla forma primitiva e hanno spesso perduto affatto quel suono rappresentativo che prima avevano e sul quale furono modellati e creati, e nel quale da principio consisteva la ragione della loro significanza. I latini dal tema βαΰω o bauare fecero baubari, interponendo un b (il quale in questo caso è più adattato all’imitazione) invece del ζ. Noi baiare, che per verità potrebb’essere appunto quello stesso originale βαΰω ch’è affatto perduto nella lingua greca e nella latina scritta: e ben si potrebbe credere che fosse totalmente voce antica latina, conservata nel volgare; dal che si dedurrebbe, primo, che l’antico latino, e di poi il suo volgare perpetuamente conservò puro il verbo originale βαΰω (giacchè l’υ greco in latino antico ora risponde a un u, ora ad un i), quantunque non si trovi nel latino scritto; verbo inusitato affatto nell’antica e moderna grecità nota; secondo, che questo antichissimo verbo, perduto, o vogliamo dire alterato nel greco, perduto ossia alterato nel latino scritto, conservasi ancora purissimo e senz’alterazione alcuna nell’italiano, e vedi la pag. 2704. Si potrebbe anche credere che i primi latini e il volgo, invece di baubari dicessero bauari (appunto βαΰειν), e che la mutazione dell’u in i (vocali che spessissimo si scambiano, per esser le più esili, come ho detto altrove) seguisse nell’italiano e nel francese ec. Ovvero che gli antichi dicessero bauari, e poi il volgo baiari. (24. Giugno 1823.).

I continuativi latini, tutti (se non forse visere da visus di video, co’ suoi composti inviso, reviso ec., e forse qualche altro, che io chiamerò continuativi anomali) appartenenti alla prima congiugazione, sono fatti dal participio o dal supino del verbo originale come ho dimostrato. Nondimeno io trovo alcuni pochi verbi, pur della prima maniera, i quali sono evidentemente fratelli o figli di altri verbi della terza, ed hanno una significazione evidentemente continuativa della significazione di questi, ma non sono fatti da’ loro participii. Quelli che io ho osservati sono 1. cubare, co’ suoi composti accubare, incubare, decubare, secubare, recubare, ec. il significato de’ quali è manifestissimamente continuativo di quello di cumbere (inusitato, fuorchè nella voce cubui ec. e cubitum che ora s’attribuiscono a cubare), incumbere, accumbere ec. tanto che ogni volta che si dee esprimere azione continuata, si usano immancabilmente quelli e non questi, (come anche viceversa nel caso opposto) e appena si troverà buono esempio del contrario, quale potrebb’esser quello di Virgilio Aen. 2. 513-14. Ingens ara fuit; juxtaque veterrima laurus Incumbens arae, invece d’incubans. 2. educare continuativo di educere quanto al significato. 3. jugare parimente di jungere, e così conjugare, abiugare, deiugare, e s’altro composto ve n’ha. 4. dicare similmente di dicere, e così i composti judicare, di ius dicere; dedicare, praedicare, abdicare ec. V. p. 3006. 5. labare di labere inusitato, cioè labi deponente. E nóto che questi verbi della terza hanno anche i loro continuativi formati regolarmente da’ loro participii, ma con significato diverso da quello de’ soprascritti verbi della prima, sebbene anch’esso continuativo; come dicere ha pur dictare e dictitare; ducere, onde educere, ha ductare e ductitare; jungere ha nel basso latino e nello spagnuolo junctare, (noi volgarmente aggiuntare, i franc. ajouter); labi o labere ha pur lapsare [a]

Forse a questo discorso appartengono eziandio suspicor o suspico, ed auspico o auspicor, da specio, seppur quello non viene piuttosto da suspicio onis, e questo da auspicium o da auspex auspicis. Forse ancora, qua si dee riferire plico da plecto, de’ quali verbi mi pare aver ragionato altrove in altro modo. Da plecto-plexus si fanno anche i continuativi amplexor e complexo. E notate che si trova anche amplector aris in luogo di amplector eris, il che per altra parte confermerebbe che plecto is fosse un continuat. anomalo di plico, come mi pare aver detto altrove. V. p. 2903.

[Chiudi]. Cubitare, accubitare ec. possono venire da accubatus inusitato e da accubitus, ec. e quindi essere derivativi così di accumbere come di accubare. Ma questo, con tutti i suoi fratelli e col suo semplice cubo, non ha del proprio nè il preterito perfetto nè i tempi che da questo si formano, nè il participio in us, nè il supino, ma li toglie in prestito da accumbere, recumbere, incumbere ec. facendo, nè più nè meno come fan questi, accubui, accubitus i, accubitum ec. Vedi però la p. 3570. 3715-7. Incubare ha anche incubavi, incubatum. Cubare ha anche cubavi, o certo cubasse. Notate che se talvolta troverete ne’ lessici o ne’ grammatici ec. degli esempi di accubare, incubare ec. adoperati nel preterito o nel supino ec. che non vi paiano di senso continuativo, dovete credere ch’essi sieno male attribuiti a quei verbi, e spettino ad incumbere, accumbere, occumbere ec. V. p. 2996. V. a questo proposito p. 2930.2935. (24. Giugno, dì del Battista 1823.).

Sono molti verbi formati da’ participii in us, i quali non esprimono azione continuata, nè costume di fare quella tale azione, o non l’esprimono sempre, e nondimeno anch’essi, ed anche in questo caso, sono veri continuativi, e il Forcellini e gli altri che li chiamano frequentativi, sbagliano, ed usano una voce impropria, parlando con tutto rigore ed esattezza. Per esempio iactare nel luogo dell’ Eneide 2. 459. ed exceptare nelle Georg. 3. 274. sopra i quali luoghi ho disputato altrove, non esprimono azione continuata per se stessa, giacchè l’azione di lanciare, e quella di ricever l’aria col respiro non sono azioni continue, ma si concepiscono come istantanee; nè anche significano costume di lanciare o di ricevere; ma moltitudine continuata di queste tali azioni, cioè di lanciamenti, per così dire, e di ricevimenti, che senza interruzione e per lungo tempo succedono l’uno all’altro. Questa è idea continua, e bene, in questo caso, si chiameranno continuativi quei tali verbi, e non potranno per nessun modo chiamarsi altrimenti con proprietà. Malissimo poi si chiameranno frequentativi, giacchè ben altro è il fare una cosa frequentemente, ed altro il ripetere per un certo maggiore o minor tempo una stessa azione continuamente, quando anche quest’azione per se non sia continua, e si fornisca nell’istante. Questa è continuità di fare una stessa azione, ben diversa dalla frequenza di fare una stessa azione. La qual frequenza suppone e considera degl’intervalli, maggiori minori, e più o meno numerosi che sieno, durante i quali quell’azione non si fa; laddove la detta continuità non li suppone, ed ancorchè, come è naturale, sempre vi sieno, pure, siccome minimi, non li considera. Avendo l’occhio a queste osservazioni si vedrà quanto gran numero di verbi latini detti frequentativi, lo sieno impropriamente, e quante significazioni credute frequentative, e che tali paiono a prima vista, perchè rappresentano ripetizione di una stessa azione, contuttociò non lo sieno, ma sieno veramente continuative. Bisogna sottilmente distinguere, come abbiamo mostrato, e non credere che qualunque verbo esprime ripetizione di una stessa azione, sia frequentativo, nè che questa ripetizione sia sempre lo stesso che la frequenza d’essa azione. La successione di più azioni di una stessa specie è ben altra cosa che la frequenza di esse. E con questo criterio, siccome cogli altri che abbiamo dati in vari luoghi circa le diverse significazioni de’ verbi fatti da participii in us, si correggeranno infiniti errori de’ grammatici e lessicografi; rettificherannosi infinite loro definizioni; conoscerassi e distinguerassi partitamente il vero spirito, e la vera e varia proprietà e forza de’ verbi formati da’ suddetti participii; e vedrassi come il senso frequentativo, ch’è solamente l’uno dei tanti che ricevono essi verbi, sia stato male scelto o preso a denotare e denominare e definire tutti questi verbi, ed anche considerato come l’unico loro proprio senso. Il che è lo stesso che porre la parte per il tutto. E quando ciò s’abbia a fare, meglio converrà a questi verbi il nome di continuativi, il qual nome abbraccia un assai più gran numero delle varietà proprie del significato di questi verbi. Le quali varietà non ancora considerate nè dai grammatici nè dai filologi nè dai filosofi, e nondimeno necessarissime a considerarsi e distinguersi per ben penetrare nell’intima proprietà ed eleganza, ed anche nell’intimo e vero senso e valore della lingua latina, e nell’intelligenza dell’efficacie, delle bellezze ec. dei passi degli scrittori, noi abbiamo proccurato di dichiarare ed esporre, sì ai grammatici e filologi, come ai filosofi e a’ letterati. (25. Giugno 1823.).

Un continuativo anomalo o semianomalo si è hietare fatto da hiatus, quasi da hietus, participio d’hiare. Dove la mutazione dell’a in e viene 1. dal voler evitare il cattivo suono d’hiatare, del qual suono sempre evitato nella formazione de’ continuativi fatti da verbi della prima, ho detto altrove[a]

Salvo ne’ continuatt. de’ temi monosill. p. e. dato, flato, nato ec. come altrove. A questo proposito dubito molto che betere o bitere o bitire sia un continuat. anomalo (come viso is) di un bo dal gr. βάω, come no da νέω, do da δόω, e altri tali temi monosill. latt. fatti da tali verbi greci così contratti. Ebito sarebbe ἐκβαίνω ex-eo. V. Forc. in Beto. V. p. 3694.

[Chiudi]. 2. da questo, che sebbene i latini, in questa cotal formazione solevano cambiar l’ultima a del participio, in i, facendo p. e. da mussatus mussitare invece di mussatare, qui non poterono far così, stante l’altro i che precedeva, onde avrebbero fatto hiitare che riusciva di tristo suono, e difficile alla pronunzia. (25. Giugno. 1823.).

Bubulcitare dinota forse un antico verbo bubulco, dal cui participio esso sia formato. Così credo io, secondo l’ordinaria ragione osservata da’ latini nella formazione de’ verbi, secondo la qual ragione e proprietà non mi par verisimile che bubulcitare sia fatto a dirittura da bubulcus. (19. Giugno 1823.).

Subvento da subvenio, coepto da coepio, vocito da voco, coenito o cenito da coeno, dormito da dormio, sternuto da sternuo, observito da observo, perito da pereo (come ito ed itito da eo), adiuto (onde aiutare, ayudar, aitare, aider, atare) e adiutor aris da adiuvo, eiulitare da eiulare, clamitare (declamitare ec.) da clamare. Cicerone nota che declamitare era voce nuova al suo tempo. V. Forcellini . Fugito da fugio, ed altro da fugo. Flato da flo-flatus, onde fiatare. V. Forcell. e il Glossar. Volito da volo-volatus. Strepito da strepo strepitus. Sponso (onde sposare, épouser ec.) e desponso da spondeo e despondeo, e notate la significazione continuativa e durativa di quelli a paragone del significato di questi. Responso e responsito da respondere. (25. Giugno 1823.).

Frequentativi. Cantito. Sumptito o sumtito. Da cano-cantus, e da sumo-sumptus o sumtus. (25. Giugno. 1823.). Missito da mitto-missus. (26. Giugno 1823.). Accessito.

Il verbo eo is è forse e senza forse il solo che avendo un continuativo desinente in ito, cioè appunto itare, abbia anche un frequentativo pure in ito, distinto dal continuativo, e formato col raddoppiamento della it, cioè ititare, il che fu schivato da’ latini in tutti gli altri verbi dove sarebbe potuto accadere, come ho detto altrove. Onde questi verbi non ebbero se non un solo o continuativo o frequentativo o l’uno e l’altro insieme, desinente nel semplice ito. Vero è che il verbo ititare non ha nel Forcellini che un solo esempio, e secondo me, poco sicuro. (26. Giugno 1823.).

Alcuni continuativi o frequentativi composti, sono fatti dal continuativo semplice, a dirittura, senza che il verbo padre del continuativo abbia i composti corrispondenti. Di ciò mi pare d’aver detto altrove. Veggasi la p. 3619. P. e. recito e suscito sono continuativi composti di cito il qual è continuativo di cieo che non ha nè recieo nè suscieo nè i participii recitus nè suscitus. Dico di cieo, non di cio, che ha pur lo stesso significato, ma il suo participio è citus, e di cieo citus, onde citare, e quindi excitare, incitare, concitare ec. che hanno la sillaba ci breve, vengono tutti da cieo. Da cio o vogliamo dire da excio, verrebbe il verbo excito appresso Stazio, se fosse genuino, e sincero. V. Forcellini . (26. Giugno 1823.).

Nexo nexas è continuativo regolare, come si vede, di necto-nexus. Nexo nexis (v. Forcellini ) sarebbe anomalo, sull’andare di viso visis da video-visus, e potrebbe forse confermare quello che mi par di aver detto altrove circa plecto is, o altro simile, da me stimato continuativo, benchè, come tale, anomalo. (26. Giugno 1823.). V. p. 2885. ed osserva anche la p. 2934-5.

Verbi in tare i quali sono continuativi, benchè paiano tutt’altro, e non apparisca a prima vista questa loro qualità. Confutare, refutare ec. sono continuativi, o composti da futare, o derivati da confundere ec. E futare viene dal participio di fundere, il qual participio ora è fusus, ma anticamente futus. Vedi Forcellini in Confuto initio vocis, in Futo ec. Da altro participio pur di fundo, e pure antico e inusitato, cioè funditus, viene funditare. (26. Giugno 1823.). V. p. 3585. 3625.

Un altro futare dice Festo che fu usato da Catone per saepius fuisse. Questo dimostrerebbe un antico participio futus del verbo sostantivo latino. Dico del verbo sostantivo, e non dico del verbo sum. Questo è originalmente il medesimo che il greco εἰμί ovvero ἔω, e che il sascrito asham, e il suo participio in us dovette essere situs o stus o sutus (giacchè è notabile il nostro antico suto, vero e proprio participio del verbo essere, laddove stato che oggi s’usa in vece di quello, è tolto in prestito da stare), come ho detto altrove. Il franc. été è lo stesso che sté, giacchè gli antichi dicevano esté, e quell’e innanzi, è aggiunto per dolcezza di lingua avanti la s impura nel principio della parola, come in espérer, espouser (ora épouser), del che ho detto altrove. Ora il participio sté sarebbe appunto stus in latino. Ma il participio futus, onde futare, non potè essere se non di quel verbo da cui il verbo sum tolse in prestito il preterito perfetto fui colle voci che da questo si formano, cioè fueram, fuero ec. Il qual verbo fuo non ha che far niente in origine con sum nè con εἰμί, ma è lo stesso che φύω, e v. Forcell. in fuam e in sum. Di questo dunque dovette esistere anche il participio futus, il quale dimostrasi col verbo futare che ne deriva. E nótisi che Festo dice il verbo futare essere stato usato da Catone per saepius fuisse, e non per saepius esse, onde pare che questo verbo appresso Catone conservasse una certa corrispondenza e similitudine e analogia colle voci fui, fuisse ec. tolte in prestito da sum, le quali tutte indicano il passato, e che anch’esso denotasse il passato di natura sua, ed avesse significazione preterita. Del resto come il verbo futare è diverso da stare, così il participio futus, da cui quello deriva, è diverso da situs o stus da cui vien questo, e come futus è participio di fuo e stus di sum, così futare è continuativo di fuo e stare di sum. E l’esistenza del participio futus dimostrata dal verbo futare, non nuoce a quella che io sostengo del participio stus, giacchè sum e fuo, che ora fanno un sol verbo anomalo composto e raccozzato di due difettivi, furono a principio due verbi ben distinti e per origine, e per forma materiale, e probabilmente completi tutti e due, e non difettivi come ora. (26. Giugno 1823.).

È notabile come il nostro volgo e il nostro discorso familiare conservi ancora l’esattissima etimologia e proprietà de’ verbi stupeo, stupesco, stupefacio, stupefio, ec. che diciamo anche stupire, stupefare, stupefarsi. In luogo de’ quali verbi diciamo sovente restare, o rimanere o divenire o diventare di stoppa per grandemente maravigliarsi che sono precisissimamente il significato proprio e l’intenzione metaforica de’ predetti verbi latini. Così penso assolutamente io, sebbene altri li derivano da stipes, e forse niuno ha pensato di derivarli da stuppa, che anche si dice stupa. Il che forse è avvenuto perchè non dovettero sapere o avvertire quella nostra frase familiare che ho notata. Che se in alcuni mss. si trova anche stipeo ed obstipeo, ciò non vale, perchè stupa si disse anticamente stipa, secondo Servio, che lo deriva da stipare. Potrebbe anche esser la stessa voce che στύπη da στύφω. Chi sa che lo stesso stipare non venga appunto da στύφω piuttosto che da στείβω? V. Forcellini in stipa, stipo, stuppa ec. Certo s’egli ha che fare con stupa o stipa, esso viene da questa voce, e non al contrario come vuol Servio. E l’υ greco, siccome ho detto più volte cambiasi nel latino ora in i ora in u, e queste due vocali i ed u si scambiano sovente fra loro e nel latino e nelle altre lingue, come ho pur detto altrove: ed osservate infatti che l’u francese e bergamasco, e l’υ greco, è appunto un misto e quasi un composto d’ambedue queste vocali i ed u, e non si sa a qual più delle due rassomigliarlo; onde si vede quanto elle sieno affini e simili ed amiche tra loro, che s’accozzano insieme a fare (sulla bocca di molti e diversi popoli) una sola vocale, dove niuna delle due viene a prevalere. Quindi s’argomenti quanto è facile che queste due vocali si scambino l’una coll’altra nella pronunzia umana, anche in uno stesso tempo e popolo, nonchè in diversi tempi e nazioni e climi. Sim u lare da sim i lis , onde anche similare, e noi simigliare e somigliare. Assimulare e assimilare. maximus, optimus e maxumus, optumus. Amantissimus e amantissumus. V. Perticari Apolog. di Dante p. 156. cap. 16. verso il fine. lubens, decumus, reciperare e recuperare, carnufex. (26. Giugno. 1823.).

Fortunatianus in Honorii (Augustodunensis, De luminaribus Ecclesiae) Codicibus lib.1. cap. 98. vitiose Fortunatius, natione Afer, Aquilejensis Episcopus, interfuit Concilio Sardicensi An. 347. et p. 179. teste Hieronymo (De scriptoribus Ecclesiasticis) cap. 97. scripsit Commentarios in Evangelia, titulis (ut apud Hilarium fit) ordinatis, brevique et rustico sermone. De rustico sermone Latino singularem se libellum conscribere proposuisse testatus est V. C. Christianus Falsterus ad Gellii XIII. 6. parte 3. Amoenitatum Philologicarum p. 186. De Fortunatiano hoc, qui ad Arianos denique deflexit, plura Tillemontius tomo VI. memoriarum pag. 364. 419. — Fabricius Bibl. Lat. med. et inf. aetat. ed. Mansii, Patav. 1754. t. 2. p. 178-179. lib.6. art. Fortunatianus. (26. Giugno 1823.).

Alla p. 2776. Da σόω o σώω, σώζω. Notate che l’Etimologico dice espressamente che σώζω deriva da σώω (e non viceversa), ed aggiunge, come ἕζω sedere facio, seu colloco, pono, da ἕω colloco, statuo. Così ἳζω sedere facio, in sede colloco ch’è lo stesso verbo che ἕζω, come dice Eustazio, è fatto da ἕω. Πετάζω pando explico da πετάω idem. Da πελάω-πελάζω, τεχνάω-τεχνάζω, ἀνιάω-ἀνιάζω, ἀτιμάω-ἀτιμάζω, τίω-ἀτίζω, πρίω-πρίζω, λωβάω άζω. Anche da πετάομαι volo si trova fatto πετάζομαι nei frammenti del Φυσιολόγος d’Epifanio pubblicati dal Mustoxidi e dallo Scinà nella Collezione di vari aneddoti greci (i quali frammenti però credo che non fossero, come gli Editori stimarono, inediti). Vedi l’ultima pagina delle annotazioni degli Editori a essi frammenti, nel fine, e, se vuoi, la p. 2780. margine. E forse buona parte di questi tali verbi mancavano originariamente del ζ, aggiunta poi per proprietà di pronunzia o di dialetto, per evitar l’iato ec. Da χάσκω χασκάζω. Ma questa è un’altra formazione, che cambia in certo modo il significato e lo rende più continuo ec. Così potrebbe essere ἁρπάζω da ἅρπω e non da ἁρπάω. Κωμάζω sembra venire da κῶμος a dirittura, non da κωμάω; e così molti altri. Da βρύω βρυάζω. (26. Giugno 1823.).

È da notare che la nostra ben distinta teoria della formazione grammaticale de’ continuativi e frequentativi, giova ancora a dimostrare evidentemente l’antica esistenza ed uso de’ participii o supini di moltissimi verbi che ora ne mancano affatto, mentre però esistono ancora i loro continuativi o frequentativi come fugitare dimostra fugitus o fugitum di fugio, che altrimente non si conoscerebbe, e così cent’altri; ovvero di participii e supini diversi da quelli che ora si conoscono, come agitare dimostra il part. agitus diverso da actus, noscitare noscitus diverso da notus, futare e funditare futus e funditus, ambedue diversi da fusus, (v. la p. 2928 segg. 3037.) quaeritare quaeritus, diverso da quaesitus che non è di quaero, ma di quaeso, benchè a quello s’attribuisca, e simili. E serve ancora ad illustrare e mettere in chiaro l’antico uso e regola seguíta da’ latini nella formazione de’ participii in us e de’ supini, come ho fatto vedere altrove in proposito di agitare; e la vera origine di molti participii più moderni, come actus, e la loro ragione grammaticale; e spiega e scioglie molte anomalie apparenti ec. ec. ec. (27. Giugno. 1823.).

Alla p. 2795. marg. Cambiata la pronunzia della lingua greca, doveva necessariamente mutarsi e il modo di produrre l’armonia colla collocazione delle parole, (giacchè le parole collocate all’antica e pronunziate diversamente, non potevano più rendere l’antica armonia) e quindi variarsi affatto la struttura dell’orazione, e prendere un altro giro il periodo; ed oltre a ciò mutarsi ancora l’armonia risultante dalla collocazione delle parole modernamente pronunziate, giacchè di diversi elementi, cioè di parole diversamente pronunziate era quasi impossibile che ne risultasse uno stesso effetto per mezzo della varia collocazione, cioè che le parole pronunziate alla moderna e distribuite per ciò diversamente dal modo antico, producessero l’armonia stessa che producevano coll’antica pronunzia e collocazione. Quindi diversa struttura e giro di orazione e di periodo, e nel tempo stesso diversa armonia. Assai più gran cosa che non pare, si è il cambiamento della pronunzia in una lingua. E parlo qui solamente della pronunzia che spetta alla quantità, cioè alla brevità o lunghezza delle sillabe, ed all’accentazione, senza entrar punto in quella pronunzia che spetta alle stesse lettere ed elementi della favella, la qual pronunzia come influisca sulle lingue e come basti a diversificarle l’una dall’altra, e sia principal causa sì della moltiplicazione sì della continua alterazione de’ linguaggi, è cosa già dimostrata. Ma quella pronunzia che spetta alla semplice quantità delle sillabe ed agli accenti, par cosa del tutto estrinseca alla lingua. Infatti ella non altera in nessun conto il materiale delle parole come fa l’altra. Ed appunto ell’è veramente estrinseca ed accidentale alle parole. Nondimeno il cambiamento di questa pronunzia, che nulla influisce su ciascuna parola, influisce sulle più intrinseche parti della favella, ed arreca essenzialissimi cangiamenti alla composizione e all’ordine delle parole, e quindi al giro ed alla forma della dicitura, e quindi alla vera indole della favella. V. p. 3024.

Oltre di che, quando anche a’ tempi bassi si fosse potuta dare all’orazione l’antica armonia, quando anche quest’armonia si fosse ben conosciuta (che già non si conosceva), il mutato e corrotto gusto non lasciava nè poteva lasciar di stendersi anche all’armonia. Onde quell’armonia antica non sarebbe piaciuta, senza cadenze, senza strepito, senza ritornelli, senza eco, senza rimbombo, senza sfacciataggine di ritmo, dolcemente e accortamente variata ec. Tutte le contrarie qualità piacevano e si celebravano a quei tempi. Leggansi le orazioni o declamazioni o proginnasmi ec. e l’epistole stesse de’ sofisti, Libanio, Imerio, Coricio ec. Questo ancora gli obbligava a dare alle parole un giro diverso dall’antico. Di più, quando anche non fosse mancata loro la volontà, sarebbe mancata l’arte che infinita si richiede alla retta economia ed uso de’ numeri. Quindi essi sono sempre insolentemente monotoni ec. (27. Giugno 1823.).

Ho detto altrove che il greco moderno è senza paragone più simile al greco antico che non l’italiano al latino. Fra le altre moltissime particolarità basti osservare che una delle cose che massimamente distinguono le lingue moderne dalle antiche, e fra queste l’italiana, spagnuola ec. dalla latina, si è che le moderne mancano dei casi de’ nomi; il che basterebbe quasi per se solo a diversificare il genio e lo spirito delle nostre lingue, da quel delle antiche. Ora il greco moderno conserva gli stessi casi dell’antico. Conserva ancora l’uso della composizione fatta coi vocaboli semplici e colle preposizioni e particelle. Ma già non v’è bisogno d’altra prova che di gittar l’occhio sopra una pagina di greco vernacolo correttamente scritto, per conoscere la visibilissima e, direi quasi, totale somiglianza ch’esso ha coll’antico, e quanto ella sia maggiore, anzi di tutt’altro genere che non è quella che passa tra l’italiano e il latino, giacchè questa consiste principalmente nel materiale de’ vocaboli e delle radici, e quella, oltre di ciò, in grandissima parte dell’indole e dello spirito. Ho detto, correttamente scritto, perchè certo fra il greco moderno scritto o parlato da un ignorante e quello scritto da un uomo colto, ci corre tanto divario quanto fra questo e il greco antico. Vedi il contratto in greco moderno barbaro pubblicato da Chateaubriand nell’Itinerario. Ma ciò è naturale, e succede in tutte le lingue e nazioni, e certo il greco antico parlato, anche dai non plebei, e scritto dagl’ignoranti era ben diverso da quello che scrivevano i dotti, come il latino rustico, dall’illustre. Vedi la pag. 2811. Il greco moderno colto, giacchè ed ogni lingua può esser colta, e niuna lingua non colta può valer nulla, potrebbe certo divenire una lingua bella, efficace, ricca, potente, e forse, per la gran parte che conserva sì delle ricchezze come delle qualità e della natura dell’antico, una lingua superiore o a tutte o a molte delle moderne colte e formate. (27. Giugno. 1823.).

Grazia dallo straordinario e dal contrasto. Spesse volte la grazia o delle forme o delle maniere deriva da una bellezza e convenienza nelle cui parti non esiste veramente nessun contrasto, ma che però risulta da certe parti che non sogliono armonizzare e convenire insieme, benchè in questa tal bellezza e in questo tal caso convengano; ovvero da parti che non sogliono trovarsi riunite insieme, benchè trovandosi, sempre armonizzino: onde essa bellezza è diversa dalle ordinarie, benchè sia vera bellezza, cioè intera convenienza ed armonia. In tal caso il contrasto è estrinseco ed accidentale, non intrinseco: in tal caso la grazia deriva precisamente dalla bellezza, ma non dalla bellezza in quanto bellezza, bensì in quanto bellezza non ordinaria, e di genere diversa dalle altre: così che la grazia anche in questo caso deriva dal contrasto, non delle parti componenti il bello, ma del tutto, cioè di questo tal bello, col bello ordinario; e dalla sorpresa che l’uomo prova vedendo o sentendo una bellezza diversa da quella ch’egli suole considerar come tale, il che produce in lui un contrasto colle sue idee. Questo caso, da cui nasce la grazia, non è raro. Tutte quelle fisonomie, o quelle forme di persona, perfettamente armonizzanti, e con tutto ciò non ordinarie, o nelle quali non si suol trovare armonia, o in somma di genere diverso dal più delle fisonomie e forme belle, sono per qualche parte graziose. E il caso è più frequente e più facile nelle maniere, le quali ammettono più varietà che le forme materiali e naturali, e possono armonizzare in molti più modi che le dette forme.

La grazia, anche in questi casi, è sempre relativa, cioè secondo il contrasto che fanno quelle tali forme o maniere colle assuefazioni e colle idee che lo spettatore ha intorno al bello. Il qual contrasto può esser maggiore in una persona, minore in un’altra, e in un’altra nullo; e quindi produrre un senso di maggiore o minor grazia; ovvero questo senso non esser prodotto in niun modo. E questa varietà può anche essere in una medesima persona in diversi tempi e circostanze, assuefazioni ed idee. Onde può succedere che ad una medesima persona in altro tempo, o ad un’altra persona nel tempo stesso, riesca grazioso in questi casi appunto il contrario di quello ch’erale già riuscito, o che riesce a quell’altra persona. E questa grazia di cui discorro può esser tale per un maggiore o minor numero di persone, per la più parte o per pochi, per quelli d’una città o nazione o per quelli d’un’altra, per la gente di campagna o di città: secondo che lo straordinario di quella tal bellezza e armonia è maggiore o minore, più o meno visibile, rispettivo a quello che i più riconoscono per bellezza o a quello che pochi ec. Sebbene io abbia qui considerato questa grazia applicandola alle forme e maniere delle persone, il medesimo discorso si potrà e dovrà fare intorno a tutti gli altri oggetti capaci di bellezza e di grazia, in molti de’ quali sarà molto più frequente e più facile il caso della grazia figlia della bellezza diversa dall’ordinario, ch’esso non è nelle forme e maniere degli uomini. (27. Giugno 1823.). V. p. 3177.

Dovunque non cade bellezza, non cade grazia. Dico relativamente agli uomini, perchè bellezza e bruttezza cade in qualsivoglia cosa, ma gli uomini non ne giudicano, e non ne ricevono il senso se non in certe. E in queste sole, dov’essi possono ricevere il senso della bellezza, possono anche ricever quello della grazia e concepirla. E viceversa similmente, dovunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che l’una non possa esser senza l’altra. Ma quel genere ch’è capace dell’una è capace dell’altra. E per bellezza, intendo quella ch’è propriamente e filosoficamente tale, cioè quella ch’è convenienza, non l’altre impropriamente chiamate bellezze. (27. Giugno 1823.).

Pascitare da pascitus antico participio di pasco poi contratto in pastus, come noscitare da noscitus poi ristretto in notus, (siccome da suesco suetus ec.), del qual verbo noscitare ho detto altrove. (28. Giugno 1823.).

Emptito o emtito frequentativo da emo-emptus emtus. Non vi sarebbe chi appresso Plauto Cas. 2. 5. 39. leggesse empsitem per emptitem se si fosse ben posto mente alla teoria ed alla formazione grammaticale de’ frequentativi in ito, ed alla loro derivazione dai participii o supini, e non d’altronde. (28. Giugno 1823.).

Ho recato altrove, in proposito dei sinonimi, alcuni esempi di voci che nelle lingue figlie della latina sono passati ad aver per proprii de’ significati ben lontani da quelli che avevano nella latina, e tra queste il verbo quaerere (querer) che nella lingua spagnuola significa velle. Aggiungete l’esempio del verbo latino creare (criar) che in ispagnuolo significa allevare, educare, sì esso come i suoi derivati, crianza, criado ec. (28. Giugno 1823.).

Solae communes natos, consortia tecta Urbis habent (apes), magnisque agitant sub legibus aevum . Georg. l. 4. v. 153-154. Qui il verbo agito non può esser più continuativo di quel ch’egli è; e veramente non so chi possa avere il coraggio di dire ch’egli in questo e ne’ simili luoghi sia frequentativo. (28. Giugno 1823.).

Ho mostrato altrove che i poeti e gli scrittori primitivi di qualunque lingua non potevano mai essere eleganti quanto alla lingua, mancando loro la principal materia di questa eleganza, che sono le parole e modi rimoti dall’uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè scrittori e poeti non v’erano stati, da’ quali si potessero torre, e i quali conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde quando una lingua comincia ad essere scritta, tanto esiste della lingua quanto è nell’uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori, che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl’italiani avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può, perchè quando nasce la letteratura di una nazione, questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in questo proposito la p. 3015. Questo medesimo vale anche per le parole della stessa lingua, rimote più che tanto dall’uso comune, sia per disuso (seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando fin allora gli scrittori), sia per qualsivoglia altra cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà, poca ricercatezza di parole o di forme basta ad eccedere la capacità de’ totalmente ignoranti, quali sono allora quasi tutti, e degli a tutt’altro avvezzi che allo studio. Ho dunque detto altrove che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè, mancando loro, come s’è detto, la principal materia dell’eleganza di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti di tenere anche questo, per così dire, a mezz’aria, e di familiarizzarlo. Onde accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri, quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall’uso comune, hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già elle come tali s’adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne’ più alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a’ tempi di que’ poeti e scrittori, questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e un’aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l’eleganza sia sopravvenuta alle loro parole e a’ loro modi che non l’avevano, com’è sopravvenuta, e somma, a quei del Petrarca. Queste considerazioni si possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne’ poeti, non solo perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad essi la detta materia dell’eleganza niente meno che a’ prosatori, questa mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall’uso comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch’esso, massime ad ora ad ora, pur ci sa meno familiare, e ci rende più il senso dell’eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch’è però nel Petrarca bellissima. Così è: la condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de’ tempi nostri che abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla prosa. Ed infatti è benissimo definita la familiarità che si sente ne’ poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente, tiene della prosa. Come fa l’Eneida del Caro, che quantunque non sia poema primitivo, pure essendo stato quasi un primo tentame di poema eroico in questa lingua, che ancora non n’era creduta capace, com’esso medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile eroico.

Tutto questo discorso sui poeti e scrittori primitivi di una lingua, si deve intender di quelli che meritano veramente, il nome di poeti o di scrittori, e non di quei primissimi e rozzissimi, ne’ quali non cade sapore nè di familiarità nè d’eleganza, nè d’altra cosa alcuna determinata e che si possa ben sentire, fuorchè d’insipidezza, non avendo essi nè lingua, nè stile, nè maniera, nè carattere formato, sviluppato, costante e uniforme. E il sopraddetto discorso ha massimamente luogo, e i sunnotati effetti avvengono principalmente nel caso che sui principii di una letteratura compariscano tali e così grandi ingegni che o la creino quasi in un tratto, o tanto innanzi la spingano dal luogo ove la trovano, ch’essa paia poco meno che opera loro. Il qual caso avvenne alla letteratura greca e alla italiana[a]

Anche gli antichi e primi scrittori latini hanno sapore e modo tutto familiare, sì poeti, come Ennio e i tragici, di cui non s’hanno che frammenti, Lucrezio ec.; sì prosatori, come Catone, Cincio ed altri Cronichisti, di cui pur s’hanno frammenti, ec.

[Chiudi]. Perciocchè quando la letteratura si va formando appoco appoco, e con tanta uniformità di progressi, che mai un suo passo non sia fuor d’ogni proporzione cogli antecedenti, i summentovati effetti sono manco notabili, e manco facili a vedere, trovandosi l’eleganza delle parole e dei modi già fatta possibile coll’abbondanza degli scrittori e l’arricchimento della lingua che dà luogo alla scelta, e la nazione già capace e colta e studiosa, prima che la letteratura giunga a produr cosa alta e perfetta, e che un grande ingegno faccia uso dell’una e dell’altra disposizione, cioè di quella della lingua, e di quella de’ suoi nazionali. (28. Giugno. 1823.). V. p. 3009. 3413.

Participii in us di verbi attivi o neutri, non deponenti, in senso attivo o neutro, alla foggia di quelli de’ deponenti. Dissimulatus a um, pransus a um, impransus a um, coenatus a um, incoenatus a um, potus a um, (dall’antico po o poo, di cui altrove) appotus a um, iuratus a um, coniuratus a um, iniuratus e simili, solitus a um, insolitus a um, suetus a um co’ suoi composti, hausus (Forc. haurio fin.). Vedi la pag. 2904. fine. 3072. esus a um, ventus a um appresso Plauto, gavisus a um (gavisus sum, per l’antico gavisi). Vedi il Forcellini sì in questi participii, sì ne’ verbi loro, specialmente in coeno, edo, venio ec. (28. Giugno 1823). obstinatus a um; obitus a um, e altri composti di eo, come interitus a um, praeteritus a um. Placitus a um, come gavisus. V. Forc. V. p. 3060.

Continuativi delle lingue figlie della latina. Diventare ital. da devenio-deventus. Sepultar spagn. da sepelio sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato da Venanzio Fortunato, poeta e scrittore italiano del sesto secolo, Carm. lib.8. Hymno de vitae aeternae gaudiis. (Glossar. Cang.) Pressare, presser, prensar, oppressare, oppressé, soppressare, expressar ec. da premo-pressus. V. il Glossar. Tritare da tero tritus. Il Gloss. Tritare, Frequenter terere, Ioh. de Ianua cioè genovese del secolo 13o, autore di un Lessico edito. Cautare, incautare da caveo-cautus. V. il Glossar. Gozar spagnuolo da gaudeo gavisus. Fecesi ne’ bassi tempi di gavisus gausus, onde gosus, onde gosare, e gozar. Ovvero di gavisus gavisare, gausare, gosare, gozar. Trovasi nelle antiche glosse latino-greche gaviso — χαίρω. V. il Glossar. Cang. in Gavisci, ed anche in Gavisio, Gausida (goduta sostantivo) e Gausita . Vedi quivi anche Gauzita, dove trovi già il z di gozar. Da questo, o da gavisio, gausio, gosio, anzi da gavisus us, gausus, gosus credo io che sia fatto lo spagnuolo gozo, godimento, piuttosto che da gaudium. Gozar assai spesso, come il nostro godere e il francese jouir, è vero continuativo di gaudere, non meno per il significato che per la forma, equivalendo a frui. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent ec. dee esser venuto similmente da gavisare, prima che questo fosse mutato in gausare, e ne sparisse la i, che manca in gozar, ma con tutto ciò è più sfigurato. Così dite di joie, jouissance, joyeux ec. e di gioia, gioire, ec. che di là vengono. Pransare o pranzare ital. da pransus di prandeo onde il frequentativo latino pransitare. Incettare non da un barbaro incaptare, come pensa Giordani nel principio della lettera a Monti, Proposta vol. 1. parte 2., ma appunto da un inceptare mutato l’a di captare in e per virtù della composizione, come in attrectare, contrectare, detrectare, obtrectare, ec. da tractare o da detractus ec. di detraho, in affectare ec. da affectus di afficio il quale viene da facio, in coniectare, subiectare, obiectare ec. da coniectus di coniicio che viene da iacio, in descendo, ascendo ec. da scando, in occento da occentus di occino da cano, in aggredior ec. da gradior, in accendo, incendo, succendo da candeo o dall’inusitato cando, v. p. 3298. e in molti simili, benchè più generalmente e regolarmente l’a della prima sillaba de’ verbi dissillabi[a]

V. p. 3351.

[Chiudi] si muti per la composizione in i (e puoi vedere la p. 2890.) Incepto da inceptus d’incipio è tutt’altro verbo. Da capto, o certo da capio vengono excepto, recepto, accepto, intercettare, discepto, ec. i quali pure mutano l’a in e, e non fanno excapto, recapto ec. V. p. 3350. fine. 3900. fine. Avvisare nel suo senso proprio (vedi la Crusca in avvisare par. 1.2.3.) è verissimo continuativo di avvedere nel senso suo primitivo. Ma non può esser fatto da questo verbo italiano, il quale ha per participio avvisto e avveduto, non avviso. Conviene che sia fatto da advisus di advidere, il qual verbo oggi non si trova nella buona latinità. Puoi vedere la p. 3034. Trovasi però nella bassa il verbo advidere in senso di avvertire, che io credo metaforico, e in questo e simili sensi il verbo advisare e avisare. V. il Glossar. Cang. Anche i francesi e gli spagnuoli, che non hanno il verbo avvedere, hanno aviser e avisar, ma l’usano in quei sensi metaforici ne’ quali l’usiamo anche noi. Nel senso proprio nel quale egli è più dirittamente continuativo del suo verbo originale advidere, non credo ch’egli si trovi se non nella nostra lingua, e principalmente nei nostri antichi autori. Noi diciamo anche avvistare, ed equivale a un di presso ad avvisare nel senso proprio, o nel più simile a questo. V. p. 3005. Advidere dovette propriamente significare adspicere, oculos advertere, e quindi anche animum advertere. (Nell’esempio che ne porta il Glossario, non mi risolvo s’ei voglia dire animadvertere, o commonere, come il Glossario spiega). Nel qual senso, avvisare preso nel significato proprio, è suo vero continuativo, esprimendo la stessa azione, ma più durevole. Si può dir simile ad adspectare. Noi non usiamo advidere se non reciproco, cioè neutro passivo, sempre però in significato simile ai sopraddetti, o che questo sia relativo agli occhi che propriamente vedono, o all’animo che considera e conosce. Chi vuol ridere e nuovamente vedere quanti spropositi abbia fatto dir la poca notizia finora avutasi della formazion de’ verbi latini e latinobarbari da’ participii o supini d’altri verbi, vegga la bella etimologia di advisare che dà l’Hickesio presso il Cange nel Glossario. Vedi la Crusca anche in avvisamento par. 3. e in avvisatura. (29. Giugno, mio dì natale. 1823.). V. p. 3019.

Vantano che la lingua tedesca è di tale e tanta capacità e potenza, che non solo può, sempre che vuole, imitare lo stile e la maniera di parlare o di scrivere usata da qualsivoglia nazione, da qualsivoglia autore, in qualsivoglia possibile genere di discorso o di scrittura; non solo può imitare qualsivoglia lingua; ma può effettivamente trasformarsi in qualsivoglia lingua. Mi spiego. I tedeschi hanno traduzioni dal greco, dal latino, dall’italiano, dall’inglese, dal francese, dallo spagnuolo, d’Omero, dell’Ariosto, di Shakespeare, di Lope, di Calderon ec. le quali non solamente conservano (secondo che si dice) il carattere dell’autore e del suo stile tutto intero, non solamente imitano, esprimono, rappresentano il genio e l’indole della rispettiva lingua, ma rispondono verso per verso, parola per parola, sillaba per sillaba, ai versi, alle costruzioni, all’ordine preciso delle parole, al numero delle medesime, al metro, al numero e al ritmo di ciascun verso, o membro di periodo, all’armonia imitativa, alle cadenze, a tutte le possibili qualità estrinseche come intrinseche, che si ritrovano nell’originale; di cui per conseguenza elle non sono imitazioni, ma copie così compagne com’è la copia d’un quadro di tela fatta in tavola, o d’una pittura a fresco fatta a olio, o la copia d’una pittura fatta in mosaico, o tutt’al più in rame inciso, colle medesimissime dimensioni del quadro.

Se questo è, che certo non si può negare, resta solamente che si spieghi con dire che la lingua tedesca non ha carattere proprio, o che il suo proprio carattere si è di non averne alcuno, oltre i cui limiti non possa passare, il che viene a dir lo stesso. Che una lingua per ricca, varia, libera, vasta, potente, pieghevole, docile, duttilissima ch’ella sia, possa ricevere, non solo l’impronta di altre lingue, ma per così dir, tutte intiere in se stessa tutte le altre lingue; ch’ella si rida della libertà, della infinita moltiplicità, della immensità della lingua greca, e dopo averla tutta abbracciata, ed ingoiatone tutte le innumerabili forme, ella si trovi ancora tanta capacità come per lo innanzi, e possa ricevere e riceva, sempre che vuole, tutte le forme delle lingue le più inconciliabili colla stessa greca (che con tante si concilia) e fra loro; delle lingue teutoniche, slave, orientali, americane, indiane; questo, dico, non può umanamente accadere, se non in una lingua che non abbia carattere; non è accaduto alla greca ch’è stata ed è la più libera, vasta e potente e la più diversissimamente adattabile di tutte le lingue formate che si conoscono; non è accaduto e non accade, che si sia mai saputo o si sappia a nessun’altra lingua perfetta di questo mondo.

Io determino il mio ragionamento così. Ogni nazione ha un suo carattere proprio e distinto da quello di tutte le altre, come lo ha ciascuno individuo, e tale che niun altro individuo se gli troverà mai perfettamente uguale. Ogni lingua perfetta è la più viva, la più fedele, la più totale imagine e storia del carattere della nazione che la parla, e quanto più ella è perfetta tanto più esattamente e compiutamente rappresenta il carattere nazionale. Ciascun passo della lingua verso la sua perfezione, è un passo verso la sua intera conformazione col carattere de’ nazionali. Ora domando io: i tedeschi non hanno carattere nazionale? certo che l’hanno. Forse non ancora sviluppato, di modo ch’essendo tuttavia informe, è capace d’ogni configurazione, e non ben si distingue da quello degli altri popoli? anzi sviluppatissimo, perchè la civiltà loro è già in un alto grado. Forse così vario, così sfuggevole, così pieghevole, così adattabile ad ogni sorta di qualità, ch’esso abbracci tutti i caratteri delle altre nazioni, e a tutti questi si possa conformare? tutto l’opposto, perchè il carattere della nazione tedesca è benissimo marcato, e così costante, che forse il suo difetto è di piegare alla roideur, a una certa rigidezza e durezza, e di mancare un poco troppo di mollezza e pieghevolezza. Ma quando anche fosse appunto il contrario (come sarebbe fino a un certo segno negl’italiani), a me basterebbe che la nazion tedesca avesse pure un qualunque carattere, che offrisse abbastanza tratti di distinzione per non poterlo confondere con un altro, e molto meno con qualsivoglia altro. Or dunque se la nazione tedesca ha un carattere proprio, se essendo civile non può non averlo, se tutte le nazioni civili lo hanno e non possono mancarne, la lingua tedesca, s’ella è formata, e più, s’ella è perfetta, dev’essere una fedelissima e completa immagine di questo carattere, e per conseguenza avere anch’essa un carattere, e determinato e costante, e tale che non si possa confondere con quello di un’altra lingua, nè ella possa ammettere il carattere di un’altra lingua, ancorchè simile a lei, nè, molto meno, scambiare il suo proprio carattere con questo. Ma la lingua tedesca senza far violenza alcuna a se stessa, ammette le costruzioni, le forme, le frasi, l’armonia, non solo delle lingue affini, non solo delle settentrionali, ma delle più aliene, ma delle antichissime, delle meridionali, delle formate e delle informi, di quelle che appartengono a nazioni per costumi, per opinioni, per governi, per costituzione corporale, per climi, per leggi eterne della natura disparatissime, ed eziandio contrarissime al carattere proprio e costantissimo e certissimo della nazion tedesca, in somma di tutte le possibili lingue passate e presenti, e per così dir future. Dunque la lingua tedesca non è formata, non è determinata, e molto meno, perfetta.

Parlando dell’adattabilità o pieghevolezza, e della varietà e libertà di una lingua, bisogna distinguere l’imitare dall’agguagliare, o rifare, le cose dalle parole. Una lingua perfettamente pieghevole, varia, ricca e libera, può imitare il genio e lo spirito di qualsivoglia altra lingua, e di qualunque autore di essa, può emularne e rappresentarne tutte le varie proprietà intrinseche, può adattarsi a qualunque genere di scrittura, e variar sempre di modo, secondo la varietà d’essi generi, e delle lingue e degli autori che imita. Questo fra tutte le lingue perfette antiche e moderne potè sovranamente fare la lingua greca, e questo fra le lingue vive può, secondo me, sovranamente la lingua italiana. Perciò io dico che questa e quella sono piuttosto ciascuna un aggregato di più lingue che una lingua, non volendo dire ch’elle non abbiano un carattere proprio, ma un carattere composto e capace di tanti modi quanti lor piaccia. Questo è imitare, come chi ritrae dal naturale nel marmo, non mutando la natura del marmo in quella dell’oggetto imitato; non è copiare nè rifare, come chi da una figura di cera ne ritrae un’altra tutta compagna, pur di cera. Quella è operazione pregevole, anche per la difficoltà d’assimulare un oggetto in una materia di tutt’altra natura; questa è bassa e triviale per la molta facilità, che toglie la maraviglia; e in punto di lingua è dannoso, perchè si oppone alla forma e natura ed essenza propria ch’ella o ha o dovrebbe avere. Imitando in quel modo s’imitano le cose, cioè lo spirito ec. delle lingue, degli autori, dei generi di scrittura; imitando alla tedesca s’imitano le parole, cioè le forme materiali, le costruzioni, l’ordine de’ vocaboli di un’altra lingua (il che una lingua perfetta, anzi pure formata, non dee mai poter fare, nè può per natura fare); e probabilmente s’imitano queste, e non le cose; cioè non s’arriva ad esprimer l’indole, la forza, la qualità, il genio della lingua e dell’autore originale (benchè pretendano di sì), appunto perchè in un’altra e diversissima lingua se ne imitano anzi copiano le parole: e mad. di Staël ancora è di questo sentimento in un passo che ho recato altrove della prima lettera alla Biblioteca Italiana, 1816. n. 1.

Una traduzione in lingua greca fatta alla maniera tedesca, una traduzione dove non s’imita, ma si copia, o vogliamo dire s’imitano le parole, dovendosi nelle traduzioni imitar solo le cose, si è quella de’ libri sacri fatti da’ Settanta. Ora la medesima lingua greca, quella così immensamente pieghevole e libera, nondimeno, percioch’ella è pur lingua formata e perfetta, riesce in quella traduzione (fatta certo in antico e buon tempo) affatto barbara e ripugnante a se stessa, e non greca; e di più, quantunque noi non possiamo per la lontananza de’ tempi, e la scarsezza delle notizie grammaticali ec. e la diversità de’ costumi e dell’indole, neppur leggendo gli originali ebraici, pienamente giudicare e sentir qual sia il proprio gusto de’ medesimi, e il vero genio di quella lingua, nondimeno possiamo ben essere certissimi che questo gusto e questo genio non è per niente rappresentato dalla version de’ Settanta, che non è quello che noi vi sentiamo leggendola, che non ve lo sentirono i greci contemporanei o posteriori, e ch’ella in somma fu ben lontana dal fare ne’ greci lo stesso effetto, nè di gran lunga simile, neppure analogo a quello che facevano ne’ lettori ebrei gli originali[a]

Seppure però la lingua ebraica ha genio, o altra indole che quella di non averne veruna. E certo la lingua ebraica per essere informe, può forse esser bene rappresentata e imitata con una traduzione in qualsivoglia lingua, che per esser troppo esatta sia anch’essa informe. Il che non accadrebbe in verun altro caso. Vedi la pag. 2909. 2910 fine 2913. Vedi anche una giunta a questa pagina nella p. 2913.

[Chiudi]. Ch’è appunto il fine che dovrebbero avere le traduzioni, e che i tedeschi pretendono di pienamente e squisitamente conseguire col loro metodo. Aggiungasi dopo tutto ciò che la traduzione de’ Settanta, barbara per troppa conformità estrinseca coll’originale, non le è di gran lunga così scrupolosamente e onninamente conforme, come le vantate traduzioni tedesche agli originali loro.

Una lingua perfetta che sia pienamente libera ec. colle altre qualità dette di sopra, contiene in se stessa, per dir così, tutte le lingue virtualmente, ma non mica può mai contenerne neppur una sostanzialmente. Ella ha quello che equivale a ciò che le altre hanno, ma non già quello stesso precisamente che le altre hanno. Ella può dunque colle sue forme rappresentare e imitare l’andamento dell’altre, restando però sempre la stessa, e sempre una, e conservando il suo carattere ben distinto da tutte; non già assumere l’altrui forme per contraffare l’altrui andamento; dividendosi e moltiplicandosi in mille lingue, e mutando a ogni momento faccia e fisonomia per modo che o non si possa mai sapere e determinare qual sia la sua propria, o di questa non si possa mai fare alcuno argomento da quelle ch’ella assume, nè in queste raffigurarla.

Ella è cosa più che certa e conosciuta che i popoli meridionali differiscono per tratti essenzialissimi e decisivi di carattere da’ popoli settentrionali, e gli antichi da’ moderni, per non dire delle altre secondarie suddivisioni e suddifferenze nazionali caratteristiche. Ella è cosa ugualmente inconcussa che il carattere di ciascuna lingua perfetta si è precisamente quello della nazione che la parla, e viceversa. La stessa verità è indubitata e universale intorno alla letteratura. Or dunque che una lingua settentrionale possa senza menomamente violentarsi nè differir da se stessa, non solo imitare, anzi copiare, il carattere, ma assumere indifferentemente le forme, l’ordine, le costruzioni, le frasi, l’armonia di qualunque lingua meridionale come di qualunque settentrionale, che una lingua moderna possa altresì lo stesso indifferentemente con qualunque lingua antica siccome con qualunque moderna; questo in rerum natura, e se i principii della logica universale vagliono qualche cosa ne’ casi particolari, è impossibile quando questa lingua sia veramente formata e determinata, e molto più nella supposizione che sia perfetta. Questo medesimo oltre di ciò, secondo tutte le regole e teorie speculative della letteratura, secondo tutti gl’insegnamenti dati finora dall’osservazione e dall’esperienza in queste materie, è contraddittorio in se stesso, non essendo possibile che una tal lingua contraffacendo esattamente le forme, e frasi proprie e speciali d’un’altra lingua caratteristicamente diversa, ne rappresenti il genio e il carattere, e ne conservi lo spirito; essendosi sempre veduto ne’ casi particolari, e confermato colle ragioni speculative generali, che da tal causa risulta contrario effetto, e contrario totalmente, anche trattandosi di lingue affini, e somiglianti di carattere. Ma lasciando questo, e tornando alla prima impossibilità, dico che il carattere proprio di una lingua, è sempre per sua natura esclusivo degli altri caratteri, siccome lo è quello di una nazione, quando sia formato e completo; che quello ch’è impossibile alla nazione è impossibile alla lingua; che se la nazion tedesca non può assumere per natura il preciso e proprio carattere de’ francesi, se non può assumerne i costumi e le maniere senza nuocere al carattere nazionale, senza guastarsi, senza rendersi affettata, e dimostrarsi composta di parti contraddittorie, e produrre il senso della sconvenienza, dello sforzo, della violenza fatta alla propria natura, così la lingua tedesca, s’ella ha già forma propria e certa, s’ella ha carattere, s’ella è perfetta, non può per natura contraffare e ricopiare il carattere delle altre lingue, non può senza gl’inconvenienti sopraccennati e anche maggiori, rinunziando alle forme proprie, assumere nelle traduzioni le forme delle lingue straniere.

Astraendo da tutto questo, dico che in una lingua la quale abbia pienamente questa facoltà, le traduzioni di quel genere che i tedeschi vantano, meritano poca lode. Esse dimostrano che la lingua tedesca, come una cera o una pasta informe e tenera, è disposta a ricevere tutte le figure e tutte le impronte che se le vogliono dare. Applicatele le forme di una lingua straniera qualunque, e di un autore qualunque. La lingua tedesca le riceve, e la traduzione è fatta. Quest’opera non è gran lode al traduttore, perchè non ha nulla di maraviglioso; perchè nè la preparazione della pasta, nè la fattura della stampa ch’egli vi applica, appartiene a lui, il quale per conseguenza non è che un operaio servile e meccanico; perchè dov’è troppa facilità quivi non è luogo all’arte, nè il pregio dell’imitazione consiste nell’uguaglianza, ma nella simiglianza, nè tanto è maggiore quanto l’imitante più s’accosta all’imitato, ma quanto più vi s’accosta secondo la qualità della materia in cui s’imita, quanto questa materia è più degna; e quel ch’è più, quanto v’ha più di creazione nell’imitazione, cioè quanto più v’ha di creato dall’artefice nella somiglianza che il nuovo oggetto ha coll’imitato, ossia quanto questa somiglianza vien più dall’artefice che dalla materia, ed è più nell’arte che in essa materia, e più si deve al genio che alle circostanze esteriori. Neanche una tal opera può molto giovare alla lingua, nè servire ad arricchirla, o a variarla, o a formarla e determinarla, sì perch’ella dee perdere queste impronte e queste forme colla stessa facilità con cui le riceve e per la ragione stessa per cui così facilmente le riceve; sì perchè queste nella loro moltiplicità nocciono l’una all’altra, si scancellano e distruggono scambievolmente, e impediscono l’una all’altra l’immedesimarsi durabilmente e connaturarsi colla favella; sì perchè questa moltiplicità immoderata è incompatibile con quella tal quale unità di carattere che dee pur avere una favella ancorchè immensa, massime ch’elle sono diversissime l’une dall’altre, o ripugnano scambievolmente; sì perchè gran parte di queste forme o impronte essendo alienissime o affatto contrarie al carattere nazionale de’ tedeschi, e a quello della loro letteratura, non possono se non nuocere alla lingua, e guastarla, o impedire o ritardare ch’ella prenda e fortemente abbracci e ritenga quella sola forma e carattere che le può convenire, cioè quella che sia conforme al carattere della nazione e della nazionale letteratura, senza la qual forma perfettamente determinata, e da lei perfettamente ricevuta per costantemente conservarla, essa lingua non sarà mai compiuta e perfetta.

Conchiudo che se i traduttori tedeschi (grandissimi letterati e dottissimi, e spesso uomini di genio) fanno veramente quegli effetti che ho ragionati nel principio di questo pensiero, il che pienamente credo quanto alle cose che appartengono all’estrinseco; se con ciò non fanno alcuna violenza alla lingua, nel che credo assai ma assai meno di quel che si dice; se in somma la lingua tedesca, quanto alle qualità sopra discusse, è tale quale si ragiona, nel che non so che mi credere; la lingua tedesca come applicata assai tardi alla letteratura, e come appunto vastissima e immensamente varia, sì per l’antichità della sua origine, sì per la moltitudine degl’individui, e diversità de’ popoli che la parlano, non è ancora nè perfetta, nè formata e sufficientemente determinata; ch’ella è ancor troppo molle per troppa freschezza; ch’ella col tempo e forse presto (per l’immenso ardore, attività e infaticabilità letteraria di quella nazione) acquisterà quella sodezza e certezza che conviene a ciascuna lingua, e quella particolar forma e determinato e stabil carattere e proprietà, e quel genere di perfezione che conviene a lei, con quel tanto di unità caratteristica ch’è inseparabile dalla perfezione di qualunque lingua, siccome di qualunque nazione, e forse di qualunque cosa, se non altro, umana; che allora ella potrà essere e sarà liberissima, vastissima, ricchissima, potentissima, pieghevolissima, capacissima, immensa, e immensamente varia, pari in queste qualità astrattamente considerate, e superiore eziandio, se si vuole e se è possibile, non che all’italiana ma alla stessa lingua greca, ma non per tanto ella non avrà o non conserverà per niun modo quelle facoltà stravaganti e senza esempio, divisate di sopra; e quelle traduzioni ora lodate e celebrate piuttosto, cred’io, per gusto matematico che letterario, piuttosto come curiosità che come opere di genio, piuttosto come un panorama o un simulacro anatomico o un automa, che come una statua di Canova, piuttosto misurandole col compasso, che assaporandole e gustandole e paragonandole agli originali col palato, quelle traduzioni, dico, parranno ai tedeschi non tedesche, e nel tempo stesso non capaci di dare alla nazione la vera idea degli originali, aliene dalla lingua, e proprie di un’epoca d’imperfezione, e immaturità. (29 30. Giugno 1823.).

In ciascun punto della vita, anche nell’atto del maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo o il vivente è in istato di desiderio, e quindi non v’ha un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagione essa venga) nel quale l’individuo non sia in istato di pena, tanto maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per circostanze mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in istato di maggior sensibilità ed esercizio della vita, e viceversa. (30. Giugno 1823.). V. p. 3550.

L’amicizia, non che la piena ed intima confidenza tra’ fratelli, rade volte si conserva all’entrar che questi fanno nel mondo, ancorchè siano stati allevati insieme, ed abbiano esercitato l’estremo grado di questa confidenza sino a quel momento; e di più seguano ancora a convivere. E pure se l’uomo è capace di piena ed intima confidenza, e s’egli dovrebbe conservarla perpetuamente verso qualcuno, questo dovrebb’essere verso i fratelli coetanei, ed allevati con lui nella fanciullezza: e dico dovrebb’essere, non per forza naturale della congiunzione di sangue, la qual forza è nulla e immaginaria, e niente ha che fare nel produr quella confidenza o nel conservarla, ma per forza naturale dell’abitudine e dell’abitudine contratta nel primo principio delle idee e delle abitudini dell’individuo, e nella prima capacità di contrarle, e conservata tutto quel tempo che dura la maggiore intensità e disposizione ed ampiezza, e il maggior esercizio di questa capacità. Nondimeno questa confidenza così fortemente stabilita e radicata si perde per la varietà che s’introduce nel carattere de’ fratelli mediante il commercio cogli altri individui della società. Ma se questo commercio non avesse avuto luogo, quella confidenza sarebbe stata perpetua, com’ella non è mai cessata fino a quell’ora. Che vuol dir ciò, se non che nei caratteri degli uomini, novantanove parti son opera delle circostanze? e che per diversissimi ch’essi appariscano, come spesso accade anche tra fratelli, in questa diversità non è opera della natura, se non una parte così menoma che saria stata impercettibile? È quasi impossibile il caso che tutte le minute circostanze e avvenimenti che incontrano all’un de’ fratelli nell’uso della società, incontrino all’altro, o sieno uguali a quelle che incontrano all’altro, ancorchè postogli da vicino. Questa diversità diversifica due caratteri che parevano affatto, ed erano quasi affatto, compagni, e com’ella è inevitabile, così la diversificazione di questi caratteri nella società non può mancare. E ho detto le minute circostanze, contentandomi di queste, perchè anche la somma di cose minutissime basta a produrre grandissimi e visibilissimi effetti sull’indole degli uomini, massime allora ch’eglino sono principianti nel mondo, e che in essi la capacità delle abitudini e delle opinioni, ossia la formabilità dell’indole, è ancor molta e grande e in buon essere. (30. Giugno. 1823.).

Diminutivi che nelle lingue figlie della latina sono passati in luogo dei positivi latini, del che ho ragionato altrove, sia che questi positivi non esistano più in esse lingue, sia che questi diminutivi sieno fatti loro sinonimi. Fratello, sorella, figliuolo ital. orilla da ora, cioè estremità, spagn. V. il Glossar. il Forcell. e i Diz. spagn. quanto alle tre suddette voci italiane. (30. Giugno. 1823.). Orecchia, oreja, oreille da auricula; pecchia, aveja, abeille da apicula o apecula, come vulpecula. Flagellum s’usava anche nell’antico latino pel suo positivo flagrum; siccome ora flagello, fléau; e flagrum è perduto. Scalpello e scalpro. V. p. 2974. 3001. 3040. 3264.

Proprietà comune alle tre figlie della lingua latina. Aggiungere pleonasticamente per idiotismo, e per proprietà di lingua l’aggettivo plur. altri o altre ai pronomi plurali nos e vos. Noi altri, voi altri; nous autres, vous autres; nosotros, vosotros. Nel che l’italiano e il francese è libero di farlo o non farlo, lo spagnuolo no ec. E presso i primi, massimamente i francesi, par che quest’usanza sia del dir familiare. Ella è presso noi della scrittura familiare, frequentissima nel discorso domestico, e quasi continua in quello del volgo, come nello spagnuolo, quando voi ha significato veramente plurale. V. p. 2891. (30. Giugno 1823.).

Nostri plurali femminini o neutri, in a, da nomi di singolare mascolino o neutro, del che ho detto altrove in proposito dalla voce plurale fusa per fusi usata da Simmaco. Le peccata, le fata, le calcagna, le cervella, le fila, le ciglia. Questi plurali corrispondono ai rispettivi latini. Le risa: risum i non si trova, nè nel Forcell. nè nel Glossario. Così nè anche le anella: anellum i. Le letta. Trovasi lectum i in Ulpiano. V. il Glossar. in lectumstratum. (30. Giugno 1823.).

Altronde per altrove (del che ho detto, se non erro, parlando di un luogo di Floro, e dello spagn. donde, cioè unde, detto, come ora si dice, per ubi) trovasi in Giusto de’ Conti Son. 22. e Canz. 2. st. ult. in Angelo di Costanzo son. 44. e in molti altri, sì esso, come onde o donde per dove ec. massime ne’ trecentisti, in alcuno de’ quali espressamente mi ricordo di aver trovato uno o più di tali esempi ultimamente. E v. la Crusca in altronde par. 2. ec. (30. Giugno 1823.).

Suppeditare se viene da sub e pedes (v. Forcell.), donde si ha tolta quella giunta e desinenza d’itare? Io lo credo fatto da qualche participio, e però continuativo d’altro verbo perduto. (1. Luglio. 1823.). Cioè da suppedio-suppeditus, conforme a impedio impeditus, expedio, praepedio ec. che pur vengono da pes, ma non hanno il t nel tema, perchè non son fatti da’ participii. È da notare però che l’i di suppedito è breve, e in suppeditus sarebbe lunga. Ma credo v’abbiano molti altri esempi di questo, che l’i de’ verbi in ito sia sempre breve, ancorchè fatti da participii in itus lungo. Certo da’ participii in atus si fa ito breve. V. la p. 3619.

Gli spagnuoli usano l’avverbio luego, cioè subito, nel principio delle enumerazioni, e massime quando s’hanno a recare più d’un argomento, e recasi il primo, dicono luego, che vale primieramente. Pretto grecismo. I greci in casi simili, e specialmente nel caso predetto, usano elegantemente αὐτίκα, cioè subito, in principio di periodo, come gli spagnuoli luego, ed anche luego al punto in istile più familiare, o burlesco. S. Gio. Crisostomo o chiunque sia l’autore dei due sermoni sulla Preghiera περὶ προσευχῆς, nel Serm. 2, che incomincia ὅτι μὲν παντὸς ἀγαθοῦ , sul principio: Εὐθὺς τοίνυν ἐκεῖνο μέγιστον περὶ εὐχῆς εἰπεῖν ἔχομεν, ὅτι κ. λ.. V. Plat. de rep. 1. t. 4. p. 32. v. ult. dove αὐτίκα non serve all’enumerazione ma vale ecco qua subito, pronto e come senza cercare o senza andar lontano. E così i greci spessissimo. Noi diremmo la prima cosa avverb., prima di tutto, in primo luogo; i latini primum, o principio (v. Georg. 2. 8., 4. 8.),ec. (1. Luglio 1823.).

Ho detto sovente che ciascuno autor greco ha, per così dire, il suo Vocabolarietto proprio. Ciò vale non solamente in ordine all’usare ciascun d’essi sempre o quasi sempre quelle tali parole per esprimere quelle tali cose, laddove gli altri altre n’usano, o in ordine ai loro modi e frasi familiari e consuete, ma eziandio in ordine al significato delle stesse parole o frasi che anche gli altri usano, o che tutti usano. Perocchè chi sottilmente attende e guarda negli scrittori greci, vedrà che le stesse parole e frasi presso un autore hanno un senso, e presso un altro un altro, e ciò non solamente trattandosi di autori vissuti in diverse epoche, il che non sarebbe strano, ma eziandio di autori contemporanei, e compatriotti ancora, come p. e. di Senofonte e Platone, i quali furono di più condiscepoli, e trattarono in parte le stesse materie, e la stessa Socratica filosofia. Dico che il significato delle parole o frasi in ciascuno autore è diverso: ora più ora meno, secondo i termini della comparazione, e secondo la qualità d’esse parole; e per lo più la differenza è tale che i poco accorti ed esercitati non la veggono, ma ella pur v’è, benchè picciolissima. Un autore adoprerà sempre una parola nel significato proprio, e non mai ne’ metaforici. Un altro in un significato simile al proprio, o forse proprio ancor esso, e non mai negli altri sensi. Un altro l’adoprerà in un senso traslato, ma con tanta costanza, che occorrendo di esprimere quella tal cosa, non adoprerà mai altra voce che quella, e adoprando questa voce, non la piglierà mai in altro senso, onde si può dire che presso lui questo significato è il proprio di quella voce: (come accade che i sensi metaforici de’ vocaboli pigliano spesse volte assolutamente il luogo del proprio, che si dimentica) e questo caso è molto frequente. Un altro adoprerà quella voce colla stessa costanza, o con poco manco, in un altro senso traslato, più o meno diverso, e talvolta vicinissimo e similissimo, ma che pur non è quel medesimo. E tutta questa varietà (con altre molte differenze simili a queste) si troverà nell’uso di uno stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso avverbio in autori contemporanei e compatriotti. Alla qual varietà, come ben sanno i dotti in queste materie, è da por mente assai, e da notar sempre in ciascuno autore, massime ne’ classici, qual è il preciso senso in cui egli suole o sempre o per lo più adoperare ciascuna parola o frase. Trovato e notato il quale, si rende facile la intelligenza dell’autore, e se ne penetra la proprietà e l’intendimento vero delle espressioni, e si spiegano molti suoi passi che senza la cognizione del significato da lui solito d’attribuirsi a certe parole, non s’intenderebbero; com’è avvenuto a molti interpreti e grammatici ec. che spiegando questi passi secondo l’uso ordinario di quelle tali parole o frasi, e non considerandole in quello particolare ch’esse sogliono aver presso quello scrittore, o non hanno saputo strigarsi o si sono ingannati. E così accade anche ai ben dotti, che però non abbiano pratica di quel tale autore, e vi sieno principianti, o che ne leggano qualche passo spezzato. Certo non prima si arriva a pienamente e propriamente intendere qualunque autor greco che si abbia presa pratica del suo particolar Vocabolario, e de’ significati di questo: e tal pratica è necessario di farla in ciascuno autore che si prende nuovamente o dopo lungo intervallo a leggere: benchè in alcuni costa più in altri meno, e in certi costa tanto, che solo i lungamente esercitati e familiarizzati colla lezione e studio di quel tale autore sono capaci di bene intenderne e spiegarne la proprietà delle voci e frasi, e della espressione sì generalmente, sì in ciascun passo. Insomma questi solo conoscono la sua grecità, la quale, si può dire, in ciascuno autor greco, più o meno è diversa. (1. Luglio 1823.).

Non è maraviglia che la scrittura francese sia così diversa dalla pronunzia. Come altrove ho detto, a tutte le ortografie delle lingue figlie della latina, ed anche, almeno in parte, della inglese e della tedesca, servì di modello e di guida la scrittura latina, che apparteneva all’unica letteratura che si conoscesse quando prima si cominciarono a formare e regolare le moderne ortografie, anzi era altresì quasi l’unica scrittura nota, perchè le lingue moderne poco fino allora s’erano scritte, e quando conveniva scrivere, s’era per lo più scritto in latino, benchè barbaro. Ora la pronunzia francese, è tra le pronunzie delle lingue nate dalla latina, quella che più s’è discostata dal latino. Ond’è che la lingua francese è altresì fra queste lingue la più diversa dalla madre, così di spirito, di costruzioni, di maniere, di frasi, e di assai vocaboli, come di suoni[a]

V. p. 2989.

[Chiudi]. Egli è certissimo che da principio la lingua francese si pronunziava nel modo stesso che si scriveva, ossia la pronunzia delle sillabe nelle parole francesi corrispondeva al valore che avevano nell’alfabeto le lettere con cui esse parole si scrivevano. I versi che si trovano ancora de’ poeti provenzali, pronunziavansi indubitatamente in questo modo o con poca differenza, come ne fa fede la loro misura, le loro rime ec. che si perderebbero l’une e l’altra pronunziando quei versi altramente, o alla moderna. Ma le irruzioni e i commerci de’ settentrionali avendo cangiata la pronunzia francese, e diradata di vocali e inspessita di consonanti e resa più aspra, e così diversificatala dalla lingua provenzale, e poi col mezzo della francese, mutata eziandio la provenzale, (v. Perticari Apologia di Dante cap. 11. principio, p. 206. fine — 208. principio, e cap. 12. principio, p. 111 112. e ivi fine, p. 119. e Capo 16. fine, p. 158.) la lingua francese si allontanò sommamente dalla latina, sì per li nuovi vocaboli e forme che acquistò da popoli che non avevano mai parlato latino, sì per li suoni di cui vestì, e con cui pronunziò quegli stessi vocaboli tolti dal latino ch’ella aveva, e che tuttora conserva. Quindi per due ragioni la pronunzia francese dovette riuscir diversa dalla scrittura. Primo, per la sopraddetta, cioè perchè non avendovi scrittura nota, o almeno scrittura appartenente a lingua letterata e formata, fuori della latina, l’ortografia francese dovette pur prendere, come l’altre, per suo modello la latina, ed essendo già la pronunzia francese fatta diversissima dalla latina, e certo assai più diversa che non erano o non furono poi la spagnuola e l’italiana, perciò la scrittura francese dovette molto più differire dalla pronunzia, che non differiscono la spagnuola e l’italiana che presero e usarono lo stesso modello. Secondo: questa diversificazione e settentrionalizzazione di pronunzia, avendo avuto luogo, o acquistato forza ed estensione in Francia piuttosto tardi, e di più trovandosi che i poeti di cui la Provenza abbondò, scrivevano il provenzale, stato già tutt’uno col francese, ed allora tuttavia analogo, ma più latino, (v. Perticari l. c. p. 107. principio) lo scrivevano, dico, in modo simile ed analogo al latino; ed essendo così vero come naturale che i primi che scrissero qualche cosa in francese, riguardarono ai provenzali, e se li proposero per guide, come quelli ch’erano in quei tempi i più dotti forse della Francia, ed avevano contribuito a spargere in essa il gusto della poesia volgare e dello scrivere in volgare; da tutto questo ne seguì che la scrittura francese si accostò al latino, come ci si accostava e la scrittura [e] pronunzia provenzale; ci si accostò dico, nonostante che la pronunzia francese ogni dì più se ne scostasse, con che si venne anche a scostare dalla scrittura. Perciocchè veramente si può dire che la pronunzia francese da se, e movendosi essa, si allontanò e divise dalla scrittura, piuttosto che la scrittura dalla pronunzia. Benchè veramente sia debito de’ buoni e filosofi ortografi di far che la scrittura in qualunque modo tenga sempre dietro alla universale pronunzia, regolata, o riconosciuta per regolare; e non far che la scrittura stia ferma, e lasci andare questa tal pronunzia al suo viaggio, senza darsene alcun pensiero. Ma questi discorsi non si potevano nè fare nè seguire in quei primi e confusi tempi e ignoranti, nè dopo fatti, sono stati effettuabili, avendo preso piede l’usanza contraria in modo che non si potea più scacciare nè mutare; abbisognando ella di troppe e troppe grandi ed essenziali mutazioni, non di poche e lievi e quasi accidentali come ne abbisognò e ne ricevette l’usanza italiana.

Da tutte queste cagioni e andamenti n’è seguito questo curioso effetto: che la lingua francese scritta, è talora uguale, spessissimo somigliante alla latina, e quasi sempre riconoscibile per figlia di lei; ma la lingua francese pronunziata, ch’è pure in somma quanto dire la vera lingua francese, n’è tanto diversa, anzi dissimile, che appena si può riconoscere questa figliuolanza. E degli stessi vocaboli latini che i francesi conservano, e sono assaissimi, gran parte e forse la maggiore, pronunziati, riescon tali, che guardandoli nella sola pronunzia non s’indovinerebbe mai la loro origine, nè mai si piglierebbero per nati da tali o tali vocaboli latini; laddove questa origine si riconosce a prima vista leggendo quei vocaboli scritti. E veramente se la scrittura francese non fosse così diversa dalla pronunzia, io credo che oramai la notizia della più parte delle origini di questa lingua sì moderna, sarebbe perduta, o in preda delle dissertazioni delle congetture e delle favole. Mentre ella si conserva per solo benefizio della diversità e irregolarità anzi assurdità della scrittura, e in questa si conserva chiarissima e certissima e visibilissima, e tanto più visibile quanto la scritura più è diversa dalla pronunzia, perchè tanto più è simile al latino. Tanto si è mutata la lingua latina sulle bocche francesi per l’uso avuto co’ popoli settentrionali, e forse ancora in gran parte ancor prima, per la natura del clima stesso, oltre la origine settentrionale di molti de’ medesimi parlatori, cioè de’ Franchi di origine. Quantunque nè l’origine gotica e longobardica di molti italiani, nè la vandalica nè la moresca di tanti spagnuoli abbiano prodotto di gran lunga effetti simili e proporzionati a questi nelle lingue di questi due popoli.

Somiglianti cagioni dovettero certamente contribuire a fare che le scritture inglese e tedesca siano riuscite meno conformi alle pronunzie, e queste meno corrispondenti al valor delle lettere ne’ rispettivi alfabeti, e meno costanti nelle regole medesime loro (che hanno, almeno in francese, tante eccezioni e sotteccezioni) che non sono le scritture e pronunzie italiana e spagnuola. Perocchè l’alfabeto inglese è il latino, e il tedesco originariamente non è altro: laddove le loro lingue sono e originariamente e presentemente tutt’altre che la latina. Di più essendo pervenuta la letteratura e scrittura latina, e l’uso eziandio della medesima, anche dove non pervenne l’uso di questa loquela, come in Inghilterra e in Germania, anche i tedeschi e gl’inglesi regolarono primieramente o abbozzarono la loro ortografia e scrittura col solo o quasi solo esempio della latina avanti gli occhi. E dopo preso piede le prime regole o i primi abbozzi, non si è più in caso di distruggerli, e neppur si è sempre in caso di fare che il resto, sebbene ancor non sia fatto, o non abbia preso piede, non gli corrisponda; almeno non sempre si può riuscire ad impedirlo perfettamente, o a far che impeditolo, la macchina cammini bene e regolarmente, e senza imbarazzi e contrapposizioni e disturbi ec. disordini, effetti contraddittorii ec. (1. Luglio 1823.).

L’uomo si rassegna a soffrire passivamente, o a non godere, ma niuno si rassegna a faticare invano e senza niuna speranza, o a faticar molto per cose da nulla; niuno si rassegna a soffrire attivamente senz’alcun frutto. Quindi è che dall’abito della rassegnazione sempre nasce noncuranza, negligenza, indolenza, inattività, e finalmente pigrizia, e torpidezza, e insensibilità, e quasi immobilità. (2. Luglio. 1823.).

Dico altrove che l’uso di crear giudiziosamente e parcamente nuovi composti, fu mantenuto dagli autori latini, e massime da’ poeti, non solo fino alla intera formazione della lingua e della letteratura, ma nello stesso secolo d’oro della latinità, e nel tempo che immediatamente gli succedette. Di quest’uso parla Macrobio Saturn. VI. 5. mostrando che alcuni epiteti composti che si credevano fatti da Virgilio sono di fabbrica più antica. Segno qui alcuni composti latini de’ quali ch’io sappia non si trova esempio negli autori anteriori al secolo aureo. E saranno tutti composti di due nomi, l’uno sostantivo e l’altro addiettivo, o tutti e due sostantivi ec. o d’un nome e d’un verbo o participio o verbale, ec. che sono i composti più rari; lasciando stare i nomi o verbi ec. composti con preposizioni o particelle, de’ quali si potrebbero addurre al caso nostro esempi in troppa abbondanza. Alipes, aliger, armifer, armipotens, armisonus, aeripes, aerisonus, aerifer, aerifodina, aequaevus, aequidistans presso Frontino ed altri, algificus presso Gellio, aequilatatio presso Vitruvio, aequilateralis presso Censorino, aequilaterus presso Marziano Capella, aequilibris ec., aequinoctium, della qual voce vedi Festo appo il Forcellini in aequidiale, aequipedus ed aequipollens presso Apuleio; aequipondium presso Vitruvio, aequicrurius presso Marziano Capella, alticinctus, altitonans, altitonus, altivolus presso Plinio il vecchio, anguitenens, aegisonus, auricornus, aurifer, aurifex, aurifodina presso Plinio il vecchio, aurigena, auriger, auripigmentum presso Plinio e Vitruvio, auriscalpium presso Marziale e Scribonio, bijugus e bijugis (ma qui c’entra un avverbio) e altri tali composti con bis, equiferus ed equisetum presso Plinio il vecchio, fontigenae di Marziano, ignigena, ignipotens, ignipes, gemellipara, mellifer, mellificium, mellificus presso Columella, mellifico e melligenus presso Plinio il vecchio, nidifico presso il medesimo e Columella, nidificium presso Apuleio, nidificus presso Seneca tragico, noctifer e simili, nubifer, nubifugus di Columella, floriparus d’Ausonio, securifer, securiger, nubivagus presso Silio, nubigena (in proposito del quale è da notare che Macrobio nel citato luogo, che merita d’esser veduto, volendo provare come molti epiteti creduti fatti da Virgilio sono più antichi, recita quel dell’Eneide, 8. 293. Tu nubigenas, invicte, bimembres, e mostra che bimembris è di Cornificio, ma di nubigena non dice niente, sicchè pare che lo conceda per moderno, e veramente nel Forcellini non se ne trova esempio se non d’autori posteriori a Virgilio, il quale appresso il medesimo Forcell. in questa voce non è citato), penatiger d’Ovidio, solivagus presso il Forcellini, i cui esempi son tolti da Cicerone, e presso il medesimo Cic. de republ. 1. 25. p. 70. ed. Rom. 1822.; ed altri tali moltissimi. (2. Luglio 1823.).

Notate la radice monosillaba di caput For-ceps , secondo quello che ne ho congetturato altrove, e di tutti i suoi derivati, ancora in dein-ceps , della qual voce V. Forcellini . (2. Luglio. 1823.).

Che il v, presso gli antichi latini non sia stata che una specie d’aspirazione, e non una consonante, e che tale in verità sia la sua natura, di tener cioè dell’aspirazione, e di svanir sovente dalle voci secondo l’indole delle varie pronunzie. Dionigi d’Alicarnasso Archaeol. roman. l. i. c. 35. parlando dell’origine del nome Italia. Ἑλλάνικος δὲ ὁ λέσβιός φησιν Ἡρακλέα τὰς Γηρυόνου βοῦς ἀπελαύνοντα εἰς Ἄργος, ἐπειδή τις αὐτῷ δάμαλις ἀποσκιρτήσας τῆς ἀγέλης ἐν Ἰταλίᾳ ὄντι ἤδη φεύγων διῇρε τὴν ἀκτήν, καὶ τὸν ματαξὺ διανηξάμενος πόρον τῆς θαλάσσης εἰς Σικελίαν ἀφίκετο, ἐρόμενον ἀεὶ τοὺς ἐπιχωρίους καθ' οὓς ἑκάστοτε γένοιτο διώκων τὸν δάμαλιν, εἴ ποι τὶς αὐτὸν ἑωρακώς, τῶν τῇδε ἀνθρώπων ἑλλάδος μὲν γλώττης ὀλίγα συνιέντων, τῇ δὲ πατρίῳ φωνῇ κατὰ τὰς μηνύσεις τοῦ ζώου καλούντων τὸν δάμαλιν οὐΐτουλον, ὥσπερ καὶ νῦν λέγεται, ἀπὸ τοῦ ζώου τὴν χώραν ὀνομάσαι πᾶσαν, ὅσην ὁ δάμαλις διῆλθεν, Οὐϊταλίαν. Μεταπεσεῖν δὲ ἀνὰ χρόνον τὴν ὀνομασίαν εἰς τὸ νῦν σχῆμα, οὐδὲν θαυμαστόν. Ἐπεὶ καὶ τῶν ἑλληνικῶν πολλὰ τὸ παραπλήσιον πέπονθεν ὀνομάτων. Da bibo noi diciamo bevo, e beo tolta la lettera v, beve e bee, beendo, bere da bevere tolto il v, e contratto beere in bere ec. V. il Corticelli, e il Buommattei Trattato 12. c. 40. fine. Così da debeo devo e deo, devi e dei ec. V. i grammatici e l’uso volgare. Dal lat. pavo diciamo pavone e paone, paonessa, paoncino ec. Diciamo altresì pavonazzo e paonazzo. E in cento altre parole leviamo e inseriamo il v a nostro piacere, o ch’esso veramente, secondo l’etimologia appartenga loro, o che no, e talvolta l’inseriamo sempre e costantemente in voci a cui esso non appartiene, o lo passiamo pur sempre e costantemente sotto silenzio in quelle voci dov’esso dovrebb’essere ed era. E in questo particolare v’è frequentissima discordanza tra le pronunzie e dialetti delle provincie, città, individui d’Italia, tra gli antichi autori e i moderni, tra l’antico parlare e il moderno, tra il moderno parlare e lo scrivere ec. (2. Luglio. 1823.).

Traduzione del passo soprascritto di Dionigi d’Alicarnasso fatta da Pietro Giordani nella Lettera al Chiarissimo Abate Giambattista Canova sopra il Dionigi trovato dall’Abate Mai. Milano, per Giovanni Silvestri, 1817. p. 30-31. Ma Ellanico Lesbiese dice che Ercole menando ad Argo i buoi di Gerione, e già trovandosi in Italia, poichè un bue sbrancatosegli della greggia fuggendo corse tutta la spiaggia, e notando per lo stretto del mare in Sicilia arrivò; esso Ercole interrogando i paesani, dovunque nel correr dietro al bue passava, se alcuno lo avesse veduto; e quelli poco intendendo la favella greca, e per gl’indizi ch’Ercole ne dava chiamando essi quell’animale nella nativa lor lingua Vitulo (come anch’oggi si chiama): accadde che dal vocabolo di quella bestia, tutto il paese ch’ella corse fosse nominato Vitulia. (il greco dice ch’Ercole medesimo così nominollo, e dice Vitalia). Che poi il nome col tempo si mutasse nella presente forma, non è da maravigliare, quando molti de’ vocaboli greci cosiffatte mutazioni patirono. (2. Luglio 1823.).

È notabile come lo spagnuolo atar abbia conservato il proprio e primitivo significato di aptare cioè legare, significato che benchè proprio e primitivo, pur non è molto frequente negli autori latini, anzi un esempio che faccia veramente al caso non mi pare che sia se non quello d’Ammiano nel Forcell. v. aptatus. Ora Ammiano è pur di bassa latinità. Mostra che il volgo abbia sempre conservato il primo uso di questo verbo, più degli scrittori eleganti, che l’hanno piuttosto adoperato metaforicamente. Del resto se mai si potesse dubitare che il verbo aptare venisse da aptus, il cui proprio senso è legato ec. e che Festo dice essere participio di apo, lo spagnuolo atar che vale legare congiungere, finirebbe di mandare a terra qualunque dubbio. Il nostro attare, adattare, adapter ec. ha per proprio il significato metaforico ordinario di apto, adapto ec. V. nel Forcell. esempi di coaptare, coaptatio, coaptatus, (συνάπτειν) in senso di collegato ec. tutti di S. Agostino, il quale certo non pigliava questo buono e primitivo uso di tali parole da’ più antichi padri della scrittura latina, nè dagli scrittori aurei che non le usano, ma dal parlar del volgo, che tuttavia conservava quel significato, come ancora lo conserva in Ispagna. E così dite di Ammiano. E chi sa che aptare in questo senso, non sia l’origine di attaccare, attacher ec.? V. il Glossar. Cang. principalmente in attachiare , cioè vincire ec. Ma siccome questa voce si trova massimamente usata nelle scritture latino-barbare d’inglesi e scozzesi, così non voglio contrastare che la sua origine non possa probabilmente essere Teutonica ec. come si afferma nel medesimo Glossar. v. 2. Tasca . (3. Luglio 1823.). V. p. 2887.

Io provo presentemente un piacere, io vorrei che la condizione di tutta la mia vita, di tutta l’eternità, fosse uguale a quella in cui mi trovo in questo momento. Questo è ciò che nessun uomo dice mai nè può dire di buona fede, neppur per un solo momento, neppure nell’atto del maggior piacere possibile. Ora se egli in quel momento provasse in verità un piacer presente e perfetto (e se non è perfetto, non è piacere), egli dovrebbe naturalmente desiderare di provarlo sempre, perchè il fine dell’uomo è il piacere; e quindi desiderare che tutta la sua vita fosse tale qual è per lui quel momento, e di più desiderare di viver sempre, per sempre godere. Ma egli è certissimo che nessun uomo ha concepito nè formato mai questo desiderio nemmeno nel punto più felice della sua vita, e nemmeno durante quel solo punto: egli è certissimo che non ha concepito nè mai concepirà questo desiderio per un solo istante neppur l’uomo, qualunque sia, che fra tutti gli uomini ha provato o è per provare il massimo possibile piacere. E ciò perchè nemmeno in quel punto niuno mai si trovò pienamente soddisfatto, nè lasciò nè sospese punto il desiderio nè anche la speranza di un maggiore ed assai maggior piacere. Con che egli non venne in quel punto a provare un vero e presente piacere. Bensì dopo passato quel tal punto l’uomo spesse volte desidera che tutta la sua vita fosse conforme a quel punto, ed esprime questo desiderio con se stesso e cogli altri di buona fede. Ma egli ha il torto, perchè ottenendo il suo desiderio, lascerebbe di approvarlo ec. (3. Luglio 1823.).

Quanta barbarie avesse introdotto anche nell’ortografia italiana durante il quattrocento l’eccessivo modellarla sulla latina, onde, se si fosse perseverato in quella forma, anche noi scriveremmo diversissimamente da quel che pronunzieremmo, come si può credere che allora avvenisse, se pur la pedanteria di quei tempi, o piuttosto i pedanti, (perchè di tutti non è credibile) non pronunziavano come scrivevano; vedi alcuni esempi nelle Lezioni sulle doti di una colta favella dell’Ab. Colombo, Parma 1820. Lez. 3. p. 69. 70. e il Comento di Pico Mirandolano sopra la Canzone d’amore di Girolamo Benivieni con essa Canzone ec. Venez. 1522. dove si scrive sempre ad per a avanti consonante, anche seguendo il d, come ad dir (st. 1. della Canz. v. 6. a carte 41.); advenire ec. Durò questo pessimo uso anche nei principii del cinquecento. Nel citato libro si scrive tabola per tavola, egloge per egloghe, ec. ec. oltre philosopho, admirando, ad pena per appena ec. (3. Luglio 1823.).

Alla p. 2821. Altresì farebbe a questo proposito il verbo nicto is detto (se però mai fu detto, e v. il Forcellini ) per nicto as, (o nictor aris), il quale è verbo continuativo fatto dall’inusitato niveo, e dimostra sì l’antica esistenza di questo niveo ch’è anche dimostrata dal suo composto conniveo, sì il participio o supino di quello e di questo, che ora ne manca, il quale anche sarebbe dimostrato dal nome nictus us, secondo i ragionamenti da me fatti altrove, se però questa è voce vera, e se, e quando significa nictatio, e non nisus. Perocchè anche nisus pare ch’ella possa significare, secondo il Forcellini, e in questo senso ella servirebbe altresì a comprovare l’antico participio nictus di nitor eris, usato già in vece di nixus e di nisus; dal quale nictus di nitor nasce altresì il continuativo nictari, il quale io credo totalmente diverso da nicto di niveo, e non tutt’uno, come vuole il Forcellini ec. giacchè i due significati non hanno la menoma analogia, e d’altra parte l’origine dell’uno e dell’altro verbo è pianissima, perchè se v’è conniveo dovette esservi niveo, e facendosi da conniveo connixi, deve farsi nel supino, connictum, come da dixi, dictum, e quindi da niveo, nictum, e quindi nictare: e quanto a nictor di nitor il Forc. medesimo non la mette in dubbio. Anzi io credo che nicto as sia di niveo solamente, e nictor aris solamente e propriamente di nitor, benchè in due luoghi di Plinio trovisi nictari per connivere ec. il che potrebb’essere fallo degli scrivani (e infatti in un di quei luoghi v’è chi legga nictare), e fallo eziandio dello stesso Plinio che confondesse l’uno coll’altro verbo, essendo ambedue antichi e poco al suo tempo usati: nel qual proposito vedi quello che dicono il Perticari nel Trattato degli Scrittori del 300, e Giordani nella Lettera a Monti, vol. 1. par. 2. della Proposta, sopra la voce fastus ec. Del resto da nixus di nitor (che forse non è differente da nictus per niuna ragione grammaticale, ma per sola diversità di pronunzia) si fa altresì il suo continuativo cioè nixor aris [a]

Veggasi la p. 2929.

[Chiudi]. (3. Luglio 1823.).

Alla p. 2883. Se ad alcuno non paressero sufficienti le testimonianze che si hanno dell’esistenza dell’antico verbo apo, consideri che sì la forma estrinseca, sì la significazione vera e propria, e il primitivo uso di aptus, sono al tutto di participio. E se aptus è participio, dovrà esser participio di apo o d’altro tal verbo, quale ch’essi vogliano, dal qual verbo dovrà esser venuto ἅπτειν e aptare. Se non vogliono che aptus sia participio, sarà pur sempre incontrastabile che apto sia stato fatto da aptus. E se questo è, dunque ἅπτειν ch’è lo stesso che apto, sarà pur venuto da aptus, o se non altro da una radice simile a questa, la quale sarà stata nella lingua madre della greca e della latina, e conservatasi nella latina, cioè nell’aggettivo aptus, si sarà perduta nella greca. Che aptus venga da ἅπτειν, o da ἅπτεσθαι come vuol Servio, un aggettivo da un verbo, è fuor d’ogni verisimiglianza, perchè è contrario ad ogni usata norma di derivazione, sì per la forma materiale comparata dei detti verbi, e del detto aggettivo, sì per la ragione grammaticale, analogia, ec. che in tal derivazione, niuna si troverebbe. Che poi aptus venga da aptare, (come Perticari credeva che arso venisse da arsare: vedi p. 2688.) sarà anche meno verisimile a quelli che avranno ben considerata la nostra teoria della formazione de’ verbi in tare da’ participii in tus, dichiarata ed esposta e provata con tanti esempi. A tutti i quali parrà molto più probabile che aptare sia un continuativo fatto da un participio in tus ec. che non può esser se non aptus, (il quale, come ho detto, ha tutto quanto del participio) e questo da apo ec. Che aptus sia sincope di aptatus, il qual participio esiste, ed è ben diverso da aptus, è così credibile come che jactus di jacio sia sincope di jactatus participio di jactare, e altri tali spropositi, molti de’ quali sono stati detti e creduti per non aver posto mente alla formazione de’ verbi ec. che noi illustriamo. (4. Luglio. 1823.).

Da ἕζω, Dor. etc. ἕδω, o da ἕζομαι, futuro ἑδοῦμαι, sedeo, e così da ἕδος εος o da ἕδρα ας sedes e simili. Da ἄλσος saltus. (4. Luglio 1823.).

A quello che altrove ho detto circa la formazione dei verbi in uo o in uor dai nomi verbali, o qualunque, della quarta declinazione, o dai nomi della seconda desinenti in uus, e circa i nomi in uosus fatti da simili radici, e agli avverbi ec. aggiungi praesumptuosus, praesumptuose; presuntuoso, presontuoso, prosuntuoso, prosontuoso, presuntuosamente, presuntuosità ec.; presumptuoso ec. spagnuolo, da sumptus us. Mutuor aris da mutuus. A quel che in questo proposito ho detto di monstruosus, mostruoso ec. aggiungi che gli spagnuoli in verità dicono monstruo non monstro, onde ben si deduce, non monstrosus, ma monstruosus. Quaestuosus da quaestus us. Ructuo, ructuosus da ructus us. Eructuo v. Forcell. in Eructo fin. Evacuo da vacuus, e così vacuo as. (4. Luglio. 1823.). V. p. 3263.

Dico altrove delle sillabe latine che non sono dittonghi, e pur sono composte di più vocali. Tra queste è notabile la seconda sillaba di eheu, la qual voce non è trisillaba, ma dissillaba, benchè composta di tre vocali, e benchè eu non si conti fra’ dittonghi latini. Ed è dissillaba non per licenza o figura poetica, ma per regola, e trisillaba non potrebb’essere o non senza licenza. Così dite di hei, heu, euge, eugepae, euganeus ec. ec. Eburneus-eburnus. (4. Luglio. 1823.).

Non è fuor di ragione nè arbitrario e gratuito quello ch’io dico circa la formazione dei continuativi da’ participii in atus, che mutano l’a in i ec. Perocchè questa mutazione è ordinarissima e solenne nelle derivazioni e composizioni della lingua latina. Onde da capio, frango, tango, sapio, facio, iacio, taceo ec. ec. si fa in composizione cipio, fringo ec. cioè p. e. accipio, effringo, attingo, insipiens, resipio, desipio, afficio, adjicio, conticesco, reticeo ec. e così nelle derivazioni ec. Anche la e si muta in i: p. e. da teneo, sedeo, specio, rego, lego ec. contineo, insideo, aspicio, corrigo, colligo ec. (5. Luglio. 1823.). Puoi vedere la p. 2843.

Ho detto altrove che presso Omero il nome ἧμαρ serve a una perifrasi, come βία, in modo che per se stesso non vuol dir nulla, ma significa quello che occorre unitamente al nome col quale è congiunto; p. e. νόστιμον ἧμαρ, il dì del ritorno, vuol dire il ritorno e non altro. Più esempi di quest’uso d’Omero vedili nell’Index vocabulorum Homeri del Sebero, in ἧμαρ αἴσιμον. (5. Luglio 1823.). V. p. 2995,2.

Alla p. 2864. marg. È indubitato, secondo me, che quest’uso nacque dall’altra pessima usanza, introdotta nel latino fin dai primissimi tempi dell’impero, di dar del voi alle persone singolari. Onde è probabile che allora, o poco dipoi, o certo nel volgar latino quando che sia, s’introducesse questo costume di aggiungere l’aggettivo altri al voi e al noi (giacchè il noi anche negli ottimi tempi in latino e in greco, si usava in senso singolare) quando questi pronomi avevano ad aver senso plurale, per distinguerli da quando avevano ad averlo singolare. E così introdotto quest’uso nel volgar latino, passò in tutte tre le lingue figlie. E con ragione; perchè in esse ancora si manteneva e si mantiene quell’altra pessima usanza che, secondo me, lo produsse. Stante la quale, l’uso di questo idiotismo è quasi necessario per evitar mille equivoci e dubbi sì nello scrivere, sì nel parlare, quando molte persone sono presenti, o quando nello scrivere si suppongono ec.: (come si vede tutto dì per esperienza; massime nello scrivere, dove per iscrupolo di esser troppo familiare, e perchè non si sa più la lingua, ec. ormai generalmente si tralascia questo idiotismo). Infatti noi nel parlar familiare non lo abbandoniamo quasi mai, nè gli spagnuoli lo possono abbandonare. Ma anche gli spagnuoli tacciono l’ otros se parlano a persona singolare, o di se stessi singolarmente, ne’ quali casi dicono vos e nos. Lo tacciono ancora quando il vos e il nos fa ufficio delle nostre particelle o pronomi ci e vi, come nous e vous in francese. Del resto in nessuna delle tre lingue si direbbe voi altri o noi altri in senso singolare. È notabile che l’uso di nos in senso singolare, fu più proprio delle lingue antiche che delle moderne, nelle quali anzi, quanto al parlare o allo scrivere familiare, a cui solo spetta il noi altri, esso uso è intieramente abolito. Vedendosi dunque che pur tutte tre queste lingue usano familiarmente questo idiotismo di noi altri senza abbisognarne punto per distinzione, confermasi ch’esso idiotismo derivi dalla lingua latina, la quale ne avea bisogno per distinguere il nos plurale dal nos singolare. (5. Luglio 1823.). Altri è qui ridondante, come ἄλλος in greco ec. del che spesso altrove.

A proposito del vario significato e del figurato uso de’ tempi dell’ottativo in latino, dello scambio d’essi tempi tra loro, e con quelli d’altri modi, ec. vedi Orazio epist. i . l. 2. v. 3. 4. dove peccem, morer stanno per peccarem, morarer. (5. Luglio 1823.)[a]

Così Virg. Geor. 4. 116-7.

[Chiudi].

Circa quello che altrove ho detto de’ participii quaesitus e quaeritus e del verbo quaeritare ec. I francesi hanno querir da quaerere, e quêter, anticamente quester, da quaesitus di quaesere, onde noi chiesto, e gli spagnuoli quisto. Chéri è il querido degli spagnuoli da quaeritus di quaerere. E chérir è lo stesso querer spagnuolo nel significato, che questo pure ha, di voler bene. Il nostro cherere è il quaerere latino, in significato però di volere, come lo spagnuolo querer, e anche di domandare, come il nostro chiedere ch’è il latino quaerere (v. p. 2995.), siccome il suo participio chiesto è il latino quaesitus, per sincope quaestus. Malquerer, malquerido, malquisto, cioè volere e voluto male. Chesta, inchesta, richesta sust. , per chiesta ec. richedere richesto; inchierere richierere cioè inquirere requirere; ec. acchiedere quasi acquaerere per acquirere, con altro senso. Acquérir e conquérir francesi, adquirir spagnuolo sono i latini acquirere e conquirere. Acquêter, anticamente acquester, e l’antico conquêter o conquester francesi, lo spagnuolo conquistar, e l’italiano acquistare e conquistare sono continuativi fatti da acquisitus e conquisitus, detratta la seconda i. (V. il Glossario se ha nulla in tutte queste e simili voci). (5. Luglio 1823.).

Questa detrazione fatta, come si vede, in tante voci o derivate o composte da quaesitus, o che non sono altra voce se non questa medesima, conferma la mia opinione che da situs particip. di sum si facesse stare, detratta la i come appunto da conquisitus conquistare, e così da quaesitus quisto e chiesto ec. Così da positus, postus repostus ec. ec. E della soppressione della i in moltissimi participii latini come docitus-doctus, legitus-legtus-lectus ec. soppressione divenuta, fino ab antico, comune, anzi universale, vedi ciò che dico altrove. La qual detrazione non è solamente propria delle lingue moderne (dico circa questo vocabolo quaesitus appunto), giacchè la stessa lingua latina ne fa uso nella voce quaestus us, la quale, come altrove ho dato per regola circa tali verbali, è formata appunto da quaesitus, e dovrebbe regolarmente dire quaesitus us, la qual voce ancora si trova effettivamente. Siccome vi sono le voci quaesitio, quaesitor, quaesitura, di cui sono contrazione quaestio, quaestor, quaestura, voci fatte da quelle per detrazione della i, come per tal detrazione sono fatte quaestorius, quaestuosus ec. benchè non si trovi quaesitorius, quaesituosus ec. E vedi a questo proposito le p. 2932. e 2991-2. 3032. segg.

Del resto il nostro antico suto è lo stesso che lo spagnuolo sido, e che il latino situs da me supposto: è lo stesso, dico, considerato il solito scambio e la solita affinità fra la lettera u e l’i, del che ho detto più volte, e fra l’altre p. 2824-5. principio (e se n’ha appunto un esempio nella voce quaesumus di quaesere, detta per quaesimus. V. Forcellini .). Stante il quale scambio e affinità si può credere o che gli antichi latini dicessero così sutus come situs (maxumus e maximus, lubens e libens), o prima l’una di queste, e poi col tempo l’altra, o che l’italiano antico mutasse la pronunzia latina facendo suto da situs, o viceversa lo spagnuolo facendo sido da sutus, giacchè questo scambio tra u ed i ebbe luogo frequentemente anche nei principii delle moderne lingue (v. Perticari Apolog. di Dante c. 16. verso il fine p. 156.) siccome lo ha tutto dì. (5. Luglio 1823.). V. p. 3027.

Quanto sia facile l’imparare a parlare, quanto poco tempo debba esser corso innanzi che il genere umano arrivasse primieramente ad accorgersi di avere organi capaci di formare e articolare vari suoni, poi ad imparar di formare e articolar tali suoni, e finalmente a crear col loro diverso accozzamento una serie di voci di convenuta significazione, che fosse bastante a potersi scambievolmente communicare i proprii sensi, e più ancora innanzi che il genere umano arrivasse a portar questa serie al punto di poter essere chiamata lingua e di servire a tutti i bisogni dell’espressione; si consideri nel muto. Il quale, convivendo pur tutto giorno con uomini i quali parlano, ed usano una lingua già perfetta, non arriva mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima delle sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avere organi capaci di suoni articolati: giacchè seppure egli manda fuori alcun suono di voce, questo è meno articolato e meno vario che non sono le voci delle bestie. Ora io torno in campo colla mia solita domanda. È egli possibile che se la natura aveva espressamente destinato l’uomo a parlare, se, come dice Dante, opera naturale è ch’uom favella, essa natura lasciasse tanto da fare all’uomo per arrivare ad eseguire quest’opera naturale, e debita alla sua essenza, e propria di essa, quest’opera senza la quale egli non avrebbe mai corrisposto alla sua natura particolare, nè all’intenzione della natura in generale, e condannasse espressamente tanta moltitudine e tante generazioni d’uomini, quante dovettero passare prima che fosse trovata una lingua, altre a non sapere nè potere in alcun modo fare, altre a non poter fare se non se imperfettissimamente, quello che l’uomo doveva pur sapere e potere compiutamente fare per sua propria natura? E poichè l’uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai del suo stato primitivo purissimo, e la lingua è il principale e più necessario istrumento col quale egli ha operato ed opera quello che si chiama suo perfezionamento; e se d’altronde tanto è per ciascuna cosa il ben essere, quanto l’esser perfetta, nè si dà per veruna specie di enti felicità veruna senza la perfezione conveniente ad essa specie; è egli possibile che se questa che si chiama perfezione dell’uomo, fosse veramente tale, e destinatagli dalla natura, essa natura nel formar l’uomo l’avesse posto così mirabilmente lontano dalla perfezione da lei voluta e destinatagli, ed a lui necessaria, che egli non avesse ancora nè potesse avere nemmeno una prima idea dell’istrumento, col quale dopo lunghissimi travagli, e lunghissimo corso di generazioni e di secoli, la sua specie sarebbe finalmente arrivata a conseguire alcuna parte di questa perfezione?

Certo se questo è vero, perchè diciamo noi che l’uomo è per natura il più perfetto degli esseri terrestri? Lasciamo stare che la perfezione è sempre relativa a quella tale specie in che ella si considera. Ma paragonando pur l’uomo colle altre specie di questo mondo, se la sua perfezione è quella che altri dice, come non si dovrà sostenere che l’uomo è per natura la più imperfetta di tutte le cose? Perocchè tutte le altre cose hanno da natura la perfezione che loro si conviene, e però sono tutte naturalmente così perfette, come debbono essere, che è quanto dire perfettissime. Solo l’uomo, secondo il presupposto che abbiamo fatto, è per natura così lontano dallo stato che gli conviene, che più, quasi, non potrebb’essere, e quindi laddove tutte l’altre cose sono in natura perfettissime, l’uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie umana lungi da esser la prima in natura, è anzi l’ultima di tutte le specie conosciute.

Questa conseguenza deriva dal supposto principio: ma come il principio è falso, così essa non è vera; e questa proposizione considerata ancora in se sola, si riconosce agevolmente per falsissima. Poichè relativamente all’ordine delle cose terrestri, l’uomo come l’essere più di tutti conformabile, è il più perfetto di tutti.

Se però nel detto ordine delle cose terrestri, considerando la perfezione di ciascheduna specie in modo comparativo, cioè relativamente l’una all’altra, non vogliamo immaginare una doppia scala, ovvero una scala parte ascendente e parte discendente. E nella estremità inferiore della prima, porre gli esseri affatto o più di tutti gli altri inorganizzati. Indi salendo fino alla sommità, porre gli esseri più organizzati, fino a quelli che tengono il mezzo della organizzazione, della sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il sommo grado della scala, cioè della perfezione comparativamente considerata, come quelli che forse sono per natura i più disposti a conseguire la propria particolare e relativa felicità, e conservarla. Da questi in poi sempre discendendo giù giù per gli esseri più organizzati sensibili e conformabili, porre nell’ultimo e più basso grado dell’altra parte della scala l’uomo, come il più organizzato, sensibile, e conformabile degli esseri terrestri.

Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o ripiegando così la scala, troveremmo che l’uomo è veramente nella estremità non della perfezione (come ci parrebbe se facessimo una scala sola o semplice e retta), ma della imperfezione; e in una estremità più bassa ancora di quella che è dall’altra parte della scala. Perocchè dalla comparativa imperfezione degli esseri posti in quel grado, non ne segue ai medesimi alcuna infelicità laddove all’uomo grandissima.

E veramente io così penso. L’uomo non è per natura infelice. La natura non ha posto in lui nessuna qualità che lo renda tale per se medesima, nessuna che tal qual è naturalmente, si opponga da niuna parte al suo ben essere; e però la natura direttamente non ha prodotto l’uomo nè infelice, nè tale ch’ei debba necessariamente divenirlo. Perocchè l’uomo potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro, come gli altri esseri si conservano nel loro, e conservandocisi, sarebbe così felice, o così non infelice, come gli altri esseri sono felici o non sono infelici durando nel naturale stato. Sicchè la natura in ordine all’uomo non ha violato per niun conto nè trapassato le sue universali leggi, che ciascuno essere abbia nella sua propria essenza immediatamente quanto abbisogna alla felicità che gli conviene, e nulla che per se lo sforzi alla infelicità. Ma l’eccessiva, o diciamo meglio, la suprema conformabilità e organizzazione dell’uomo, che lo rende il più mutabile e quindi il più corruttibile di tutti gli esseri terrestri, lo rende eziandio per conseguenza il più infelicitabile, benchè non lo renda per se stessa e naturalmente infelice, cioè lo rende il più disposto a potersi, e più d’ogni altro essere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria perfezione, e quindi dalla sua felicità; perch’essa stessa conformabilità umana è più d’ogni altra disposta e facile a poter perdere il suo primitivo stato, uso, operazioni, applicazioni e simili. Talchè difficilmente l’uomo si conserva in effetto nel suo naturale e primitivo stato, e però difficilmente si salva in fatti dalla infelicità. Stante le quali considerazioni, e stante appunto la somma conformabilità e organizzazione dell’uomo, metafisicamente considerata in ordine alla vera e metafisica perfezione, diremo che l’uomo è il più imperfetto degli esseri terrestri, anche per natura, in quanto però solamente ella è naturale in lui una disposizione maggiore che in qualunqu’altro essere a perdere il suo stato e la sua perfezione naturale. Niuna imperfezione, neppure in ordine all’uomo, si può trovare propriamente nella natura; l’uomo non è imperfetto nè in natura, nè per natura; anzi se volete, in natura e per natura egli è il più perfetto degli esseri; ma in natura e per natura egli è più di tutti disposto a divenire imperfetto; e ciò per ragione appunto della somma sua perfezione naturale; come quelle macchine o quei lavorii compitissimi e perfettissimi, che per esser tali, sono minutamente lavorati, e quindi delicatissimi, e per la somma delicatezza più facilmente degli altri si guastano, e perdono l’essere e l’uso loro.

Ma ad essi si trovano forse artefici che possono ripararli, a noi guasti e snaturati una volta, non si trova mano che ci riponga nel primo stato, (nè da noi medesimi siamo atti a farlo). Poichè nè la natura ci ripiglia in mano per riformarci, come l’artefice il suo lavoro sconciato, nè altra potenza v’ha che ci possa restaurare come un nuovo artefice il lavoro altrui. (6. Luglio. 1823.).

Alla p. 2815. marg. Auspico e suspico v. p. 3686. da specio, sono come aedifico, vivifico, sacrifico, amplifico, gratifico, velifico, significo, vocifico (s’è vero), magnifico, mellifico, e tali altri non pochi, da facio [a]

Veggasi la p. 2998. e 3007.

[Chiudi], i quali hanno la forma e la coniugazione mutata dalla loro origine o per esser fatti da nomi, come p. e. aedificium, sacrificium, magnificus, amplificus, ch’è di Frontone, vivificus, ec. o per accidente e virtù della composizione, quando anche sieno fatti direttamente dal verbo originale facio. E notate che i composti di questo verbo fatti con preposizione o particella, non hanno questa forma, ma solo quelli fatti con nomi ec. Lucrificare-Lucrifacere. Benefacere Beneficare italiano. Ludifacere-Ludificare. A ogni modo siccome questi tali verbi, se ben li guardi, hanno per lo più un significato continuativo, giacchè altro e meno è p. e. mel facere, altro e più mellificare, si potrebbe forse credere che la loro inflessione in are mutata da quella della terza coniugazione non fosse a caso nè senza ragione, e che essi appartenessero alla categoria di verbi della quale al presente discorriamo, cioè di continuativi appartenenti alla prima coniugazione ma non formati da’ participii, e diversi da quelli che ne sono formati, come nel caso nostro, da facio facto, labefacto ec. da specio specto, suspecto (a cui appartiene suspectio ch’equivale a suspicio e da cui il nostro sospettare e lo spagn. sospechar (come pecho da pectus) che vagliono suspicari. Soupçonner è quasi suspicionare, da soupçon, suspicio onis) ec. Suspico potrebbe anche esser fatto da suspicio is, il qual verbo trovasi appo Sallustio in senso di sospettare, ed al quale appartiene il participio suspectus che vale per lo più sospetto aggett. E forse in questo senso si disse anche suspicior eris, onde poi suspicor, giacchè trovasi suspectus per sospettoso, (così anche in ital. sospetto) e Apuleio l’adopra espressamente coll’accusativo, come participio d’un verbo deponente, in vece di suspicatus. Ma vedi la pag. 2841-2. (7. Luglio. 1823.).

Alla p. 2809. Nelle nostre Opere serie e buffe l’effetto del coro non è cattivo. Ma esso nelle opere serie è ben lontano dal far quegli uffici, dal sostener quel personaggio, e quindi dal muovere quelle illusioni e far quegli effetti che faceva nelle tragedie antiche: ond’è ch’esso riesce forse meglio nelle opere buffe, quanto all’effetto morale, giacchè muove pure all’allegria, e fa come l’uffizio, così l’effetto che produceva nelle antiche commedie, nè il muovere all’allegria, ch’è pure una passione, è piccolo effetto morale. Laddove nelle opere serie esso non interessa quasi che gli occhi e gli orecchi, e niuna passione ancorchè menoma nè desta nè pur tocca. Ma questo è pur troppo il general difetto di tutta l’Opera, e massime della seria, e nasce dal far totalmente servir le parole allo spettacolo e alla musica, e dalla confessata nullità d’esse parole, dalla qual necessariamente deriva la nullità de’ personaggi, e così del coro, e quindi la mancanza d’effetto morale, ossia di passione; se non altro la molta scarsezza, rarità, languidezza, e poca durevolezza dell’uno e dell’altra.

Del resto i pochi moderni che hanno introdotto il coro ne’ loro drammi regolari, come Racine nell’Ester, non avendogli dato le condizioni ch’esso avea negli antichi, niuno o quasi niuno effetto hanno prodotto. Ed anche la natura d’essi drammi sì moralmente parlando, e sì anche materialmente (poichè la scena si finge per lo più in luogo coperto e chiuso, con altre tali circostanze che restringono, e impiccoliscono, e circoscrivono, e depoetizzano le idee), non era adattata nè al coro degli antichi nè a’ suoi effetti. Parlo anche delle commedie, le quali presso gli antichi si supponevano per lo più, o la più parte di ciascuna, in piazza, o ne’ porti, come il Rudens di Plauto, o in somma all’aperto ec. V. p. 2999. (7. Luglio. 1823.).

In tutte le lingue tanto gran parte dello stile appartiene ad essa lingua, che in veruno scrittore l’uno senza l’altra non si può considerare. La magnificenza, la forza, la nobiltà, l’eleganza, la semplicità, la naturalezza, la grazia, la varietà, tutte o quasi tutte le qualità dello stile, sono così legate alle corrispondenti qualità della lingua, che nel considerarle in qualsivoglia scrittura è ben difficile il conoscere e distinguere e determinare quanta e qual parte di esse (e così delle qualità contrarie) sia propria del solo stile, e quanta e quale della sola lingua; o vogliamo piuttosto dire, quanta e qual parte spetti e derivi dai soli sentimenti, e quanta e quale dalle sole parole; giacchè rigorosamente parlando, l’idea dello stile abbraccia così quello che spetta ai sentimenti come ciò che appartiene ai vocaboli. Ma tanta è la forza e l’autorità delle voci nello stile, che mutate quelle, o le loro forme, il loro ordine ec. tutte o ciascuna delle predette qualità si mutano, o si perdono, e lo stile di qualsivoglia autore o scritto, cangia natura in modo che più non è quello nè si riconosce. Veggasi la p. 3397-9.

Tutto ciò accade in tutte le lingue, fuorchè nella francese. Chè veramente nella lingua francese lo stile è formato quasi tutto dai sentimenti, e dalle figure che appartengono alle sentenze. E la diversità degli stili, e quella delle qualità di uno stile, non si può considerare in essa lingua se non quanto ai sentimenti, e non appartiene, non dipende, non nasce se non da questi. Perocchè, se ben si osserva, quanto alle parole, e a tutto ciò che loro appartiene, tutti gli stili de’ francesi, sì di diversi autori e scritture, sì di una stessa scrittura o scrittore in diversissime materie, sono poco men che conformi.

E non è maraviglia; perocchè dov’è pochissimo luogo alla scelta delle parole e dell’ordine e composizioni loro, quivi pochissima potrà essere la differenza o tra gli stili di vari autori o di varie opere, o tra le qualità di un medesimo stile in diverse materie e occasioni, per ciò che spetta alle parole. Le quali non potendosi scegliere, non possono essere qua eleganti, qua nobili, qua efficaci, qua graziose, ma sempre tali, o non mai. Nè potendosi scegliere gli ordini e collocamenti delle medesime, non può nascere dalla composizion de’ vocaboli ora una qualità di stile ed ora un’altra, ma sempre una, perchè sempre una e niente variabile è ella medesima. Dico dalla composizion de’ vocaboli considerata in se, non in quanto ai sentimenti ch’esprimono, perchè in quanto a questa parte, la lingua francese è capace di ricever varietà di stile dalla composizione delle parole, ma ben guardando, si sente che questa varietà non deriva punto dalla composizione stessa in se, ma dalle sentenze e figure loro.

Onde si può dire che la lingua francese non avendo appresso a poco che uno stile, lo scrittor francese, quanto alla lingua, non ha mai stile proprio, e che per quanto appartiene alle parole, lo stile di qualsivoglia scrittor francese non è suo, ma della lingua. E così lo stile di qualsivoglia genere di scrittura non è d’esso genere ma della lingua universale; e lo stile della poesia francese non è della poesia ma della lingua, e lo stile della prosa è quel della lingua, è quello della conversazione, non è neppur proprio della prosa più che della poesia, anzi vedi in proposito la p. 3429.

Il che si può parimente dire della lingua ebraica, nella quale altresì, quanto alle parole, non era luogo alla scelta, benchè, quanto alle composizioni delle medesime, forse v’avesse luogo un poco più che nella francese, essendo ella tutta indigesta e informe, e quindi tutta poetica.

Effettivamente la differenza degli stili e delle qualità di un medesimo stile, quanto alla lingua, è così minuta e così scarsa in francese, che un forestiere il quale benissimo la distinguerà negli scrittori greci e latini, che sono lingue morte, difficilmente, anzi appena, secondo me, la distinguerà e sentirà mai negli scrittori francesi. Nè potrà mai ben dire, questo scrittore o questo passo è elegante, questo dignitoso e magnifico, questo energico, questo grazioso quanto alle parole, e questo no. Onde nasce che anche generalmente parlando, la differenza dello stile, cioè del modo di esprimere i concetti, chè questo è ciò che si chiama stile, è poco sensibile al forestiere nella lingua francese; certo assai meno sensibile che nelle altre. Difficilissimo è ancora al forestiero il sentir la differenza degli stili (inquanto propriamente stili) francesi di diversi tempi (dico dal secolo di Luigi in poi), o comparando uno scrittor d’un secolo a uno di un altro, o generalmente lo stile di un secolo a quel di un altro. Ho detto dal secolo di Luigi, e intendo di quelli che in quel secolo scrissero bene, e che s’hanno ancora per buoni, e inquanto s’hanno per tali (come Corneille), nella lingua ec. Tanto più che nella espressione de’ concetti, anche in quella parte dello stile che spetta alle sentenze, il modo degli scrittori francesi è più vario bensì che nella parte delle parole, ma infinitamente meno vario che negli scrittori delle altre lingue, sì per rispetto dell’uno scrittore e dell’un secolo all’altro, o dell’una opera e dell’un genere di scrittura all’altra opera e all’altro genere, sì per rispetto alle varie parti di una stessa opera o genere, e alle varie gradazioni e qualità di un medesimo stile. E basti dire in prova, che la lingua francese, non solamente non ha linguaggio, ma neppur quasi stile poetico veramente.

In simil modo nella lingua ebraica, non si sente se non poca differenza di stili, o di qualità di un medesimo stile. Il che si attribuisce alla lontananza de’ tempi e de’ nostri gusti e costumi, quasi l’uniformità dello stile ebraico non fosse vera, se non relativamente. Ma io la credo assolutamente vera, e l’attribuisco alle dette ragioni, nè credo che lo scrittore ebraico potesse avere stile proprio, nè veruna materia stile proprio, ma tutti e due un solo, quanto alla lingua, per la povertà di questa[a]

Non solo gli scrittori ebraici o le varie materie in lingua ebraica, ma neppur essa lingua ha uno stile, cioè un modo determinato, come l’ha bene, anzi troppo determinato, la francese: perocchè la lingua ebraica è troppo informe per avere uno stile proprio; e precisamente ella è l’estremo contrario della francese quanto all’informità. V. la p. 2853. margine. V. p. 3564.

[Chiudi] ed eziandio quanto al modo e alla parte dello stile che spetta alle sentenze, per la niuna arte degli scrittori, e perchè la lingua li serrava e circoscriveva anche in questa parte. Come appunto anche in Francia fa la medesima lingua, e l’impero assoluto dell’usanza il qual si esercita colà sullo stile come su d’ogni altra cosa. Del resto come la lingua francese non ha che linguaggio e stile prosaico e manca del poetico, così l’ebraico non ha che il poetico e manca del prosaico. E ciò perchè quella è lingua definitamente ed essenzialmente moderna, questa fu essenzialmente e moralmente antica e quasi primitiva.

È notabile come da contrarie cause nascano uguali effetti. La lingua ebraica non ammette varietà nello stile per esser troppo antica, la lingua francese nemmeno, per esser troppo moderna; quella per eccesso d’imperfezione e per povertà che nasce dall’antichità, questa per eccesso di perfezione e per povertà che nasce dall’essere squisitamente moderna, sì di tempo come d’indole. Nell’una e nell’altra le parole poco vagliono, le sentenze tutto, lo stile si riduce ai nudi concetti (cosa che non ha luogo in verun’altra lingua letterata). Ma ciò nella ebraica perchè le parole non hanno ancor preso vigore, nella francese perchè l’hanno perduto; in quella perchè i concetti non hanno ancora onde farsi un corpo, in questa perchè l’hanno deposto, in quella perchè la materia è ancora scarsa a vestir lo spirito, in questa perchè lo spirito ha consumato la materia, è ricomparso nudo del corpo di cui s’era vestito, ha prevaluto alla materia, e tutta l’esistenza è spiritualizzata, nè si vede o si tocca oramai, o certo non si vuole nè vedere nè toccare quasi altro che spirito. Ambedue le lingue dànno nel metafisico, e, si può dire, nell’incorporeo per due cagioni e principii direttamente opposti, come il fanciullo per eccessiva semplicità è talvolta così sottile nelle sue quistioni, come il filosofo per grande dottrina e sapienza e sagacità. (7. Luglio. 1823.). V. la p. seguente.

Alla p. 2853. marg. Veramente la pretesa forza d’imitazione che ha la lingua tedesca, non potrebbe perfettamente realizzarsi che sopra una lingua come l’ebraica. Perocchè una lingua informe come questa, può sola esser bene imitata, anzi contraffatta, copiata e trasportata tutta intera in una lingua informe come è necessario che sia la lingua tedesca se ha la detta forza e facoltà che se le attribuisce. E viceversa solo una lingua informe, come questa, sarebbe atta a contraffare senza far violenza a se stessa e perfettamente, una lingua informe come l’ebraica, o come una lingua selvaggia; il che non è possibile alle lingue formate, nè fu possibile in greco e in latino contraffar nelle traduzioni letterali la lingua ebraica, senza violentare e snaturare affatto il greco e il latino, come fu fatto, e come accade altresì nelle lingue moderne che hanno (se alcuna ne ha) traduzioni letterali della scrittura, fatte o sull’ebraico, o sul letterale greco o latino o d’altra lingua moderna. (7. Luglio. 1823.).

Alla pagina antecedente. Questa spiritualizzazione della società essendo oggidì universale, è altresì universale l’effetto che ho detto esserne seguìto nella lingua francese, cioè che lo stile degli scrittori moderni di qualsivoglia lingua non differisca oramai se non se ne’ sentimenti, e consista tutto nelle cose. E in verità quanto allo stile propriamente detto, v’è minor divario oggidì fra due scrittori di due lingue disparatissime e in diversissime materie, che non v’era anticamente fra due scrittori contemporanei, compatriotti, d’una stessa lingua e materia. (Pongasi per esempio Platone e Senofonte). Lascio poi quanta poca varietà di stile si possa trovare in uno stesso scrittore. Gli stili de’ moderni non si diversificano se non per le sentenze. Anzi tutti gli scrittori e tutte le opere escono, quanto allo stile, da una stessa scuola, vestono d’uno stesso panno, anzi hanno una sola fisonomia, una sola attitudine, gli stessi gesti e movimenti, le stesse fattezze e circostanze esteriori: solo si distinguono l’une dall’altre perchè dicono diverse cose, benchè collo stesso tuono e modo di recitazione. Sicchè, proporzionatamente, accade oggi nel mondo civile quel medesimo che ho detto accadere in Francia; quasi niuno scrittore ha stile proprio: non v’è che uno stile per tutti, e questo consiste assai più nelle sentenze che nelle parole: poco oramai si guarda allo stile nelle opere che escono in luce, o se vi si guarda, ciò è più per vedere s’egli segue l’uso e la forma di stile universalmente accettata, o no: se la segue, non si parla del suo stile; se non la segue, allora solo il suo stile dà nell’occhio, e per lo più è ripreso, e ordinariamente con ragione. La differenza ch’è in questo particolar dello stile fra la lingua francese e l’altre moderne, si è che se in quella lo scrittore non ha stile proprio, egli è perchè la lingua n’ha un solo; se il suo stile non è vario, egli è che la lingua non ha varietà di stile. Ma nelle altre lingue il difetto viene dallo scrittore: egli è che manca di varietà di stile, e non la lingua; e s’ei non ha stile proprio, egli può averlo; almeno la lingua sua non glielo impedisce; ma ei non ha stile proprio, perchè un solo stile ha, non la sua lingua, che molti ne ammette, ma, per così dire, la lingua europea, ossia l’uso e lo spirito universale della letteratura e della civiltà presente, e del nostro secolo. V. p. 3471.

Del resto egli è certissimo che quantunque le moderne lingue, almeno parecchie di esse, sieno capacissime d’ogni sorta di varietà, qualità, e perfezion di stile, nondimeno niuna delle medesime è, che possa mostrare neppur ne’ suoi antichi e nel suo secolo aureo nè tanta varietà, nè di gran lunga tanta perfezione di stile propriamente detto, quanta ne possono mostrare nei loro le lingue antiche. I moderni poi, quanto vincono gli antichi nel fatto delle sentenze, tanto cedono loro tutti in tutte le parti dello stile propriamente detto, e nel culto delle parole preso in tutta l’estension del termine. E non solo non mettono nè sanno mettere in pratica, ma nè pur conoscono perfettamente tutte le squisitezze degli artifizi e degli accorgimenti che gli antichi insegnavano comunemente e adoperavano intorno a esso culto, e che si possono vedere negli scritti rettorici di Cicerone e di Quintiliano. I moderni non ne conoscono generalmente neppure i nomi, e neppur ne hanno tanta idea che basti a poter valutare in confuso a che segno arrivasse questa squisitezza. Nei moderni le sentenze, e la spiritualità del secolo, nocciono alle parole e allo stile, all’arte del quale niuno di loro si applica da senno, o ci pone tanto studio e tempo quanto bisognerebbe. Negli antichi classici di ciascuna lingua moderna, ne’ quali non aveano luogo le dette circostanze, e ciascuno de’ quali facea dell’arte dello stile il suo principale studio, e attendeva più alle parole che alle cose, ogni volta che si metteva da vero a comporre; pure in nessuno o in quasi niuno di loro si trovò arte o capacità bastante, nè quanto si richiedeva a conseguire quell’alto grado di perfezione, neppur relativamente e limitatamente alle forze, indole, qualità, e capacità delle rispettive lingue. (8. Luglio 1823.).

L’argomento con cui altrove dall’aggettivo potus, che io chiamo vero participio, e da’ sostantivi potus us (fatto da esso participio, secondo la regola da me altrove assegnata) e potio onis paragonati con potatio, ho dimostrato l’esistenza di un antico verbo poo; riceve forza dai composti appotus ed epotus, veri participii, come di forma così di significazione (che in quello è attiva[a]

V. la pag. 2841. fine. Potus us è da po, non da poto, come motus us è da moveo, non da moto as, e puoi vedere in questo proposito la p. 2975. principio.

[Chiudi], in questo passiva); da’ quali forse si potrebbe anche raccorre l’antica esistenza de’ verbi composti appoo ed epoo diverso da epoto. Avvi ancora compotatio, compotor sost. e compotrix. (8. Luglio 1823.).

Da quello che ho detto p. 2789-90. si rileva che il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio raptus e che questo dovette essere usato dagli antichi latini e volgarmente, in senso di veloce, come ratto fra noi. Perocchè dire che questo sia nato dall’avverbio italiano ratto, e quest’avverbio da raptim, onde ratto per veloce venga da raptim è derivazione o formazione priva d’ogni esempio. E per lo contrario è certissimo che ratto avverbio viene da ratto aggettivo, anzi è lo stesso aggettivo neutralmente e avverbialmente posto, il che è proprietà ed uso della nostra lingua di fare, come alto, forte, (anche i francesi fort avverbio e aggettivo) presto, tosto, piano e mill’altri, per altamente ec. Anzi è in libertà dello scrittore o parlatore italiano di far così de’ nuovi avverbi dagli aggettivi, non già viceversa. V. il Forcell. in Rapio col. 1. fine, Rapto fine, Raptus l’esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente hanno p. e. demasiado avv. e aggett. ec. (8. Luglio 1823.).

Noi usiamo volgarmente il verbo volere applicandolo a cose inanimate, o ad esseri immaginari, e talvolta impersonalmente, in modo ch’egli o sta per potere, o ridonda e non fa che servire a una perifrasi, per idiotismo, e per proprietà di lingua. Per esempio, La piaga non se gli vuole rammarginare. Cioè, Non si può far che la piaga se gli rammargini, ossia La piaga non se gli può ancora rammarginare. Qui volere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare, se la stagione si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se il negozio vorrà camminar bene, se la pianta vorrà pigliar piede, l’erba non ci vuol nascere. Cioè, Se piglierà piede, Non ci nasce. Qui volere ridonda. Da più mesi non è voluto piovere. Cioè, non è piovuto. Qui volere ridonda ed è impersonale. Anche in francese: cette machine ne veut pas aller, ce bois ne veut pas brûler. Alberti . Così, mi pare, anche in ispagnuolo.

Ora questo grazioso idiotismo proprio della nostra lingua, fu proprio altresì della più pura lingua greca (anzi secondo i grammatici egli è un atticismo) e fu adoperato dagli scrittori più eleganti, e massime da Platone, primo modello dell’atticismo. Nel Convito, Opp. ed Astii, Lips. 1819-... t. 3. 1821. p. 460. v. 16-17. D. ἐὰν μέν σοι ἐθέλῃ παύεσθαι ἡ λύγξ , se ti vorrà passare il singhiozzo, in vece di ἐὰν μέν σοι παύηται ἡ λύγξ. Qui ἐθέλειν ridonda. V. lo Scapula in Ἐθέλω, e Θέλω. Corinto περὶ διαλέκτων. Ἀττικὸν καὶ τὸ θέλει ἀντὶ τοῦ δύναται, ὡς ὁ Πλάτων (nel principio del Fedro), τὰ χωρία οὐδέν μ' ἐθέλει διδάσκειν. Ma non è vero che stia sempre, in questo tale idiotismo per potere, come dice anche lo Scapula ne’ due citati luoghi. Per potere sta assolutamente nel Sofista, t. 2. 1820. p. 314. v. 18-19. D-E. Καὶ μὴν ἓν γέ τι τούτων ἀναγκαῖον, ἢ πάντα ἢ μηδὲν ἢ τὰ μὲν ἐθέλειν, τὰ δὲ μὴ ξυμμίγνυσθαι che altre cose possano mescolarsi insieme, altre no [a]

Vedi anche ivi p. 318. v. penult. B. 326. v. 12. B. 342. v. 13.14. D. 314. v. 26. E. Synes. Opp. 1612. p. 43. C.

[Chiudi]. Ma nel passo del Convivio, e in quello di Omero presso lo Scapula, ἐθέλειν ridonda, come sovente in italiano volere, nel detto nostro idiotismo, e malissimo si spiegherebbe per potere. In quello del Fedro altresì in sostanza ridonda, perchè il luogo vale τὰ χωρία οὐδέν με διδάσκει. Se diremo οὐδέν με δύναται διδάσκειν, diremo forse altrettanto, ma non lo stesso, e benchè diremo il vero, non perciò diremo quel medesimo appunto che dice Socrate. In questo e in altri molti casi simili, tanto nel greco quanto nell’italiano, spiegando il verbo volere per potere, l’espressione riesce vera e giusta, ma non pertanto l’intenzione della frase non era di dir potere. Perchè spesso nell’esprimerci noi abbiamo due intenzioni l’una finale (e questa nel caso nostro sarà ugualmente bene spiegata rendendo volere per potere, che dicendo ch’egli ridonda), l’altra immediata (e questa nel caso nostro non si otterrebbe con dir potere, nè si spiegherebbe con questa voce); da ambedue le quali intenzioni è diversa quella intenzione o significato che ha la locuzione letteralmente presa. (8. Luglio. 1823.). Del resto noi non usiamo in questo tal senso e modo il verbo volere, se non colle particelle negative o condizionali, o con interrogazione, come in quel verso di Anacreonte (od. 4 Ἐδόκουν ὄναρ τροχάζειν ) τί θέλει ὄναρ τόδ' εἶναι ; che vorrà essere questo sogno? Ma in locuzione, forma e significazione affermativa non s’usa mai il verbo volere nè dagl’italiani nè da’ francesi ne’ sovresposti sensi, se non se in quella frase voler dire o significare ec. che è greca anch’essa, e che può riferirsi all’idiotismo di cui ragioniamo. I greci ancora usano per lo più questo idiotismo fuori di affermazione, benchè non sempre. Affermativamente, e pur di cose inanimate o ideali e intellettuali, e come si dice, di ragione, usiamo noi il verbo volere, in un senso però differente dai sopraddetti, ed equivalente al greco μέλλειν, ma con significanza di qualche dubitazione: come Questa guerra vuole andare in lungo, cioè, Pare che questa guerra sia per durar molto: Vuol piovere ec. In questo senso il verbo volere equivale al significato che sovente ha in italiano dovere, il quale talvolta significa assolutamente μέλλειν (come avere a, aver da cogl’infiniti), talvolta con qualche dubitazione, come Questa guerra deve andare in lungo, cioè, pare che ec. Dicesi ancora Questa guerra mostra di voler esser lunga, pare che voglia esser ec. E in simili modi: e così dovere. In altro modo ancora diciamo affermativamente il verbo volere per proprietà di lingua, eziandio di cose inanimate, con significazione di esser presso a, mancar poco che non; e in questo senso egli non s’usa se non nel passato o piucchè passato, benchè in un esempio della Crusca, Volere par. 3., trovisi nel gerundio. (9. Luglio. 1823.). V. p. 3000.

Gl’italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni. (9. Luglio. 1823.).

Bisogna (far grande stima) avere una grande idea di se stesso, per esser capace di sacrificar se stesso. Chi non ha molta e costante stima di se medesimo, non è buono all’amor vero, nè capace del dévouement e del totale sacrifizio ch’egli esige ed ispira. (9. Luglio. 1823.).

Il verbo avere in senso di essere, usato impersonalmente dagl’italiani da’ francesi dagli spagnuoli, talora eziandio personalmente dagl’italiani (v. il Corticelli), non è altro che il latino se habere (il qual parimente vale essere) omesso il pronome. Il volgo latino dovette dire p. e. nihil hic se habet, qui non si ha nulla, cioè non v’è; poi lasciato il pronome, nihil hic habet, qui non v’ha nulla. Cicerone: Attica belle se habet col pronome, e altrove: Terentia minus belle habet: ecco lasciato figuratamente il pronome nella stessa frase. ( Forcell. in Belle ). Bene habeo, bene habemus, bene habent tibi principia sono tutte locuzioni ellittiche per l’omissione del pronome se, nos, me. Bene habet, optime habet, sic habet; ecco oltre l’omission del pronome se, anche quella del nome res. Onde avviene che in queste locuzioni, che intere sarebbono bene se res habet, sic se res habet, il verbo habere per le dette ellissi venga a trovarsi impersonale. Ed ecco nel latino il verbo habere in significato di essere, neutro assoluto, cioè senza pronome, e impersonale. Quis hic habet? chi è qui? In questo e negli altri luoghi dove il verbo habere sta per abitare in significato neutro, esso verbo non vale propriamente altro che essere; e habitare altresì, ch’è un frequentativo o continuativo di habere, sempre che ha senso neutro, sta per essere. E questa forma è tutta greca; giacchè presso i greci ἔχειν, la metà delle volte non è altro che un sinonimo di essere, e s’usa in questo senso anche impersonalmente, come in italiano, francese e spagnuolo, tutto dì. V. p. 3907. Così anche nel greco moderno a ogni tratto. Δὲν ἔχει, non ci è, non ci ha. (9. Luglio. 1823.).

Intorno al verbo habitare, che per virtù della sua formazione può essere e continuativo e frequentativo, si considerino gli esempi del Forcellini, in alcuni de’ quali (come in quello di Cic. de Senect. c. ult.) egli ha decisissimamente il primo significato, in altri il secondo: o vale solere habere cioè esse ec. E vedi ancora il primitivo habere nel senso del continuativo habitare (dal qual senso deriva quello di questo verbo) nel Forcellini in habeo col. 3. (9. Luglio. 1823.).

È uso della nostra lingua di porre l’avverbio male come particella privativa in vece di in avanti gli aggettivi, i sostantivi, gli avverbi, i participii ec. o facendo di questi tutta una voce con quella, o scrivendo quella separatamente. Il qual uso ci è così proprio, che sta in libertà dello scrittore di fare in questo modo de’ nuovi accoppiamenti nel detto senso, sempre ch’ei vuole, siccome n’han fatto alcuni moderni, p. e. il Salvini, ad esempio degli antichi, e stanno segnati nella Crusca. Male per non o poco o difficilmente. V. la Crusca in male. I francesi similmente: mal-adresse, mal-adroit, mal-adroitement, mal-aisé, mal-gracieux, mal-plaisant, mal-habile, mal-honnête ec. ec. V. il Diz. del Richelet in Mal, fine. Or quest’uso è tutto latino e degli ottimi tempi. Vedi Forcell. in male. (9. Luglio 1823.).

Maltrattare, maltraiter, maltratar — male-tractatio è d’Arnobio, ap. Forcell. voc. Male fine, in vece di che altri dissero mala tractatio. È proprio de’ nostri antichi scrittori, e del volgar fiorentino o toscano di usar male in tutti i generi e numeri in vece dell’aggettivo malo. (9. Luglio 1823.).

Savamo, savate de’ nostri antichi, per eravamo eravate, sarebbono elle persone di un imperfetto più regolare, più antico e più vero di sum, sumus, sunt, che non è l’usitato eram fatto forse da un altro tema; persone, dico, di un imperfetto sabam, era, conservato nel volgar latino fino ai primi tempi del nostro? (9. Luglio 1823.).

Alla p. 2753. Ella è anche cosa certissima che in parità di circostanze, l’uomo, ed anche il giovane, e altresì il giovane sventurato, è meno scontento dell’esser suo, della sua condizione, della sua fortuna durante l’inverno che durante la state; meno impaziente dell’uniformità e della noia, meno impaziente delle sventure, meno renitente alla sorte e alla necessità, più rassegnato, meno gravato della vita, più sofferente dell’esistenza, e quasi riconciliato talvolta con esso lei, quasi lieto; meno incapace di concepire come si possa vivere, e di trovare il modo di passare i suoi giorni: o almeno tutte queste disposizioni sono in lui più frequenti o più durevoli nell’inverno che nella state; e spesso abituali in quella stagione, laddove in questa non altro mai che attuali. Ed anche il giovane abitualmente disperato di se e della vita, si riposa della sua disperazione durante l’inverno, non che egli speri più in questo tempo che negli altri, ma non prova o prova meno efficace il senso di quella disperazione che radicalmente non può abbandonarlo. Cioè intermette di desiderare o desidera meno vivamente quelle cose ch’egli è al tutto e abitualmente e per sempre disperato di conseguire. Tutto ciò perchè gli spiriti vitali sono manco mobili ed agitati e svegli nell’inverno che nella state.

Queste considerazioni vanno applicate al carattere delle nazioni che vivono in diversi climi, di quelle che sogliono passare la più parte dell’anno al coperto e nell’uso della vita domestica e casalinga a causa del rigore del clima, e viceversa ec. (9. Luglio 1823.). Veggasi la p. 3347-9. e 3296. marg. ec.

A proposito del verbo vexare che io dico esser continuativo di vehere [a]

Lo comprova anche il significato rispettivo, sì p. l’affinità, sì p. la continuità ec. Similm. da cello muovere, senso analogo a quel di veho, si fa procello, onde procella, che è quasi vexo, e percello; ec. ec. ec.

[Chiudi] e fatto da un antico participio vexus in vece di vectus, del che vedi la pag. 2020. è da notare che sì altrove sì particolarmente ne’ participii in us non è raro nella lingua latina lo scambio delle lettere s e t. Eccovi da intendo, intensus e intentus, onde intentare, come da vectus vectare; da ango, anxus ed anctus. V. Forc. ango in fine. V. p. 3488. E così tensus e tentus da tendo e dagli altri suoi composti, del che ho detto altrove in proposito d’intentare. V. p. 3815. Dico lo scambio giacchè, secondo me questi tali participii, come tensus e tentus, non sono che un solo pronunziato in due diversi modi per proprietà della lingua materiale. Onde vexus, cioè vecsus è lo stesso identicamente che vectus, e vecsare o vexare, per rispetto all’origine, lo stesso che vectare. Ma vexus si perdette, restando vectus, e forse fu più antico di questo, come vexare sembra esser più antico di vectare. Del resto da veho is exi è così ragionevole che venga vexus, come da necto is exi, nexus, onde nexare, compagno di vexare, e da pecto is exi, pexus (e notisi ch’egli ha eziandio pectitus) e da plecto is exi, plexus, onde amplexare ec. flecto is exi, flexus. (v. p. 2814-15. marg.) ec. E quanto ai verbi che hanno o ebbero de’ participii così in sus come in tus, vedi per un altro esempio fundere, che ha fusus ed ebbe anche futus, p. 2821. e nitor eris che ha nixus, onde nixari, ed ebbe nictus, onde nictari, il qual esempio (v. la p. 2886-7.) fa particolarmente al caso. V. p. 3038. Figo-fixi-fictus, e fixus ch’è più comune ancora[a]. E di molti altri verbi la nostra teoria de’ continuativi dimostra de’ doppi participii o supini, cioè dimostra che ebbero participio o supino diversi da quelli che ora hanno, o due, ambo perduti, o ancor più di due, come fundo-fusus, futus, funditus, ec. ec. V. la p. 2826. e il pensiero seguente, e la p. 3037. Del resto vexare rispetto a vehere potrebbe anche appartenere a quella categoria di verbi della quale, p. 2813. segg. Ma non lo credo per le suddette ragioni che mi persuadono ch’ei venga da un particip. vexus. Vexus, flexus ec. da vexi ec. sono forse contrazioni di vexitus ec. e altresì vectus ec. il quale però conserva il t, come textus da texui, ec. V. la p. 3060-1. con tutte quelle a cui essa si riferisce e quelle che in essa si citano. (9. Luglio. 1823.).

Pinso pinsis pinsi et pinsui, pinsum et pinsitum et pistum. Da pinsus o da pinsitus, pinsitare appresso Plauto, se questa voce è vera. Da pistus pistare appresso il Forcellini e il Glossario (vedilo in Pistare e Pistatus), onde il nostro pestare che volgarmente si dice anche oggi più spesso pistare, siccome pisto per pesto. (V. il Glossar. in pestare ). Pisto rimane eziandio nello spagnuolo, ed è un aggettivo neutro sostantivato, che vale quello che noi diciamo il pollo pesto. Tutti tre questi participii di pinso sono comprovati con esempi, e non da me congetturati. V. Forcell. in ciascuno di loro, e in pinso.

Notiamo qui quello che dice Festo alla voce pinso (ap. Forcell. in Pistus). Pistum a pinsendo pro molitum antiqui frequentius usurpabant quam nunc nos dicimus. Infatti pistillum, pistor, pistrinum e quasi tutti i derivati di pinso vengono dal supino o participio pistum o pistus. Ora, secondo Festo, al suo tempo questo participio o supino molto usitato dagli antichi, era poco frequentato. Egli vuol certo dire nel linguaggio polito e nella scrittura. Ma eccovi che il volgo latino e il parlar familiare conservava l’uso antico e conservollo sino all’ultimo, giacchè nelle lingue figlie della latina non resta quasi (dico quasi per rispetto al verbo pisar e. di cui qui sotto) del verbo pinsere altro che quello che appartiene al suo participio pistus, cioè pesto, pisto ital. e spagn. pestare, pestello ec. E il verbo pestare o pistare che sembra essere sottentrato ne’ bassi tempi all’originale pinsere, nel luogo del quale ei si conserva fra gl’italiani anche oggidì, fu formato allora da pistus, o s’ei fu proprio anche degli antichi latini, certo è ch’egli si conservò nelle bocche del volgo e nel parlar familiare andando in disuso e totale dimenticanza il verbo pinso, al contrario di quello che sembra dir Festo, o che si potrebbe ragionevolmente raccogliere dalle di lui soprascritte parole, chi non sapesse i fatti.

Pistus [a]

Veggasi la p. 3035. segg.

[Chiudi], onde pistare è formato evidentemente dal regolare e primitivo pinsitus, toltagli la n, onde pisitus, e contratto questo in pistus, come positus, repositus ec. in postus, repostus. E vedi la p. 2894. Ora come da pinsitus pisitus e pistus, tolta la n, così da pinsus altro participio irregolare di pinso, del qual participio altresì s’hanno parecchi esempi (v. Forcell. in pinso fin. e pinsus), fu fatto, secondo me, pisus, e da questo, siccome da pistus pistare, viene il verbo pisare, il quale conseguentemente e secondo questo discorso, è un continuativo di pinsere appunto come pistare, e come forse pinsitare. Se a questo discorso avessero posto mente quelli che appresso Varrone e Plinio sostituiscono il verbo pinsere al verbo pisare (o pisere, di cui poscia), riconosciuto pur da Diomede, e letto ancora da taluni appresso Persio (v. Forcell. in pinso fine), non avrebbero forse pensato a bandire questo verbo. E meno ancora lo avrebbero fatto se avessero osservato questo medesimo verbo pisare appresso un Anonimo, de re architectonica, il quale non ho ora tempo d’investigar chi sia, se non è l’epitomatore di Vitruvio, ma certo al suo stile non par troppo recente, e vedi il suo passo nel Gloss. in Pisare. E meno se avessero guardato allo spagnuolo pisare (calcare, cal-pestare) e all’italiano pigiare ch’è il medesimo: e se in quel luogo di Varrone ficum et uvam passam cum piserunt , dov’essi ripongono pinserunt, avessero osservato l’evidente conformità con le solenni frasi vernacole pisar las uvas, pigiar le uve. E così se avessero posto mente al sostantivo piso onis, derivante da pisare o certo da pisus per pinsus, il qual sostantivo trovasi appresso il Forcell. e nel citato anonimo ap. il Glossar. e nello spagnuolo pison, onde pisonar ec. Vedi ancora nel Forcellini in pinso il luogo di Varrone l. 1. R. R. c. 63. con quel ch’ei ne dice: e il vocabolo Pisatio, dove non lodo quei che leggono spissatione.

In luogo di pisare, trovasi, e più spesso, pisere. Intorno a questo veramente avrei i miei dubbi, e credo più ragionevoli di quello de’ sopraddetti che leggono sempre pinsere. Voglio dire che a me non par da negare l’esistenza di quel verbo derivato da pinsere, ma mi par da dubitare circa la sua coniugazione, e forse da non concedere ch’ei sia della terza, e dovunque si trova pisere da ripor pisare. Il quale ed è più regolare secondo la nostra teoria de’ continuativi, ed è comprovato dal Glossario e dal vernacolo spagnuolo e italiano (giacchè per puro accidente e vezzo di pronunzia noi diciamo pigiare in luogo di pisare ch’è lo stesso, e che certamente si dice in qualche dialetto o provincia d’Italia, come, io credo, nel veneziano), ed è confermato dalle altre considerazioni addotte di sopra.

In ogni modo il verbo pisere detto in vece di pisare, sarebbe un continuativo anomalo di pinsere; sia che anche pisare esistesse nell’antico latino, e da lui per corruzione fosse fatto pisere, come forse nexere da nexare (v. p. 2821.); sia che pisere fosse fatto a dirittura da pisus-pinsus di pinsere prima di pisare e in luogo di questo (come visere per visare da video-visus), e che questo non sia stato mai nell’antico o nell’illustre ma solo nel basso o nel rustico Latino (fatto da pisere o a dirittura da pinsere), e quindi ne’ moderni vernacoli; o sia finalmente che pisere e pisare esistessero ambedue quando che sia, contemporaneamente, ma indipendentemente l’uno dall’altro per rispetto all’origine. E vedi a questo proposito di continuativi anomali spettanti alla terza, la p. 2885.

Pisare considerato come appartenente a pinsere (la quale appartenenza e parentela, quantunque il Forcellini non la riconosce o non la esprime, e fa derivar piso is, ed anche, a quel che pare, piso as dal greco πτίσσω, qual ch’ella si voglia che sia, chi la può mettere in dubbio?) potrebbe anche riferirsi a quella categoria di cui p. 2813. segg. e 2930. Ma le addotte ragioni mi persuadono piuttosto ch’esso appartenga dirittamente alla classe degli ordinarii continuativi. Forse piuttosto alla sopraddetta categoria potrebbe appartenere pinso as, se questo verbo fosse pur vero, del che vedi il Forcellini in pinso. (10. Luglio 1823.).

Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il Forcellini in Caespitator e il Glossario in Cespitare. (10. Luglio. 1823.).

Le cose ch’esistono non sono certamente per se nè piccole nè vili: nè anche una gran parte di quelle fatte dall’uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l’uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch’ei pensa esser necessario alla sua felicità, ch’egli s’immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch’ei s’immagina ancora tutte le volte ch’ei s’abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l’uomo s’immaginava, l’uomo nè il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell’uomo, non sono atte alla felicità dell’uomo. (10. Luglio. 1823.). Non ch’elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l’uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch’egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell’uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità. Chi potrebbe disprezzare l’immensurabile e arcano spettacolo dell’esistenza, di quell’esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire nè conoscere o sufficientemente immaginare nè i limiti, nè le ragioni, nè le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benchè nè l’esistenza e vita nostra, nè quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l’esistenza così nostra come universale scompagnata dalla felicità, ch’è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica utilità che l’esistenza rechi a quello ch’esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell’opera di cui non vediamo nè potremo mai vedere nemmeno i limiti? nè arrivar mai ad intendere nè anche a sufficientemente ammirare l’artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità dell’esistenza della più parte delle cose comprese in essa opera; o vogliamo dir la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch’esistono. Pochissimi de’ quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte dell’esistenza che noi non conosciamo nè intendiamo punto, neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al nostro proprio individuo. (10. Luglio. 1823.).

Questo ch’io dico delle opere della natura, dicasi eziandio proporzionatamente di molte o grandi o belle o per qualunque cagione notabili e maravigliose opere degli uomini, o sieno materiali, o appartengano puramente alla ragione; o di mano o d’intelletto o d’immaginativa; scoperte, invenzioni, scienze, speculazioni ec. ec. discipline pratiche o teoriche; navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d’ogni genere, opere d’arte ec. ec. (11. Luglio. 1823.).

Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello che voglia significare nella Genesi l’albero della scienza ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec. antichissimi, che mi pare avere accennato in diversi luoghi, si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice, che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l’origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo uso della ragione. E pare che questa verità fosse nota ai più antichi sapienti, e una delle principali e capitali fra quelle che essi, forse come pericolose a sapersi, enunziavano sotto il velo dell’allegoria e coprivano di mistero e vestivano di finzioni, o si contentavano di accennare confusamente al popolo; il quale era in quei tempi assai più diviso per ogni rispetto dalla classe de’ sapienti, che oggi non è: onde nasceva l’arcano in cui dovevano restare quei dogmi ch’essendo sempre proprii de’ soli sapienti, non erano allora quasi per niun modo communicati al popolo, separato affatto dai saggi. Oltrechè in quei tempi l’immaginazione influiva e dominava così nel popolo, come anche nei sapienti medesimi, onde nasceva che questi, eziandio senz’alcuna intenzione di misteriosità, e senz’alcun secondo fine, vestissero le verità di figure, e le rappresentassero altrui con sembianza di favole. E infatti i primi sapienti furono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia, e le prime verità furono annunziate in versi, non, cred’io, con espressa intenzione di velarle e farle poco intelligibili, ma perchè esse si presentavano alla mente stessa dei saggi in un abito lavorato dall’immaginazione, e in gran parte erano trovate da questa anzi che dalla ragione, anzi avevano eziandio gran parte d’immaginario, specialmente riguardo alle cagioni ec., benchè di buona fede creduto dai sapienti che le concepivano o annunziavano. E inoltre per propria inclinazione e per secondar quella degli uditori, cioè de’ popoli a cui parlavano, i saggi si servivano della poesia e della favola per annunziar le verità, benchè niuna intenzione avessero di renderle méconnaissables. (11. Luglio 1823.).

Il principal difetto della ragione non è, come si dice, di essere impotente. In verità ella può moltissimo, e basta per accertarsene il paragonare l’animo e l’intelletto di un gran filosofo con quello di un selvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filosofo avanti il suo primo uso della ragione: e così il paragonare il mondo civile presente sì materiale che morale, col mondo selvaggio presente, e più col primitivo. Che cosa non può la ragione umana nella speculazione? Non penetra ella fino all’essenza delle cose che esistono, ed anche di se medesima? non ascende fino al trono di Dio, e non giunge ad analizzare fino ad un certo segno la natura del sommo Essere? (Vedi quello che ho detto altrove in questo proposito). La ragione dunque per se, e come ragione, non è impotente nè debole, anzi per facoltà di un ente finito, è potentissima; ma ella è dannosa, ella rende impotente colui che l’usa, e tanto più quanto maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il suo potere, scema quello di chi l’esercita e la possiede, e più ella si perfeziona, più l’essere ragionante diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dir la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto è maggiore la sua esistenza in intensità e in estensione, tanto l’esser delle cose si scema e restringe ed accosta verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende e quanto meglio e più finamente vede. Così ch’ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch’ella sia grossa e corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n’abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione. (benchè gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu’altra cosa, eccetto solamente ch’alla ragione). Perciocch’ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può mai esser visibile a qualsivoglia vista. (11. Luglio 1823.).

Come gli antichi riponessero la consolazione, anche della morte, non in altro che nella vita, (del che ho detto altrove), e giudicassero la morte una sventura appunto in quanto privazion della vita, e che il morto fosse avido della vita e dell’azione, e prendesse assai più parte, almeno col desiderio e coll’interesse, alle cose di questo mondo che di quello nel quale stimavano pure ch’egli abitasse e dovesse eternamente abitare, e di cui lo stimavano divenuto per sempre un membro, si può vedere ancora in quell’antichissimo costume di onorar l’esequie e gli anniversari ec. di un morto coi giuochi funebri. I quali giuochi erano le opere più vivaci, più forti, più energiche, più solenni, più giovanili, più vigorose, più vitali che si potessero fare. Quasi volessero intrattenere il morto collo spettacolo più energico della più energica e florida e vivida vita, e credessero che poich’egli non poteva più prender parte attiva in essa vita, si dilettasse e disannoiasse a contemplarne gli effetti e l’esercizio in altrui. (11. Luglio 1823.).

Gridano che la poesia debba esserci contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i costumi, e fors’anche gli accidenti de’ nostri tempi. Onde condannano l’uso delle antiche finzioni, opinioni, costumi, avvenimenti. Puoi vedere la p. 3152. Ma io dico che tutt’altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorchè la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i costumi d’una generazione d’uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà la patria l’amor patrio non esistono, l’amor vero è una fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte? Come può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza passioni, sono termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli essere egoista e metafisico? e il nostro secolo non è tale caratteristicamente? come dunque può il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto poeta?

Osservisi che gli antichi poetavano al popolo, o almeno a gente per la più parte non dotta, non filosofa. I moderni all’opposto; perchè i poeti oggidì non hanno altri lettori che la gente colta e istruita, e al linguaggio e all’idee di questa gente vuolsi che il poeta si conformi, quando si dice ch’ei debba esser contemporaneo; non già al linguaggio e alle idee del popolo presente, il quale delle presenti nè delle antiche poesie non sa nulla nè partecipa in conto alcuno. Ora ogni uomo colto e istruito oggidì, è immancabilmente egoista e filosofo, privo d’ogni notabile illusione, spoglio di vive passioni; e ogni donna altresì. Come può il poeta essere per carattere e per ispirito, contemporaneo e conforme a tali persone in quanto poeta? che v’ha di poetico in esse, nel loro linguaggio, pensieri, opinioni, inclinazioni, affezioni, costumi, usi e fatti? che ha o ebbe o potrà mai aver di comune la poesia con esso loro?

Perdóno dunque se il poeta moderno segue le cose antiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la maniera antica, se usa eziandio le antiche favole ec., se mostra di accostarsi alle antiche opinioni, se preferisce gli antichi costumi, usi, avvenimenti, se imprime alla sua poesia un carattere d’altro secolo, se cerca in somma o di essere, quanto allo spirito e all’indole, o di parere antico. Perdóno se il poeta, se la poesia moderna non si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poichè esser contemporaneo a questo secolo, è, o inchiude essenzialmente, non esser poeta, non esser poesia. Ed ei non si può essere insieme e non essere. (11. Luglio. 1823.). E non è conveniente a filosofi e ad un secolo filosofo il richieder cosa impossibile di natura sua, e contraddittoria in se stessa e ne’ suoi propri termini. (12. Luglio 1823.).

Intentare lat. da intendo, onde il francese intenter e quello che noi pur diciamo intentare un’accusa, un processo e simili. V. il Glossar. Cang. Participio intentatus. Intentare de’ nostri antichi (v. la Crus. in intentare e intentazione) e intentar spagnuolo, da tento colla prepos. in, e vale lo stesso che tentare. Questo composto, tutto alla latina, ma tutto diverso dall’altro intentare sopraddetto, io lo credo venuto, se non altro, dal latino volgare, poichè m’ha sapor di vera latinità, e non mi riesce verisimile che sia stato creato nelle lingue vernacole, pochissimo usate a crear nuovi composti con preposizione il qual uso è tutto greco e latino. Participio intentato, intentado, o intentatus, cioè tentatus (Similmente obtento, se questa voce è vera, viene da ob-tineo, laddove ostento da os-tendo, antic. obs-tendo, [v. la p. 2996.]). Diverso da questo è l’altro participio intentatus che significa il contrario, cioè non tentatus, fatto non colla prep. in, ma colla particella privativa del medesimo suono in, il quale participio noi pure l’abbiamo, e viene ad essere un terzo participio intentatus diverso per origine e per significato, benchè di suono in ogni cosa conforme ed uguale, dai due sopraddetti. Similmente inauditus, insuetus ed altri tali, vagliono non auditus, non suetus, ed altresì l’opposto, cioè suetus, auditus, da insuesco ed inaudio. (12. Luglio. 1823.).

Quanto mirabile sia stata l’invenzione dell’alfabeto, oltre tutti gli altri rispetti e modi, si può anche per questa via facilmente considerare. È cosa osservata che l’uomo non pensa se non parlando fra se, e col mezzo di una lingua; che le idee sono attaccate alle parole; che quasi niuna idea sarebbe o è stabile e chiara se l’uomo non avesse, o quando ei non ha, la parola da poterla esprimere non meno a se stesso che agli altri, e che insomma l’uomo non concepisce quasi idea chiara e durevole se non per mezzo della parola corrispondente, nè arriva mai a perfettamente e distintamente concepire un’idea, anzi neppure a determinarla nella sua mente in modo ch’ella sia divisa dall’altre, e divenga idea, oscura o chiara che sia, nè a fissarla in modo ch’ei possa richiamarla, riprenderla, raffigurarla nella sua mente e seco stesso quando che sia; non arriva, dico, a far questo mai, finch’egli non ha trovato il vocabolo con cui possa significar questa idea, quasi legandola e incastonandola; o sia vocabolo nuovo, o nuovamente applicato, se l’idea è nuova, o s’egli non conosce la parola con cui gli altri la esprimono, o sia questo medesimo vocabolo che gli altri usano a significarla.

Tutto ciò ha luogo in ordine ai suoni elementari della favella, per rispetto all’alfabeto. L’alfabeto è la lingua col cui mezzo noi concepiamo e determiniamo presso noi medesimi l’idea di ciascuno dei detti suoni. Quegli che non conosce l’alfabeto, parla, ma non ha veruna idea degli elementi che compongono le voci da lui profferite. Egli ha ben l’idea della favella, ma non ha per niun conto le idee degli elementi che la compongono: siccome infinite altre idee hanno gli uomini, degli elementi e parti delle quali non hanno veruna idea nè chiara nè oscura che sia separata dalla massa delle altre: e questo appunto è il progresso dello spirito umano; suddivider le idee, e concepir l’idea delle parti e degli elementi delle medesime, conoscere che quella tale idea ch’egli teneva per semplice, era composta, o scompor quella idea ch’era stata semplice per lui finallora, e scompostala concepir l’idee delle parti di essa, sia di tutte le parti, sia d’alcuna. Nè altro è per l’ordinario una nuova idea[a]

Parlo di quelle idee che avanzano decisamente lo spirito umano e l’intelletto. Avvi molte idee nuove, che non son tali se non perchè nuovamente composte d’altre idee già note (al contrario delle idee nuove di cui qui si parla). Ma queste appartengono la più parte all’immaginazione, e spetta al poeta il proccurarcele. E l’intelletto non ci guadagna. Altre nuove idee vengono dirittamente dai sensi, quando vediamo o udiamo ec. cose non più vedute o udite, le quali idee non si può ora determinare quando siano più semplici e quando più composte delle già possedute. Ma queste nuove idee non derivano dall’intelletto, del quale adesso ragioniamo.

[Chiudi], che una porzione d’idea già posseduta, nuovamente separata dalle altre porzioni della medesima, e nuovamente determinata in modo ch’ella sussista da se, e sia idea da se, e da se si concepisca.

Or questa determinazione si fa col mezzo della lingua, cioè con un vocabolo nuovo o nuovamente applicato. E non è difficilissimo il farlo, perocchè la lingua è già trovata e posseduta, e l’uomo ha chiare idee degli elementi che la compongono, cioè de’ vocaboli, e facilmente si aggiunge alle cose trovate.

Ma per determinare gli elementi della voce umana articolata, l’unica lingua, come ho detto, è l’alfabeto. Or questa lingua non era trovata ancora, e niuna idea se ne aveva. Quindi niun mezzo di determinare presso se stesso le idee degli elementi di detta voce; e quindi infinita difficoltà di concepir queste idee e di fissarle nella propria mente; cioè di suddivider l’idea della voce, e stabilire nel proprio intelletto le idee separate delle di lei porzioni.

A noi già istruiti dell’alfabeto, niuna difficoltà reca il concepire determinatamente l’idea di ciascun suono di nostra voce, distintamente l’uno dall’altro. Ma supponghiamo, come ho detto, un uomo non istruito dell’alfabeto, quali sono i fanciulli e gl’illetterati, e senza insegnargli l’alfabeto, nè dargliene veruna idea (s’è possibile che nel presente stato di cose, un uomo, benchè ignorante, niuna lontana e confusa idea possegga dell’alfabeto), comandiamogli ch’egli da se risolva la sua propria voce nei suoni che la compongono, e dica quanti e quali. Già questa sola proposizione moltissima luce gli darà, la qual non avevano i primi inventori dell’alfabeto, perocch’egli intenderà che la sua voce è composta di parti diverse l’una dall’altra, e concepirà l’idea della divisibilità della medesima. Idea difficilissima a concepire, e molto più quella, che tali parti si possano determinare ciascuna da se, e concepire distintamente l’una dall’altra. A ogni modo, dopo tutte queste idee preliminari, e dopo aver fatto così grandi e difficili passi verso l’invenzione dell’alfabeto, si può quasi certamente credere ch’egli in niun modo riuscirà nè a trovare e concepire quali parti ed elementi compongano il suono della sua voce, nè quando anche trovasse e concepisse la qualità e diversità scambievole di questi elementi, riuscirà a determinare e fermare appo se stesso l’idea di ciascuno di loro, non avendo i segni con cui significarli, e rappresentarli distintamente a se stesso, ed a cui riferire le sue proprie idee; nè formerà per niun modo il pensiero che siccome l’altre idee si rappresentano e determinano co’ vocaboli, e così determinate e rappresentate, ad essi vocaboli si riferiscono, così anche quelle de’ suoni elementari si possano significare e determinare con altri segni, cioè con quelli dell’alfabeto, ed a questi riportare colla mente. Imperciocchè questo appunto è quello che noi facciamo, senz’avvedercene: rapportiamo ciascun suono elementare al corrispondente carattere dell’alfabeto, e per questo mezzo ne concepiamo chiaramente e determinatamente l’idea distinta e separata, sempre che ci occorre, e la richiamiamo e riprendiamo a piacer nostro. Così facciamo dell’altre idee rispetto alle parole.

Ed è notabile che in questo secondo caso, noi rapportiamo l’oggetto della nostra idea alla parola che lo significa, o pronunziata o scritta. Gli uomini avvezzi alla lettura, sogliono per lo più rapportarsi al vocabolo scritto, e concepir tutt’insieme l’idea di ciascuna cosa, del vocabolo che lo significa, e della forma materiale in ch’egli si scrive. V. p. 3008. Ma gl’illetterati e i fanciulli si rapportano semplicemente al vocabolo pronunziato, e ciò basta a concepire l’idea determinata e chiara di qualsivoglia cosa il cui vocabolo si conosca, e di qualsivoglia vocabolo il cui significato ben s’intenda. Perocchè ciascun vocabolo anche semplicemente considerato nella sua profferenza, nella qual solamente possono considerarlo gl’illetterati, ha tanto corpo, e per così dire persona, e tanta consistenza, che basta a ferire i sensi, e quindi essere ritenuto nella memoria, e distinto col pensiero dagli altri vocaboli.

Il che non accade circa i suoni della voce. Perocchè esso suono è il vocabolo di se medesimo; e quindi l’idea del suono e del vocabolo che lo significa essendo una cosa stessa, e non potendosi l’uno riferire all’altro, la mente non è in verun modo aiutata dal linguaggio a concepire determinatamente e ritenere e richiamare a suo talento le idee d’essi suoni distinte l’una dall’altra. Vero è che non potendosi profferir da sè se non le vocali, tutti gli altri suoni hanno presso noi una sorta di nome, che non è propriamente esso suono nudo, come bi ci, sono nomi di b c. E nelle antiche lingue ciascun suono anche vocale, portava un suo proprio nome arbitrario e di convenzione (come son le parole, o vogliam dire come i nomi d’ogni altra cosa) il qual nome era più distinto che fra noi da esso suono nudo, onde si può dir che in quelle lingue i suoni della favella avessero i loro vocaboli diversi dall’oggetto, siccome l’avevano gli altri oggetti; che il linguaggio aiutasse il pensiero anche circa i detti suoni, e che la nuda idea de’ medesimi avesse dove appoggiarsi e a che riferirsi anche fuori della scrittura e dell’alfabeto scritto, cioè i nomi conventizi ed imposti dei detti suoni, e l’alfabeto pronunziato. Per esempio alèf, beth, ghimèl, alfa, beta, gamma, iota, eta erano nell’ebraico e nel greco i nomi propri de’ suoni, diversi da’ medesimi suoni.

Contuttociò, se non agli antichi, certo ai moderni, si può considerar come quasi impossibile di concepir chiaramente e precisamente, ritener costantemente, e richiamar facilmente le idee di ciascun suono elementare della favella, delle qualità proprie di ciascuno, e della loro scambievole diversità, senza la cognizione dell’alfabeto scritto. Nè credo che si possa allegare esempio di chi possegga o abbia mai posseduto distintamente e perfettamente queste tali idee nel modo e colle condizioni ch’io dico, senza conoscere i caratteri che le significano e rappresentano. Vale a dire non credo che alcuno abbia mai avuto e ritenuto, abbia e ritenga la chiara, determinata e distinta idea di ciascun suono, senza poterlo riferire al rispettivo carattere dell’alfabeto, ma rapportandolo solamente al suo vocabolo, o non rapportandolo a cosa alcuna, ma considerandolo col pensiero solamente in se stesso, e tenendolo semplicemente per se stesso. Non lo credo, dico, di alcuno, e neppur degli antichi, i quali tengo per fermo che nell’imporre i nomi che imposero ai suoni, avessero tutt’altro intento e motivo[a]

Nótisi che i nomi delle lettere ebraiche (onde derivano quei delle greche, che in greco non significano niente) hanno tutti una significazione indipendente affatto dal suono della rispettiva lettera, e son parole della lingua, nè hanno relazione alcuna tra loro, nè colla rispettiva lettera altro che il cominciare appunto per essa, come alèf, dottrina; beth, casa ec.

[Chiudi] che quello di aiutar con essi nomi il pensiero, e di far ch’essi suoni si potessero insegnare separatamente dall’alfabeto scritto, ed esser saputi, conosciuti distintamente e costantemente ritenuti da quelli che non conoscessero i caratteri nè potessero in niun modo leggere. Certo i fanciulli oggidì non prima imparano a distinguere i suoni del proprio lor favellare che ad intendere i caratteri che li significano, nè la distinta cognizione e idea di quelli è nelle menti loro per alcun tempo scompagnata dalla cognizione e dalla idea di questi.

Per le quali ragioni io dissi di sopra (p. 2953.) che noi colla nostra mente rapportiamo sempre ciascun suono elementare della favella al corrispondente carattere dell’alfabeto, quante volte concepiamo nella mente nostra la distinta idea di qualsivoglia dei detti suoni; e non dissi al nome o vocabolo de’ medesimi.

Con queste considerazioni fra l’altre, e per questa via, si può facilmente comprendere e sentire che l’invenzione dell’alfabeto fu, si può dire, così difficile, ed è così maravigliosa come fu ed è l’invenzione della lingua. Perocchè quel medesimo che dee farci maravigliare intorno alla lingua, cioè come sienosi potute avere idee chiare e distinte senza l’uso delle parole, e come inventar le parole senza avere idee chiare e distinte alle quali applicarle, questa medesima meraviglia ha luogo in proposito dell’alfabeto. Potendosi appena concepire come questo abbia potuto preceder le idee chiare e distinte de’ suoni elementari, o come tali idee abbiano potuto essere innanzi alla cognizione de’ segni che li figurano. Onde si può applicare all’alfabeto quel detto di Rousseau il quale confessava che nella considerazion della lingua e nello investigare e spiegare l’invenzione della medesima, trovavasi in grandissimo imbarazzo perchè non sembra possibile una lingua formata innanzi a una società quasi perfetta, nè una società quasi perfetta innanzi all’uso d’una lingua già formata e matura.

Anzi a rispetto dell’alfabeto cresce sotto un certo riguardo la meraviglia. Perchè idee chiare e distinte d’oggetti sensibili e sensibilmente distinti gli uni dagli altri, si poterono avere anche senza l’uso delle parole, e trovate le parole a significar questi oggetti, si potè col mezzo delle similitudini e delle metafore (principale strada per cui tutte le lingue si accrebbero) nominare eziandio gli oggetti meno sensibilmente distinti fra loro, e quindi i meno sensibili, i meno chiaramente conceputi, e finalmente gl’insensibili e gli oscurissimi; e trovare il modo di significarli. Ma questa scala non ebbe luogo in ordine all’alfabeto, che è, come ho detto, la lingua significante i suoni elementari. Tutti questi, benchè cadano sotto i sensi, sono tuttavia così confusi, legati, stretti, incorporati gli uni cogli altri nella pronunzia della favella, così lontani dall’essere in modo alcuno sensibilmente distinti, e la loro diversità scambievole è così difficile a notare, ch’ella è quasi fuor del dominio de’ sensi, e la difficoltà di concepire l’idea chiara e distinta di ciascuno di loro senza i segni, e di trovarne i segni senz’averne conceputo le chiare e distinte idee, non è quasi aiutata da verun rispetto, nè fu potuta vincere gradatamente, ma quanto alla parte principale, e alla somma dell’invenzione, essa difficoltà fu dovuta necessariamente vincere tutta in un tratto. Questa invenzione, per dirlo brevemente, apparteneva tutta all’analisi; è di natura sua, tutta opera ed effetto di questa; richiedeva essenzialmente la risoluzione negli ultimi e semplicissimi elementi, le quali cose sono appunto le più difficili all’umano intelletto, e le ultime operazioni ch’egli soglia giungere a fare. (12. 14. Luglio. 1823.).

Supponete un cieco nato al quale una felice operazione, nella sua età già matura o adulta, doni improvvisamente la vista. Domandategli o considerate i suoi giudizi (dico giudizi e non sensazioni, le quali non appartengono alla considerazione del bello esattamente e filosoficamente inteso) circa il bello materiale o il brutto materiale degli oggetti visibili che si presentano a’ suoi occhi. E voi vedrete se questi giudizi sono conformi al giudizio che generalmente si suol fare di quegli oggetti sotto il rapporto del bello; o se piuttosto essi non sono difformissimi o contrarissimi, non solo nelle minuzie e nelle finezze o delicatezze, ma nelle parti e nelle cose più sostanziali. Di ciò non mancano esperienze effettive e prove di fatto, perchè la circostanza ch’io ho supposta non manca di esempi reali.

E il cieco nato, restando cieco, quali idee concepisce egli della forma umana e di quella degli altri oggetti ch’ei può pur conoscere per mezzo del tatto? quali idee circa la loro bellezza o bruttezza? crediamo noi che queste idee, questi giudizi ch’ei forma convengano colle idee e co’ giudizi degli uomini che veggono? e che sovente non sieno contrarissime a queste? Ma se esistesse un bello ideale e assoluto, non dovrebbe il cieco nato conoscerlo, come si pretende ch’ei conosca naturalmente e che tutti gli uomini conoscano il bello morale che si crede essere assoluto, il qual bello morale niuno lo vede, come il cieco non vede il bello materiale? E nelle qualità che si credono assolutamente belle o brutte in questa o quella specie d’oggetti; e massime in quelle qualità che appartengono agli oggetti che il cieco nato conosce per mezzo degli altri sensi fuor della vista; e più in quelle che appartengono alla specie umana, della quale esso medesimo cieco fa parte, non dovrebbero le idee ed i giudizi del cieco, in quanto egli può comprenderle, convenire col giudizio e colle idee di quelli che veggono, circa il bello e il brutto che ne deriva o che n’è composto? non dovrebbero dico convenire, almeno per ciò che spetta al sostanziale e al principale? Laddove ciascuno di noi è persuaso ch’esse idee e giudizi non convengono coi nostri, se non forse accidentalmente, anzi per lo più ne sono remotissimi e contrarissimi. (14. Luglio 1823.).

Il fanciullo, il cieco nato che abbia improvvisamente acquistato la vista, e tutti gli uomini di qualunque nazione, tempo, costume, gusto, opinione, considera la gioventù come bella in se più della vecchiezza. La gioventù quanto a se par bella a tutti assolutamente. Essa è per tutti una qualità bella (sì considerata negli uomini che negli animali per la più parte, e così nelle piante, e nel più delle specie che ne sono partecipi) ec. Questo consenso universale non prova punto che v’abbia una qualità essenzialmente e assolutamente bella per se medesima, o necessaria alla composizione del bello in nessun genere di cose (giacchè la convenienza non è una qualità che componga il bello, una parte che entri nella composizione del bello; ma il bello consiste in essa, essa è il bello, e viceversa il bello è convenienza e non altro).

1. La gioventù si chiama bella, come si chiama bello un color vivo. Nè l’una nè l’altro meritano questo nome filosoficamente. La bellezza loro non è convenienza: ma il bello filosofico non è altro che convenienza. Quello che ci porta a chiamar bella la gioventù non è giudizio ma inclinazione. Il piacere che deriva dalla vista della gioventù non si percepisce per via del giudizio ma della inclinazione, e quindi non spetta alla bellezza. Altrimenti gli uomini diranno che l’esser donna assolutamente è bellezza, perch’essi veggono con più piacere una donna che un uomo. Ma le donne diranno al contrario. Queste qualità non hanno a far niente col bello filosoficamente definito. Esse spettano alla considerazione del piacere che nasce dall’inclinazione, la quale può ben essere universale in una specie, ed anche in tutte le specie, perchè può esser naturale e innata. Le idee son quelle che non possono essere innate. E il piacere che reca la vista della gioventù è una sensazione pura, non un’idea, nè deriva da un’idea. Che ha dunque che fare col bello ideale? Questo non può essere che un’idea. Il caldo, il freddo, l’amaro, il dolce, che niuno chiama belli nè brutti, appartengono alla categoria della gioventù. L’effetto ch’essi producono nell’uomo o nell’animale, in quanto esso effetto è attualmente piacevole o dispiacevole, non è idea ma sensazione. Dunque non è nè bello nè brutto. Così nè più nè manco l’effetto che produce nell’uomo o nell’animale la vista della gioventù. Il cieco nato adunque che vede per la prima volta una persona giovane e trova la gioventù piacevole a vedere, non prova l’effetto di niuna bellezza, ma di una qualità che la natura ha fatto esser piacevole a vedere come il dolce a gustare. Egli non giudica allora ma sente. Se dipoi sopra questa sensazione egli fonda e forma un giudizio e un’idea, come gli uomini sempre fanno, questa è venuta dalla sensazione, e non da un’idea innata, cioè da quella del bello che si suppone ideale. Bensì quella sensazione, in quanto piacevole, è venuta da una qualità innata e naturale in quel cieco, ma questa qualità non è un’idea; essa è una inclinazione e disposizione, nè deriva nè risiede nè spetta punto per se all’intelletto. Nel quale, e non altrove, dovrebbe esistere e risiedere il bello ideale, s’egli esistesse. E nell’intelletto quindi debbono accadere gli effetti del vero bello veduto, e non altrove; e da esso derivarne le sensazioni. Ma nel caso nostro accade il contrario. L’idea è cagionata nell’intelletto dalla sensazione.

Così discorrere del fanciullo. Il quale neanche si può così semplicemente dire che trovi piacevole a vedere la gioventù, appena, e la prima volta ch’ei la vede; che gli paia, come si dice, bella assolutamente e per se, e più bella della vecchiezza, al primo vederla. Ho notato altrove quanto spesso una persona giovane gli paia, e sia da lui espressamente giudicata bruttissima, e una persona vecchia bellissima (ancorchè ella sia a tutti gli altri brutta, eziandio per vecchia), e ciò per varie circostanze. E i sopraddetti effetti non hanno luogo nel fanciullo, o non v’hanno luogo costantemente e sicuramente nè in modo che non sia accidentale e di circostanza, se non dopo essersi sviluppata in lui la inclinazione naturale verso la gioventù, massime in ordine agl’individui della propria specie; il quale sviluppo, specialmente ne’ paesi meridionali, accade nel fanciullo assai presto, e molto prima ch’egli sia in grado ec. Vedi l’Alfieri nella sua Vita. Accade, dico, almeno in parte. E anche circa il cieco nato che acquisti improvvisamente il vedere, dubito molto che egli ne’ primi momenti, e anche ne’ primi giorni, trovi assolutamente bello, come si dice, l’aspetto della giovanezza per se medesimo, e più bello che quello della vecchiezza. ec. Del resto il cieco nato, restando pur cieco, troverà certo più piacevole p. e. la voce giovanile che la senile, e tutte le altre sensazioni che gli verranno da persone giovani, in parità di circostanze, le troverà più piacevoli di quelle che gli verranno da persone vecchie; e l’idea ch’egli concepirà della giovanezza, qualunque ella sia, sarà per lui più piacevole, e, come si dice, più bella che la contraria, e piacevole e bella per se medesima. Ma tutto ciò sarà effetto della inclinazione, e non derivato originalmente dall’intelletto. ec.

2. La gioventù non è necessaria alla composizione del bello, neppur nelle specie nelle quali essa ha luogo. Essa ancora è una qualità relativa, eziandio considerandola dentro i termini d’una medesima specie di cose. P. e. parlando della specie umana, egli si dà un bel vecchio, niente meno che un bel giovane. V’è la bellezza propria del bambino, del fanciullo, della età matura, dell’età senile, della decrepita ancora, niente manco che quella propria dell’età giovanile. (Vedi Senofonte cap. 4. par. 17. del Convito.) In molti casi la giovanezza ripugnando alle altre qualità dell’oggetto, ovvero a tale o tal altra circostanza estrinseca a lui relativa, ella non solamente non servirebbe a comporre il bello, ma gli nuocerebbe, lo distruggerebbe, e produrrebbe a dirittura il brutto, appunto in quanto giovanezza; di modo che quell’oggetto sarebbe brutto espressamente perchè giovane, quel composto sarebbe brutto precisamente in tanto in quanto la giovanezza v’avrebbe parte. P. e. gli antichi rappresentavano gli Dei giovani. Tali erano le loro idee, e bene stava. Ma oggi chi rappresentasse il Dio Padre coll’aspetto della gioventù, in vece della vecchiezza, questa effigie, in quanto giovanile, sarebbe ella bella? No, anzi brutta, appunto in quanto giovanile, e in quanto all’aspetto della giovanezza, perchè le nostre idee e l’uso nostro e le qualità che la nostra immaginazione attribuisce a Dio Padre, ripugnano a questa qualità. Anche fra gli antichi una immagine, una statua giovanile di Giove regnante e fulminante, sarebbe stata brutta in quanto giovanile. E forse che l’aspetto di Giove nelle antiche immagini è brutto? Anzi bellissimo, ma non giovane. Nè perciò men bello di Apollo giovane, nè di Mercurio più giovane ancora, nè di Amore fanciullo. La giovanezza in questi tali casi cagionerebbe la bruttezza perchè sarebbe sconveniente. Così fanno tutte l’altre qualità nello stesso caso per la stessa ragione. Dunque la giovanezza come tutte l’altre qualità, e può essere sconveniente, ed essendo, cagiona bruttezza. Dunque ella come tutte l’altre non cagiona bellezza se non quando conviene. Dunque la gioventù non è cagione nè parte di bellezza assolutamente nè per se, ma relativamente, e solo in quanto ella conviene, e ciò considerandola eziandio in quelle sole spezie di cose che possono parteciparne, e di più dentro i termini d’una medesima specie. Dunque la gioventù, filosoficamente ed esattamente parlando, non appartiene per se alla bellezza più di qualsivoglia altra qualità; e, come tutte l’altre, è resa propria a formar la bellezza, non da altro che da una cagione a lei estrinseca e diversa, e per se variabilissima e incostante, cioè dalla convenienza. La quale ora ammettendo la gioventù, la rende propria al detto uffizio, ora escludendola, ve la rende al tutto inabile.

Potrà dirsi che, se non altro la bellezza giovanile è maggiore p. e. della senile. Potrei rispondere ch’ella è più piacevole, ma non già maggior bellezza per se, non essendo maggior convenienza. Il fatto però è questo. L’ordine universale della natura, indipendentemente affatto dalla bellezza, porta che le forme e le facoltà delle specie capaci di gioventù e di vecchiezza, si trovino nella maggior pienezza conveniente alla rispettiva specie e nella maggior perfezione relativa ad essa specie, nel tempo della gioventù perfetta di ciascun individuo. Quindi non assolutamente, ma relativamente all’ordine attuale della natura, si può dir che p. e. la forma dell’uomo perfettamente giovane è più perfetta di quella del vecchio, e la più perfetta di tutte quelle delle quali l’uomo è capace. Laonde la bellezza della sua forma giovanile si potrà dir maggiore di quella della senile. Ma questo maggiore è accidentale, e propriamente non appartiene alla bellezza, ma a quel soggetto in cui ella si considera. Perocchè la forma giovanile a cui essa bellezza appartiene, è per rispetto alla natura dell’uomo, e non per rispetto al bello, più perfetta della senile. E quindi, a parlare esattamente, nasce che la bellezza giovanile dell’uomo, non sia bellezza maggiore della senile, ma appartenente ad una forma che è la più perfetta di cui l’uomo sia capace, cioè alla giovanile. Onde la perfezione, e la maggior perfezione, non è qui propria della bellezza, ma del soggetto a cui ella appartiene accidentalmente, cioè della forma giovanile dell’uomo. E però la forma giovanile non può per se entrare nella composizione di quel che si chiama bello ideale; giacchè essa forma può ben essere il soggetto del bello (siccome può anche non essere, e spessissimo non è), ma non è già esso bello, e la bellezza non gli appartiene che accidentalmente, ed è del tutto estrinseca e diversa alla di lei natura. E conchiudesi che la bellezza giovanile è bellezza relativamente alla forma giovanile, ma non assolutamente, nè in quanto giovanile, dandosi bellezza scompagnata dalla gioventù, anche nella medesima specie. Sicchè la bellezza giovanile è come tutte l’altre relativa, e non assoluta. Relativa cioè alla forma giovanile. Tanto è lungi che la gioventù sia per se stessa una qualità bella, quando non è che il soggetto della bellezza, e può esserlo e non esserlo, e la bellezza può stare in una medesima specie con e senza la giovanezza. (14-15. Luglio. 1823.).

Il tema di poto dev’esser po (fatto da πόω-πῶ, come do da δόω-δῶ, no da νέω-νῶ), di cui potus, come il tema di nato è no, di cui natus. (15. Luglio. 1823.).

Prisciano riconosce il verbo legito da lego, invece di lecto o di lectito che pur sussistono. Questo legito conferma quello ch’io ho detto altrove in proposito di agito, cioè che gli antichi, anzi originali, propri e regolari participii di questi tali verbi fossero p. e. agitus, legitus, docitus, onde per sincope agtus, legtus, e in ultimo actus, lectus, doctus. E ci dimostra evidentemente l’originale, primitivo e perduto participio di lego, cioè legitus. E non ha che far con rogito, come dice il Forcell. o Prisciano stesso appo lui, il quale non viene da rogitus, ma da rogatus, come mussito da mussatus, e come ho provato largamente altrove. Giacchè il tema di rogito, cioè rogo appartiene alla prima coniugazione, e non alla terza come lego, nè alla seconda come doceo, e però la formazione del suo continuativo o frequentativo è soggetta a un’altra regola, da me altrove stabilita. Eccetto se rogo non avesse anticamente avuto un participio anomalo rogitus (come domo domitus), del che mi pare aver detto altrove, inducendomi in questo sospetto la voce rogito, cioè rogato (quasi un aggettivo neutro sostantivato), la qual voce è latino-barbara (V. il Glossar. Cang. ) e italiana. (15. Luglio 1823.).

Urito presso Plauto, se questa voce è vera, dimostra il perduto e regolare participio uritus di uro, in vece di ustus, onde ustulo ec. (16. Luglio 1823.). V. p. 2991.

Alla p. 2864. Noi abbiamo anche i positivi frate e suora, cioè frater e soror. I francesi non hanno che i positivi. Frayle spagnuolo, cioè frate religioso sembra essere un diminutivo di frater, cioè, non che sia diminutivo in ispagnuolo, ma che sia venuto da fratellus, o dall’italiano fratello. (16. Luglio 1823.). V. p. 2983. fine.

Se la voce eructus appresso Gellio è vera, essa non si potrebbe considerare se non come un participio d’un verbo anteriore ad eructo e ructo, dai quali si fa ructatus ed eructatus, come da poto potatus, e non potus, il qual potus dimostra un verbo originario di poto. Ructus us eziandio par che dimostri un verbo originario di ructo e di eructo, formandosi, come altrove ho notato, questi sostantivi verbali della 4. declinazione da’ participi in us de’ loro verbi originali, sicchè da ructo si farebbe ructatus us, non ructus. Così motus us viene da moveo, non da moto as, potus us da po, non da poto ec. Queste considerazioni mi portano a sospettare che ructo ed eructo siano continuativi d’un tema perduto, a cui spettino eructus a um appo Gellio, e ructus us onde ructuo e ructuosus. Anche eructuo vedi nel Forcell. in Eructo. Al qual sospetto mi spinge massimamente la forma propria e materiale di ructare ed eructare tutta continuativa. (16. Luglio 1823.).

Alla p. 2786. marg. Anche ἁρπὼς potrebb’esser preterito medio o di ἅρπω, come εἰδὼς di εἴδω da οἶδα, o di ἁρπάω contratto, come ἑστὼς da ἑσταὼς di στάω, βεβὼς da βεβαὼς di βάω ec. Non si direbbe però ἑστυῖα nè βεβυῖα ec. come εἰκυῖα, εἰδυῖα, ἁρπυῖα, ma ἑστηκυῖα ec. attivo, o attivi o medii che sieno ἑστὼς, βεβὼς ec. che non si trovano, ch’io sappia, se non mascolini o neutri. I quali participii molti li chiamano attivi e contratti nel modo che ho detto alla p. 2786. e 2788. marg. (e v. Schrevel. in βεβὼς) ma altri, e credo con più ragione, li chiamano medii, e contratti nel modo detto qui di sopra. L’attivo participio perfetto di ἅρπω sarebbe non ἁρπὼς, ma ἡρφὼς o ἁρφὼς come τετερφὼς di τέρπω. Di ἁρπάω però sarebbe ἁρπηκὼς o ἡρπηκὼς, come ho detto a pag. 2776. ovvero anche ἁρπακὼς o ἡρπακὼς, come ἁρπάζω nè più nè meno, il quale fa ἥρπακα. (16. Luglio 1823.). V. p. 2987.

Benchè materiale, non sarà perciò vana l’osservazione che i poemi d’Omero, massime l’Iliade, avuto rispetto alla qualità della lingua greca, la quale in un dato numero di parole o di versi dice molto più che le lingue moderne naturalmente e ordinariamente non dicono, i poemi d’Omero, ripeto, sono i più lunghi di tutti i poemi Epici conosciuti nelle letterature Europee. Paragonati all’Eneide, ch’è poema scritto nella lingua più di tutte vicina alla detta facoltà della lingua greca, oltre ch’essi sono composti di 24 libri ciascuno, laddove l’Eneide di soli dodici, si trova che avendo l’Eneide 9896 versi, l’Odissea n’ha 12096, e l’Iliade 15703, il qual computo l’ho fatto io medesimo. Notisi che i versi di Virgilio sono della stessa misura che quelli di Omero. Questo parallelo così esatto non si potrebbe fare coi poemi scritti nelle lingue moderne, sì per la differente misura de’ versi e quantità delle sillabe che questi contengono, sì molto maggiormente perchè le lingue moderne hanno bisogno d’assai più parole che non la lingua greca e latina per significare una stessa cosa. Onde quando anche v’avesse qualche poema epico moderno che di parole eccedesse quelli d’Omero, credo però che tutti debbano consentire che nel numero, per così dire, o nella quantità delle cose niuno ve n’ha che non sia notabilmente minore di questi, o certo dell’uno d’essi, cioè dell’Iliade.

Ora ella è pur cosa mirabile ad osservare che lo spirito e la vena di Omero, l’uno tanto vivido gagliardo e fervido e l’altra così ricca e feconda in ciascheduna parte, abbiano potuto reggere, lascio stare in due poemi, ma in un poema medesimo, per così lungo tratto. Perciocchè tutti gli altri poeti epici, avendo tolto qual più qual meno, quale direttamente e quale indirettamente, qual più visibilmente e qual più copertamente da lui, e successivamente gli uni dagli altri di mano in mano, si vede tuttavia che non hanno potuto reggere a un corso così lungo, per vigorosi e vivaci che fossero, e sonosi contentati d’una carriera assai più breve, e bene spesso prima di giungere al termine di questa medesima, hanno pur lasciato chiaramente vedere che si trovavano affaticati, e che la lena e l’alacrità veniva lor manco, tanto più quanto più s’avvicinavano alla meta[a]

Da queste osservazioni si deduce quanto la natura e l’ingegno son più ricchi dell’arte e come l’imitatore è sempre più povero dell’imitato. V. Algarotti Pensieri. Opp. Cremona, t. 8. p. 79.

[Chiudi]. E Virgilio, il quale che cosa non ha tolto ad Omero?, nella seconda metà della sua Eneide riesce evidentemente languido e stanco, e diverso da se medesimo, se non nella invenzione[b], certo però nell’esecuzione cioè nelle immagini, nella espansione e vivacità degli affetti e nello stile, il che non può esser negato da veruno che ben conosca la maniera, la poesia, la lingua, la versificazione di Virgilio, anzi a questi tali la differenza si fa immediatamente sentire: e vedesi che l’immaginazione di Virgilio era per la lunga fatica illanguidita, raffreddata, e sfruttata; non rispondeva all’intenzione del poeta; non gli ubbidiva; egli poetava già per instituto e quasi debito, per arte e per abitudine, arte e abitudine che in lui erano eccellentissime, e possono ai meno esperti sembrare impeto ed ὁρμὴ poetica, ma non sono, e non paiono tali ai più accorti, i quali in quegli ultimi libri desiderano la vena, la προθυμία, l’alacrità di Virgilio. L’invenzione doveva essere stata da lui tutta concepita e disposta fin dal principio, com’è naturale in ogni buon poeta, e massime in un poeta di tant’arte e maestria. Quindi s’ella nel fine non è inferiore al principio, niuna maraviglia. L’immaginazione era così fresca quando inventava il fine del poema, come quando inventava il principio. Ma non minor forza, vivezza, attività, prontezza, fecondità d’immaginativa si richiede allo stile, ossia all’esecuzione che all’invenzione. Anzi si può dire che lo stile poetico, e nominatamente quello di Virgilio, sia un composto di continue, innumerabili e successive invenzioni. Ogni metafora, ogni aggiunto che abbia quella mirabile e novità ed efficacia ch’e’ sogliono avere in Virgilio, sono tante particolari e distinte invenzioni poetiche, come sono invenzioni le similitudini, e richiedono una continua energia, freschezza, mobilità, ricchezza d’immaginazione, e un concepir sempre vivamente e quasi sentire e vedere qualsivoglia menoma cosa che occorra di nominare o di esprimere eziandio di passaggio e per accidente. Anche in ogni altra parte dell’esecuzione, cioè nelle immagini ec. e nella vena degli affetti anche in situazioni che per la invenzione sono patetichissime ec. Virgilio ne’ sei ultimi libri è inferiore a se stesso, che che ne dica Chateaubriand. V. p. 3717.

In verità questo affievolimento e spossamento dell’immaginazione, del calore, dell’entusiasmo in un poema di lungo spirito, non solo ci dee parer perdonabile, ma così naturale, ch’egli sia quasi inevitabile anche ai più grandi e veri poeti. Massime considerando quella continuità d’azione che si richiede all’immaginativa, nel modo spiegato di sopra. Ma Omero, da niuno attingendo, non avendo esemplari coll’uso e meditazione de’ quali, se non altro, ristorasse le sue forze, si rinfrescasse, e ripigliasse animo (come accade anche ai più originali poeti), senz’altro nè fonte nè soccorso, nè modello, nè sprone che se medesimo, la sua propria immaginativa e la natura, in uno anzi in due interi poemi più lunghi di tutti quelli ch’essi poscia hanno prodotti, non mostra mai nè quanto all’invenzione nè quanto allo stile il menomo languore o isterilimento, ma dura fino all’ultimo colla stessa freschezza, vivacità, efficacia, ricchezza, copia, impeto, così intero di forze, così abbondante di novità, così fervido, così veemente, così mosso ed affetto dalla natura, e dagli oggetti che se gli presentano o ch’egli immagina, come nel principio. Massimamente nella Iliade. Nella quale anzi la ricchezza, varietà, bellezza, originalità e forza dell’invenzione tanto più s’accrescono, quanto più si avanza, ed è maggiore nel fine che nel principio.

E veramente si può dire che Omero fu molto più ricco del suo solo, che tutti gli altri poscia non furono del loro proprio e dell’altrui accumulato insieme. Nè certo, secondo le addotte considerazioni, dee parer poco maraviglioso e notabile, benchè materiale, il dire che i poemi epici d’Omero sono più lunghi di tutti quelli che da essi in uno o altro modo derivarono (poichè anche il Paradiso perduto e la Messiade derivano pur di là), e che di essi in una o altra guisa si alimentarono. Massime aggiungendo che in tutta la loro estensione essi sono i medesimi, cioè sempre veri poemi, e sempre uguali a se stessi, il che non si può neppur sempre dire di tutti gli altri sopraddetti.

Par che l’immaginazione al tempo di Omero fosse come quei campi fertilissimi per natura, ma non mai lavorati, i quali, sottoposti che sono all’industria umana, rendono ne’ primi anni due e tre volte più, e producono messi molto più rigogliose e vivide che non fanno negli anni susseguenti malgrado di qualsivoglia studio, diligenza ed efficacia di coltura. O come quei cavalli indomiti, lungamente ritenuti nelle stalle, che abbandonati al corso, si trovano molto più freschi e gagliardi de’ cavalli esercitati e addestrati, dopo aver fatto un doppio spazio. Tanto che, considerando la freschezza dello stile, delle immagini, della invenzione di Omero nella fine della Iliade, par ch’ei non lasci di poetare e non chiuda il poema, se non perch’ei vuol così, e per esser giunto alla meta ch’ei s’era prefisso, o perchè ogni opera umana dee pure aver qualche fine, ma che fuori di questo caso, egli avrebbe ancora e spirito e lena per seguire, senza pur posarsi, a correre ancora non interrottamente altrettanto e maggiore, anzi non determinabile spazio. E che l’opera sua riceva il suo termine, ma la ricchezza e copia della sua immaginativa non sia di gran lunga esaurita, anzi sia poco meno che intatta; e che il suo corso finisca, ma non il suo impeto.

E par che la natura ancor vergine dalla poesia (siccome vergine dalle scienze e dalla filosofia ec. che distruggono l’immaginazione e l’illusioni ch’essa natura ispira) le somministrasse in quel tempo tanta copia d’immagini e sentimenti che non avesse quasi alcun fondo, e a rispetto di cui sembri povera e scarsa quella che i più grandi poeti trassero poscia in qualunque tempo dalla natura già molto studiata e imitata. (16-17. Luglio. 1823.).

Alla p. 2974. Cervello (cerebellum), cerveau, cervelle da cerebrum. V. p. 3618. Crivello (cribellum come flabellum da flabrum) diminutivo di cribrum. I franc. crible, gli spagn. criva. Cerebro, celabro, cribro, cribrare ec. per crivellare ec. non sono voci volgari, ma tolte dal latino dagli scrittori. Così lo spagn. celebro, in vece di cui volgarmente dicono sesso. Così pure il nostro moderno e tecnico cerebello. Trivello o trivella (Forcell. in terebra) voci nostre volgari, onde nella Crusca trivellare, sono quasi terebellum o terebella diminutivo del lat. terebra, come cerebellum e cervello di cerebrum. Vecchio, viejo, vieil sono indubitatamente diminutivi di vetus, come pecchia, aveja, abeille da apecula. Forse da vetulus o da veculus volgarmente contratto da vetusculus. Vieux forse è lo stesso che il positivo vetus. Vedi per tutte le soprascritte voci il Forcellini e il Glossario, se hanno nulla a proposito. (17. Luglio 1823.). V. p. 3514. 3557.

Trapano, trapanare, trépan, trépaner — τρύπανον ec. (17. Luglio 1823.).

Usitari e altri tali frequentativi o diminutivi da me notati poscia qua e là, sono da aggiungersi a quelli che io notai già tutti insieme per dimostrare che molti verbi hanno il frequentativo in itare senza avere il continuativo in tare, contro il Forcellini che spesso dice quello esser derivato da questo. (17. Luglio 1823.).

Se molti continuativi latini non hanno una significazione continuativa del verbo originale, ma uguale o poco diversa da questo, ciò non toglie che la virtù della loro formazione non sia veramente continuativa, e che la proprietà loro non sia tale, benchè non sempre osservata e custodita dagli scrittori latini, e in alcuni verbi non mai, per le ragioni dette altrove. Che se questa obbiezione valesse, ella varrebbe nè più nè meno contro coloro che chiamano quei verbi frequentativi, non trovandosi ch’essi abbiano sempre o tutti un significato diverso da’ verbi originali, e varrebbe anche circa quei medesimi verbi in itare ch’io dico esser veramente frequentativi di formazione. P. e. il Forcell. in parito dice ch’egli è frequentativo di paro (e per formazione può infatti esser non meno frequentativo che continuativo), soggiungendo et eiusdem fere significationis. Così in haesito, e spessissimo. Dunque la detta obbiezione farebbe tanto contro i passati grammatici e le passate denominazioni e teorie de’ verbi formati da’ participii in us, quanto contro di me e delle mie denominazioni, distinzioni e teorie. Se tali verbi non hanno senso continuativo neanche l’hanno frequentativo. Dunque l’obbiezione non è più per me che per gli altri. (17. Luglio 1823.).

È notabile che tutte le maniere di verbi frequentativi o diminutivi italiani da me altrove enumerati, come saltellare, salterellare ec. sono immancabilmente e solamente della prima coniugazione, ancorchè il verbo originale e positivo sia d’altra coniugazione, come scrivere, onde scrivacchiare ec.; nè più nè manco che in latino tutti i continuativi e frequentativi o diminutivi (se non forse pochi anomali) del genere ch’io ho preso ad esaminare, da qualunque coniugazione essi vengano; ed anche altri verbi derivativi, sieno diminutt. sieno frequentatt. sieno l’uno e l’altro insieme, ec. di verbi originali ec. con diverse formazioni, che non spettano alla mia teoria, ed istituto, come ustulare, misculare di cui altrove ec. pandiculari, vellicare (v. p. 2996. marg.), sorbillo, cantillo, conscribillo ec. cavillor, missiculo, claudico, ec. Anche in francese tali verbi diminutivi ec. e così in ispagnuolo mi par che sieno della 1. coniugazione (17. Luglio 1823.).

Scambio del v in g, del quale ho detto altrove. Nuvolo (dal latino nubilum) — nugolo. Pagolo per Pavolo o Paulo (spagnuolo Pablo). (18. Luglio. 1823.).

Dico che nella formazione dei continuativi da’ verbi della prima, l’ultima a del participio si cambia in i. Da mussatus mussitare. Ed aggiungo che i verbi della prima non hanno se non questo o continuativo o frequentativo, e non un altro frequentativo che verrebbe a essere in ititare. Si eccettuino i verbi il cui participio è dissillabo, come do, flo, no-datus, flatus, natus, i quali non mutano l’a in i, ma la conservano. Datare, flatare, natare. E da questi participii si potrà anche fare un distinto frequentativo in itare, sebbene ora non mi sovvenga esempio al proposito. (18. Luglio. 1823.).

Alla p. 2677. Anche il volgo e il discorso familiare spagnuolo usa questo idiotismo del singolare dice per lo plurale dicono. Nella Historia del famoso Predicador Fray Gerundio de Campazas s’introduce un contadino chiamato Bastian Borrego a usar queste frasi plebee disque, dizque per dicenque. (18. Luglio 1823.).

Alla p. 2976. Τεθνηκὼς, τεθνεικὼς, τηθνηὼς, τεθνειὼς, τεθναὼς, τεθνεὼς e τεθνὼς sono tutti chiamati dai Grammatici participii perfetti della voce attiva di θνήσκω, o θνάω ec., e non della media, ma contratti dai due primi. (18. Luglio 1823.).

La gioventù non era fra gli antichi un bene inutile, e un vantaggio di cui niun frutto si potesse cavare, nè la vecchiezza era un incomodo e uno svantaggio che niun bene, niun comodo, niun godimento togliesse, e niuna privazione recasse seco. Quindi e molto meno frequente che a’ tempi nostri era il numero di quelli che in gioventù si uccidevano, e molti più vecchi suicidi si trovano commemorati nell’antichità che non si veggono al presente. Come dire Pomponio Attico e molti filosofi greci e romani. Perocchè al presente le contrarie cagioni producono effetto contrario. Il giovane moltissimo desidera e nulla ha, neppure ha come distrarre, divertire, ingannare il suo desiderio, e occupare la sua forza vitale, adoperarla, sfogarla. Quindi più giovani suicidi oggidì che fra gli antichi non pur giovani solamente, ma giovani e vecchi insieme. Il vecchio nulla perde per la vecchiezza, e poco, o meno ferventemente e impetuosamente e smaniosamente, desidera. Quindi è così raro un vecchio suicida oggidì, che parrebbe quasi miracolo. E pure il giovane che si uccide, privasi della gioventù, e rinunzia a una vita, ch’ei si può ancora promettere, di molti anni. Il vecchio si priva della vecchiezza (qual privazione Dio buono) e rinunzia a pochi anni o mesi di vita. Nonpertanto per mille giovani suicidi appena e forse neanche si troverà oggi un solo vecchio suicida, e questo, se pur si troverà, sarà forse tale per qualche estrema disgrazia, in qualche caso ove la vita fosse già disperata, e per salvarsi da una morte più trista, e sicura. Ma neanche nell’estreme sventure è costume de nostri vecchi il ricorrere volontariamente alla morte. Applicate queste considerazioni a quello che ho detto altrove circa l’amor della vita nei vecchi, l’amore e la cura della vita crescenti in proporzione che per l’aumento dell’età scema il valore d’essa vita. (18. Luglio 1823.).

Alla p. 2870. Come la nazion francese è tra tutte quelle europee che si chiamano meridionali quella che più partecipa del settentrionale sì per clima, come per indole, costumi eccetera[a]

Si può vedere la p. 3252. sg. 3400. sgg.

[Chiudi] così la lingua francese è di tutte le figlie della latina, o vogliamo dire delle meridionali colte, quella che ha più del settentrionale sì per la natura, asprezza ec. dei suoni, come per la proprietà ed indole della dicitura, forma, struttura ec. E si può dire che per l’uno e per l’altro rispetto essa lingua, siccome la nazione che la parla tenga il mezzo, e sia quasi un grado e un anello fra le meridionali e le settentrionali europee colte. Dico per l’uno e per l’altro rispetto, cioè per li suoni e per l’indole. Le quali due cose sono sempre analoghe e corrispondenti fra loro, cioè tale è sempre l’indole di una lingua perfetta qual è quella de’ suoni materiali ch’ella adopera. E la varietà medesima che si trova fra i suoni di due lingue d’una medesima classe, o di due lingue di classi diverse, o delle lingue di due classi (come settentrionale e meridionale), si troverà sempre fra i caratteri e i geni delle medesime lingue o classi, purch’elle sieno perfette, e ben corrispondenti all’indole della nazione, il che sempre accade quando una lingua è perfettamente sviluppata, e senza di che non può essere che una lingua, ancorchè colta, abbia perfettamente sviluppato, o conservi, il suo vero, conveniente, naturale e proprio carattere. (19. Luglio 1823.).

Alla pag. 2974. Intorno a questo verbo urito, e al verbo quaerito di cui diffusamente altrove, e ad altri simili, è da discorrere come segue. Puoi vedere la p. 3060 1. e le note grammaticali del Mai a Cic. de Rep. I. 5. p. 18. Gli antichi latini dissero frequentissimamente s per r. Veggasi il Forcell. in S, ed R, e in Quaeso. Quindi, dicendo essi uso per uro, dissero eziandio ussi per uri preterito perfetto (raddoppiando la s dopo vocale lunga, del qual uso v. Quintil. ap. Forcell. in S), ed usitum per uritum che sarebbe stato il vero supino di uro. O quando anche non iscambiassero la s e la r nelle altre voci di uro, le scambiarono certo nel perfetto nel supino e nel participio in us, per modo che mancando il perfetto il supino e il participio regolare, non restò in uso se non il detto ussi ed usitus e usitum, contratto però questo in ustus e ustum, come positus-postus, e come quaestus us e chiesto, quisto ec. da quaesitus (del che vedi la p. 2894-5.). Similmente da haereo, haurio, sia che dicessero anticamente, haeseo, hausio, o sia come si voglia, certo è che in luogo dei regolari haeri o haerui, haeritum haeritus, hauri o haurii o haurivi, hauritum, hauritus, fecero haesi, hausi hausitum hausitus, che oggi rimangono in luogo di quelli, contratto però hausitum ed hausitus in haustum ed haustus, come appunto usitus in ustus. E fecero similmente haesitus il quale oggi non rimane, ma è dimostrato da haesitare, che regolarmente dovrebb’essere haeritare. Haesum, onde haesurus ec. o è contratto diversamente o anomalo, come haesi per haesui (o haerui), il quale però fu trovato da Diomede in non so quale antico (Forcell. Haereo fin.). Così dite di hausum ed hausus. Ma in conferma di questo mio discorso, e di tutto quanto io dico circa questi tali continuativi, come urito, quaerito, ed anche legito, agito e tanti altri che non sembrano poter derivare da participii, e in conferma di quanto altrove ho ragionato degli antichi e regolari participii e supini ora perduti, ma dimostrati in parte da continuativi e frequentativi, eccovi appunto haurivi o haurii, hauritu, hauriturus, hauritus (come appunto uritus perduto, onde uritare; quaeritus perduto, onde quaeritare, querido, chéri ec.) usati anch’essi in vece di hausi, haustu, hausturus (o, come Virg. hausurus), haustus; bensì da autori, la più parte, recenti, perchè, come ho detto, l’antica pronunzia preferiva la s. Ma la regolare era pur questa, e il vederla usata da’ più moderni e più rozzi, e il vederla convenire coi continuativi antichi (come urito, quaerito), i quali da essa e non d’altronde derivano, persuade ch’ella fosse conservata continuamente nelle bocche del volgo, fino a passare nelle lingue moderne, giacchè p. e. querido chéri ec. non sono altro che il regolare e originario quaeritus per quaesitus, onde l’antico quaeritare proprio de’ Comici Plauto e Terenzio, il qual verbo fa fede al detto participio, che conservatosi nelle lingue moderne, è perduto nel latino.

Del resto, io non so, come ho detto, se gli antichi dicessero anche uso, haeseo, hausio ec. per uro ec. come dissero ussi, hausi, haesi ec. per uri perfetto, hauri o haurii ec. Ben so che siccome dissero quaesii, quaesivi, quaesitus, quaesitum per quaerii, quaerivi, quaeritus, quaeritum che sono affatto perduti, così dissero quaeso per quaero, e tutto questo verbo profferirono colla s siccome colla r, benchè questa in molte voci di quaero non sia perduta, anzi col tempo sia rimasta in esse voci la sola pronunzia della r, e non quella dell’s. Dalle quali cose è seguìto che di quaero e quaeso si facciano dai lessicografi ec. due verbi, essendo un solo, e che quaero si faccia anomalo (quaero is, sii o sivi, situm) e quaeso difettivo (quaeso is, ii o ivi), quando in realtà il primo (volendoli distinguere, che non si dee) sarebbe difettivo, e il secondo intero e regolarissimo. Ma tornando al proposito, questo quaeso mi persuade che si dicesse anche haeseo, hausio e così in ogni altra voce; e così pure in molti altri verbi de’ quali si dee discorrere nel modo stesso che si è fatto di uro, haereo, haurio, quaero. (19. Luglio. 1823.).

Alla p. 2893. Chiedere vien da quaerere, ed è propriamente (benchè con diverso significato) lo stesso che il nostro chierere, siccome fedire verbo difettivo italiano, onde fiedo, fiede ec. vien dal lat. ferire, ed è propriamente lo stesso che il nostro fierere o ferere, onde fiéro, fiére, fére (colla e larga) ec. usato dagli antichi nostri in alcune voci in cambio dell’ital. ferire. V. la Crusca e il Buommattei ec. (20. Luglio. 1823.).

Alla p. 2891. Il Fischer nella prefazione alla Grammat. Greca del Weller, ed. Lips. 1756. dice che i pleonasmi d’Omero derivano dalla lingua ebraica. Che che sia di questa proposizione, certo è che quel pleonasmo di νόστιμον ἦμαρ e simili, da me notato altrove, e non osservato dal Fischer, può servire a spiegar molti passi della Scrittura nei quali la parola giorno non serve che ad una perifrasi, onde p. e. in die irae tuae, non vale altro che in ira tua; cosa finora, ch’io sappia, non veduta dagl’interpreti, i quali p. e. pensano che quel dies significhi il giorno del giudizio ec. (20. Luglio. 1823.).

Alla p. 2815. A questa categoria di verbi (che forse si potrebbero chiamare continuatt. irregolari, tutti, come viso is) spettano senza dubbio i seguenti[a]

Vellico il Forc. lo chiama frequentat. di vello. E ha ragione. Così fodico di fodio, ec. albico, nigrico (biancheggiare) da albeo, nigreo o da nigro. Usurpare è un frequentat. o continuat. da utor-usus. Medico e medicor. — V. p. 3264 — nutrico e nutricor da nutrio is: viridico, candico. V. p. 3695. e la p. 4004.

[Chiudi]. Occupo da ob e capio. Veggasi la pag. 3006-7. Obstino da ob e teneo, interposta la s, come in ostendo che anticamente dovette dirsi obstendo ed esser lo stesso che il più moderno verbo obtendo. Nè è maraviglia che la prep. ob sia fatta seguire da una s nella composizione per proprietà di lingua, o ch’esistesse anche anticamente una prep. obs per ob; giacchè vediamo appunto ab e abs, e nella composizione preporsi sempre alle voci comincianti per t la prep. abs e non ab. Così anche fuor di composizione, quando non s’usi la prep. a: perocchè convien dire p. e. o a te, o abs te, non ab te. V. Forcell. in A, ab, abs, e in Abs. V. p. 3001. fine. 3696. Tornando al proposito è manifesto che obstino, obstinatus vien da teneo, come ne viene pertinax, pertinacia ec. che spettano alla stessa significazione. La e è cangiata in i come appunto in pertinax e ne’ composti ordinari contineo, obtineo ec. Ed è notabile che laddove gli altri verbi di questa categoria son fatti, come ho detto, da verbi della terza, questo che indubitatamente appartiene a essa categoria, e non può esser di senso più continuativo, è fatto da un verbo della seconda. V. p. 3020. Aucupo ed aucupor da avis e capio, come occupo, e come Nuncupo da nomen e capio, se però non si vuole che vengano da auceps aucupis quanto alla derivazione immediata. Anticipo da ante e capio. Participo da pars e capio, come anticipo, se non si vuol che venga da particeps cipis. Vociferor aris (forse anche vocifero as) da vox e fero fers. Opitulo e opitulor da ops e tuli di fero o di tollo di cui forse è propriamente questo perfetto (v. Forcell. in Tollo fin.), o piuttosto dall’antico tulo, tulis, tetuli, latum, verbo della terza, di cui v. Forcell. in tulo.

In caso ch’opitulo fosse fatto da tuli perfetto, ciò non sarebbe senza esempio in questa categoria di verbi. Accubo ec. è dal perf. accubui di accumbo. Fors’anche participo, anticipo, e così significo, aedifico, e gli altri di cui a pag. 2903. sqq. vengono dai perfetti cepi, e feci di capio e facio, mutato l’e in i per virtù della composizione, (come p. e. in colligo, corrigo, conspicio ec. ec. da lego, rego, specio) e mutata la desinenza; onde da ciò venga che in essi verbi manchi la i radicale de’ loro temi, siccome manca in molte voci formate dai detti perfetti, p. e. cepero, feceram ec. Ma non lo credo, perocchè auspico e suspico che sono della stessa forma di significo, participo ec. non possono venire dal perfetto di specio, il quale è spexi, se pur non si volesse supporre un antico e ignoto speci, analogo a feci, jeci ec.

Del resto i verbi da cui derivano i soprascritti, hanno anche i loro continuativi fatti da participii, cioè capto e tento.

Aspernor aris e asperno as (giacchè aspernor si trova anche in senso passivo) da ad e sperno is. (20. Luglio. 1823.). Consterno, as, avi, atum (il Forc. per errore di stampa stravi atum, come apparisce dagli esempii) da sterno is, e cum, ovvero da consterno is. Crepo as, forse da crepo is. V. Forc. in Crepo, fine. V. p. 3234.

Alla p. 2906. Bell’effetto fanno nell’Aminta e nel Pastor fido, e massime in questo, i cori, benchè troppo lambiccati e peccanti di seicentismo, e benchè non vi siano introdotti se non alla fine e per chiusa di ciascun atto. Ma essi fanno quivi l’offizio che i cori facevano anticamente, cioè riflettere sugli avvenimenti rappresentati, veri o falsi, lodar la virtù, biasimare il vizio, e lasciar l’animo dello spettatore rivolto alla meditazione e a considerare in grande quelle cose e quei successi che gli attori e il resto del dramma non può e non dee rappresentare se non come particolari e individue, senza sentenze espresse, e senza quella filosofia che molti scioccamente pongono in bocca degli stessi personaggi . Quest’uffizio è del coro; esso serve con ciò ed all’utile e profitto degli spettatori che dee risultare dai drammi, ed al diletto che nasce dal vago della riflessione e dalle circostanze e cagioni spiegate di sopra. (21. Luglio. 1823.).

[3000 - 3206]

Delle cose veramente ridicole nella società o negl’individui è ben raro trovar chi ne rida. E s’alcuno ne ride, difficilmente trova il compagno che l’aiuti a farlo, e che gli dia ragione, o che pur senta la causa del suo riso. Gli uomini per lo più ridono di cose che in effetto son tutt’altro che ridicole, e spesso ne ridono per questo appunto che non sono ridicole. E tanto più ne ridono quanto meno elle son tali. (21. Luglio. 1823.).

Alla p. 2922. fine. Alcune volte noi diciamo volere anche di cose animate, anche degli uomini, ma relativamente a ciò che non dipende dalla lor volontà, o che non può dipender da volontà, o che anche è contrario affatto alla lor volontà; e lo diciamo non solo per ischerzo, ma eziandio seriamente, in virtù dell’idiotismo che ho preso a illustrare. P. e. il tale non vuole ancora guarire, cioè, ancor non guarisce: e il verbo volere ridonda. Qua si dee riferire un luogo di Platone nel Sofista ed. Astii t. 2. p. 246. v. 7. A. dove οὐδέποτ' ἂν ἐθέλειν μαθεῖν è lo stesso che οὐδέποτ' ἂν μαθεῖν, e ben lo rende l’Astio nec numquam fore ut discat , ridondando elegantemente ἐθέλειν. Se però non si vuol dire che in questo luogo equivalga a μέλλειν, appunto come il nostro volere nei casi specificati di sopra, e in ciò pure sarà notabile la conformità del nostro idiotismo coll’attico. (21. Luglio. 1823.).

Alla p. 2864. Stipula, da stipa voce inusitata, restando il diminutivo, dal quale noi stoppia, i francesi esteuble onde éteule. V. Forcell. in stipula, stipa, stipulor ec. e il Gloss. se ha nulla. (21. Luglio 1823.).

Continuativi barbari. Dilatar spagn. da differo dilatus. V. la Crusca. I francesi dilayer. Trovo nel moderno spagn. dilatar anche per denunziare, accusare, da defero-delatus. Decretare, decretar, décréter da decerno-decretus. Diviser franc. da divido-divisus. Libertar spagn. quasi liberitare o liberatare. Tal contrazione non è maravigliosa in questo caso, e fors’è antica. Libertus a non sembra che contrazione di liberatus a. Vedi Forcell. e Glossar. se hanno nulla. (21. Luglio. 1823.).

Alla p. 2996. fine. Che obstino venga da obs e teneo v. Forcell. in obstinatus principio e in obscenus principio. Se anche obscenus viene da obs, notisi l’analogia. Perocchè nella composizione, alle parole comincianti per c, q, t non si premette mai la prep. a o ab ma sempre abs. Così dunque se obscenus viene da cano o da caenum, bene sta che non si dica obcenus ma obscenus. Oscillo, secondo me, è da obs e cillo as, e vale quasi obciere, obmovere, obcire. Dico poi cillo as, non cillo is come il Forc., perchè è chiaro che nel luogo di Festo cillent (optativo) è voce della prima; perchè cillo dev’essere stato un diminutivo di cio o di cieo, come conscribillo ec. (v. la p. 2986.) che sono della prima, benchè conscribo ec. sieno della 3.a; perchè veggo oscillans, oscillatio, e il nostro oscillare ec. e lo stesso Forc. dice oscillo as, non is. V. in Forc. tutte queste voci e oscillum e cilleo. Se oscillo as fosse fatto da cillo is o cilleo es, esso apparterrebbe a questa nostra categoria, come obstino as, da teneo es, ec. Non pare che il Forc. si sia accorto che cilleo o cillo spetta indubitatamente a cio, o cieo. E così dunque altresì ben si dice ostendo cioè obstendo, obstino non obtino. I più moderni trascurarono questa regola e dissero obtendo, obtineo ec. In luogo del qual ultimo verbo pare che gli antichi dicessero obstineo, in significato però di ostendo. V. Forcell. in obstinet. E forse molti verbi o voci latine composte comincianti per os, le quali si dicono formate dal nome os, non lo sono infatti che da obs, come p. e. oscen inis che si dice fatto da os e cano (quasi si cantasse mai con altro che con la bocca), viene forse veramente da obs e cano. Infatti occinere cioè obcinere (che secondo l’antica regola sarebbe stato obscinere, e quindi oscinere come ostendere, il quale anch’esso da taluno è scioccamente derivato da os, in manifesto dispetto del significato) si diceva degli uccelli d’augurio, e dal modo in cui Livio l’adopra par che questa voce fosse solenne in tal proposito. V. Forcell. in occino, occento, occentus, occano, obcantatus, obcanto. Io dubito anche molto che quelle voci che si dicono derivate da sursum contratto in sus (eccetto susque) come sustineo, sustollo, suspendo, suspicio ec. ec. vengano infatti da sub (terza preposizione terminata in b, come ob ed ab), e sieno originariamente substineo, substollo ec. introdotta la s per proprietà di lingua; e vagliano tener di sotto, innalzar di sotto, cioè esprimano l’azione che si fa di sotto in su, come in ispagn. subir non vale già scendere o andar sotto, ma salire, cioè andare di sotto in su. Così spesso il latino subire. V. Forcell. nel quale troverai ancora subvenio per supervenio. V. p. 3558. Subrepere nel luogo di Plinio cit. dal Forc. v. Sauroctonus, non è propriamente altro che repere di sotto in su, poichè questo è (s’io ben mi ricordo) quel che fa la lucerta nell’Apollo Saurottono del museo pio-clementino, la quale non repit clam, ma scopertamente, e non iscende, ma salisce su per un albero. Plinio poi usò il tema repere come appropriato alla lucerta, ch’è quasi un reptile. Il detto Apollo è certo una copia di quel di Prassitele, di cui Plinio. Del resto l’inserimento della s trovasi ancora dopo altre preposizioni, ed appunto al caso nostro fanno destino e praestino fratelli carnali di obstino, fatti da de o prae e da teneo (v. Forc. in Destino e Praestino) e non già da un sognato stino, come vogliono alcuni. E questi due verbi eziandio, spettano alla categoria di cui parliamo, massime che essi, e specialmente destino hanno forza tutte continuativa. (21. Luglio. 1823.).

Frequentissimo nell’italiano scritto, e più nello spagnuolo scritto e parlato si è l’uso del verbo andare, andar (non ir), in senso di essere. Ecco Seneca tragico (ap. Forc. in eo is, col. 3. princip.), Non ibo inulta. Notate che noi abbiam preso indubitatamente quest’uso dagli spagnuoli (infatti esso è frequentissimo nei nostri secentisti con cento altri spagnuolismi: nei 500 o 300isti, non si trova, ch’io mi ricordi, o mai o quasi mai). E Seneca appunto è spagnuolo. La frase dell’egizio Claudiano qui vindicet ibit , cioè erit, è d’altro genere, perchè nè gli spagnuoli nè gl’italiani non usano andare per essere se non seguìto effettivamente o potenzialmente da un aggettivo che ha forza di predicato[a]

Appo Oraz. Sat. II. I. V. ult. tu missus abibis è lo stesso che missus, cioè absolutus eris, cioè mitteris o absolveris. I greci οἴχεσθαι con participio: uso analogo al nostro ec. ec.

[Chiudi]. Qua si deono forse riferire le frasi, andar la bisogna, la cosa ec. così andò il fatto, così va per così è, va bene, come va la salute ec. ec. V. i Diz. francesi e spagnuoli (21. Luglio. 1823.). V. p. 3008.

Alla p. 2844. Così lo spagn. avistar. — A questo discorso appartengono il franc. viser, deviser, francese antico, per s’entretenir familièrement etc. (V. il Gloss. Cang. in Visores, 2.) e l’ital. divisare, il quale però ancora, almeno in alcuni sensi, può esser continuativo barbaro di divido-divisus e lo stesso che il franc. diviser. V. la Crusca, e il Forc. e Gloss. s’hanno nulla.

A questo proposito è da notare circa la voce guisa, franc. guise, di cui altrove ho parlato, ch’ella non è altro che come dir visa, e dovette da principio significare aspetto, quel ch’apparisce e si vede, forma, onde poi modo, maniera, façon. Del primo significato e della forma ch’ebbe primieramente questa voce ne fanno fede il nostro divisa sust.[a]

Si può vedere la p. 3036.

[Chiudi] (il quale non credo che venga da divisare per variare); il francese devise; divisato per de-formato, contraffatto, déguisé, travestito, che il Salvini disse barbaramente diguisato [b]; divisamento per assisa. Guisar in ispagn. è vestire ec. Ma vedi i Diz. spagn. Travisare, travisato, travisamento, traviso vagliono travestire, quasi traguisar. Svisare vedilo nella Crusca. Veggasi il Gloss. se ha nulla. (21. Luglio 1823.).

Suso, giuso. Così i più antichi latini per sursum deorsum. V. Forcellini in Susum ec. e il Gloss. se ha nulla.

Alla p. 2814. Vindicare, indicare che risponderebbe forse a indicere com’educare a educere. Ma si può pur dubitare che quello venga da vindex icis, questo da index icis [c]

Come fornicare da fornix fornicis, ed altri assai; duplico da duplex, triplico ec. frutico da frutex, rusticor da rusticus. Veggasi la p. 3752-4.

[Chiudi]; e così iudicare da iudex icis, educare da un e-dux ucis, (in senso reciproco come redux da reduco) jugare da jux o junx jugis ch’esiste oggidì ne’ composti coniux ec. come ho detto altrove. E così si può molto dubitare che tutta questa categoria di verbi venga da nomi verbali o noti o ignoti, non da’ verbi originarii a dirittura. In ogni modo, posto quello che ho congetturato altrove, che tali nomi, come dux, dex (iu-dex, in-dex ec.), ceps (parti-ceps, au-ceps ec.), fex (arti-fex ec.), spex (aru-spex ec.), fer (luci-fer ec.), e simili, sieno anteriori ai rispettivi verbi, seguirebbe da ciò che i verbi di questa categoria formati da tali nomi fossero fratelli e non figli di que’ della terza corrispondenti, e sempre sarebbe importante e a proposito nostro il notare come di due verbi fatti da una radice, quello che ha o che da principio ebbe senso continuativo, sia della prima coniugazione, e l’altro della terza ec. Si può anche discorrere in questo modo. Educare può venire da dux, aggiunta la preposizione al solo verbo, e non al nome; onde non è necessario supporre un nome composto edux. Basta il nome semplice. Così sacrificare (p. 2903.) può venir da un sacrifex ed anche dal semplice fex. Così occupare (p. 2996.) può venire da un occeps occupis (come auceps aucupis onde aucupare), ovvero occeps occipis che sarebbe il medesimo (giacchè la mutazione scambievole dell’i ed u in questi tali nomi è ordinarissima siccome in ogni altro caso; e quindi mancipium e mancupium etc.), può venir dico da questo nome composto, ovvero dal semplice ceps. Mancipo o mancupo, secondo questo discorso, non verrà da manus e capio, ma da manceps ipis, che anticamente si dovette anche dir manceps cupis. V. p. 3019. fine. Opitulare (p. 2997.) verrà da opitulus. E così, se non tutti, almeno una gran parte de’ verbi di questa categoria[a]. (22. Luglio. 1823.).

Alla p. 3004. fine. Congiunto coi participii passivi il verbo andare appo gli spagnuoli fa quasi l’officio di verbo ausiliare e le veci di essere, come appo noi il verbo venire (venire ucciso ec. per essere ucciso, ed è anche dell’Ariosto: e vedi la Crusca): ma quello significa ordinariamente una passione più continua o durevole. Non so se si direbbe fulano andò muerto o matado per fuè matado. (22. Luglio 1823.).

Alla p. 2953. Così ci accade nello apprendere o appresa che abbiamo alcuna lingua straniera; così ci accade dico in ordine a riportare al corrispondente carattere del suo alfabeto l’idea di que’ suoni che non si trovano nella nostra lingua, o che non sono espressi nel nostro alfabeto distintamente dagli altri, o ch’essendo composti sono però espressi nell’alfabeto di quella lingua straniera con un carattere particolare, sia perchè tal composizione di suoni non s’usi nella nostra lingua, e molto s’usi in quell’altra, sia che la nostra scrittura la significhi con più d’un carattere, e quella straniera con un solo (come la greca il p ed s con ψ). Del che potete vedere la p. 2740. seqq. 2745 fine — 46, e segg. (22. Luglio 1823.). V. p. 3024.

Alla p. 2841. Lo stile e il linguaggio poetico in una letteratura già formata, e che n’abbia uno, non si distingue solamente dal prosaico nè si divide e allontana solamente dal volgo per l’uso di voci e frasi che sebbene intese, non sono però adoperate nel discorso familiare nè nella prosa, le quali voci e frasi non sono per lo più altro che dizioni e locuzioni antiche, andate, fuor che ne’ poemi, in disuso; ma esso linguaggio si distingue eziandio grandemente dal prosaico e volgare per la diversa inflessione materiale di quelle stesse voci e frasi che il volgo e la prosa adoprano ancora. Ond’è che spessissimo una tal voce o frase è poetica pronunziata o scritta in un tal modo, e prosaica, anzi talora affatto impoetica, anzi pure ignobilissima e volgarissima in un altro modo. E in quello è tutta elegante, in questo affatto triviale, eziandio talvolta per li prosatori. Questo mezzo di distinguere e separare il linguaggio d’un poema da quello della prosa e del volgo inflettendo o condizionando diversamente dall’uso la forma estrinseca d’una voce o frase prosaica e familiare, è frequentissimamente adoperato in ogni lingua che ha linguaggio poetico distinto, lo fu da’ greci sempre, lo è dagl’italiani: anzi parlando puramente del linguaggio, e non dello stile, poetico, il detto mezzo è l’uno de’ più frequenti che s’adoprino a conseguire il detto fine, e più frequente forse di quello delle voci o frasi inusitate.

Or questa diversa e poetica inflessione e pronunzia de’ vocaboli correnti, che altro è per l’ordinario, se non inflessione e pronunzia antica, usitata dagli antichi prosatori, nell’antico discorso, ed ora andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? di modo che quelle parole così pronunziate e scritte non altro sono veramente che parole antiche e arcaismi, in quanto così sono scritte e pronunziate? nè altro è ordinariamente dire inflessioni, licenze, voci poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito una bella riflessione di Perticari, Apologia, Capo 14. fine p. 131-2. Certo questa diversità d’inflessione per la più parte non è se non quello ch’io dico: così ne’ poeti greci, così ne’ latini (più schivi però dell’antico, e quindi il loro linguaggio poetico è assai meno distinto dalla lor prosa quanto a’ vocaboli, che il greco), così negl’italiani. Perocchè non è da credere che la inflession d’una voce sia stimata, e quindi veramente sia, più elegante o per la prosa o pel verso, perchè e quanto ella è più conforme all’etimologia, ma solamente perchè e quanto ella è meno trita dall’uso familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo ricercata. (Anzi bene spesso è trivialissima l’inflessione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in altro luogo). E questo non esser trita, nè anche ricercata, ma pur bene intesa, come può accadere a una voce, o ad una cotale inflessione della medesima? Il pigliarla da un particolar dialetto o l’infletterla secondo questo fa ch’ella non riesca trita all’universale, ma difficilmente può far ch’ella e non paia ricercata e sia bene intesa da tutti. Oltre ch’ella riesce anche trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto è proprio. In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e fonte al linguaggio poetico, e all’eleganza qualunque. Lo vediamo noi italiani in Dante, dove le voci e inflessioni veramente proprie di dialetti particolari d’Italia fanno molto mala riuscita, nè la poesia nostra, nè verun savio tra’ nostri o poeti o prosatori ha mai voluto imitar Dante nell’uso de’ dialetti, non solo generalmente, ma neppure in ordine a quelle medesime voci e pronunzie o inflessioni da lui adoperate. Circa l’uso e mescolanza de’ dialetti greci nella inflessione delle parole appresso Omero, non volendo rinnovare le infinite discussioni già fatte da tanti e tanti in questo proposito, solamente dirò che o le circostanze della Grecia e d’Omero erano diverse da quelle che noi possiamo considerare, e quindi per l’antichità ed oscurità della materia non potendo nulla giudicarne di certo e di chiaro, niuno argomento ne possiamo dedurre; ovvero (e così penso) quelle inflessioni che in Omero s’attribuiscono a’ dialetti, e da’ dialetti si stima che Omero le prendesse, o tutte o gran parte erano in verità proprie della lingua greca comune del suo tempo, o d’una lingua, o vogliamo dir d’un uso più antico ancora di lui; dalla qual lingua comune, o fosse più antica, o allora usitata, Omero tolse quelle inflessioni ch’egli si stima aver pigliato da questo e da quel dialetto indifferentemente e confusamente. Non volendo ammetter nulla di questo, dirò che in Omero la mescolanza de’ dialetti dovè riuscir così male come in Dante. Circa i poeti greci posteriori, i quali tutti (fuor di quelli che scrissero in dialetti privati, come Saffo, Teocrito ec.) seguirono interamente Omero, come in ogni altra cosa, così nella lingua, e da lui tolsero quanto il loro linguaggio ha di poetico, cioè della sua lingua formarono quella che si chiama dialetto poetico greco, ossia linguaggio poetico comune, la questione non è difficile a sciogliere. Perocchè quelle inflessioni ch’essi adoperavano, benchè proprie di particolari dialetti, essi non le toglievano da’ dialetti ma dal dialetto o linguaggio Omerico, di modo ch’elle riuscivano eleganti e poetiche, non in quanto proprie di privati dialetti, ma in quanto antiche ed Omeriche; ed erano bene intese dall’universale della nazione, nè parevano ricercate perchè tutta la nazione benchè non usasse familiarmente nè in iscrittura prosaica le inflessioni e voci Omeriche, le conosceva però e v’aveva l’orecchio assuefatto per lo gran divulgamento de’ versi d’Omero cantati da’ rapsodi per le piazze e le taverne, e saputi a memoria fino da’ fanciulli[a]

V. p. 3041.

[Chiudi]. Il che non accadde a’ poemi di Dante, il quale non fu mai in Italia neppur poeta di scuola, come Omero in Grecia presso i grammatisti medesimi, o certo presso i grammatici (vedi il Laerz. del Wetstenio, tom. 2. p. 583. not. 5.); nè il dialetto o linguaggio poetico italiano è o fu mai quello di Dante. Dico generalmente parlando, e non d’alcuni pochi e particolari poeti, suoi decisi imitatori, come Fazio degli Uberti, l’autore del Quadriregio Federico Frezzi, ed alcuni dell’ultimo secolo, come il Varano. Neppur la lingua del Petrarca è quella di Dante, nè da lui fu presa, nè punto si serve de’ particolari dialetti.

Non potendo dunque i dialetti somministrare inflessioni rimote dall’uso corrente che siano adattate al linguaggio poetico, resterebbe per allontanar le voci comuni dalla prosa e dall’uso, che il poeta le ravvicinasse alla etimologia ed alla forma ch’elle hanno nella lingua madre, qualvolta nell’uso comune e prosaico elle ne sono lontane. Questo mezzo è possibile e buono e spesso adoperato da’ poeti quando la nazione è già colta e dotta, e la letteratura nazionale già formata. Ma ne’ principii ciò è ben difficile e pericoloso, prima perchè dalla nazione ignorante quelle voci in tal modo rimutate corrono rischio di non essere intese; poi perchè presso la nazione non avvezza un tal rimutamento corre rischio di saper di pedanteria (il qual rischio dura eziandio proporzionatamente nel séguito) e di riuscire affettato. Onde la stessa difficoltà che in quei principii si opponeva, come ho detto (p. 2836-7.) al dedur più che tante voci o frasi nuove dalla lingua madre, quella medesima si opponeva a dedur da essa lingua inusitate inflessioni e diverse dalle correnti.

Resta dunque per allontanar dall’uso volgare le voci e frasi comuni, l’infletterle e condizionarle in maniere inusitate al presente, ma dagli antichi nazionali, parlatori, prosatori, o poeti usitate, e dalla nazione ancor conosciute, e conservate di mano in mano negli scritti di quelli che cercando l’eleganza proccurarono di scostarsi mediocremente dal volgo. Per le quali cose tali inflessioni non producono nè oscurità nè ricercatezza, benchè riescano pellegrine e rimote dall’uso, e perciò producano eleganza. Questo mezzo è usitatissimo da’ poeti quando la nazione è colta, formata la letteratura, e quando la lingua scritta ha un’antichità. Con esso principalmente si forma, si compone, si stabilisce a grado a grado un linguaggio poetico che tuttavia più si va differenziando dal prosaico e dal familiare, finchè giunge a quel punto di differenza, oltre il quale non è bene ch’egli trapassi. Ma questo mezzo necessario all’eleganza, necessarissimo a potere avere o formare un linguaggio distintamente poetico e proprio della poesia, manca affatto ai primi scrittori e poeti di qualsivoglia nazione, i quali non trovano antichità di lingua scritta, non ponno se non debolmente, confusamente e scarsamente conoscere le antichità della lingua parlata, e conoscendole ancora, o in quanto le conoscono, non ponno se non molto parcamente adoperarla per non riuscire oscuri e affettati alla nazione ignorante, e non assuefatta ad altro linguaggio nazionale mai se non solo al suo corrente e giornaliero. Quindi è che quei primi poeti e scrittori debbono necessariamente rivolgersi al linguaggio per la più parte, e in genere, familiare, e conseguentemente eziandio pigliare un stile che sappia sempre più o meno di familiare, in qualsivoglia materia ch’ei trattino e genere di scrittura ch’egli esercitino. (23. Luglio 1823.).

Come la lingua sascrita prodigiosamente ricca, tragga e formi la sua ricchezza da sole pochissime radici, col mezzo del grand’uso ch’ella fa della composizione e derivazione de’ vocaboli, vedi l’Encyclop. méthodique, Grammaire et littérature, article Samskret, particolarmente il passo di M. Dow.

A questo proposito è notabile un luogo che si legge nella Orazione delle lodi di Filippo Sassetti (viaggiatore Fiorentino morto nel 1589.) detto nell’Accademia degli Alterati l’Assetato, di Luigi Alamanni (diverso dal poeta) che sta nelle Prose fiorentine, parte 1. vol. 4. ed. Venez. 1730-43. p. 46-7. dove puoi vederlo, ed è non molto prima del mezzo della Orazione. Di Filippo Sassetti puoi vedere il Tiraboschi nella Storia della letterat. ital. e quelle lettere del medesimo Sassetti ch’ei quivi accenna (ed. Rom. t. 7. par. 1. p. 240-1.). Dal detto luogo si raccoglie che quegli, se non erro, il primo diede notizia all’Europa della lingua Sascrita, e molto veridica e giusta; della qual lingua trattò poi diffusamente un altro nostro italiano, il P. Paolino da S. Bartolommeo. Bibliot. Ital. n. 23. Novem. 1817. p. 206. (23. Luglio 1823.).

Fatum da for faris. — Dicha spagn. (cioè detta) per fortuna (come desdicha sfortuna, dichoso, desdichada ec.) da dicta (femmin. come ἡ εἱμαρμένη, ἡ, πεπρωμένη, la destinée) o da dictum, come da suspectus o suspectum (Gloss. Cang.) sospetto, gli spagnuoli in femminino sospecha in vece di sospecho. (23. Luglio 1823.).

Alla p. 2845. Si vuol notare che avvisare e altri verbi da me segnati alla p. 3005. i quali vengono da videre serbano la forma regolare e ordinaria della loro derivazione dal participio in us, mentre il continuativo di video che trovasi nel buon latino, non serba questa forma, e non è visare, ma visere, coi composti invisere, revisere ec. Frattanto il franc. viser anche per significato è vero continuativo di videre, ed è fatto da questo, non dal verbo francese che gli risponde, cioè voir il quale non ha mai la sillaba vis. Se però viser non viene da visage o dalla parola vis che propriamente significa viso, benchè ora non s’adoperi che nella dizione vis-à-vis. (24. Luglio. 1823.).

Alla p. 3007. Che tali verbi vengano da cotali nomi piuttosto che da’ verbi corrispondenti della terza, si può anche dedurre dal vedere che praeceps, il quale sembra venir dalla stessa radice di manceps auceps ec. (siccome anceps ἀμφιλαφὴς, il quale fa pure ancipitis e non ancipis o ancupis), secondo quello che altrove ne ho ragionato, avendo per suo genitivo praecipitis e non praecipis o praecupis, troviamo che il verbo della prima coniugazione che a lui corrisponde, non è praecipare nè praecupare, ma praecipitare. Laddove manceps particeps ec. facendo mancipis, participis, troviamo che si dice appunto mancipare, participare, e non mancipitare, participitare. ec. (24. Luglio. 1823.).

Il canto fermo è come la prosa della musica: il figurato la poesia. (24. Luglio 1823.).

Alla p. 2997. Similmente da un verbo della seconda è fatto sedare, il quale spetta indubitatamente a questa categoria, e viene da sedeo, e per significato n’è un continuativo. Sedare si trova ancora in significato neutro come sedeo, e questo dev’essere il suo primitivo. Anche miseror aris — misereor eris della seconda, se quello però non viene da miser. Ora paragonate quel passo di Stazio: his dictis sedere minae , cioè, dice il Forcell. (in Sedeo col. ult.) sedatae sunt , ossia cessarono o si mitigarono, con quell’altro antico postquam tempestas sedavit , cioè cessò o si mitigò. Sedare pulverem ap. Fedro è sedere vel considere vel residere facio . Sedare curriculum è sedere facio in quanto sedere significa talora consistere, fermarsi. Il Forc. stesso spiega sedo per facio ut aliquid residat. Vedilo in Sedeo e Sedo e paragona insieme gli esempi e i significati dell’uno e dell’altro, ed anche dei composti di Sedeo ec. Nota che sedeo ha anche il suo verbo formato dal participio in us, cioè sessitare. (24. Luglio. 1823.).

Alle molte cose da me dette altrove per mostrare come la lingua greca non ha bisogno che di poche radici per essere ricchissima, stante l’infinito uso ch’ella fa delle derivazioni e composizioni ec., e com’ella moltiplichi in infinito i suoi vocaboli primitivi, ec. aggiungi la voce media ch’ella ha, e il bellissimo uso ch’ella fa delle voci passive de’ suoi verbi. Perocchè di moltissimi verbi greci si può dire che ciascuno di essi non è uno, ma tre, e serve per tre; avendo l’attivo, il medio, e il passivo de’ medesimi, ciascuno un significato diverso proprio, oltre ai metaforici che ha per ciascuno di loro, e questi anche diversi, cioè l’attivo diverso dal medio ec. O vogliamo dire che ciascuno di tali verbi ha tre ben distinti significati propri, oltre ai metaforici. Nè questi significati si possono confondere insieme, perocchè ciascuno di loro corrisponde a una diversa e distinta inflessione. Onde non si accumulano i significati in una stessa parola, e non ne segue l’oscurità e ambiguità, nè la povertà e uniformità che da tale accumulamento deriva nella lingua ebraica. E pur quei tre non sono in sostanza che un verbo, e non hanno che un tema. L’uso che i latini fanno del passivo non è paragonabile a quello che ne fanno i greci (oltre che il passivo latino è difettivo e scarso, avendo bisogno in gran parte dell’ausiliare sum). Appresso i quali il passivo ha sovente una significazione propria attiva o neutra, diversa però da quella dell’attivo, e da quella del medio ec. ec. (24. Luglio. 1823.).

Necesso as è verbo di Venanzio Fortunato. Vedi Forcell. e Gloss. Cang. Si potrebbe però credere che fosse antico, e che necessus a um antico addiettivo fosse originariamente participio di qualche verbo di cui necesso fosse continuativo. In tal caso necessitare latino-barbaro e italiano, necessitar spagn. nécessiter franc. sarebbe un frequentativo di questo tale ignoto verbo. In caso diverso, se non vorremo ch’ei venga da necessitas, necessità, nécessité ec., diremo ch’egli è fatto da necessatus di necesso, colla solita mutazione dell’a in i. Nótisi che nell’esempio di Venanzio Fortunato non è chiaro se necesso sia attivo, e vaglia cogo, come affermano il Forcell. e il Gloss. ovvero neutro, e vaglia abbisognare, aver mestieri, indigere, poscere, come in ispagn. necessitar che si costruisce col genitivo. (24. Luglio. 1823.).

Alla p. 3009. Altresì qualunque suono, e qualunque vocabolo di una lingua straniera che adoperi caratteri diversi da’ nostri, se noi conoscendo quella lingua, non per sola favella orale, ma per iscrittura, ed essendo atti ed avvezzi a leggerla, concepiamo detto suono o vocabolo espressamente, col pensiero, esso ci si rappresenta sotto la forma e ne’ caratteri ch’egli ha nella lingua a cui appartiene, ancorchè quel tal suono elementare sia comune anche alla nostra, ed espresso nel nostro alfabeto con un proprio carattere. Così sempre ci accade, fuori di qualche circostanza particolare, in cui la mente voglia o debba concepire p. e. un vocabolo greco in caratteri latini ec. ec. (24. Luglio. 1823.).

Alla p. 2828. fine. Notate che anche la vera pronunzia e la vera armonia della lingua latina è da gran tempo e perduta e ignota. Contuttociò, quantunque sia certissimo che questo rende assai difficile ai moderni di scrivere secondo la vera indole della lingua, del giro, del periodo, della costruzione latina ec., nondimeno, siccome la lingua latina è morta, così lo scrittore che oggi vuole scrivere in latino (e così quelli che scrissero in latino dal 300. in poi) può trascurare affatto la pronunzia moderna, può anche fino a un certo segno dimenticarsela, può astrarre affatto dall’armonia, e non considerando negli antichi scrittori se non le pure costruzioni, i puri periodi ec. indipendentemente sì dal ritmo che ne risultava sì da quello che oggi ne risulta, seguirli e imitarli ciecamente tali quali sono essi, non facendo caso della moderna pronunzia. Ma la lingua greca era ancor viva, benchè la pronunzia fosse cambiata, e agli scrittori non era nè facile il dimenticare e astergersi dagli orecchi il suono quotidiano e corrente della loro propria favella, nè volendo ancora seguire (come molti vollero) strettamente e imitare esattamente gli antichi, era loro possibile negare affatto ai loro periodi un numero che fosse sentito dall’universale de’ greci a quel tempo. Poichè questi periodi avevano pure ad esser letti e pronunziati da nazionali che quantunque non pronunziassero come una volta, intendevano però e parlavano tuttavia quella lingua, come materna. Onde non era quasi possibile dare nelle scritture alla lingua, ch’era pur nazionale e volgare, un ritmo al tutto, si può dir, forestiero, e ignoto a tutti, fino allo stesso scrittore; ch’è quanto dire non darle in somma alcun ritmo, (24. Luglio. 1823.) cioè niun ritmo che alla nazione a cui si scriveva, nè pure allo stesso scrittore, riuscisse tale. (24. Luglio 1823.).

Occulto as, da occulo-occultus. Notisi che occultus a um, adoprandosi sempre o quasi sempre aggettivamente, (siccome fra noi occulto ec.), se noi non conoscessimo il verbo occulo, lo terremmo certo per un aggettivo proprio e radicale, e non per un participio. Quindi si può far ragione quanto verisimilmente io dubiti e talora sostenga che altri tali aggettivi i quali hanno tutta l’estrinseca sembianza di participii, ancorchè non usati mai come participii, e benchè non si conosca verbo a cui spettino, tuttavolta non sieno originariamente altro che participii di verbi o perduti o non conosciuti per loro radice. (25. Luglio, dì di S. Giacomo. 1823.).

Alla p. 2895. fine. Da sutus ancora si potè fare sto, poichè anche l’u per contrazione, nominatamente ne’ participii, è solito a sparire, siccome l’i. Da solutus gli spagnuoli soltar, noi sciolto, omesso l’u. Da volutus e volutare noi voltare e volto, e così ne’ composti involto, rivolto ec. Così gli spagnuoli buelto o vuelto: i francesi voûte (cioè volta sostantivo) e quindi voûter, dove la sillaba ou equivale al nostro ol, come in éc ou ter asc ol tare. Volta per fiata, viene altresì da volvere ed è contrazione di voluta. Così il sostantivo spagn. buelta cioè voltata, ritorno ec. (25. Luglio. 1823.).

Ho discorso altrove di quel luogo di Cicerone nella Vecchiezza, dove dice che l’animo nostro, non si sa come, sempre mira alla posterità ec. e ne deduce ch’egli abbia un sentimento naturale della sua propria eternità e indestruttibilità. Ho mostrato come questo effetto viene dal desiderio dell’infinito, ch’è una conseguenza dell’amor proprio, e dal continuo ricorrer che l’uomo fa colla speranza al futuro, non potendo esser mai soddisfatto del presente, nè trovandovi piacere alcuno, e d’altronde non rinunziando mai alla speranza, fino a trapassar con essa di là dalla morte, non trovando più in questa vita, dove ragionevolmente fermarla. Ma il suddetto effetto non è naturale. Esso viene dall’esperienza già fatta, che la memoria degli uomini insigni si conserva, dal veder noi medesimi conservata presentemente e celebrata la memoria di tali uomini, e dal conservarla e celebrarla noi stessi. Onde introdotta nel mondo questa fama superstite alla morte, essa è stata ed è bramata e cercata, come tanti altri beni o di opinione o qualunque, di cui la natura niun desiderio ci aveva ispirato, e che sono comparsi nel mondo di mano in mano per varie circostanze, non da principio, nè creati dalla natura. Nei primissimi principii della società, quando ancor non v’era esempio di rammemorazioni e di lodi tributate ai morti, neppur gli uomini coraggiosi e magnanimi, quando anche desiderassero la stima de’ loro compagni e contemporanei, pensarono mai a travagliare per la posterità, nè, molto meno, a trascurare il giudizio de’ presenti per proccurarsi quello de’ futuri, o rimettersi alla stima de’ futuri. Che se il tempo che ho detto, colle circostanze che ho supposte non v’è mai stato, supponendo però ch’egli sia stato o sia mai per essere in alcun luogo, certamente ne verrebbe l’effetto che ho ragionato, cioè che niuno benchè magnanimo, benchè insigne tra’ suoi connazionali o compagni, avrebbe o concepirebbe alcuna cura o pensiero della posterità. (25. Luglio. dì di San Giacomo. 1823.).

La vita umana non fu mai più felice che quando fu stimato poter esser bella e dolce anche la morte, nè mai gli uomini vissero più volentieri che quando furono apparecchiati e desiderosi di morire per la patria e per la gloria. (25. Luglio, dì di San Giacomo. 1823.).

In molte altre cose l’andamento, il progresso, le vicende, la storia del genere umano è simile a quella di ciascuno individuo poco meno che una figura in grande somigli alla medesima figura fatta in piccolo; ma fra l’altre cose, in questa. Quando gli uomini avevano pur qualche mezzo di felicità o di minore infelicità ch’al presente, quando perdendo la vita, perdevano pur qualche cosa, essi l’avventuravano spesso e facilmente e di buona voglia, non temevano, anzi cercavano i pericoli, non si spaventavano della morte, anzi l’affrontavano tutto dì o coi nemici o tra loro, e godevano sopra ogni cosa e stimavano il sommo bene, di morire gloriosamente. Ora il timor dei pericoli è tanto maggiore quanto maggiore è l’infelicità e il fastidio di cui la morte ci libererebbe, o se non altro, quanto è più nullo quello che morendo abbiamo a perdere. E l’amor della vita e il timor della morte è cresciuto nel genere umano e cresce in ciascuna nazione secondo che la vita val meno. Il coraggio è tanto minore quanto minori beni egli avventura, e quanto meno ei dovrebbe costare. La morte che per gli antichi così attivi, e di vita, se non altro, così piena, era talora il sommo bene, è stimata e chiamata più comunemente il sommo male quanto la vita è più misera. È ben noto che le nazioni più oppresse, e similmente le classi più deboli e misere e schiave nella società, sono le meno coraggiose e le più timide della morte, e le più sollecite e gelose di quella vita ch’è pur loro un sì gran peso. E quanto più altri le opprime e rende infelice la vita loro, tanto ne le fa più studiose. E insomma si può dire che gli antichi vivendo non temevano il morire, e i moderni non vivendo, lo temono; e che quanto più la vita dell’uomo è simile alla morte, tanto più la morte sia temuta e fuggita, quasi ce ne spaventasse quella continua immagine che nella vita medesima ne abbiamo e contempliamo, e quegli effetti, anzi quella parte, che pur vivendo ne sperimentiamo. E viceversa.

Or si applichi quel ch’io dico degli antichi e dei moderni, agl’individui giovani e vecchi, in qualunque età delle nazioni e del genere umano, e troverassi proporzionatamente la medesima differenza e di circostanze e di effetti. (25. Luglio 1823.).

Visto ital. e spagn. participio di vedere, è manifesta contrazione di visitus, come quisto, chiesto ec. di quaesitus (v. p. 2893. sqq.). Così vista sustantivo verbale italiano e spagnuolo è contrazione di visita voce latinobarbara per visitus us cioè visus us. Così i composti di vedere hanno p. e. avvisto, rivisto, provvisto ec. La voce vista per veduta, e con altri sensi simili, ch’ella ha pure appresso di noi, è latino-barbara. Vedila nel Glossario. E ch’ella sia contrazione di Visita, com’io dico, e quindi visto sia contrazione di visitus, vedi il Glossario medesimo in Vista 4. Ora consideriamo.

1. Il latino video da cui viene il nostro vedere e lo spagn. ver fa nel participio, non visitus, ma visus. Similmente viso is anomalo, che ne deriva. Ma secondo i principii da me posti e dimostrati altrove, egli è certissimo che l’antico participio di video dovette esser visitus (anomalo in vece di viditus) come di doceo fu docitus. Quindi il nostro italiano e spagnuolo visto è contrazione (usitatissima anche nell’antico e buon latino: vedi p. 2894. e seg.) dell’antico visitus; egli è un latinissimo vistus anteriore a visus e più regolare. Or come mai questo participio, perduto affatto nel latino conosciuto, questo participio antichissimo, più antico e più regolare dell’usato dagli scrittori latini, comparisce per la prima volta nel latino-barbaro, e quindi si trova usitatissimo e comunissimo in due lingue moderne figlie della latina, e trovasi in luogo del visus del latino conosciuto, il qual visus nelle dette lingue non trovasi? Forse questo participio, indipendentemente dal latino, è stato fatto in dette lingue dal verbo vedere secondo le regole di coniugazione proprie, non del latino, ma di esse lingue? Anzi secondo queste regole, egli è in esse lingue affatto anomalo e irregolare e fuori d’ogni ordine; ei non ha in esse lingue veruna origine; e in luogo di esso, la lingua italiana, secondo le regole delle sue coniugazioni, dee dire veduto [a]

Veduto sarebbe appunto il regolarissimo viditus, secondo il detto a pag. 3074. sqq. 3362-3. Così da fundo regolarm. funditus dimostrato da funditare; da medeo, meditus dimostrato da meditare, come altrove dico, cioè p. 3352-60.

[Chiudi] (lo spagnuolo dovrebbe dir veido o vido), e lo dice infatti ancor esso. Ma questo secondo participio italiano, regolare e moderno è molto meno volgare e più nobile, e quell’altro irregolare, antico e latino è più plebeo, e forse, almeno in vari luoghi, il solo che la plebe adoperi, siccome in ispagnuolo egli è unico sì per la plebe che per la gente colta e per la scrittura. Donde pertanto questo participio nel latino-barbaro, e nelle lingue moderne, s’ei non viene dal latino conosciuto, nè dalle radici e regole d’esse lingue? Qual altro mezzo ce lo può aver conservato, se non il volgare latino, conservatore dell’antichità più che il latino scritto, e in questo presente caso, più regolare eziandio?

2. Visito as si fa frequentativo di viso is. Lasciamo stare s’egli sia di viso is, o piuttosto di video il cui participio è lo stesso, cioè visus. Ma se l’antico participio dell’uno o dell’altro o d’ambedue, fu visitus, il verbo visito potrà eziandio esser continuativo di qual de’ due si creda meglio, e venire non da visus, o supino visum, ma da visitus, o supino visitum. Da visus altresì nacquero parecchi verbi di cui vedi la p. 2843. seg. 3005. 3019. Se visito viene da visitus di video, egli non sarà nè figlio di viso is, nè diverso da esso per formazione e per significato originario (cioè esso frequentativo, e viso continuativo), anzi sarà fratello di viso is, formato nello stesso modo, cioè dal participio in us di video, continuativo com’esso visere; ma sarà fratello maggiore, perchè formato da un participio più antico e più regolare di visus, o piuttosto sarà originalmente tutt’un verbo con viso is, perchè formato da un medesimo participio, cioè visitus detto anche visus per contrazione e anomalia.

3. Ho sostenuto pag. 2932. segg. l’esistenza del verbo pisare o pisere (tutt’uno con pigiare e pisar) fatto da un pisus participio di pinsere. Ora coll’esempio di visto, e coll’aiuto delle considerazioni ch’esso ci somministra, confermeremo quel nostro discorso; e all’incontro con esso discorso confermeremo il presente. Il participio regolare di pinso è pinsitus che tuttavia sussiste. Ecco un gemello di visitus. Da pinsitus si fece per contrazione e anomalia pinsus che altresì sussiste. Ecco da visitus, visus che solo sussiste nel latino conosciuto. Altresì da pinsitus si fece pistus che parimente sussiste. Questa formazione suppone e dimostra due cangiamenti; primo la detrazione della n, onde pisitus che non sussiste, ma si prova, come vedete. Ed eccoci di nuovo a visitus. Secondo, la solita detrazione dell’i (come in postus per positus), onde pistus ch’è il solo participio conservato nelle lingue moderne (pesto, ital. pisto italiano volgare, e spagnuolo), da cui pistare. Ed eccovi appunto il vistus conservato nelle lingue moderne in luogo e di visitus e di visus, onde avvistare ec. (v. la p. 2844. 3005.). Ma siccome da pinsitus si fece pinsus, detrattele lettere it, così appunto da pisitus pisus, non altrimenti che pistus. E ciò nè più nè meno che da visitus visus, non altrimenti che vistus [a]

Censeo-censitus e census a um, onde census us, secondo l’osservaz. da me fatta circa tali verbali della 4a. Notabile è che censitus intero, negli scrittori latt. è più raro e più moderno che il contratto census. Cosa simile alla presente di visus p. visitus. V. p. 3815. fine.

[Chiudi]. E siccome da visus anomala contrazione di visitus si fece l’anomalo viso is in cambio di viso as, (qui si può vedere la p. 3005. circa il verbo viser avvisare ec.) così è curioso a notare che anche da pisus anomala contrazione di pinsitus o pisitus, si trovi o si creda fatto, oltre a piso as, e fors’anche in luogo di questo, l’anomalo continuativo piso is.

E qui possiamo considerare quanti participii in us abbia uno stesso verbo cioè pinso, o piuttosto quanti ne sieno nati da un solo cioè pinsitus, parte esistenti, parte dimostrati per ragione, e alcuno di questi dalla nostra teoria de’ continuativi. È bene il considerarlo perchè ciò serva d’esempio, e quindi si faccia ragione quanto giustamente io dica che moltissimi verbi della prima, che sembrano tutt’altro, sono veri continuativi di verbi o noti o ignoti (e vedi a questo proposito p. 2928-30.), e quanti che si credono puri aggettivi, sono veri participii di verbi talora anche noti, ma non riconosciuti per loro padri, (del che vedi la p. 3026.).

Dunque da pinso

1. 2. 4. esistenti nel buon latino. 3. dimostrato per ragione grammaticale da pistus. 5. dimostrato da’ continuativi pisare o pisere, pigiare, pisar. Chi volesse che pisus non fosse da pisitus ma da pinsus, detrattane la n come da pinsitus in pisitus, poco monterebbe. Avremmo sempre e in pinsus e in pisus la detrazione dell’it a dimostrare la derivazione di visus da visitus, e l’anteriorità di questo, come anche di vistus che ha sola una lettera meno di visitus, e non due. (25. Luglio. dì di S. Giacomo. 1823.). V. la p. seg.

Alla p. 2929. Così da vivo-vixi-victum si dovette fare anche vixum e vixus. Lo deduco dal nostro antico visso, il quale non è contrazione di vissuto perchè tal contrazione non è dell’indole e uso della nostra lingua. Bensì vissuto (che molti dicono e dissero più regolarmente vivuto, anche trecentisti, come ho trovato io medesimo, non altrimenti che da rice vere rice vuto) sembra venire da un altro, ed anche più antico e regolare participio latino vixitus, cambiato l’i in u, come in latino a ogni tratto (v. p. 2824-5. principio, e 2895.), e come particolarmente in italiano ne’ participii passivi per proprietà, costume e regola della lingua (venditus—venduto, redditus—renduto, perditus—perduto, seditus antico e regolare — seduto, debitus da altra coniugazione — devuto, tenitus, antico e regolare — tenuto, ceditus antico e regolare — ceduto.).

E qui è da osservare la conservazione nel nostro volgare, di questo antichissimo vixus ignoto nel latino, simile a quella di vistus, di cui veggasi p. 3032-4. (25. Luglio. 1823.). Sia che visso sia fatto dal supino vixum ignoto, o dall’ignoto participio neutro vixus, in luogo del quale non si trova neppur victus a um (trovandosi victum supino), sebbene dovette esservi, secondo quello che di tali participii neutri ec. ho detto altrove. E infiniti ne conservano le lingue figlie, che non si trovano nel latino scritto. (25. Luglio, dì di S. Giacomo. 1823.).

Alla p. anteced. Chi poi volesse che pisere non venisse da pisus (benchè pur se n’abbia un bellissimo esempio in visere da visus, siccome ho detto), ma che (s’ei veramente esistè) fosse lo stesso che pinsere, detratta la n come in pistus, mi darebbe altresì poca noia. In tal caso pisare non sarebbe fratello ma figlio di pisere; e certo esso e pisar e pigiare verrebbero da pisus, come dimostrano gl’infiniti esempi che della formazione di tali verbi della prima maniera da’ participii in us d’altri verbi, raccoglie la mia teoria de’ continuativi ec. ec. (26. Luglio. dì di Sant’Anna. 1823.). V. p. 3052.

L’uomo in cui concorressero grande e colto ingegno, e risolutezza, si può affermare senz’alcun dubbio che farebbe e otterrebbe gran cose nel mondo, e che certo non potrebbe restare oscuro, in qualunque condizione l’avesse posto la fortuna della nascita. Ma l’abito della prudenza nel deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere, ed anche la fermezza nell’operare. Di qui è che gli uomini d’ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre prigionieri, per così dire, dell’irresolutezza, difficili a risolvere, timidi, sospesi, incerti, delicati, deboli nell’eseguire. Altrimenti essi dominerebbero il mondo, il quale, perchè la risolutezza per se può sempre più che la prudenza sola, fu ed è e sarà sempre in balia degli uomini mediocri. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1823.).

Alla p. 2864. Avolo, abuelo, ayeul da avulus. Noi abbiamo anche il positivo avo. (26. Luglio. 1823.). V. p. 3054. 3063.

Alla p. 3014. Io credo per certo che in qualunque modo, quelle inflessioni, voci, frasi ec. che in Omero si credono proprie di tale o tal altro dialetto, fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione conosciute ed intese da tutte le nazioni greche, o se non altro, da una tal nazione (come forse la ionica), alla qual sola, in questo caso, egli avrà avuto in animo di cantare e di scrivere, e avrà probabilmente cantato e scritto. Quanto agli altri poeti, se le ragioni che ho addotte per ispiegare come, malgrado l’uso de’ dialetti, essi fossero universalmente intesi, non paressero bastanti, si osservi che effettivamente in Grecia, siccome altrove, i poeti cessarono ben presto di cantare al popolo, (e così pur gli altri scrittori), e il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligibile al volgo, dal cui idioma esso era anche più separato che non è la lingua poetica italiana dalla volgare e familiare. Scrissero dunque i poeti per le persone colte, le quali intendendo e studiando tuttodì e sapendo a memoria i versi d’Omero, e citandoli, parodiandoli, alludendovi a ogni tratto nella colta conversazione e nella scrittura, intendevano anche facilmente gli altri poeti, e il linguaggio poetico greco, benchè composto delle proprietà di vari dialetti. Perocchè esso era tutto Omerico, come ho detto, sia in ispecie sia in genere; cioè le inflessioni, le frasi, le voci che lo componevano, o erano le identiche Omeriche (e tali erano in fatti forse la più gran parte), o erano di quel tenore, di quella origine, derivate o formate da quelle di Omero, o tolte dai fonti e dai luoghi ond’egli le trasse, e ciò secondo i modi e le leggi da lui seguite. Quei poeti che scrissero dopo Omero al popolo, e per il popolo composero, come i drammatici, poco o nulla mescolarono i dialetti, e ne segue effettivamente che se talvolta il loro stile è Omerico, come quello di Sofocle, il loro linguaggio però non è tale. Esso è attico veramente, siccome fatto per gli Ateniesi, se non forse nei pezzi lirici, i quali anche per la natura del soggetto e del genere, sarebbero stati poco alla portata degl’ignoranti. In effetto Frinico appresso Fozio (cod. 158.) conta fra’ modelli, regole norme del puro e schietto sermone attico i tragici Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici in quanto sono attici, perocchè questi talora per ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa d’altri dialetti, e ciò non appartiene al nostro proposito, ed alcuni tragici, forse, avendo rispetto al gran concorso de’ forestieri che d’ogni parte della Grecia accorrevano alla rappresentazione dei drammi in Atene, non avranno avuto riguardo di usare alcuna cosa d’altri dialetti. Ma generalmente si vede che il dialetto de’ drammatici greci è un solo. E del resto, siccome tra noi e ne’ teatri di tutte le colte nazioni, benchè la più parte dell’uditorio sia popolo, nondimeno i drammi che s’espongono, non sono scritti nè in istile nè in lingua popolare, ma sempre colta, e bene spesso anzi poetichissima e diversissima dalla corrente e familiare ed eziandio dalla prosaica colta; così si deve stimare che accadesse appresso a poco più o meno anche in Grecia e in Atene, dove i giudici de’ drammi che concorrevano al premio, non era finalmente il popolo, ma uno scelto e piccol numero d’intelligenti, e dove le persone colte fra quelle che componevano l’uditorio, erano per lo meno in tanto numero come fra noi. V. il Viaggio d’Anacar. cap. 70.

Altri poeti non drammatici si restrinsero pure a tale o tal dialetto particolare, e per conseguenza scrissero a una sola nazione o parte della Grecia, e questa si proposero per uditorio (com’è verisimilissimo che facesse anche Omero); nè questi furono pochi, anzi fra gli antichi furono i più. E si può dir che la totale, confusa, indifferente, copiosa mescolanza de’ dialetti nel linguaggio poetico greco, e il seguir ciecamente la lingua e l’uso di Omero non sia proprio se non de’ poeti greci più moderni e nella decadenza della poesia, come Apollonio Rodio, Arato, Callimaco e tali altri de’ tempi de’ Tolomei, quando già la base della letteratura greca era l’imitazione de’ suoi antichi classici. Perocchè di Esiodo contemporaneo di Omero, o poco anteriore o posteriore, non è maraviglia se il suo linguaggio si trova omerico: spieghisi l’uso di questo linguaggio in lui, colle ragioni e considerazioni stesse con cui si spiega in Omero. In Anacreonte v’ha pochissima mescolanza di dialetti. (V. Fabric. B. Gr. in Anacr.) Certo il suo linguaggio è tutt’altro da quello di Omero. Esso è Ionico. Saffo scrisse in Eolico. Empedocle, benchè Siciliano e pittagorico, adoperò in vece del dorico l’ionico. (V. Fabric. in Empedocle, Giordani sull’Empedocle di Scinà, fine dell’articolo secondo). Forse che il dialetto ionico era allora il più comune della Grecia? Probabile, pel gran commercio di quella nazione tutta marittima e mercantile. Forse quello che noi chiamiamo ionico non era in quel tempo che il linguaggio comune della Grecia, siccome poi lo fu con certe restrizioni l’attico, che nacque pur dall’ionico? Probabile ancora; e in tal caso sarebbe risoluta anche la quistione intorno ad Omero, il quale da tutti è riconosciuto per poeta principalmente ionico di linguaggio; e si confermerebbe la mia opinione che il linguaggio da lui seguito, non fosse allora che l’idioma comune di tutta la Grecia, siccome l’italiano del Tasso è l’italiano comune di tutta l’Italia. O forse la Grecia era ancor troppo poco colta universalmente per aver un linguaggio comune già regolato e perfetto, e in mancanza di questo serviva l’ionico, come il più divulgato perchè proprio della nazione più commerciante? O finalmente Empedocle scelse l’ionico per imitare e seguire Omero? Molto probabile. In Pindaro e in altri lirici del suo o di simil genere, la mescolanza de’ dialetti non fa maraviglia. Essa è licenza piuttosto che istituto (ἐπιτήδευμα); e questa licenza è naturale in quel genere licenziosissimo in ogni altra cosa, come stile, immagini, concetti, transizioni, sentenze ec.

Questa mia sentenza che il creduto moltiplice dialetto di Omero, non fosse che il greco comune di allora, o non fosse che un dialetto solo al quale appartenessero tutte quelle proprietà che ora a molti e diversi si attribuiscono, credo che sia sentenza già sostenuta e anche generalmente ricevuta oggidì appresso gli eruditi stranieri. (26. Luglio 1823. dì di S. Anna.).

La forza, l’originalità, l’abbondanza, la sublimità, ed anche la nobiltà dello stile possono, certo in gran parte, venire dalla natura, dall’ingegno dall’educazione, o col favore di queste acquistarsene in breve l’abito, ed acquistato, senza grandissima fatica metterlo in opera. La chiarezza e (massime a’ dì nostri) la semplicità (intendo quella ch’è quasi uno colla naturalezza e il contrario dell’affettazione sensibile, di qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia materia e stile e composizione, come ho spiegato altrove), la chiarezza e la semplicità (e quindi eziandio la grazia che senza di queste non può stare, e che in esse per gran parte e ben sovente consiste), la chiarezza, dico, e la semplicità, quei pregi fondamentali d’ogni qualunque scrittura, quelle qualità indispensabili anzi di primissima necessità, senza cui gli altri pregi a nulla valgono, e colle quali niuna scrittura, benchè niun’altra dote abbia, è mai dispregevole, sono tutta e per tutto opera dono ed effetto dell’arte. Le qualità dove l’arte dee meno apparire, che paiono le più naturali, che debbono infatti parere le più spontanee, che paiono le più facili, che debbono altresì parer conseguite con somma facilità, l’una delle quali si può dir che appunto consista nel nascondere intieramente l’arte, e nella niuna apparenza d’artifizioso e di travagliato; esse sono appunto le figlie dell’arte sola, quelle che non si conseguono mai se non collo studio, le più difficili ad acquistarne l’abito, le ultime che si conseguiscano, e tali che acquistatone l’abito, non si può tuttavia mai senza grandissima fatica metterlo in atto. Ogni minima negligenza dello scrittore nel comporre, toglie al suo scrivere, in quanto ella si estende, la semplicità e la chiarezza, perchè queste non sono mai altro che il frutto dell’arte, siccome abituale, così ancora attuale; perchè la natura non le insegna mai, non le dona ad alcuno; perchè non è possibile ch’elle vengano mai da se, chi non le cerca, nè che veruna parte di veruna scrittura riesca mai chiara nè semplice per altro che per espresso artifizio e diligenza posta dallo scrittore a farla riuscir tale. E togliendo immancabilmente la chiarezza e la semplicità, ogni minima negligenza dello scrittore inevitabilmente danneggia, e in quella tal parte distrugge sì la bellezza sì la bontà di qualsivoglia scrittura. Perocchè la semplicità e la chiarezza sono parti così fondamentali ed essenziali della bellezza e bontà degli scritti, ch’elle debbono esser continue, nè mai per niuna ragione (se non per ischerzo o cosa tale) elle non debbono essere intermesse, nè mancare a veruna, benchè piccola, parte del componimento. La forza, la sublimità, l’abbondanza o la brevità e rapidità, lo splendore, la nobiltà medesima, si possono, anzi ben sovente si debbono intermettere nella scrittura; elle possono, anzi debbono avere quando il più quando il meno, sì dentro una medesima, come in diverse composizioni e generi; elle possono esser differenti da se medesime, secondo le scritture, e le parti e circostanze e occasioni di queste, anzi elle nè deggiono nè possono altrimenti. Ma la chiarezza e la semplicità non denno aver mai nè il più nè il meno; in qualsivoglia genere di scrittura, in qualsivoglia stile, in qualsivoglia parte di qualsiasi componimento, elle, non solo non hanno a mancar mai pur un attimo, ma denno sempre e dovunque e appresso ogni scrittore esser le medesime in quanto a se (benchè con diversi mezzi si possono proccurare, e dar loro diversi aspetti e diverse circostanze), sempre della medesima quantità, per così dire, e sempre uguali a se stesse nell’esser di chiarezza e semplicità, e nell’intensione di questo essere. (26. Luglio. 1823. dì di Sant’Anna.).

È ben difficile scrivere in fretta con chiarezza e semplicità; più difficile che con efficacia veemenza, copia, ed anche con magnificenza di stile. Nondimeno la fretta può stare colla diligenza. La semplicità e chiarezza se può star colla fretta, non può certo star colla negligenza. È bellissima nelle scritture un’apparenza di trascuratezza, di sprezzatura, un abbandono, una quasi noncuranza. Questa è una delle specie della semplicità. Anzi la semplicità più o meno è sempre un’apparenza di sprezzatura (benchè per le diverse qualità ch’ella può avere, non sempre ella produca nel lettore il sentimento di questa sprezzatura come principale e caratteristico) perocch’ella sempre consiste nel nascondere affatto l’arte, la fatica, e la ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai dalla vera trascuratezza, anzi per lo contrario da moltissima e continua cura e artifizio e studio. Quando la negligenza è vera, il senso che si prova nel legger lo scritto, è quello dello stento, della fatica, dell’arte, della ricercatezza, della difficoltà. Perocchè la facilità che si dee sentir nelle scritture è la qualità più difficile ad esser loro comunicata. Nè senza stento grandissimo si consegue nè l’abito nè l’atto di comunicarla loro. (27. Luglio. 1823.).

Voce non esistente nel latino scritto, comune però alle tre lingue figlie. Speranza, espérance, esperança, cioè sperantia, verbale di spero, fatto secondo l’uso del buon latino, come constantia, instantia, redundantia ec. (27. Luglio. 1823.).

Alla p. 3040. Qua io credo che si debba riferire il verbo posare (francese poser onde déposer, opposer, supposer, composer, apposer, disposer, exposer, proposer, imposer ec. ec.) in quanto ei significa por giù, deporre, con tutti i suoi derivati ec. in questo senso. Che riposare e posare per quiescere vengano da pausa pausare ec. (e così il franc. reposer ec.) l’ho detto in altro luogo, lo dimostra l’uso del verbo pausare ec. ec. nel Glossar. Cang. e va bene. Ma che posare, poser, déposer per deporre, vengano da pausare, non da ponere, e non siano quindi affatto diversi da posare ec. per quiescere, benchè suonino allo stesso modo; non posso in alcun modo persuadermelo, benchè trovi nel Gloss. un esempio dove pausare sta per deporre. Io credo che sia sbaglio di copista (o dello stesso autore, ignorante, come tutti allora erano, della lingua stessa barbara) che ha scritto l’au per l’o, sillabe solite a confondersi, massime ne’ bassi tempi, e massime avendovi un altro verbo similissimo, cioè pausare per riposare, a cui l’au veramente conveniva. Posare per deporre dee certo venire da positus, contratto in posus, come visitus-visus, pinsitus-pinsus, pisitus-pisus, onde viser, pisare. Da positus non contratto, viene depositare e lo spagn. depositar, di cui pure ho parlato altrove. Aggiungete che poser in francese non vale bene spesso altro che propriamente porre, e non ha nientissimo a far con riposare o reposer, se non in quanto quest’ultimo talvolta significa residere, far la posa, e in questo senso egli è un altro verbo, e viene altresì da ponere. Da postus viene appostare ital. apostar spagn. impostare italiano moderno tecnico. (27. Luglio. 1823.). V. p. 3058.

Pausare poi potrà venir da pausa, la qual voce viene da παύω. Ma potrebbe anche (insieme con posare, cioè quiescere, reposare, reposer ec.) essere un vero continuativo fatto da un pausus participio di pauo o pavo o simil verbo pari al sopraddetto verbo greco. V. Forcell. e quello che altrove ho detto di tali voci in un pensiero separato, e il Glossar. (27. Luglio. 1823.).

A proposito di quel che ho detto nel principio del mio discorso sui continuativi circa exspectare esperar ec. vedi il Gloss. Cang. in Sperare 3, e 5.(27. Luglio. 1823.).

Crystallus da Κρύσταλλος gelo. La stessa metafora adoperata da’ latini e greci per significare il cristallo naturale, adoprasi da’ francesi per l’artifiziale. Glace, lastra di cristallo fattizio. (27. Luglio. 1823.).

Alla p. 3040. fine. Questi tali diminutivi comuni a tutte tre le lingue figlie dimostrano che l’uso di essi in luogo e significato de’ positivi viene dal latino, massime che anche nel buon latino si trovano molti diminutivi usati in luogo de’ positt. disusati o perduti o meno usati, ovvero indifferentemente dai positivi ec. ec. ec. I quali fanno ben probabile che il volgo o il sermon familiare latino usasse nel modo stesso anche que’ diminutivi positivati che oggi s’usano o in tutte 3. le lingue figlie, o in alcuna di loro ec. da noi in parte annoverati ec. ec. ec.

Al qual proposito si osservi la voce fabula fabella ec. onde fabulo as, fabulor aris, e favella, favellare ec. come ho largamente detto altrove. Ch’ella venga da fari lo credo, ma parmi eziandio chiaro ch’ella è un diminutivo d’altra voce. E tanto più che non si dice fabulella, ma fabella, altro diminutivo, che non vien da fabula, ma pare che insieme con questo dimostri un terzo e positivo nome, del quale ambedue sieno diminutivi[a]

Notate però che similm. si dice populus (onde populo e populor) e popellus. In Fedro IV. 7. v. 22. fabella è vero diminutivo di fabula, come popellus lo è di populus. In tal caso favella e favellare che i lat. dicevano fabula e fabulare, appartengono alla classe de’ nostri diminutivi presi in vece de’ positivi. Abbiamo anche favola positivo, ma in altro senso, pur latino però. V. p. 3062.

[Chiudi]. Questo positivo è ignoto nel latino. Non vi si usano che i detti diminutivi, col verbo diminutivo fabulo ec. Ma noi abbiamo la voce fiaba che significa appunto favola, e che poi fu applicato particolarmente a certe stravaganti composizioni teatrali, come anche fabula in latino fu applicato a significare i drammi in senso non diminutivo ma positivo. Dubito forte che questo fiaba sia voce antichissima nel latino, perduta nello scritto, conservata nel volgare fino a noi. (27. Luglio. 1823.).

Come pedantescamente l’ortografia francese sia modellata, anzi servilmente copiata dalla latina si può osservar nell’uso dell’h che in parole o sillabe affatto compagne di pronunzia, e di suono, non hanno l’h se in latino (o in greco ec.) non l’avevano, se l’avevano l’hanno anche in francese. Come in Christ-cristal, technique, théologie, homme-omettre ec. Così dite del ph, dell’y ec. Cosa veramente pedantesca e infilosofica che parole nazionali, usualissime, volgarissime s’abbiano da scrivere non come la nazione le pronunzia, ma come le scrivevano quelli dalle cui lingue esse vennero, i quali così le scrivevano perchè così le pronunziavano, giacchè anche i latini pronunziavano p. e. l’y come u gallico, ec. (sebbene anch’essi da’ tempi di Cicerone in poi peccarono un poco nella servile imitazione della scrittura greca circa le parole venute o nuovamente prese dal greco. E vedi Desbillons ad Phaedr. Manheim 1786. p. LXVIII.). Che se le voci naturalizzate in una lingua, e mutate affatto dal loro primo stato per la pronunzia della nazione, s’avessero sempre a scrivere nel modo in cui le scrivevano o le scrivono quei popoli, ancorchè lontanissimi e diversissimi, onde a noi vennero, e se la scrittura originale s’avesse sempre a conservare in ciascuna voce, cangiata o non cangiata dal tempo, dal luogo, e dalla diversa nazione e lingua, e se il pregio di un’ortografia consistesse nel conservare le forme originali di ciascuna voce per forestiera ch’ella fosse, non so perchè le voci venute dal greco non si debbano scrivere con lettere greche, e l’ebraiche e le arabiche con lettere e punti ebraici ed arabici, e le tedesche con lettere tedesche. Giacchè usando diverso alfabeto, la scrittura originale si può imitare, ma non perfettamente conservare. E così dovremmo imparare e usare cento alfabeti per saper leggere e scrivere la nostra lingua. Veramente nessuna nazione in questa parte è così savia, e niuna scrittura così vera, perfetta e filosofica come l’italiana. Gli antichi greci se le potrebbero paragonare, se non che poche voci forestiere li ponevano in pericolo di guastar la loro ortografia. (27. Luglio. 1823.).

Condiscendere, condiscendenza, condecender o condescender, condescendre, condescendance ec. vengono dal greco Συγκατάβασις per condiscendenza è in S. Gio. Crisost. nel Sermone Quod nemo laedatur nisi a seipso δύναται , che incomincia Οἶδα μὲν ὅτι τοῖς παχυτέροις , cap. 11. Opp. Chrysost. ed. Montfaucon, t. 3. p. 457. B. Vedi i Glossar. latino e greco. V. p. 3071.

Sopra per contro (v. Crusca in Sopra par. 2. Venire sopra alcuno, Dare sopra . Il Bocc. Nov. 17. Acciocchè sopra , cioè contro, Osbech dall’una parte con le sue forze discendesse . E v. pur la Crusca in Scendere. par. 1.) è pretto grecismo (ignoto nel buon latino) e grecismo dell’ottimo e purissimo greco. I greci dicono ἐπὶ nel medesimo senso, sì quando questa preposizione è separata, sì nella composizione, come ἐπέρχομαι ec. ἐπιτίθεμαι. (28. Luglio 1823.).

Alla p. 3053. fine. Posar spagn. per abitare, onde posada ec. Pausar spagn. ec. V. i Diz. spagn. — Repossione per repos-it-ionem trovasi in un’antica iscrizione latina recentemente scoperta, e illustrata dal Ciampi (in una lettera data da Varsavia e stampata nell’Appendice al Giornale di Milano due o tre anni fa); e sta con significazione di luogo da riporre robe. (28. Luglio. 1823.). V. p. 3060.

Corruptio optimi pessima. Questo proverbio si verifica nominatamente negli uomini, negli spiriti sensibilissimi che col tempo e coll’uso del mondo divengono più insensibili degl’insensibilissimi per natura, come ho detto altrove, e danno nell’eccesso contrario ec. (28. Luglio. 1823.).

Persone imperfette, difettose, mostruose di corpo, tra quelle che non arrivano a nascere e si perdono per aborti, sconciature ec. non volontarie nè proccurate; tra quelle che son tali dalla nascita, e muoiono appena nate o poco appresso, per vizi naturali interni o esterni; quelle che così nate vivono e si veggono e si ponno facilmente contare, annoverando le mostruosità e difettosità d’ogni sorta; quelle finalmente che tali son divenute dopo la nascita, più presto o più tardi, naturalmente e senza esterna cagione immediata, voglio dire o per vizio ingenito sviluppatosi in séguito, o per malattia qualunque naturalmente sopravvenuta; sommando dico e raccogliendo tutti questi individui insieme, si vedrà a colpo d’occhio e senza molta riflessione che il loro numero nel solo genere umano, anzi nella sola parte civile di esso, avanza di gran lunga non solamente quello che trovasi in qualsivoglia altro intero genere d’animali, non solamente eziandio quello che veggiamo in ciascheduna specie degli animali domestici, che pur sono corrotti e mutati dalla naturale condizione e vita, e da noi in mille guise travagliati e malmenati; ma tutto insieme il numero degl’individui difettosi e mostruosi che noi veggiamo in tutte le specie di animali che ci si offrono giornalmente alla vista, prese e considerate insieme. La qual verità è così manifesta, che niuno, io credo, purchè vi pensi un solo momento e raccolga le sue reminiscenze, la potrà contrastare. Simile differenza si troverà in questo particolare fra le nazioni civili e le selvagge, e proporzionatamente fra le più civili e le meno, secondo un’esatta scala, come tra’ francesi italiani tedeschi spagnuoli ec.

Quali conseguenze si tirino da queste osservazioni, è così facile il vederlo, come esse conseguenze sono evidentissime, ed hanno quella maggior certezza che possa avere una proposizione dimostrata matematicamente, e dedotta matematicamente da un’altra di cui non si possa dubitare. (28. Luglio. 1823.).

Porgo per porrigo is, sincope usata dagli antichi latini e volgare tra noi. V. Forcell. in Porgo e massime il luogo di Festo. (28. Luglio. 1823.).

Alla p. 2842. principio. Defectus a um sembra avere il significato neutro di is qui defecit in parecchi luoghi, de’ quali v. Forcell. in defectus a um , e il Fedro di Desbillons, Manheim 1786. p. LVII. ad lib. I. fab. 21. vers. 3. Quietus a um da quiesco. V. in particolare il Desbillons loc. cit. p. LXII. ad II.8. v. 15. Usurpatus a um. V. Cic. ad fam. IX. 22. verso il princ. (28. Luglio. 1823.). V. p. 3074.

Alla p. 3058. Assus (e così semiassus) per assatus sarebbe una contrazione che farebbe al proposito. Se però assare non viene appunto da assus, il quale in tal caso sarebbe participio di verbo ignoto. E s’ei fosse il medesimo che arsus (v. Forcell. in Assus), il che non è inverisimile, stante l’antico uso latino di pronunziare e scrivere la s per la r (del che altrove cioè per 2991. segg.) assare sarebbe lo stesso che arsare, voce de’ bassi tempi, della quale altrove, continuativo di ardeo, e più regolare ec. nella pronunzia che assare [a]

Spagn. asar. It. lessare ec.

[Chiudi]. V. p. 3064. Elixus per elixatus (che pur si dice) sarebbe altra contrazione al proposito, se però elixo non viene da elixus, come ho detto di assus. E veggasi a questo proposito la p. 2757 8. e 2930. marg. (29. Luglio. 1823.).

Niuna cosa nella società è giudicata, nè infatti riesce più vergognosa del vergognarsi. (29. Luglio 1823.).

In proposito di favella, favellare, hablar ec. di cui molto distesamente ho ragionato altrove, veggansi le voci francesi habler, hablerie, hableur ec. Essi hanno anche fable ec. come noi pur favola ec. e gli spagnuoli fabula ec. dall’altro significato latino di fabula, fabulari ec. (29. Luglio. 1823.). Vedi pur lo spagn. habla e hablilla ec. ser habla o hablilla del pueblo. (29. Luglio. 1823.).

Alla p. 3055. marg. Asinus-asellus in vece di asinellus, che sarebbe intero e regolare, e che noi diciamo. Opera-opella ec. (29. Luglio. 1823.).

Esse conveniens alicui rei pro convenire; il participio attivo coll’ausiliare esse, all’italiana. V. Fedro Fab. 27 v. i. l. i . e Ovid. Trist. i. i. v. 6. ed anche il Fedro di Desbillons, Manheim 1786. p. LIX. (29. Luglio 1823.).

Altri due italianismi veggansi in Fedro II. 5. v. 25., e 8. v. 4. — Desbillons loc. cit. p. LXIV e LXV. E notinsi i luoghi di Varrone il quale parla del latino illustre. Altro eziandio III. 6. v. 5. — Desbill. p. LXXI. Ma Fedro seguiva o s’appressava in molte cose al latino volgare. Quindi è ch’ha delle frasi tutte sue, cioè che non si trovano negli altri autori latini, e che sono sembrate non latino. Vedi il Desbillons p. XXII-VI. e gli altri che trattano della sua latinità. Niuno de’ quali, io credo, ha osservato la vera cagione della differenza di questa latinità dalla più nota. Tutti gli scrittori latini (anche antichi e veri classici) che hanno del familiare nello stile, come, oltre i Comici, Celso (che s’accosta molto a Fedro quanto può un prosatore a un poeta, e che fu pur creduto non appartenere al secolo d’oro) e lo stesso Cesare, inclinando per conseguenza più degli altri al linguaggio volgare, (benchè moderatamente e con grazia, come molti degl’italiani, p. e. il Caro), si accostano eziandio più degli altri all’andamento, sapore ec. e alle frasi, voci o significazioni ec. dell’italiano. Così pure fa Ovidio fino a un certo segno, ma per altra ragione, cioè per la negligenza e fretta che non gli permetteva di ripulire bastantemente il suo linguaggio, di dargli dovunque il debito splendore, nobiltà ec.; di tenersi sempre lontano dalla favella usuale: insomma perchè non sapeva o non curava di scrivere perfettamente bene, e si lasciava trasportare dalla sua vena e copia, con poco uso della lima, siccome per lo stile, così per la lingua. (29. Luglio. 1823.).

Alla p. 3040. fine. Asellus, capella equivalgono ad asinus, capra. Vedi a questo proposito il Forcell. in catellus. (30. Luglio. 1823.). V. p. 3073.

Come da nosco-notus, noscito, così da nascor-natus, nasciturus, del che mi pare di aver detto altrove. (30. Luglio. 1823.).

Similmente morior-mortuus-moriturus ec. ec. (30. Luglio 1823.).

Alla p. 3061. Che assare venga da ardere, e sia lo stesso che arsare, oltre la verisimiglianza ch’ha in se medesimo, considerando i significati di tali verbi, si fa eziandio più probabile osservando che il nostro arrostire (franc. rôtir) ch’equivale ad assare, viene da urere ch’equivale quasi ad ardere (preso attivamente, come noi sovente lo prendiamo, e come bisogna considerarlo nel caso nostro: v. Forcell. in ardeo e arsus participio passato, i Diz. franc. in arder, e lo spagnuolo). E che arrostire venga da urere, si dimostra guardando ch’egli è corruzione (o che altro si voglia) d’abbrostire il quale originariamente è il medesimo verbo; e che abbrostire è quasi il medesimo che abbrostolire, il qual è corruzione di abbrustolare; e che abbrustolare, detratte le lettere abbr (non so come premessegli) è appunto il latino ustulare, il cui significato è nè più nè meno quello di abbrustolare; e che ustulare è fatto da ustus di urere. Abbrustiare voce fiorentina è quanto al materiale lo stesso che abbrustolare, mutato il tol (lat. tul) in ti, secondo il costume della lingua nostra (e massime della fiorentina e toscana), come da oc-ul-us occh-i-o, da masc-ul-us masch-i-o, che i fiorentini dicono mastio ec. come ho detto altrove (così da misc-ul-are misch-i-are, i fiorentini mistiare). Le lettere abbr abr o br paiono nelle nostre lingue esser proprie, non so perchè, delle voci di questo tal significato o simile; come in abbrostire e ne’ sopraddetti (i francesi non conservano che l’r, cioè rostir, ma questa sembra essere un’aferesi di abbrostire, o abrustire che sarebbe un vero latino-barbaro), in brustolare, abbruciare ec., bruciare ec., abbronzare ec. abbruscare (v. l’Alberti), brûler, abrasar ec. Forse queste tutte sono corruzioni del latino amb (ambustus, amburere ec.). Veggasi il Glossario se ha nulla in proposito. Veramente abbruciare, bruciare, brûler, abrasar sembrano non appartenere al latino, e da quella origine da cui essi vennero, fu tolto forse ancora l’uso di premettere le lettere abbr, abr, br ad altre voci di significato affine al loro, benchè venute d’altra origine, cioè latina ec. (30. Luglio. 1823.).

Che la lingua italiana mediante la letteratura sia stata per più secoli divulgatissima in Europa, e più divulgata che niun’altra moderna a quei tempi, o certo per più lungo spazio (perchè la lingua spagnuola per certo tempo lo fu forse altrettanto, e in Italia nel 600 trovo stampate le Novelle di Cervantes in ispagnuolo, mentre oggi in tanta diffusione della lingua francese, che niuno è che non la intenda, è ben difficile che tra noi si ristampi un libro francese di letteratura o divertimento in lingua francese), raccogliesi da parecchi luoghi e notizie da me segnate qua e là, e da molte altre che si possono facilmente raccorre. Vedi in particolare Andres, Stor. della letterat. parte 2. l. i. poesia inglese, ed. Ven. del Loschi, t. 4. p. 116. 117. 119., la Vita di Milton, l’Orazione di Alberto Lollio in lode della lingua toscana, nelle Prose fiorentine, part. 2. vol. 4. ed. Ven. 1730-43. p. 38 39, dov’è un passo molto interessante a questo proposito. Ma si noti che in altre edizioni come in quella della Raccolta di prose ad uso delle regie scuole, ed. 3.a Torino, 1753. p. 309. questo passo, siccome tutta l’orazione, è notabilissimamente mutato; e veggasi la prefazione al citato vol. delle Prose fior. p. X-XI. Veggasi ancora Speroni Oraz. in morte del Bembo nelle Orazioni stampate in Ven. 1596. p. 144-5. La Canzone de’ Gigli del Caro, mandata in Francia, e fatta apposta per colà, come anche il Commento alla medesima secondo che dice il Caro in una delle sue lettere al Varchi, il conto fattone in Francia ec. (vedi la Vita del Caro); la Canzone del Filicaia per la liberazione di Vienna, mandata in Germania, e credo anche in Polonia, e colà molto lodata, come si vede nelle lettere del Redi[a]

V. p. 3816.

[Chiudi]; i poemi dell’Alamanni fatti in Francia ad istanza di quei principi ec. e colà stampati (v. Mazzucchelli, Vita dell’Alamanni), siccome molti altri libri italiani originali o tradotti si pubblicavano allora o si ristampavano fuor d’Italia, nella quale certo niun libro francese, inglese, tedesco si pubblicava o ristampava originale, e ben pochissimi tradotti (francesi o spagnuoli); tutte queste cose, e cento altre simili notizie e indizi di cui son pieni i libri del 500, del 600, e anche de’ principii del 700, dimostrano quanto la lingua italiana fosse divulgata. Nondimeno ella ha lasciato ben poche o niuna parola agli stranieri (eccetto alcune tecniche, militari, di belle arti ec. che spettano ad altro discorso) mentre la lingua francese tanti vocaboli e frasi e modi e forme ha comunicato e comunica a tutte le lingue colte d’Europa, e in esse le ha radicate e naturalizzate per sempre, e continuamente ne radica e naturalizza. Segno che la letteratura è debol fonte e cagione e soggetto di universalità per una lingua, perocchè una lingua universale per la sola letteratura (e per questo lato fu veramente universale l’italiana a que’ tempi, quanto mai lo sia stato alcun’altra fra le nazioni civili) non rende διγλώττους le nazioni in ch’ella si spande, e non è mai se non materia di studio e di erudizione (παιδείας). Quindi poco profonde radici mettono nell’altre lingue le sue parole: e terminata l’influenza della sua letteratura termina la sua universalità (non così, terminata l’influenza della nazion francese è terminata nè terminerà l’universalità della sua lingua, nè così della greca ec.), e si dimenticano e disusano ben presto quelle parole e modi che lo studio e l’imitazione della sua letteratura aveva forse introdotto nelle letterature straniere, ma non più oltre che nelle letterature. Quando in Francia a tempo di Caterina de’ Medici, la nostra lingua si divulgò per altro che per la letteratura, allora l’italianismo nel francese non appartenne alla letteratura sola, e in questa medesima eziandio fu maggiore assai che negli altri tempi o circostanze, onde, non so qual degli Stefani, scrisse quel dialogo satirico del quale ho detto altrove più volte.

Il Menagio, Regnier Desmarais, il Milton ec. che scrissero e poetarono in lingua italiana, sono esempi non rinnovatisi, cred’io, rispetto ad alcun’altra lingua moderna, se non dipoi rispetto alla francese, e certo non dati nè imitati mai dagl’italiani, se non appresso parimente quanto al francese. S’è vero che nel 500 v’avessero cattedre di lingua italiana tra’ forestieri, come dice Alberto Lollio, esse erano, cred’io, le uniche dove s’insegnasse lingua moderna forestiera nè nazionale, nè mai vi fu cosa simile in Italia per nessun’altra lingua moderna (eccetto forse in Propaganda di Roma) fino a questi ultimissimi tempi (v’è ora qualche cattedra di lingua moderna in Italia? Dubito assai: di lingua italiana? dubito ancor più). È noto poi che la letteratura e lingua spagnuola nel suo secolo d’oro che fu il 500. come per noi, si modellò in gran parte sull’italiana, colla qual nazione la Spagna ebbe allora purtroppo che fare. (30. Luglio. 1823.).

Benedetto Buommattei nell’ Orazione delle lodi della lingua toscana detta da lui l’anno 1623. nell’Accademia Fiorentina (Vita del Buommatt. in fronte alla sua Grammat. ed. Napoli 1733. p. 22. princ.), verso il fine, cioè nella succitata Raccolta di Torino p. 299. fine — 300. e appiè della sua Gramatica, ediz. cit. p. 273. fine, dice della universal diffusione della lingua toscana a quel tempo ciò che ivi puoi vedere. (30. Luglio. 1823.).

Dompter da domitare, inseritoci il p, come in emptus, sumptus (sumpsi ec.) e simili, e come alcuni fanno in temptare che nel Cod. de Rep. di Cic. è scritto temtare, come anche si scrive emtus, sumtus, peremtus ec. Veggasi la p. 3761. fine. E il Richelet nel Diz. scrive domter con tutti i suoi derivati similmente, e vuol che si pronunzi donter, dontable ec. così anche altri Dizionari moderni. Così dompnus e domnus contratto da dominus. E a questo discorso appartiene la voce somnus fatta da ὕπνος e, come dice Gellio, da sypnus — o supnus-sumnus-somnus. V. il Glossar. se ha niente che faccia a proposito. (31. Luglio. 1823.).

Alla p. 3057. Similmente angustia per angoscia (ch’è corruzione di angustia) o in simile significato par che venga dal greco, quanto cioè alla metafora. Στενοχωρίαι, in questo senso e in San Basilio Magno nell’Omil. o sermone (λόγος) περὶ εὐχαριστίας de gratiarum actione, opp. ed. Garnier, t. 2. p. 26. D. cap. 2. È da veder però se tali metafore vennero a noi da’ greci, o a’ greci dal latino (v. p. e. Forcell. in angustia: anche noi diciamo in tal senso strette, strettezza ec.) o dal latino-barbaro. V. il Gloss. lat. (perchè il greco non ha niente) e lo Scapula. (31. Luglio. 1823.).

Alla p. 2841. marg. Di tali participii passivi di verbi neutri (e fors’anche di verbi attivi) adoperati in senso neutro (fors’ancora attivo), anzi non in altro senso che in questo, cioè non mai passivamente ne abbondano le lingue figlie della latina. Stato, caduto, uscito, svaporato, esalato, venuto, andato, salito, sceso, sorto, vissuto, morto, ec. Anzi quasi tutti i verbi neutri hanno nelle dette lingue tali participii col detto senso e non altro. (31. Luglio. 1823.)[a]

Parido o parida partic. di terminaz. passiva, s’usa dagli spagn. attivam. p. che ha partorito. Estar parida, esser puerpera, ec.

[Chiudi]. V. p. 3298.

Ho discorso altrove della voce camara o camera. V. Fedro IV. 22. v. 29. e ivi il Desbillons e gli altri. (31. Luglio 1823.).

I Romani, che tanto fecero con la virtù, e col sangue, riconoscevan nondimeno ogni cosa dalla Fortuna; Dea più ch’altro Nume da loro adorata. Onde Lucio Silla che vinse la Virtù, e i Trionfi, e i sette Consolati di G. Mario, si fè chiamare il Felice, e teneasi esser della Fortuna figliuolo. Ed Augusto pregò gli Dii, che dessero al nipote la sua fortuna, la quale fu stupenda. Bern. Davanzati. Orazione in morte del Gran Duca di Toscana Cosimo primo. (1. Agosto. dì del Perdono. 1823.).

Alessandro Magno schifò quel (consiglio) d’Aristotile, che volea ch’egli trattasse i Greci da parenti, e i Barbari da bestie, e sterpi. Id. ib. (1. Agosto. dì del Perdono. 1823.).

Alla p. 3063. Scrupulus diminutivo di scrupus, usato però sempre, ch’io sappia, in luogo del positivo nei sensi metaforici, eccetto solamente appo Cic. de repub. III. 16. p. 244. Anzi eziandio nel senso proprio, fuor d’un luogo di Petronio, non so che si trovi mai adoperato il detto positivo. Ma il diminutivo bensì. Così dico di calx per lapis, da cui calculus. V. Forcell. in calculus e calx. (1. Agosto. dì del Perdono. 1823.).

Aborto as da aborior-abortus, o dal semplice orior. Il nostro abortire e il lat. abortio is (se questo verbo è vero) sarebbero continuativi anomali. Il franc. avorter è il lat. abortare. V. lo spagnuolo e il Gloss. se ha nulla. (1. Agosto. dì del Perdono. 1823.).

Appellito as da appello-appellatus, onde lo spagn. apellidar, apellido sostantivo ec. (1. Agosto. 1823.).

Reditus a um. V. l’Oraz. di Claudio Imp. (citata in altri casi dal Forcell. come in appellito) ap. Gruter. p. 502. col. 1. v. 36. Cretus, concretus ec. V. Forcell. Pertaesus, Distisus, Fisus, diffisus, confisus ec. V. Forc. Exoletus cioè qui exolevit. Conspiratus. V. Forc. in fine vocis. Census a um. V. Forc. Status a um. V. Forc. nel principio di questa voce, massime il luogo d’Ulpiano. Nuptus a um. Falsus. V. Forc. (1. Agos. 1823.).

È da notare che la lingua spagnuola, per suo quasi perpetuo costume e regola, conserva ne’ participii de’ verbi latini della 2.da e 3.a maniera l’antica e regolare e piena forma della quale ho discorso altrove, non ostante che nel latino conosciuto ella sia alterata, contratta, o anomala. Ne’ quali casi la lingua italiana suol seguire ciecamente la latina ancorchè contro la regola e proprietà delle sue coniugazioni, e inflessioni, come ho detto altrove in proposito di arsare. P. e. 1. tenido, venido, e cento simili sono participii intieri, cioè tenitus, venitus, in luogo de’ contratti che usa la lingua latina conosciuta, cioè tentus, ventus ec. Noi in questo e in molti altri casi mutiamo bene spesso l’i in u (scambio che può essere anch’esso antichissimo) dicendo tenuto, venuto ec. I francesi cambiano sovente e comprendono nella lettera u tutte le lettere itus: tenu, venu da tenitus, venitus e così ordinariamente. 2. Corregido è participio intero e senza mutazione di lettera alcuna, cioè corregitus, dal qual regolare participio la lingua latina fece corregtus per contrazione, e indi mutato il g nell’affine palatina, correctus ch’è solo participio rimasto nel latino conosciuto, e nell’italiano. Similmente leido (se non che lo spagnuolo omette il g in tutto questo verbo) è il primitivo e regolare legitus (dimostrato da legitare) e da questo viene, non già da lectus, da cui il nostro letto. Anzi, perchè veggiate la differenza, da lectus sostantivo lo spagnuolo non fa leido, ma lecho (voce antica), equivalendo il ch spagnuolo assai spesso al ct latino. 3. Movido, nacido, conocido e cento simili sono participii e interi e irregolari, in luogo di contratti ed anomali. Movitus per motus. Nascitus (dimostrato, oltre l’analogia, da nasciturus, come altrove ho notato) per natus ch’è solo oggi nel latino e nell’italiano e nel francese Cognoscitus, dimostrato, come altrove ho detto, da noscito, per cognitus, ch’è unico nel latino, unico nel francese. Nell’italiano v’è cognitus e v’è anche cognoscitus, mutato al solito l’i in u, e dico mutato, perchè in conosciuto, l’i è accidentale della scrittura, non proprio della parola, e serve solamente a dinotar la pronunzia delle lettere sc, che poste avanti l’u senza l’intrapposizione della i, si profferirebbero in altro modo[a]

Così l’h è accidentale in dich’io in giuochi ec. ec.

[Chiudi]. Del resto nacido ec. è proprio lo stesso che nascitus, omessa la s per proprietà moderna, perchè gli antichi la scrivevano, come pure in crecer (onde crecido-crescitus cresciuto, per cretus-cru), condecender ec. ec. La lingua spagnuola suol essere regolarissima in questi tali participii, più assai dell’italiana, più della francese, e conservare più di ambedue l’antichità e primitiva proprietà latina, anzi conservarla si può dir, pienamente. E ciò non meno nè in diverso modo quando la latina conosciuta è irregolare o contratta, che quando ell’è regolare e semplice, come da habitus, havido o habido, che noi colla solita mutazione diciamo avuto. Ora questo havido nello spagnuolo ha la stessissima forma di tenido ec. Ma non così in latino, benchè teneo sia della stessa forma di habeo [b]. V. p. 3572. fine.

Non è tuttavia che alcune volte la lingua spagnuola non segua in tali participi ciecamente o l’anomalia o la contrazione della lingua latina, come suol far l’italiano e il francese e non ne divenga essa stessa anomala, come le altre due. Di visto, e quisto (che però si dice anche regolarmente querido) dico altrove. Da facere, hacer, ella non fa pienamente hacido, facitus, ma contrattamente hecho da factus (fatto, fait), anticamente fecho, mutato il ct in ch per proprietà spagnuola, come in derecho, provecho ec. ec. e come ho pur detto altrove; e l’a cambiato in e, come in trecho da tractus, in leche da lacte ablativo (Perticari vuol che si dica dall’accusativo tolta la m; ma ecco che l’accusativo di lac è lac: vedi però il Forcell. appo il quale lac è mascolino in più esempi), e come i latini ne’ composti, con fectus ec., in echar da jactare. Dov’è notabile che anche noi e i francesi facciamo la stessa mutazione: gettare, jeter, come i latini ne’ composti: obiectare ec. Da dicere non decido o dicido, ma dicho-dictus-detto- dit. (1. Agos. 1823.). V. p. 3362.

La più bella e fortunata età dell’uomo, la sola che potrebb’esser felice oggidì, ch’è la fanciullezza, è tormentata in mille modi, con mille angustie, timori, fatiche dall’educazione e dall’istruzione, tanto che l’uomo adulto, anche in mezzo all’infelicità che porta la cognizion del vero, il disinganno, la noia della vita, l’assopimento della immaginazione, non accetterebbe di tornar fanciullo colla condizione di soffrir quello stesso che nella fanciullezza ha sofferto. E perchè così tormentata e fatta infelice quella povera età, nella quale l’infelicità parrebbe quasi impossibile a concepirsi? Perchè l’individuo divenga colto e civile, cioè acquisti la perfezione dell’uomo. Bella perfezione, e certo voluta dalla natura umana, quella che suppone necessariamente la somma infelicità di quel tempo che la natura ha manifestamente ordinato ad essere la più felice parte della nostra vita. Torno a domandare. Perchè fatta così infelice la fanciullezza? E rispondo più giusto. Perchè l’uomo acquisti a spese di tale infelicità quello che lo farà infelice per tutta la vita, cioè la cognizione di se stesso e delle cose, le opinioni, i costumi le abitudini contrarie alle naturali, e quindi esclusive della possibilità di esser felice; perchè colla infelicità della fanciullezza si compri e cagioni quella di tutte le altre età; o vogliamo dire perch’ei perda colla felicità della fanciullezza, quella che la natura avea destinato e preparato siccome a questa, così a ciascun’altra età dell’uomo, e ch’altrimenti egli avrebbe ottenuta in effetto. (1. Agosto. 1823.).

Assaltare da assalire, come il semplice salto lat. da salio. (1. Agos. dì del Perdono. 1823.). V. p. 3588.

Alla p. 2740. marg. Io credo bene che il ψ fosse posto in uso tanto per esprimere il πσ, quanto il βσ e il φσ; e così il ξ tanto pel κσ, quanto pel γσ e pel χσ; posto in uso, dico, dagli scrivani che in quei primi tempi e in quella imperfezione dell’ortografia, non distinguevano bastantemente e confondevano rispetto ai segni le varie pronunzie e i vari suoni, massime affini, nè si curavano di distinguerli più che tanto l’un dall’altro nelle scritture, o non sapevano perfettamente farlo. Credo per conseguenza. che antichissimamente φλὲψ si pronunziasse e scrivesse φλὲβσ, non φλέπς;; ἀλείψω si pronunziasse e scrivesse ἀλείφσω, e non ἀλείπσω;; λύγξ λύγγς, e non λύγκς;; ἄρξω ἄρχσω, e non ἄρκσω; e così dell’altre doppie. Ma che poi, introdotto l’uso di queste doppie si continuassero quelle lettere a pronunziare secondo la derivazione grammaticale o l’uso antico e le antiche radicali, e che quindi p. e. il ψ e il ξ avessero ora una pronunzia ed ora un’altra, cioè ora πσ ora βσ ec. non lo credo, anzi tengo che il ψ fosse sempre pronunziato πσ, e il ξ sempre κσ. Passaggio non difficile neppure nella pronunzia (e ordinario anche e regolare in milione d’altri casi sì nella pronunzia che nella scrittura e grammatica greca) d’una in un’altra affine, cioè dalle palatine γ e χ alla palatina κ, e dalle labiali β φ alla labiale π. Massime che il π e il κ sono veramente medie nella pronunzia tra le loro affini, benchè si assegni il nome di medie al γ e al β, e al δ, non al τ ec. Lo deduco dal latino, fra’ quali parimente il x fu sostituito sì al cs che al gs, ed anticamente scrivevasi e pronunziavasi p. e. gregs, legs, regs, non grecs, lecs, recs, come oggidì, almeno noi italiani, sogliamo sempre pronunziare. V. il Forc. e il Diz. di gramm. e letterat. dell’Encicl. metod. in X. Ma che in seguito il x anche tra’ latini antichi, ossia de’ buoni tempi, fosse sempre pronunziato cs, come oggi, dimostrasi dal considerare p. e. i verbi lego, rego, tego e simili (appunto venuti da’ nomi sopraddetti) i quali nel perfetto fanno rexi, texi (lego ha legi). Dove certo la x antichissimamente equivalse a gs, come ho detto altrove. Ma eccovi i participii lectus, rectus, tectus, che da prima furono legitus ec. e poi contratti, mutarono il g in c. Resta dunque più che probabile che anche quei perfetti si pronunziassero col c, recsi, tecsi malgrado la loro derivazione grammaticale e quindi è altrettanto probabile che qualora nell’x doveva esservi il g, passasse in c, giacchè non v’è niuna ragione di più perch’ei dovesse far questo passaggio ne’ detti perff. che in qualunqu’altra voce. (2. Agosto. dì del Perdono. 1823.).

È cosa dimostrata e dalla ragione e dall’esperienza, dalle storie tutte, e dalla cognizione dell’uomo, che qualunque società, e più le civili, e massime le più civili, tendono continuamente a cadere nella monarchia, e presto o tardi, qualunque sia la loro politica costituzione, vi cadono inevitabilmente, e quando anche ne risorgono, poco dura il risorgimento e poco giova, e che insomma nella società non havvi nè vi può avere stato politico durabile se non il monarchico assoluto. È altrettanto dimostrato, e colle medesime prove, che la monarchia assoluta, qual ch’ella sia ne’ suoi principii, qual ch’ella per effimere circostanze possa di quando in quando tornare ad essere per pochi momenti, tende sempre e cade quasi subito e irreparabilmente nel despotismo; perchè stante la natura dell’uomo, anzi d’ogni vivente, è quasi fisicamente impossibile che chi ha potere assoluto sopra i suoi simili, non ne abusi; vale a dire è impossibile che non se ne serva più per se che per gli altri, anzi non trascuri affatto gli altri per curarsi solamente di se, il che è nè più nè meno la sostanza e la natura del despotismo, e il contrario appunto di quello che dovrebb’essere e mai non fu nè sarà nè può essere la vera e buona monarchia, ente di ragione e immaginario. Ora egli è parimente certo, almeno lo fu per gli antichi, e lo è per tutti i savi moderni, che il peggiore stato politico possibile e il più contrario alla natura è quello del despotismo. Altrettanto certo si è che lo stato politico influisce per modo su quello della società, e n’è tanta parte, ch’egli è assolutamente impossibile ch’essendo cattivo quello, questo sia buono, e che quello essendo imperfetto, questo sia perfetto, e che dove quello è pessimo, non sia pessimo questo altresì. Or dunque lo stato politico di despotismo essendo inseparabile dallo stato di società, e più forte e maggiore e più durevole nelle società civili, e tanto più quanto son più civili, ricapitolando il sopraddetto, mi dica chi sa ragionare, se lo stato di società nel genere umano può esser conforme alla natura, e se la civiltà è perfezionamento, e se nella somma civiltà sociale e individuale si può riporre e far consistere la vera perfezione della società e dell’uomo, e quindi la maggior possibile felicità d’ambedue, come anche lo stato a cui l’uomo tende naturalmente, cioè quello a cui la natura l’aveva ordinato, e la felicità e perfezione ch’essa gli avea destinate. (2. Agosto. dì del Perdono. 1823.).

La delicatezza, p. e. la delicatezza delle forme del corpo umano, è per noi una parte o qualità essenziale e indispensabile del bello ideale rispetto all’uomo, sì quanto al vivo, sì quanto alla imitazione che ne fa qualsivoglia arte, la poesia ec. Puoi vedere la pag. 3248-50. Ora egli è tutto il contrario in natura. Perciocchè la delicatezza, non solo relativamente, cioè quella tal delicatezza che la nostra imaginazione e il nostro concetto del bello esige nelle forme umane, e quel tal grado e misura ch’esso concetto n’esige, ma la delicatezza assolutamente, è per natura, brutta nelle forme umane, cioè sconveniente a esse forme. Giacchè l’uomo per natura doveva essere, e l’uomo naturale è tutto il contrario che delicato di forme. Anzi rozzissimo e robustissimo, come quello che dalla necessità di provvedere a’ suoi bisogni giornalmente, è costretto alla continua fatica, e dal sole e dalle intemperie degli elementi è abbronzato e irruvidito. E la delicatezza gli nuocerebbe; onde s’egli pur accidentalmente sortisce una persona delicata dalla nascita, questo è un male e un difetto fisico per lui, e quindi una sconvenienza e bruttezza fisica, come lo sono tanti altri difetti corporali che sì l’uomo naturale come il civile (e così gli altri animali e vegetabili) si porta dalla nascita, non per legge e per regola generale della natura umana, ma per circostanze irregolari e per accidente individuale o familiare o nazionale ec. Per le quali cose è certissimo che nell’idea che l’uomo naturale si forma della bellezza fisica della sua specie, non entra per nulla la delicatezza, la quale per tutte le nazioni civili in tutti i secoli fu ed è indispensabile parte di tale idea. Anzi per lo contrario è certissimo che la delicatezza per l’uomo naturale entra nell’idea della bruttezza umana fisica. Che se l’uomo naturale non esigerà nelle forme feminili tanta rozzezza quanta nelle maschili, non sarà già ch’egli vi esiga la delicatezza, nè anche ch’egli concepisca per niun modo la delicatezza come bella nel sesso femminile; anzi per lo contrario egli esigerà nelle forme donnesche tanta robustezza quanta è compatibile colla natura di quel sesso, e tanto più belle stimerà quelle forme quanto più mostreranno di robustezza senza uscir della proporzione del sesso. E se la robustezza uscirà di tal proporzione, ei la condannerà, non come opposta alla delicatezza, quasi che la delicatezza fosse parte del bello, ma senza niuna relazione alla delicatezza, la condannerà come sproporzionata e fuor dell’ordinario in quel sesso. Laddove per lo contrario le nazioni civili esigono nelle forme donnesche tanta delicatezza quanta possa non uscir della proporzione, e piuttosto ne lodano l’eccesso che il difetto. E quando ne condannano l’eccesso, lo condannano solo in quanto eccesso, non in quanto di delicatezza, nè in quanto opposto alla grossezza e rozzezza; laddove l’uomo naturale condannando la soverchia robustezza non la condanna come robustezza, ma come soverchia secondo le proporzioni ch’egli osserva nel generale.

Ecco dunque l’idea universale di tutte le nazioni ed epoche civili circa il bello umano (ch’è pur quel bello intorno a cui gli uomini convengono naturalmente più che intorno alcun altro) dirittamente opposta a quella dell’uomo naturale, quanto alla parte che abbiamo considerata. Dicasi ora che l’idea del bello è naturale ed insita, non che universalmente conforme, eterna, immutabile.

E in questa differenza d’idee che abbiamo notata, qual è più conforme alla natura umana, più derivante dalla natura, e (se qui avesse luogo la verità) qual è più vera, più giusta, più ragionevole? Certo quella dell’uomo naturale. Dunque non si dica, come diciamo di tanti altri in tante occasioni, ch’egli non concorda con noi circa il bello, perchè non ne ha il fino senso, nè la mente atta a concepire il vero bello ideale. (Il che noi diremo, cred’io, ancora degli Etiopi, il cui bello ideale umano è nero e non bianco, rincagnato, di labbra grosse, lanoso). Come mai può esser bella in una specie di animali la debolezza, la pigrizia? E pur tale ella è nell’uomo appo tutte le nazioni civili, perocchè la delicatezza non è senza l’una e l’altra, e da esse fisicamente nasce, e le dimostra necessariamente all’intelletto.

Sentimento e giudizio degli uomini di campagna circa la bellezza umana e la delicatezza. — Il qual sentimento e giudizio è certamente per le dette ragioni più giusto del nostro. Del nostro, uomini di fino senso e gusto, e profondi conoscitori del bello, è più naturale e quindi più giusto il sentimento e il giudizio di spiriti grossi, rozzi, inesercitati, ignoranti.

Quel che si è detto della delicatezza, dicasi di altre molte qualità che per consenso di tutti i secoli e popoli civili denno trovarsi nelle forme dell’uomo per esser belle; e che per natura non si trovavano, o non doveano trovarsi nelle forme dell’uomo, o vi si trovavano e dovevano trovarvisi le contrarie. Perocchè siccome l’animo e l’interiore dell’uomo e quindi i costumi e la vita, così anche le forme esteriori sono, in molte qualità, rimutate affatto da quel ch’erano negli uomini primitivi. E intorno a tutte queste qualità, il sentimento e il giudizio di tal uomini circa la bellezza umana corporale, differisce o espressamente contraddice a quello di tutte le nazioni ed epoche civili universalmente; e sempre è più ragionevole. (4. Agosto 1823.).

Come le forme dell’uomo naturale da quelle dell’uomo civile, così quelle di una nazione selvaggia differiscono da quelle di un’altra, quelle di una nazione civile da quelle di un’altra; quelle di un secolo da quelle di un altro, per varietà di circostanze fisiche naturali o provenienti dall’uomo stesso; e (per non andar fino alle famiglie e agl’individui) è cosa osservata e naturale che gli uomini dediti alle varie professioni materiali (senza parlar delle morali, che influiscono sulla fisonomia, dei caratteri e costumi acquisiti, che pur sommamente v’influiscono, e la diversificano in uno stesso individuo in diversi tempi) ricevono dall’esercizio di quelle professioni certe differenze di forme, ciascuno secondo la qualità del mestiere ch’esercita e secondo le parti del corpo che in esso mestiere più s’adoprano o più restano inoperose, così notabili che l’attento osservatore, e in molti casi senza grande osservazione, può facilmente riconoscere il mestiere di una tal persona sconosciuta ch’ei vegga per la prima volta, solamente notando certe particolarità delle sue forme. Così si può riconoscere l’agricoltore, il legnaiuolo, il calzolaio, anche senz’altre circostanze che lo scuoprano.

Qual è dunque la vera forma umana? Ed essendo diversissime e in parte contrarissime le qualità che di essa si osservano in intere nazioni, classi ec. di persone, benchè generalmente e regolarmente comuni in quella tal classe; come si può determinare esattamente essa forma secondo i capi delle qualità regolari e delle parti che regolarmente la compongono? E non potendosi determinare la forma umana regolare e perfetta, perocch’ella regolarmente per intere classi, nazioni e secoli si diversifica, come si potrà determinare la bellezza della medesima? Quando appena si troverà una qualità che la possa comporre, la quale non manchi o non sia mancata regolarmente ad intere classi e generazioni d’uomini, o non sia stata anzi tutto l’opposto? Che cosa è dunque questo tipo di bellezza ideale, universalmente riconosciuto, eterno, invariabile? quando neppure intorno alla nostra propria forma visibile, se ne può immaginar uno che sia riconosciuto per tale da tutti gli uomini, in tutti i tempi, o che non possa, o non abbia potuto non esserlo? quando esso non si trova neppur nella natura? dove dunque si troverà, o dove s’immaginerà, o donde si caverà egli?

Perocchè egli è certo che se taluno fosse (come certo furono e sono molti), il quale non avesse mai veduto altra forma d’uomini che l’una di quelle tali sopraddette, propria di una cotal nazione, o classe, o schiatta ec. ec. l’idea ch’egli si formerebbe della bellezza umana visibile, non uscirebbe delle proporzioni e delle qualità ch’egli avrebbe osservate in quella tal forma, e sarebbe lontanissima, e talvolta contrarissima, all’idea che si formerebbe un altro che si trovasse nella stessa circostanza rispetto a un’altra maniera di forme. Al quale la bellezza immaginata e riconosciuta da quel primo, parrebbe vera bruttezza, o composta di qualità ch’egli, se non altro, in parte, giudicherebbe onninamente brutte e sconvenienti, perchè diverse o contrarie a quelle ch’egli sarebbe assuefatto a vedere. Un agricoltore il quale non avesse mai veduto forme cittadine, crediamo noi che si formerebbe della bellezza un’idea conforme o simile a quella de’ cittadini? anzi non contraria affatto in molte parti essenziali? Un popolo di calzolai concepirebbe la bella forma dell’uomo tozzotta, di spalle larghe e grosse, gambe sottili e ripiegate all’indentro, braccia quasi più grosse delle gambe ec.

Tutto ciò spetta a quello che nelle forme umane dipende dalla natura largamente presa, cioè dalle cause fisiche ec. Di quello poi che dipende dalle usanze che dovrà dirsi? pareva impossibile nel 16.o secolo, secolo di squisito gusto, al Cellini, finissimo conoscitore del bello, di dar grazia e bell’aria al ritratto del Bembo (ch’egli aveva a fare in una medaglia), perchè il Bembo non portava barba. E il Bembo si fece crescer la barba per farsi ritrarre dal Cellini, e che il ritratto facesse bella vista essendo barbato, e così fu fatto. Che ne sarebbe parso a un artista de’ nostri tempi? Molte cose si posson dire delle varie opinioni ec. di varie nazioni e tempi sopra l’uso della barba (ch’è pur cosa naturale), relativamente al bello. Così de’ capelli e delle così diverse e contrarie pettinature, o tosature (totali o in parte) tenute per belle o per brutte in diverse età da una stessa nazione, in diverse nazioni ec. Eppure anche intorno ai capelli v’è la pettinatura naturale ec. ec. (5. Agosto. 1823.).

Futuri del congiuntivo usati da’ latini in vece di quelli dell’indicativo, del che altrove. Odero, meminero, credo anche coepero, novero. Forse ero coi composti potero, subero ec. furono originariamente futuri del congiuntivo. (5. Agosto. 1823.).

Riprendono nell’Iliade la poca unità, l’interesse principale che i lettori prendono per Ettore, il doppio Eroe (Ettore ed Achille), e conchiudono che se Omero nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli altri epici, particolarmente a Virgilio. Certo se potessero esser vere regole di poesia quelle che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura dell’uomo, io non disconverrei da queste sentenze. In proposito delle cose contenute nel séguito di questo pensiero, vedi la pag. 470. capoverso 2.

Omero fu certamente anteriore alle regole del poema epico. Anzi esse da’ suoi poemi furono cavate. Considerandole dunque come cavate e dedotte da’ suoi poemi, e fondate sull’autorità di Omero, e principalmente dell’Iliade, dico che chi ne le trasse, prese abbaglio, e che d’allora in poi fino al dì d’oggi, s’ingannarono e s’ingannano tutti quelli che le seguirono o le sostennero, o le seguono o sostengono (ciò sono tutti i litteratores) come appoggiate sull’esempio di Omero: perchè quest’esempio non sussiste, e dalla forma della Iliade non nascevano e non si potevano cavar quelle regole. Considerandole poi come indipendenti da Omero, come sussistenti da se, e supponendo (il che non è vero) ch’elle sieno il parto della ragione e della specolazione assoluta, dico senza tergiversazione che Omero, siccome non le conobbe, così neanche le seguì, ma seguendo la natura, molto miglior maestra delle Poetiche e de’ Dottori di Scuola e delle teorie, s’allontanò effettivamente da esse regole; ed aggiungo che queste sono errate da chiunque le immaginò, perchè incompatibili colla natura dell’uomo, perchè seguendole, il poema epico non può produrre il grande e forte e bello effetto ch’ei deve, o per lo meno non può produrre il maggiore e migliore effetto che gli sia d’altronde e in se stesso possibile; e che per conseguenza esse regole sono cattive e false.

Nelle Iliade pertanto non v’è unità. Due sono realissimamente gli Eroi, Ettore e Achille. Due gl’interessi e diversi l’uno dall’altro: l’uno pel primo di questi Eroi e per la sua causa, l’altro pel secondo e per la causa de’ greci. Interessi affatto contrarii che Omero volle espressamente destare e desta, volle alimentare e mantenere continuamente vivi ne’ suoi lettori, e l’ottiene; volle far ciò dell’uno e dell’altro interesse ugualmente e come di compagnia, e così fece.

È proprio degli uomini l’ammirar la fortuna e il buon successo delle intraprese, l’essere strascinati da questo e da quella alla lode, e per lo contrario dalla mala sorte e dal tristo esito al biasimo, l’esaltare chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non l’ottenne, lo stimar colui superiore al generale, costui uguale o inferiore, il credersi minor di quello e da lui superato, maggior di questo od uguale; in somma il distribuir la gloria secondo la fortuna. Questa proprietà degli uomini di tutti i tempi avea maggior luogo che mai negli antichi. L’esser fortunato era la somma lode appo loro. (V. fra l’altre la p. 3072. fine e p. 3342.) E ciò per varie cagioni. Primieramente la fortuna non si stimava mai disgiunta dal merito, per modo ch’eziandio non conoscendo il merito, ma conoscendo la fortuna d’alcuno, si reputava aver bastante argomento per crederlo meritevole. Come negli stati liberi pochi avanzamenti si possono ottenere senz’alcuna sorta di merito reale, e come gli antichissimi popoli nella distribuzione degli onori, delle dignità, delle cariche, dei premi, avevano ordinariamente riguardo al merito sopra ogni altra cosa, così e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i loro favori, che la fortuna non si facesse amica, se non di quelli che n’erano degni: talmente che anche i doni naturali come la bellezza e la forza si stimavano compagni ed indizi de’ pregi dell’animo e de’ costumi, e la stessa ricchezza o nobiltà e l’altre felicità della nascita cadevano sotto questa categoria. Secondariamente, non supponendo gli antichi maggiori beni che quelli di questa vita, fino a credere che i morti, anche posti nell’Elisio, s’interessassero più della terra che dell’Averno, e che gli Dei fossero più solleciti delle cose terrene che delle celesti, ne seguiva che considerassero la felicità come principalissima parte di lode, perocchè il merito infelice come può giovare a se o agli altri? e come può parer buono e grande quello ch’è inutile? e se il merito era infelice, come poteva risplendere? e non risplendendo e non giovando in questa terra e per questa vita, dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato luce e splendore? dove e a che cosa avrebbe giovato?

Era dunque la felicità, principale ed essenzial cagione e parte di lode e di stima e di ammirazione e di gloria presso gli antichi, ancor più che presso i moderni; e massimamente appo gli antichissimi. Perocchè insomma ella è cosa naturale il pregiar sopra tutto la felicità, laonde egli è ben ragionevole ch’ella tanto più sia pregiata quanto i costumi, le opinioni e la vita degli uomini sono più vicini e conformi alla natura, quali erano in fatti nella più remota antichità. Omero dunque pigliando a esaltare un Eroe ed una nazione, e togliendoli per soggetto del suo canto e della sua lode, e facendo materia del suo poema l’elogio loro, si sarebbe fatto coscienza di sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non avessero conseguito l’intento di quella impresa di ch’egli prendeva a cantare. Egli doveva dunque pigliare un Eroe fortunato.

E tanto più quanto questo Eroe era un guerriero, e i suoi pregi eroici il coraggio e valor dell’animo, e l’impresa una guerra. Perocchè se ne’ tempi moderni eziandio, poca o nulla è la gloria del vinto, e la lode di quella guerra che non è terminata dalla vittoria, molto più si deve stimare che così fosse appo gli antichi. Fra’ quali effettivamente l’esser vinto si teneva per ignominia, e il vincere in qualsivoglia modo era gloria, non si considerando allora gran fatto altra giustizia che quella dell’armi, altro diritto che della forza. Oltre che volendo Omero nel suo poema (siccome poi vollero gli altri epici) adombrar quasi un modello o un tipo di uomo superiore al generale e maraviglioso, e scegliendo per tale effetto un guerriero, come poteva egli farlo superiore agli altri uomini e singolarmente mirabile per le virtù proprie della sua professione, s’ei non l’avesse fatto vittorioso? anzi tale che niuno gli potesse resistere? Come poteva egli fare che questo Eroe fosse vinto, cioè superato dagli altri in quelle virtù e qualità per le quali egli intendeva di mostrarlo a tutti superiore e fra tutti unico, affine di produrre la maraviglia, ed eseguire quel tipo di compiuto guerriero ch’ei si proponeva? Non è della guerra come d’altre molte imprese che possono venir fallite e mancare del loro intento a cagione di ostacoli insuperabili all’uomo e di forze superiori alle umane. Ma la guerra è dell’uomo coll’uomo, e quindi è forza il far vincitore colui che si vuol far superiore agli altri uomini e singolare nella sua specie per le virtù guerriere. Chi cede nella guerra, cede all’uomo, cosa che oggidì potrà essere scusata ma di rado lodata; fra gli antichissimi non che lodata, era pur di rado scusata, e generalmente spregiata com’effetto o di viltà o di debolezza, la quale, sebbene involontaria, era poco meno spregiata della viltà, come lo sono anche oggidì proporzionatamente e la debolezza e tanti altri difetti degl’individui o delle nazioni, esteriori o interiori, che non dipendono dalla volontà di chi n’è il soggetto. Dico che la guerra è dell’uomo coll’uomo, sebbene Omero c’intramette anche gli Dei. Ma questa finzione era per abbellire e non per alterare la natura della guerra eccetto in alcune parti poco essenziali. Come quando s’introduce Achille alle prese col Csanto. Nel qual caso, non essendo la battaglia d’uomo con uomo, ma colla superior potenza di un Dio, Omero non si fa scrupolo d’introdurre Achille chiedente aiuto e fuggente, nè stima che questo tolga alla sua superiorità, perch’ei lo vuol far superiore agli uomini non agli Dei, e vittorioso nella guerra de’ mortali, non degli Eterni. E infatti l’intervento degli Dei, come non doveva (volendo conservare il buono effetto) alterare, così effettivamente non altera appresso Omero la sostanza della guerra umana.

Conveniva dunque che l’Eroe e la nazione presa da Omero a celebrare fossero fortunati e vittoriosi, massimamente aggiungendosi alle predette considerazioni generali questa particolarità che l’Eroe da Omero celebrato era greco, e la nazione era la greca, cioè quella alla quale egli cantava e a cui egli apparteneva, e la guerra era stata contro i Barbari. Molto conveniente cosa, pigliare per soggetto del poema epico le lodi e le imprese della propria nazione e una guerra contro i perpetui e naturali nemici di lei, ciò erano i Barbari. Cosa che raddoppiava, anzi moltiplicava l’interesse del poema, siccome accade nella Lusiade, siccome ancora nell’Eneide ec. Onde Isocrate pensa che gran parte della celebrità di Omero e della grazia in che sempre furono i suoi poemi appo i greci, derivi dal patriotismo de’ medesimi poemi e dalle battaglie e vittorie contro i Barbari, che in essi sono celebrate. (Vedilo nel Panegirico, ediz. del Battie Isocr. Oratt. 7. et epistt. Cantabrig. 1729. p. 175-6.). Or come poteva Omero fingere o narrar perditori la sua nazione e un Eroe della medesima, e ciò in una guerra contro i Barbari? Il che tra gli antichi sarebbe stato tanto più assurdo che tra i moderni, quando anche le lodi e l’interesse del poema fossero stati tutti per li greci, e quando anche, fingendoli sventurati, Omero avesse mosso le lagrime e i singhiozzi sopra le loro sciagure, sarebbe tuttavia riuscito assurdo di maniera, che sarebbe eziandio stato pericoloso al poeta. Frinico ateniese, gran tempo dopo Omero, fece suggetto di una tragedia la presa di Mileto fatta da Dario, e mosse gli uditori a pietà sopra quella sciagura dei greci per modo, che, secondo l’espressione di Longino (sect. 24.) tutto il teatro si sciolse in lagrime. 3 Gli Ateniesi lo multarono in mille dramme (Plut. politic. praecept. Strabo l. 14. Schol. Aristoph. Vesp.) perch’egli avea rinfrescato la memoria delle domestiche calamità e ripostele sotto gli occhi rappresentandole al vivo ( Herodot. l. 6. c. 21.); di più vietarono con decreto che quella tragedia fosse più recata sulle scene (Tzetz. Chil. 8. (alibi reperio 7.) hist. 156.): anzi secondo Eliano ( Var. l. 13. c. 17.), lagrimando, lo cacciarono dal teatro esso stesso che stava rappresentando la sua propria tragedia. (Vedi Fabric. B. G. in Catal. Tragicorum, Meurs. Bibl. Att. Bentley Diss. ad Ep. Phalar. p. 256) V. p. 4078.

Adunque per tutte queste cagioni doveva nell’Eroe di Omero e nella nazione da lui celebrata concorrere colla virtù la fortuna. Ed ecco l’uno degl’interessi che campeggiano nell’Iliade senza interruzione per tutto il corpo del poema: interesse il quale consiste nell’ammirazione ispirata dalla straordinaria e superiore virtù; al quale interesse e alla qual maraviglia, cioè al pieno effetto di tal virtù descritta e figurata nel poema, richiedevasi necessariamente la felicità e il buon successo, che in tutti i tempi, ma negli antichissimi principalmente, sono considerati come il compimento della virtù, anzi pure come indispensabile perfezione di lei, o come solo indizio che possa dimostrarla veramente perfetta e somma.

Altra proprietà dell’uomo si è che laddove la superiorità, laddove la virtù congiunta colla fortuna non produce se non un interesse debole, cioè l’ammirazione; per lo contrario la sventura in qualunque caso, ma molto più la sventura congiunta colla virtù, produce un interesse vivissimo, durevole e dolcissimo. Perocchè l’uomo si compiace nel sentimento della compassione, perchè nulla sacrificando, ottiene con essa quel sentimento che in ogni cosa e in ogni occasione gli è gratissimo, cioè una quasi coscienza di proprio eroismo e nobiltà d’animo. La sventura è naturalmente cagione di dispregio e anche d’odio verso lo sventurato, perchè l’uomo per natura odia, come il dolore, così le idee dolorose. Mirando dunque, malgrado la sciagura, alla virtù dello sciagurato, e non abbominandolo nè disdegnandolo quantunque tale, e finalmente giungendo a compassionarlo, cioè a voler coll’animo entrare a parte de’ suoi mali, pare all’uomo di fare uno sforzo sopra se stesso, di vincere la propria natura, di ottenere una prova della propria magnanimità, di avere un argomento con cui possa persuadere a se medesimo di esser dotato di un animo superiore all’ordinario; tanto più ch’essendo proprio dell’uomo l’egoismo, e il compassionevole interessandosi per altrui, stima con questo interesse che niun sacrifizio gli costa, mostrarsi a se stesso straordinariamente magnanimo, singolare, eroico, più che uomo, poichè può non essere egoista, e impegnarsi seco medesimo per altri che per se stesso. Veggansi le pagg. 3291-97. e 3480-2. L’uomo nel compatire s’insuperbisce e si compiace di se medesimo: quindi è ch’egli goda nel compatire, e ch’ei si compiaccia della compassione. L’atto della compassione è un atto d’orgoglio che l’uomo fa tra se stesso. Così anche la compassione che sembra l’affetto il più lontano, anzi il più contrario, all’amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte ridurre o riferire a questo amore, non deriva in sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor proprio, ed atto di egoismo. Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere col persuadersi di morire, o d’interrompere le sue funzioni, applicando l’interesse dell’individuo ad altrui. Sicchè l’egoismo si compiace perchè crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo. V. p. 3167.

Tornando al proposito, il primo dei detti interessi, cioè quello della maraviglia era rilevato in Omero dalla circostanza che l’ammirazione cadeva sopra la superiorità, la virtù e la felicità di un eroe e di un esercito nazionale, sopra un’impresa fatta dalla propria nazione e fatta contro i di lei naturali nemici. Questa circostanza rendeva non solamente possibile ma naturalissima la vivacità e la durata di tale interesse ne’ lettori o uditori greci (per li quali scriveva Omero) in tutto il corso del poema. Tolta questa circostanza, il detto interesse non può esser nè molto vivo nè molto durevole. Il lettore non s’interessa gran fatto per coloro per cui vede continuamente interessarsi lo stesso poeta. L’interesse del lettore (nel senso in cui presentemente ci conviene intenderlo) è quasi una cura ch’egli si prende di quelle persone su cui l’interesse cade. Or dunque il lettore trova inutile il darsi gran pensiero di quelli a’ quali vede aversi bastante cura da altri. Il poeta e la fortuna da lui narrata fanno quello che avrebbe a fare il lettore interessandosi; essi medesimi provveggono al fortunato: il lettore non ha dunque niuna cagione di farlo egli, ei non desidera quello che gli è spontaneamente dato, quello ch’egli ottiene già senza darsene briga e sollecitudine. Per queste cagioni accade che poco e poco durevolmente c’interessi il fortunato, massime ne’ poemi epici e ne’ drammatici. Ed effettivamente oggidì i lettori della stessa Iliade, non essendo greci, o non s’interessano mai vivamente per li greci, i quali sanno già dovere uscir vittoriosi, o presto lasciano d’interessarsene[a]

Veggasi la p. 3452 fine-58.

[Chiudi]. Ma non bisogna dall’effetto che l’Iliade fa in noi, misurar quello ch’ei faceva nei greci, ai quali essa era destinata, nè per conseguenza l’arte del poeta che la compose, nè il pregio e valore del poema.

L’altro interesse, cioè quello della compassione, non poteva Omero introdurlo nel suo poema in modo ch’ei si riferisse ad Achille o ai greci; non poteva, dico, per le suddette ragioni. Solamente poteva fare che la compassione si riferisse pur talvolta ai greci o a qualcuno di loro, come a soggetti secondarii e accidentalmente (qual è p. e. Patroclo), non come a soggetto primario della compassione, al qual soggetto tendessero tutte le fila del poema. Questo soggetto ei lo prese nella parte contraria alla greca, in quella parte alla quale doveva appartener la sventura, se alla greca doveva appartener la felicità. Egli scelse o finse tra’ nemici un Eroe per così dir, di sventura, il quale fosse opposto all’Eroe della fortuna, e l’interesse del quale dovesse perpetuamente bilanciare e contrastare e accompagnare l’interesse dell’altro nell’animo de’ lettori. Questo Eroe sfortunato ei lo fece inferiore di forze ad Achille, ed anche ad Aiace e a Diomede, perchè la superiorità delle forze doveva esser l’attributo e la lode principale della parte greca (lode ch’era ai tempi eroici la più grande); ma oltre che di forze eziandio lo fe’ superiore a tutti gli altri greci e troiani, di coraggio e magnanimità lo fece pari allo stesso Achille, e nel rimanente ornandolo di qualità diverse da quelle di costui, lo venne però a far tale che tanto pesasse egli quanto questi. Somma pietà verso gli Dei, verso la patria, verso i parenti, somma affabilità, giovanezza, e viril bellezza sopra ogni altra (giacchè quella di Paride non era virile) della sua parte. Di più accortezza e destrezza nel maneggio della guerra e nel governo delle battaglie, vigilanza, provvidenza, cura degli amici, pazienza delle fatiche, arte di parlare ne’ consigli pubblici o a’ soldati, disprezzo d’ogni pericolo, l’onore stimato sopra ogni cosa, come quando ei ricusa di entrare nella città vedendosi venir sopra Achille, e dopo l’onore, la patria; costanza ec. ec. In somma com’egli aveva fatto in Achille un uomo sommamente ammirabile, così fece e volle fare in Ettore un eroe sommamente amabile. E come la vittoria riportata da Achille sopra l’invincibile Ettore, porta al colmo l’ammirazione per colui, così la sventura di Ettore mette il colmo alla sua amabilità e volge l’amore in compassione, la quale cadendo sopra un oggetto amabile è il colmo per così dire del sentimento amoroso. Molte sventure e di greci e di troiani si narrano o fingono nella Iliade, ma quella di Ettore è lo scopo del poema, ad essa tendono tutte le fila del medesimo niente meno e del paro che alla vittoria di Achille, e sempre unitamente: in essa il poema si chiude. Alle quali cose mirando il nostro Cesarotti, e giudicando che Ettore fosse il principal soggetto dell’interesse nella Iliade, e la sua sventura per se medesima il principale scopo ed assunto del poema, prosuntuosamente ne volle cangiare il titolo e intitolarlo la morte d’Ettore, stimando che Omero non avesse bene inteso se stesso e la sua propria intenzione quando ne’ primi versi della Iliade annunziò espressamente un altro assunto. Nel che s’ingannò grandemente, per non aver mirato alla natura umana, alle qualità di que’ tempi, alle circostanze di Omero (giacchè se oggi nell’Iliade l’unico, non che principale, interesse è per Ettore, non così fu anticamente, nè tale fu l’intenzione di Omero scrivendo ai greci), e per avere avuto l’occhio alle moderne opinioni circa l’unità dell’interesse e del soggetto principale. Ma come nell’intenzione di Omero l’unico interesse non dovette esser quello di Achille, nè l’unico soggetto e scopo la sua vittoria per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto incontro un tal Eroe qual fa Ettore; così neanche l’interesse d’Ettore dovette esser l’unico, nè la sua sventura per se medesima l’unico soggetto e scopo del poema.

Doppio dovette essere secondo l’intenzione di Omero, e doppio infatti riuscì a’ lettori o uditori greci l’interesse, lo scopo, e l’Eroe del poema. E qui si deve considerare il maraviglioso artifizio di Omero. Non solevasi a’ tempi eroici, cioè quasi selvaggi, stimar gran fatto il nemico. L’odio che gli portava la parte contraria, quell’odio il quale faceva che ciascun soldato considerasse l’esercito o la nazione opposta come nemici suoi personali, e con questo sentimento combattesse, non lasciava luogo alla stima. E quando anche s’avesse cagione di stimare il nemico, ciascuno, come si fa de’ nemici personali, cercava a tutto potere di deprimerlo sì nella propria immaginazione che presso gli altri, e ricusava di riconoscere in lui alcuna virtù. Non prevaleva nè si conosceva allora quella sentenza che la gloria di chi fortemente combatte e di chi vince è tanto maggiore quanto più forte e stimabile è il nemico e il vinto. Ma sebbene allora ciascuno amasse e cercasse la gloria sopra ogni altra cosa ed assai più che al presente, niuno si curava di accrescerla a costo del proprio odio verso il nimico, niuno sosteneva di aggrandire a’ propri occhi o agli altrui il pregio della propria vittoria col considerare e render giustizia al valore della resistenza; ognuno preferiva di tenere anzi l’inimico per vile e codardo e tale rappresentarlo agli altri, perchè l’odio e la vendetta più si soddisfa e gode disprezzando il nimico e privandolo d’ogni qualsivoglia stima, che sforzandolo e vincendolo, e quasi piuttosto eleggerebbe di soccombergli che di lodarlo. Una tal disposizione offriva poche risorse, poca varietà, poco campo di passioni al poema epico. Omero ebbe l’arte di fare che i greci si contentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e fece loro provare il piacere, a quei tempi ignoto o rarissimo, di vantarsi e compiacersi di una vittoria riportata sopra un nemico nobile e valoroso. Questo piacere fu veramente Omero che lo concepì, Omero che lo produsse; ei non era proprio de’ tempi, non nasceva dalla maniera di pensare e dalle disposizioni di quegli uomini, ma nacque dalla poesia d’Omero; Omero per dir così ne fu l’inventore. Questo gli diede campo di moltiplicare e intrecciar gl’interessi, di variar le passioni e gli effetti cagionati dal suo poema nell’animo de’ lettori.

Come la stima, così la compassione verso il nimico, ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove ho detto in proposito d’un’azione d’Enea appo Virgilio, dopo morto Pallante). Gli animi naturali non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto, dall’egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali erano i più a’ tempi eroici). Questo piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell’individuo che compatisce. Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città, rara, e poco intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di Omero era certamente vivissimo e mobilissimo, e il sentimento delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione, lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch’egli, oltre alla dolcezza, induce nell’animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l’innalza e l’aggrandisce a’ suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia. Veggasi la p. 3167-8. e 3291-7. Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l’uno de’ principali fini del medesimo, l’uno de’ principali piaceri prodotti dalla sua poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della maraviglia, affetto appartenente all’immaginazione e non al cuore, che fino a quel tempo era forse stato l’unico o il principal effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall’una e dall’altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d’immaginare e da quella di sentire. Questo suo intento è manifestissimo nel suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più colti, più eziandio che ne’ tragici appo i quali il terrore e la maraviglia prevalgono ordinariamente alla pietà, e spesso son soli, sempre tengono il primo luogo. Vedesi apertamente che Omero si compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l’occasione gliene offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e cercatamente (come l’abboccamento d’Ettore e Andromaca a introdurre il quale, e non ad altro, è destinata e ordinata quella improvvisa venuta d’Ettore in Troia, nel maggior fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno intempestivo e imprudente), e che nell’une e nell’altre ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le circostanze che possono eccitare e accrescere la compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza del cuore umano. E il soggetto di tutte queste scene dove l’animo de’ lettori è sommamente interessato non sono altri che quegli stessi che Omero ha tolto a deprimere, i nemici de’ greci ch’egli ha preso ad esaltare. Nè pertanto egli s’astiene dal volere a ogni modo far piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch’essi avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.

Grande, caro, artifiziosissimo e poetichissimo effetto dell’Iliade, che Omero ottenne col duplicare espressamente e l’interesse e lo scopo e l’Eroe, che non si poteva ottenere altrimenti, che fu tutto invenzione ed opera di Omero, voglio dir l’unione e l’armonia di questi due interessi e fini contrarii, e il pensiero d’introdurli ambedue nel suo poema, e sostenerli congiuntamente fino all’ultimo, facendoli camminar sempre del pari. Con che oltre all’avere raddoppiato l’effetto del suo poema, interessando per l’una parte l’immaginazione, per l’altra il cuore; oltre all’aver potuto congiungere l’interesse che deriva dalla virtù felice con quello che deriva dalla virtù sventurata (il che non si poteva fare se non dividendo i soggetti dell’una e dell’altra, perocchè accumulando l’una e l’altra in un soggetto solo e facendo che di sventurato divenisse felice, o di felice terminasse nella sventura, l’uno e l’altro interesse sarebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distruttivo l’uno dell’altro, per modo che finita la lettura, l’un solo di essi sarebbe rimasto, come accade p. e. nelle così dette, assurde tragedie, di lieto fine)[a]

V. la p. 3448. segg. e in particolare 3450-1.

[Chiudi]; oltre, dico, all’aver potuto mettere in moto nel suo poema ambedue quegl’interessi che fortissimamente operano nell’uomo, e grandissimo piacere gli recano, e sono poetichissimi, cioè la maraviglia della virtù superante ogni ostacolo ed ottenente il suo fine, interesse che in quei tempi principalmente era di gran forza, e la compassione della somma virtù caduta in somma e non medicabile nè consolabile calamità; oltre tutto questo Omero ottenne di potere introdurre nel suo poema, un perpetuo contrasto di passioni contrarie continuamente operanti ne’ lettori, continuamente equilibrantisi l’una l’altra, continuamente sottentranti e implicantisi e mescolantisi l’una nell’altra. Contrasto nato dalla duplicazione dell’interesse dello scopo e della persona principale, la qual duplicazione in virtù di questo perpetuo e perpetuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia ma moltiplica più volte l’effetto e l’energia dell’Iliade nell’animo de’ lettori, e la vivacità delle sensazioni, e il commovimento e l’agitazione dello spirito, propria operazione della poesia.

Tali si furono le intenzioni di Omero, tale il mezzo e l’arte da lui adoperati per conseguirle, tale la vera natura, il vero carattere, il vero andamento del suo poema, la vera forma ch’egli ha e che l’autore volle dargli. Vediamo ora gli altri poeti epici e i loro poemi, e le regole dell’epopea che dopo Omero furono concepute e insegnate e poste e seguite.

Videro tutti la necessità di far che l’Eroe e la impresa principale che si prendesse a lodare e a narrare nell’epopea riuscissero felicemente. Ciò fu dato per regola, e questa regola fu seguita da tutti. Massimamente che dietro l’esempio dell’Iliade (benchè l’Odissea somministrasse pure un esempio diverso) non fu stimato proprio soggetto di poema epico altro che imprese guerriere, nè d’altro genere d’Eroe fu creduto che l’epopea dovesse rappresentare il modello, se non che del gran Capitano. Onde parve tanto più necessaria la felicità nell’Eroe del poema e nell’impresa che ne fosse il soggetto, non giudicandosi degno d’epopea un Capitano vinto da’ nemici nè una guerra perduta.

Sin qui andava bene: ma v’era il grandissimo inconveniente che l’interesse che i lettori possono prendere per li fortunati, ancorchè virtuosi, è scarso, debole e breve, e non si può reggere pel corso d’un lungo poema, nè tutto, per così dire, animarlo e vivificarlo, nè anche sufficientemente animarne una sola parte. Mancando il contrasto fra la virtù e la fortuna, oltre che ne scapita la verità dell’imitazione, essendo pur troppo il vero che questo contrasto sussiste nel mondo ed è perpetuo, onde un virtuoso fortunato è soggetto quasi romanzesco, e toglie quasi fede al poema, e impedisce l’illusione[a]

Veggasi la p. 3451-2.

[Chiudi], (massime a’ moderni tempi, perchè a quelli d’Omero era altra cosa); ne seguiva anche il pessimo effetto della freddezza, perchè il lettore non ha che interessarsi per la virtù, vedendola felice, ed ottener già quello che le conviene.

Quindi è che ne’ poemi epici posteriori ad Omero, l’Eroe e l’impresa felice nulla avrebbero interessato i lettori, se desso eroe, dessa impresa, dessa felicità non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori medesimi, come Achille ec. ai greci. In verità un poema epico di lieto fine richiede necessariamente la qualità di poema nazionale; e per ciò che spetta e mira a esso fine, un poema epico non nazionale non può interessar niuno; nazionale, non può mai produrre un interesse universale nè perpetuo, ma solo nella nazione e per certe circostanze. L’Eneide fu dunque poema nazionale, e lasciando star tutti gli episodi e tutte le parti e allusioni che spettano alla storia ed alla gloria de’ Romani, l’Eneide anche pel suo proprio soggetto potè produr ne’ Romani il primo di quegl’interessi che abbiamo distinto in Omero, perocchè i Romani si credevano troiani di origine, sicchè la vittoria d’Enea consideravasi o poteva considerarsi da essi come un successo e una gloria avita, e ad essi appartenente, e da essi ereditata. Il soggetto della Lusiade fu nazionale, e di più moderno. Egli non poteva esser più felice quanto al produrre quel primo interesse di cui ragioniamo. Il soggetto dell’Enriade è affatto nazionale e la memoria di quell’Eroe era particolarmente cara ai francesi, onde la scelta dell’argomento in genere fu molto giudiziosa, massime ch’e’ non era nè troppo antico nè troppo moderno, anzi quasi forse a quella stessa o poco diversa distanza a cui fu la guerra troiana da’ tempi d’Omero. Il soggetto e l’eroe della Gerusalemme furono anche più che nazionali, e quindi anche più degni; e furono attissimi ad interessare. Dico più che nazionali, perchè non appartennero a una nazione sola, ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da una medesima professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il soggetto del Goffredo. Dico tanto più degni, perchè essendo d’interesse più generale, rendevano il poema più che nazionale, senza però renderlo d’interesse universale, il che, trattandosi di quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di niuno interesse. Dico attissimi a interessare perchè quantunque fosse spento in quel secolo il fervore delle Crociate, durava però ancora generalmente ne’ Cristiani uno spirito di sensibile odio contro i Turchi, quasi contro nemici della propria lor professione, perchè in quel tempo i Cristiani, ancorchè corrottissimi ne’ costumi e divisi tra loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana come cosa propria, e i nemici di lei come propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor di Dio, ma con odio umano, con passione per così dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di Cristo era cosa di che allora tutti s’interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benchè questa e quella fossero più nel desiderio che nella speranza, o certo più desiderate che probabili: aggiunta però di più la differenza de’ tempi, perocchè nel cinquecento le inclinazioni e le opinioni e i desiderii pubblici erano molto più manifesti, decisi, vivi, forti e costanti ch’e’ non possono essere in questo secolo. Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O aspettata), così nel 500 tutti gli uomini dotti esercitavano il loro ingegno nell’esortare o con orazioni o con lettere o con poesie pubblicate per le stampe, le nazioni e i principi d’Europa a deporre le differenze scambievoli e collegarsi insieme per liberar da’ cani[a]

Petr. Tr. della Fama cap. 2. terzina 48.

[Chiudi] il Sepolcro, e distruggere il nemico de’ Cristiani, e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto generale così delle persone colte ancorchè non dotte, come ancora, se non de’ gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta libertà della voce e della stampa, massimamente in Italia, non eran pochi[b]; e di questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni digressioni ec. e di quel progetto o sogno che vogliam dire si riscaldava l’immaginazione de’ poeti e de’ prosatori, e se ne traeva l’ispirazione dello scrivere. Niente meno che fosse nell’ultimo secolo della libertà della Grecia fino ad Alessandro, il desiderio, il voto, il progetto di tutti i savi greci la concordia di quelle repubbliche, l’alleanza loro e la guerra contro il gran re, e contro il barbaro impero persiano perpetuo nemico del nome greco. E come Isocrate per conseguir questo fine s’indirizzava colle sue studiatissime ed epidittiche, scritte e non recitate orazioni ora agli Ateniesi (nel Panegirico, e v. l’Oraz. a Filippo, ediz. sopra cit. p. 260-1.) ora a Filippo, secondo ch’ei giudicava questo o quelli più capaci di volerlo ascoltare, e più atti a concordare e pacificar la Grecia e capitanarla contro i Barbari, così nel 500. lo Speroni s’indirizzava pel detto effetto con una lavoratissima orazione stampata e non recitata nè da recitarsi, a Filippo II di Spagna, ed altri ad altri, secondo i tempi e le occasioni. Ma tutto indarno, non come accadde ai greci, il cui voto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra l’altre cose, come è fama (v. Eliano Var. l. 13. e ὑπόθες. τοῦ πρὸς Φίλιπ. λόγου ), dall’orazione appunto che Isocrate n’avea scritto a Filippo suo padre, l’uno e l’altro già morti.

Or considerate queste circostanze si trova veramente savissima, opportunissima, nobilissima la scelta fatta dal Tasso, e degna di quel grand’animo, che seppe concepire nientemeno che un poema europeo (qual fu il Goffredo non meno per l’argomento che per gli altri pregi), dove la generalità dell’interesse non pregiudicasse (ch’è pur sì difficile e raro) alla vivacità e forza del medesimo[a]

Nótisi che il Tasso proccurò eziandio di render nazionale l’argomento della Gerusalemme col dare tra’ Cristiani le maggiori parti del valore a due italiani; Tancredi di Campagna nel Napoletano il qual era patria del Tasso, e Rinaldo d’Este progenitore del Duca a cui il Tasso indirizzava il poema. E Rinaldo si è propriamente, non pure il secondo, ma l’altro Eroe della Gerusalemme con Goffredo, come ho detto a suo luogo, e, secondo l’intenzion del Tasso, a parti uguali, ma in effetto e’ riesce maggior di Goffr.

[Chiudi]. E in vero se dalla estensione dell’interesse si deve misurare, almeno in qualche parte, il pregio d’un poema, anzi d’ogni scrittura, niun poema epico in questa parte nè vinse nè agguagliò la Gerusalemme; siccome ancora, secondo le opinioni di que’ tempi, ne’ quali ci dobbiamo riporre coll’intelletto, niun poeta epico si propose mai scopo più nobile nè più degno nè più magnanimo che il Tasso, il quale intese col suo poema di contribuir più che tutti gli altri scrittori insieme, ad eccitare i principi Cristiani a quella sacra e generosa guerra ec. coll’esempio e la lode di quelli che l’avevano intrapresa e valorosamente operata e felicemente terminata. (Puoi vedere per meglio conoscere le opinioni e i sentimenti dell’Europa cristiana verso l’impero turco nel 500, la B. G. del Fabricio, t. 13., p. 500-6.[a])

Molto ragionevolmente adunque i sopraddetti poeti (per non parlare degli altri, come di Voltaire e di Ercilla autore dell’Araucana, e del Trissino ec.) scelsero ai loro poemi argomento nazionale, senza la qual circostanza (largamente però intendendo la parola nazionale, come p. e. circa la Gerusalemme) è assolutamente impossibile dare alcuno interesse a un poema epico che abbia e serbi la unità, com’ella oggi s’intende. Ed è perciò ben poco lodevole l’assunto di quel moderno che volle dare all’Italia una nuova Gerusalemme. (Arici, Gerusal. distrutta).

Ma l’interesse che nasce dalla virtù felice è, come ho detto, sempre debole anche in un soggetto nazionale, e soffre moltissimi inconvenienti, massime in tempi così diversi da quelli di Omero, come sono i moderni, e come furono quei di Virgilio che in molte parti si rassomigliano ai presenti.

1. Tutte quelle speciali circostanze che ne’ tempi antichissimi rendevano singolarmente pregevole la felicità, e cagione di stima per se medesima, perirono ben tosto, ed altre contrarie ne sottentrarono che produssero e producono contrario effetto, e sempre lo produrranno, perchè queste seconde circostanze non sono per passar mai.

2. È così falso[b]

Veggasi la p. 3451-2.

[Chiudi], o per lo meno straordinario, che la virtù sia compagna della fortuna, che un virtuoso fortunato, un meritevole che ottiene il suo merito (e tanto più s’egli è straordinariamente meritevole, se la sua virtù è veramente singolare, il che oggi sommamente nuoce) eccede quasi quel grado di singolarità e rarità che è compatibile colla credibilità, colla illusione, coll’immedesimarsi che dee fare il lettore ne’ casi e ne’ personaggi narrati dal poeta, con quella cotal somiglianza che il lettore dee pur trovare tra quei casi e i presenti, tra quelle persone e se stesso; deve, dico, trovarla per qualche parte, a voler ch’ei ci provi interesse. Di questo inconveniente ho già detto di sopra[a]. Esso ancora non è mai per passare, anzi cresce e crescerà, si conferma e confermerassi ogni dì maggiormente.

3. E ciò tanto più, quanto l’idea che noi abbiamo della virtù è ben diversa da quella che s’aveva a’ tempi d’Omero. La virtù qual suol essere concepita dai moderni ha la fortuna assai più nemica, che non quella virtù concepita dagli antichissimi, la quale consisteva quasi tutta o principalmente nella forza e nel coraggio; qualità che, se non sempre, certo assai spesso son seguite (anche oggidì) dalla fortuna, e molto giovano a conseguirla. Ond’era tanto più ragionevole e conveniente che a quei tempi l’eroe del poema epico, il quale dev’esser sommamente virtuoso, si scegliesse felice, perchè quella virtù in ch’ei si doveva rappresentare eccellente, conduce infatti alla felicità, e il mostrar ch’ella non avesse conseguito il proprio intento, l’avrebbe mostrata imperfetta, come quella che non era bastata a produrre quel ch’ella suole, e a che ella naturalmente serve e conduce. Massime che gli uomini sogliono giudicar dai successi, ed estimare assolutamente la natura, le qualità, il grado, il valore e la propria bontà delle cose dai loro effetti. Ma la virtù modernamente considerata, è per sua stessa natura, non solo non conducente, ma pregiudizievole alla fortuna. Questo discorso ha massimamente luogo ne’ tempi più moderni, in che l’idee morali, e per cagione del Cristianesimo e per altro, sono più raffinate, e sempre più tanto si raffinano quanto più divengono inutili, e tanto si perfezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno segregando affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente le dette considerazioni sono anche applicabilissime ai tempi di Virgilio; e in fatti la virtù di Enea è immensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di perfetto eroe concepito e voluto esprimere da Virgilio fu diversissimo, e in buona parte contrario, a quello di Omero.

4. Oggi l’amor patrio e nazionale è quasi nullo. Anche ne’ romani al tempo di Virgilio esso era abbastanza raffreddato perchè quasi niun di loro considerasse più la sua patria come cosa individualmente sua propria. Il che appunto facevano i più antichi, e come questo cagionava l’entusiasmo che ciascun d’essi manifestava nell’operare per la patria, così produceva il grande interesse che ciascuno pigliava alle glorie d’essa patria cantate dai poeti. Questo spirito non si trovava più ne’ Romani, e però non potè essere se non mediocre in esso loro l’interesse verso le vittorie e le lodi di remotissimi loro antenati, che oltracciò portarono un nome diverso dal loro. (troiani). Omero cantò ai greci liberi, e Virgilio ai Romani, dopo lunghissima e ferocissima libertà fatti sudditi, e di più pacificamente tiranneggiati, perchè quello fu quasi il più pacifico tempo dell’imperio romano, e in ch’essi meno pensarono a libertà e meno si dolsero del giogo. Delle nazioni moderne poi, nulla dirò. Parlino i fatti; e se ne deduca quanto vivo e durabile interesse possa cagionare in un’epopea la nazionalità dell’impresa e dell’Eroe. Quando non esiste quasi nazionalità nelle nazioni. Ciò vale sopra tutto per l’Italia.

5. Finalmente l’interesse che può produrre in un poema epico un Eroe ed un’impresa nazionale felice, nè può, come è chiaro, riuscire universale, nè anche può essere perpetuo, come più sotto si mostrerà cogli esempi. Unico interesse che possa in un’epopea riuscire universale e per luogo e per tempo, cioè comune a tutte le nazioni e a tutti i secoli, si è quello che nasce dalla sventura, e più dalla virtù sventurata, dalla beltà, dalla giovanezza e anche dal valor militare personale sventurato. E questo altresì può solo esser vivissimo, e durare in chi legge per tutto il corso della lettura, e perseverare nel suo animo lungo tempo di poi, come pungolo lasciato nella piaga.

Ma l’unico modo che v’aveva d’introdurre questo interesse nel poema epico, quello, dico, usato da Omero nell’Iliade, cioè di duplicare onninamente l’Eroe, l’interesse e lo scopo poetico di tutta l’epopea, non solamente dagli Epici posteriori ad Omero non fu voluto abbracciare, ma fu sopra tutte l’altre cose fuggito, come quello che dirittamente avrebbe esclusa quella unità d’interesse, di scopo e d’Eroe, che quei poeti e i Dottori de’ loro tempi e de’ nostri, davano per primaria e supremamente indispensabile qualità del poema epico: la unità, dico, non quale è quella della Iliade, dalla quale pur furono tratte le regole, le norme e il tipo dell’epopea, ma quale i posteriori ingegni metafisicamente sottilizzando, e troppo artisticamente e strettamente considerando, la concepirono, determinarono e prescrissero. Ond’è che quantunque in ciascuno de’ nominati poemi epici v’abbiano molte sventure cantate, ed avendovi una parte vittoriosa e felice, v’abbia altresì necessariamente una parte soccombente e sfortunata, si guardarono però bene tutti i detti poeti di farci piangere sopra questa sventura, come aveva fatto Omero; e di condurre il poema in modo che all’ultimo la vittoria della parte avventurosa, benchè sempre desiderata e allora applaudita dal lettore, fosse nel tempo medesimo cordialmente da lui pianta e lagrimata, destandosi così nel suo animo sì pel corso del poema, sì massimamente nel fine, e durando in esso dopo la lettura quel vivo contrasto di passioni e di sentimenti, quella mescolanza di dolore e di gioia e d’altri similmente contrarii affetti che dà sommo risalto agli uni e agli altri, e ne moltiplica le forze, e cagiona nell’animo de’ lettori una tempesta, un impeto, un quasi gorgogliamento di passioni che lascia durevoli vestigi di se, e in cui principalmente consiste il diletto che si riceve dalla poesia, la quale ci dee sommamente muovere e agitare e non già lasciar l’animo nostro in riposo e in calma. Questi mirabili effetti li produsse divinamente la Iliade, costringendo gli uditori greci a piangere sulla morte e sui funerali di Ettore ucciso dalle armi de’ loro maggiori, in guerra, per loro, giusta, e con giusta causa (cioè la vendetta di Patroclo), e a mescolare i loro lamenti con quelli di Andromaca e della desolata città nemica, già vicina all’ultima calamità, che, per così dire, le loro proprie armi o i loro proprii eserciti gli avevano infatti recata. Sublimissimo effetto concepito, disegnato e prodotto da Omero in tempi feroci e semibarbari, e non saputo concepire nè produrre da verun altro epico in tempi civili. Perocchè temendo di raddoppiar l’interesse, (ch’era appunto ciò che avevano a fare, e senza il che non era possibile quel divino effetto), evitarono espressamente e studiosamente di fare in modo che la parte nemica o alcun personaggio di essa riuscisse più che tanto virtuoso o per qualunque lato interessante sino al fine. E maggiormente si guardarono di sempre ugualmente condurre e in ultimo annodare le fila della loro epopea tanto all’esito dell’Eroe vittorioso quanto a quello di un altro Eroe a lui per molti lati pari e seco lui compensabile e comparabile ma soccombente. Come fece Omero, perchè nell’Iliade Ettore è, e fu voluto rappresentare, espressamente comparabile ad Achille.

Turno non occupa se non pochissima parte dell’Eneide, e riesce così poco interessante che certo la sua sventura e morte non ha mai tratto ad alcuno un sospiro. Gli Eroi de’ Barbari nella Gerusalemme sono appostatamente più d’uno e di ugualissimo pregio[a]

Argante, Clorinda, Solimano. Questi ed Argante sono anche espressam. emuli, ma tutti tre pari di valore. Altri eroi degl’infedeli non v’ha nella Gerus. V. p. 3525.

[Chiudi], sicchè l’interesse non si determina per alcuno di loro, nè della loro morte o calamità niuno si compiange, nè a veruna di queste morti o calamità tendono le fila del poema. Di più il Tasso, stante lo spirito del suo tempo, e stante che in quel caso pareva che la Religione interdicesse, come suole, e confondesse colla empietà l’imparzialità, non potè a meno di rappresentare con tratti odiosi (in alcuno più in altri manco, ma generalmente, e massime in Solimano ed Argante, odiosi), i nemici de’ Cristiani. Quindi nella presa di Gerusalemme niuno sente per niun modo la sventura e il disastro di quella città infedele, nè la presa è descritta o narrata con intenzione di muovere a compatimento, nè in maniera da poterne mai cagionare nè meno a caso. Altrettanto dicasi delle sconfitte degli eserciti maomettani o pagani. E similmente si discorra dell’altre moderne epopee.

Non è già che Virgilio e gli altri volessero e intendessero spogliare affatto d’ogni valore, d’ogni virtù, d’ogni pregio la parte contraria alla vincitrice. Anzi intendendosi a’ tempi loro meglio che a’ tempi d’Omero, che tanto più si loda colui che vince non per caso ma per virtù, quanto s’amplifica quella del vinto, non lasciarono di volere espressamente rappresentare virtuosi in molte parti e degni di stima e lodevoli anche i nemici, sì tutti insieme, come parecchi distinti personaggi del loro numero. Ma ciò facendo, intentissimamente evitarono che l’interesse pe’ nemici o per alcuno de’ medesimi non giungesse di gran lunga a pareggiare quello che volevano ispirare ai lettori verso la parte e l’Eroe vittoriosi. Nel che riuscirono ottimamente, anzi al di là della loro intenzione, perchè laddove essi vollero pur comunicare alcun poco d’interesse a questo o quel personaggio nemico o alla parte inimica, niuno gliene comunicarono.

Queste sono le forme di poema epico, e queste le regole e il processo seguiti e adoperati dall’una parte da Omero, dall’altra parte dai poeti epici che, per dir così, da lui nacquero. Comparate così le forme, l’idea, e se così vogliamo dire, le cagioni, e le intenzioni de’ poeti, consideriamo ora generalmente e paragoniamo i rispettivi effetti.

Nell’Iliade oggidì l’interesse per Achille e per li greci, come ho detto, è poco o niuno, perchè i suoi lettori non sono più greci. Nondimeno l’interesse nell’Iliade è vivissimo continuo e durevole eziandio dopo la lettura. Esso è per Ettore e per li troiani. I lettori di qualsivoglia nazione, dopo tanti secoli, dopo tanti cangiamenti sofferti dallo spirito umano, tutti efficacemente e continuamente s’interessano leggendo la Iliade. E tutti non per altri che per li troiani e per Ettore, cioè per la sventura; e questo interesse si riduce principalmente e come a suo capo alla compassione. Questa cioè è quel sentimento dominante e finale, che noi nella Iliade provando, chiamiamo interesse della medesima. Le quali cose mossero il Cesarotti a intitolar quel poema, come ho detto, La Morte d’Ettore, misurando l’indole e l’intento primitivo, proprio e vero del poema dall’effetto ch’ei produce sopra di noi in tanta diversità e lontananza di tempo, di nazione, di opinioni, di carattere e di costumi. Nell’Eneide l’interesse della compassione non v’è. Dico non v’è, come interesse finale. Quello che si concepisce per Didone, quello per Niso ed Eurialo sono interessi episodici che non ci accompagnano se non per piccola parte del poema, nè hanno che fare colla sostanza e collo scopo di esso, talmente che possono affatto risecarsi senza che la testura nè il principale e finale effetto del poema per nulla se ne risentano o ne siano cangiati. L’interesse per l’Eroe felice, cioè per Enea, e per la parte felice, cioè per li troiani, dovette esser mediocre anche a principio, come di sopra ho mostrato, ed ora è più che mediocre. E ciò, non ostante che il lettore di Virgilio non possa quasi a meno di trasferire o di continuare ne’ fortunati troiani dell’Eneide quell’interesse ch’egli ha conceputo per gli sfortunati e vinti troiani della Iliade. Perocchè egli è certissimo che l’Iliade oltre all’aver partorito l’Eneide, oltre all’averla nutrita e cresciuta, per dir così, del suo proprio latte, (voglio dire averle somministrato l’argomento e i materiali in gran parte, o datogliene l’occasione, e d’altronde averle porto i mezzi e i modi di trattarla, e gli ornamenti ec. cioè il modello, e le immagini, e le forme delle invenzioni, dell’ordine, dello stile poetico ec.) la sostiene e l’aiuta anche oggidì, comunicandole parte del suo proprio interesse, riscaldandola del suo fuoco, e riverberandosi sulla Eneide e in essa influendo e derivandosi e quasi irrigandola gli affetti che la lettura o la notizia della Iliade inspirò. Laonde se la Eneide, quanto al suo principal soggetto ispira alcuno interesse, egli è pur da notare che grande e forse la massima parte di esso, non a lei propriamente appartiene, ma le vien di fuori, e l’è totalmente accidentale ed estrinseco, non interiore ed essenziale, nè in essa nasce ma altrove ed anteriormente nacque. Il che non si deve confondere col proprio e nativo interesse dell’Eneide[a]

Di questi interessi accidentali vedi la pag. 2645-8.

[Chiudi].

La Lusiade avrà certo interessato ed interesserà forse anche oggidì i lettori portoghesi, nè si può bastantemente lodare lo sfortunato Camoens per l’avere scelto un soggetto così strettamente nazionale, e di più per l’aver saputo adattare e far materia di poema epico un argomento allora modernissimo, qualità che per l’una parte produce estreme difficoltà le quali a molti sono sembrate in un poema epico insuperabili, e per l’altra sommamente contribuirebbe a produrre o singolarmente accrescere l’interesse d’un’epopea, come ancora di un dramma e di qualsivoglia poesia. Ma per li lettori dell’altre nazioni non so quanto nella Lusiade possa essere l’interesse, nè se ne’ medesimi portoghesi, mancata la recente memoria di quelle imprese, e raffreddato, come per tutta l’Europa, l’amor nazionale e gli altri sentimenti magnanimi, la Lusiade produca per ancora un interesse abbastanza vivo, continuo e durabile.

Quello spirito dell’Italia e dell’Europa Cristiana verso gl’infedeli (e, diciamolo ancora, verso il Cristianesimo) che disopra ho descritto, che regnò al tempo del Tasso e ne’ precedenti, che in lui ancora grandemente potè, che ispirò e produsse la Gerusalemme, è totalmente sparito e perduto, e le nostre condizioni a questo riguardo sono affatto cangiate in tutta l’Europa. Nullo è dunque oggidì l’interesse della Gerusalemme. Dico che la Gerusalemme non ha più realmente veruno interesse finale e principale, cioè non ispira più quell’interesse ch’ella principalmente e per istituto si propone d’ispirare; perocchè esso non ha più luogo negli animi de’ lettori, affatto cangiati come sono, nè può più nascere in alcuno quell’interesse, essendo mutate e quasi volte in contrario le circostanze. Benchè certo la Gerusalemme al suo tempo ispirò moltissimo interesse, e forse maggiore che l’Eneide al tempo suo, ed oltre di questo universale nelle colte nazioni, dove quello dell’Eneide non potè esser che nazionale. Nè certo la Gerusalemme mancò del suo fine. Ma ora non per tanto non può più produrlo. Interessi però episodici e non finali ve n’hanno molti nella Gerusalemme. V’ha quello di Olindo e Sofronia e nasce dalla sventura. V’ha quello di Erminia, quello di Clorinda, e nascono dalla sventura. V’ha quello del Danese, e nasce dalla sventura, e, quel ch’è notabile, da sventura toccante alla stessa parte che aveva a riuscir vittoriosa e fortunata, cioè a dire alla Cristiana. Colla quale occasione è da considerare la bella e straordinaria facoltà che concedeva al Tasso lo spirito del suo tempo, cioè di congiungere la compassione alla felicità, di far nascere questa da quella, di salvar l’estrema unità che si esigeva ne’ poemi epici pigliando un Eroe felice e facendolo non per tanto compassionevole. Alleanza impossibile anticamente, difficile e di poco buono effetto oggidì. Ma le opinioni Cristiane (che al suo tempo fiorivano) riponendo la felicità propria dell’uomo nell’altra vita, facendola indipendente da quella di questo mondo, considerando le sventure temporali come vantaggi e reali fortune, insegnando massimamente esser felicissimo chi soffre per la giustizia e per la fede e per Dio, e più chi muore per loro amore e cagione, davano luogo al Tasso di rappresentare come felice e come giunto al suo desiderio e scopo un personaggio, il quale, facendolo temporalmente sventurato e nelle sventure magnanimo ec., poteva pur fare sommamente compassionevole e tenero. Nè altrimenti egli si governò circa il Danese, il quale ei non diede già per infelice, ma per felicissimo veramente, essendo morto, e generosamente morto per Dio, e nel tempo stesso il volle fare e il fece oggetto di compassione e di tenerezza per la temporale sventura e per questa morte fortemente incontrata e sostenuta. Ma ei non si volle prevalere di tal facoltà nè di tali opinioni e disposizioni del suo tempo, se non quanto a personaggi secondarii (come questo e Dudone) e in episodii; e l’eroe principale volle farlo felice non solo eternamente ma temporalmente altresì, e la principale impresa volle che bene uscisse non pure secondo il cielo, ma eziandio secondo la terra. Nel che non m’ardisco però di riprendere il suo giudizio, nè so biasimarlo s’ei credette che i dogmi metafisici (e poco conformi, anzi contrarii alla natura e che troppa forza le fanno) non dovessero gran fatto influire sulla poesia, nè potessero molto giovare a produr con essa un buono, bello e splendido effetto. Siccome essi poco veramente influivano, anche al suo tempo, sopra le azioni e le quasi secondarie opinioni degli uomini; nè valsero in alcun tempo a cangiare la natura umana, alla quale dee mirare in ogni tempo il poeta. In verità due sorti di opinioni e di dogmi, l’una dall’altra distinta, e che quasi nulla comunicavano insieme, tenevano all’età del Tasso e ne’ secoli a lei precedenti gl’intelletti degli uomini. L’una Cristiana, l’altra naturale; quella quasi del tutto inefficace e inattiva, la cui forza non si stendeva fuori dell’intelletto e ne’ termini di questo si restringeva la sua esistenza; l’altra efficace attiva che dall’intelletto stendevasi a influire e muovere la volontà, e governare le operazioni e la vita. Perocchè gli uomini sono sempre mossi dalle opinioni, nè altro che le opinioni può cagionare le loro azioni volontarie, nè v’ha opera umana volontaria che dalla opinione, ossia giudizio dell’intelletto, non derivi. Ma l’intelletto umano è capace di contenere al tempo stesso opinioni e dogmi dirittamente fra se contrarii, e di contenerli conoscendone la scambievole, inconciliabile contrarietà, come accadeva ai detti tempi. Ben diversi dalla primissima età del Cristianesimo, quando un solo genere di opinioni regnava negli animi, cioè quelle della religione, ed era efficace, e stendevasi alla volontà ed al reggimento delle azioni interiori ed esteriori, e della vita. Ma questo durò assai meno di quel che può credere chi non conosce la storia ecclesiastica, o chi non ci ha riflettuto, o chi in essa si lascia imporre dai nomi, e dal linguaggio tenuto in narrarla. Durò pochissimo, o, se non altro, divenne in breve assai raro. Del resto egli è duopo distinguere in ciascuna età, nazione, individuo le opinioni efficaci dalle inefficaci che nell’intelletto puramente si restringono. Quelle talor possono servire alla poesia, talora non possono (come le presenti, e vedi la pag. 2944-6.), talor più, talora meno; queste sempre pochissimo o nulla. Parlo delle opinioni che in se hanno relazione alla pratica e al governo della vita, non dell’altre, che son fuori del mio discorso. P. e. quelle opinioni, illusioni ec. antiche o moderne che derivando dalla immaginazione o dall’esperienza ec. persuasero e occuparono, o persuadono ec. l’intelletto, e nondimeno, non avendo nulla che far colla pratica della vita per lor natura, non influiscono sulla volontà, e sono inefficaci, e queste possono però, ed anche grandemente, servire alla poesia.

Da questa digressione, non aliena, cred’io, dal proposito, tornando in via, ci resta a considerare come sia strano e quasi assurdo che Omero in tempi feroci abbia tanto fatto giuocare la compassione nel suo poema, n’abbia fatto un interesse principale e finale, abbia seguito e ottenuto il suo intento in modo che anche oggidì, mancato l’altro interesse all’Iliade, non si può forse tuttavia legger cosa che tanto interessi, non avesse riguardo di far cadere ed esaggerare la compassione quasi unicamente sopra i nemici de’ greci suoi compatriotti, a’ quali scriveva, i quali non istimavano gran fatto la generosità verso il nemico, anzi apprezzavano la qualità opposta; e che i poeti moderni abbiano fatto ed espressamente esclusa la compassione dal grado d’interesse finale, abbiano per lo più evitato di farne cader più che tanta sopra i nemici della parte e dell’Eroe da lor presi a lodare (la compassione per Clorinda nella Gerusalemme non dava scrupolo al Tasso perch’ei la fa morir convertita, e nel medesimo canto la scuopre per cristiana di genitori e di nazione; sì ch’ella cade in ultimo, secondo l’intenzione finale del poeta, sopra una Cristiana), ec. ec. In verità egli sarebbe stato credibile, e certo egli avrebbe dovuto accadere, tutto l’opposto.

1. Quella raffinatezza dell’amor proprio e della facoltà di sentire, la quale è necessaria perchè la compassione trovi luogo nell’animo umano, la produce, e seco il piacere ch’altri ne gusta non fu in alcun modo propria de’ tempi d’Omero, e proprissima di quelli di Virgilio e de’ moderni, perocch’ella nasce dalla civiltà. Parlo qui della compassione inefficace, qual è quella che si prova leggendo un poema, e che spesso e facilmente ha luogo negli animi civili, massime destandovela lo charme e l’artifizio della poesia, e degli abili prosatori. La compassione efficace la qual ci muove a sovvenire alle miserie altrui, nasce anch’essa dalla detta raffinatezza, e quindi dalla civiltà, ma richiede una raffinatezza maggiore di quella che la civiltà soglia ordinariamente produrre e produca nel comune degli uomini, e una facoltà naturale di sentire maggior dell’ordinaria, e quindi ella è e fu in ogni tempo ben rara.

2. Poco ai tempi d’Omero valeva ed operava quello che negli uomini si chiama cuore, moltissimo l’immaginazione. Oggi per lo contrario (e così a’ tempi di Virgilio) l’immaginazione è generalmente sopita, agghiacciata, intorpidita, estinta; difficilissimo è ravvivarla anche al gran poeta, il quale altresì difficilmente può esser oggi gagliardamente ispirato dalla immaginativa, ed esser grande per quella parte che propriamente spetta all’immaginazione e per ciò che da lei deriva, come furono Omero e Dante. Se l’animo degli uomini colti è ancor capace d’alcuna impressione, d’alcun sentimento vivo, sublime e poetico, questo appartien propriamente al cuore. Ed infatti oggidì appresso gli altri poeti di verso e di prosa, il cuore è sottentrato universalmente e quasi del tutto all’immaginazione, quello gl’ispira, quello essi mirano a commuovere, e su quello realmente operano sempre ch’ei sono atti a riuscire nel loro intento. I poeti d’immaginazione oggidì, manifestano sempre lo stento e lo sforzo e la ricerca, e siccome non fu la immaginazione che li mosse a poetare, ma essi che si espressero dal cervello e dall’ingegno, e si crearono e fabbricarono una immaginazione artefatta, così di rado o non mai riescono a risuscitare e riaccendere la vera immaginazione, già morta, nell’animo de’ lettori, e non fanno alcun buono effetto. Così dico di quelle parti che ne’ moderni scrittori sono di pura immaginazione. Lord Byron è un’eccezione di regola, forse unica, per se stesso. V. p. 3477. Quanto all’effetto delle sue poesie sopra i lettori, dubito ch’elle debbano essere eccettuate dal numero delle altre poesie d’immaginazione. V. p. 3821. L’animo nostro è troppo diverso dal suo. Male ei ci può restituire quella immaginativa ch’egli ha conservata, ma che noi abbiamo per sempre perduta[a]

Anche Omero e Dante hanno assai che fare per ridestar la nostra immaginaz. Contuttociò, quantunque la fantasia di L. Byron sia certo naturalm. straordinaria, nondimeno è pur vero che anch’ella è in grandiss. parte artefatta, o vogliamo dire spremuta a forza, onde si vede chiaram. che il più delle poesie di L. Byr. vengono dalla volontà e da un abito contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispiraz. e da fantasia spontaneam. mossa.

[Chiudi]. Ora tra i poeti epici egli è pure strano che Omero antichissimo abbia tanto mirato al cuore, e che Virgilio e i moderni non si sieno proposti per oggetto finale ed essenziale de’ loro poemi che di muovere l’immaginazione. Perocchè il soggetto essenziale e unico principale de’ loro poemi si è un Eroe felice e un’impresa felicemente terminata. Ora la felicità non vale che per la maraviglia, la quale spetta all’immaginazione e nulla al cuore. Tanto possono fare errare i più grandi spiriti le regole e l’arte, e tanto nascondere la natura dell’uomo, de’ tempi, delle cose, traviarli dal vero, travisar loro e occultare il proprio scopo e la propria essenza di quelle cose medesime ch’essi intraprendono ed alle quali esse regole appartengono.

3. Le idee, i principii di generosità, di equità, di umanità, di beneficenza verso il nemico sì ne’ giudizi sì ne’ sentimenti sì nelle azioni, nacquero, si può dir, dopo Omero, mitigati che furono i ferocissimi e implacabili ed eterni odi nazionali, proprii degli uomini ancor vicini a natura[b]

Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè l’Iliade, è, quanto all’insieme, allo scopo totale e non parziale, al tutto e non alle parti, all’intenzion finale e primaria, non episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è, dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a dirsi, e che par contraddittoria ne’ termini, ed è infatti mostruosa ed opposta alla natura de’ progressi e della storia dello spirito umano e degli uomini, e delle differenze de’ tempi, alla natura rispettiva dell’antico al moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano. Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec.

[Chiudi]. Essi principii sono massimamente comuni ed efficaci ne’ tempi moderni, ne’ quali non vi possono avere odi nazionali, non avendovi quasi nazioni, e niuno individuo considera, come anticamente, per nemici personali quelli della nazione, i quali altresì ed effettivamente nol sono nè per sentimento nè per fatto, ma nemici solamente del suo re ec. Anzi i detti principii oggi degenerano in totale indifferenza verso il nemico della nazione, la qual porta a non distinguerlo quasi affatto dall’amico. Or non è egli maraviglioso che il poema d’Omero sia cento volte più imparziale e generoso verso i nemici della sua propria nazione, che non sono i poemi moderni verso la parte contraria a quella ch’in essi si celebra? e tanto che volendo nella Iliade investigare i proprii sentimenti del poeta, e non mirando se non se all’espressione di questi, appena si potrebbe oggi distinguere se Omero fosse greco o troiano, o d’una terza nazione, e in quest’ultimo caso, per qual di quelle due fosse più propenso nel suo animo.

4. Oggi, come ho già detto, e proporzionatamente eziandio a’ tempi di Virgilio, si può dir che più non esista interesse pubblico, se non in quei pochi che le cose pubbliche amministrano, e che il pubblico rappresentano, anzi, si può dir, lo compongono e costituiscono. Ed è ben cosa ragionevole e consentanea che l’interesse pubblico negli altri più non esista (e chi governa non legge poemi). Ora dunque i poemi il cui soggetto non è che qualche felicità e gloria nazionale, poco possono oggidì interessare, o certo assai meno che a’ tempi d’Omero. Ma la sventura, e massime degl’immeritevoli, è sempre dell’interesse privato di ciascheduno uomo. Niuno è che non si stimi infelice e conseguentemente nol sia, e niuno è parimente che non si reputi immeritevole della infelicità ch’ei sostiene. Queste disposizioni benchè comuni a tutti i tempi, sono massimamente sensibili oggidì, poichè per le circostanze politiche la vita non ha più come vivamente occuparsi e distrarsi, e d’altronde il lume della filosofia dissipa ben tosto, o soffoca nel nascere, o impedisce del tutto qualunque illusione di felicità. Quindi eziandio indipendentemente dalla compassione, egli era tanto più conveniente oggidì che a’ tempi d’Omero il far molto giuocare ne’ poemi epici le sventure degli uomini, quanto che oggi il sentimento della infelicità nelle nazioni civili è più vivo che fosse mai nel genere umano, ed è il sentimento e il pensiero per così dir dominante, da cui niuno oramai trova più come distrarsi. E la infelicità individuale degli uomini è, per così dire, il carattere o il segno di questo secolo. Tutto al contrario di quel d’Omero, il quale forse godette di quella maggior felicità o minore infelicità che possa godersi dall’uomo nello stato sociale, e che sempre risulta dalla grande attività della vita e dalle grandi e forti illusioni, cose proprissime di quel tempo, massime nella Grecia. Or dunque oggidì le sventure cantate da’ poeti, non possono non interessar grandemente, e più che in ogni altro tempo, e tutti; essendo il sentimento della propria sventura l’universale e più continuo sentimento degli uomini d’oggidì, ed amando naturalmente gli uomini di parlare e udir parlare delle cose proprie, e riguardando ciascheduno la infelicità come propria sua cosa, e dilettandosi gli uomini singolarmente di quelli che loro più si assomigliano, nè potendosi trovar somiglianza più universale che quella della infelicità, e compiacendosi ciascheduno di vedere in altrui o di legger ne’ poeti i suoi propri sentimenti, e contando per somma ventura ogni volta ch’egli incontra o nella vita o ne’ libri qualche notabile conformità o di casi o di circostanze o di opinioni o di carattere o di pensieri o d’inclinazioni o di modi o di vita e abitudini, colle sue proprie; e consolandosi ciascheduno delle sue sventure coll’esempio vivamente rappresentato, e più col vederle quasi celebrate e piante in altrui (e ciò in soggetto e circostanze e persone e avvenimenti illustri, come son quelli cantati ne’ poemi epici), innalzando il concetto di se stesso quasi il canto del poeta avesse per soggetto la di lui stessa infelicità, ed intenerendosi nella lettura quasi sui proprii mali. Chè in verità qualora leggendo i poeti (versificatori o prosatori) o le storie noi ci sentiamo commuovere da quelle vere o finte calamità, e ci lasciamo andare alle lagrime, crediamo forse di piangere le miserie altrui ma più spesso e più veramente, o più intensamente piangiamo in quel medesimo punto le nostre proprie, o mescoliamo il pensiero di queste al pensiero di quelle, e questa mescolanza (ch’è vera e propria e debita arte, e dev’essere scopo, del poeta l’occasionarla) è principal cagione di quelle nostre lagrime. E ci accade allora (e così ne’ teatri ec.) come ad Achille piangente sul capo di Priamo il suo vecchio padre e la breve vita a se destinata ec. ec. sublimissimo e bellissimo e naturalissimo quadro di Omero. Le sventure, quando sieno nazionali, o in altra maniera più particolarmente appartenenti ai lettori, interesseranno sempre più, per la maggior somiglianza e prossimità, che non è quella dello sventurato in generale, e perchè sarà tanto più facile e pronto il passaggio dell’animo del lettore da quelle calamità alle sue proprie ec. Onde sarà sempre importantissimo che il soggetto del poema sia nazionale, e questi soggetti saranno sempre preferibili agli altri, e la nazionalità conferirà moltissimo all’interesse.

Venendo oramai a ristringere il mio discorso, dico che l’Iliade, benchè, oltre al non esser noi greci, sieno corsi da ch’ella fu scritta o cantata, ben ventisette secoli, con tutte quelle innumerabili e sostanzialissime diversità che sì lungo tratto di tempo ha portato allo spirito ed alle circostanze esteriori e interiori dell’uomo e delle nazioni, c’interessa senz’alcun paragone più che l’Eneide scritta in tempi tanto posteriori, e più conformi ai nostri, ed aiutata pur grandemente come ho detto, dall’interesse medesimo della Iliade; più che la Gerusalemme, più che altri tali poemi, i quali, massimamente rispetto all’Iliade, si possono dir nati l’altro ieri. Dico c’interessa estremamente di più, intendendo dell’interesse totale e finale, e risultante da tutto il poema, e diffuso e serpeggiante per tutto il corpo del medesimo. Il quale interesse così inteso, manca quasi affatto ai poemi che dalla Iliade derivarono; perocchè non bisogna confonder con esso, il piacere che ci cagiona la lettura di tali poemi, derivante dallo stile, dalle immagini, dagli affetti, e da tali altre cose che non hanno essenzialmente a far coll’ultimo e principale scopo e scioglimento del poema; nè anche i particolari (o episodici o non episodici) interessi qua e là sparsi, non finali nè continui o perpetui, e nascenti da questa o da quella parte e non dall’insieme e dal tutto del poema; nè anche finalmente quell’interesse che può nascere dal semplice intreccio, interesse di pura curiosità, che non aspira nè corre ad altro che a voler essere informato dello scioglimento del nodo, conosciuto il quale, esso interesse finisce; interesse pochissimo interessante, e superficialissimo nell’animo; interesse che può esser sommo in poemi, drammi ed opere di niuno interesse, anzi non è mai nè sommo nè principale nè anche molto notabile e sensibile, se non se in poemi, drammi ed opere di niun intimo e profondo interesse e di pochissimo valor poetico, perchè il destare, pascere e soddisfare la curiosità non è effetto che abbia punto che fare colla natura della poesia, nè le può esser altro che accidentale e secondario. Or dunque i poemi derivati dalla Iliade, leggonsi con molto piacere, destano di tratto in tratto alcuno interesse più o men vivo e durabile, ma essi mancano quasi affatto di quell’interesse totale, finale e perpetuo, di cui l’Iliade, dopo 27 secoli, appo uomini non greci, sommamente abbonda, e dal quale si dee senza fallo misurare il pregio e il grado di bontà del complesso e dell’intero di un poema epico, siccome d’ogni altro poema.

Per lo che tornando finalmente là donde incominciai, conchiudo che tutto all’opposto di ciò che si dice e si crede, il poema dell’Iliade sarà forse dai posteriori poemi vinto ne’ dettagli o nelle qualità secondarie, come dir lo stile, o alcuna parte di esso, qualche immagine, qualche parte o qualità dell’invenzione; sarà forse eziandio vinto in alcuna parte della condotta, come nel celare più studiosamente l’esito, laddove Omero par che studiosamente lo sveli innanzi tempo (e forse anche questo si potrebbe difendere, e in ogni modo non nuoce che all’interesse di curiosità, del quale Omero, o come superficialissimo e non poetico ch’egli è, o come narrando forse cose universalmente allora cognite alla nazione, non si fece alcun carico); ma che nell’insieme, nel totale del disegno, nell’idea nello scopo e nell’effettivo risultato del tutto, tutti i poemi epici cedono di gran lunga all’Iliade[a]

Veggasi la p. 3289-91.

[Chiudi]. E soggiungo che in ciò gli cedono appunto per aver seguìto una unità che Omero non si propose, e a causa di quello stesso incremento e stabilimento dell’arte che li conformò e regolò, e che in essi si vanta, e che Omero non conobbe, e che peccano appunto per quella maggior perfezione di disegno che loro si attribuisce sopra l’Iliade, e che in questa pretesa perfezione consiste appunto il maggiore ed essenzial peccato del loro disegno, peccato che niuno ci riconosce, non potendo però lasciare di sentirne gli effetti, ma rapportandoli a non vere cagioni, e male esigendo che quei poemi producano effetti non compatibili realmente con quel disegno che in essi lodano, e senza cui gli avrebbero biasimati; e finalmente che Omero non conoscendo l’arte (che da lui nacque) e seguendo solamente la natura e se stesso, cavò dalla sua propria immaginazione ed ingegno un’idea, un concetto, un disegno di poema epico assai più vero, più conforme alla natura dell’uomo e della poesia, più perfetto, che gli altri, avendo il suo esempio e in esso guardando, e ridotta che fu ad arte la facoltà ond’egli avea prodotto que’ modelli, e determinata, distinta e stretta che fu da regole la poesia, non seppero di gran lunga fare. (5-11. Agosto. 1823.).

Alla p. 3109. margine. E l’egoista lusinga il suo amor proprio anche col persuadersi di non essere egoista e di amare altri che se, e col credere di darne a se stesso una prova. Quindi per gli animi raffinati è anche più dolce la compassione verso gl’inimici che verso gli amici o gl’indifferenti, prima perchè tanto più facilmente e vivamente l’uomo si persuade che quel sentimento ch’egli allora prova sia sgombro e puro d’ogni mescolanza e influenza d’egoismo; poi perchè tanto maggior concetto egli allora forma della grandezza e generosità e nobiltà del suo proprio animo, e tanto più s’aggrandisce a’ suoi propri occhi, (considerando la compassione ch’ei concede agli stessi nemici), del quale effetto della compassione ho detto p. 3119. Onde veramente somma fu l’arte, squisitissima l’intenzione e lo scopo, e supremamente bello l’effetto della poesia d’Omero, il quale rivolge principalmente sui nemici la compassione di che egli anima tutto il suo poema, ed alla quale come all’uno de’ principali effetti di questo, egli mira.

La compassione è quasi un’annegazione che l’uomo fa di se stesso, quasi un sacrifizio che l’uomo fa del suo proprio egoismo. Or questo è fatto per egoismo, niente meno che il sacrifizio della roba, de’ piaceri, della vita medesima, che l’uomo fa talvolta, non da altro mosso che dall’amor proprio, cioè dal piacere ch’ei trova in far quella tale azione. Così l’egoismo giunge fino a sacrificar se stesso a se stesso: tanto è l’amor ch’ei si porta, ch’ei si fa volontaria vittima di se medesimo: tanto egli è pieghevole e vario, e capace di tanti e sì strani e sì diversi travestimenti, che per suo proprio amore ei cessa anche di esser egoismo, e quando voi lo vedete sacrificar se medesimo, egli è allora il più raffinato egoismo che si trovi, il più efficace e potente e imperioso, il più intimo e il più grande, perocch’egli è maggiore negli animi in proporzione ch’ei sono più vivi, delicati e sensibili, (come altrove più volte ho detto), quale è necessario che sia in sommo grado chi può veramente di sua propria volontà e scelta sacrificar se medesimo. (12. Agosto. dì di Santa Chiara. 1823.).

Alla p. 2776. Vedi la Grammat. del Weller, edit. Lips. 1756. p. 50. v. 7.8. p. 58. fine. (12. Agosto. dì di Santa Chiara. 1823.).

Et Davus non recte scribitur. Davos scribendum: quod nulla litera vocalis geminata unam syllabam facit. (geminata cioè p. e. due a, o come in questo caso, due u). Sed quia ambiguitas vitanda est nominativi singularis et accusativi pluralis, necessario pro hac regula digamma utimur, et scribimus DaFus, serFus, corFus. Donatus ad Ter. Andr. 1. 2. 2. (12. Agosto, dì di S. Chiara. 1823.).

Così ridondante, o con un certo cotal significato che non si può altrimenti esprimere se non col gesto, si crede esser proprietà della nostra lingua, e idiotismo del nostro dir familiare (benchè molto usato dagli eleganti scrittori). V. pure Cic. ad Att. 14. 1. e il Forcell. in Abeo par. 16o . Ma quest’uso è latino e greco. V. il Forcell. in Sic ai paragrafi sesto, nono, decimo, Catullo XIV. 16, e Platone nel Convito, ed. Astii, Lips. 1819. seqq. t. 3. p. 440. vers.24. E. Gli spagnuoli hanno qualcosa di simile. (12. Agosto. dì di S.Chiara. 1823.).

Profittare, approfittare, profiter, aprovechar ec. quasi profectare da profectus di proficio. Pretextar spagn. prétexter franc. da praetexo-xtus. (12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.).

Diciamo volgarmente uomo indigesto per difficile, bisbetico. Or tale appunto si è il proprio significato del greco δύσκολος, per metafora morosus, opposto di εὔκολος. E v. la Crus. in discolo. (12. Agos. dì di Santa Chiara. 1823.).

Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, nè l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge mai pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola o in se o rispetto all’altre cose, eziandio ch’ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell’uomo, per nulla dire dell’animo. E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si è l’uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene che questa conoscenza e questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni, quanto l’individuo è di maggiore e più alto e più capace intelletto ed ingegno. (12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.).

Al proposito di habeo e di ἔχω usati per essere spettano i verbali habitus e σχῆμα,, ἕξις etc. P. e. habitus corporis, cioè modus habendi o se habendi, modus quo corpus habet o se habet, vale propriamente modo di essere del corpo ec. (12. Agos. dì di S. Chiara. 1823.).

Alla p. 3132. marg. principio. Da quello che si legge nell’epistola di Antonio Eparco a Filippo Melantone (ch’era pur non cattolico, ma famoso eretico e poco si doveva curare de’ luoghi santi) la qual epistola è riportata dal Fabricio nel citato luogo; e dalle varie scritture ed anche storie di quei tempi, si raccoglie che in verità il gabinetto ottomanno mirasse a soggettarsi l’Europa, non tanto per diffondere la religione di Maometto (sebbene anche questo, s’io non m’inganno, è precetto o consiglio dell’Alcorano, che si proccuri di diffonderla coll’armi il più che si possa, promettendo premi nell’altra vita a chi sostenga di morire combattendo per questa causa ec.) quanto per propagare il proprio imperio, e non tanto odiando gli altri principi e regni europei come Cristiani, quanto appetendoli come materia di conquista. O certo pare che gli altri gabinetti europei riguardassero tutti la potenza ottomana con maggior sospetto ch’ei non si guardavano l’un l’altro, temendone, non per la religion Cristiana, ma per se stessi. E senza fallo la potenza ottomana si manteneva ancora a quel tempo nell’opinione di conquistatrice appresso gli altri, e il gabinetto ottomano conservava ancora le intenzioni e i progetti di conquistatori. Nè poteva essere spenta la memoria e il terrore di quando, non più che un secolo addietro, quella nazione tartara, dopo le tante imprese e conquiste e progressi fatti per sì lungo tempo nell’Asia, presa Costantinopoli, antichissima sede del greco impero, e distrutto l’ultimo avanzo della potenza romana, aveva finalmente piantato nell’Europa risorgente alla civiltà, un trono barbaro, una lingua e un popolo Asiatico (cosa fino allora, per quanto si stende la ricordanza delle storie, non più veduta), oltre una religione diversa dalla Cristiana (cosa pur non veduta in Europa da’ tempi pagani in poi, eccetto i mori di Spagna, i quali si debbono eccettuare anche sotto i rispetti detti di sopra); ed aveva imposto il giogo della schiavitù orientale alla più colta nazione che fosse in quei tempi, come apparve dai tanti esuli, secondo quel tempo, dottissimi, che fuggendo la turca tirannide, si erano sparsi per le altre parti d’Europa, portando i greci codici, e la greca letteratura, e rendendo comune e proprio di quel secolo più che d’ogni altro, lo studio ed anche l’uso della greca lingua nelle scuole e fra’ letterati d’Italia, di Francia e di Germania, ed aiutando universalmente il progresso delle rinate lettere. Spettacolo veramente terribile, la cui impressione non poteva nel seguente secolo essere spenta, nè si poteva ancora aver cessato di temere e di odiare generalmente il Turco sì nelle corti e sì nel popolo, non solo come conquistatore, ma di più come conquistatore barbaro e crudele, minacciante le nazioni civili; (quasi come i Goti e gli altri popoli settentrionali ne’ bassi secoli), anche astraendo affatto dalla religione. Quindi il voto de’ politici e degli scrittori di quel secolo per la lega universale contro i turchi, prende un aspetto anche più grave, e non è solamente da riguardarsi com’effetto di antiche opinioni e rimembranze religiose, e di fanatismo e d’immaginazione, ma come dirittamente spettante alla politica, e derivante dalla considerazione delle reali circostanze d’Europa in quel secolo. E tanto più importante n’apparisce il soggetto, e più degno, saggio e nobile il pensiero, la scelta e l’intenzione del Tasso, che nel suo poema fece servire la religione, e le opinioni e lo spirito popolare del suo tempo, e le altre cose che si prestano alla poesia (perocchè le speculazioni politiche non possono esser materia da ciò) a promuovere quello scopo ch’era allora de’ più importanti per la conservazione della civiltà, della libertà, dello stato, del ben essere di tutta Europa, cioè la concordia de’ principi europei per essere in grado e di respingere e di distruggere il Barbaro che minacciava o era creduto minacciare di schiavitù tutte le nazioni civili, il comune nemico che macchinava o era creduto macchinare la conquista di tutta Europa dopo quella di gran parte dell’Asia, e insidiare perpetuamente ai regni europei, come anticamente i persiani alle greche repubbliche. Nè certo minor gravità ed importanza dovranno sotto tale aspetto essere riputati avere il poema del Tasso, la Canzone del Petrarca e l’altre poesie e prose italiane o forestiere appartenenti a tal materia, di quella che avessero le orazioni d’Isocrate contro il Persiano, o di Demostene contro il Macedone; anzi, per ciò che spetta alla materia, tanto maggiore di queste, quanto queste toccavano l’interesse della Grecia sola, piccola parte d’Europa, e quelle miravano alla salvezza dell’Europa intera e di tutte le sue nazioni e lingue. (15. Agosto. Assunzione di Maria Vergine Santissima. 1823.). Nè la nimicizia degli europei verso i maomettani, e di questi verso quelli si restringeva alle sole opinioni e discorsi, ma consisteva anche ne’ fatti[a]

V. Tasso, Gerus. 17. 93-4, dove parla d’Alfonso II. di Mod.a e confrontalo coi luoghi dello Speroni da me notati p. 3132. marg. princip. V. p. 4017.

[Chiudi], come apparisce dalle imprese de’ Cavalieri Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme che in quel medesimo secolo, dopo 212. anni di possedimento (1310.) perdettero Rodi (1522.) ed ebbero prima Viterbo dal Papa, e poi Malta (1530.) da Carlo V, e con prodigioso valore la difesero (1566.) quattro mesi con morte di 15 mila soldati barbari e ottomila marinai; dalle imprese di Carlo V contra i Maomettani d’Europa e d’Affrica; da quelle de’ Veneziani nel detto secolo; dalla famosa vittoria di Lepanto riportata dalle flotte spagnuola, veneziana e del Papa sopra i turchi dieci anni avanti (1571.) che fosse pubblicata la Gerusalemme (1581.), e certo in tempo che il Tasso la stava componendo e meditando, poichè fin dieci anni avanti (1561.), egli n’aveva già scritto o abbozzato 6. canti. (V. Tirabos. t. 7. par. 3. p. 118.). (16. Agosto. 1823.). V. p. 4236. e l’Oraz. del Giacomini in lode del Tasso nelle Prose fior. la qual finisce con un’esortazione alla guerra contro i turchi.

Alla p. 2834. Questa tal grazia definita di sopra, è la grazia più graziosa e più fina, anzi quella che propriamente si chiama grazia, e che suol essere considerata dagli artisti, dagl’intendenti, dagli speculatori teorici o pratici del bello, quella che sogliamo intendere col nome di grazia, ed a cui principalmente appartiene l’indefinibilità e inconcepibilità che alla grazia s’attribuisce. La grazia nascente da difetto (come quella di Roxolane appo il Marmontel), è più grossolana e poco degna dell’artista, o di qualunque imitatore del bello. Essa è bensì più comunemente sensibile (perocchè quell’altra grazia non tutti, anzi pochi, la sentono), e sempre ch’ella è sentita, fa maggior effetto dell’altra, eziandio negl’intendenti del bello, negli spiriti di buon gusto, e negli animi delicati e sensibili. E ciò perchè il contrasto in essa è più notabile e spiccato, e maggiore la straordinarietà. Ma perciò appunto questo effetto è più grossolano, e per così dire più materiale e corporeo, laddove quell’altro è più spirituale e più delicato, e quindi più direttamente e giustamente proprio della grazia, l’idea della quale inchiude quella della delicatezza. La grazia derivante da difetto punge e solletica come un sapore acre e piccante, o aspro, o acido, o acerbo, che per se stesso è dispiacevole, e pure in un certo grado piace, e quindi molti spiriti che non hanno mai potuto sentire quell’altra grazia, o che sono di già blasés sul bello, a causa del lungo uso ed assuefazione, sono mossi e allettati da quella grazia, per dir così, difettosa, come i palati o ruvidi e duri per natura, o stanchi de’ cibi piacevoli per la lunga assuefazione, sono dilettati e solleticati da quei sapori. Laddove l’altra suddetta grazia è quasi un soave e delicatissimo odore di gelsomino o di rosa, che nulla ha di acuto nè di mordente, o quasi uno spiro di vento che vi reca una fragranza improvvisa, la quale sparisce appena avete avuto il tempo di sentirla, e vi lascia con desiderio, ma vano, di tornarla a sentire, e lungamente, e saziarvene. (16. Agosto. dì di San Rocco. 1823.).

È cosa indubitata che la civiltà ha introdotto nel genere umano mille spezie di morbi che prima di lei non si conoscevano, nè senza lei sarebbero state; e niuna, che si sappia, n’ha sbandito, o seppur qualcuna, così poche, e poco acerbe e poco micidiali, che sarebbe stato incomparabilmente meglio restar con queste che cambiarle con la moltitudine, fierezza e mortalità di quelle. (Vediamo infatti quanto poche e blande sieno le malattie spontanee degli altri animali, massime salvatichi, cioè non corrotti da noi; e similmente de’ selvaggi, e massime de’ più naturali, come i Californii; e che anche quelle degli agricoltori sono molte più poche e rare e men feroci che quelle de’ cittadini). È parimente indubitato che la civiltà rende l’uomo inetto a mille fatiche e sofferenze che egli avrebbe e potuto e dovuto tollerare in natura, e suscettibilissimo d’esser danneggiato da quelle fatiche e patimenti che, o per natura generale o per circostanze particolari, egli è obbligato a sostenere, e che nello stato naturale avrebbe sostenuto senza verun detrimento, e, almeno in parte, senza incomodo. È indubitato che la civiltà debilita il corpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa proporzionatamente) si conviene la forza, e il quale privo di forza, o con minor forza della sua natura, non può essere che imperfettissimo; e ch’ella rende propria dell’uomo civile la delicatezza rispettiva di corpo, qualità che in natura non è propria nè dell’uomo nè di veruno altro genere di cose, nè dev’esserlo (vedi la pag. 3084. segg.). È indubitato che le generazioni umane peggiorano in quanto al corpo di mano in mano, ogni generazione più, sì per se stessa, sì perch’ella così peggiorata non può non produrre una generazione peggior di se ec. ec. Da tutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi luoghi considerate, si fa più che certissimo e si tocca con mano, che i progressi della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il successivo deterioramento del suo fisico, deterioramento sempre crescente in proporzione d’essa civiltà. Nei progressi della civiltà, e non in altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmente tutti, chiamano oggidì (e molti anche in antico) il perfezionamento dell’uomo e dello spirito umano. È dunque dimostrato e fuori di controversia che il perfezionamento dell’uomo include, non accidentalmente ma di necessità inevitabile, il corrispondente e sempre proporzionato deterioramento e, per così dire, imperfezionamento di una piccola parte di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo che quanto l’uomo s’avanza verso la perfezione, tanto il suo fisico cresce nella imperfezione; e quando l’uomo sarà pienamente perfetto, il corpo umano, generalmente parlando, si troverà nel peggiore stato ch’e’ mai siasi trovato, e in che gli sia possibile di trovarsi generalmente. Se con ciò si possa giustamente chiamare perfezionamento, quello che oggi s’intende sotto questo nome, cioè se l’incremento della civiltà sia perfezionamento dell’uomo, e la perfezione della civiltà perfezione dell’uomo; se una tal perfezione ci possa essere stata destinata dalla natura; se la nostra natura la richiegga ed a lei tenda; se veruna natura richiegga o possa richiedere una perfezione di questa sorta; se perciò che l’uomo è civilizzabile, e in quanto egli è civilizzabile, ei sia, come dicono, e come stabiliscono e dichiarano per fuori d’ogni controversia, perfettibile; si lascia giudicare a chiunque non è ancor tanto perfezionato, tanto vicino all’ultima perfezione dell’uomo, ch’egli abbia perduto affatto l’uso del raziocinio, e non serbi neppur tanta parte del discorso naturale quanta è propria ancora degli altri viventi. (17. Agosto. Domenica. 1823.).

Trembler, temblar sono verbi diminutivi, cioè fatti da un tremulare, il quale è da tremere, come misculare (onde mesler, cioè mêler, mezclar, mescolare, meschiare, mischiare) da miscere, secondo che ho notato altrove. Ma essi verbi trembler e temblar hanno il senso del positivo tremere che nel francese e nello spagnuolo non si trova. Noi abbiamo e tremare e tremolare, quello positivo, e questo, così di forma come di significazione, diminutivo. Diciamo anche tremulare, o piuttosto lo dicevano i nostri antichi, più alla latina, benchè questo verbo nel buon latino non si trovi. Trovasi però nel basso latino: V. il Glossar. Cang. Il Franciosini scrive tremular, lo chiama vocabolo barbaro, e lo spiega tremare. Gli spagnoli dicono pure tremolar ( Solìs Hist. de Mexico, l. i. capit. 7. princip.), ma attivamente per agitare, dimenare, sventolare (come tremolar unas vanderas nel citato luogo del Solìs), alla qual significazione par che appartenga l’ultimo esempio del Gloss. Cang. in Tremulare. (17. Agos. 1823. Domenica.).

Gli uomini che nel mondo sono stimati e son tenuti da quanto gli altri o da più degli altri, lo sono per l’ordinario in quanto coll’uso della società essi si sono allontanati dalla natura lor propria e dagli abiti naturali dell’uomo generalmente, ed hanno in se oscurata e coperta la natura, o sanno, sempre che vogliono, coprirla. E quanto più è oscurata in loro e coperta e mutata sì la natura individuale e lor propria, vale a dire il loro natural carattere, e gli abiti a che essa particolar natura gli avrebbe condotti, sì la natura generale degli uomini, tanto la stima generale verso di essi è maggiore. Voglio dir che la più parte delle qualità che negli uomini ottengono stima appo il mondo, o sono totalmente acquisite e per nulla naturali, anzi spesso contrarie alla natura lor propria o generale; ovvero sono talmente svisate dal naturale che per naturali non si ravvisano, e più che sono svisate, più, per l’ordinario, si stimano. Perocchè egli è ben raro che una qualità semplicemente naturale, e tale qual ella è da natura, sia stimata punto nella società, e quando pur sialo, questa stima non è nè durevole, nè salda, nè generale, nè molta, ed è sempre inferiore a quella delle qualità acquisite o snaturate, le quali si apprezzano per regola, stabilmente e seriamente, ma le naturali quasi per gioco, per rarità, per variare, per passatempo, momentaneamente. Quelle si stimano come gravi, serie, e da negozio; queste come lievi, di poca importanza ed utilità, da semplice trattenimento e da ozio: e la società presto se ne annoia.

Questo genere di persone ch’è l’unico generalmente stimato nella società, tiene il mezzo fra due generi, non istimato nè l’uno nè l’altro, ma l’uno non istimabile, l’altro stimabilissimo e molto più stimabile veramente di quello che il mondo stima. Del primo genere sono quelle persone, in cui la natura non ha avuto forza bastante per cangiarsi; cioè quelle che non furono capaci dell’arte, onde vivendo nella società, non hanno da lei saputo apprendere, nè su di lei modellarsi, e per poca abilità naturale hanno conservata la loro natura, il loro natural carattere, gli abiti a cui la natura o propria o generale gl’inclinò; sicchè vivono e conversano nella società, tali appresso a poco quali dapprima vi entrarono. Ciò sono le persone povere di spirito, di tardo e duro ingegno, di corta e scarsa capacità. Eziandio spettano a questo genere coloro in cui la natura si conserva per mancanza di coltura che la scacci o la tramuti. Ciò sono le persone idiote e rozze, di poco o niuno uso sociale, poco o nulla assuefatte alla civile conversazione, le quali recano nella società, sempre che vi si accostano, il loro primitivo carattere, e le naturali abitudini, non mai cangiate da quello che furono da principio, non mescolate o accresciute con alcuna qualità sociale acquisita; e ciò non per durezza d’ingegno, nè per naturale insufficienza, e incapacità di apprendere, ma per mancanza d’insegnamento, di esercizio, di coltura dell’ingegno e delle maniere. Questo genere di persona sia della prima specie sia della seconda, non è punto stimata nè ricercata nè gradita nella società, perch’egli conserva la natura, al contrario di quelle persone che ho detto essere apprezzate nel mondo.

Del secondo genere[a]

Può vedersi la p. 3491-4. circa la timidità che è propria di questo secondo genere e che affatto impedisce di essere stimato nella società, distrugge qualunque stima si potesse esser conceputa di un individuo prima di conoscerlo ec. Ella è sovente comune anche al primo genere, ma solo con quelli di cui hanno soggezione, laddove nel secondo con tutti, perchè questi tali hanno soggezione di se stessi. Ella è affatto esclusa dal genere intermedio, e questo è il solo che ne sia sempre esente e al tutto sicuro.

[Chiudi] sono coloro in cui la natura straordinariamente forte, e più potente che nel comune degli uomini, ha superato e respinto l’arte, e non le ha lasciato luogo da situarsi, non per istrettezza e cortezza d’essa natura, ma perch’ella, sebbene amplissima ed estesissima, tutto il luogo essa medesima irremovibilmente occupò. Ciò sono le persone di carattere originale, straordinariamente vigoroso, costante, fermo, i quali rigettano le abitudini contrarie alla loro gagliarda natura e al detto carattere, di qualunque genere ei sia; e non soffrono di piegarsi e adattarsi agli altrui costumi, di seguire le altrui inclinazioni, di cangiare o di modificare o di nascondere e mascherare o finalmente di smentire se stessi; non ammettono nè modi, nè usanze, nè gusti, nè occupazioni, nè istituti di vita, nè parole, nè fatti se non conformi esattamente alla loro primitiva natura ed indole, e da essa richiesti, cagionati, mossi, suggeriti. Questi sono gli uomini chiamati singolari e originali; non mai stimati (certo oggidì, e nelle nazioni più civili e socievoli, non mai), per lo più disprezzati, ovvero odiati e fuggiti, sempre derisi. In questi tali tutto è forza, e per la forza si conserva in essi immutabile la natura. Altri pur v’ha del medesimo genere, ne’ quali avvengachè la natura sia parimente fortissima e potentissima, contuttociò si mescola in essi e nella natura loro una sorta di debolezza e non poca. Ciò sono quelle persone di vastissimo finissimo e altissimo ingegno, al quale per la troppa capacità ed ampiezza sfuggono e in essa ampiezza si perdono le cose piccole; per la troppa finezza riescono difficilissime e impossibili ad apprendersi, a seguirsi, a possedersi le cose grosse; per la troppa altezza escono di vista le cose basse. Non già ch’essi sempre le sdegnino, anzi bene spesso con somma e intentissima cura le cercano e studiano, ma con gran meraviglia loro e dei pochi che ben li conoscono, non viene lor fatto di conseguire in quelle cose appena una centesima parte di quell’abilità e di quel successo che gl’ingegni mediocri, e talora piccoli, con molto minor cura e studio, facilmente e perfettamente conseguono, possiedono e adoprano. Il medesimo eccesso della cura e della contenzion d’animo che quei rari ingegni pongono a conseguire ed esercitare le qualità sociali, cura e contenzione abituale e familiare in essi, e che mai e’ non sanno intermettere o rilasciare; il medesimo eccesso dico, togliendo loro la possibilità della disinvoltura, del riposo d’animo, della facilità, dell’abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi (che a chi suol riflettere sulle cose, e conoscerne e investigarne e sentirne e pesarne le difficoltà, e a chi sempre mira alla perfezione, e d’altronde sa bene per molte esperienze e sente quanto ella sia difficile, a questi tali, dico, la confidenza in se stessi è impossibile); togliendo dunque loro la possibilità di queste qualità che sono d’indispensabilissima e primissima necessità per godere nella società e per piacerle, e generalmente per ottenere colle parole o coi fatti qualunque successo nel mondo; il detto eccesso, torno a ripetere, impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente conseguire, di mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano. Questi tali, benchè grandissimi ingegni, benchè fecondi di bellissimi, utilissimi, altissimi, nuovissimi pensieri, benchè scrittori sommi in questo o quel genere, o pur letterati o filosofi o privati politici di altissimo valore, benchè d’animo nobilissimi, sensibilissimi, rarissimi, benchè spesso capacissimi di dilettar sommamente o di sommamente giovare a qualsivoglia società e a qualunque genere di persone coi loro scritti o colle produzioni qualunque del loro ingegno, lungamente e maturamente, o almeno riposatamente, pensate; anzi benchè le dette misere qualità siano pur troppo propriissime de’ singolari ingegni, e tanto più quanto alcun d’essi più s’inalza sopra il comune, e a proporzione di ciò più invincibili e costanti; e benchè quasi tutti gl’ingegni veramente singolari e sommi, massime quelli che risplendettero o risplendono negli studi delle scienze, delle lettere, o delle arti, fossero e sieno più o meno partecipi di tali qualità caratteristiche, si può dire, degli straordinarii e sublimi talenti; (vedi fra l’altre cose il Pseudo-Donato nella Vita di Virgilio cap. 6. fine, dov’è l’autorità di Melisso, Grammatico, liberto di Mecenate, contemporaneo di Virgilio: Forcell. in Melissus, Fabric. B. Lat. 1. 494.); contuttociò questi tali nella società, se non da quelli che conoscono per altra parte il loro merito, e che conoscendolo sono capaci di apprezzare chi lo possiede, sono generalmente (e non irragionevolmente, perocchè niun diletto e molta noia e fatica reca la loro conversazione) disprezzati ed evitati, ancor maggiormente che quelli dell’altra specie, e confusi dai più coi primi del primo genere, ai quali in fatti, nell’esteriore e in ciò che d’essi apparisce, quasi a capello si rassomigliano. In questo genere si può recar per esempio della prima specie l’Alfieri, della seconda G. G. Rousseau[a]. Anche questo genere di persone benchè stimabilissimo non è stimato, perocch’ei conserva la natura, o non è bastantemente mutato dal naturale.

Sicchè tra quello che non è stimabile e quello ch’è degno di somma stima, restano solamente stimati quelli che tengono il mezzo, e cioè gli uomini mediocri e mediocremente degni. E ritrovasi per questa via e sotto questo rispetto, siccome per tutte l’altre vie e per ogni altro riguardo, trionfare nell’umana conversazione la mediocrità.

Nè solamente alla stima del mondo, ma a qualunque altro successo nella società, come al far fortuna, all’avanzarsi nel favore o de’ principi o de’ privati, e a cose tali si può applicare la triplice distinzione e la successiva suddivisione degli uomini da me fatta fin qui, e troverannosi dovunque gli effetti corrispondere ai sopra osservati, secondo i generi e le spezie surriferite. (18. Agos. 1823.).

All’amore che noi abbiamo della vita, e quindi delle sensazioni vive, dee riferirsi il piacere che ci recano negli scritti o nel discorso le parole chiamate espressive, cioè quelle che producono in quanto a loro una idea vivace, o per la vivacità dell’azione o del soggetto qualunque ch’elle significano (come spaccare), o perchè vivamente rappresentano all’immaginativa questa medesima azione o soggetto, qualunque siasi la cagione perch’esse vivamente lo rappresentino (come spaccare più vivamente rappresenta l’azione significata, e desta un’idea più viva che fendere per varie ragioni che ora non accade specificare, e lungo sarebbe il farlo), o perchè di un’azione o di un soggetto non vivace, ne destano però una viva e presente idea. (18. Agosto. 1823.).

Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o dallo spagnuolo voci o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall’esempio de’ latini classici che altrettanto faceano dal greco, come Cicerone massimamente e Lucrezio, nè dall’autorità di questi due e di Orazio nella Poetica, che espressamente difendono e lodano il farlo. Perocchè i nostri pedanti coll’universale dei dotti e degl’indotti tengono la lingua greca per madre della latina. Ma hanno a sapere ch’ella non fu madre della latina, ma sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno sorelle dell’italiana. Ben è vero che la greca letteratura e filosofia fu, non sorella, ma propria madre della letteratura e filosofia latina. Altrettanto però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti dell’italiana letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa attingere, per rispetto alla letteratura e filosofia francese. La quale dev’esser madre della nostra, perocchè noi non l’abbiamo del proprio, stante la singolare inerzia d’Italia nel secolo in che le altre nazioni d’Europa sono state e sono più attive che in alcun’altra. E voler creare di nuovo e di pianta la filosofia, e quella parte di letteratura che affatto ci manca (ch’è la letteratura propriamente moderna); oltre che dove sono gl’ingegni da questa creazione? ma quando anche vi fossero, volerla creare dopo ch’ella è creata, e ritrovare dopo trovata ch’ell’è da più che un secolo, e dopo cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e trattata continuamente da tutto il resto d’Europa del pari; sarebbe cosa, non solo inutile, ma stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto addietro degli altri in una medesima carriera, volersi collocare sul luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe anche impossibile, perchè nè i nazionali nè i forestieri c’intenderebbono se volessimo trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e familiari, e noi non ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l’opera, vedendo nelle nostre mani bambina e schizzata, quella che nelle altrui è universalmente matura e colorita; e questo vano rinnovamento piuttosto ritarderebbe e impaccerebbe di quel che accelerasse e favorisse gli avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e filosofica. Erano ben altri ingegni tra’ latini al tempo che s’introdussero e crebbero gli studi nel Lazio; ben altri ingegni, dico, che oggi in Italia non sono. Nè però essi vollero rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo allora poco filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma trovando l’una e l’altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e mature appresso i greci, da questi le tolsero, e gli altrui ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e ricevuti e coltivati che gli ebbero, allora, secondo l’ingegno di ciascheduno e l’indole della nazione, de’ costumi, del governo, del clima, della lingua, delle opinioni romane, modificarono ed ampliarono le cose da’ greci trovate, e diedero loro abito e viso e attitudini domestiche e nuove. Se vuol dunque l’Italia avere una filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora non ebbe mai, le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori pigliandole, le verranno principalmente dalla Francia (ond’elle si sono sparse anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di clima e di carattere e di genio e di lingua ec. che l’italiana), e vestite di modi, forme, frasi e parole francesi (da tutta l’Europa universalmente accettate, e da buon tempo usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia e la moderna letteratura, come altrove ho ragionato, e volendole ricevere, nol potrà altrimenti che ricevendo altresì assai parole e frasi di là, ad esse intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie; siccome appunto convenne fare ai latini delle voci e frasi greche ricevendo la greca letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa giustificazione, ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo, essendo la lingua francese sorella dell’italiana siccome della latina il fu la greca, e producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una letteratura moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel Lazio. E tanto più saremo fortunati degli altri stranieri che dal francese attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura, quanto che noi nel francese avremo una lingua sorella, e non, com’essi, aliena e di diversissima origine. (18. Agos. 1823.).

Alla p. 1011. marg.-fine. Aggiungete ancora che la lingua latina è della italiana, madre conosciuta e certa e fuori d’ogni controversia. Non così accade all’altre lingue d’origine diversa. Si saprà per certo che la lingua tedesca è d’origine teutonica, la svedese d’origine slava, ma quale delle antiche lingue teutoniche o schiavone sia madre della tedesca e della svedese, non si potrà senza moltissime controversie, nè senza grandi dubitazioni e incertezze, nè più che largamente e mal distintamente, determinare ec. ec. (19. Agos. 1823.). Noi sappiamo bene qual e che cosa sia questa lingua latina madre dell’italiana, e possiamo definitamente additarla, e mostrarla tutta intera. Ma dir che la teutonica o la slava o simili è madre della tedesca o della russa ec., è quasi un dire in aria, benchè sia vera, nè quelli possono definitamente additarci quale individualmente sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e per laceri avanzi, mostrarcela.

In molti luoghi di questi miei pensieri ho dimostrato come l’uomo debba quasi tutto alle circostanze, all’assuefazione, all’esercizio; quanta parte di ciò che si chiama talento naturale, e diversità o superiorità o inferiorità di talenti, non sia per verità altro che assuefazione, esercizio, ed opera di circostanze non naturali nè necessarie ma accidentali, e diversità di assuefazioni e di circostanze, maggiore o minore assuefazione, e maggiore o minor favore o disfavore di circostanze e di accidenti secondarii: la diversità delle quali cose accresce a dismisura le piccole differenze e le piccole superiorità o inferiorità di facoltadi che si trovano naturalmente e primitivamente tra questo e quello ingegno di questo o quello individuo o nazione, in questo o quel secolo. Io però non intendo con ciò di negare che non v’abbiano diversità naturali fra i vari talenti, le varie facoltà, i vari primitivi caratteri degli uomini; ma solamente affermo e dimostro che tali diversità assolutamente naturali, innate, e primitive sono molto minori di quello che altri ordinariamente pensa. Del resto che gl’intelletti, gli spiriti, insomma gli animi degli uomini differiscano naturalmente e primitivamente gli uni dagli altri, con minute differenze bensì, ma pur vere ed effettive e notabili differenze; e che varie sieno le loro naturali disposizioni, maggiori in altri, in altri minori, ed ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi altri, è cosa, come da tutti e sempre creduta, così vera e reale, e dimostrata da molte osservazioni, le quali, o alcune di esse, verrò qui sotto segnando per capi, sommariamente però, ed in modo che sopra ciascun capo potrà e dovrà molto più estendersi il discorso di quello che io sia per estenderlo.

1. Notabili sono le differenze che passano tra l’esteriore figura e conformazione degli uomini, paragonando secolo a secolo; nazione selvaggia o corrotta o civile l’una coll’altra; nazioni civili tra loro; così nazioni selvaggie o barbarizzate; clima a clima; famiglia a famiglia; individuo a individuo. Differenze regolari o irregolari; ordinarie o straordinarie; naturali o accidentali, ma pur sempre fisiche; mostruosità ec. La differenza delle lingue dimostra una vera differenza negli organi corporali della favella tra’ vari popoli parlanti; differenza cagionata o dal clima o da qualsivoglia altra cagione naturale, indipendente però certo dall’assuefazione nell’essenziale e generale e costante che in essa differenza si trova. Negli altri vari organi esteriori dell’uomo si trovano eziandio molte notabili differenze naturali tra uomo e uomo, clima e clima, nazione e nazione, individuo e individuo; differenze di disposizione, cioè disposizione a maggiore o minor numero di abilità, a tali o tali abilità piuttosto che ad altre, e disposizione maggiore o minore; più o meno scioltezza e speditezza e sveltezza fisica, secondo le qualità naturali de’ muscoli e de’ nervi che a quel tale organo appartengono. Se l’esteriore adunque degli uomini differisce notabilmente per natura nell’uno uomo paragonato coll’altro, è ben ragionevole che si creda notabilmente differire anche la naturale conformazione dell’interiore ne’ diversi uomini; quando non si può volgere in dubbio la manifesta analogia e perfetta corrispondenza che passa tra l’esterno e l’interno dell’uomo sotto qualunque rispetto. E nel particolare dell’ingegno, la diversa conformazione esteriore del capo ne’ diversi individui e nazioni, la quale è visibile e non si può negare, dimostra chiaramente una diversa conformazione di ciò che nel capo si contiene, nel che risiede l’ingegno; onde viene a esser provato che tra gli uomini v’ha differenza naturale d’ingegno. E infatti è quasi dimostrato che la fronte spaziosa significa grande e capace ingegno naturale, e per lo contrario la fronte angusta; e così le altre differenze esteriori del capo osservate dai craniologi: le osservazioni de’ quali se non sono tutte vere, non lasciano di provare generalmente una differenza naturale di spirito e d’indole ne’ diversi uomini; nel giudizio delle quali differenze se coloro spesse volte s’ingannano, ciò nasce perch’ei non guardano che il fisico; ma l’assuefazione e le circostanze talora accrescono, talora cancellano, talora volgono affatto in contrario le differenze delle disposizioni naturali; delle quali sole possono pronunziare i craniologi, non de’ loro effetti, che da troppo altre cause sono influiti, e spesso riescono contrarii ad esse disposizioni. E vedi a questo proposito il fatto di Zopiro e Socrate ap. Cic. Tusc. lib.4. cap. 37. Qua pur si deve riferire la diversità delle fisonomie, degli occhi, che tanto esprimono e dimostrano dell’animo e dell’ingegno, e l’arte de’ fisionomi.

2. Differenze generali, regolari, e costanti si trovano fra i caratteri, i talenti, le disposizioni spirituali delle diverse nazioni, massime secondo i diversi climi. Quelle d’ingegno grossissimo, come i Lapponi; queste d’acutissimo, come gli orientali; altre pigre, altre attive; altre coraggiose, altre timide; in altre prevale l’immaginazione, in altre la ragione, e ciò in altre più, in altre meno; altre riescono e riuscirono sempre eccellenti in una parte, altre in altra; ec. ec. e tutto questo costantemente. Non si può negare che i principii e le fondamenta di tali differenze non sieno naturali, e quindi non si può negare che non v’abbia una vera primitiva differenza d’indole e d’ingegno tra nazione e nazione, clima e clima, come v’ha reale, visibile, naturale e, generalmente parlando, costante differenza di esteriore, di fisonomia ec. tra nazioni e climi, selvaggi o civili ec. ec. Dunque proporzionatamente è da dire che anche tra individuo e individuo di una stessa o di diverse nazioni, esiste dalla nascita una reale differenza d’indole e di talento, o vogliamo dire un principio e una disposizione di differenza, che ad idem redit.

3. Lasciando da parte il tanto che si potrebbe dire sull’influsso fisico, ossia sulla naturale azione del corpo e de’ sensi, e quindi degli oggetti esteriori, sull’animo indipendentemente dall’assuefazione, ne toccheremo solamente alcune cose che più fanno al proposito. Ho udito di uno abitualmente scempio o tardissimo d’ingegno, che caduto di grande altezza, e percosso pericolosamente il capo, divenne, guarito che fu, d’ingegno prontissimo e furbissimo, e questi ancor vive. Ho udito d’altri molto ingegnosi, per simile accidente divenuti stupidi, e sciocchi. Lasciando questo, egli è certissimo che la malattia del corpo (e così la sanità) influisce grandissimamente sull’ingegno e sull’indole. Tacendo delle minori influenze, che tutto giorno si osservano, si può notare quello che narra il Caluso nella Lettera appiè della Vita di Alfieri, circa i versi d’Esiodo da lui una sola volta letti, ch’ei recitava francamente nella sua ultima malattia. E mi fu raccontato da testimonii di udito, del maraviglioso spirito, degli argutissimi motti e risposte, di una prontezza affatto straordinaria di mente e di lingua, di una prodigiosa facilità, fecondità e copia d’invenzioni che si fece osservare in un vecchio Cardinale (Riganti) (non molto usato a facezie, nè di molto spirito, e di carattere ben diverso dalla energia, e rapidità e mobilità) poco dopo essere stato colto da una apoplessia (della quale infermità rimase impedito nelle membra, e morì parecchi mesi appresso), e stando in letto. Esempio di Ermogene, e de’ suoi simili che puoi vedere nella Dissertaz. del Cancellieri sugli Smemorati ec. Corrispondenza che, generalmente parlando, si osserva tra gl’ingegni e i caratteri degli uomini per una parte, e le rispettive complessioni dall’altra. Pazzi e frenetici; febbricitanti, deliranti. La malattia cambia talora, com’è detto, l’ingegno e il carattere o per sempre, o per momenti, o per più o men tempo: ciò massimamente quando ella interessa in particolare il cerebro. Il quale se può essere notabilissimamente diversificato dalle malattie e dalle varie circostanze e accidenti che accadono durante la vita a uno stesso uomo, non si può non credere e giudicare che la tanta e inesauribile diversità delle circostanze e degli accidenti che concorrono nella generazione de’ vari individui, non diversifichi siccome le loro complessioni, e questa o quella parte del corpo, così eziandio quella in che risiede l’ingegno e l’animo, cioè il cerebro, e quindi il talento e l’indole nativa e primitiva de’ vari individui, nazioni ec.

4. L’uomo, anche indipendentemente affatto dalle assuefazioni, ossia in parità di studi, di esercizi, di scienza, di pratica ec., si trova, per così dir, vario d’indole e di talento da se medesimo ancora, non solo dentro la vita, ma dentro la stessa giornata eziandio. Oggi il mio ingegno sarà svegliatissimo, la mia indole piacevolissima, domani tutto l’opposto, senz’alcuna cagione morale nè apparente, ma certo non senza cagioni fisiche, le quali diversamente affettando l’animo, lo tramutano effettivamente d’ora in ora, di giorno in giorno, di stagione in istagione (fu chi disse ch’ei si trovava più atto a comporre nel sommo caldo o nel sommo freddo che nelle medie temperature dell’anno; la mattina che la sera ec.) ec. ec. e lo ritornano nello stato di prima, ed ora lo rendono atto a una cosa, ora a un’altra, ora a più cose ora a meno, ora più ora meno atto ec. ec. Le diverse circostanze fisiche che evidentemente influiscono, cambiano, recano, tolgono, accrescono, scemano, diversificano ec. ec. le passioni o inclinazioni in uno stesso individuo, in diversi individui, in varie nazioni e climi e tempi ec. indipendentemente affatto e dalla volontà e dall’assuefazione; son tante e sì varie che infinito sarebbe il volerle enumerare e descrivere, coi loro (evidentissimi e incontrastabili) effetti.

5. Spessissimo l’ingegno è svegliato da cause fisiche manifeste ed apparenti, come un suono dolce, o penetrante, gli odori, il tabacco, il vino eccetera[a]

V. p. 3386. fine.

[Chiudi] e quel che dico dell’ingegno, dicasi delle passioni, de’ sentimenti, dell’indole ec.; e quel che dico dello svegliare, dicasi del sopire, del muovere, dell’affettare, modificare come che sia, dell’accrescere, dello sminuire, del produrre, del distruggere o per sempre o per certo tempo ec. Tutti questi effetti nei casi qui considerati, non hanno a far coll’assuefazione, e dimostrano per conseguenza che lo spirito dell’uomo può esser modificato e diversamente conformato da cause, circostanze e accidenti fisici diversi dalle assuefazioni. Così p. e. la luce è naturalmente cagione di allegria, siccome il suono, e le tenebre di malinconia; quella eccita sovente l’immaginazione, ed ispira; queste la deprimono ec. Un luogo, un appartamento, un clima chiaro e sereno, o torbido e fosco, influiscono sulla immaginativa, sull’ingegno, sull’indole degli abitanti, sieno individui o popoli, indipendentemente dall’assuefazione. Così una stagione, una giornata, un’ora nuvolosa o serena; il trovarsi per più o men tempo in un luogo qualunque oscuro o luminoso, senza però abitarvi, tutte queste circostanze fisiche, indipendenti dall’assuefazione e dalle circostanze morali, affettano, quali momentaneamente quali durevolmente, lo spirito dell’uomo, e variamente lo dispongono, e ne producono le assuefazioni, e le differenze di queste ec. ec. ec. (19. Agosto. 1823.). V. p. 3344.

[3207 - 3410]

Dimostrato che nell’idea del bello non convengono nè gli uomini naturali fra loro, nè gli spiriti incorrotti e semplici come quelli de’ fanciulli, e quindi ch’essa idea non si trova una in natura; e che d’altronde gli uomini colti, savi, esercitati, profondi, gli artisti medesimi e i poeti ec. disconvengono circa il bello, ed anche in cose essenziali, più o meno, secondo la differenza delle nazioni, climi, opinioni, assuefazioni, costumi, generi di vita, secoli; disconvengono, dico, eziandio bene spesso dove credono di convenire (perocchè tra loro non s’intendono); disconvengono tra loro, e dai fanciulli, e dagli uomini o naturali o ignoranti; e che tali differenze circa l’idea del bello, si trovano fra individuo e individuo in una stessa nazione, si trovano in un medesimo individuo in diverse età e circostanze, si trovano, e costantemente, fra nazione e nazione, clima e clima, secolo e secolo, civili e non civili; si trovano fra barbari e barbari, dotti e dotti, ignoranti e ignoranti, selvaggi e selvaggi, colti e colti, più e men barbari, più e men civili, fanciulli e fanciulli, adulti e adulti, intendenti e intendenti, artisti ed artisti, speculatori e speculatori, filosofi e filosofi; dimostrato, dico, tutto questo, come ho già fatto in molti luoghi, viene a esser provato che il bello ideale, unico, eterno, immutabile, universale, è una chimera, poichè nè la natura l’insegna o lo mostra, nè i filosofi o gli artisti l’hanno mai scoperto o lo scuoprono, a forza di osservazioni e di cognizioni, come si sono scoperte e si scuoprono le altre idee stabili e invariabili appartenenti alle scienze del vero ec. ec. (20. Agosto. 1823.).

Che quello che nella musica è melodia, cioè l’armonia successiva de’ tuoni, o vogliamo dire l’armonia nella successione de’ tuoni, sia determinata, come qualsivoglia altra armonia ovver convenienza dall’assuefazione, o da leggi arbitrarie; osservisi che le melodie musicali non dilettano i non intendenti, se non quanto la successione o successiva collegazione de’ tuoni in esse è tale, che il nostro orecchio vi sia assuefatto; cioè in quanto esse melodie o sono del tutto popolari, sicchè il popolo, udendone il principio, ne indovina il mezzo e il fine e tutto l’andamento, o s’accostano al popolare, o hanno alcuna parte popolare che al popolare si accosti. Nè altro è nelle melodie musicali il popolare, se non se una successione di tuoni alla quale gli orecchi del popolo, o degli uditori generalmente, siano per qualche modo assuefatti. E non per altra cagione riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non perchè le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire, alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo generalmente conosce ed alle quali esso è assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti popolari, o simili, ovver più simili che dagli altri compositori non s’usa, al popolare. E siccome le assuefazioni del popolo e dei non intendenti di musica, circa le varie successioni de’ tuoni, non hanno regola determinata e sono diverse in diversi luoghi e tempi, quindi accade che tali melodie popolari o simili al popolare, altrove piacciano più, altrove meno, ad altri più, ad altri meno, secondo ch’elle agli uditori riescono o troppo note e usitate; o troppo poco; o quanto conviene, colla competente novità che lasci però luogo all’assuefazione di far sentire in quelle successioni di tuoni la melodia, la qual dall’assuefazione degli orecchi è determinata. Onde una medesima melodia musicale piacerà più ad uno che ad altro individuo, più in una che in altra città, piacerà universalmente in Italia, o piacerà al popolo e non agl’intendenti, e trasportata in Francia o in Germania, non piacerà punto ad alcuno, o piacerà agl’intendenti e non al popolo; secondo che le assuefazioni di ciascheduno orecchio circa le successioni de’ tuoni, saranno più o meno o nulla conformi o affini agli elementi o membri (μέλη) che comporranno essa melodia, ovvero a quello che si chiama il motivo.

E di qui, e non d’altronde, nasce la diversità de’ gusti musicali ne’ diversi popoli. Dico ne’ popoli, e non dico negl’intendenti, i quali avendo tutti un’arte uniforme, distinta in regole, universalmente abbracciata e riconosciuta, co’ suoi principii fissi e invariabili e universali, siccome quelli di qualsivoglia altra scienza che tale è in Italia quale in Polonia, in Portogallo, in Isvezia; nel giudicare di una melodia musicale, non mirano all’orecchio, ma alle regole e a’ principii ch’essi hanno nella loro arte o scienza, cioè nel contrappunto; ed essendo esse regole e principii dappertutto gli stessi e dappertutto ugualmente riconosciuti, i giudizi che i diversi intendenti pronunziano non possono grandemente disconvenire gli uni dagli altri, e tanto meno quanto essi più sono intendenti. Ma non così de’ popoli, e de’ non intendenti, i quali non hanno altra regola e canone che l’orecchio, e questo non ha altri principii che le sue proprie assuefazioni, e non già alcuni dettati e infusi universalmente dalla natura, come si crede. E però le nostre melodie non paiono pur melodie a’ turchi a’ Cinesi nè ad altri barbari, o diversamente da noi, civili. Che se questi pure alcuna volta se ne dilettano, il diletto non nasce in loro dalla melodia, cioè dal senso della successiva armonia de’ tuoni, la quale essi non sentono nè comprendono, posto pur ch’ella fusse tra noi l’una delle più popolari; ma nasce da’ puri suoni per se, e dalla delicatezza, facilità, rapidità, volubilità del loro succedersi, mescolarsi, alternarsi (sia nella voce o in istrumenti), dalla dolcezza delle voci o degl’istrumenti, dal sonoro, dal penetrante e da simili qualità de’ medesimi, dalla soavità eziandio de’ rapporti rispettivi d’un tuono coll’altro in quanto alla facilità e alla delicatezza del passaggio da questo a quello (laddove i passaggi nelle musiche de’ barbari sono asprissimi, perchè fatti da tuoni a tuoni troppo lontani o da corde a corde troppo distanti), e insomma da cento qualità (per così dire, estrinseche) della nostra musica che nulla hanno a fare colla rispettiva scambievole armonia o convenienza de’ tuoni nella lor successione, cioè colla melodia, e col senso e gusto della medesima, che nè i turchi nè gli altri barbari, udendo la nostra musica, non provano punto mai. La qual cosa appunto, salva però la proporzione, accade ai non intendenti di musica e al popolo fra noi, quando egli odono, come tutto dì avviene, di quelle melodie che nulla o troppo poco hanno del popolare. Niun diletto ne provano, se non quello, per così dire, estrinseco, che di sopra ho descritto, e che nasce dalle qualità della musica, diverse e indipendenti dall’armonia de’ tuoni nella successione. Di queste non popolari melodie, che sono la più gran parte della nostra musica, parlerò poco sotto. E per conchiudere il discorso de’ barbari e delle nazioni che hanno circa la musica idee e gusti e sentimenti affatto diversi da’ nostri, dico che in essi, siccome fra noi, le assuefazioni determinano quali sieno le successive collegazioni de’ tuoni che sieno tenute per melodie, e le assuefazioni cagionano, siccome fra noi, il senso e il piacere d’esse melodie, quando elle sono udite. E questo, se in essi popoli, non v’ha teoria musicale, accade a tutta la nazione. Se alcun d’essi popoli ha teoria musicale, come l’hanno i Chinesi, diversa però dalla nostra, gl’intendenti fra loro hanno altra cagione che determina il loro giudizio e produce in loro il diletto circa le melodie; e questa cagione si è, come nei nostri intendenti, la conformità di quelle cotali successioni de’ tuoni co’ principii e i canoni della loro teoria o arte o scienza musicale, i quali principii e canoni essendo diversi da’ nostri, diverso eziandio dev’essere il giudizio di quegl’intendenti circa le varie, o nazionali o forestiere, melodie, da quello de’ nostri, e diverso similmente il piacere. E così è infatti nella China, dove e il popolo (che dappertutto, dovunque esiste una musica, avrebbe giudicato nello stesso modo) e gl’intendenti (il che non potrebbe avvenire nelle nazioni barbare che non hanno teoria musicale sufficientemente distinta per principii e regole, e ordinata e compiuta, come l’hanno i Chinesi), giudicarono espressamente più bella la loro musica che l’Europea, la quale i nostri, favoriti in ciò espressamente da un loro imperatore, volevano introdurvi, insieme colle nostre teorie. E ciò furono, se ben mi ricorda, i Gesuiti.

Ho detto in principio che la melodia nella musica non è determinata se non dall’assuefazione o da leggi arbitrarie. Delle melodie determinate dall’assuefazione, e che per ciò sono melodie, perchè quelle tali successioni di tuoni convengono con quelle che gli orecchi sono assuefatti a udire, ho discorso fin qui. Le melodie determinate da leggi arbitrarie, sono quelle che il popolo e i non intendenti non gustano, se non se nel modo specificato di sopra, senza nè conoscere nè sentire ch’elle sieno melodie, cioè che quei tuoni così succedendosi e intrecciandosi e alternandosi, armonizzino, cioè convengano, tra loro; quelle che pel popolo e per li non intendenti, non sono infatti melodie, ma solo per gl’intendenti; quelle che gl’intendenti soli gustano in virtù del giudizio, quali sono infiniti altri diletti umani (v. Montesquieu, Essai sur le goût. De la sensibilité. p. 392.), massime nelle arti; quelle che non sono melodie se non perchè ed in quanto corrispondono alle regole circa la successiva combinazione de’ tuoni, consegnate in una scienza o arte, non dettata dalla natura ma dalla matematica, universale e universalmente riconosciuta in Europa, come lo sono tutte le altre arti e scienze in questa parte del mondo legata insieme dal commercio e da una medesima civiltà ch’ella stessa si è fabbricata e comunicata di nazione a nazione, ma non riconosciuta fuori d’Europa nè dalle nazioni non civili, nè da quelle che hanno un’altra civiltà da esse fabbricata o d’altronde venuta; qual è sopra tutte la nazion Chinese, la quale ed ha una scienza musicale, e in essa non conviene punto con noi. Ho detto che la nostra scienza o arte musicale fu dettata dalla matematica. Doveva dire costruita. Essa scienza non nacque dalla natura, nè in essa ha il suo fondamento, come le più dell’altre; ma ebbe origine ed ha il suo fondamento in quello che alla natura somiglia e supplisce e quasi equivale, in quello ch’è giustamente chiamato seconda natura, ma che altrettanto a torto quanto facilmente e spesso è confuso e scambiato, come nel caso nostro, colla natura medesima, voglio dire nell’assuefazione. Le antiche assuefazioni de’ greci (per non rimontar più addietro, che nulla rileva al proposito) furono l’origine e il fondamento della scienza musicale da’ greci determinata, fabbricata, e a noi ne’ libri e nell’uso tramandata, dalla qual greca scienza, viene per comun consenso e confessione la nostra europea, che non è se non se una continuazione, accrescimento e perfezione di quella, siccome tante altre e scienze ed arti (anzi quasi tutte le nostre) che la moderna Europa ricevè dall’antica Grecia e perfezionò, e a molte cangiò faccia appoco appoco del tutto. La greca musica popolare, le ragioni della quale non altrove erano che nell’assuefazione (siccome quelle di qualsivoglia musica popolare), fu l’origine, il fondamento, e per così dir l’anima e l’ossatura della musica greca scientifica, e quindi altresì della nostra, che di là viene. Ma siccome accade a tutte le arti ch’elle col crescere, col perfezionarsi, col maggiormente determinarsi, si dilungano appoco appoco da ciò che fu loro origine, fondamento, subbietto primitivo e ragione, o fosse la natura o l’assuefazione o altro, e talvolta giungono fino a perderlo affatto di vista, ed esser fondamento e ragione a se stesse, il che è intervenuto in buona parte alla poetica, intervenne ancora all’arte musica[a]

Maggiormente sconvenevole però si è questo nella musica che nella poesia. Perocchè la scienza musicale, in ordine alla musica è di più basso e ben più lontano rango, che non è la poetica in ordine alla poesia. Il contrappunto è al musico quel che al poeta la grammatica. La musica non ha un’arte che risponda a quel ch’è la poetica alla poesia, la rettorica all’oratoria. Ben potrebbe averla, ma niuno ancora ha pensato a ridurre a principii e regole le cagioni degli effetti morali della musica e del diletto che da lei deriva, e i mezzi di produrli ec.

[Chiudi]. Quindi è che spessissimo sia giudicato buono ed ottimo dagl’intendenti, e perciò piaccia loro sommamente, e che sia melodia per essi, quello che dal popolo e da’ non intendenti è giudicato o mediocre o cattivo, che poco o niun effetto produce in essi, che poco o nulla gli diletta, che per essi non è assolutamente melodia: sebbene ei lodano sovente ed ammirano cotali composizioni di tuoni, o in vista delle qualità indipendenti dall’armonizzare della loro combinazione successiva, che di sopra ho descritte, o mossi dalla fama del compositore, o dalla voce degl’intendenti, o dal favore, o dal diletto altre volte ricevuto nelle composizioni del medesimo, o dalla coscienza della propria ignoranza, o dalla maraviglia delle difficoltà e stranezze che in tali composizioni ravvisano, o dalla stessa novità, benchè per essi nulla dilettevole musicalmente, o in fine da cento altre cause estrinseche e accidentali, o diverse e indipendenti dal diletto che nasce dal senso della melodia, cioè della convenienza scambievole de’ tuoni nel succedersi l’uno all’altro. E per lo contrario interviene spessissimo che quelle successioni de’ tuoni le quali per il popolo sono squisitissime, carissime, bellissime, spiccatissime e dilettosissime melodie, non ardisco dire non piacciano agli orecchi degl’intendenti, ma con tutto ciò dispiacciano al loro giudizio, e ne sieno riprovate, tanto che per essi talora non sieno neppur melodie quelle che per tutti gli orecchi e per li loro altresì, sono melodie distintissime, evidentissime, notabilissime e giocondissime. Il che si può vedere in fatto nel giudizio degl’intendenti circa il comporre di Rossini, e generalmente circa il modo della moderna composizione, la quale da tutti è sentita esser piena di melodia molto più che le antiche e classiche, e da chiunque sa è giudicata non reggere in grammatica ed essere scorrettissima e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se non perchè gl’intendenti giudicano, e giudicando sentono (cioè col fattizio, ma reale sensorio dell’intelletto e della memoria) secondo i principii e le norme della loro scienza; e i non intendenti sentono e sentendo giudicano secondo le loro assuefazioni relative al proposito. Le quali assuefazioni segue e si propone o loro si accosta il moderno modo di comporre, assai più che l’antico, ignorando o trascurando più o manco i canoni dell’arte, di che gli antichi furono peritissimi e religiosissimi osservatori.

Con queste considerazioni s’intenderà facilmente il perchè nelle melodie sia, come si dice, difficilissima e rarissima la novità, cioè solo difficilissimamente e di rado possa il Musico trovare nuove melodie. Il che mirabilmente conferma le mie osservazioni. Perocchè veramente il disporre in nuove maniere la scambievole successione de’ tuoni secondo le regole dell’arte musicale, non è punto difficile, essendo infinite le diversità di combinazioni successive sia di tuoni sia di corde (cioè generalmente di note) a cui esse regole danno luogo. Ma limitatissime e poche, e non più assolutamente che tante, sono le assuefazioni de’ nostri orecchi; ond’è che pochissime sieno quelle combinazioni successive di tuoni (dico pochissime rispetto all’immenso numero d’esse combinazioni assolutamente considerate) che possano parer melodie all’universale, o al più di una nazione o secolo, e produrre in esso il diletto che nasce dal senso della melodia. Ed infatti nuove melodie, che tali sieno per gl’intendenti e rispetto all’arte, non sono in verità punto rare, nè difficili a inventarsi, e di esse si compone la massima parte di qualsivoglia opera musicale, non solo antica e classica, ma moderna italiana eziandio, benchè le moderne italiane abbiano, come ho detto, più melodia popolare che le antiche e straniere; cioè maggiormente seguano le assuefazioni de’ nostri orecchi, ed un più gran numero delle loro melodie contraffacciano o imitino, o in tutto o in qualche parte o nel motivo somiglino le successioni di tuoni e note, a cui sono assuefatti generalmente gli uditori. E in verità, se non fosse la memoria, che anche involontariamente e inavvertitamente subentra a pigliar parte nella composizione, più difficile sarebbe forse al compositore l’abbattersi a trovar melodie non popolari già da altri trovate, che non il trovarne delle nuove, conformi alle regole musicali.

Certo è che la principale, anzi la vera arte degl’inventori di musica, e il vero, proprio musicale, e grande effetto delle loro invenzioni, allora solo si manifesta ed ha luogo quando le loro melodie son tali che il popolo e generalmente tutti gli uditori ne sieno colpiti e maravigliati come di melodia nuova, e nel tempo medesimo, per essere in verità assuefatti a quelle tali successioni di tuoni, sentano al primo tratto ch’ella è melodia. Il qual effetto, proprio, anzi solo proprio della vera vera musica, e solo grande, solo vivo, solo universale, non altrimenti si ottiene che coll’adornare, abbellire, giudiziosamente e fino al debito segno variare, nobilitare per dir così, nuovamente fra loro congiungere e disporre, presentare sotto un nuovo aspetto le melodie assolutamente e formalmente popolari, e tolte dal volgo, e le varie e sparse forme di successioni di note, che gli orecchi generalmente conoscono, e vi sono assuefatti. Non altrimenti che il poeta, l’arte del quale non consiste già principalmente nell’inventar cose affatto ignote e strane e a tutti inaudite, o nello sceglier le cose meno divulgate, anzi ciò facendo egli più tosto pecca e perde e toglie all’effetto della poesia, di quel che gli aggiunga; ma l’arte sua è di scegliere tra le cose note le più belle, nuovamente e armoniosamente, cioè fra loro convenientemente, disporre le cose divulgate e adattate alla capacità dei più, nuovamente vestirle, adornarle, abbellirle, coll’armonia del verso, colle metafore, con ogni altro splendore dello stile; dar lume e nobiltà alle cose oscure ed ignobili; novità alle comuni; cambiar aspetto, quasi per magico incanto, a che che sia che gli venga alle mani; pigliare v. g. i personaggi dalla natura, e farli naturalmente parlare, e nondimeno in modo che il lettore riconoscendo in quel linguaggio il linguaggio ch’egli è solito di sentire dalle simili persone nelle simili circostanze, lo trovi pur nel medesimo tempo, nuovo e più bello, senz’alcuna comparazione, dell’ordinario, per gli adornamenti poetici, e il nuovo stile, e insomma la nuova forma e il nuovo corpo di ch’egli è vestito. Tale è l’officio del poeta, e tale nè più nè meno del Musico. Ma siccome la poesia bene spesso, lasciata la natura, si rivolse per amore di novità e per isfoggio di fantasia e di facoltà creatrice, a sue proprie e stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò più alle regole e a’ principii che l’erano stati assegnati, di quello che al suo fondamento ed anima ch’è la natura; anzi lasciata affatto questa, che aveva ad essere l’unico suo modello, non altro modello riconobbe e adoperò che le sue proprie regole, e su d’esso modello gittò mille assurde e mostruose o misere e grette opere; laonde abbandonato l’officio suo ch’è il sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una o per altra parte, di quell’effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di produrre e di proccurare; così l’arte musica nata per abbellire, innovare decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare, simmetrizzare o proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare insomma le melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi domestiche; com’ella ebbe assai regole e principii, e d’altronde s’invaghì soverchiamente della novità, e dell’ambiziosa creazione e invenzione, non mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in mano le melodie popolari per su di esse esercitarsi, e farne sua materia, come doveva per proprio istituto; si rivolse alle sue regole, e su questo modello, senz’altro, gittò le sue composizioni nuove veramente e strane: con che ella venne a perdere quell’effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch’ella doveva proporsi per suo proprio fine, e ch’ella da principio otteneva, quando cioè lo cercava, o quando coi debiti e appropriati mezzi lo proccurava.

Perocchè io non dubito che i mirabili effetti che si leggono aver prodotto la musica e le melodie greche sì ne’ popoli, ossia in interi uditorii, sì negli eserciti, siccome quelle di Tirteo, sì ne’ privati, come in Alessandro; effetti tanto superiori a quelli che l’odierna musica non solo produca, ma sembri pure, assolutamente parlando, capace di mai poter produrre; effetti che necessitavano i magistrati i governi i legislatori a pigliar provvidenze e fare regolamenti e quando ordini, quando divieti, intorno alla musica, come a cosa di Stato (v. il Viag. d’Anacarsi, Cap. 27. trattenimento secondo); (e parlo qui degli effetti della musica greca che si leggono nelle storie e avvenuti fra’ greci civili, non di que’ che s’hanno nelle favole, accaduti a’ tempi salvatichi); non dubito, dico, che questi effetti, e la superiorità della greca musica sulla moderna, che pur quanto a’ principii ed alle regole, dalla greca deriva, non venga da questo, ch’essendo fra’ greci l’arte musicale, sebbene adulta, pur tuttavia ancora scarsa, non offriva ancora abbastanza al compositore da coniare o inventar di pianta nuove melodie che niun’altra ragione avessero di esser tali se non le regole sole dell’arte; nè da poter gittarne sopra queste regole unicamente, o sopra le forme e melodie musicali da altri inventate di pianta, delle quali non poteva ancora avervi così gran copia, come ve n’ha tra’ moderni. Ma quel ch’è più, l’arte, sebben cominciò anche tra’ greci a corrompersi e declinare da’ suoi principii, e da’ suoi propri obbietti o fini e instituti, anzi molto avanzò nella corruzione (v. Viag. d’Anac. i. c.), non giunse tuttavia di gran lunga ad allontanarsi tanto come tra noi, e così decisamente e costantemente, dalla sua prima origine, dal primo fondamento e ragione delle sue regole, dalla prima materia delle sue composizioni, cioè le popolari melodie; nè a dimenticare, come oggi, impudentemente e totalmente il suo primo e proprio fine, cioè di dilettare e muovere l’universale degli uditori ed il popolo; nè, molto meno, giunse a rinunziar quasi interamente e formalmente a questo fine, e scambiarlo apertamente in quello di dilettare, o maravigliare, o costringere a lodare e applaudire una sola e sempre scarsissima classe di persone, cioè quella degl’intendenti: il quale per verità è il fine che realmente si propone la musica tedesca, inutile a tutti fuori che agl’intendenti, e non già superficiali, ma ben profondi. Non fu così la Musica greca. E in questo ravvicinamento della moderna musica al popolare, ravvicinamento così biasimato dagl’intendenti, e che sarà forse cattivo per il modo, ma in quanto ravvicinamento al popolare è non solo buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica; in questo ravvicinamento, dico, vediamo quanto l’effetto della musica abbia guadagnato e in estensione, cioè nella universalità, e in vivezza, cioè nel maggior diletto, ed anche talor maggior commovimento degli animi. Che se in niuna parte, e meno in quest’ultima, gli effetti della moderna musica sono per anche paragonabili a quelli che si leggono della greca, è da considerarsi che l’uomo oggidì è disposto in modo da non lasciarsi mai veementemente muovere a nessuna parte; che analogamente a questa generale disposizione, neanche le melodie assolutamente popolari d’oggidì, son tali nè di tal natura che possano facilmente ricevere dal compositore una forma da produrre in veruno animo un più che tanto effetto; e che in ultimo i compositori non iscelgono nè quelle melodie popolari o parti di esse che meglio si adatterebbero alla forza e profondità dell’effetto, nè in quelle che scelgono, ci adoprano quei mezzi che si richieggono a produrre un effetto simile, nè così le lavorano e dispongono come converrebbe per tal uopo: e ciò non fanno perchè nol vogliono e perchè nol sanno. Nol sanno perchè privi essi medesimi d’ispirazione veramente sublime e divina, e di sentimenti forti e profondi nel comporre in qualsiasi genere, non possono nè scegliere nè usar lo scelto in modo da produr negli uditori queste siffatte sensazioni ch’essi mai non provarono nè proveranno. Nol vogliono, perchè appunto non conoscendo tali sensazioni, nulla o ben poco le stimano, nè altro fine si propongono che il diletto superficiale e il grattar gli orecchi, al che di gran lunga pospongono le grandi e nobili e forti emozioni, di cui mai non fecero esperimento. Ma che maraviglia? quando gli antichi musici erano i poeti, quegli stessi che per la sublimità de’ concetti, per la eleganza e grandezza dello spirito brillano nelle carte che di loro ci rimangono, o perdute queste coi ritmi da loro inventati e applicativi, vivono immortali i loro nomi nella memoria degli uomini, e ciò talora eziandio per egregi e magnanimi fatti? E quando all’incontro i moderni musici, stante le circostanze della loro vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo, sono per corruzione, per delizie, per mollezza e bassezza d’animo il peggio del peggior secolo che nelle storie si conti? la feccia della feccia delle generazioni? Da vita, opinioni e costumi vili, adulatorii, dissipati, effeminati, infingardi, come può nascer concetto alto, nobile, generoso, profondo, virile, energico? Ma questo discorso porterebbe troppo innanzi, e condurrebbe necessariamente al parallelo della musica e de’ musici colle altre arti e loro professori, a quello della moderna musica coll’antica, e delle moderne usanze colle antiche relative al proposito; e finalmente a trattare della funesta separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quello di poeta, attributi anticamente, e secondo la primitiva natura di tali arti, indivise e indivisibili (v. il Viag. d’Anac. i. c. particolarmente l’ult. nota al c. 27.). Il qual discorso da molti è stato fatto, e qui non sarebbe che digressione. Però lo tralascio.

Tornando al nostro primo proposito, il qual fu di mostrare che l’armonia o convenienza scambievole de’ tuoni nelle loro combinazioni successive, è determinata, siccome ogni altra convenienza, dall’assuefazione; si vuol notare che quest’assuefazione in fatto di melodie (come anche di armonie) non è sempre αὐτόματος del popolo, ma bene spesso in lui prodotta e originata dalla stessa arte musica. Perocchè a forza di udir musiche e cantilene composte per arte, (il che a tutti più o meno accade) anche i non intendenti, anzi affatto ignari della scienza musicale, assuefanno l’orecchio a quelle successioni di tuoni che naturalmente essi non avrebbero nè conosciute nè giudicate per armoniose (o ch’elle sieno inventate di pianta dagli uomini dell’arte, o da loro fabbricate sulle melodie popolari, e di là originate); in virtù della quale assuefazione essi giungono appoco appoco e senza avvedersi del loro progresso, a trovare armoniose tali successioni, a sentirvi una melodia, e quindi a provarvi un diletto sempre maggiore, e a formarsi circa le melodie una più capace, più varia, più estesa facoltà di giudicare, la qual facoltà, che in altri arriva a maggiore in altri a minor grado, è poi per essi cagione del diletto che provano nell’udir musiche; giudizio e diletto determinato, dettato, e cagionato, non già dalla natura primitiva e universale, ma dall’assuefazione accidentale e varia secondo i tempi, i luoghi e le nazioni. Io di me posso accertare che nel mio primo udir musiche (il che molto tardi incominciai) io trovava affatto sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche, e nell’udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della melodia.

Nè più nè meno accade nella pittura, scultura, architettura. Senz’alcuna cognizione della teoria, nè della pratica immediata dell’arte, a forza di veder dipinti, statue, edifizi, moltissimi si formano un giudizio, e una facoltà di gustare e di provar piacere in tal vista, e nella considerazione di tali oggetti, la qual facoltà non aveano per l’innanzi, e si acquista appoco appoco per mezzo dell’assuefazione, la quale determina in questi tali (e sono i più che parlino di belle arti) l’idea delle convenienze pittoriche ec. del bello ec. e quindi anche del brutto ec., col divario che il soggetto della pittura e scultura si è l’imitazione degli oggetti visibili, della quale ognun vede la verità o la falsità, onde le idee del bello e del brutto pittorico e scultorio, in quanto queste arti sono imitative, è già determinata in ciascheduno prima dell’assuefazione Non così nell’architettura e nella musica, meno imitative, e questa imitativa di cose non visibili ec. Così discorrasi in ordine alla poesia, ed al gusto e giudizio che l’uomo se ne forma e n’acquista, ec.

Nel detto modo si formano i mezzi-intendenti, più o meno capaci di giudicare e quindi di provar diletto nelle composizioni musicali, cioè che più o meno hanno udito e riflettuto in questo genere e postovi attenzione. I quali mezzi-intendenti costituiscono la massima parte di quelli che parlano di musica e di quel pubblico che dà espressamente il suo voto circa le composizioni musicali che compariscono, giacchè i periti veramente della scienza musica e conoscitori di essa per elementi e regole, sono ben pochi rispetto al pubblico.

Or dunque molte che si chiamano melodie popolari, hanno il loro fondamento nell’assuefazione de’ mezzi-intendenti, o del popolo in quanto assuefatto a udir musiche. E delle composizioni successive di note, altre riescono melodie a tutti gli orecchi, altre a quelli di chiunque è pure un poco intendente (cioè assuefatto), altre ai mezzi-intendenti più avanzati, altre ai soli veri e perfetti intendenti, ed altre a questi più a quelli meno, o viceversa, eccetera. E così il giudizio e il senso della melodia sempre nasce e dipende ed è determinato dall’assuefazione, o dalla cognizione di leggi che non hanno la loro ragione nella natura universale, ma nell’accidentale e particolare uso presente o passato, e in altre tali cose, le quali leggi ho chiamato di sopra arbitrarie.

E tutto ciò sia aggiunto per ispiegare e distinguere e quasi classificare quello ch’io intenda per popolare nella musica, per melodia popolare, e per assuefazione degli orecchi determinante la scambievole convenienza delle note nella loro scambievole successione e collegamento.

Del resto poi le assuefazioni che di sopra ho chiamato αὐτόματοι del popolo, (voglio dire dell’universale) nascono ed hanno origine da varie cagioni, e fra l’altre dalla natura, indipendentemente però da veruna naturale convenienza scambievole di quali si sieno tuoni, ma solo in tanto in quanto p. e. certe passioni naturalmente e universalmente amano certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono a un tal altro. La qual cosa che nulla ha che fare coll’assoluta convenienza di tal tuono a tal tuono, (perocchè qui la ragione della convenienza de’ tuoni non istà nella natura loro, nè nei loro naturali rapporti, ma è relativa alla natura dell’uomo che indipendentemente dalla convenienza, ama in quel tal caso quel tuono e quel passaggio) fu l’origine delle melodie, le quali furono da principio, siccome sempre avrebbero dovuto e dovrebbero essere, imitative; bensì tali che abbellivano ed ornavano e variavano la natura, colla scelta, colla disposizione, coll’atta mescolanza e congiungimento, e di più colla delicatezza, grazia, mobilità ec. degli organi o naturali (coltivati ed esercitati), o artifiziali inventati e perfezionati. Nè più nè manco di quello che le poesie debbano, imitandola ornare, abbellire, variare e mostrar sotto nuovo abito la natura. Veggasi a questo proposito la citata nota ultima al Capo 27. del Viag. d’Anac. e quello che altrove ho detto sopra l’imitativo della musica, e sopra quella convenienza musicale che ha nella imitazione sola la sua ragione ed origine.

E notisi che se nulla v’ha nella musica, sia nell’armonia sia nella melodia, che universalmente da tutti i popoli civili e barbari sia riconosciuto e praticato, o che in tutti faccia effetto; ciò si dee riferire alla natura operante nel modo detto di sopra, o in altri che si potrebbero dire, operante prima dell’assuefazione e indipendentemente da lei, ma indipendentemente altresì dalla convenienza e senz’alcuna relazione all’armonia. Oltre all’altre cagioni di universale effetto nella musica, indipendenti pure dalla convenienza, parte delle quali ho annoverate di sopra p. 3211. sg., parte altrove, parte potrei annoverare. (20-21. Agos. 1823.).

Alla p. 2998. ult. linea. Crepo is ui itum sarebbe come strepo is ui itum, da cui strepitare, come appunto da crepo as o is, crepitare. E crepo as riterrebbe o torrebbe in prestito il perfetto e il supino di crepo is, cioè crepui, itum, come appunto accubo ec. quelli di accumbo ec. cioè accubui itum. Profligo as è da fligo is, onde affligo is, confligo is ec. che hanno i continuativi afflicto, conflicto ec. fatti regolarmente da’ participii. V. Forc. in Profligo e proflictus. (22. Agos. 1823.). V. p. 3246. e 3341. 3987.

Saluto as si deriva da salus. Ma io l’ho in forte sospetto di continuativo fatto da salveo-salvitus (antico), mutato in salutus, ovvero da salvo, mutato il part. salvatus parimente in salutus. (V. Forc. in saluto, fin. e in Salvo). Giacchè spessissimo la lingua latina, massime antica, scambiava tra loro l’u e il v, mutando questo in quello, o per lo contrario. Così lavo ne’ composti diviene luo: ed ablutus si dice in luogo di ablavatus. Così lautus per lavatus, fautam per favitum. A questo proposito noterò il continuativo lavito. Forcell. Cerebrum in fine. E commentor e commento, a particip. commentus verbi comminiscor (forse anche comminisco), dice il Forcell; e notate che qui non dice dal supino, cioè da commentum, come suole. (22. Agos. 1823.).

Platone nel Sofista verso il fine, ediz. dell’Astio, Opp. di Plat. Lips. 1819. sgg. t. 2. p. 362. v. 2. sgg. A. penult. pagina del Dialogo. Πόθεν οὗν ὄνομα ἑκατέρῳ τις ἂν λὴψεται πρέπον;; ἢ δῆλον δὴ χαλεπὸν ὄν, διότι τῆς τῶν γενῶν κατ' εἴδη διαιρέσεως παλαιά τις, ὡς ἔοικεν, αἰτία (ἴς. ἀηδία.. Ast.) τοῖς ἔμπροσθεν καὶ ἀξύννους παρῆν, ὥστε μηδ' ἐπιχειρεῖν μηδένα διαιρεῖσθαι· καθὸ δὴ τῶν ὀνομάτων ἀνάγκη μὴ σφόδρα εὐπορεῖν ; Unde iam nomen utrique eorum quisquam arripiet conveniens? an dubium non est quin difficile sit, propterea quod ad generum in species distributionem vetustam quandam, ut videtur, et inconsideratam superiores habebant offensionem atque fastidium, ita ut ne conaretur quidem ullus dividere; quocirca etiam nomina non satis nobis possunt in promptu esse? Astius. Vuol dir Platone e si lagna, che gli antichi greci (e così tutti gli antichi d’ogni nazione) ebbero poche idee elementari, onde la loro lingua (e così tutte le lingue fino a una perfetta maturità e coltura, e fino che la nazione non filosofa) mancava di termini esatti, e sufficienti ai bisogni del dialettico massimamente e del metafisico. Ond’è che Platone il quale volle sottilmente filosofare, ed esercitare l’esatto raziocinio, e considerare profondamente la natura delle cose, fu arditissimo nel formare de’ termini di questa fatta, ed abbonda sommamente di voci nuove e sue proprie, esatte e logiche ovvero ontologiche[a]

Vedi la pref. di Timeo al suo Lessico Platonico appo il Fabric. B. G. edit. vet. 9.419.

[Chiudi], che da niuno altro si trovano adoperate, o che da’ suoi scritti furono tolte. E notisi che Platone faceva questa lagnanza della sua lingua, la più ricca, la più feconda, la più facile a produrre, la più libera, la più avvezza e meno intollerante di novità, ed oltre a questo, nel più florido, perfetto ed aureo secolo d’essa lingua, e quasi ancora nel più libero e creatore. Nondimeno a Platone parve scarsa a’ bisogni dell’esatto filosofare la stessa lingua greca nel suo miglior tempo, e trattando materie sottili egli ebbe bisogno di parere ardito agli stessi greci in quel secolo, e di fare scusa e addur la ragione del suo coniar nuove voci. Nè certo si dirà che Platone le coniasse o per trascuratezza e poco amore della purità ed eleganza della lingua, di ch’egli è fra gli Attici il precipuo modello, nè per ignoranza d’essa lingua, e povertà di voci derivante da questa ignoranza. (22. Agos. 1823.).

Chiunque esamina la natura delle cose colla pura ragione, senz’aiutarsi dell’immaginazione nè del sentimento, nè dar loro alcun luogo, ch’è il procedere di molti tedeschi[a]

Così anche parecchi inglesi, e generalmente tutti coloro che non sono assuefatti e non conoscono altro che studi e cose esatte. Ma certo è che di tali filosofi, metafisici, politici-matematici, ed aridi, ve n’ha più copia fra’ ted.i e dipoi fra gl’ingl. i che altrove, come in Francia o in Italia.

[Chiudi] nella filosofia, come dire nella metafisica e nella politica, potrà ben quello che suona il vocabolo analizzare, cioè risolvere e disfar la natura, ma e’ non potrà mai ricomporla, voglio dire e’ non potrà mai dalle sue osservazioni e dalla sua analisi tirare una grande e generale conseguenza, nè stringere e condurre le dette osservazioni in un gran risultato; e facendolo, come non lasciano di farlo, s’inganneranno; e così veramente loro interviene. Io voglio anche supporre ch’egli arrivino colla loro analisi fino a scomporre e risolvere la natura ne’ suoi menomi ed ultimi elementi, e ch’egli ottengano di conoscere ciascuna da se tutte le parti della natura. Ma il tutto di essa, il fine e il rapporto scambievole di esse parti tra loro, e di ciascuna verso il tutto, lo scopo di questo tutto, e l’intenzion vera e profonda della natura, quel ch’ella ha destinato, la cagione (lasciamo ora star l’efficiente) la cagion finale del suo essere e del suo esser tale, il perchè ella abbia così disposto e così formato le sue parti, nella cognizione delle quali cose dee consistere lo scopo del filosofo, e intorno alle quali si aggirano insomma tutte le verità generali veramente grandi e importanti, queste cose, dico, è impossibile il ritrovarle e l’intenderle a chiunque colla sola ragione analizza ed esamina la natura. La natura così analizzata non differisce punto da un corpo morto. Ora supponghiamo che noi fossimo animali di specie diversa dalla nostra, anzi di natura diversa dalla general natura degli animali che conosciamo, e nondimeno fossimo, siccome siamo, dotati d’intendimento. Se non avendo noi mai veduto nè uomo alcuno nè animale di quelli che realmente esistono, e niuna notizia avendone, ci fosse portato innanzi un corpo umano morto, e notomizzandolo noi giungessimo a conoscerne a una a una tutte le più menome parti, e chimicamente decomponendolo, arrivassimo a scoprirne ciascuno ultimo elemento; perciò forse potremmo noi conoscere, intendere, ritrovare, concepire qual fosse il destino, l’azione le funzioni le virtù le forze ec., di ciascheduna parte d’esso corpo rispetto a se stesse, all’altre parti ed al tutto, quale lo scopo e l’oggetto di quella disposizione e di quel tal ordine che in esse patti scorgeremmo, e osserveremmo pure co’ propri occhi, e colle proprie mani tratteremmo; quali gli effetti particolari e l’effetto generale e complessivo di esso ordine, e del tutto di esso corpo; quale il fine di questo tutto; quale insomma e che cosa la vita dell’uomo; anzi se quel corpo fosse mai e dovesse esser vissuto; anzi pure, se dalla nostra stessa vita non l’arguissimo, o se alcuno potesse intendere senza vivere, concepiremmo noi e ritrarremmo in alcun modo dalla piena e perfetta e analitica ed elementare cognizione di quel corpo morto, l’idea della vita? o vogliamo solamente dire l’idea di quel corpo vivo? e intenderemmo noi quale e che cosa fosse l’uomo vivente, e il suo modo di vivere esteriore o interiore? Io credo che tutti sieno per rispondere che niuna di queste cose intenderemmo; che volendole congetturare, andremmo le mille miglia lontani dal vero, o sarebbe a scommetter millioni contro uno che di nulla mai, neanche facendo un milione di congetture, ci apporremmo; finalmente ch’egli sarebbe cosa probabilissima, ch’esaminato e conosciuto quel corpo morto, in questa conoscenza ci fermassimo, e neppur ci venisse in sospetto ch’ei fosse mai stato altro, nè fosse mai stato destinato ad esser altro che quel che noi lo vedremmo, e tale qual noi lo vedremmo, nè della sua passata vita nè dell’uom vivo, ci sorgerebbe in capo la più menoma conghiettura.

Applicando questa similitudine al mio proposito dico che scoprire ed intendere qual sia la natura viva, quale il modo, quali le cagioni e gli effetti, quali gli andamenti e i processi, quale il fine o i fini, le intenzioni, i destini della vita della natura o delle cose, quale la vera destinazione del loro essere, quale insomma lo spirito della natura, colla semplice conoscenza, per dir così, del suo corpo, e coll’analisi esatta, minuziosa, materiale delle sue parti anche morali, non si può, dico, con questi soli mezzi, scoprire nè intendere, nè felicemente o anche pur probabilmente congetturare. Si può con certezza affermare che la natura, e vogliamo dire l’università delle cose, è composta, conformata e ordinata ad un effetto poetico, o vogliamo dire disposta e destinatamente ordinata a produrre un effetto poetico generale; ed altri ancora particolari; relativamente al tutto, o a questa o quella parte. Nulla di poetico si scorge nelle sue parti, separandole l’una dall’altra, ed esaminandole a una a una col semplice lume della ragione esatta e geometrica: nulla di poetico ne’ suoi mezzi, nelle sue forze e molle interiori o esteriori, ne’ suoi processi in questo modo disgregati e considerati: nulla nella natura decomposta e risoluta, e quasi fredda, morta, esangue, immobile, giacente, per così dire, sotto il coltello anatomico, o introdotta nel fornello chimico di un metafisico che niun altro mezzo, niun altro istrumento, niun’altra forza o agente impiega nelle sue speculazioni, ne’ suoi esami e indagini, nelle sue operazioni e, come dire, esperimenti, se non la pura e fredda ragione. Nulla di poetico poterono nè potranno mai scoprire la pura e semplice ragione e la matematica. Perocchè tutto ciò ch’è poetico si sente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire, sentendolo si conosce e s’intende, nè altrimenti può esser conosciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all’immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose; ed elle il possono, perocchè noi ne’ quali risiedono esse facoltà, siamo pur parte di questa natura e di questa università ch’esaminiamo; e queste facoltà nostre sono esse sole in armonia col poetico ch’è nella natura; la ragione non lo è; onde quelle sono molte più atte e potenti a indovinar la natura che non è la ragione a scoprirla. E siccome alla sola immaginazione ed al cuore spetta il sentire e quindi conoscere ciò ch’è poetico, però ad essi soli è possibile ed appartiene l’entrare e il penetrare addentro ne’ grandi misteri della vita, dei destini, delle intenzioni sì generali, sì anche particolari, della natura. Essi solo possono meno imperfettamente contemplare, conoscere, abbracciare, comprendere il tutto della natura, il suo modo di essere di operare, di vivere, i suoi generali e grandi effetti, i suoi fini. Essi pronunziando o congetturando sopra queste cose, sono meno soggetti ad errare, e soli capaci di apporsi talora al vero o di accostarsegli. Essi soli sono atti a concepire, creare, formare, perfezionare un sistema filosofico, metafisico, politico che abbia il meno possibile di falso, o, se non altro, il più possibile di simile al vero, e il meno possibile di assurdo, d’improbabile, di stravagante. Per essi gli uomini convengono tra loro nelle materie speculative e in molti punti astratti, assai più che per la ragione, al contrario di quel che parrebbe dover succedere; perocchè egli è certissimo che gli uomini discorrendo o conghietturando per via di semplice ragione, discordano per lo più tra loro infinitamente, s’allontanano le mille miglia gli uni dagli altri, e pigliano e seguono tutt’altri sentieri; laddove discorrendo per via di sentimento e d’immaginazione, gli uomini, le diversissime classi di essi, le nazioni, i secoli, bene spesso, e costantemente, convengono del tutto fra loro, come si può vedere in moltissime proposizioni (sistemi) ed anche pùre supposizioni, dall’immaginativa e dal cuore o trovate o formate, e da essi soli derivate e autorizzate, e in essi soli fondate, le quali furono sempre e sono tuttavia ammesse e tenute da tutte o da quasi tutte le nazioni in tutti i tempi, e dall’universale degli uomini avute, anche oggidì, per verità indubitabili, e da’ sapienti, quando non altro, per più verisimili e più universalmente accettabili che alcun’altra sul rispettivo proposito. Il che forse di niuna ipotesi (generale o particolare, cioè costituente sistema, o no ec.) dettata dalla pura ragione e dal puro raziocinio, si vedrà essere intervenuto nè intervenire. Finalmente la sola immaginazione ed il cuore, e le passioni stesse; o la ragione non altrimenti che colla loro efficace intervenzione, hanno scoperto e insegnato e confermato le più grandi, più generali, più sublimi, profonde, fondamentali, e più importanti verità filosofiche che si posseggano, e rivelato o dichiarato i più grandi, alti, intimi misteri che si conoscano, della natura e delle cose, come altrove ho diffusamente esposto. (22. Agos. 1823.).

In conferma del sopraddetto si osservi che i più profondi filosofi, i più penetranti indagatori del vero, e quelli di più vasto colpo d’occhio, furono espressamente notabili e singolari anche per la facoltà dell’immaginazione e del cuore, si distinsero per una vena e per un genio decisamente poetico, ne diedero ancora insigni prove o cogli scritti o colle azioni o coi patimenti della vita che dalla immaginazione e dalla sensibilità derivano, o con tutte queste cose insieme. Fra gli antichi Platone, il più profondo, più vasto, più sublime filosofo di tutti essi antichi che ardì concepire un sistema il quale abbracciasse tutta l’esistenza, e rendesse ragione di tutta la natura, fu nel suo stile nelle sue invenzioni ec. così poeta come tutti sanno. V. il Fabric. in Platone. Fra’ moderni Cartesio, Pascal, quasi pazzo per la forza della fantasia sulla fine della sua vita; Rousseau, Mad. di Staël ec. (23. Agosto, udita la morte del Papa Pio VII. che fu a’ 20. di questo. 1823.).

A quei pochi monosillabi latini da me altrove raccolti, aggiungi pax, voce ch’esprime una cosa che dovette esser delle prime o delle più antiche nominate; onde pacare, pacisci, pactum ec. Il greco corrispondente è trisillabo: εἰρήνη [a]

Similm. dicasi di nex, onde neco, eneco ec.

[Chiudi]. (23. Agos. 1823.).

Alla p. 3235. Placeo es — placo as. Placeo ha pur Placito as. Notisi che questo placo viene da un verbo della seconda maniera, non della 3.a Convivo is — convivo as e convivor-aris. Convitare, e combidar (franc. convier), quasi convictare è un regolar continuativo di convivo is — convictus. Quando però non fosse o una corruzione, o piuttosto un fratello (comune, come vedete, a tutte le tre lingue figlie), d’invito as, il qual verbo donde viene? forse da vita? o forse è un continuativo dell’anomalo continuativo inviso is — invisus, quasi invisare, mutata la s in t, come non di rado si scambiano queste lettere ne’ participii (fixus — fictus etc.), o è una diversa inflessione d’inviso is medesimo, e più regolare? Del resto, se non convivo is, certo il suo semplice vivo is, ha forse il regolare continuativo victo as, e senza dubbio il frequentativo victito. Vedi poi il Glossario, se ha nulla in proposito per le suddette cose. (23. Agos. 1823.). V. p. 3289.

È cosa nota che le favelle degli uomini variano secondo i climi. Cosa osservata dev’essere altresì che le differenze de’ caratteri delle favelle corrispondono alle differenze de’ caratteri delle pronunzie ossia del suono di ciascuna favella generalmente considerato: onde una lingua di suono aspro ha un carattere e un genio austero, una lingua di suono dolce ha un carattere e un genio molle e delicato; una lingua ancora rozza ha e pronunzia ed andamento rozzo, e civilizzandosi, raddolcendosi e ripulendosi il carattere della lingua e della dicitura, raffinandosi, divenendo regolare, e perfezionandosi essa lingua, se ne dirozza e raddolcisce e mitigasi e si ammollisce eziandio la generale pronunzia ed il suono. Dev’esser parimente osservato, che siccome il carattere della lingua al carattere della pronunzia, così i caratteri delle pronunzie corrispondono alle nature dei climi, e quindi alle qualità fisiche degli uomini che vivono in essi climi, e alle lor qualità morali che dalle fisiche procedono e lor corrispondono. Onde ne’ climi settentrionali, dove gli uomini indurati dal freddo, da’ patimenti, e dalle fatiche di provvedere a’ propri bisogni in terre naturalmente sterili e sotto un cielo iniquo, e fortificati ancora dalla fredda temperatura dell’aria, sono più che altrove robusti di corpo, e coraggiosi d’animo, e pronti di mano, le pronunzie sono più che altrove forti ed energiche, e richiedono un grande spirito, siccome è quella della lingua tedesca piena d’aspirazioni, e che a pronunziarla par che richiegga tanto fiato quant’altri può avere in petto, onde a noi italiani, udendola da’ nazionali, par ch’e’ facciano grande fatica a parlarla, o gran forza di petto ci adoprino. Per lo contrario accade nelle lingue de’ climi meridionali, dove gli uomini sono per natura molli e inchinati alla pigrizia e all’oziosità, e d’animo dolce, e vago de’ piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond’egli è proprio carattere della pronunzia non meno che della lingua p. e. tedesca, la forza, e dell’italiana la dolcezza e delicatezza. E poste nelle lingue queste proprietà rispettive dell’una lingua all’altra, ne segue che anche assolutamente, e considerando ciascuna lingua da se, nella lingua p. e. italiana, sia pregio la delicatezza e dolcezza, onde lo scrittore o il parlatore italiano appo cui la lingua (sia nello stile, sia nella combinazione delle voci, sia nella pronunzia) è più delicata e più dolce che appo gli altri italiani (salvo che queste qualità non passino i confini che in tutte le cose dividono il giusto dal troppo, sia per rispetto alla stessa lingua in genere, sia in ordine alla materia trattata), più si loda che gli altri italiani, appunto perocchè la lingua italiana nella dolcezza e delicatezza avanza l’altre lingue. Ma per lo contrario fra’ tedeschi dovrà maggiormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui la lingua riesca più forte che appo gli altri tedeschi, perocchè la lingua tedesca supera l’altre nella forza, e suo carattere è la forza, non la dolcezza: nè la dolcezza è pregio per se, neppur nella lingua italiana, ma in essa, considerandola rispetto alle altre lingue, è qualità non pregio, e nello scrittore o parlatore italiano è pregio, non in quanto dolcezza, ma in quanto propria e caratteristica della lingua italiana. Così civilizzandosi le nazioni, e divenendo, rispetto alle primitive, delicate di corpo, divenne altresì pregio negl’individui umani la maggior delicatezza delle forme, non perchè la delicatezza sia pregio per se; che anzi la rispettiva delicatezza delle forme era certamente biasimo, e tenuto per difetto, o per causa di minor pregio d’esse forme, appo gli uomini primitivi; ma solo perchè la delicatezza fisica oggidì, contro le leggi della natura, e contro il vero ben essere e il destino dell’umana vita, è fatta propria e caratteristica delle nazioni e persone civili[a]

Puoi vedere le pagg. 3084-90.

[Chiudi]. Laonde ben s’ingannarono quei tedeschi (ripresi da Mad. di Staël nell’Alemagna) che cercarono di raddolcire la loro lingua, credendo farsi tanto più pregevoli degli altri tedeschi quanto più dolcemente di loro la parlassero e scrivessero, e che la dolcezza, proccurandola alla lingua tedesca, le avesse ad esser pregio, contro la natura, e contro il carattere della lingua, il quale è la forza, e tanta forza richiede nello scrittore e nel parlatore, quanta possa non varcare i confini prescritti dalla qualità d’essa lingua, e da quella delle particolari materie in essa trattate; ed esclude, colle medesime condizioni, la dolcezza, come vizio nella lingua tedesca e non pregio, perchè opposta alla sua natura.

Tornando al proposito debbono esser, come ho detto, cose osservate queste proporzioni che passano tra le diverse nature dei climi e i diversi caratteri delle rispettive pronunzie e geni delle rispettive lingue, ed altresì il modo di queste proporzioni, cioè il modo in che il clima opera sulle favelle, e da quali proprietà del clima quali proprietà derivino alle pronunzie e alle lingue. Ma forse non sarà stato egualmente notato che trovandosi in un medesimo clima e paese essere stati in diversi tempi diversi caratteri di pronunzia e di lingua, queste diversità corrispondettero sempre alle qualità fisiche degli uomini che ciascuna d’esse pronunzie e lingue, l’una dopo l’altra usarono, le quali fisiche qualità variarono secondo le diverse circostanze morali, politiche, religiose, intellettuali ec. che in diverse generazioni in quel medesimo clima e paese ebber luogo. Ond’è che sebbene il clima meridionale naturalmente ispira dolcezza ne’ caratteri delle pronunzie e de’ suoni, tuttavia suono della lingua greca, e quello della lingua romana, certo più molle che non era a quel tempo, e che adesso non è, il suono delle lingue settentrionali, pur fu molto men delicato e più forte di quello che oggi si sente nella nuova lingua dello stesso Lazio e di Roma e d’Italia. E ciò non per altra cagione fisica immediata, se non perchè, stante le loro circostanze morali e politiche e il lor genere di vita e di costumi, gli antichi Greci e Romani (il che anche per mille altri segni e notizie si prova) furono di corpo molto più forti che i moderni italiani non sono. La stessa pronunzia della moderna lingua francese (e così delle altre) si è addolcita coi costumi della nazione, come dice Voltaire ec. giacchè un dì si pronunziava come oggi si scrive ec. Ond’è che siccome la pronunzia francese per la geografica posizione e natural qualità del suo clima, ch’è mezzo tra meridionale e settentrionale, tiene quasi tanto delle pronunzie del sud quanto di quelle del nord[a]

Pendendo però più al sud.

[Chiudi], ed è un temperamento dell’une e dell’altre e un anello che queste a quelle congiunge[b], così il carattere delle pronunzie greca e latina, tiene, non dirò già il proprio mezzo tra il settentrionale e il meridionale, ma tra il carattere dell’italiana, ch’è l’uno estremo delle moderne pronunzie meridionali, e l’estremo assoluto della dolcezza; e quello della pronunzia settentrionale meno aspra e che più s’accosti a dolcezza, e sia per questa parte l’estremo delle pronunzie settentrionali, alle meridionali più vicino. O volessimo piuttosto dire che le pronunzie greca e latina sieno medie tra l’italiana ch’è la più meridionale, e la francese, che non è nè ben meridionale nè per anco settentrionale. Le lingue orientali, la greca moderna, la turca, quelle de’ selvaggi e indigeni d’America sotto la zona, parlate e scritte in climi assai più meridionali che quel d’Italia o di Spagna, sono tuttavia molto men dolci dell’italiana e della spagnuola, e taluna anche delle settentrionali europee. Ciò per la rozzezza o per la acquisita barbarie de’ popoli che l’usano o che l’usarono, per li costumi aspri e crudeli ec. antiche o moderne ch’esse lingue si considerino. (23. Agos. 1823.).

Una lingua strettamente universale, qualunque ella mai si fosse, dovrebbe certamente essere di necessità e per sua natura, la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme, arida e brutta lingua, la più incapace di qualsivoglia genere di bellezza, la più impropria all’immaginazione, e la meno da lei dipendente, anzi la più da lei per ogni verso disgiunta, la più esangue ed inanimata e morta, che mai si possa concepire; uno scheletro un’ombra di lingua piuttosto che lingua veramente; una lingua non viva, quando pur fosse da tutti scritta e universalmente intesa, anzi più morta assai di qualsivoglia lingua che più non si parli nè scriva. Ma si può pure sperare che perchè gli uomini sieno già fatti generalmente sudditi infermi, impotenti, inerti, avviliti, scoraggiati, languidi, e miseri della ragione, ei non diverranno però mai schiavi moribondi e incatenati della geometria. E quanto a questa parte di una qualunque lingua strettamente universale, si può non tanto sperare, ma fermamente e sicuramente predire che il mondo non sarà mai geometrizzato, non meno di quel che si possa con certezza affermare ch’ei non ebbe una tal favella mai, se non forse quando gli uomini erano così pochi, e di paese così ristretti, e niente vari di opinioni, costumi, usi, riti, governo e vita, che la lingua era universale solo perciò che più d’una nazione d’uomini, almeno parlanti, non v’aveva, onde universale era la lingua perch’era una al mondo, nè altra lingua mai s’era udita, ed una era e sempre era stata la lingua, perchè una sempre la nazione infino allora, o una, se non altro, la nazione che di lingua avesse uso e notizia. (23. Agosto. 1823.).

Quello poi che ho detto che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere anzi un’ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente conviene a quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave (nelle Riflessioni intorno all’istituzione d’una lingua universale, opuscolo stampato in Roma, e poi dal medesimo autore rifuso nell’Appendice 2.a al capo II del Libro 3.o del Saggio filosofico di Gio. Locke su l’umano intelletto compendiato dal D. Winne, tradotto e commentato da Francesco Soave C. R. S. tomo 2do, intitolato Saggio sulla formazione di una Lingua Universale ), la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole, ma le idee, bensì alcune delle inflessioni d’esse parole (come quelle de’ verbi), ma piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle parole, e senza rapporto a niun suono pronunziato, nè significazione e dinotazione alcuna di esso. Questa non sarebbe lingua perchè la lingua non è che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole. Ella sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo, perchè la scrittura rappresenta le parole e la lingua, e dove non è lingua nè parole quivi non può essere scrittura. Ella sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non sono nè lingua nè scrittura ma cosa diversa dall’una e dall’altra. Quest’algebra di linguaggio (così nominiamola) la quale giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni ch’è meno dell’altre impossibile ad essere strettamente universale, si può pur confidentemente e certamente credere che non sia per essere nè formata ed istituita, nè divulgata ed usata giammai. Dirò poi ancora, ch’ella in verità non sarebbe strettamente universale, perch’ella lascerebbe a tutte le nazioni le loro lingue, siccome ora la francese. Ella di più non sarebbe propria che dei dotti o colti. Ma di tutti i dotti e colti lo è pure oggidì la francese. Quale utilità dunque di quella lingua? la quale non sarebbe forse niente più facile ad essere generalmente nella fanciullezza imparata, di quello che sia la francese, che benissimo e comunissimamente nella fanciullezza s’impara. E tutti i vantaggi che si ricaverebbero da quella chimerica lingua, tutti, e molto più e maggiori, e forse con più facilità si caverebbero dalla lingua francese, divenendo, se pur bisogna, più comune e più studiata e coltivata di quel ch’ella già sia.

Quanto poi ad una lingua veramente universale, cioè da tutte le nazioni senza studio e fin dalla prima infanzia intesa e parlata come propria, lasciando tutte le impossibilità accidentali ed estrinseche, ma assolutamente insormontabili, che ognun conosce e confessa; dico ch’ella è anche impossibile per sua propria ed assoluta natura, quando pur gli uomini che l’avrebbero a usare, non fossero, come sono, diversissimamente conformati rispetto agli organi ec. della favella ed alle altre naturali cagioni che diversificano le lingue; di modo che, quando anche superato ogni ostacolo, una qualunque lingua, per impossibile ipotesi, fosse divenuta universale nella maniera qui sopra espressa, la sua universalità non potrebbe a patto alcuno durare, e gli uomini tornerebbero ben tosto a variar di lingua, per la stessa natura di quella tal favella universale, in cui le condizioni medesime che la farebbero atta ad esser tale, sarebbero in espressa contraddizione colla durevolezza della sua universalità, e formalmente la escluderebbono. Perocchè una lingua appropriata ad essere strettamente universale, deve, come in altri luoghi ho largamente esposto, essere di natura sua, servilissima, poverissima, senza ardire alcuno, senza varietà, schiava di pochissime, esattissime, e stringentissime regole, oltra o fuor delle quali trapassando, non si potesse in alcun modo serbare nè il carattere nè la forma d’essa lingua, ma in diversa lingua assolutamente si parlasse. Nè senza una buona parte o similitudine almeno di queste qualità e di ciascuna di esse, la lingua francese sarebbe potuta giungere a quel grado di universalità largamente considerata, in cui la veggiamo; nè certo mantenervisi, seppur momentaneamente vi fosse giunta, come vi giunse un dì la greca. Perocchè queste qualità indispensabilmente richieggonsi ad una, ancorchè non assoluta o stretta, universalità durevole di una lingua. Ora una lingua così formata e costituita, e di tali qualità in sommo grado (come a una lingua strettamente universale si ricercherebbe) fornita, a pochissimo andare, per cagione di queste medesime qualità, si corromperebbe e traviserebbe in modo che più non sarebbe quella; come altrove ho dimostrato di tali lingue non libere, coll’esempio (fra l’altre cose) della latina, la quale, siccome ogni altra, quantunque servilissima, che si conosca, fu ed è ben lontana dall’aver queste qualità in sommo grado, come si richiederebbe di necessità ad una lingua che avesse ad essere strettamente e durabilmente universale. Così quelle medesime condizioni che da una parte cagionerebbono, e in modo che senza esse non potrebbe stare, la propria, o vogliam dire esatta, e durevole universalità di una lingua; d’altra parte e nel tempo stesso, per propria natura loro, rendono assolutamente inevitabile e inevitabilmente prontissima una totale corruzione e mutazione della lingua medesima. Onde nè senza esse la stretta universalità di una lingua può stare, nè qualsivoglia universalità durare, come si è altrove provato; e parimente con esse non può durare nè la stretta universalità nè il proprio stato di una lingua. Perocchè, quanto al proprio stato, è evidente che una lingua di necessità corrompendosi e cangiandosi del tutto, di necessità lo perde, cioè perde la sua forma, proprietà, carattere e natura. E quanto alla stretta universalità, dato ancora che una lingua corrompendosi appo una sola nazione, si corrompesse ugualmente, di modo ch’ella quantunque mutata da quella prima, fosse pur sempre una sola in essa nazione, e a tutta comune; egli è fisicamente impossibile a seguire, e assurdo a supporre che una medesima lingua corrompendosi appo molte e diversissime nazioni e cambiandosi affatto da quella di prima, pur corrompendosi da per tutto ugualmente, e facendo da per tutto in un medesimo tempo gli stessi passi, si mantenesse sempre una sola appo tutte le dette nazioni insieme. La corruzione non ha legge, e quella che nasce dalla troppa schiavitù e circoscrizione d’una lingua, n’ha meno che mai, ed è più cieca che ogni altra; nè dove non v’ha regola alcuna, nè scambievole convenzione e consenso (il che sarebbe contrario alla natura della corruzione di una lingua), nè conformità di circostanze, quivi può essere uniformità. La quale se è quasi impossibile in una sola nazione, dal continuo commercio e da tante altre circostanze congiunta insieme e fatta una, quanto più tra molte nazioni, sempre, per quanto commercio possano avere insieme, disgiunte e fra se diverse! E si è infatti veduto quanto diversa fosse la corruzione della lingua latina nelle diverse nazioni in ch’ella si propagò, fino a produrre varie affatto distinte e separate e separatamente regolate e costituite favelle, che tuttavia si parlano. E ciò quantunque la lingua latina non fosse d’assai così servile ec. come è necessario supporre una lingua strettamente universale. Resta dunque provato che una lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni ond’ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e senza cui l’universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi, dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente l’occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle medesime condizioni che a tal durata indispensabilmente richieggonsi.

Questo che ho detto di una lingua universalmente parlata come propria, devesi pur dire di una sognata lingua che in tutte le nazioni civili i dotti e gl’indotti scrivessero come propria, rimanendo le varie lingue nazionali pel solo uso di favellare, a un di presso nel modo che ai bassi tempi le varie favelle o dialetti volgari, scrivendo tutti, anche notai ec., ogni sorta di scritture in Latino, corrotto e barbaro, e secondo i diversi luoghi diverso, ma pur da per tutto Latino.

E conchiudo che una lingua universalmente da tutte le nazioni, anche sole civili, o parlata o scritta, o l’uno e l’altro, ed intesa, come propria è impossibile, non solo estrinsecamente e per ragioni estrinseche, ma per sua propria ed intrinseca natura e qualità e proprietà ed essenza, non relativamente nè accidentalmente, ma essenzialmente, di necessità, ed assolutamente (25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.).

Movere neutro, o in forma ellittica per movere se o movere castra, come tra noi muovere neutro o ellittico (e così trarre), del che mi sembra avere altrove notato un esempio di Floro, vedilo appo Svetonio, in Divo Julio, Cap. 61. par. 1. e quivi le note degli eruditi. Vedi pure, se ti piace, a questo proposito il Poliziano Stanze I. 22. dove troverai muovere neutro, senza l’accompagnamento del sesto caso, come ancora in latino. (25. Agos. dì di S. Bartolomeo. 1823.).

Alla p. 2889. Tumultuo e tumultuor da tumultus us. Acuo da acus us, è della terza coniugazione per una che, stante la moltitudine anzi la pluralità degli esempi dimostranti che tali verbi sono regolarmente della prima, possiamo chiamare anomalia. Così statuo is da status us. Arcuo as da arcus us. (26. Agos. 1823.).

Grassor aris continuativo di gradior eris il cui participio in us oggi irregolarmente è gressus, in antico, come dimostra il detto continuativo, più regolarmente fu grassus. Gressus bensì ne’ composti i quali, come molti altri, mutano l’a di gradior in e; ingredior, aggredior ec. Così ascendo ec. da scando, e puoi vedere la pag. 2843. (26. Agos. 1823.).

Alla p. 2864. Castello, château, castillo tengono fra noi il luogo del positivo castrum, col quale anche in latino bene spesso indifferentemente si scambiava castellum, o si usava equivalentemente ec. (26. Agos. 1823.).

Francesismi familiarissimi, usitatissimi e volgarissimi in quella nazione, tant mieux, tant pis, frasi ellittiche o irregolari, e che paiono veri idiotismi francesi, non sono che latinismi, anzi idiotismi, cioè volgarismi, latini. Vedi gli eruditi alla favola 5. lib. 3. di Fedro , Aesopus et Petulans. V. anche il Forcellini se ha nulla, la Crusca ec. Noi pur diciamo volgarmente e scriviamo tanto meglio, tanto peggio, ma in senso meno ellittico, più naturale e regolare, anzi per lo più regolarissimo, e meno sovente assai de’ francesi. (26. Agos. 1823.).

Alla p. 2996. marg. — vengono cred’io da medeor (medeo ancora si disse, poichè medeor si trova pure passivo), non da medicus. Lo deduco appunto dal veder medicor deponente come medeor, (laddove medico corrisponderà all’antico medeo), e dal vedere ancora che medicatus e medicatus sum suppliscono pel verbo medeor che manca del preterito e del participio in us. V. Forc. in Medeor. fine. Veggasi la p. 3352. sgg. circa il continuativo meditor di medeor fatto dal suo participio in us. (26. Agos. 1823.).

Si può dire che le viste, i disegni, i proponimenti, i fini, le speranze, i desiderii dell’uomo, tutto ciò in somma che ne’ suoi pensieri ha relazione al futuro, tanto più si stendono, cioè tanto più mirano e tendono, o giungono, lontano, quanto minore naturalmente è lo spazio di vita che gli rimane, e viceversa. Niun pensiero del bambino appena nato ha relazione al futuro, se non considerando come futuro l’istante che dee succedere al presente momento, perocchè il presente non è in verità che istantaneo, e fuori di un solo istante, il tempo è sempre e tutto o passato o futuro. Ma considerando il presente e il futuro non esattamente e matematicamente, ma in modo largo, secondo che noi siamo soliti di concepirlo e chiamarlo, si dee dire che il bambino non pensa che al presente. Poco più là mira il fanciullo; ond’è che proporre al fanciullo (p. e. negli studi) uno scopo lontano (come la gloria e i vantaggi ch’egli acquisterà nella maturità della vita o nella vecchiezza, o anche pur nella giovanezza), è assolutamente inutile per muoverlo (onde è sommamente giusto ed utile l’adescare il fanciullo allo studio col proporgli onori o vantaggi ch’egli possa e debba conseguire ben tosto, e quasi di giorno in giorno, che è come un ravvicinare a’ suoi occhi lo scopo della gloria e della utilità degli studi, senza il quale ravvicinamento è impossibile ch’ei fissi mai gli occhi in detto scopo, e per conseguirlo si assoggetti volentieri alle fatiche e alle sofferenze ripugnanti alla natura, che gli studi richieggono). Più si stendono le viste del giovane, ma meno assai di quelle dell’uomo maturo e riposato, i cui calcoli sul futuro oltrepassano bene spesso, senza ch’ei se n’avvegga, lo spazio di vita naturalmente concesso ai mortali. Perciocchè l’uomo maturo comincia già a compiacersi supremamente e contentarsi della speranza, e pascerne la sua vita. Della quale speranza si nutre parimente, e con essa favella e delira anche il giovane, e il fanciullo altresì; ma non in modo che d’essa si contentino, e che non cerchino di prontamente effettuarla e recarla in opera, e venire al fatto. Il che nasce dall’ardore di quelle età, dall’attività dell’animo unita e cospirante con quella del corpo, dalla freschezza e forza del loro amor proprio, e quindi dall’energia ed efficacia de’ loro desiderii impazienti d’indugio, e però non sofferenti di proporsi un oggetto ch’ei non possano o ch’ei non credano di potere in poco spazio e dentro un picciolo termine conseguire; finalmente dall’inesperienza ch’egli hanno intorno alla vanità delle umane speranze, alla difficoltà che l’uomo prova in condurle a fine, e alla nullità eziandio degli stessi beni sperati, la quale inevitabilmente apparisce così tosto com’ei sono posseduti. Le contrarie cagioni producono la lunghezza e lontananza delle viste nell’uomo maturo; e l’eccesso di dette contrarie qualità producono l’eccesso del contrario effetto nella vecchiezza, la quale ridotta a non potersi ragionevolmente promettere più che un brevissimo avanzo di vita, pure nella estensione delle sue viste supera di gran lunga tutte le altre età dell’uomo. Perocchè il vecchio per la debolezza di corpo e d’animo, e pel disinganno de’ beni umani già provati, e per lo illanguidimento dell’amor proprio che va di pari colla quasi diminuzione e raffreddamento della vita, non è capace se non di fievoli desiderii, e quindi si contenta di propor loro uno scopo lontano e in esso fermarli, e i suoi desiderii si contentano di rimanervi; per la diuturna esperienza fatta della vanità e del tristo esito delle speranze, con un quasi stratagemma, le indirizza a luoghi così lontani ch’elle non possano se non assai tardi o non mai, avvicinandosi a quelli e giungendovi, scomparire; per la irresoluzione propria dell’età sua, rimettendo ogni azione al dipoi, e costretto di rimettere eziandio e quasi differire le sue speranze, e gli oggetti de’ suoi desiderii e il loro conseguimento ch’ei si propone, o ch’ei si compiace, per dir meglio, di vagheggiare; e per l’abito della tardità e lentezza nell’operare a cui la gravezza e l’impotenza dell’età lo costringe, e per la pigrizia e negligenza e torpore dell’animo che ne deriva e n’è pur cagione, i suoi desiderii altresì e le sue speranze ne divengono tarde e pigre e lente e quasi trascurate (benchè sempre però bastantemente vive per mantenerlo e quasi allattarlo, come alla vita umana indispensabilmente ricercasi), ed ei giunge a persuadersi fra se stesso non con l’intelletto, ma con l’immaginazione e con la non ragionata abitudine dell’altre facoltà del suo spirito, che il tempo e la natura e le cose sian divenute ed abbiano a riuscir così lente e pigre com’esso necessariamente è. (26. Agosto. 1823.).

Il poeta lirico nell’ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l’uomo d’immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l’uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell’entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere. Quindi è che scoprendo in un sol tratto molte più cose ch’egli non è usato di scorgere a un tempo, e d’un sol colpo d’occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti più volte ciascuno, ma non mai tutti insieme (se non in altre simili congiunture), egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti scambievoli, e per la novità di quella moltitudine di oggetti tutti insieme rappresentantisegli, egli è attirato e a considerare, benchè rapidamente, i detti oggetti meglio che per l’innanzi non avea fatto, e ch’egli non suole; e a voler guardare e notare i detti rapporti. Ond’è ch’egli ed abbia in quel momento una straordinaria facoltà di generalizzare (straordinaria almeno relativamente a lui ed all’ordinario del suo animo), e ch’egli l’adoperi; e adoperandola scuopra di quelle verità generali e perciò veramente grandi e importanti, che indarno fuor di quel punto e di quella ispirazione e quasi μανία e furore o filosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico, con lunghissime e pazientissime ed esattissime ricerche, esperienze, confronti, studi, ragionamenti, meditazioni, esercizi della mente, dell’ingegno, della facoltà di pensare di riflettere di osservare di ragionare, indarno, ripeto, non solo quel tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu’altro o poeta o ingegno qualunque o filosofo acutissimo e penetrantissimo, anzi pur molti filosofi insieme cospiranti, e i secoli stessi col successivo avanzamento dello spirito umano, cercherebbero di scoprire, o d’intendere, o di spiegare, siccome colui, mirando a quella ispirazione, facilmente e perfettamente e pienamente fa a se stesso in quel punto, e di poi a se stesso ed agli altri, purch’ei sia capace di ben esprimere i propri concetti, ed abbia bene e chiaramente e distintamente presenti le cose allora concepite e sentite. (26. Agos. 1823.).

Secondo ch’io osservo[a]

Veggansi le pagg. 3765-8.

[Chiudi] e che si potrà spiegare colle ragioni da me recate in altri luoghi, l’abito di compatire, quello di beneficare, o di operare in qualunque modo per altrui, e, mancando ancora la facoltà, l’inclinazione alla beneficenza e all’adoperarsi in pro degli altri, sono sempre (supposta la parità delle altre circostanze di carattere o indole, educazione, coltura di spirito, o rozzezza, e simili cose) in ragion diretta della forza, della felicità, del poco o niun bisogno che l’individuo ha dell’opera e dell’aiuto altrui, ed in proporzione inversa della debolezza, della infelicità, dell’esperienza delle sventure e dei mali, sieno passati, o massimamente presenti, del bisogno che l’uomo ha degli altrui soccorsi ed uffici. Quanto più l’uomo è in istato di esser soggetto di compassione, o di bramarla, o di esigerla, e quanto più egli la brama o l’esige, anche a torto, e si persuade di meritarla, tanto meno egli compatisce, perocch’egli allora rivolge in se stesso tutta la natural facoltà, e tutta l’abitudine che forse per lo innanzi egli aveva, di compatire. Quanto l’uomo ha maggior bisogno della beneficenza altrui, tanto meno egli è, non pur benefico, ma inclinato a beneficare; tanto meno egli non solo esercita, ma ama in se quella beneficenza che dagli altri desidera o pretende, e crede a torto o a ragione di meritare, o di abbisognarne. L’uomo debole, e sempre bisognoso di quegli uffici maggiori o minori che si ricevono e si rendono nella società, e che sono il principale oggetto a cui la società è destinata, o quello a cui principalmente dovrebbe servire la scambievole comunione degli uomini; pochissimo o nulla inclina a prestar la sua opera altrui, e di rado o non mai, o bene scarsamente la presta, ancor dov’ei può, ed ancora agli uomini più deboli e più bisognosi di lui. L’uomo assuefatto alle sventure, e massime quegli a cui la vita è sinonimo e compagno del patimento, nulla sono mossi, o del tutto inefficacemente, dalla vista o dal pensiero degli altri mali e travagli e dolori. L’amor proprio in un essere infelice è troppo occupato perch’egli possa dividere il suo interesse tra questo essere e i di lui simili. Assai egli ha da esercitarsi quando egli ha le sue proprie sventure; sieno pur molto minori di quelle che se gli rappresentano in qualunque modo in altrui. Se le proprie sventure sono presenti, la compassione, come ho detto, tutta rivolta e impiegata sopra se stesso, in esso lui si consuma, e nulla n’avanza per gli altri. Se sono passate, posto ancora che piccolissime fossero, la rimembranza di esse fa che l’uomo non trovi nulla di straordinario nè di terribile ne’ patimenti e disastri degli altri, nulla che meriti di farlo come rinunziare al suo amor proprio per impiegarlo in altrui beneficio; come già pratico del soffrire, egli si contenta di consigliar tacitamente e fra se stesso agl’infelici, che si rassegnino alla lor sorte, e si crede in diritto di esigerlo, quasi egli medesimo n’avesse già dato l’esempio; perocchè ciascuno in qualche modo si persuade di aver tollerato o di tollerare le sue disgrazie e le sue pene virilmente al possibile, e con maggior costanza, che gli altri, o almeno il più degli uomini, nel caso suo, non farebbero o non avrebbero fatto; nella stessa guisa che ciascuno si pensa sopra tutti gli altri essere o essere stato indegno de’ mali ch’ei sostiene o sostenne. Oltre di che l’abito d’insensibilità verso l’altrui sciagure, contratto nel tempo ch’ei fu sventurato, non è facile a dispogliarsene, sì perch’esso è troppo conforme all’amor proprio, che vuol dire alla natura dell’uomo; sì perchè grande e profonda è l’impressione che fa nel mortale la sventura, e quindi durevole l’effetto che produce e che lascia, e ben sovente decisivo del suo carattere per tutta la vita, e perpetuo.

Io osservo (e n’ho presente a me stesso non un solo esempio), che i giovani non poveri, o non oppressi nè avviliti dalla povertà, sani e robusti di corpo, coraggiosi, attivi, capaci di fornir da se stessi a’ loro bisogni, e poco o nulla necessitosi, ovver poco o nulla desiderosi degli altrui soccorsi e dell’altrui opera o fisica o morale, almeno abitualmente; non tocchi ancora dalla sventura, o piuttosto (giacchè qual è l’uomo nato che già non abbia sofferto?) tocchi da essa in modo ch’essi pel vigore della età e della complessione, e per la freschezza delle forze dell’animo, la scuotono da se, e poco caso ne fanno; questi tali giovani, dico, ancorchè da una parte intolleranti fin della menoma ingiuria, ed anche proclivi all’ira; inclinati ed usi di motteggiare i presenti e gli assenti ancor più che gli altri non sono; soverchiatori anzi che no, sia di parole, sia d’opere eziandio; — v. p. 3282. 3942. dall’altra parte, ancorchè abbandonati da tutti, e forse da quelli stessi che avrebbero il più sacro dovere di prenderne cura, ancorchè sperimentati nella ingratitudine degli uomini, e fatti accorti per prova, della niuna utilità e grazia, ed eziandio del danno, che spesso risulta dal far beneficio; ancorchè pronti e perspicaci d’ingegno, e non ignari del mondo, e ben consapevoli quanto il costume degli uomini sia rimoto dal beneficare e dal compatire, e quanto altresì le loro opinioni ne gli allontanino, e quanto gli uomini sieno generalmente indegni ch’altri ne prenda cura; con tutto ciò questi tali sono prontissimi a compatire, dispostissimi a sovvenire agli altrui mali, inclinatissimi a beneficare, a prestar l’opera loro a chi ne li richiede, ancorchè indegno, a profferirla pure spontaneamente, sforzando l’altrui ripugnanza d’accettarla, e conoscendo quella di ricercarla; apparecchiati senza riservo e senza cerimonie ai bisogni ed a proccurare i vantaggi degli amici: ed in effetto sono quasi continuamente occupati per altrui più che per se stessi; le più volte in piccoli, ma pur faticosi, noiosi, difficili uffizi e servigi, la cui moltiplicità, se non altro, compensa la piccolezza di ciascuno; talora eziandio in cose grandi o notabili e che richieggono grandi o notabili cure, fatiche, ed anche sacrifizi. E ciò facendo, nè presso se stessi, nè presso i beneficati, nè presso gli altri attaccano un gran pregio ai loro servigi, nè gran conto ne fanno, nè se ne reputano di gran merito (quasi accecati e dissennati da Giove, come dice Omero di Glauco quand’egli scambiò le sue armi d’oro con quelle del Tidide ch’erano di rame): di più poca o niuna gratitudine esigono, quasi ei fossero stati tenuti a beneficare, o nulla avesse loro costato il benefizio; non mai si credono in diritto di ripetere il benefizio, o costretti a farlo, lo fanno con grandissima riserva e senza pretensione alcuna, e riavendone pure una parte, o domandata o spontanea, si tengono per obbligati essi a chi gli uffici da loro prestatigli scarsamente rimunerò.

Tutto questo o parte, più o meno, m’è avvenuto di notare ne’ giovani della qualità sopra descritta, e non solo in quelli che per inesperienza del mondo, e gentilezza di natura, con pienezza di cuore, e con buona fede e semplicemente sono trasportati verso la virtù, la generosità, la magnanimità, ponendo il loro maggior piacere e desiderio nel far bene e negli atti eroici, e nella rinegazione e rinunzia e sacrificio di se stessi; ma eziandio ne’ disingannati del mondo, e posti in quelle circostanze che di sopra ho notate, o in alcune di esse, o in altre somiglianti. Tutto ciò, dico, ho notato avvenire in questi cotali giovani, mentre essi godono e sentono i vantaggi della gioventù, della sanità, del vigore, e sono in istato da bastare a se stessi. Ma o coll’età, o innanzi all’età, sopravvenendo loro di quegl’incomodi, di quegli accidenti, di quei casi, di que’ disastri fisici o morali, da natura o da fortuna, che tolgano loro il bastare a se medesimi, che li renda abitualmente o spesso bisognosi dell’opera e dell’aiuto altrui, che scemi o distrugga in essi il vigore del corpo, e seco quello dell’animo; questi tali, come ho pur veduto per isperienza, di misericordiosi e benefici divengono appoco appoco, in proporzione dell’accennato cambiamento di circostanze, insensibili agli altrui mali o bisogni, o comodi, solleciti solamente dei proprii, chiusi alla compassione, dimentichi della beneficenza, e interamente circa l’una e circa l’altra cangiati e volti in contrario, sì di costumi, sì di disposizione d’animo. Nè solo appoco appoco, ma eziandio rapidamente e quasi in un tratto, e nello stesso fiore della giovanezza, ho io veduto accadere tale cangiamento in persone sopravvenute da improvvisa o rapida calamità di corpo o di spirito o di fortuna, onde il loro animo fu atterrato e prostrato subitamente o in poca d’ora, o crollato e renduto mal fermo, e la loro vita fu soggettata agl’incomodi, e alla trista necessità dell’aiuto altrui, e la sanità scossa, e il corpo svigorito, e simili cose contrarie alla loro prima condizione. Insomma al subito o rapido cangiamento delle circostanze sopra notate, ho veduto con pari subitaneità o rapidità corrispondere il cangiamento del carattere e costume di tali persone rispetto al compatire, al beneficare e all’adoperarsi in qualunque modo per altrui.

E quelli che da natura, o per qualunque cagione, fin dalla fanciullezza o dalla prima giovanezza e dal primo loro ingresso nel mondo, son tali quali i sopraddetti divennero, cioè deboli di corpo e di spirito, timidi, irresoluti, avviliti dalla povertà o da qualsivoglia altra causa fisica o morale, estrinseca o intrinseca, naturale in loro o accidentale e avventizia; sempre o sovente bisognosi dell’opera altrui, avvezzi fin dal principio a soffrire, a mal riuscire nelle loro intraprese o ne’ desiderii loro, e quindi a sempre sconfidar delle cose e della vita e dei successi, e quindi privi di confidenza in se medesimi; più domestici del timore o della triste espettazione che della speranza; questi tali, e quelli che loro somigliano in tutto o in parte, sono più o meno, fin dal principio della loro vita o fino dalla loro entrata nella società, alieni e dall’abito e dagli atti della compassione e della beneficenza, e dalla inclinazione o disposizione a queste virtù; interessati per se soli, poco o nulla capaci d’interessarsi per gli altri, o sventurati o bisognosi, o degni o indegni che sieno dell’aiuto altrui; meno ancora capaci di operare per chi che sia; poco o nulla per conseguenza atti alla vera ed efficace ed operosa amicizia, ben simulatori di essa per ottenerne dagli altri gli aiuti o la pietà di che hanno mestieri, ed abili a farla servire ai soli loro vantaggi; simulatori e dissimulatori eziandio generalmente in ogni altra cosa. E queste qualità divengono in loro caratteristiche, di modo che l’amor proprio non è in essi altro mai ch’egoismo, e l’egoismo è il loro carattere principalissimo; ma non veramente per colpa loro, piuttosto per necessità di natura; e neanche per natura che di sua mano immediatamente abbia posto negli animi loro più che negli altri questo pessimo vizio, ma perchè dalle circostanze in che essi o per natura o per accidente si sono trovati fin dal principio, nasce naturalmente e necessariamente questo tal vizio, forse più necessariamente e inevitabilmente e maggiore che da verun’altra cagione. V. p. 3846.

Da’ quali pensieri si dee raccogliere questo corollario, che le donne essendo per natura più deboli di corpo e d’animo, e quindi più timide, e più bisognose dell’opera altrui che gli uomini non sono, sono anche generalmente e naturalmente meno degli uomini inclinate alla compassione e alla beneficenza, non altrimenti ch’elle, per universale consenso, sieno generalmente e regolarmente meno schiette degli uomini, più proclivi alla menzogna e all’inganno, più feconde di frodi, più simulatrici, più finte; tutte qualità, con molte altre analoghe (che nelle donne generalmente si osservano), derivanti per natura niente più, niente meno che la sopraddetta, dalla debolezza d’animo e di corpo, e dall’insufficienza delle proprie forze, de’ propri mezzi e di se stesso a se stesso. E si può concludere che le donne sono, generalmente parlando, più egoiste degli uomini, o più portate all’egoismo per natura (sebbene le circostanze sociali, che spesso rovesciano la natura, e fanno talora le donne, anche prima che abbiano formato il loro carattere, signore degli uomini, oggetti delle lor cure spontanee, de’ loro omaggi, suppliche ec. ec., possano ben render vana questa disposizione), e naturalmente si troverà un maggior numero di donne egoiste che non d’uomini. Così le nazioni e i secoli più infelici, tiranneggiati ec. si vede costantemente che furono e sono i più egoisti ec. ec. (26-27. Agos. 1823). V. p. 3291. 3361.

Alla p. 3275. marg. — Anzi quanto più questi tali son franchi, coraggiosi, non timidi dell’altrui aspetto nè dell’altrui conversazione, schietti, aperti, liberi nel parlare, nei modi, nell’operare, intolleranti di dissimulare e di mentire (anche, tal volta, eccessivamente); e quanto più sono vendicativi delle ingiurie, fieri con chi gli offende o insulta o disprezza o danneggia, quanto meno molli e facili ai nemici, agl’invidiosi, ai detrattori, ai maldicenti, agli oltraggiatori, agli offenditori qualunque; ed eziandio quanto più pendono a una certa soverchieria di parole o di fatti verso chi non è nè compassionevole nè bisognoso, amico o indifferente o nemico che sia; proclivi o facili all’ira, anche durevole; tanto più sono misericordiosi e benefici verso gli amici o gl’indifferenti (dandosene loro l’occorrenza, e la facoltà ec. e in questi il bisogno o l’utilità ec.), o verso i nemici stessi e gli offenditori, vinti che sieno, o già puniti, o chiedenti scusa o perdono, o riparata che hanno l’offesa, o anche senz’altro caduti in grave disgrazia o bisogno, ed avviliti ec. (Tale fu Giulio Cesare come si vede in Svetonio). E il contrario accade negli uomini di contraria qualità: il contrario, dico, si quanto al compatire o beneficare chi che sia, sì quanto al rimettere o dimenticare le ingiurie. E di contraria qualità sono gli uomini timidi, di maniere legate, deboli di corpo e d’animo ec. quali ho descritti a pagg.3279-80. (27. Agos. 1823.).

Confictito da confingo-confictus o dal semplice fingo-fictus. (27. Agos. 1823.).

Fissare o fisare, ficcare, fixar, fixer, ficher, da figo-fixus. Affissare o affisare, afficher da affigo. Conficcare da configo. ec. Forse anche fitto sust. e affittare non d’altronde vengono che da fictus altro participio di figo, traendo il nome dall’avviso pubblico che suole affiggere alla sua casa, o a’ cantoni della città ec. chi vuole affittare essa casa, o possessioni, terre ec.; il quale avviso o avvisi pubblicamente affitti si chiamano in francese affiches, da noi volgarmente affissi. Sebbene la prep. a in affittare sembra essere espressamente aggiunta al sostantivo fitto per esprimere il dare a fitto, come in francese affermer da ferme, e tra noi volgarmente annolare da nolo. Veggasi per tutte le suddette voci il Gloss. se ha nulla. (27. Agos. 1823.).

Al detto da me circa l’anomalo partic. arso che il Perticari crede di arsare e non di ardere, del quale egli è pure in latino, cioè di ardeo, arsus; si può aggiungere che la lingua italiana (ed anche le sue sorelle) bene spesso, secondo che la lingua latina ha diversi participii d’un solo verbo, diversi n’ha ella pure, cioè quelli stessi che ha la latina, regolari o irregolari che siano quanto all’analogia latina o italiana. P. e. da figo—fixus—fictus, figgere—fisso, fitto. Talvolta ella ha quello che corrisponde all’analogia italiana, e insieme quello che il verbo ha nel latino, sia regolare participio o anomalo in esso latino. Del che ho detto altrove. Talvolta ec. ec. (27. Agosto. 1823.).

La lingua greca, secondo che si può vedere a pagg. 2774 2777, e più largamente e distintamente per capi presso i grammatici, ebbe in costume di alterare notabilmente le sue radici[a]

Ciò o per la varietà de’ dialetti, o per altro, in modo però che le voci formate per tali alterazioni, sono generalmente proprie degli scrittori greci o de’ poeti; onde a noi partoriscono la stessa difficoltà, qual se ne fusse la cagione e l’origine; e quando questa pur fusse particolare, la difficultà che a noi ne viene è ordinaria e generale ec.

[Chiudi], p. e. i temi de’ suoi verbi, anche fuori affatto dei casi di derivazione e di composizione, e senza punto alterarne il significato, ma semplicemente la forma estrinseca e gli elementi del vocabolo. Onde i verbi in ω li trasmutavano in verbi in μι; dei temi ad altri aggiungevano le lettere αν, e li facevano terminare in ανω, ad altri αιν, e li terminavano in αινω, ad altri σκ [b], e li finivano in σκω (ma questi non erano sempre alterati dal tema, ma da un altro tempo del verbo: v. i Grammatici), ad altri duplicavano la prima consonante, interponendo una vocale, come l’iota (πιπράσκω), ec. Spesso si mutava la desinenza, volgendola in ίζω ec. senza mutazione di significato: νεμεσάω-νεμεσίζω, βάπτω-βαπτίζω ec. ec. E di questi verbi e temi così alterati materialmente senz’alcun’alterazione di significato, altri restarono soli, venendo a mancare il tema o verbo primitivo e incorrotto, altri restarono insieme con questo, altri insieme con altri verbi fatti per tali alterazioni dal medesimo tema ec. ec. Ed altri interi, altri difettivi, suppliti dal verbo primitivo in molte voci, anomali, regolari ec. ec. del che vedi i Grammatici. E queste alterazioni de’ verbi primitivi e de’ temi (e così dell’altre radici), alterazioni affatto diverse distinte e indipendenti dalla derivazione e dalla composizione, che anche nelle altre lingue hanno luogo; alterazioni che per niun conto influivano nè modificavano il significato (come influisce e modifica, o suole per lo più e regolarmente fare, la composizione e la derivazione), non furono già nella lingua greca quasi casuali, rare, fuor di regola e di costume e d’ordine, quasi anomalie, aberrazioni, non proprie della lingua, ma frequentissime, ordinarie, usitate, abituali, e regolari, ossia fatte per regola, come apparisce dal gran numero di temi e verbi che si trovano alterati in questo o quello de’ suddetti modi e degli altri che si potrebbero dire; onde i grammatici distinguono siffatte alterazioni o modificazioni affatto materiali in molti diversi generi, e sotto ciascun genere radunano un gran numero di verbi o temi, in quella tal guisa uniformemente alterati dal primo loro essere. Questa tal sorta di alterazione, questo modo di alterare le voci, indipendente e diverso affatto dal derivare e dal comporre, e del tutto scompagnato dalla mutazione o pur modificazione di senso, non si trova punto nel latino; certo non vi si trova per costume nè per regola, nè d’assai così frequente, nè così vario ec. Perlochè anche di qui si faccia ragione quanto più nel greco che nel latino sia difficile il rintracciare le origini, l’antichità, il primitivo o l’antico stato delle voci e della lingua e della grammatica, le radici, l’etimologie ec. Massime considerando che detta materialissima alterazione si fa non mica in uno o in due, ma in molti diversissimi modi, tutti però frequentatissimi e usitatissimi; che moltissimi verbi o vocaboli così alterati hanno mandato in disuso i non alterati ec. che naturalmente moltissimi verbi così alterati, essendo perduti quelli della primitiva forma, saranno da noi creduti aver la forma primitiva, e pigliati per radici, quando non saranno che alterazioni di queste, più o men lontane, mediate o immediate, maggiori o minori ec. ec.

Usa ancora la lingua greca alcune derivazioni di voci, p. e. di verbi, che nulla però cambiano il significato, e il non cambiarlo non è in esse anomalia, o cosa non ordinaria, come lo sarebbe in latino, ma ordinaria e regolare. Voglio dir p. e. di quella maniera siracusana di formare dal perfetto de’ temi un nuovo verbo, come da τέθνηκα di θνάω fare τεθνήκω, da ἕστηκα di στάω, ἑστήκω, da πέφυκα di φύω, πεφύκω (e questa maniera, con siffatti verbi, sono ricevuti massime da’ poeti, ma anche da’ prosatori greci, generalmente); e di quell’altra maniera greca di fare dal futuro primo de’ temi un nuovo verbo, aggiungendoci il κ, come da τρώω (inusitato) — τρώσω, τρώσκω inusitato onde τίτρωσκω. (V. i Gram. se però è vera questa maniera, e non piuttosto si fa p. e. τρώσκω dal tema stesso, cioè τρώω, interpostovi σκ, come da ἵζω, ἱζάνω, interposto l’ αν ec. ec.). Queste e tali altre molte derivazioni senza cambiamenti di significato, che perciò appunto hanno contribuito sommamente a perdere e distruggere le voci originarie, e contribuiscono a nasconderle, e renderne difficile l’investigazione, e confondere l’erudito, e dividere i gramatici in cento diversi sistemi e opinioni, sì circa le regole più o men generali, sì circa le particolari etimologie ec. ec.; non hanno luogo nella lingua latina, o certo assai meno senza confronto ec. ec. (27. Agos. 1823.).

Ajouter quasi adjunctare, aggiuntare, spagn. juntar, da adiungere. Anche il nostro giuntare è da iungere. V. la Crusca in Giugnere par. 7 e il Gloss. in iunctare, adiunctare ec. se ha nulla. (28. Agosto. 1823.).

Succenseo è verbo, secondo me, indubitatamente formato dal participio in us d’altro verbo, cioè di succendo. (V. anche il Forcell. in Censeo fine.) Ma oltre al non essere della prima maniera, ei non solo non è di senso continuativo, ma è neutro nel mentre che succendo è attivo. Onde nulla ha che fare colla nostra teoria: se non ch’è notabile, come fatto da un participio passivo, della qual formazione non mi ricordo adesso altro esempio che sia fuori del numero de’ nostri continuativi e frequentativi. (28. Agos. 1823.).

Fator aris da for-aris-fatus. Verbo da porsi insieme con dato as, nato as, e s’altro ve n’ha (fatti tutti da un tema monosillabo.), dove l’a del participio in atus, non si muti, nella formazione del continuativo, in i. (28. Agosto 1823.).

Alla p. 3246. Fatigo as da ago is (v. Forcell .) se questa etimologia è vera. (Noi abbiamo fatica, volgarmente fatiga, franc. fatigue, spagn. fatiga. Che questa sia la radice di tal verbo? Certo ella è voce commune a tutte tre le lingue figlie. Ma in tal caso dovrebb’ella esserlo ancora di fatisco per venir meno? il che non parrebbe probabile. V. il Gloss. se ha nulla). Ago ha dal participio actus il frequentativo actito, e dall’antico e regolare agitus l’usitato continuativo o frequentativo agito. Non so se mitigo as possa aver nulla che fare con questo discorso. (28. Agos. 1823.).

Sogliono le opere umane servire di modello successivamente l’une all’altre, e così appoco [appoco] perfezionandosi il genere, e ciascuna opera, o le più d’esse riuscendo migliori de’ loro modelli fino all’intero perfezionamento, il primo modello apparire ed essere nel suo genere la più imperfetta opera di tutte l’altre, per infino alla decadenza e corruzione d’esso genere, che suole altresì ordinariamente succedere all’ultima sua perfezione. Non così nell’epopea; ma per lo contrario il primo poema epico, cioè l’Iliade che fu modello di tutti gli altri, si trova essere il più perfetto di tutti. Più perfetto dico nel modo che ho dimostrato parlando della vera idea del poema epico p. 3095-3169. Secondo le quali osservazioni da me fatte si può anzi dire che siccome l’ultima perfezione dell’epopea (almen quanto all’insieme e all’idea della medesima) si trova nel primo poema epico che si conosca, così la decadenza e corruzione di questo genere incominciò non più tardi che subito dopo il primo poema epico a noi noto. Similmente negli altri generi di poesia, per lo più, i migliori e più perfetti modelli ed opere sono le più antiche, o assolutamente parlando, o relativamente alle nazioni e letterature particolari, come tra noi la Commedia di Dante è nel suo genere, siccome la prima, così anche la migliore opera. (28. Agosto. 1823.).

Alla p. 3282. Bisogna distinguere tra egoismo e amor proprio. Il primo non è che una specie del secondo. L’egoismo è quando l’uomo ripone il suo amor proprio in non pensare che a se stesso, non operare che per se stesso immediatamente, rigettando l’operare per altrui con intenzione lontana e non ben distinta dall’operante, ma reale, saldissima e continua, d’indirizzare quelle medesime operazioni a se stesso come ad ultimo ed unico vero fine, il che l’amor proprio può ben fare, e fa. Ho detto altrove che l’amor proprio è tanto maggiore nell’uomo quanto in esso è maggiore la vita o la vitalità, e questa è tanto maggiore quanto è maggiore la forza e l’attività dell’animo, e del corpo ancora. Ma questo, ch’è verissimo dell’amor proprio, non è nè si deve intendere dell’egoismo. Altrimenti i vecchi, i moderni, gli uomini poco sensibili e poco immaginosi sarebbero meno egoisti dei fanciulli e dei giovani, degli antichi, degli uomini sensibili e di forte immaginazione. Il che si trova essere appunto in contrario. Ma non già quanto all’amor proprio. Perocchè l’amor proprio è veramente maggiore assai ne’ fanciulli e ne’ giovani che ne’ maturi e ne’ vecchi, maggiore negli uomini sensibili e immaginosi che ne’ torpidi[a]

Che l’amor proprio sia maggiore ne’ fanciulli e ne’ giovani che nell’altre età, segno n’è quella infinita e sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll’andar degli anni e coll’uso della vita proporzionatam. si scema, e in fine si suol perdere.

[Chiudi]. I fanciulli, i giovani, gli uomini sensibili sono assai più teneri di se stessi che nol sono i loro contrarii. Nella stessa guisa discorrasi dei deboli rispetto ai forti e simili. Così generalmente furono gli antichi rispetto ai moderni, e i selvaggi rispetto ai civili, perchè più forti di corpo, più forti ed attivi e vivaci d’animo e d’immaginazione (sì per le circostanze fisiche, sì per le morali), meno disingannati, e insomma maggiormente e più intensamente viventi. (Dal che seguirebbe che gli antichi fossero stati più infelici generalmente de’ moderni, secondo che la infelicità è in proporzion diretta del maggiore amor proprio, come altrove ho mostrato: ma l’occupazione e l’uso delle proprie forze, la distrazione e simili cose, essendo state infinitamente maggiori in antico che oggidì; e il maggior grado di vita esteriore essendo stato anticamente più che in proporzione del maggior grado di vita interiore, resta, come ho in mille luoghi provato, che gli antichi fossero anzi mille volte meno infelici de’ moderni: e similmente ragionisi de’ selvaggi e de’ civili: non così de’ giovani e de’ vecchi oggidì, perchè a’ giovani presentemente è interdetto il sufficiente uso delle proprie forze, e la vita esterna, della quale tanto ha quasi il vecchio oggidì quanto il giovane; per la quale e per l’altre cagioni da me in più luoghi accennate, maggiore presentemente è l’infelicità del giovane che del vecchio, come pure altrove ho conchiuso).

Il sacrifizio di se stesso e dell’amor proprio, qualunque sia questo sacrifizio, non potendo esser fatto (come niun’altra opera umana) se non dall’amor proprio medesimo, e d’altronde essendo opera straordinaria, sopra natura, e più che animale (certo in niuno altro animale o ente non se ne vede esempio, se non nell’uomo), anzi più ancora che umana, ha bisogno di una grandissima e straordinaria forza e abbondanza di amor proprio. Quindi è che dove maggiormente abbonda l’amor proprio, e dov’egli ha maggior forza, quivi più frequenti e maggiori siano i sacrifizi di se stesso, la compassione, l’abito, l’inclinazione, e gli atti di beneficenza. (Vedi a questo proposito le pagine 3107-9, 3117-19, 3153-4, 3167-9.). Ond’è che tutto questo debba trovarsi e si trovi infatti maggiore e più frequente ne’ giovani, negli antichi, negli uomini sensibili e d’animo vivo, e finalmente negli uomini, i quali hanno, generalmente parlando, maggior quantità e forza d’amor proprio e minore d’egoismo; di quello che ne’ maturi e ne’ vecchi, ne’ moderni (eccetto quanto alla compassione, come ho detto ne’ luoghi qui sopra citati, perchè gli antichi non si sacrificavano che principalmente per la patria), ne’ torpidi e insensibili e duri e d’animo tardo e morto, e per fine nelle donne; i quali in genere hanno maggior quantità e forza d’egoismo, e minore d’amor proprio.

Restringendo il discorso conchiudo in primo luogo, tanto esser lungi che l’egoismo sia in proporzion diretta dell’amor proprio, ch’egli n’è anzi in proporzione inversa; egli è segno ed effetto o della scarsezza e languidezza primitiva, o dello scemamento e affievolimento dell’amor proprio; egli abbonda maggiormente ed è maggiore ne’ secoli, ne’ popoli, nel sesso, negl’individui e nelle età di questi, in che la vita è minore, e quindi l’amor proprio più scarso, più debole e freddo.

Conchiudo in secondo luogo che i vecchi e maturi, i moderni, gl’insensibili, le donne hanno maggiore egoismo e minore e men vivo amor proprio che i fanciulli e i giovani, gli antichi, i sensibili, gli uomini (perocchè quelli hanno men vita o vitalità, e l’egoismo è qualità o passione morta, ossia men vitale che si possa)[a]

Da queste teorie sèguita che le bestie, avendo meno vita dell’uomo, perocchè hanno meno spirito e più del materiale, e di ciò ch’esiste e non vive ec., debbono aver meno amor proprio, e più egoismo; e così è infatti: e che tra loro la specie men viva, come il polipo, la lumaca ec. dev’esser la più egoista: e che scendendo ai vegetabili e quindi per tutta la catena delle creature, si può dir che più scema la vita più cresca l’egoismo, onde l’èssere il più inorganizzato, sia in certo modo il più egoista degli esseri. ec.

[Chiudi]. E che per questa cagione sono naturalmente e men disposti e meno soliti di sacrificarsi per chi o per che che sia, di compatire efficacemente o inefficacemente, di beneficare, di adoperarsi per altrui: il che si vede effettivamente essere, e non può negarsi. (Altrettanto dicasi dei deboli e dei forti, degl’infelici abitualmente e degli abitualmente fortunati, e simili; tutte qualità alle quali corrisponde e dalle quali nasce in questi maggiore, in quelli minore vitalità, ed abito di maggiore o minore attività e vita)[b].

Se non che potrà farsi un’eccezione in favor delle donne quanto alla compassione, massime inefficace. Perocchè a questa, come s’è detto ne’ luoghi citati qui dietro (p. 3294.), si richiede o giova, non solo la maggior vita, e quindi la maggior quantità e forza dell’amor proprio, ma eziandio la maggiore raffinatezza e delicatezza d’esso amor proprio e dell’animo: nelle quali proprietà le donne sono forse, o certo son riputate essere, superiori generalmente, e in parità di circostanze, agli uomini. E così pure discorrasi de’ moderni rispetto agli antichi. In tutto ciò che nella compassione o nella beneficenza richiede piuttosto delicatezza o più delicatezza, finezza, e quasi abilità ed artifizio d’amor proprio, che vivacità, energia, forza e copia del medesimo, e che abbondanza ed intensità di vita; in tutto ciò, dico, e in quello che ad esso appartiene, le donne, i moderni e quelli che nelle predette qualità di delicatezza sono loro analoghi, superano, ordinariamente parlando, gli uomini, gli antichi, i selvaggi, i villani e così discorrendo. Conforme appunto alle cose dette nelle succitate pagine.

Ond’è che le donne in quanto più deboli e bisognose d’altrui, sieno meno misericordiose e benefiche degli uomini; in quanto di corpo e d’animo più delicate, al contrario. Ma in ciò quelle qualità, cioè la debolezza e il bisogno, credo che ordinariamente prevagliano e sieno di maggiore e più notabile effetto che queste, cioè la delicatezza e simili. Onde, tutto insieme compensato, le donne sieno in verità, generalmente e per natura, più egoiste, e quindi meno misericordiose (massime in quanto alla compassione efficace) e meno benefiche degli uomini. Perocchè molto maggior parte ha nella beneficenza, nella disposizione e nell’atto del sacrificar se stesso, e nell’esclusione dell’egoismo, l’intensità, la forza, l’abbondanza della vita, e quindi dell’amor proprio, che la delicatezza e raffinatezza dell’animo disgiunte dalla forza ed energia ed attività ed interna vivace vita del medesimo. E ciò non pur negli uomini rispetto alle donne, ma generalmente in chi che sia, rispetto a chi che sia[a]

Secondo questi discorsi una donna vecchia, massime vivuta nella gran società, dev’essere la più egoista persona umana (p. natura, e regolarmente parlando) che possa concepirsi.

[Chiudi]. (28. Agos. 1823.). V. p. 3314.

Circa il verbo pascito, e il regolare e primitivo participio di pasco ch’egli dimostra, cioè pascitus, poi contratto in pastus, vedi Forcell. in fine di Compesco, ch’è un composto di Pasco. (29. Agosto. 1823.).

Distito da disto, dimostrerebbe il suo participio distatus o il supino distatum, se però quel continuativo o frequentativo è vero. Il supino statum di sto è noto. Del resto veggasi la p. 3849. (29. Agos. 1823.).

Alla p. 2843. Compesco, dispesco da pasco. Decerpo, discerpo ec. da carpo. (29. Agosto. 1823.).

Offenso as (offenser), defenso as, defensito as (difensare) da offensus, defensus di offendo, defendo. (29. Agos. 1823.).

Pattare, impattare, empatar, non so s’abbiano a far nulla con paciscor-pactus. Veggasi il Gloss. in proposito. (29. Agos. 1823.).

Alla p. 3072. I verbi latini neutri hanno ordinariamente il participio in rus con significato neutro. Quieturus cioè qui quiescet ( Sveton. in Jul. Caes. c. 16. par. 2.), mansurus cioè qui manebit, casurus cioè qui cadet, victurus cioè qui vivet, e altri tali infiniti. Perchè non dunque victus cioè qui vixit, casus cioè qui cecidit, (massime avendovi il verbale casus us, fatto, come altrove osservo esser solito, dal part. in us) ec.? quando pur sembra che quei participii in rus o derivino o almeno suppongano i participii rispettivi in us. Quanto a’ verbi attivi, per la stessa ragione, considerando che i lor participii in rus non sono passivi ma attivi, non dovrà fare gran maraviglia, nè parere incredibile che anche i loro participii in us avessero oltre il passivo significato, eziandio l’attivo, come io pretendo.

Celsus, excelsus, praecelsus dubito forte che originariamente non sieno altro che participii in attivo o neutro significato, appartenenti a’ verbi neutri cello, excello, praecello. De’ quali il primo, cioè cello, ch’è inusitato, ma ch’è sufficientemente dimostrato dagli altri due, suoi composti, e da antecello, v. il Forcell. in Excello.

Del resto s’io dico che i continuativi e i frequentativi si facevano da’ participii in us, piuttosto che da’ supini (in um o in u), intendo dell’origine di questa formazione, e de’ suoi primi tempi, e dell’antichità ec. In séguito, quando anche l’altre proprietà di tali verbi così formati erano già mal note, trascurate, cambiate ec. come altrove ho detto, non contendo che chi volesse formare nuovi verbi di questo genere, non li formasse piuttosto dal supino che dal participio in us del verbo originale (sia che questo participio non esistesse più, o che fosse per anche in uso), o vero indifferentemente dall’uno o dall’altro; o che mancando ancora il supino, non facesse che seguire l’analogia degli altri verbi così formati. Solamente osservo 1.o. che non perchè molti continuativi e frequentativi che si leggono negli scrittori dell’aureo tempo o de’ molto posteriori, non si trovino ne’ più antichi, si dee perciò sempre e facilmente conchiudere ch’essi fossero allora nuovi, e coniati appunto da quello o da quegli scrittori, o in quel secolo in cui lo troviamo. 2.o. Che l’uso di participii in us di verbi neutri, e d’altri di verbi attivi in significati attivi, non fu solamente proprio dell’antichissima latinità, ma anche dell’aurea, e della declinante e corrotta eziandio (fino forse a passare alle lingue figlie: v. la p. 3072.), come apparisce dal luogo di Velleio altrove da me notato, e dai vari esempi degli autori che usarono i cosiffatti participii da me sparsamente notati (i quali esempi si possono vedere nel Forcellini), sia che li prendessero a uno a uno da’ più antichi, o dall’uso d’allora; o che l’uso durasse in genere per tutti o quasi tutti i verbi neutri e attivi, ad arbitrio dello scrittore e del parlatore, o pur dell’uno soltanto o dell’altro ec. (29. Agos. 1823.).

Come l’uomo sia quasi tutto opera delle circostanze e degli accidenti: quanto poco abbia fatto in lui la natura: quante di quelle medesime qualità che in lui più naturali si credono, anzi di quelle ancora che non d’altronde mai si credono poter derivare che dalla natura, nè per niun modo acquistarsi, e necessariamente in lui svilupparsi e comparire, non altro sieno in effetto che acquisite, e tali che nell’uomo posto in diverse circostanze, non mai si sarebbero sviluppate, nè sarebbero comparse, nè per niun modo esistite: come la natura non ponga quasi nell’uomo altro che disposizioni, ond’egli possa essere tale o tale, ma niuna o quasi niuna qualità ponga in lui; di modo che l’individuo non sia mai tale quale egli è, per natura, ma solo per natura possa esser tale, e ciò ben sovente in maniera che, secondo natura, tale ei non dovrebb’essere, anzi pur tutto l’opposto: come insomma l’individuo divenga (e non nasca) quasi tutto ciò ch’egli è, qualunque egli sia, cioè sia divenuto. Qual cosa pare più naturale, più inartifiziale, più spontanea, meno fattizia, più ingenita, meno acquistabile, più indipendente e più disgiunta dalle circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere di sensibilità con cui l’uomo suol riguardare la donna, e la donna l’uomo, ed essere trasportato l’uno verso l’altra; quel tal genere, dico, di affetti e di sentimenti che l’uomo, e massimamente il giovane nella prima età, senz’ombra di artifizio, senza intervento di volontà, anzi tanto più quanto egli è più giovane, più semplice ed inesperto, e quanto meno il suo carattere è stato modificato e influito dall’uso del mondo e dalla conversazione degli uomini e pratica della società, suol provare alla vista o al pensiero di donne giovani e belle, o nel trattenersi seco loro; e così le donne giovani cogli uomini giovani e belli? quel tressaillement, quell’emozione, quell’ondeggiamento e confusione di pensieri e di sentimenti tanto più indistinti e indefinibili quanto più vivi, che parte par che abbiano del materiale, parte dello spirituale, ma molto più di questo, in modo che par ch’egli appartengano interamente allo spirito, anzi alla più alta e più pura e più intima parte di esso? Or questo genere di sentimenti e di affetti e di pensieri, questa qualità del giovane, cioè questa tale sensibilità, e la facoltà ed abito di provare questi siffatti sentimenti, non è per niun modo naturale nè innata, ma acquisita, ossia prodotta di pianta dalle circostanze, e tale che se queste non fossero state, l’uomo neppur conoscerebbe nè potrebbe pur concepire questa qualità, nè anche sospettare d’esserne capace. Il genere umano naturalmente è nudo, e, seguendo la natura, almeno in molte parti del globo, egli non avrebbe mai fatto uso de’ vestimenti, siccome le vesti sono affatto ignote p. e. ai Californii. Nè l’uomo nè il giovane non avrebbe mai veduto nè immaginato nelle donne (e così la donna negli uomini) nulla di nascosto. E nulla vedendo di nascosto, nè potendo desiderare o sperar di vedere, e ben conoscendo fin dal principio la nudità e la forma dell’altro sesso, egli non avrebbe mai provato per la donna altro affetto, altro sentimento, altro desiderio, che quello che per le lor femmine provano gli altri animali; nè avrebbe concepito intorno a lei altro pensiero che quello di mescersi seco lei carnalmente; nè l’aspetto o il pensiero o la compagnia della donna avrebbe in lui cagionato, neppur nella primissima gioventù, verun altro effetto che un desiderio il più puramente e semplicemente sensuale che possa mai dirsi, un impeto a soddisfare tal desiderio, ed un piacere (molto languido in se stesso per l’abitudine e l’assuefazione incominciata sin dalla nascita, e sempre continuata) altrettanto carnale che quel desiderio, e interamente, unicamente e manifestissimamente materiale, cioè appartenente e derivante dalla sola materia e dal senso, nè più nè meno che quel piacere che in lui avrebbe prodotto la vista di un color rosso bello e vivo o altra tal sensazione; se non solamente che quel diletto sarebbe stato per natura maggiore di questi; siccome tra gli altri diletti, o naturalmente o per circostanze, qual è maggiore qual è minore, non in se, ma rispetto agli uomini e agli animali, insomma agli esseri che li provano, e ne’ quali essi diletti nascono ed hanno l’essere.

Tale sarebbe stato l’uomo in natura per rispetto alla donna, e la donna per rispetto all’uomo. Ma introdotto l’uso de’ vestimenti (e di più que’ costumi e quelle leggi fattizie ed arbitrarie di società che impediscono o difficultano il torli di mezzo quando si voglia ed occorra), la donna all’uomo (massime al giovane inesperto) e l’uomo alla donna sono divenuti esseri quasi misteriosi. Le loro forme nascoste hanno lasciato luogo all’immaginazione di chi le mira così vestite. Per l’altra parte l’inclinazione e il desiderio naturale dell’un sesso verso l’altro non ha, per questo cangiamento di circostanze esteriori, potuto nè cessare nè scemare nel genere umano, niente più che negli altri animali. L’uomo dunque (e così la donna verso l’uomo) si è veduto sommamente e sopra tutte le cose trasportato, com’ei fu sempre, verso un essere il quale non più, come prima, se gli rappresentava e se gli era sempre rappresentato dinanzi tutto aperto e palese, e tale e tanto, quale e quanto esso è; ma verso un essere quasi tutto a lui nascosto, un essere che sin dalla sua nascita non se gli è rappresentato nè agli occhi nè al pensiero, o non suole rappresentarsegli, che velato tutto e quasi arcano. Ecco da una circostanza così estrinseca, così accidentale, così removibile, com’è quella de’ vestimenti, mutato affatto, massime nella fanciullezza e nella prima gioventù il carattere e le qualità dell’un sesso rispettivamente all’altro. La vista, il pensiero, la conversazione di questo essere sopra tutti e invincibilmente amato e desiderato, ma le cui forme non cadono (almeno abitualmente) sotto i suoi sensi, e che per conseguenza, essendone celate le forme (che sono sì gran parte e dell’uomo e d’ogni cosa), e di più impeditane o fattane difficile la libera conversazione, e quindi anche l’intera conoscenza del suo animo, costumi ec., per conseguenza, dico, è divenuto per lui tutto misterioso; il pensiero dico e la vista e il consorzio di questo essere l’immerge in una quantità di concezioni, d’immaginazioni, d’illusioni, di sentimenti, vivissimi e profondissimi perchè quell’essere gli è per natura dolcissimo e carissimo, ma nel tempo stesso confusissimi, incertissimi, per lo più falsissimi, sublimi, vasti, perchè quel medesimo essere trovandosi essergli quasi tutto misterioso e quasi cosa segreta ed occulta, i pensieri e i sentimenti ch’esso gli desta, sono tutti capitalmente e quasi esclusivamente governati e modificati e figurati, e in gran parte prodotti e creati, dalla fantasia, e questa gagliardamente mossa. Nello stato naturale, l’inclinazione innata dell’uomo verso la donna, trovando tutto aperto e palese, e niun luogo avendovi alla immaginativa, ella non producea che pensieri e sentimenti semplicissimi, distintissimi, chiarissimi, materialissimi. Ora essa inclinazione, esso amore ingenito e naturalmente fortissimo e ardentissimo, trovando il mistero, e i loro effetti congiungendosi nell’animo umano colla idea del mistero, o vogliamo dir con un’idea oscura e confusa, oscurissimi e confusissimi, ondeggianti, vaghi, indefiniti, cento volte meno sensuali e carnali di prima (poichè la detta idea non viene immediatamente dal senso ec.), e finalmente quasi mistici debbono essere i pensieri e gli affetti che risultano da questa mescolanza di sommo desiderio e tendenza naturale, e d’idea oscura dell’oggetto di tal desiderio e tendenza. E però l’uomo si rappresenta la donna in genere, e in ispecie quella ch’egli ama, come cosa divina, come un ente di stirpe diversa dalla sua ec. Perocchè la natura gliela propone come desiderabilissima e amabilissima, le circostanze gliela rendono desideratissima (perocch’ei non può facilmente nè subito ottenerla), ed esse altresì gli nascondono quale ella sia veramente ec. E così da una circostanza così materiale, com’è quella de’ vestimenti (e come son l’altre cagionate dai costumi e leggi sociali circa le donne), nasce nell’uomo un effetto il più spirituale quasi, che abbia mai luogo nel suo animo, i pensieri e i sentimenti più sublimi e più nobili e più propri dello spirito, la persuasione di non esser mosso che da esso spirito ec. ec.; da una circostanza così reale e visibile e determinata nascono in lui le maggiori illusioni, i più vaghi, incerti, indeterminati pensieri, la maggiore operazione della più fervida e più delirante e sognante immaginativa; da una circostanza così accidentale un effetto così intimo, così generale nel più de’ giovani (almeno per un certo tempo), così costante, così connesso e proprio, a quel che pare, del carattere dell’individuo; finalmente da una circostanza non naturale nasce un effetto che universalmente si considera come il più naturale, il più proprio dell’uomo, il più assolutamente inevitabile, il meno acquistabile, il meno fattibile, il meno producibile da altra forza che dalla stessa mano della natura, il più congenito ec. secondo che ho detto di sopra.

Così e per queste cagioni nacque nel genere umano tra l’uno e l’altro sesso la tenerezza, la quale i selvaggi non provano e non conoscono (nè gli uomini primitivi provarono, nè una nazione dove non s’usino le vestimenta ec. proverà o conoscerà mai) siccome niun altro degli effetti sopra descritti, anzi neppure, propriamente parlando, l’amore, ma l’inclinazione e l’impeto da lei cagionato, l’ ὁρμήν, l’abito e l’atto della tendenza; perchè non è propriamente amore quello che noi ponghiamo p. e. all’oro e al danaio. V. p. 3636. e 3909.

Altra prova delle proposizioni da me esposte nel principio di questo pensiero, può essere, fra le mille, la seguente. Qual uomo civile udendo, eziandio la più allegra melodia, si sente mai commuovere ad allegrezza? non dico a darne segno di fuori, ma si sente pure internamente rallegrato, cioè concepisce quella passione che si chiama veramente gioia? Anzi ella è cosa osservata che oggidì qualunque musica generalmente, anche non di rado le allegre, sogliono ispirare e muovere una malinconia, bensì dolce, ma ben diversa dalla gioia; una malinconia ed una passion d’animo che piuttosto che versarsi al di fuori, ama anzi per lo contrario di rannicchiarsi, concentrarsi, e ristringe, per così dire, l’animo in se stesso quanto più può, e tanto più quanto ella è più forte, e maggiore l’effetto della musica; un sentimento che serve anche di consolazione delle proprie sventure, anzi n’è il più efficace e soave medicamento, ma non in altra guisa le consola, che col promuovere le lagrime, e col persuadere e tirare dolcemente ma imperiosamente a piangere i propri mali anche, talvolta, gli uomini i più indurati sopra se stessi e sopra le lor proprie calamità. In somma generalmente parlando, oggidì, fra le nazioni civili, l’effetto della musica è il pianto, o tende al pianto (fors’anche talor di piacere e di letizia, ma interna e simile quasi al dolore): e certo egli è mille volte piuttosto il pianto che il riso, col quale anzi ei non ha mai o quasi mai nulla di simile. Questi effetti della musica su di noi ci paiono sì naturali, sì spontanei ec. ec. che non pochi vorranno e vogliono che sia proprio assolutamente della natura umana l’essere in tal modo affetti dall’armonia e dalla melodia musicale.

Ora, tutto al contrario di quello che avviene costantemente tra noi, sappiamo che i selvaggi, i barbari, i popoli non avvezzi alla musica o non avvezzi alla nostra, in udirne qualche saggio, prorompono in éclats di giubilo, in salti, in grida di gioia, si rompono dalle risa per la grande contentezza, e insomma cadono in un entusiasmo e in un’intera e decisa ebbrietà e furore e smania di pura allegria. (29-30. Agos. 1823.).

Votare ec. da voveo-votus. Persécuter, perseguitare ec. veggasi il detto da me nella teoria de’ continuativi circa il verbo sectari. Mercatare ec. da mercor mercatus. Veggansi il Gloss. il Forc. i Diz. franc. e spagn. (31. Agosto. Domenica. 1823.).

Patulus sembra un diminutivo di patus, andato in piena dimenticanza, restando in sua vece il detto diminutivo. — A quello che altrove ho detto di fabula e fabella, se ambo sieno diminutivi, o quello positivo, questo diminutivo, aggiungi l’esempio di baculum e baculus positivi, bacillum diminutivo. E vedi il luogo di S. Isidoro appo il Forcellini in Bacillum fine. (31. Agosto 1823.).

Circa quello che ho detto altrove della melodia, basti il tenere che il principio, l’origine prima, il fondamento, ossia la ragione originale del perchè qualsivoglia successione melodiosa di tuoni, sia melodiosa, cioè armonica successivamente; o vogliamo dire la prima fonte e ragione della convenienza scambievole de’ tuoni nella successione, non fu e non è quasi altro che l’assuefazion solamente, la quale bensì è suscettibile di ampliazione, di modificazioni infinite e variazioni, di applicazioni diversissime, di diversissime combinazioni delle sue parti; cose tutte che hanno infatti avuto ed hanno continuamente luogo nella musica e nelle composizioni del Musico, il cui uffizio non è originariamente e principalmente altro che il far buon uso delle assuefazioni generali circa l’armonia, cioè la convenienza, successiva o simultanea delle note delle corde, degli stromenti, voci ec. ec. servata la proporzione scambievole degl’intervalli, ossia del tempo. Ben può il Musico modificare in assaissime guise queste assuefazioni, ma dee però sempre riconoscerle e seguirle e in loro mirare, come fondamento e ragione dell’arte sua. (31. Agosto. Domenica. 1823.).

Alla p. 3298. Un uomo (o donna) di carattere naturalmente pacifico, placido, quieto, riposato, ordinato, inclinato a una certa pigrizia, è per natura portato all’egoismo. Quanto più l’uomo o per indole e condizion primitiva, o per effetto dell’età, o per istanchezza del mondo, per disinganno ec. ama il riposo, la pace, l’ordine, l’uniformità della vita, è lontano dal calore, dai desiderii vivi, dai disegni vasti o impetuosi, o fervidi, o attivi ec. è dedito all’inazione, al metodo; anzi quanto più egli è tollerante delle ingiurie e degli stessi patimenti per debolezza d’animo o di corpo o d’ambedue, quanto è più disposto e solito di rinunziare al risentimento, di chinare il capo alle circostanze, alla necessità, di sacrificare e di posporre qualunque cosa alla conservazione della sua quiete interna ed esterna e della sua inattività; quanto più l’uomo è vile e codardo; quanto più suole appagarsi del presente, soddisfarsi di ciò che gli accade, pigliar le cose come vengono; tanto meno egli è disposto e solito di sacrificarsi o adoperarsi per altrui; tanto meno è accessibile alla compassione, tanto più è inclinato e tanto più ha d’egoismo. L’abitudine dell’ozio in qualsivoglia età, è sempre conciliatrice d’egoismo. In somma per tutte queste osservazioni, e per qualunque altra si voglia fare intorno ai vari caratteri degli uomini, apparisce e sempre apparirà, che la natura dell’egoismo è un ghiaccio dell’animo; un freddo, un congelamento, una quasi concrezione, una durezza o un induramento, una secchezza o un disseccamento dell’amor proprio; una povertà, una scarsezza di vita; una inattività effettiva, o un’inclinazione alla medesima ec.; o naturale o avventizia che sia, o morale o fisica, o l’uno e l’altro, o portata dalla nascita e cresciuta poi e confermata coll’assuefazione colle circostanze cogli avvenimenti della vita ec., o da queste prodotta in contrario e in dispetto dell’indole primitiva ec. (31. Agosto. 1823.). Io credo potere asserire che generalmente gli uomini meno soggetti a passioni veementi, quelli che non amano il piacere, quelli che mai non vissero per li piaceri, mai non furono trasportati da’ piaceri e dal desiderio e furore di questi (sieno piaceri corporali o spirituali), o che più nol sono; anche i meno iracondi, i più pazienti, e simili, per natura, o per abito contratto; sono i più inclinati all’egoismo, i più alieni abitualmente dal compatire e dal beneficare; spesso anche i più ingiusti per volontà riflettuta. E i contrari viceversa.

Sono moltissimi che amano, predicano, promuovono, ed esercitano esclusivamente la giustizia, l’onestà, l’ordine, l’osservanza delle leggi, la rettitudine, l’adempimento de’ doveri verso chi che sia, l’equa dispensazione de’ premi e delle pene, la fuga delle colpe; ma ciò non per virtù, nè come virtù, non per finezza o grandezza o forza o compostezza d’animo, non per inclinazione, non per passione, ma per viltà e povertà di cuore, per infingardaggine, per inattività, per debolezza esteriore o interiore, perchè non potendo (per debolezza) o non volendo (per pigrizia) o non osando (per codardia) nè provvedersi nè difendersi da se stessi, vogliono che la legge e la società vegli per loro, e provvegga loro e li difenda senza loro fatica, e in modo ch’essi se ne riposino su di lei; perchè la via del retto è la meno pericolosa, la sola che nel mondo sia palesemente permessa; perchè l’onestà delle azioni avendo (almeno apparentemente) meno ostacoli a combattere, cagiona meno imbarazzi, esige meno attività, meno travagli, produce conseguenze meno moleste; perchè non ardiscono contravvenire alle leggi, nè farsi alcun nemico, molto meno quei che comandano e che vegliano all’esecuzione d’esse leggi; perchè temono il castigo, la riprensione, il biasimo pubblico, si lasciano imporre dall’apparenza dell’opinione universale, la quale opinione mostra di stimare o di non molestare nè denigrare i buoni, e di odiare e biasimare i cattivi ec. perchè non hanno spirito d’aspirare a cose straordinarie, nè di procacciarsi o beni o piaceri, nè di avanzare il loro stato ec., col subire qualche, ancorchè minimo, pericolo, col combattere qualche ostacolo, ec. nè di nulla tentare fuor del consueto e dell’ordine, e nulla rischiare, ec. Questi tali, benchè incapaci di far male o torto (volontariamente) ad alcuno, o d’offendere altrui in verun modo, di soverchiare ec. sono grandissimi egoisti, chiusi alla compassione, ignari della beneficenza. Sono altri ch’esercitano ed amano al modo stesso la giustizia, non per virtù, nè anche per viltà, ma perchè stanchi e disingannati del mondo, e nulla più curandosi di quanto si possa acquistare o coll’ingiustizia o comunque, non cercano più che la pace, la quale non si trova fuor dell’ordine, e però sono amici dell’ordine. Questi ancora sono per lo più egoisti o nati o divenuti. (1. Settembre. 1823.).

Italianismi nell’uso della voce unus. Vedi Svetonio, in Iul. Caes. cap. 32. par. 1. e quivi il Pitisco ec. col Forcellini ec. (1. Sett. 1823.).

Un francese, un inglese, un tedesco che ha coltivato il suo ingegno, e che si trova in istato di pensare, non ha che a scrivere. Egli trova una lingua nazionale moderna già formata, stabilita e perfetta, imparata la quale, ei non ha che a servirsene. Nè dal principio della loro letteratura in poi, è stato mai bisogno ad alcuno scrittore di queste nazioni, qual ch’ei si fosse, il formarsi una lingua moderna, cioè tale che volendo scrivere, come ognun deve, alla moderna, ei potesse col di lei mezzo esprimere i suoi concetti in qualsivoglia genere. Come dal principio delle loro letterature in poi, quelle nazioni non hanno mai intermesso di coltivar esse medesime gli studi in esse introdotti; o creando e inventando nuovi generi o discipline, con esse hanno naturalmente e sin dal loro principio creato o formato il linguaggio che loro si conveniva; o accettando generi o discipline forestiere, non mai per ancora in esse nazioni conosciute o trattate, insieme con essi generi e discipline accettarono senza contrasto alcuno quei modi e quei vocaboli, ancorchè forestieri, che con esse erano congiunte, e che a volerle trattare indispensabilmente si richiedevano; così non è stato mai tempo alcuno in cui gli scrittori di quelle nazioni, avendo che scrivere, non avessero come scrivere; mai tempo alcuno in cui quelle nazioni non avessero lingua nazionale moderna per qualunque genere di letteratura e per qualsivoglia disciplina da loro trattata.

Ben diverso è oggidì il caso dell’Italia. Come noi non abbiamo se non letteratura antica, e come la lingua illustre e propria ad essere scritta, non è mai scompagnata dalla letteratura, e segue sempre le vicende di questa, e dove questa manca o s’arresta, manca essa pure e si ferma; così fermata tra noi la letteratura, fermossi anche la lingua, e siccome della letteratura, così pur della lingua illustre si deve dire, che noi non ne abbiamo se non antica. Sono oggimai più di centocinquant’anni che l’Italia nè crea, nè coltiva per se verun genere di letteratura, perocchè in niun genere ha prodotto scrittori originali dentro questo tempo, e gli scrittori che ha prodotto, non avendo mai fatto e non facendo altro che copiare gli antichi, non si chiamano coltivatori della letteratura, perchè non coltiva il suo campo chi per esso passeggia e sempre diligentemente l’osserva, lasciando però le cose come stanno; nè per rispetto di questi scrittori verun genere della nostra letteratura s’è per niuna parte avanzato o migliorato, niun genere nuovo introdotto; la nostra letteratura è d’allora in poi, quanto a questi scrittori, affatto stazionaria; or questo si chiamerà aver coltivato la nostra letteratura? potremo dir che sia stata coltivata senza profitto alcuno: ciò viene a esser la stessa cosa.

In questo spazio di tempo la letteratura francese e la tedesca sono nate, la letteratura inglese si è primieramente formata e stabilita. Queste tre letterature, quante elle sono e quanto abbracciano, s’includono, si può dir, tutte, quanto al tempo, ne’ centocinquant’anni della immobilità della nostra letteratura. La depravazione e quindi il cominciamento dell’ozio e della inoperosità della letteratura italiana furono quasi il segnale alle altre letterature più famose d’Europa di sorgere e comparire nel mondo. Elle sono sorte, e in breve spazio hanno avanzato e passato i termini da noi già tocchi, e il progresso universale della letteratura e delle cognizioni umane ne’ centocinquant’anni ultimi è stato così rapido e così grande, ch’egli equivale per così dire a quello fatto per tutti i secoli addietro infino all’epoca nominata. Ciò singolarmente si può dire in quanto alla filosofia, la quale rinata dopo la detta epoca, e tutta nuova, fa parere più che pigmea la filosofia di tutti gli altri secoli insieme. Ella è divenuta la scienza, il carattere, la proprietà de’ moderni; ella regge, domina, vivifica, anima tutta la letteratura moderna; ella n’è la materia e il subbietto; ella in somma è il tutto oggidì negli studi, e in qualsivoglia genere di scrittura; o certo nulla è senza di lei.

Fra queste generali vicende e questo progresso della letteratura, l’Italia, come di sopra dissi, nulla ha fatto per se. Gli scrittori alquanto originali ch’ella ha prodotti in questo tempo, gli scrittori che posson meritar nome di moderni, non sono stati sufficienti nè per originalità nè per numero, a darle una lingua nazionale moderna, nello stesso modo ch’ei non sono stati sufficienti a fare ch’ella avesse una letteratura moderna nazionale.

E quanto alla lingua, l’insufficienza loro a far che l’Italia n’avesse una moderna sua propria, è venuta principalmente da questa cagione. Trovando interrotta in Italia la letteratura, essi hanno trovato interrotta la lingua illustre; antica quella, antica ancor questa. Una lingua antica non può esser buona a dir cose moderne, e dirle, come devesi, alla moderna: nè la nostra lingua in particolare era buona ad esprimere le nuove cognizioni, a somministrare il bisognevole a tanta e sì vasta novità. Introducendosi fra noi appoco appoco la notizia delle letterature e discipline straniere, que’ pochi italiani ch’eccitati da queste nuove cognizioni si trovarono un capitale di mente da poter loro aggiungere qualche cosa di loro; quei molti più che invaghiti della novità, o mossi da qualunque altro motivo, deliberarono, senza però aver nulla di proprio da scrivere, d’introdurre o divulgare, come si doveva, in Italia i nuovi generi, le nuove letterature e discipline, la nuova filosofia, anzi per meglio dire, la filosofia, non bastando a ciò la lingua italiana antica, intieramente la dismessero, e come di facoltà e di pensieri, così di lingua andarono a scuola dagli stranieri; e da cui toglievano le cose, sia per solamente ripeterle, sia pur talora per accrescerle e in qualche parte migliorarle, da essi tolsero anche le voci e le maniere e le forme del favellare e scrivere. Gli scienziati propriamente detti, rispetto ai quali la nostra nazione non fu quasi per alcun tempo seconda a verun’altra, sempre però poco curanti della lingua, seguirono la barbarie venuta in uso, come il linguaggio ch’era loro alla mano, e come indifferentemente avrebbero seguito qualunque altro linguaggio o puro o impuro che avessero avuto in pronto e che fosse stato comune, il che sempre avevano fatto qui ed altrove.

Tristo veramente e difficile era il caso loro, ma peggio il partito a cui s’appigliarono. Difficile il caso, perocchè quanto è facile il continuare a una nazione la sua lingua illustre insieme colla sua letteratura, tanto è difficile, interrotta per lungo spazio la letteratura, e dovendo quasi ricrearla, riannodare la lingua a lei conveniente colla già antiquata lingua illustre della nazione, colla lingua che fu propria della nazionale letteratura prima che questa fusse totalmente interrotta.

In questo caso non si trovò forse mai nazione veruna (se non se oggidì la spagnuola quando ella intraprendesse di ristorare la sua quasi spenta letteratura). Ma questo appunto è il caso nel quale si trova oggi l’Italia.

Noi abbiamo una lingua; antica bensì, ma ricchissima, vastissima, bellissima, potentissima, insomma colma d’ogni sorta di pregi; perocchè abbiamo una letteratura, antica ancor essa, ma vasta, varia, bellissima, abbondantissima di generi e di scrittori, splendidissima di classici, durata per ben tre secoli e più, tale che rispetto all’età ch’ella aveva quando fu tralasciata, l’età che hanno presentemente l’altre letterature, è affatto giovanile. Per queste cagioni, e per altre che ora non accade specificare, questa lingua italiana che noi ci troviamo, supera di ricchezza, di potenza, di varietà tutte le lingue moderne, salvo forse la tedesca; di bellezza avanza d’assai tutte queste lingue senza eccezione nè dubbio alcuno; d’altri pregi è superiore, non solamente a esse lingue, ma alle antiche eziandio. Tale si è la lingua italiana per se ed intrinsecamente. Ma ella è antica; cosa estrinseca; ed essendo antica non basta, nè si adatta tal quale ella è, a chi vuole scriver cose moderne in maniera moderna. Perciò forse potrà un uomo sano volere o concedere che una tal lingua si gitti e dimentichi come divenuta del tutto inutile, e che dando all’Italia una letteratura moderna propria, se le debba dare con essa insieme una lingua affatto nuova, come finora s’è fatto, o pigliandola dagli stranieri, ch’è pur quel che s’è fatto, o creandola di pianta, quasi niuna, o solo una imperfettissima e debole e scarsa e spregevole lingua, avesse avuto l’Italia per lo passato.

Ma certo, come questo è assurdissimo, e siccome per prova veggiamo, dannosissimo; così quello è necessario, evidente e certo, che volendo dare alla moderna Italia una moderna letteratura, conviene non già mutare la sua antica lingua, nè disfarla, nè rinnovarla, ma salvi i suoi fondamenti, l’indole e proprietà sua, e tutti i suoi pregi secondo le loro speciali e proprie qualità, rimodernarla, e fare in modo che la lingua moderna italiana illustre sia propriamente una continuazione, una derivazione dell’antica, anzi la medesima antica lingua continuata, niente meno che la francese dell’ultima metà del passato secolo, e quella del presente, non sono altra che quella del tempo di Luigi XIV. continuata di mano in mano.

Or questo ai francesi fu facile, perchè la loro letteratura non fu interrotta per alcun tempo, da Luigi in poi; laonde la loro lingua fu sempre continuata naturalmente e senza sforzo, e sempre successivamente modificandosi secondo i tempi, fu in ciascun tempo moderna, ma una in tutti i tempi considerati insieme. A noi bisogna far forza alle cose, e quasi scancellare e annullare o nascondere il fatto, cioè governarci in modo che quel che fu, apparisca non essere stato, e la lingua italiana sembri non essere stata per alcun tempo interrotta, ma continuamente avanzata e modificata sino a divenir propria e conforme e conveniente all’odierna Italia ed alla sua moderna letteratura.

Quindi si consideri le grandissime difficoltà ed ostacoli che si attraversano, le angustie che stringono, la vera infelicità della condizione in cui si trova oggidì l’italiano che aspiri ad esser scrittor classico, cioè pensare originalmente, dir cose proprie del tempo, dirle in modo proprio del tempo, e perfettamente adoperare la sua lingua, senza le quali condizioni, e una sola che ne manchi, non si può mai nè pretendere giustamente, nè ragionevolmente sperare l’immortalità letteraria. (Alla quale, e sia detto per incidenza, ben raro o niuno è che giungesse per mezzo di opere scritte in lingua non sua; come se noi spaventati dalle difficoltà che ho detto e son per dire, volessimo scrivere in francese piuttosto che in italiano.)

Un italiano ancorchè pienamente istruito in tutto ciò che si richiede oggidì in qualsivoglia luogo a un perfetto uomo di lettere, ancorchè sommamente ricco d’immaginazione e di cuore, ancorchè fecondissimo e gravido di pensieri propri, importantissimi, profondissimi, novissimi, d’invenzioni, d’idee d’ogni genere convenientissime al tempo; ancorchè osservatore, meditatore, ragionatore senza pari; ancorchè peritissimo di tutte l’arti e artifizi dello stile; volendo perfettamente scrivere in italiano, ed essendo, per ogni altro riguardo, capacissimo di perfettamente scrivere; si trova mancare affatto della lingua in cui possa farlo, non solo perfettamente, ma pur mediocrissimamente. A questo tale è duopo apprestarsi prima di tutto una lingua colle sue mani. Ma questa in qual modo? Manco difficile sarebbe il crearsela. Se l’Italia non avesse che una lingua imperfettissima, ristrettissima e bambina, manco difficile sarebbe a un grande ingegno il perfezionarla, l’arricchirla, il dilatarla, il condurla a maturità. Ma l’Italia ha una lingua altrettanto perfetta quanto immensa; bensì da lungo tempo dismessa, e però impropria a’ di lui bisogni, a’ quali ella non fu ancor mai per alcuno adattata nè adoperata. Conviene adunque indispensabilmente che l’ingegno da noi supposto, innanzi di porsi a scrivere, perfettamente impari questa lingua infinita, che tutta l’abbracci, che la si converta in succo e sangue, che se ne renda risolutissimo e pienissimo possessore e padrone, che n’abbia per le dita e il tutto e fino alle menome parti franchissima e speditissimamente. Come senza ciò potrebb’egli derivarne e farne nascere e pullulare in guisa che paia del tutto spontanea, una lingua conforme alla natura e a’ bisogni de’ moderni tempi e delle moderne cognizioni, la qual sembri e sia onninamente una coll’antica? come commettere insieme quella con questa per modo che nulla appaia la commissura? Ma questa lingua essendo antica, egli non la può già imparar dalla balia, ma gli conviene apprenderla per istudio; essendo infinita e in se diversissima, egli non la può apparare con istudio nè breve nè leggero, ma solo con lunghissimi sudori, e profonde ricerche sulle sue proprietà, e continuo esercizio di leggerla e di scriverla, e assiduo ed attentissimo studio de’ suoi classici che sono in grandissimo numero. E così facendo, troverà, e sempre più si persuaderà, che siccome della lingua greca si dice, così della italiana si può dire, lei essere veramente infinita, e tale ch’egli è impossibile di tutta abbracciarla, e mai non viene quel giorno che nuove conoscenze intorno a essa lingua non si possano acquistare, nè che il cammino sia terminato. Ma senza andare agli eccessi; sebbene nulla v’ha qui d’esagerato; senza però voler conservare una troppo grande esattezza nel ragionamento; supponendo ancora, com’è il vero, che un grande e felice ingegno possa arrivare a comprender coll’animo e possedere, se non tutta quanta la nostra lingua, pur tanta parte di lei che la cognizione e la domestichezza d’essa parte, gli basti a poter sulle fondamenta, sull’ordine, sul disegno dell’antica lingua fabbricare come una continuazione d’edificio la moderna; veggasi quanto a costui convien travagliare innanzi di poter far uso de’ suoi pensieri. Ella è cosa certa che la vera cognizione e padronanza di una lingua come l’italiana, domanda, per non dir troppo, quasi una metà della vita, e dico di quella cognizione e padronanza ch’è indispensabile a chiunque debba veramente ristorarla. Ma la scienza, la sapienza, lo studio dell’uomo, non domandano tutta la vita? e quella immensa moltiplicità di cognizioni piccole e grandi, quella universalità che si richiede oggidì quasi generalmente a ogni uomo di lettere, ma ch’è sommamente necessaria al filosofo; la cognizione ed uso e pratica di tante altre lingue antiche e moderne e de’ loro autori, letterature ec. domandano poca parte di tempo? Certo è veramente dura e deplorabile oggidì la condizione dell’italiano il quale avesse nella sua mente cose degne d’essere scritte e convenienti a’ nostri tempi; perocch’egli, anche volendo usare la maggior semplicità del mondo, non avrebbe una lingua naturale in cui scrivere (come l’hanno i francesi ec. atta a potervi subito scrivere, com’ei l’abbiano competentemente coltivata e studiata), nè il modo di bene esprimere i suoi concetti gli correrebbe mai alla penna spontaneo, ma converrebbe ch’egli si fabbricasse l’istrumento con cui significar le sue idee. E d’altronde ella è ben ardua e difficile la condizione di un ingegno quantunque si voglia grande e colto, al quale oltre la grande impresa di ristorare la letteratura italiana, e dare o mostrare all’Italia una letteratura propria moderna, quasi ciò fosse poco, converrebbe in prima necessariamente aprirsi la via col ristorare la lingua italiana e dare all’Italia una lingua nazionale moderna, quasi questa ancora non fosse per se sola un’impresa sufficiente a una vita intera e ad un eccellente ingegno.

Tanta è la difficoltà di condurre a termine due imprese di questa sorta, il che dovrebb’esser pure necessariamente lo scopo e l’istituto di qualunque letterato italiano degno di questo nome; e d’altronde egli è così vero che la letteratura e la lingua mai non si scompagnano, nè l’una dall’altra si dissomigliano, e ch’egli è quasi impossibile di scrivere perfettamente, e in forma che paia spontanea, una lingua per solo studio apparata o fabbricatasi; che io siccome so certo che l’Italia non avrà propria letteratura moderna finch’ella non avrà lingua moderna nazionale, così mi persuado che tal lingua ella non avrà mai finchè non abbia tale letteratura: onde (se pur dobbiamo sperarlo) nata una letteratura moderna italiana, seco a paro nascerà una moderna lingua, e quindi di mano in mano cresceranno ambedue appoco appoco, l’una insieme coll’altra e in virtù dell’altra scambievolmente, ma più la lingua in virtù della letteratura, che questa per l’aiuto di quella. E così con mio dispiacere predìco che seppur avremo mai più lingua moderna propria, questa non nascerà dall’antica nè a lei corrisponderà, ma nascendo dalla nuova letteratura, a questa sarà conforme: ed essendo di origine straniera, ci si verrà appoco appoco appropriando e pigliando forme nazionali (quai ch’elle saranno per essere; non già le antiche) a proporzione che la nuova letteratura diverrà nazionale, e metterà radici in Italia, e si nutrirà e crescerà del nostro terreno, e produrrà frutti propri italiani. A questo mi conduce il considerare che nè i nostri antichi scrittori nè i moderni o antichi di nazione alcuna presente o passata, furono mai pensatori, originali ec. scrivendo in altra lingua che in quella del loro secolo e in quella usata generalmente da’ nazionali, e che loro veniva alla penna spontanea, ben da loro assai volte (come da Cicerone) raffinata, riformata, accresciuta, perfezionata, ma non mai per solo studio appresa, per solo studio quasi ricreata. Al quale immenso travaglio, ed alla continua difficoltà di scrivere e perfettamente scrivere in una tal lingua ancor dopo appresa, formata e posseduta, è quasi impossibile trovare un pensatore originale, un gran filosofo, un uomo di genio e di grande immaginazione, che si assoggetti; o che assoggettandocisi, si conservi in se stesso e ne’ suoi scritti, pensatore, filosofo, originale; senza di che sarebbe inutile l’esservisi assoggettato. Non altrimenti che siano inutili allo scopo di dare all’Italia lingua e letteratura moderna propria, coloro che oggi si sforzano di scrivere in buono italiano, da’ quali è rimota ogni sorta di pensiero, non solo nuovo ma moderno, e che avendo a nominar qualche cosa moderna, la nominano o accennano copertamente, e avendo talvolta a mostrare qualche conoscenza, qualche idea di quelle che i nostri antichi non avevano, si fanno un pregio e un dovere di non farlo che dissimulatamente, fingendosi il più che possono ignoranti di quanto gli antichi ignoravano. E non altrimenti che inutili al sopraddetto scopo sieno oggidì coloro che tra noi pur pensano qualche cosa (ben pochi e poco), o che da’ paesi di fuori recano a noi qualche pensiero ec. i quali tutti non iscrivono italiano ma barbaro. E questa separazione e distinzione di gente che scrive in italiano (vero o preteso), e gente che pensa, stimo per le suddette ragioni, che sempre sia per durare in Italia; mentre questi non prevagliano a quelli, formando finalmente appoco appoco un nuovo italiano illustre e rendendolo universale tra noi in vece dell’antico. Dal che siamo ancora ben lontani, massime oggidì, che il numero e il valore di quelle ombre di filosofi che ha veduto fin qui l’Italia, va pur sempre notabilissimamente scemando; e sempre per lo contrario crescendo, non il valore, ma il numero di quelli che pretendono e aspirano a scrivere il buon italiano; onde l’Italia è quasi tutta rivolta di nuovo alla sua antica lingua, e di pensieri oramai nulla più pensa nè cura nè richiede; propriamente nulla.

Mala cosa per certo si è l’interruzione degli studi, dovunque ella accada, sì per mille altri danni, sì perchè colla letteratura ella antiqua la lingua illustre[a]

Puoi vedere il Dialogo Delle Lingue dello Speroni dalla p. 121. in poi, cioè tutto il discorso tra il Lascari e il Peretto, sino alla fine del Dialogo.

[Chiudi]. Di modo che risorgendo essa letteratura, l’è grandissimo impedimento e indugio a poter crescere e formarsi la mancanza di lingua a lei conveniente, e il tempo e l’industria che bisogna spendere in fornirnela. Quanto crediamo noi che ritardasse gli avanzamenti dello spirito umano (non in una sola nazione ma in tutta l’Europa) dopo il risorgimento degli studi, la mancanza di lingue proprie alle nuove lettere? La qual mancanza non da altro provenne che dalla diuturna interruzione della letteratura in Europa. Perocchè la lingua latina non avrebbe cessato di esser parlata e propria degli europei, se fosse durata la letteratura latina. Ben si sarebbe sempre modificata secondo i tempi, di modo ch’ella oggidì sarebbe diversa dall’antica; ma sarebbe pur lingua latina; e in Europa si parlerebbe e scriverebbe il latino come lingua propria, come moderna, come conveniente a’ nostri tempi (quale infatti ella sarebbe); e lo spirito umano sarebbe più oltre ch’ei non è, perchè sarebbe stato impiegato nel coltivar la sapienza e le lettere quel tempo che fu dovuto spendere nel formare delle lingue convenienti a queste, e ai costumi e al carattere de’ moderni secoli. Il che volendo evitare e risparmiare i primi cultori de’ risuscitati studi, si ostinarono a volere scrivere in latino; ma il latino era lingua antica, nè mai in una lingua antica si potranno scriver cose moderne nè scriverle modernamente. E molto nocque una tale ostinazione al progresso de’ lumi e della coltura e alla formazione dello spirito nazionale e moderno. Il quale non mai si sarebbe formato se non fossero state formate e stabilite le lingue moderne in vece della latina. Siccome per lo contrario si vede che queste non prima furono formate e stabilite di quel che lo spirito nazionale e moderno pigliasse una consistenza e una certa forma e fisonomia propria, prima in Italia, poscia in Ispagna, indi in Francia e in Inghilterra, ultimamente in Germania, che ultima di tutte queste nazioni lasciò l’uso della lingua latina come letterata e illustre, e le sostituì la nazionale. E questo esempio dell’Europa si deve proporzionatamente applicare e paragonare al caso dell’odierna Italia, e dedurne delle congetture, certo assai verisimili e solide, circa il futuro esito delle nostre presenti circostanze. (1-2. Settembre. 1823.).

Del resto, dalle considerazioni qui dietro fatte sulla necessità che l’Europa e lo spirito umano avevano di nuove lingue illustri a potersi avanzare e nè costumi e nelle scienze e nelle lettere e nella filosofia, dopo il risorgimento degli studi; e sul grandissimo detrimento e ritardo che portò alla rinata civiltà la rinnovazione dell’uso esclusivo del latino come lingua illustre; e sul maggior danno e indugio che le avrebbe apportato la continuazione di tale uso, apparisce più visibilmente che mai quanto debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma la nazione istessa, e l’Europa tutta e lo spirito umano. Perocchè Dante fu il primo assolutamente in Europa, che (contro l’uso e il sentimento di tutti i suoi contemporanei, e di molti posteri, che di ciò lo biasimarono: v. Perticari Apologia cap. 34.) ardì concepire e scrisse un’opera classica e di letteratura in lingua volgare e moderna, inalzando una lingua moderna al grado di lingua illustre, in vece o almeno insieme colla latina che fino allora da tutti, e ancor molto dopo da non pochi, era stata e fu stimata unica capace di tal grado. E quest’opera classica non fu solo poetica, ma come i poemi d’Omero, abbracciò espressamente tutto il sapere di quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ec. E riuscì classica non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le primarie; nè solo rispetto all’Italia ma a tutte le nazioni e letterature. Senza un tale esempio ed ardire, o s’ei fosse riuscito men fortunato e splendido, e se quell’opera pel suo soggetto fosse stata meno universale, e meno appartenente, per così dire, a ogni genere di letteratura e di dottrina; si può, se non altro, indubitatamente credere che sì l’Italia sì l’altre nazioni avrebbero tardato assai più che non fecero a inalzare le lingue proprie e moderne al grado di lingue illustri, e quindi a formarsi delle letterature proprie e moderne e conformi ai tempi, e quindi lo spirito e il carattere nazionale, moderno, distinto, determinato ec. Dante diede l’esempio, aprì e spianò la strada, mostrò lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl’italiani: l’Italia alle altre nazioni. Questo è incontrastabile. Nè il fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina, perchè così giudicò richiedere le circostanze de’ tempi e la natura delle cose; e volle espressamente bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati, de’ dotti, de’ legislatori, notari ec., come non più convenevole ai tempi. Il fatto di Dante venne da proposito e istituto, e mirò ad uno scopo; e il proposito, l’istituto e lo scopo (quanto spetta al nostro discorso[a]

Perocchè anche altri istituti egli seguì, ed altri fini si propose, tutti bellissimi e savissimi, ma che non appartengono al nostro proposito.

[Chiudi]) (siccome eziandio la scelta e l’uso de’ mezzi) fu da acutissimo, profondissimo e sapientissimo filosofo. Veggasi il Perticari nel luogo citato. (2. Sett. 1823.).

I francesi amano di usare il numero ordinale pel cardinale. Louis quatorze, livre deux etc. Pretto idiotismo e sgrammaticatura. Or vedilo altresì, se non fallo, appo Svetonio in Iul. Caes. c. 39. par. 4. e appo gli autori quivi allegati dal Pitisco ec. (2 Settembre. 1823.). V. p. 3544.3557.

I limiti della materia sono i limiti delle umane idee. (3. Settembre. 1823.).

Alla p. 3235. Instigo as da instinguo is, onde instinctus a um e instinctus us. Il semplice è stinguo (onde anche exstinguo, restinguo, distinguo ec.) e di questo verbo ho detto altrove in altro proposito. Quelli che derivano instigo da insto ec. molto s’ingannano. Gli altri verbi da noi raccolti in questa categoria mostrano ch’ei viene da instinguo come jugo da jungo ec.[b]

Osservisi che instigo propriam. è continuativo p. la significaz., perocchè instinguo propriamente significa l’atto del pungere, e quindi dello spingere, dell’indurre, ma instigo significa lo stimolare, lo stare attorno, il far ressa p. indurre. L’instinguere è lo scopo dell’instigare.

[Chiudi] Chi volesse che insidior (fors’anche si trova insidio) venga a dirittura da insideo piuttosto che da insidiae (la qual voce in tal caso verrebbe non da insideo ma da insidior), lo mostrerebbe appartenente a questa categoria, e in tal caso sarebbe da notare ch’ei non nascerebbe da un verbo della terza, ma (da un anomalo) della seconda. (3. Settembre. 1823.). Potrebbe però anche venire da insido is [c]. Invideo, invidia, invidiare ital. ec. (3. Sett. 1823.).

Alla p. 3098. Tutte le nazioni e società primitive, non altrimenti che oggidì le selvagge, riputarono l’infelice e lo sventurato per nemico agli Dei o a causa di vizi e delitti ond’ei fosse colpevole, o a causa d’invidia o d’altra passione o capriccio che movesse i Numi ad odiar lui in particolare o la sua stirpe ec. secondo le diverse idee che tali nazioni avevano della giustizia e della natura degli Dei. Un’impresa mai riuscita mostrava che gli Dei l’avessero contrariata o per se stessa o per odio verso l’imprenditore o gl’imprenditori. Un uomo solito a échouer nelle sue intraprese, era senza fallo in ira agli Dei. Una malattia, un naufragio, altre tali disgrazie provenienti più dirittamente dalla natura erano segni più che mai certi dell’odio divino. Si fuggiva quindi l’infelice, come il colpevole; se gli negava ogni soccorso e compassione, temendo di farsi complice in questo modo della colpa, per poi divenire partecipe della pena. Qua si dee riferire l’infamia pubblica in cui erano i lebbrosi appresso gli Ebrei, e lo sono ancora, s’io non m’inganno, appo gl’indiani. Gli amici e la moglie di Giobbe lo stimarono uno scellerato, com’ei lo videro percosso da tante disgrazie, benchè testimonii dell’innocenza della passata sua vita. I Barbari dell’isola di Malta vedendo l’Apostolo S. Paolo naufrago, e pur salvato in terra, e quivi assalito da una vipera, lo stimarono un omicida che la divina vendetta perseguitasse per ogni dove ( Act. cap. 28. 3-6.). Rimane eziandio nelle antiche lingue il segno, come d’ogni altra antica cosa, così di queste opinioni. Τάλας ( Aristoph. Plut. 4.5. 19.), κακοδαίμων (ib. 4. 3. 47.), ἄθλιος e simili nomi tanto valevano infelice, quanto malvagio, scellerato ec. V. i latini. Onde anche tra noi sciagurato, disgraziato, misero, miserabile ec. hanno l’uno e l’altro significato; ovvero si attribuiscono altrui anche per avvilimento e disprezzo. Così in francese malheureux, miserable ec. Cattivo ha perduto affatto il significato di misero, che prima ebbe, ma non quello di ribaldo, reo, malo ch’è il suo più ordinario e volgare significato oggidì. (3. Settembre 1823.). V. p. 3351.

Μοχθηρός, πονηρός (πόνηρος infelix) μοχθηρία, πονηρία ec. ec. V. lo Scapula, e p. 3382. κακοδαίμων quegli che ha nemico τό δαιμόνιον cioè la divinità, o τὸν δαίμονα. Ma e’ vuol dire infelice. Luciano congiunge θεοῖς ἐχθροὺς καὶ κακοδαίμονας.. Εὐδαίμων ch’ha gli dei amici, ma e’ vuol dir fortunato, felice. V. lo Scapula in queste voci e in ἐ χ θροδαίμων e in βαρυδαίμων, co’ derivati ec. e Aristot. Polit. l. 3. p. 260. e ivi il Vettori (ed. Flor. 1576.).

Tapino donde se non da ταπεινός? (3. Settembre 1823.).

Scrissero, vissero, dissero, videro; diedero, tennero e simili innumerabili, quasi da scripserunt, vixerunt, dixerunt, viderunt, dederunt, tenuerunt. Così veramente dissero molti poeti, massime i più antichi, e che tal pronunzia fosse o restasse propria del volgo romano, il quale conservasse anche in questo l’antichità e la trasmettesse fino a noi, si può raccogliere da certi versi popolari portati da Svetonio in Jul. Caes. cap. 80 par. 3. (dove si veggano le note del Pitisco ec.), che correvano in Roma sugli ultimi tempi di Giulio Cesare. Dico popolari[a]

Lo dice Svetonio nello stesso cit. luogo: vulgo canebantur .

[Chiudi], e in fatti si paragonino con quelli riportati dal medesimo Svetonio ib. cap. 49. par. 7., ch’erano cantati dalla soldatesca di Cesare. (3. Sett. 1823.).

Alla p. 3206. — 6. L’immaginazione, la facoltà d’inventare o inventiva, la vena e fecondità, lo spirito poetico, il genio, ec., non solo per cause morali, ma anche fisiche, si vede indubitatamente esser minore ne’ vecchi e negli uomini maturi, che ne’ giovani ne’ fanciulli ec. e decrescere di mano in mano naturalmente secondo l’età. Si vede eziandio esser maggiore o minore ne’ diversi individui, non per solo effetto delle circostanze estrinseche e accidentali, ma anche primitivamente e per natura.

7. La memoria, indipendentemente dall’esercizio, il quale anzi per se, tanto l’accresce quanto è maggiore, più assiduo, più lungo, decresce evidentemente (almeno per l’ordinario) secondo l’età. Anzi osservando, si vede chiaro ch’ella ne’ fanciulli è maggiore naturalmente, e minore per difetto o scarsezza d’esercizio, e che coll’età crescono le sue forze, per così dire artifiziali e fattizie, e scemano le naturali; finchè distrutte queste ne’ vecchi quasi affatto, anche quelle divengono inutili, e si perdono e dileguano, mancato loro il subbietto, cioè la disposizion fisica a ritenere degli organi destinati alla memoria. Le forze della memoria nell’uomo maturo sono quasi medie tra quelle del fanciullo e del vecchio, perchè le fattizie suppliscono alle naturali, che nel fanciullo sono maggiori assai che nell’uomo maturo, ma in questo sono maggiori assai che nel vecchio, e bastano ancora a servir di materia e subbietto alle forze artifiziali e derivanti dall’esercizio generale e particolare, passato e presente, ch’è maggiore nell’uomo maturo che nel fanciullo ec. È anche indubitabile che fisicamente altri ha maggiore, altri minor memoria, alcuni prodigiosa, altri niuna; e ciò in pari età, e supposta eziandio la parità di tutte l’altre circostanze. E questa differenza fisica talora è primitiva e innata, ossia dalla nascita, talora avventizia, ma pur sempre fisica, e indipendente, almeno in gran parte e radicalmente, dalle cause morali ec. Altresì è certo che in uno stesso individuo in una stessa età, anzi pure non di rado in una stessa giornata in diverse ore, per cause evidentemente fisiche, la memoria ora è più pronta e maggiore e più chiara, ora meno; ora più ora men facile sia ad apprendere sia a rimembrare, e disposta a farlo più o meno perfettamente ec. Or tutto questo discorso della memoria in cui si scorge tanto di fisico ec. perchè non dovrà eziandio applicarsi all’ingegno, al talento, all’intelletto ec. ch’è pure una facoltà dell’anima come la memoria, e viene ed è fondato, siccome questa, in una disposizione naturale, primitiva e innata nell’uomo ec.? (3. Settembre. 1823.). Se la disposizion fisica e naturale è varia quanto alla memoria nelle diverse età, ne’ diversi individui, in diversi tempi ec. indipendentemente dal morale, perchè non eziandio quanto all’intelletto e al talento? (3. Settembre. 1823.).

La stagione e il clima freddo dà maggior forza di agire, e minor voglia di farlo, maggior contentezza del presente, inclinazione all’ordine, al metodo, e fino all’uniformità. Il caldo scema le forze di agire, e nel tempo stesso ne ispira ed infiamma il desiderio, rende suscettibilissimi della noia, intolleranti dell’uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti di se stessi e del presente. Sembra che il freddo fortifichi il corpo e leghi l’animo: che il caldo addormenti e ammollisca e illanguidisca e intorpidisca il corpo, eccitando e svegliando e sciogliendo l’animo[a]

Nel freddo si ha la forza di agire, ma non senza incomodo. La temperatura dell’aria che vi circonda, opponendosi à ce que voi possiate uscir di casa e di camera senza patimento, vi consiglia l’inazione e l’immobilità nel tempo stesso che vi dà la forza dell’azione e del moto. Si può dir che se ne sente la forza e la difficoltà nel tempo stesso. Nel caldo tutto l’opposto. Si sente la facilità dell’azione e del moto nel tempo stesso che se ne scarseggiano le forze. L’uomo prova espressamente un senso di libertà fisica che viene dall’amicizia dell’aria e della natura che lo circonda, un senso che lo invita al movimento e all’azione, ch’egli talora confonde con quello della forza, ma che n’è ben differente, come l’uomo si può avvedere, quando cedendo all’inquietezza che quel senso gl’ispira, e dandosi all’azione, la totale mancanza di forze che gli sopraggiunge, gli toglie quel senso di libertà, e l’obbliga a desiderare e cercare il riposo. Anche per se medesima la debolezza e il rilasciamento prodotto da causa non morbosa, come dal caldo, dà una certa facilità di determinarsi all’azione al movimento al travaglio, più che la tensione prodotta dal freddo. Può parere un paradosso, ma l’esperienza anche individuale lo prova. Pare che il corpo rilasciato sia più maneggiabile a se medesimo. Bensì la sua capacità di travagliare è poco durevole. ec.

[Chiudi]. L’attività del corpo è propria de’ settentrionali, de’ meridionali quella dell’animo. Ma il corpo non opera se non mosso dall’animo. Quindi è che i settentrionali sebbene senza controversia sia lor propria l’attività e laboriosità, pur sono veramente i più quieti popoli della terra; e i meridionali i più inquieti, benchè sia lor propria l’infingardaggine. I settentrionali hanno bisogno di grandissimo impulso a muoversi, a sollevarsi, a cercar novità: ma mossi che sieno, non sono facili a racquietare. Vedesi nelle loro storie, nelle quali, massime nelle moderne, e massime in quelle della Germania, pochissime rivoluzioni si troveranno (specialmente a paragone di quelle de’ meridionali) ma queste lunghissime, come quella di religione mossa da Lutero, e convertita ben tosto in rivoluzione politica. Sopportano facilmente la tirannia, finch’ella non gli spinge à bout, come gli Svizzeri. Ubbidiscono volentieri, e comandati travagliano (anche eccessivamente) più volentieri che se operassero spontaneamente. Vedesi nella loro milizia. I meridionali sono facili e pronti e frequenti a muoversi, rivoltosi, poco tolleranti della tirannide, poco amici dell’ubbidire, ma facilissimi ancora a racquietare, facilissimi a ritornare in riposo; mobili, volubili, instabili, vaghi di novità politiche, incapaci di mantenerle; vaghi di libertà, incapaci di conservarla; al contrario de’ settentrionali che di rado la cercano, poco se ne curano; cercata o comunque acquistata, lunghissimamente la conservano. Infatti essi, e in particolare i tedeschi o teutoni, sono i soli in Europa che serbino qualche vestigio di libertà, qualche immagine delle antiche repubbliche; i soli appo cui le repubbliche si veggano per esperienza poter durare anche a’ tempi moderni. Verbigrazia gli Svizzeri, le città libere di Germania, le repubblichette de’ Fratelli Moravi ec. Nel mezzogiorno d’Europa non esiste più neppure un’ombra di repubblica in alcun luogo, fuori di San-Marino. In Germania ve n’ha non poche, ed alcuni piccoli principati di colà si governano oggi, o per volontà del principe (come Saxe-Gotha) o per costituzione, quasi a maniera di repubblica e stato franco.

Si applichino queste osservazioni a quelle da me fatte p. 2752-5, 2926. fine -28, e viceversa quelle a queste. (3. Sett. 1823.). V. p. 3676.

Se l’idea del giusto e dell’ingiusto, del buono e del cattivo morale, non esiste o non nasce per se nell’intelletto degli uomini, niuna legge di niun legislatore può far che un’azione o un’ommissione sia giusta nè ingiusta, buona nè cattiva. Perocchè non vi può esser niuna ragione per la quale sia giusto nè ingiusto, buono nè cattivo, l’ubbidire a qualsivoglia legge; e niun principio vi può avere sul quale si fondi il diritto che alcuno abbia di comandare a chi che sia, se l’idea del giusto, del dovere e del diritto, non è innata o ispirata (come vuole Voltaire, cioè naturalmente e per innata disposizione nascente nelle menti degli uomini, com’ei son giunti all’età di ragione) negl’intelletti umani. (4. Sett. 1813.).

Verbi in uo. Heluor o helluor aris da helluo o heluo onis. Mutuo as e mutuor aris da mutuus. Cernuo as da cernuus. (4. Sett. 1823.).

Insidiae, desidia sono evidentemente composti da in o de e dal nome sedia, mutata l’e in i, come al solito, e come appunto in insideo, desideo da sedeo. (V. la p. 2890.) Ma la voce semplice sedia che pur dovette esistere nel latino, poich’esisterono i suoi composti, è perduta nel latino scritto, conservasi nell’italiano. V. il Gloss. ec. (4. Sett. 1823.).

Continuativo. Mutito e mutuito. V. il Forc. in ambedue queste voci. (4. Sett. 1823.).

Alla p. 2843. Anzi dal dirsi incettare, piuttosto che incattare (come pur diciamo accattare, riscattare ec.) deduco che questo verbo spetti a’ buoni tempi della lingua latina, giacchè ne’ bassi tempi, e meno nelle lingue volgari, non si conservò e si trascurò questo uso di mutare l’a de’ verbi latini in e o i per la composizione, e l’e in i ec. (4. Sett. 1823.).

Alla p. 2843. marg. Dico verbi dissillabi contando per una sola sillaba l’eo ne’ verbi della seconda (do-ceo), e l’io in quelli della quarta (au-dio), secondo il volgar uso da me altrove dimostrato, che per dissillabi li pronunziava. E dico dissillabi, avendo riguardo al tema, cioè alla prima persona singolare presente indicativa. (4. Sett. 1823.).

Alla p. 3343. Generalmente appo gli antichi e nelle nazioni o società primitive il nome d’infelice è un obbrobrio, e s’adopra per vitupero, per ingiuria, per ignominia, per biasimo, per rimprovero ec. e così si riceve. E l’esser tenuto per infelice è come aver mala fama. E l’infelicità (qualunque) si rinfaccia come il delitto o il vizio ec. (4. Sett. 1823.).

Nisi me omnia fallunt, il verbo meditor è un verissimo e perfettissimo continuativo di medeor. Continuativo pel significato, e continuativo per la forma e la derivazione.

Medeor non ha participio in us che sia usitato, ma secondo l’analogia il suo vero e regolare participio in us è meditus. E ch’egli ora non l’abbia non fa meraviglia. Innumerabili sono i verbi che più non l’hanno, e che l’hanno solamente irregolare, i cui participii in us, o i cui participii in us regolari, sono stati da me dimostrati o si potrebbero dimostrare col mezzo de’ continuativi o frequentativi che ne derivano, o con altri mezzi, benchè essi participii sieno altronde affatto inusitati. Similmente ho dimostrato più participii in us (o supini) di verbi che n’hanno un solo oggidì, o tre participii di verbi che n’hanno oggidì soli due ec.

Medeor si fa drivare da μέδω o μεδέω regno, impero, perchè il medico dee comandare. Misera e forzatissima etimologia. Tengo per indubitato che medeor non è altro se non il verbo μήδομαι curo, curam gero; verbo greco antichissimo, e che già era fuor d’uso, o sapeva almeno d’antico, a’ tempi di Senofonte, come par che si debba raccogliere dal suo Simposio c. 8. par. 30. Che se i poeti (e quindi gli scrittori di stile fiorito e sofistico) lo seguitarono a usare anche molto appresso, così fecero di mille altre voci antiche, anzi le usarono appunto perchè antiche, e fatte peregrine e divise dal volgo. Così pur fecero i latini, così fanno i poeti italiani, e di ciò dico altrove diffusamente. La molta antichità di questo verbo giova molto a poter credere ch’ei possa avere in latino un fratello, proprio della più antica latinità, com’è il verbo medeor. Or dunque che medeor sia lo stesso che μήδομαι si dimostra con più ragioni. E primieramente estrinseche.

1.o. Non resta in greco che il medio o il passivo (μήδομαι) di questo verbo. Così in latino non resta che il deponente medeor, onde medicor, altresì deponente, del quale vedi la p. 3264.

2.o. Se ad alcuno facesse forza che da μήδομαι paresse dover derivare medor non medeor, oltre che se gli potrebbero recare infiniti esempi di tali mutazioni, massime spettanti alla desinenza (anzi pur d’altre molto più sostanziali, e non appartenenti alla desinenza, e alla forma propria della congiugazione, siccom’è questa), e massime poi in voci così antiche (οἶνος mascol. vinum— neutro ec. ec.); osservisi che il fut. di μήδομαι è μηδήσομαι come fosse da μηδέομαι. Del resto la difficoltà varrebbe quasi egualmente anche per μέδω impero, che ordinarissimamente si dice μέδω e μέδομαι, non μεδέω, del quale lo Scap. non reca che un solo esempio di Omero usante il partic. μεδέων (frequentissimo è per lo contrario μέδων), e ciò forse piuttosto per proprietà di dialetto, o per modificazione poetica, che per altro[a]

Si trova anche παμμεδέων e παμμεδέουσα.

[Chiudi]. Nè si trova, ch’io sappia, il fut. μεδήσομαι nè l’aor. ἐμέδησα o ἐμεδησάμην, come di μήδομαι si ha μηδήσομαι.

Intrinsecamente, cioè quanto al significato, una bellissima prova che medeor sia lo stesso che μήδομαι, si è la facilità, prossimità e naturalezza dell’etimologia. Il medicare è veramente curare, aver cura, consulere, provvedere (tutti significati di μήδομαι) al malato. E infatti non s’usa egli in latino peculiarmente il verbo curare per medicare? Non è divenuto questo senso, nel nostro volgare e ordinario uso, il solo proprio dello stesso verbo curare? cioè medicare, sanare. Non è egli assolutamente (s’io non m’inganno) il solo senso che abbia lo spagnuolo curar? Così dite di cura, franc. cure ec. cioè medicatura, guarigione. Dunque medeor è propriamente μήδομαι anche pel significato, colla sola differenza ch’egli conserva solo un significato più particolare e speciale, in cambio d’uno più generale; come appunto è avvenuto, nel nostro volgar familiare e parlato, al verbo curare, e nella lingua spagnuola a curar, ch’è proprio lo stessissimo e identico caso; e così a milioni d’altri verbi in diversi casi. Sicchè medeor è μήδομαι, neppur metaforico (se non quando significa rimediare, sanare), ma nel senso proprio, e non istiracchiato, come derivandolo da μέδω impero.

Del resto osservisi che μέδω e particolarmente μέδομαι vale assai spesso il medesimo che μήδομαι, cioè curo, curam gero. E probabilmente l’uno e l’altro non vengono che da una radice, e sono in origine un solo verbo, significante da principio o impero o curo chè ciò non monta al presente. Nego dunque che medeor venga da μέδω impero, non nego che venga da μέδω, anzi da μέδομαι, curo, il che viene a essere il medesimo che derivarlo da μήδομαι. Anzi, sebbene nelle voci antichissime non si può nè si dee molto guardare alle brevi e alle lunghe, e moltissime altre differenze di questa sorta si potrebbero allegare tra voci greche e voci latine identiche di significato o certo di origine, e anche tra l’antico e il più moderno latino, o tra vari secoli della latinità o della grecità, intorno a una stessa voce; contuttociò non contrasterò che medeor si derivi piuttosto da μέδομαι che da μήδομαι, a cagione che la me di medeor è breve sì in esso, sì in medicor e in tutti gli altri suoi derivati o composti (come remedium), non eccettuato il verbo meditor, di cui or ora. E si può ben credere che μέδομαι avesse l’anomalo futuro μεδήσομαι (come μήδομαι ha μηδήσομαι), indicante il verbo inusitato μεδέομαι, massime che si trova il suo attivo μεδέω. Anzi sarà naturalissimo il supporre che medeor venga a dirittura dall’inusitato μεδέομαι (fosse proprio di tutta la Grecia o solo di qualche dialetto che così lo mutasse da μέδομαι) e così il verbo medeor non potrebbe, nè pel significato nè per la forma, essere più evidentemente perfettamente regolarmente e compiutamente lo stesso che il verbo greco.

Da medeor dunque, che poi passò a significare specialmente e unicamente il medicare, coi significati metaforici a questo convenienti; ma che da principio, secondo il sopraddetto, significò, siccome il greco μεδέομαι, generalmente curo, curam gero, consulo; da medeor dico io che giusta l’ordinaria e regolare formazione de’ continuativi da’ participii in us, fu fatto il verbo meditor.

1.o Anche meditor, come medeor e come medicor e come μήδομαι è deponente.

2.o Meditor quanto al significato equivale appunto al greco μελετάω. Or questo donde è fatto? da μέλω, (oggi inusitato, se non impersonale) curae sum, e fors’anche curo, onde μέλομαι curo, curam gero, onde μελέτη cura, onde μελετάω, curo, curam gero, e quindi exerceo, exerceo me, meditor, siccome anche μελέτη vale exercitatio, meditatio, anzi anche il partic. μεμεληκώς di μέλω trovasi pure per qui se exercuit ec. (V. lo Scap. in μελετάω)[a]

Lo credo errore di stampa p. μεμελετηκώς.

[Chiudi]. Può darsi un esempio e una prova più bella? Μελετάω è propriamente il meditor de’ greci, ed esso viene da μέλω curo, come meditor da medeor nel suo primitivo, proprio e generale significato, cioè appunto curo. Certo è ridicolo il derivare meditor da μελετάω, (come fa il Forcell.) perchè questi verbi significano la stessa cosa; ma sebbene quanto all’origine e alla stirpe essi non abbiano tra loro nulla che fare, contuttociò la derivazione del verbo greco serve a mostrare evidentissimamente e chiarire la derivazione, la discendenza, l’origine, la radice del verbo latino a lui equivalente. Derivazione confermata e comprovata dalla nostra teoria della formazione de’ continuativi, tra’ quali questo è regolarissimo per la forma, proprissimo pel significato. Chi non vede che l’esercitare e il meditare una cosa è una continuazione del semplice averne o pigliarne cura? il che si può talvolta compiere in poca d’ora; ma quello di necessità e per sua natura esige durata, lunghezza, continuità di tempo.

Ecco come la nostra teoria de’ continuativi rischiara mirabilmente le origini della lingua latina, rettifica l’etimologie, mostra le vere e primitive proprietà delle voci, le analogie scambievoli delle lingue. Come qui, coll’osservazione che meditor debba venire da un participio in us ec. 1. trovasi il perduto partic. o sup. di medeor. 2. scopresi la vera etimologia di meditor. 3. correggesi e dichiarasi quella di medeor. 4. trovasi e dimostrasi il primitivo e proprio significato di questo verbo. 5. osservasi l’analogia tra la lingua greca e la latina nelle paragonate derivazioni di meditor e di μελετάω (verbi equivalenti) rispetto al significato. (3. Sett. 1823.). — Come i re antichissimamente erano quello che dovevano, cioè tutori e curatori della repubblica (Cic. de rep.), o tali erano riputati ben più che poscia non furono[a]

Così pure i ministri de’ re, i capitani e tutti quelli che comandavano e governavano. Anche poscia assai sovente in tutte le lingue, ed oggi nè più nè meno, il governo fu chiamato e si chiama cura, e il governare aver cura, come de’ negozi pubblici, della cosa pubblica ec.

[Chiudi], non è maraviglia che il re fosse chiamato curatore (μέδων) e il regnare curare, o viceversa. Insomma fu ben facile e naturale la traslazione dall’uno all’altro di questi significati, qualunque de’ due si fosse il primitivo e proprio del verbo μέδω [b]. — Medeor, meditor sono deponenti. Così μήδομαι è medio. Ed è ben naturale che in senso di curo, curam gero si dicesse piuttosto μεδέομαι o μέδομαι che μέδω attivo, perchè questo significato è di quelli che hanno un non so che di reciproco, i quali sogliono esprimersi in greco col verbo medio. Ond’è altresì naturalissimo che medeor sia deponente, venuto cioè da μέδομαι o μεδέομαι, quantunque esista anche l’attivo di questo verbo. Il quale non esiste in μήδομαι. Ma ciò, per la detta ragione, non fa gran forza a provare che medeor sia piuttosto μήδομαι che il verbo μέδω-μέδομαι. (5. Settembre. 1823.).

Tanto l’uomo è gradito e fa fortuna nella conversazione e nella vita, quanto ei sa ridere. (5. Sett. 1823.).

Constater franc. continuativo di consto as, non mutato l’a di constatus in i, il che dimostra che questo continuativo dev’essere latino-barbaro, o d’origine francese. Il simile dicasi dello spagn. horadar (anticamente foradar) da foro as. V. il Gloss. se ha nulla in proposito. (5. Sett. 1823.).

Alla p. 3282. L’uomo (così la donna) debole e bisognoso dell’opera altrui, o nato o divenuto, s’abitua ad essere in qualche modo, più o meno, servito e sovvenuto dagli altri, ed esso a non servire nè aiutare nessuno, perch’ei non può, quando anche da principio il desideri, quando anche per indole sia inclinato a beneficare. Per quest’abito ei contrae l’egoismo, il quale, come vedete, non è ingenito in lui per se stesso, (quando anche ei sia stato sempre debole e bisognoso fin dalla nascita), ma figlio di un abito da lui fatto o più presto o più tardi, incominciato fin dal principio della vita, o sul fior degli anni, o al mezzo, o sul declinare ec. Per quest’abito ei s’avvezza a considerare (se non per ragione, certo praticamente) gli altri come fatti per lui, e sè come fatto per se solo, ch’è appunto l’egoismo; diventa alieno dalla compassione e dalla beneficenza ch’egli non ha mai potuto o non può più esercitare, di cui non ha mai potuto acquistare o ha dovuto perdere l’abitudine. (5. Sett. 1823.).

Alla p. 3078. Queste medesime anomalie della lingua spagnuola, e quelle molte più della lingua italiana (delle quali vedi la p. 2688. segg. e altri luoghi), nelle quali anomalie queste lingue per seguir la latina, abbandonano la norma della loro propria analogia, possono servire a far credere che quando elle dalla propria analogia non si scostano, non perciò abbandonino la lingua latina, ma la seguano, non quale noi la conosciamo, bensì quale ella fu conservata nel volgare; massime se in questi casi si vegga, come spessissimo e forse le più volte si vede, che la lingua italiana o spagnuola seguendo la propria analogia segue ancor quello che sarebbe stato secondo la vera analogia della lingua latina, sebben questa, per ciò che noi ne conosciamo, in moltissimi di questi casi non segua essa analogia sua propria, ma sia anomala e irregolare. Laonde non sarà da disprezzarsi il testimonio che da’ participii regolari italiani o spagnuoli si volesse trarre a provare che anche la lingua latina avesse i participii analoghi a questi (benchè a noi sconosciuti), e da cui questi sieno derivati. P. e. dall’ital. veduto io potrò non vanamente dedurre il latino viditus che sarebbe appunto il regolarissimo latino, siccome quello è il regolarissimo italiano. Massime che siccome in latino visus anomalo, così trovasi ancora in italiano e in ispagnuolo l’anomalo visto, in cui queste lingue lasciano la loro analogia per seguire, non già l’analogia, ma l’anomalia della lingua latina. Veggasi la p. 3032. segg. e in particolare la p. 3033. marg. Similmente si può discorrere della lingua francese. E generalmente, osservando, si vedrà che quanto ai participi passivi, quello ch’è o sarebbe regolare nelle lingue figlie (salve le solite e regolari modificazioni cioè delle desinenze, dell’i vôlto in u nell’italiano, come a pag. 3075. e altre tali) è o sarebbe altresì regolare nel latino. (5. Sett. 1823.).

Il subito passaggio dal grave, serio, lento, malinconico, passionato, raccolto e, come si dice, dall’adagio (s’io non m’inganno) all’allegro, all’accelerato, al dissipato, all’étourdi ec. ec. tanto usitato nella nostra musica, anzi proprio di quasi tutte le nostre arie ec., non solo non ha fondamento alcuno nella natura, ma anzi è generalmente contrarissimo alla natura, nella quale niente v’ha di subitaneo, e molto manco il passaggio da’ contrarii ne’ contrarii. Oltre che, astraendo pure dal subitaneo, l’allegro nuoce al passionato, spegne o raffredda la passione negli animi degli uditori, contrasta bruttamente con quello che precedette; l’effetto dell’una parte della melodia nuoce, contrasta, distrugge quello dell’altra; è inverisimile che un malinconico parli in tuono allegro, un passionato in tuono dissipato, e si abbandoni al gaio, allo scherzevole, all’ insouciant, al pazzeggiare ec. ec. Nondimeno l’assuefazione che chiunque ha udito musica, deve tra noi aver fatto a questi tali passaggi, ce li fa parer convenientissimi, ce li fa aspettare come naturali, come richiesti dalla melodia ec. precedente, come dovuti, come proprii assolutamente della composizione musicale; fa che il nostro orecchio li richiegga come spontaneamente e naturalmente (e così è infatti, perchè l’assuefazione è seconda natura); anzi, mancando essi, ci fa considerar questa mancanza come sconvenienza; fa che il nostro orecchio desideri alcuna cosa, non resti soddisfatto, anzi resti come choqué e révolté della mancanza, deluso spiacevolmente dell’aspettativa; insomma fa che tal mancamento produca il senso e il giudizio dell’imperfetto, del mutilo, del disavvenevole, e quindi del disaggradevole, e quindi del brutto musicale[a]

Il detto passaggio è direttam. contrario all’imitazione, che dev’essere l’immediato scopo e l’ufficio della musica, come dell’altre belle arti e della poesia, che dovrebb’essere inseparabile dalla musica (e così viceversa), e tutt’una cosa con essa ec. Di ciò dico altrove.

[Chiudi]. (5. Sett. 1823.). Dunque l’idea del contrario del brutto, cioè del bello e della convenienza musicale, dipende ed è determinata dall’assuefazione, tanto che se questa è, non solo non naturale, ma contraria alla natura, anche quel bello e quella convenienza, cioè l’idea che noi n’abbiamo è, non solo oltre natura, e non fondata sulla natura, nè prodotta dalla natura, ma contro natura. (6. Sett. 1823.).

J’ai vu quatre sauvages de la Louisiane qu’on amena en France, en 1723. Il y avait parmi eux une femme d’une humeur fort douce. Je lui demandai, par interprète, si elle avait mangé quelquefois de la chair de ses ennemis, et si elle y avait pris goût; elle me répondit qu’oui; je lui demandai si elle aurait volontiers tué ou fait tuer un de ses compatriotes pour le manger; elle me répondit en frémissant, et avec une horreur visible pour ce crime. Voltaire. Correspondance du Prince Royal de Prusse (depuis Frédéric II.) et de M. de Voltaire. Lettre 31. Octobre, à Cirey. 1737. tome 1.r de la Correspondance de Frédéric II, Roi de Prusse, 10.e de la collection des Oeuvres Complettes de Frédéric II, Roi de Prusse, 1790. p. 142. (6. Sett. 1823.).

La lingua latina s’introdusse, si piantò e rimase in quelle parti d’Europa nelle quali entrò anticamente e si stabilì la civilizzazione. Ciò non fu che nella Spagna e nelle Gallie. Quella fino dagli antichi tempi produsse i Seneca, Quintiliano, Columella, Marziale ec. poi Merobaude, S. Isidoro ec. e altri moltissimi di mano in mano, i quali divennero letterati e scrittori latini, senza neppure uscire, come quei primi, dal loro paese, o quantunque in esso educati, e non, come quei primi, in Roma. Le Gallie produssero Petronio Arbitro, Favorino ec. poi Sidonio, S. Ireneo ec. La civiltà v’era già innanzi i romani stata introdotta da coloni greci. Di più la corte latina v’ebbe sede per alcun tempo. La Germania benchè soggiogata anch’essa da’ Romani, e parte dell’impero latino, non diede mai adito a civiltà nè a lettere, nè a’ buoni nè a’ mediocri nè a’ cattivi tempi di quell’impero. Ella fu sempre barbara. Non si conta fra gli scrittori latini di veruna latinità (se non dell’infimissima) niuno che avesse origine germanica o fosse nato in Germania, come si conta pur quasi di tutte l’altre provincie e parti dell’impero romano. Quindi è che la Germania benchè suddita latina, benchè vicina all’Italia, anzi confinante, come la Francia, e più vicina assai che la Spagna, non ammise l’uso della lingua latina, e non parla latino (cioè una lingua dal latino derivata), ma conserva il suo antico idioma. (Forse anche fu cagione di ciò e delle cose sopraddette, che la Germania non fu mai intieramente soggiogata, nè suddita pacifica, come la Spagna e le Gallie, sì per la naturale ferocia della nazione, sì per esser ella sui confini delle romane conquiste, e prossima ai popoli d’Europa non conquistati, e nemici de’ romani, e sempre inquieti e ribellanti, onde ad essa ancora nasceva e la facilità, e lo stimolo, e l’occasione, e l’aiuto e il comodo di ribellare). Senza ciò la lingua latina avrebbe indubitatamente spento la teutonica, nè di essa resterebbe maggior notizia o vestigio che della celtica e dell’altre che la lingua latina spense affatto in Ispagna e in Francia. Delle quali la teutonica non doveva mica esser più dura nè più difficile a spegnere. Anzi la celtica doveva anticamente essere molto più colta e perfetta o formata che la teutonica, il che si rileva sì dalle notizie che s’hanno de’ popoli che la parlarono, e delle loro istituzioni (come de’ Druidi, de’ Bardi, cioè poeti ec.), e della loro religione, costumi, cognizioni ec. sì da quello che avanza pur d’essa lingua celtica, e de’ canti bardici in essa composti ec. L’Inghilterra par che ricevesse fino a un certo segno l’uso della lingua latina, certo, se non altro, come lingua letterata e da scrivere[a]

Il latino si stabilì in Inghilterra a un di presso come il greco nell’alta Asia, e l’italiano in Dalmazia, nell’isole greche e siffatti dominii de’ Veneziani: cioè come lingua di qualunque persona colta e della scrittura, ma non parlata dal popolo, benchè forse intesa. Così il turco in Grecia ec.

[Chiudi]. Ella ha pure scrittori non solo dell’infima, ma anche della media latinità, come Beda ec. Ma era già troppo tardi, sì perchè la lingua latina era già corrotta e moribonda per tutto, anche in Italia sua prima sede, sì perchè l’impero latino era nel caso stesso. Quindi i Sassoni facilmente distrussero la lingua latina in Inghilterra, ancora inferma e mal piantata, propria solo dei dotti (com’io credo), e le sostituirono la teutonica, trionfando allo stesso tempo (almeno in molta parte dell’isola) anche dell’idioma nazionale, indigeno, ἐπιχώριος e volgare, cioè del celtico ec., al qual trionfo doveva pure aver già contribuito la lingua latina, soggiogata poi anch’essa, e più presto ed interamente dell’indigena, da quella de’ conquistatori. Laddove nelle Gallie i Franchi non poterono mica introdurre la lingua loro, benchè conquistatori, nè estirpar la latina, ben radicata, e per lunghezza di tempo, e perchè insieme con essa erano penetrati e stabiliti nelle Gallie, i costumi, la civiltà, le lettere, la religione latina, e perchè quivi detta lingua non era già propria ai soli dotti, ma comune al volgo, ond’essi conquistatori l’appresero, e parlata ec. Così dicasi de’ Goti, Longobardi ec. in Italia; de’ Vandali ec. in Ispagna. Che se la lingua latina in Italia, in Francia, in Ispagna, trionfò delle lingue germaniche benchè parlate da’ conquistatori, può esser segno ch’ella ne avrebbe pur trionfato nella Germania ov’elle parlavansi da’ conquistati, se non l’avessero impedito le cagioni dette di sopra. Perocchè si vede che la lingua latina trionfava dell’altre, non tanto come lingua di conquistatori e padroni, superante quella de’ conquistati e de’ servi, nè come lingua indigena o naturalizzata, superante le forestiere, avventizie e nuove; quanto come lingua colta e formata, superante le barbare, incolte, informi, incerte, imperfette, povere, insufficienti, indeterminate. Altrimenti non sarebbe stato, come fu, impossibile ai successivi conquistatori d’Italia, Francia, Spagna, il far quello che i latini ne’ medesimi paesi, conquistandoli, avevano fatto; cioè l’introdurre le proprie lingue in luogo di quelle de’ vinti. Nel mentre che i Sassoni in Inghilterra, certo nè più civili nè più potenti de’ Franchi, de’ Goti, de’ mori, ec. i Sassoni, dico, in Inghilterra, e poscia i Normanni, trionfavano pur senza pena delle lingue indigene di quell’isola, perchè mal formate ancor esse, benchè non affatto barbare, ed anzi (p. e. la celtica) più colte ec. delle loro. Ma queste vittorie della lingua latina sì nell’introdursi fra’ conquistati, e forestiera scacciare le lingue indigene; sì nel mantenersi malgrado i conquistatori, e in luogo di cedere, divenir propria anche di questi, si dovettero, come ho detto, in grandissima parte, alla civiltà dei costumi latini e alle lettere latine con essa lingua introdotte o conservate: di modo che detta lingua non riportò tali vittorie, solamente come colta e perfetta per se, ma come congiunta ed appartenente ai colti e civili costumi, opinioni e lettere latine. Perocchè, come ho detto, sempre ch’ella ne fu disgiunta, cioè dovunque la civiltà e letteratura latina, e l’uso del viver latino, o non s’introdusse, o non si mantenne, o scarsamente s’introdusse o si conservò; nè anche s’introdusse la lingua latina, come in Germania, o non si mantenne, come accadde in Inghilterra. E ciò si vede non solo in queste parti d’Europa, che non ammisero la civiltà latina per eccesso di barbarie, o che non ammettendola, restarono barbare; ma eziandio in quelle dove una civiltà ed una letteratura indigena escluse la forestiera, in quelle che non ammettendo i costumi nè le lettere latine, restarono però, quali erano, civili e letterate, cioè nelle nazioni greche. Le quali non ricevendo l’uso del viver latino, non ricevettero neppur la lingua, benchè la sede dell’impero romano, e Roma e il Lazio, per così dire, fossero trasportate e lunghissimi secoli dimorassero nel loro seno. Ma la Grecia contuttociò non parlò mai nè scrisse latino, ed ora non parla nè scrive che greco. Ed essa era pur la parte più civile d’Europa, non esclusa la stessa Roma, al contrario appunto della Germania. Sicchè da opposte, ma analoghe e corrispondenti e ragguagliate e proporzionate, cagioni, nacque lo stesso effetto.

Tutto ciò che ho detto dell’Inghilterra si rettifichi consultando gli storici, e quello che altrove ho scritto circa l’uso della lingua latina in quel paese e nella Scozia e nell’Irlanda. (6. Settembre. 1823.).

Dialetti della lingua latina. Vedi Cic. pro Archia poeta, c. 10.. fine, dove parla de’ poeti di Cordova pingue quiddam sonantibus atque peregrinum. Non avevano certamente questi poeti scritto nella lingua indigena di Spagna, che i romani mai non intesero, siccome niun’altro idioma forestiero, eccetto il greco; ma in un latino che sentiva di Spagnolismo, come quel di Livio parve sapere di Patavinità. E le parole di Cicerone, chi ben le consideri anche in se stesse, non possono significare altro. Perocchè era fuor di luogo la nota di peregrino se si fosse trattato di una lingua forestiera, che non in parte, o per qualche qualità, ma tutta è peregrina; nè questo in lei sarebbe stato difetto, e volendolo considerar come tale, soverchiamente leggiera e sproporzionata sarebbe stata quella semplice espressione che la lingua e lo stile di quei poeti sapeva di forestiero. Oltrechè l’una e l’altro sarebbero stati barbari, e per le orecchie romane affatto strani, rozzi, insolenti, insopportabili, non così solamente macchiati d’un non so che di pingue e di peregrino. Era in Cordova introdotta già (siccome in altre parti della Spagna già soggiogate, perchè quella provincia non fu sottomessa che appoco appoco, e con grandissimo intervallo una parte dopo l’altra, e, come osserva Velleio[a]

Vell. II. 90. 2. 3. Flor. II. 17. 5. Liv. 28. 12.

[Chiudi], fu di tutte la più renitente, e tra le romane conquiste la più lunga e difficile e per lungo tempo incertissima); era, dico, introdotta già in Cordova la lingua e la letteratura latina, siccome dimostra l’aver essa poi potuto produrre i Seneca e Lucano, l’esempio dello stile de’ quali, può (quanto allo stile) servire pur troppo di copioso commento alle parole di Cicerone, che, s’io non m’inganno, della lingua non meno che dello stile si debbono intendere. (6. Settem. 1823.).

Dico in più luoghi che la natura non ingenera nell’uomo quasi altro che disposizioni. Or tra queste bisogna distinguere. Altre sono disposizioni a poter essere, altre ad essere. Per quelle l’uomo può divenir tale o tale; può, dico, e non più. Per queste l’uomo, naturalmente vivendo, e tenendosi lontano dall’arte, indubitatamente diviene quale la natura ha voluto ch’ei sia, bench’ella non l’abbia fatto, ma disposto solamente a divenir tale. In queste si deve considerare l’intenzione della natura: in quelle no. E se per quelle l’uomo può divenir tale o tale, ciò non importa che tale o tale divenendo, egli divenga quale la natura ha voluto ch’ei fosse: perocchè la natura per quelle disposizioni non ha fatto altro che lasciare all’uomo la possibilità di divenir tale o tale; nè quelle sono altro che possibilità. Ho distinto due generi di disposizioni per parlar più chiaro. Ora parlerò più esatto. Le disposizioni naturali a poter essere e quelle ad essere, non sono diverse individualmente l’une dall’altre, ma sono individualmente le medesime. Una stessa disposizione è ad essere e a poter essere. In quanto ella è ad essere, l’uomo, seguendo le inclinazioni naturali, e non influito da circostanze non naturali, non acquista che le qualità destinategli dalla natura, e diviene quale ei dev’essere, cioè quale la natura ebbe intenzione ch’ei divenisse, quando pose in lui quella disposizione. In quanto ella è disposizione a poter essere, l’uomo influito da varie circostanze non naturali, siano intrinseche siano estrinseche, acquista molte qualità non destinategli dalla natura, molte qualità contrarie eziandio all’intenzione della natura, e diviene qual ei non dev’essere, cioè quale la natura non intese ch’ei divenisse, nell’ingenerargli quella disposizione. Egli però non divien tale per natura, benchè questa disposizione sia naturale: perocchè essa disposizione non era ordinata a questo ch’ei divenisse tale, ma era ordinata ad altre qualità, molte delle quali affatto contrarie a quelle che egli ha per detta disposizione acquistato. Bensì s’egli non avesse avuto naturalmente questa disposizione, egli non sarebbe potuto divenir tale. Questa è tutta la parte che ha la natura in ciò che tale ei sia divenuto. Siccome, se la disposizion fisica del nostro corpo non fosse qual ella è per natura, l’uomo non potrebbe, per esempio, provare il dolore, divenir malato. Ma non perciò la natura ha così disposto il nostro corpo acciocchè noi sentissimo il dolore e infermassimo; nè quella disposizione è ordinata a questo, ma a tutt’altri e contrarii risultati. E l’uomo non inferma per natura; bensì può per natura infermare; ma infermando, ciò gli accade contra natura, o fuori e indipendentemente dalla natura, la quale non intese disporlo a infermare.

Similmente si discorra degli altri animali, e di mano in mano degli altri generi di creature, con quest’avvertenza però e con questa proporzione, che negli altri animali, le disposizioni ingenite sono più ad essere che a poter essere; il che vuol dire che gli animali sono naturalmente meno conformabili dell’uomo; che essi per le loro naturali disposizioni, non solo non debbono acquistare altre qualità che le destinate loro dalla natura, il che è proprio anche dell’uomo, ma non possono acquistarne molto diverse da queste, come l’uomo può; non possono acquistar tante e così varie qualità, come l’uomo può, per essere sommamente conformabile: in fine che le loro naturali disposizioni non rendono possibile tanta varietà di risultati, non possono esser così diversamente applicate e usate come quelle dell’uomo. Ond’è che gli animali non acquistino quasi altre qualità che le destinate loro dalla natura, non divengano se non quali la natura gli ha voluti, quali ella intese che divenissero nel dar loro quelle disposizioni. Il che vuol dire ch’ei si mantengono nello stato naturale; che non è altro se non quello che ho detto, cioè divenir tali quali la natura ha inteso; perchè nè anche gli animali nascono, ma divengono; nè la natura ingenera in essi delle qualità, ma delle disposizioni, ben più ristrette che quelle dell’uomo. In questo modo e con questa proporzione passando ai vegetabili, e quindi scendendo per tutta la catena degli esseri, troverete che le naturali disposizioni sono di mano in mano sempre maggiormente ad essere che a poter essere, cioè si restringono, finchè gradatamente si arrivi a quegli enti ne’ quali la natura non ha posto disposizioni nè ad essere nè a poter essere, ma solo qualità. Del qual genere io non credo che alcuna cosa si possa in verità trovare, esattamente e strettamente parlando, ma largamente si potrà dire che di tal genere sia questo nostro globo tutto insieme considerato e rispetto al sistema solare o universale, e similmente i pianeti e il sole e le stelle e gli altri globi celesti. Ne’ quali e ne’ moti loro, e per dir così, nella vita, e nell’esistenza rispettiva degli uni agli altri, niun disordine si può trovare, niuna irregolarità, niun morbo, niuna ingiuria, niun accidente, successo o effetto che sia contro nè fuori delle intenzioni avute dalla natura nel porre in essi le qualità che ci ha posto; dico le qualità rispettive che hanno gli uni verso gli altri, le quali negli effetti e nell’uso loro sempre e interamente corrispondono alle primitive destinazioni della natura, e immutabilmente serbano ed efficiunt quell’ordine dell’universo che la natura volle espressamente e vuole, e quella vita o esistenza ch’essa natura gli ha destinata, e tale nè più nè meno quale ella intese e ordinò che fosse. Da questo genere di esseri rimontando indietro per insino all’uomo, troveremo sempre di mano in mano decrescere secondo l’ordine delle specie e de’ generi, il numero e l’efficacia e importanza delle qualità ingenerate in ciascun di essi generi o specie dalla natura, e crescere altrettanto il numero o l’estensione, la varietà o piuttosto la variabilità o adattabilità delle disposizioni in esse dalla natura ingenerate: e queste disposizioni esser da principio solamente, o quasi del tutto, ad essere, poscia eziandio a poter essere, e ciò sempre più, salendo pe’ vegetabili ai polipi, indi per le varie specie d’animali fino alla scimia, e all’uomo salvatico, e da queste specie all’uomo. Nella cui parte che si chiama morale o spirituale, troveremo, come ho detto, che la natura non ha posto di sua mano quasi veruna qualità determinata, se non pochissime, e queste, semplicissime: tutto il resto disposizioni, non solo ad essere, ma a poter essere tante cose, ed acquistare tanto varie qualità, quanto niun altro genere di enti a noi noti. E per questa scala ascendendo, troveremo colla medesima gradazione, che quanto minore in ciascun genere o specie è il numero e il valore delle qualità ingenite e naturali, quanto maggiore quello delle disposizioni altresì naturali, e quanto maggiormente queste disposizioni sono a poter essere (ossia divenire), tanto maggiore esattamente in ciascuno d’essi generi o specie, e nell’esistenza loro, e negli effetti loro sopra se stessi e fuor di se stessi è il numero e la grandezza de’ disordini, delle irregolarità de’ morbi, de’ casi, degli accidenti, de’ successi non naturali, non voluti o espressamente disvoluti dalla natura, contrarii alle intenzioni e destinazioni fatte dalla natura nel formare quei tali generi o specie, e nel così disporli com’essa li dispose, sì rispetto a se stessi, sì riguardo agli altri generi e specie a cui essi hanno relazione, ed all’intera università delle cose. Tutto ciò troverassi nelle meteore, ne’ vegetabili, negli animali sopra tutto, e fra gli animali, sopra tutti nell’uomo, ossia nel genere umano. Perocchè il vivente è meno dell’altre cose tutte composto di qualità naturali, e più di disposizioni; e tra’ viventi l’uomo in massimo grado. Nel quale è maggior la vita che negli altri viventi; e la vita si può, secondo le fin qui dette considerazioni, definire una maggiore o minore conformabilità, un numero e valore di disposizioni naturali prevalente in certo modo (più o meno) a quello delle ingenite qualità. Massime rispetto allo spirituale, all’intrinseco, a quello che, propriamente parlando, vive; a quello in che sta propriamente e si esercita la vita, in che siede il principio vitale, e la facoltà dell’azione sia interna sia esterna, cioè la facoltà del pensiero e della sensibile operazione. ec. Nella qual facoltà consiste propriamente la vita ec. (6-7. Settembre. 1823.). Per lo contrario le cose che meno partecipano della vita sono quelle che per natura hanno meno di qualità e più di disposizione, cioè le meno conformabili naturalmente. E se v’ha cosa che non sia punto conformabile naturalmente, quella niente partecipa della vita, ma solo esiste; quella è che si dee propriamente chiamare semplicemente e puramente esistente ec. ec. ec. (8. Sett. Natività di Maria Santissima. 1823.).

Alla p. 3343. marg. È da notare che tutti questi nomi per etimologia non significano propriamente altro che misero, afflitto, ec. o povero ec. o fatichevole ec., ovvero miseria, calamità, povertà, laboriosità ec. E che in processo di tempo, molti di essi, e forse i più, perduta o fatta men comune e antiquata o poetica ec. questa significazione non ritennero nell’uso ordinario che quella di ribaldo, cattivo, scellerato, malvagità, nequizia ec. quasi fosse impossibile che il misero non fosse malvagio. Probabilmente la distinzione tra πόνηρος miser e πονηρὸς improbus, e la diversa accentazione, non vien che da’ grammatici greci, i quali non considerarono i tanti altri esempi di voci sì greche sì forestiere che riuniscono l’una e l’altra significazione, e non avvertirono che la seconda è un vero e mero traslato della prima. (8. Sett. Natività di Maria Vergine Santissima. 1823.).

È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua natura e proprietà il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero, cioè la cosa più contraria al bello; sieno le facoltà le più affini tra loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi nè l’uno nè l’altro non può esser nel gener suo nè perfetto nè grande, s’ei non partecipa più che mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione. Di ciò ho detto altrove. Le grandi verità, e massime nell’astratto e nel metafisico o nel psicologico ec. non si scuoprono se non per un quasi entusiasmo della ragione, nè da altri che da chi è capace di questo entusiasmo. (Eccetto ch’elle sieno scoperte appoco appoco, piuttosto dal tempo e dai secoli, che dagli uomini, in guisa che a nessuno in particolare possa attribuirsene il ritrovamento, il che spesso accade). La poesia e la filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità dell’umano spirito, le più nobili e le più difficili facoltà a cui possa applicarsi l’ingegno umano. E malgrado di ciò, e dell’esser l’una di loro, cioè la poesia, la più utile veramente di tutte le facoltà, sì la poesia, come la filosofia sono del pari le più sfortunate e dispregiate di tutte le facoltà dello spirito. Tutte l’altre dànno pane, molte di loro recano onore anche durante la vita, aprono l’adito alle dignità ec.: tutte l’altre, dico, fuorchè queste, dalle quali non v’è a sperar altro che gloria, e soltanto dopo la morte. Povera e nuda vai, filosofia . Della sorte ordinaria de’ poeti mentre vivono, non accade parlare. Chi s’annunzia per medico, per legista, per matematico, per geometra, per idraulico, per filologo, per antiquario, per linguista, per perito anche in una sola lingua; il pittore eziandio e lo scultore e l’architetto; il musico, non solo compositore ma esecutore, tutti questi son ricevuti nelle società con piacere, trattati nelle conversazioni e nella vita civile con istima, ricercati ancora, onorati, invitati, e quel ch’è più premiati, arricchiti, elevati alle cariche e dignità. Chi s’annunzia solo per poeta o per filosofo, ancorch’egli lo sia veramente, e in sommo grado, non trova chi faccia caso di lui, non ottiene neppure ch’altri gli parli con leggiere testimonianze di stima. La ragione si è che tutti si credono esser filosofi, ed aver quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero metterlo in opera, o poterlo facilissimamente acquistare e adoperare. Laddove chi non è matematico, pittore, musico ec. non si crede di esserlo, e riguarda come superiori per questo conto a lui ed al comune degli uomini, quei che lo sono. Il genio, da cui principalmente pende e nasce la facoltà poetica e la filosofica, non si misura a palmi, come ciò che si richiede a esser medico o geometra. Quindi nasce che quello ch’è più raro tra gli uomini tutti si credano possederlo. E quindi è che le due più nobili, più difficili e più rare, anzi straordinarie, facoltà, la poesia e la filosofia, tutti credano possederle, o poterle acquistare a lor voglia. Oltre che il genio non può essere nè giudicato, nè sentito, nè conosciuto, nè aperçu che dal genio. Del quale mancando quasi tutti, nol sentono nè se n’avveggono quand’ei lo trovano. E il gustare, e potere anche mediocremente estimare il valor delle opere di poesia e di filosofia, non è che de’ veri poeti e de’ veri filosofi, a differenza delle opere dell’altre facoltà. ec.

E qui si consideri il divario fra gli antichi e i moderni tempi. Chè fra gli antichi i filosofi, e massime i poeti, avevano senza contrasto il primo luogo, se non nella fortuna (molti filosofi l’ebbero ancora nella fortuna, come Pitagora, Empedocle, Archita, Solone, Licurgo ed altri de’ più antichi, che furono padroni delle rispettive repubbliche), certo nella estimazion pubblica, non solo dopo morte, ma durante la loro vita. E pure molti più erano allora che oggidì quelli che potevano esser poeti, perchè l’immaginazione era signora degli uomini; e la debole filosofia di que’ tempi non distingueva gran fatto i filosofi da’ volgari, nè molto si richiedeva per giungere alle loro cognizioni, e per salire alla loro altezza. — ec. ec. (8. Sett. Natalizio di Maria Vergine Santissima. 1823.).

Alla p. 3205. Un suono dolce o penetrante, indipendentemente dall’armonia o melodia che può sembrare aver rapporto alle idee, gli odori, il tabacco ec. influiscono sull’immaginazione massimamente, e v’influiscono in modo al tutto fisico, cioè senz’alcun rapporto per se stessi alle idee. Laddove quegli oggetti che agiscono sull’immaginazione e la risvegliano ec. per mezzo del senso della vista, lo fanno eccitando certe idee apposite, legate a quei tali oggetti o per la lor propria forma, o per le rimembranze ch’essi destano nella memoria, o per immagini adeguate e analoghe in qualunque modo a quella tal vista ec. Niente di ciò accade nel suono semplicemente considerato, negli odori, nel tabacco ec. se non accidentalmente, ed anche fuori di tale accidente, quelle cose influiscono a dirittura sulla facoltà immaginativa. Così discorrasi anche della luce per se stessa e indipendentemente dagli oggetti ch’ella ci discuopre allo sguardo; perocchè anche la luce per se influisce e sveglia fisicamente la facoltà immaginativa, senza relazione propria e particolare a veruna idea. Certo l’immaginazione è visibilmente sottoposta a mille cause totalmente fisiche, che la commuovono e scuotono, o l’assopiscono e intorpidiscono, la sollevano o la deprimono, l’eccitano o la raffrenano, la scaldano o l’agghiacciano. Se dunque l’immaginazione, perchè non l’ingegno? mentre quella è pure una facoltà tutta spirituale, o tutta appartenente a ciò che nell’uomo si considera come spirito; è una parte o facoltà dell’animo solo, dello spirito ec. e dello stesso ingegno. (9. Settembre. 1823.). V. p. 3552.

Molti presenti italiani che ripongono tutto il pregio della poesia, anzi tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto, anzi neppur concepiscono, la novità de’ pensieri, delle immagini, de’ sentimenti; e non avendo nè pensieri, nè immagini, nè sentimenti, tuttavia per riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici; questi tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi non è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che lo negherebbero schiettamente o implicitamente[a]

Puoi vedere le pagg. 2979-80. e 3717-20.

[Chiudi]; ma che chiunque non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può nè possedere un buono stile poetico, nè tenerne l’arte, nè eseguirlo, nè giudicarlo nelle opere proprie nè nelle altrui; che l’arte e la facoltà e l’uso dell’immaginazione e dell’invenzione è tanto indispensabile allo stile poetico, quanto e forse ancor più ch’al ritrovamento, alla scelta, e alla disposizione della materia, alle sentenze e a tutte l’altre parti della poesia ec. (Vedi a tal proposito la p. 2978-80.) Onde non possa mai esser poeta per lo stile chi non è poeta per tutto il resto, nè possa aver mai uno stile veramente poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha abitudine, di sentimento di pensiero di fantasia d’invenzione, insomma d’originalità nello scrivere. (9. Sett. 1823.).

La lingua spagnuola, secondo me, può essere agli scrittori italiani una sorgente di buona e bella ed utile novità ond’essi arricchiscano la nostra lingua, massimamente di locuzioni e di modi.

1.o Io penso che niuno possa pienamente discorrere di niuna delle cinque lingue che compongono la nostra famiglia, ciò sono greca, latina, italiana, spagnuola, e francese, s’egli non le conosce più che mediocremente tutte cinque.

2.o La lingua spagnuola è sorella carnalissima della nostra. Or come sia ragionevole il derivar nuove ricchezze nella lingua propria dalle lingue sorelle, vedi, fra l’altre, p. 3192-6.

3.o La potenza avuta dagli Spagnuoli in Europa, e in Italia nominatamente, al tempo appunto che la lingua e letteratura nostra si formava e perfezionava, ciò fu nel cinquecento[a]

V. p. 3728.

[Chiudi], fece che molte voci e molte più locuzioni e forme spagnuole fossero, non solo dal volgo e nel discorso familiare, ma dai dotti e dai letterati nella lingua scritta ed illustre italiana introdotte o accettate in quel secolo e nel seguente eziandio (dal Redi, dal Salvini, dal Dati ec. V. p. es. la Crusca in alborotto, verdadiero Dallo spagnuolo viene l’avv. giacchè o già che per poichè, usitatissimo appo i nostri migliori del seicento). Perocchè la lingua spagnuola era a quel tempo generalmente studiata, intesa, parlata, scritta, e fino stampata, in Italia. (V. Speroni Oraz. in lode del Bembo nelle Orazz. Ven. 1596: p. 144; Caro Lett. vol. 2. lett. 177.) E questa è primieramente un’ottima ragione perchè dalla lingua spagnuola si possa ancora attingere, dico l’essersene già molto attinto. Così sempre accade nelle lingue. Il già tolto d’altronde e naturalizzato, prepara gli orecchi e il gusto a quello che si voglia ancor torre dallo stesso luogo, appiana la strada, apparecchia quasi il posto e il letto alle novità che dalla medesima fonte si vogliano dedurre, e ne facilita l’introduzione. Il canale è scavato, nè fa di bisogno fabbricarlo; sta allo scrittore il dar corso per esso alle acque, giusta la misura che gli paia opportuna. Aggiungasi a questo, che tale commercio onde la lingua italiana si arricchì della spagnuola, fu, come ho detto, nel secolo in che la nostra lingua si formò e perfezionò, e prese o determinò il suo carattere, cioè nel cinquecento; ond’è ben naturale che molte parti della lingua spagnuola non ancora da noi ricevute, convengano e consuonino colle proprietà della nostra lingua, poichè non poche forme e locuzioni, ed anche non poche voci spagnuole e significazioni di voci, entrarono nella composizione della nostra lingua appunto quand’ella ricevè la sua piena forma e perfezionamento e la distinta specifica impronta del suo carattere. Finalmente è da osservarsi che mentre i nostri antichi non solo nel cinquecento, ma fin dal ducento e dal trecento introdussero nella lingua nostra moltissime voci, locuzioni e forme francesi che ancora in buona parte vi si conservano, queste, da tanto tempo in qua, e similmente quelle altre infinite che i moderni v’introdussero e v’introducono tuttavia, serbano sempre, chi ben le guarda, una sembianza e una fisonomia di forestiere, massime le locuzioni e forme. Laddove le frasi e i modi, ed anche i vocaboli spagnuoli introdotti nella nostra lingua, stanno e conversano in essa colle nostre voci italiane così naturalmente che paiono non venuti ma nati, non ispagnuoli ma italiani quanto alcun altro mai possa essere e quanto lo sono i nostri propri vocaboli. Anzi io so certo che pochissimi, ma veramente pochissimi, sanno, o sapendo, avvertono questi tali esser modi e vocaboli o significati d’origine spagnuola. Ben ne veggo assai sovente de’ riputati e battezzati per purissimi italiani natii[a]. Nè me ne maraviglio, perocchè in essi la differenza dell’origine nulla si sente, ed è possibile il saperla, ma non il sentirla. E non voglio tacere che delle tante parole, frasi e forme francesi introdotte da’ nostri antichi, sia ducentisti, sia trecentisti, sia cinquecentisti, sia secentisti, nell’italiano, grandissima parte, e forse la maggiore, è uscita dall’uso nostro ed antiquata per modo che oggidì nemmeno il più sfrontato e impudente gallicista e parlatore o scrittore di francese maccheronico sarebbe ardito di usarle. E ciò, quanto a quelle che furono tra noi usate nel ducento o nel trecento, è accaduto da gran tempo in qua, cioè fino dal cinquecento, nel qual secolo le antiche voci francesi-italiane che oggi più non s’usano, erano parimente quasi tutte dimenticate, benchè delle altre se ne introducessero. Ma delle voci e maniere spagnuole introdotte fra noi, ben poche o la minor parte, o certo in assai minor numero che delle francesi, si trovano oggidì esser cadute dell’uso nostro. Le altre han posto da gran tempo saldissime radici nella lingua italiana, come quelle che l’hanno trovata esser terreno proprio da loro, e tale che l’esservi esse state piuttosto traspiantate che prodotte spontaneamente e primieramente, sia piuttosto caso che natura.

4.o La lingua spagnuola è carnal sorella dell’italiana, non di famiglia solo e di nascita e di eredità, ma di volto, di persona e di costumi. Nè la lingua francese se le può paragonare per questo conto, non più ch’ella si possa comparare all’italiana o alla spagnuola per conto della somiglianza, sia esteriore sia interiore, colla madre comune. La lingua spagnuola è piuttosto altra che diversa dall’italiana. Ed era ben ragione che così fosse, perocchè l’Italia, la Spagna e la Grecia sono in Europa per natura di clima, di terreno e di cielo le più conformi provincie meridionali[a]

La storia offrirà molte prove di fatto della conformità fra l’indole spagnuola e italiana (e greca). Fra l’altre cose, l’abuso pubblico e privato della religion cristiana fatto nella Spagna, non ha nella storia moderna altro più simigliante che quello fatto in Italia, e quanto all’opinioni, e quanto alle azioni, e quanto alle istituzioni, leggi, usi, costumi ec. e tutto ciò ch’è influito dalla religione. Veggansi le pp. 3572-84, e massime dalla 3575. in poi.

[Chiudi]. Or tra queste, la Spagna e l’Italia avendo l’una dato, l’altra ricevuto una stessissima lingua, era ben naturale che in processo di tempo ambedue riuscissero tanto e niente meno conformi di linguaggio, quanto a due separate nazioni è possibile il più. Laddove la Francia che una medesima lingua ricevè dall’Italia ancor essa, partecipando però del settentrionale e pel clima e per l’indole e per gli avvenimenti che la storia descrive, settentrionalizzò la sua ricevuta lingua, e fecene un misto nuovo, suo proprio e bello, come altrove s’è detto. E intanto allontanandosi da’ suoni dalle forme e dal genio della lingua madre, l’idioma francese col medesimo passo si divise eziandio dall’indole, dallo spirito e dalla qualità de’ suoni delle lingue sorelle, che sempre alla madre si attennero quanto comportarono i tempi e le circostanze; e che quantunque inondate ancor esse dalle lingue settentrionali, pure per la totale diversità del clima e dell’indole delle loro regioni, se ne mantennero così pure, che pervenute per così dire a seccarle, soltanto pochissime parole, niuna forma, niuna qualità appartenente al genio ed all’indole, si trovarono averne contratto. Veramente la lingua spagnuola e per carattere e per forme e per costrutti e per suoni e per che che sia, è così conforme all’italiana, che altre due lingue colte così tra loro conformi non si trovano ch’io mi creda, nè mai, ch’io sappia, si ritrovarono. E più conformi sarebbero le suddette due lingue se la Spagna avesse avuto e potesse vantare più vasta, copiosa e varia, più lunga, e più perfetta letteratura, ch’ella non ebbe. Dico sarebbono più conformi per ciò che tocca alla quantità, come dire alla ricchezza, alla varietà e cose tali. Chè per certo non mancò alla lingua spagnuola se non quello che ho detto, per essere anche in queste parti comparabile alla lingua italiana; per esserlo cioè in tutto, anche nella quantità, siccom’essa lo è nella qualità, eccetto solamente che ancor nelle sue qualità ell’è meno perfetta dell’italiana. Del rimanente ella, quanto alla qualità, non potrebbe quasi essere più conforme alla nostra di quel ch’ella sia.

5.o Nè tale sarebbe se la letteratura spagnuola, benchè cedendo d’assai all’italiana per la quantità, non le fosse pari del tutto nella qualità, salvo la minore perfezione di ciascun suo attributo. Le stesse cagioni, sì naturali, sì accidentali, che ci resero gli spagnuoli così conformi di lingua, ce li fecero altrettanto conformi nella letteratura. Nè poteva essere altrimenti, perchè l’una e l’altra vanno sempre del pari. Certo è che nel cinquecento, secolo aureo e principale non meno della lingua e letteratura spagnuola che della italiana, il commercio tra queste due letterature fu strettissimo, e l’influenza reciproca; bensì maggiore d’assai quella dell’italiana sulla spagnuola che viceversa, perchè l’italiana era di gran lunga maggiore, e portata ad un alto grado già molto prima, cioè nel 300. Laonde, se imitazione vi fu, non è dubbio che gli spagnuoli imitarono, e gli scrittori italiani furono loro modelli. Ma senza più stendersi in questo, egli è certissimo ed evidente che il buono e classico stile spagnuolo e lo stile italiano buono e classico, salvo che quello è meno perfetto, non sono onninamente che uno solo. Ora quanta parte abbia la lingua nello stile[a]

Veggasi fra l’altre, la p. 2906. segg.

[Chiudi], quanta influenza lo stile nella lingua, come sovente sia difficile e quasi impossibile il distinguere questa da quello, e le proprietà dell’una da quelle dell’altro, o si parli di uno scrittore e di una scrittura particolarmente, o di un genere, o di una letteratura in universale; sono cose da me altrove accennate più volte. Basti ora il dire che non si è mai per ancora veduto in alcun secolo, appo nazione alcuna, stile corrotto o barbaro e rozzo, e lingua pura o delicata, nè viceversa, ma sempre e in ogni luogo la rozzezza, la purità, la perfezione, la decadenza, la corruttela della lingua e dello stile si sono trovate in compagnia[b]. Chè se ne’ nostri trecentisti la lingua è pura e lo stile sciocco; 1.o lo stile non pecca se non per difetto di virtù, per inartifizio, e mancanza d’arte e di coltura, ma niun vizio ha e niuna qualità malvagia; sicchè non può chiamarsi corrotto: 2.o lo stile de’ trecentisti è semplice e nella semplicità energico, come porta la natura, e tale nè più nè meno è la lingua loro, la quale generalmente non ha pregio nessuno se non questi, che sono pur pregi dello stile, ma non sempre, e che non bastano: 3.o che che ne dicano i pedanti, ogni volta che lo stile de’ trecentisti pecca di rozzo, anche la lor lingua è rozza; ogni volta che di barbaro, anche la lingua è barbara; ogni volta che di eccessiva semplicità ed inartifizio, anche la semplicità della lingua passa i termini, com’è stato ben provato in questi ultimi tempi; e finalmente se talvolta il loro stile è tumido, falso, o insomma corrotto comunque, (benchè tal corruzione in loro sia piuttosto fanciullesca e d’ignoranza, che manifestante il cattivo gusto, e la depravazione, che in essi non poteva aver luogo), allora anche la lingua non è da noi chiamata pura, se non perchè ed in quanto antica, secondo le osservazioni da me fatte altrove circa quello che si chiama purità di lingua.

Adunque lo stile che colla lingua è così strettamente legato, è lo stesso nello spagnuolo e nell’italiano. Dico quello stile che dall’una e dall’altra nazione è riconosciuto per classico. Ebbero anche i francesi nel medesimo secolo del cinquecento uno stile conforme o quasi conforme allo spagnuola e all’italiano, ma esso non è riconosciuto oggidì per classico da quella nazione, nè per tale fu riconosciuto in quel secolo in che la letteratura francese pigliò forma e carattere e perfezionossi, in somma nel secolo aureo che dà legge e norma, generalmente parlando, alla lingua e letteratura francese di qualunque secolo successivo. E se pur quello stile talvolta è o fu riconosciuto per classico da’ francesi (come in Amyot), ciò è come un classico che essi non debbono seguire nè imitare, un classico diverso da quello che è classico oggidì per loro nelle scritture di questo secolo, un classico che in queste scritture sarebbe vizio, anzi non si comporterebbe, anzi non senza fatica s’intenderebbe; una lingua in somma e uno stile che, secondo confessano essi medesimi, ancorchè bello e classico, non è più loro.

Lo stile e la letteratura spagnuola forma veramente (quanto alla sua indole) una sola famiglia collo stile e letteratura greca, latina e italiana. Lo stile e la letteratura francese per lo contrario appartengono a una famiglia ben distinta dalla suddetta. La letteratura francese insieme con quelle ch’essa ha prodotte, ciò sono la inglese del tempo della regina Anna, la svedese, la russa, (e credo eziandio l’olandese), forma in Europa, propriamente parlando, una terza distinta famiglia, un terzo genere di letteratura e di stile: intendendo per seconda famiglia di letterature europee quelle di carattere settentrionale, cioè l’inglese de’ tempi d’Ossian e di quelli di Shakespeare, e la moderna ch’è una continuazione di questa, la tedesca, l’antica scandinava, illirica, e simili. (Sebbene il carattere scandinavo e illirico, sì delle nazioni, sì delle letterature, è distinto dal teutonico ec. Ma non esiste letteratura scandinava nè illirica, se non antica e mal nota, perchè la presente letteratura Svedese, Danese, russa ec. non è che francese. Staël nel principio dell’Alemagna). Come altrove ho detto della lingua[a]

Veggasi la p. 2989.

[Chiudi], così della letteratura e dello stile francese si deve dire. Essi tengono il mezzo tra il meridionale e il settentrionale, tra il classico e il romantico; essi formano una categoria propria, niente meno diversa e distinta da quella delle letterature e stili greco, latino, italiano classico, spagnuolo classico, e dall’indole e spirito loro, di quel ch’ella sia dalle letterature inglese moderna, tedesca, e loro affini o simiglianti. V. p. 3559.

Quel carattere di nobiltà, di dignità, di ardire, di semplicità, di naturalezza ec. ec. che distingue gl’idiomi e gli stili greco e latino, non si possono in alcuna lingua del mondo, nè moderna nè antica, esprimer meglio nè più spontaneamente e naturalmente che nella italiana e nella spagnuola, e negli stili riconosciuti respettivamente per classici appo queste due nazioni: nè si potrebbero, assolutamente parlando, esprimer meglio di quello che queste due lingue e questi due stili possano fare. Dico possano fare, perchè lo spagnuolo non lo ha forse ancora mai fatto perfettamente, benchè la sua indole e lo comporti e lo richiegga. Dico quel tal carattere identico di nobiltà ec. proprio della lingua e stile greco e latino. Le qualità medesime in genere, come la nobiltà in genere ec. possono esser proprie anche del francese e del tedesco e d’ogni lingua colta, ma quel tal carattere individuale e identico di nobiltà ec. che distingue i suddetti stili greco e latino, non solo non lo richieggono nè l’amano, ma in niun modo lo comportano, gli stili francese, inglese ec. Questi possono esser nobili, ma in altro modo; semplici ma in diversissimo modo; naturali ma tutt’altra naturalezza, perch’egli hanno tutt’altra natura, e tutt’altro carattere hanno le rispettive nazioni, e tutt’altro per queste è naturale; arditi, ma la lingua francese rispetto a se stessa solamente, chè rispetto all’altre, e assolutamente parlando, è timidissima, al contrario della greca e della latina, e della spagnuola e italiana altresì: le restanti lingue e stili possono essere arditi, anche più del greco e del latino, anche più dello spagnuolo e dell’italiano, ma in tutt’altro modo.

E per recare un esempio; laddove la lingua e lo stile spagnuolo e italiano si piegano naturalmente e quasi da se al dignitoso, come il greco e il latino (che in qualunque genere e materia hanno sempre del grave e dell’elevato), lo stile francese non ci si piega per niun modo, ma sempre tira al familiare e al piano. Contuttociò egli pure ottiene di staccarsi dal familiare e dal volgo, di sostenersi, d’innalzarsi; ma come? Con un copiosissimo uso d’immagini, pensieri ed espressioni poetiche. E non mezzanamente confusamente o solo in parte poetiche, ma forte espressa e totalmente. Senza ciò non ottiene mai dignità ed elevazione, e sempre tira al basso, e si accosta al discorso ordinario, allo stile parlato, di conversazione ec. Ma ciò è ben diverso, e in certo senso, contrario al modo in che i greci e i latini davano dignità ed elevatezza al loro stile, in che gliene diedero i nostri classici e gli spagnuoli, benchè non sempre perfetti nel loro genere di stile, come avrebbero e potuto e dovuto essere, e come esigeva naturalmente esso genere di stile, e l’indole stessa della lingua ec. Si possono vedere le pagg. 3453. segg. e 3561. segg. ec. Vedi quello che altrove ho detto sopra il poetico dello stile di Floro, (v. p. 3420.), e quello che ho detto sopra ciò, che la lingua francese sempre prosaica nel verso, è oggimai sempre poetica nella prosa; e altri tali pensieri.

Venendo alla conchiusione, ripeto che da una lingua così conforme alla nostra, come ho mostrato essere la spagnuola, per ogni verso, e per tante cagioni naturali, accidentali, intrinseche, estrinseche ec.; da una lingua sorella com’essa è all’italiana; da una lingua ec. ec.; molta bella ed utile novità possono trarre gli scrittori italiani moderni, come ne trassero gli antichi e classici nostri. Ma voglio io perciò introdotti nella lingua italiana degli spagnuolismi? Tanto come, consigliando di attingere dal latino, intendo consigliare che s’introducano nell’italiano de’ latinismi[a]

Molto meno io vorrei consigliare che la lingua o lo scrittore italiano si modellasse sulla lingua spagnuola, molto alla nostra inferiore in perfezione, benchè conforme in carattere. Oltre che una lingua già perfetta non si dee modellare, anzi dee fuggir di modellarsi sopra alcuna altra, sia quanto si vuole perfettissima. E così a proporz. discorrasi della letteratura ec.

[Chiudi]. Sono nel latino molte parole, nello spagnuolo alcune, nel greco, nel latino e nello spagnuolo moltissimi modi e forme di dire, (e molte significazioni di vocaboli o modi già fatti italiani) le quali tutte non per altro non sono italiane, se [non] perchè da veruno per anche non introdotte nella nostra lingua. Adoperandole nell’italiano, elle sarebbero così bene intese, cadrebbero così bene e facilmente, parrebbero così spontanee e naturali, sarebbero così lontane da ogni sembianza d’affettate, che niuno s’accorgerebbe non pur ch’elle fossero o greche o latine o spagnuole anzi, o più, che italiane, ma neppur sentirebbe che fossero nuove nella nostra lingua, nè se n’avvedrebbe in altro modo che ricercandone espressamente il vocabolario. O se vi sentisse della novità, ne sentirebbe quel tanto e non più, che dà grazia, eleganza, forza, nobiltà, bellezza allo stile e alla lingua, e dividono l’una e l’altra dal popolo, il che non pur è concesso ma richiesto al nobile scrittore in qualunque genere. Queste voci, frasi, forme, benchè latine, greche, spagnuole di origine; benchè non mai per l’innanzi usate o sentite in italiano; introdotte che vi fossero, non sarebbero nè latinismi nè grecismi nè spagnolismi, perchè non vi si conoscerebbe nè la latinità, nè la grecità ec., o se vi si conoscerebbe, non vi si sentirebbe, ch’è quel che importa; nè vi si conoscerebbe che per cagioni estrinseche e proprie del lettore, cioè per la cognizione che questi avrebbe di quelle lingue, e degli scrittori italiani ec.; non per cagioni intrinseche, cioè proprie di quella tale scrittura, stile ec. per le qualità di quelle tali voci, frasi ec. rispetto alla lingua italiana o a quel tal genere e stile. Altre voci, frasi, forme, significazioni sono in gran numero nelle dette lingue, che si potrebbero pure utilissimamente introdurre nella italiana, ma non altrove che in certi luoghi, con certi contorni, preparazioni ec. nè senza molta avvertenza, arte, discrezione, giudizio dell’opportunità ec. Con le quali condizioni, nè anche queste (che sono in molto maggior numero dell’altre sopraddette) non riuscirebbero nè latinismi nè grecismi ec. per le stesse ragioni. Ovunque si senta latinità, grecità ec. o un sapore di non nazionale, indipendentemente dalle cognizioni ec. del lettore, e per propria qualità della parola o frase, o del modo in ch’ella è adoperata, quivi è latinismo, grecismo ec. quivi barbarismo, quivi sempre vizio. E siccome nei contrarii casi suddetti, malgrado la vera novità, niun vizio, anzi pregio vi sarebbe; così in questo caso, niun pregio sarebbevi, e sempre vizio, quando anche la novità non fosse vera, cioè quando bene quella tal parola ec. avesse già esempio d’autor classico nazionale, e n’avesse ancor molti; sia che in tutti questi ella stesse parimente male, o che stando bene in questi, ella stesse male nel dato caso, perchè non intelligibile o difficile a intendere, perchè male adoperata, e senza i debiti riguardi, e in occasione e con circostanze non opportune ec. Similmente accade e si dee discorrere intorno alle parole antiquate. La novità in una lingua, o la rarità ec., insomma il pellegrino, da qualunque luogo sia tolto (o da’ forestieri, o dagli antichi classici nazionali ec.), deve sempre parere una pianta, bensì nuova nel paese o rara, ma nata nel terreno medesimo della lingua nazionale, e non pur della nazionale, ma della lingua di quel secolo, della lingua conveniente a quel genere a quello stile a quel luogo della scrittura. Sempre ch’ella par forestiera (e recata d’altronde) per qualunque ragione, e in qualunque di questi sensi, ella è cattiva. Nel caso contrario è sempre buona.

Lo studio della lingua greca, latina, spagnuola, applicato a quello dell’italiana, non ci deve servire a latinizzare, grecizzare ec. in niuna parte (sensibilmente) la nostra lingua. Esso ci deve servire e ci serve mirabilmente a conoscere in quanti modi, niuno per anche usato, si possa usare e rivolgere questa lingua italiana medesima che abbiam per le mani, si possano comporre insieme, o adoperare per se stesse le sue parole, frasi ec[a]

Questo viene a essere, se così vogliamo chiamarlo, un latinizzare, grecizzare ec. l’italiano, ma affatto insensibilmente, e indistinguibilm. dall’italianizzare; un latinizzare non diverso dall’italianizzare ec.

[Chiudi]. Noi dobbiamo pescare in esse lingue, non latinismi, grecismi, ec. ma, per dir così, voci e forme e frasi italiane non per anche usate; delle quali esse lingue abbondano. Studiandole (siccome strettissimamente affini alla nostra, alla sua indole) ec. noi ci avveggiamo che l’italiano può adoperare un tal modo, forma, voce, significazione, ch’e’ non ha mai adoperato; la può adoperare, non perchè latina, greca, spagnuola, ma perchè conforme all’indole dell’italiano stesso, perchè questa lingua per se medesima, e tale qual ella è n’è capace; perchè appunto adoperata nell’italiano, non parrà nè latina nè greca nè spagnuola, ma parrà e sarà subito italiana. (cioè sarà intesa subito, cadrà naturalmente, o dovunque o in certi tali generi o luoghi, ec. ec.). Fatta questa scoperta, e avvedutici di questa verità, della quale senza lo studio di quelle lingue non avremmo avuto alcuna notizia, noi introduciamo nell’italiano quella tal frase ec. da niuno ancora usata, e che noi, se la lingua latina ec. non ce l’avesse mostrata, non avremmo potuto concepire e immaginare e inventare da noi medesimi e mediante la sola cognizione della nostra lingua, se non per caso[b]. Così quelle lingue ci somministrano copiose novità, che non sono nè latinismi nè grecismi, ec. ma italianismi o nuovi o rari, e questi bellissimi e utilissimi, e insomma degnissimi d’entrare in uso. Nello stesso modo che sono italianismi, e degnissimi d’entrare in uso, infiniti vocaboli, locuzioni (significati) e forme nuove, che l’abile e giudizioso e ben perito scrittore, può inesauribilmente e incessantemente derivare, formare, comporre ec. dalle stesse radici, degli stessi materiali, degli stessi capitali e fondi della lingua nostra, profondamente conosciuti e perfettamente posseduti, seguendo sempre e intieramente la vera indole e proprietà d’essa lingua, e conformandosi con tutte le sue qualità sieno intrinseche, sieno estrinseche ec. (9-10. Sett. 1823.).

[3410 - 3616]

Gli uomini che vivono in solitudine sono inclinatissimi al metodo. Ma non tanto quelli che nella solitudine sono occupati, o che perciò appunto vivono in solitudine, (ne’ quali, siccome in tutti quelli che sono molto occupati, il metodo e l’ordine dell’azioni sarebbe ragionevolissimo, perchè l’ordine così di luogo come di tempo è sempre risparmio dell’uno o dell’altro, e il disordine al contrario) quanto in quelli che nulla hanno da fare, come malati cronici, carcerati, vecchi ritirati per cagionevolezza dell’età, per debolezza, o per abito di pigrizia. Questi sogliono esser metodici fino all’ultimo eccesso. Pare che l’uomo sia tanto più geloso di ordinare la sua vita quanto meno ha da occuparla, o quanto meno la occupa[a]

Intendo per occupaz.i anche le distraz.i gli spassi ec.

[Chiudi]. Non potendo o non volendo impiegare il tempo, si occupa a regolarlo e partirlo e distinguerlo. L’ordinare le sue operazioni diviene l’unica sua operazione e occupazione. (11. Sett. 1823.). Io ho conosciuto uno di questi che dal capo al piè della giornata non aveva una sola cosa da fare, e lagnavasi della brevità del tempo, e che il giorno non bastava alle sue occupazioni quotidiane; e perciò sopportava di mala voglia qualunque straordinaria distrazione o altro, che gli occupasse alcun poco di tempo. (11. Sett. 1823.).

Come altrove ho detto, la monarchia è il più, anzi il solo, perfetto stato di società, perchè il solo naturale, il solo primitivo, il solo comune agli animali che hanno qualch’ombra di società, il solo che si trovi nel cominciamento di tutte le nazioni. (In qual modo nascesse la monarchia, vedilo nel principio della Rep. di Aristotele, che benissimo lo spiega, perocchè certo le nazioni o le popolazioni non convennero mai espressamente di ubbidire ad alcuno, nè mai diedero in niun modo i loro suffragi per li quali riuscisse eletto ad unanimità un monarca, che in questa elezione fondasse di quindi innanzi il diritto di comandarle.) Da questo principio segue che ogni repubblica o stato franco, comunque antichissimo, comunque anteriore a quella civilizzazione ch’è affine alla corruzione, comunque proprio eziandio di tempi e di popoli affatto rozzi, od anche di tempi e popoli eroici e virtuosi e magnanimi ec., sempre ch’esso si trova in una società già formata, già capace di tal nome, (sia antica, sia moderna, sia civile, sia selvaggia) è indizio certo di corruzione di questa tal società, ed è esso medesimo una corruzione del governo; il quale senza fallo, si sappia o non si sappia dalla storia, prima fu monarchico; ond’esso stato franco è indubitatamente in essa società una sorta di governo secondaria e non primitiva, ma sottentrata in luogo della primitiva, e nata dalla corruzione di questa, o certo della respettiva società. (11. Settembre. 1823.). V. p. 3517.

Alla p. 2841. Sperone Speroni nell’Orazione in morte del Cardinal Bembo, quinta delle Orazioni sue stampate in Ven. 1596. pag. 144-5. poco innanzi il mezzo dell’orazione suddetta. I medesimi verbi colla stessa construtione (p. 145.) usa il volgar poeta, (il poeta italiano) che suole usar l’oratore; onde non pur è lunge da quell’errore, ove spesse fiate veggiamo incorrere i Greci, et qualche volta i Latini, cioè a dire, che egli si paia di favellare in un’altra lingua, che non è quella dell’oratore; anzi i più lodati Toscani all’hora sperano di parlar bene nelle lor prose, et par quasi, che sene vantino, quando al modo, che da’ Poeti è tenuto hanno affettato di ragionare. Et chi questo non crede, vada egli a leggere il Decameron del Boccaccio, terzo lume di questa lingua, et troveravvi per entro cento versi di Dante così intieri, come li fece la sua comedia [a]

V. p. 3561.

[Chiudi]. Non parrebbe da queste parole che l’Italia non avesse lingua propriamente poetica, o certo ben poco distinta dalla prosaica? E non è d’altronde manifesto ch’ella ha una lingua poetica più distinta dalla prosaica che non è quella di forse niun’altra lingua vivente, e certo più che non è quella de’ Latini, in quanto si vede che noi, imparato che abbiamo ad intendere la prosa latina, intendiamo con poco più studio la poesia, (lo studio che ci vuole, e il divario tra il linguaggio della poesia latina e della prosa, consiste principalmente nella diversità di molta parte delle trasposizioni, ossia nell’ordine e costruzione delle parole, ch’in parte è diversa) ma uno straniero non perciò ch’egli ottimamente intendesse la nostra moderna lingua prosaica, intenderebbe senza molto apposito studio la poetica? Tant’è. Nello stesso cinquecento, l’Italia non aveva ancora una lingua che fosse formalmente poetica, cioè la diversità del linguaggio tra i poeti e gli oratori, non era per anche se non lieve, e male o insufficientemente determinata. Gli scrittori prosaici che componevano con istudio e con presunzione di bello stile, si accostavano alla lingua del Boccaccio e de’ trecentisti, e questa era similissima alla lingua poetica, perchè la lingua poetica del 300. era quasi una colla prosaica. Gli scrittori poetici che scostandosi dalla lingua del 300, volevano accostarsi a quella del loro secolo, davano in uno stile familiare, bellissimo bensì, ma poco diverso da quel della prosa. Testimonio l’Orlando dell’Ariosto e l’Eneide del Caro, i quali, a quello togliendo le rime, a questa la misura (oltre le immagini e la qualità de’ concetti ec.) in che eccedono o di che mancano che non sieno una bellissima ed elegantissima prosa? E paragonando il poema del Tasso (scritto nella propria lingua del suo tempo) colle prose eleganti di quell’età, poco divario vi si potrà scoprire quanto alla lingua. Di più i poeti italiani del 500. furono soliti (massime i lirici, che sono i più) di modellarsi sullo stile di Petrarca e di Dante. Il carattere di questo stile riuscì ed è necessariamente familiare, come ho detto altrove. Seguendo questo carattere, o che i poeti del 500 l’esprimessero nella stessa lingua di que’ due, come moltissimi faceano, o nella lingua del 500, come altri; doveano necessariamente dare al loro stile un carattere di familiare e poco diverso da quel della prosa. E così generalmente accadde. (Il linguaggio del Casa non è familiare, ed è molto più distinto dal prosaico, e così il suo stile. Ciò perchè ne’ suoi versi egli non si propose il carattere nè del Petrarca nè di Dante, ma un suo proprio. E quindi quanto il carattere del suo linguaggio e stile poetico è distinto da quel della prosa, tanto egli è ancora diverso da quello del linguaggio e stile sì di Dante e Petrarca, sì degli altri lirici, e poeti quali si vogliano, del suo tempo.). La Coltivazione, le Api ec. sono ben sovente bella prosa misurata quanto al linguaggio, ed allo stile eziandio: e ciò quantunque l’uno e l’altro poema sieno imitazioni, e l’Api nient’altro quasi che traduzione, delle Georgiche, il capo d’opera dello stile il più poetico e il più separato dal familiare, dal volgo, dal prosaico. Similmente si può discorrere dell’Eneide del Caro.

In somma la lingua italiana non aveva ancora bastante antichità, per potere avere abbastanza di quella eleganza di cui qui s’intende parlare, e un linguaggio ben propriamente poetico, e ben disgiunto dal prosaico. Le parole dello Speroni provano questa verità, e questa le mie teorie a cui la presente osservazione si riferisce. Il cui risultato è che dovunque non è sufficiente antichità di lingua colta, quivi non può ancora essere la detta eleganza di stile e di lingua, nè linguaggio poetico distinto e proprio ec. (11. Sett. 1823.). Ho già detto altrove che non prima del passato secolo e del presente si è formato pienamente e perfezionato il linguaggio (e quindi anche lo stile) poetico italiano (dico il linguaggio e lo stile poetico, non già la poesia); s’è accostato al Virgiliano, vero, perfetto e sovrano modello dello stile propriamente e totalmente e distintissimamente poetico; ha perduto ogni aria di familiare; e si è con ben certi limiti, e ben certo, nè scarso, intervallo, distinto dal prosaico. O vogliamo dir che il linguaggio prosaico si è diviso esso medesimo dal poetico. Il che propriamente non sarebbe vero; ma e’ s’è diviso dall’antico; e così sempre accade che il linguaggio prosaico, insieme coll’ordinario uso della lingua parlata, al quale ei non può fare a meno di somigliarsi, si vada di mano in mano cambiando e allontanando dall’antichità. I poeti (fuorchè in Francia[a]

V. p. 3428.

[Chiudi]) serbano l’antico più che possono, perch’ei serve loro all’eleganza, o dignità ec. anzi hanno bisogno dell’antichità della lingua. E così, contro quello che dee parere a prima giunta, i più licenziosi scrittori, che sono i poeti, son quelli che più lungamente e fedelmente conservano la purità e l’antichità della lingua, e che più la tengon ferma, mirando sempre e continuando il linguaggio de’ primi istitutori della poesia ec. Dalla quale antichità la prosa, obbligata ad accostarsi all’uso corrente, sempre più s’allontana. Ond’è che il linguaggio prosaico si scosti per vero dire esso stesso dal poetico (piuttosto che questo da quello) ma non in quanto poetico, solo in quanto seguace dell’antico, e fermo (quanto più si può) all’antico, da cui il prosaico s’allontana. Del resto il linguaggio e lo stile delle poesie di Parini, Alfieri, Monti, Foscolo è molto più propriamente e più perfettamente poetico e distinto dal prosaico, che non è quello di verun altro de’ nostri poeti, inclusi nominatamente i più classici e sommi antichi. Di modo che per quelli e per gli altri che li somigliano, e per l’uso de’ poeti di questo e dell’ultimo secolo, l’Italia ha oggidì una lingua poetica a parte, e distinta affatto dalla prosaica, una doppia lingua, l’una prosaica l’altra poetica, non altrimenti che l’avesse la Grecia, e più che i latini. Ed è stato anche osservato (da Perticari sulla fine del Tratt. degli Scritt. del Trecento) che nella universale corruzione della lingua e stile delle nostre prose e del nostro familiar discorso accaduta nell’ultima metà del passato secolo, e ancora continuante, la lingua de’ poeti si mantenne quasi pura e incorrotta, non solo ne’ migliori o in chi pur seguì un buono stile, ma ne’ pessimi eziandio, e negli stili falsi, tumidi, frondosissimi, ridondanti, strani o imbecilli degli arcadici, de’ frugoniani, bettinelliani ec. Così pure era accaduto ne’ barbari poeti del secento. La cagione di ciò è facile a raccorre da queste mie osservazioni, le quali sono ben confermate da questi fatti. Laddove egli è pur certo che riguardo alla prosa, lo stile non si corrompe mai che non si corrompa altresì la lingua, nè viceversa, nè v’ha prosatore alcuno di stile corrotto e lingua incorrotta: del che puoi vedere le pagg.3397-9. (12. Sett. 1823.).

Opinione de’ greci, anche filosofi, e principali filosofi, sul giusto e l’ingiusto creduto altro verso i greci, altro verso i barbari, non accidentalmente, ma naturalmente; sulla supposta inferiorità di natura di questi a quelli; sul supposto naturale diritto ne’ greci di comandare a tutte l’altre nazioni, come per natura incapaci di governarsi da se nè d’acquistare le facoltà a ciò convenienti; sulla supposta servilità non di circostanza ma di natura ne’ barbari (cioè nei non greci), servilità creduta in essi così universale, che l’esser molti di essi nella propria nazione servi, era creduto irragionevole, perchè niuno nella loro nazione era stimato aver dritto di comandarli, essendo tutta la nazione composta di soli servi per natura. Vedi la Rep. d’ Aristot. ediz. del Vettori, Firenze Giunti 1586. libro 1. p. 7.31.32. libro 3. p. 257. e le note del Vettori ai rispettivi luoghi. E Plutarco t. 2. p. 329. B. ec. (12. Settembre 1823.). Opinione rinnovatasi presso gli spagnuoli ec. quanto agli americani indigeni, ai negri ec. ec.

Alla p. 3404. Quanto nel cit. pensiero ho detto dello stile di Floro, si può, e meglio, applicare a quello di Platone, riputato, sì quanto allo stile e a’ concetti, sì quanto alla dizione[a]

Puoi vedere la pag. 3429.

[Chiudi], esser quasi un poema (v. Fabric. B. G. in Plat. par. 2. edit. vet. vol. 2. p. 5.); e nondimeno sommo e perfetto esempio di bellissima prosa, elegantissima bensì e soavissima (non meno che gravissima: suavitate et gravitate princeps Plato: Cic. in Oratore ), amenissima ec., ma pur verissima prosa, e tale che la meno poetica delle moderne prose francesi (e mi contento di parlare delle sole riconosciute per buone), è molto più poetica di quella di Platone che tra le greche classiche è di tutte la più poetica. Non altrimenti che molto più poetiche della prosa platonica sono assaissime prose sacre e profane de’ posteriori sofisti e de’ padri greci ec. la cui moltitudine avanza forse e senza forse quella che ci rimane delle prose classiche antiche. Ma per vero dire, nè quelle son prose, nè le moderne francesi lo sono, ma sofistumi l’une e l’altre, quelle in ogni cosa, queste in quanto allo stile. (12. Sett. 1823.).

Che i miracoli della musica, la sua natural forza sui nostri affetti, il piacere ch’ella naturalmente ci reca, la sua virtù di svegliar l’entusiasmo e l’immaginazione, ec. consista e sia propria principalmente del suono o della voce, in quanto suono o voce grata, e dell’armonia de’ suoni e delle voci, in quanto mescolanza di suoni e voci naturalmente grata agli orecchi; e non già della melodia; e che conseguentemente il principale della musica e la considerazione de’ suoi effetti non appartenga alla teoria del bello proprio, più di quello che v’appartenga la considerazione degli odori, sapori, colori assoluti ec., perocchè il diletto della musica, quanto alla principale e più essenziale sua parte, non risulta dalla convenienza; veggasi in questo, che non v’ha così misera melodia che perfettamente eseguita da un istrumento o da una voce gratissima non diletti assaissimo; nè v’ha per lo contrario così bella melodia ch’eseguita p. e. con bacchette su d’una tavola, o su di più tavole che rispondano a’ diversi tuoni, o in qualsivoglia istrumento o voce ingratissima o niente grata, rechi quasi diletto alcuno, e ciò quando anche ella sia eseguita perfettamente rispetto a se stessa. E ben gli uomini si sono potuti accorgere delle suenunciate verità in questi ultimi tempi, ne’ quali, per quello che se n’è detto, la sorprendente voce della Catalani ha rinnovato quasi negli uditori i miracolosi effetti della musica antica. Certo questi effetti non nascevano nè principalmente nè essenzialmente nè quasi in parte alcuna dalle melodie. Le quali, oltre che da mille altri potevano esser cantate, si sa poi ch’erano delle più triviali ed insipide. Tutto il diletto era dunque originato dalla voce della cantante, cioè dalle qualità d’essa voce che piacciono naturalmente agli orecchi umani, tutte indipendenti dalla convenienza: straordinaria dolcezza, flessibilità, rapidità, estensione ec. voce canora, sonora, chiara, pura, penetrante, oscillante, tintinnante, simile alle corde o ad altro istrumento musicale artefatto ec. ec.

Con queste osservazioni non farà maraviglia che i barbari e anche gli animali sieno tanto dilettati dalla nostra musica, benchè non assuefatti alle nostre melodie, e quindi non capaci di conoscere nè di sentire quello che noi chiamiamo il bello musicale. Non sono le melodie in se, nè la loro novità, che producono in essi il diletto: sono gl’istrumenti e le voci, che presso noi sono raffinate e perfette, queste coll’esercizio, coll’arte ec. quelli colle tante invenzioni e perfezionamenti ec. Alla perfetta qualità di questi organi unita l’arte di adoperarli perfettamente cioè di trarne de’ suoni più grati ec. che non ne trarrebbe chi non avesse alcun’arte; unitavi di più l’arte di accordare insieme questi organi nel modo ch’è naturalmente il più grato agli orecchi (come l’arte di mescolare e temperare i sapori); ne risulta una dolcezza ec. che a’ barbari riesce affatto nuova, e che perciò produce in essi un piacer sommo ed effetti mirabili; piacere ed effetti che niente hanno da far col bello, perchè niente colla convenienza, se non con quella ch’è relativa alla naturale disposizione degli orecchi, e che tanto appartiene al bello, quanto la grata mescolanza de’ sapori, ch’è una convenienza dello stessissimo genere dell’armonia musicale. Con queste osservazioni si spiegheranno ancor bene, e meglio che in alcun altro modo, moltissimi de’ miracoli della musica antica, massime quelli che si raccontano delle nazioni o de’ tempi più rozzi, come di Saule e Davidde ec. Essi miracoli non nascevano dalle qualità delle melodie, come si crede, ma dalle qualità naturali o artifiziali degl’istrumenti o delle voci, e del modo di toccarli o adoperarle, in quanto da tali qualità nascevano suoni, o armonie di suoni, straordinariamente grate per se stesse all’orecchio; straordinariamente, dico, rispetto a quelle nazioni o a quei tempi. L’esser da lungo intervallo dissuefatto dall’udir musiche, produceva anch’esso e produce tuttavia molti mirabili effetti, i quali s’attribuiscono alle melodie, ma non nascono infatti principalmente che dalla sensazione di suoni grati ec. per se stessa, tornata ad essere molto efficace per la dissuefazione. Se Alessandro tutto il dì occupato nelle cose militari, era a tavola mirabilmente affetto e dominato dalla musica (se non erro) di Timoteo, ciò si rechi alla suddetta cagione, oltre al vino che naturalmente esalta l’animo, in un corpo stanco massimamente; e dispone a provar vivissime sensazioni per menome cause ancora.

Osservisi che generalmente fa negli uomini molto maggiore effetto la musica vocale che l’istrumentale, la voce di una donna in un uomo che quella di un uomo, e nella donna viceversa; la voce di basso fa forse nella donna maggior effetto che quella di tenore o contralto, e nell’uomo al contrario ec. Così de’ diversi istrumenti, quello fa in generale maggior effetto, produce maggior piacere ec.; questo meno. Tutto ciò in parità di circostanze, e trattandosi p. e. d’una medesima melodia ec. Or tali differenze non hanno a far nulla colla convenienza, nulla, col bello proprio, sono indipendenti dalla qualità delle melodie, che sole spettano nella musica al discorso del bello; appartengono alle qualità sole de’ suoni ec.; sono della stessa categoria che le differenze degli odori e sapori ec. che niuno s’avvisò di chiamar belli nè brutti, bensì più o meno piacevoli o dispiacevoli: e ciò non per altro se non perchè in essi non ha luogo, come non l’ha nel nostro caso, il discorso della convenienza ec. (12. Sett. 1823.).

Delicatezza considerata presso le nazioni civili come parte assolutamente del bello. Statue greche umane. L’Apollo, il Mercurio (già Antinoo), il Meleagro ec. — In tutte queste le forme hanno della donna. — Tale si è il carattere delle statue greche, quanto alle forme umane, e delle sculture e scuole di là provenute antiche e moderne. — Tra le statue di Roma, tu ravvisi subito una fattura greca al donnesco delle forme. — Così Canova — Il bello delle forme umane consiste dunque nell’inclinare e partecipare al donnesco — Possiamo noi credere che le forme umane, secondo natura, le più perfette, fossero o sieno di questa sorta? che di questa sorta sia il bello umano concepito da’ primitivi selvaggi ec.? e non anzi l’opposto? che l’intenzione della natura sia tale riguardo all’uomo, cioè ch’essendo perfetto, (e ciò vuol dire quale ei dev’essere), abbia del donnesco, e non ne sia anzi remotissimo? — Chi s’è mai avvisato tra’ civili di pigliar le forme d’Ercole per modello di bellezza d’uomo? ma nol sarebbero esse veramente in natura? e tuttavia l’idea e la statua d’Ercole non è il preciso contrario dell’idea e della statua d’Apollo? certo che sì, quanto alla forma virile e matura ec. (12. Sett. 1823.).

Alla p. 3417. In Francia siccome la prosa segue l’uso del parlar quotidiano assai più che altrove, e l’è sempre assai più conforme, così i poeti non hanno creduto potersi scostare gran fatto dall’uso medesimo e dalla prosa, nè lasciar di seguire da vicinissimo l’uno e l’altra nelle continue mutazioni ch’esse naturalmente e inevitabilmente subiscono. Sì ne’ poeti che ne’ prosatori ciò nasce dalla natura di quella nazione e di quella società. I poeti francesi non hanno dunque antichità di linguaggio da usare. Tutto e sempre di mano in mano nella lingua francese è moderno. E tutto è ancor nazionale; perchè guardigli il cielo dall’arricchire la loro lingua di qualche voce tolta nuovamente dal latino, benchè totalmente analoga e affine ad altre voci francesi. La lingua loro è dunque in tutto e sempre viva e incapace sì dell’antico, si ancora del pellegrino (se non di quello che introdotto in una lingua, o usato da uno scrittore è libertinaggio e barbarie, non eleganza o nobiltà ec.). Da ciò viene che la lingua francese non è capace di eleganza ec. (del che mi pare aver detto altrove), e che la Francia non ha e non può avere lingua propria della poesia. E non avendola, e però i termini tra questa e quella della prosa non essendo certi, anzi non avendovene alcuno, perocchè il campo dell’una e dell’altra è un solo e indiviso, la Francia non ha neppur lingua propria espressamente della prosa, e nella più impoetica lingua del mondo, qual è la francese, non si trova quasi prosa che non sappia di poesia per lo stile, più o meno, ma certo più di tutte le classiche prose scritte nelle più poetiche lingue come la greca e la latina. Del che veggasi la p. 3420-1. Del resto è ben naturale che ove non è distinzion di lingua (tra poesia e prosa) quivi non possa essere vera distinzion di stile [a]

Secondo il detto a p. 3397-9. e 2906.

[Chiudi]. (13. Sett. 1823.).

Altronde per altrove, e indi fors’anche quasi ivi o colà, delle quali cose ho detto altrove. V. Petrarca Son. Io sentia dentr’al cor già venir meno . (15. Sett. 1823.).

Natura insegna il curare e onorare i cadaveri di quelli che in vita ci furon cari o conoscenti per sangue o per circostanze ec. e l’onorar quelli di chi fu in vita onorato ec. Ma ella non insegna di seppellirli nè di abbruciarli, nè di torceli in altro modo davanti agli occhi[b]

Veggasi a questo proposito la Parte primera de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon. en Anvers 1554. 8.vo piccolo. cap. 53. fine. a car. 146. p. 2. cap. 62. 63. 100. 101. principio.

[Chiudi]. Anzi a questo la natura ripugna, perchè il separarci perpetuamente da’ cadaveri de’ nostri è, naturalmente parlando, separazione più dolorosa che la morte loro, la qual non facciam noi, ma questa è volontaria ed opera nostra, e quella è quasi insensibile a chi si trova presente, e accade bene spesso a poco a poco; questa è manifestissima e si fa in un punto. E separarsi da’ cadaveri tanto è quasi in natura quanto separarsi dalle persone di chi essi furono, perchè degli uomini non si vede che il corpo, il quale, ancor morto, rimane, ed è, naturalmente, tenuto per la persona stessa, benchè mutata (piuttosto che in luogo di quella), e per tutto ciò ch’avanza di lei. Ma d’altra parte il lasciare i cadaveri imputridire sopra terra e nelle proprie abitazioni, volendoseli conservare dappresso e presenti, è mortifero, e dannoso ai privati e alla repubblica. I poeti, oltre all’avere insegnato che nella morte sopravvive una parte dell’uomo, anzi la principale e quella che costituisce la persona, e che questa parte va in luogo a’ vivi non accessibile e a lei destinato, onde vennero a persuadere che i cadaveri de’ morti, non fossero i morti stessi, nè il solo nè il più che di loro avanzava; oltre, dico, di questo, insegnarono che l’anime degl’insepolti erano in istato di pena, non potendo niuno, mentre i loro corpi non fossero coperti di terra, passare al luogo destinatogli nell’altro mondo. Così vennero a fare che il seppellire i morti o le loro ceneri, e levarsegli dinanzi, fosse, com’era utile e necessario ai vivi, così stimato utile e dovuto ai morti, e desiderato da loro; che paresse opera d’amore verso i morti quello che per se sarebbe stato segno di disamore, e opera d’egoismo; che l’amore così consigliato e persuaso imponesse quello ch’esso medesimo naturalmente vietava; che venisse ad esser secondo natura e suggerito dall’amor naturale, quello che per se aveva al tutto dello snaturato; e che fosse inumanità e spietatezza il trascurar quello che senza ciò sarebbesi tenuto per inumano e spietato. Così gli antichi e primi poeti e sapienti facevano servire l’immaginazione de’ popoli, e le invenzioni e favole proprie a’ bisogni e comodi della società, conformando quelle a questi, e si verifica il detto di Orazio nella Poetica ch’essi furono gl’istitutori e i fondatori del viver cittadinesco e sociale, onde Orfeo ed Anfione furono eziandio tenuti per fondatori di città. E così gli antichi dirigevano la religione al ben pubblico e temporale, e secondo che questo richiedeva la modellavano, e di questo facevano la ragione e il principio e l’origine de’ dogmi di essa: opponendola alla natura dove questa si opponeva alle convenienze della vita sociale; e vincendo la natura fortissima, coll’opinione ancor più forte, massime l’opinion religiosa. (15. Settembre. 1823.). Chi riguarda come legge naturale il seppellire o abbruciare ec. i cadaveri, troverà forse in queste osservazioni di che mutar sentenza.

Per molte cagioni, anche lievi, l’uomo si getta al pericolo, anche della morte; di più sacrifica determinatamente se stesso, danari, robba, comodità, speranze ec. Ma ben pochi si trovano che per cagioni anche gravi, anche per vive passioni, per amore ardente ec. si sottopongano o sieno veramente capaci di sottoporsi a un dolore corporale, anche non grande. S’incontra spesso e facilmente, a occhi veggenti e volontariamente il pericolo della morte, e quegli stessi non son capaci d’incontrar volontariamente e scientemente un dolor corporale certo. (15. Sett. 1823.).

Che il timore sia, come ho detto altrove, più naturale all’uomo della speranza, e che l’uomo inclini più a quello che a questa, veggasi che qualora gli uomini ignorano le cagioni degli effetti o naturali o artifiziali, ordinariamente ne temono; e tanto è quasi, per gl’ignoranti massimamente e primitivi e selvaggi e fanciulli, effetto di cagione nascosta, quanto effetto spaventoso. Or quando mai la speranza è così temeraria? Di più se l’ignoranza, superstizione ec. portò anticamente o porta oggidì a pigliar qualch’effetto nuovo o sconosciuto per presagio dell’avvenire o per segno del presente ignoto, osservisi che generalmente questi presagi e questi segni furono creduti sinistri. Lascio l’ecclissi le quali possono parere spaventose naturalmente a chi ne ignora la cagione, non ne ha mai veduto ec., e da questo primitivo spavento può ben esser nata l’opinione del cattivo augurio che loro si attribuì, e che le rese spaventose per sì lungo tempo presso tutte le nazioni, e fin anche al di d’oggi, benchè già si sapesse e si sappia che l’oscurazione non era per durar sempre ma passeggera ec. Ma le comete che cosa hanno di spaventevole per se, più ch’altro corpo celeste, o che la via lattea ec.? E volendole pigliare per segni o presagi, perchè non di bene? ma non si troverà nazione dov’elle fossero o sieno stimate annunziare altro che male. Quelli che gli antichi chiamavano mostri, cioè cose straordinarie, benchè nulla terribili per se stesse e materialmente tutte erano stimate cattivi augurii. Così nelle vittime il mancare del cuore, s’è pur vero che ciò accadesse talvolta, come gli antichi narrano, o che paresse così per errore di chi inspiciebat le viscere ec. Tutti segni che l’uomo è più facile e proclive a temere che a sperare; e che questo è di rado così irragionevole e precipitoso come quello; o certo ben più di rado ec. Massimamente in natura, ne’ fanciulli, negl’ignoranti e negli uomini naturali. (15 Sett. 1823.).

L’immaginazione e le grandi illusioni onde gli antichi erano governati, e l’amor della gloria che in lor bolliva, li facea sempre mirare alla posterità ed all’eternità, e cercare in ogni loro opera la perpetuità, e proccurar sempre l’immortalità loro e delle opere loro. Volendo onorare un defonto innalzavano un monumento che contrastasse coi secoli, e che ancor dura forse, dopo migliaia d’anni. Noi spendiamo sovente nelle stesse occasioni quasi altrettanto in un apparato funebre, che dopo il dì dell’esequie si disfa, e non ne resta vestigio. La portentosa solidità delle antiche fabbriche d’ogni genere, fabbriche che ancor vivono, mentre le nostre, anche pubbliche, non saranno certo vedute da posteri molto lontani; le piramidi, gli obelischi, gli archi di trionfo, la profondissima impronta delle antiche medaglie e monete, che passate per tante mani, dopo tante vicende, tanti secoli ec. ancor si veggono belle e fresche, e si leggono, dove i coni delle nostre monete di cent’anni fa son già scancellati; tutte queste e tant’altre simili cose sono opere, effetti, e segni delle antiche illusioni e dell’antica forza e dominio d’immaginazione. Se fabbricavano per fasto i monumenti del loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio non si appagava dell’ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano esser testimoni della sua potenza e contribuire a pascere la sua vanità: se per diletto, per bellezza, ornamento ec. tutto questo s’aveva da propagare nel futuro in perpetuo; se per utile tutte le generazioni avvenire avevano a partecipare di quella utilità; se il principe, se il comune, se i privati, se per comodo, per onore, per vantaggio particolare o pubblico; se in memoria di successi ricordevoli o privati o pubblici; se in ricompensa di virtù, di belle azioni, di beneficii pubblici o privati; se in onor privato o pubblico, di vivi o di morti; se in testimonianza d’amore ec. ec. qualunque fine si proponessero, qualunque effetto dovesse seguitare a quell’opera, esso aveva ad essere eterno, s’aveva a stendere in tutto l’avvenire, non aveva a cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non permettevano loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di proccurare un effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di soddisfarsi d’una idea ristretta a poco più che a quello ch’essi vedevano. L’immaginazione spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi. Quindi verso il futuro e la posterità, perocchè il presente è limitato e non può contentarla; è misero ed arido, ed ella si pasce di speranza, e vive promettendo sempre a se stessa. Ma il futuro per una immaginazione gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti non la soddisfa. Dunque ella guarda e tira verso l’eternità.

Fu proprio carattere delle antiche opere manuali la durevolezza e la solidità, delle moderne la caducità e brevità. Ed è ben naturale in un’età egoista. Ell’è egoista perchè disingannata. Ora il disinganno, come fa che l’uomo non pensi se non a se, così fa che non pensi se non quasi al presente; di quello poi che sarà dopo di lui, non si curi punto nè poco. Oltre che l’egoista è vile, sì per l’egoismo, sì per altre parti e cagioni. E l’età moderna ch’è quella del despotismo tranquillo, incruento e perfezionato, come può non essere abbiettissima? Ora un animo basso non si sa levar alto, nè proporsi de’ fini nobili, nè cape l’idea dell’eternità in menti così anguste, nè l’uomo abbietto può riporre la sua felicità nel conseguimento d’obbietti sublimi.

Ne’ tempi intermedi fra l’antico e il moderno, osservando i monumenti materiali che n’avanzano, si trovano evidenti segni e dell’antiche illusioni e del sopravvegnente disinganno. Si vede anche grandissima solidità in molte barbariche opere de’ bassi tempi, (anche private, anzi per lo più tali) certo a paragone delle moderne. Chi può paragonare la solidità di queste con quella degli edifizi pubblici o privati del 500, in Italia massimamente. In Roma, dove v’ha monumenti d’ogni età dalle egiziane alla presente, si può in questi considerare la sommità, la decadenza, il distruggimento dell’umana immaginazione e illusioni; anzi pur le diverse sommità e decadenze ec. delle medesime; e le diverse età dell’immaginazione ec. e la storia delle nazioni non solo, ma in genere dello spirito umano spiritualmente considerato, malgrado la materialità degli oggetti. Si può cominciare dall’obelisco di piazza del popolo, e finire, tornando poco distante da quello, nel palazzo Lucernari che ancor si fabbrica. Quel denaro che da noi si spende in tabacchiere, e in astucchi, gli antichi lo spendevano in busti e statue, e dove per una vittoria si fa ora giuocare un fuoco di artifizio, essi muravano un arco di trionfo . Algarotti, Pensieri, pensiero 13 [a]

V. ancora la Correspond. du Prince royal de Prusse et de Voltaire dans les oeuvres complettes du Roi de Prusse 1790. t. 10. lettre 96. de Voltaire p. 422. et suiv.

[Chiudi].

Si possono applicare queste considerazioni anche alla letteratura. Non s’usavano anticamente le brochures, nè gli opuscoli e foglietti volanti, nè scritture destinate a morire il dì dopo nate. E quello ancora che si scriveva per sola circostanza e per servire al momento, scrivevasi in modo ch’e’ potesse e dovesse durare immortalmente.

Cicerone dopo dato un consiglio al senato o al popolo, da mettersi in opera anche il dì medesimo, dopo perorata e conchiusa una causa, ancor di una piccola eredità si poneva a tavolino, e dagl’informi commentari che gli avevano servito a recitare, cavava, componeva, limava, perfezionava un’orazione formata sulle regole e i modelli eterni dell’arte più squisita, e come tale, consegnavala all’eternità. Così gli oratori attici, così Demostene di cui s’ha e si legge dopo 2000 anni un’orazione per una causa di 3 pecore: mentre le orazioni fatte oggi a’ parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì, e ne son degne, nè chi le disse, pretese nè bramò nè curò ch’elle avessero maggior durata. (15. Sett. 1823.)[b]

Quel che si è detto della durevolezza, dicasi ancora della grandezza e magnificenza ec.

[Chiudi].

Il giovane innanzi la propria esperienza, per qualunque insegnamento udito o letto, di persone stimate da lui o no, amate o disamate, credute o non credute, ec. non si persuaderà mai efficacemente che il mondo non sia una bella cosa, nè deporrà il desiderio e la speranza ch’egli ha della vita e degli uomini e de’ piaceri sociali, nè l’opinione favorevolissima, e nel fondo del cuore, fermissima, della possibilità, anzi probabilità di esser felice pigliando parte alla vita, all’azione ec. Perchè? perchè quest’opinione, desiderio, speranza, non è capriccio ma natura, nè si estirpa dall’animo, come le opinioni o passioni accidentali, nè val tenerezza e pieghevolezza e docilitate d’età nè d’indole a render queste cose estirpabili. Altrimenti sarebbe estirpabile la natura stessa, la quale ha provveduto di speranza alla fanciullezza e alla gioventù, e agguagliato colla speranza il desiderio di quelle età. (15. Sett. 1823.).

Altrove ho rassomigliato il piacere che reca la lettura di Anacreonte (ed è nel principio di questi pensieri[a]

A pag. 30-1.

[Chiudi]) a quello d’un’aura odorifera ec. Aggiungo che siccome questa sensazione lascia gran desiderio e scontentezza, e si vorrebbe richiamarla e non si può; così la lettura di Anacreonte; la quale lascia desiderosissimi, ma rinnovando la lettura, come per perfezionare il piacere (ch’egli par veramente bisognoso d’esser perfezionato, anche più che ispirar desiderio d’esser continuato), niun piacere si prova, anzi non si vede nè che cosa l’abbia prodotto da principio, nè che ragion ve ne possa essere, nè in che cosa esso sia consistito; e più si cerca, più s’esamina, più s’approfonda, men si trova e si scopre, anzi si perde di vista non pur la causa, ma la qualità stessa del piacer provato, chè volendo rimembrarlo, la memoria si confonde; e in somma pensando e cercando, sempre più si diviene incapaci di provar piacere alcuno di quelle odi, e risentirne quell’effetto che se n’è sentito; ed esse sempre più divengono quasi stoppa e s’inaridiscono e istecchiscono fra le mani che le tastano e palpano per ispecularle. Di qui si raccolga quanto sia possibile il tradurre in qualsiasi lingua Anacreonte (e così l’imitarlo appostatamente, e non a caso nè per natura, senza cercarlo), quando il traduttore non potrebbe neanche rileggerlo per ben conoscer la qualità dell’effetto ch’egli avesse a produrre colla sua traduzione; e più che lo rileggesse e considerasse, meno intenderebbe detta qualità, e più la perderebbe di vista; perocchè lo studio di Anacreonte è non pure inutile per imitarlo o per meglio gustarlo o per ben comprendere e per definire la proprietà dell’effetto e de’ sentimenti ch’esso produce, ma è piuttosto dannoso che utile; nè la detta proprietà si può definire altrimenti che chiamandola indefinibile, ed esprimendola nel modo ch’ho fatto io con quella similitudine ec. Nè certo alla prima lettura si può essere il traduttore, o l’imitatore, o verun altro, ben avveduto e chiarito e informato del proprio ed intero carattere di Anacreonte; dico chiarito, e compresolo in modo ch’ei possa esattamente e data opera esprimerlo, nè pur significarlo distintamente a se stesso, nè concepirne e formarne idea chiara e precisa; chè queste qualità della idea sono contraddittorie e incompatibili colla natura di detto effetto e carattere. (16. Sett. 1823.).

Quante volte diss’io Allor pien di spavento, Costei per fermo nacque in paradiso . Petr. Canz. Chiare fresche e dolci acque . Καὶ γελάϊς δ' ἱμερόεν• τό μοι 'μὰν Καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόασεν Saffo ap. Longin. sezione 10. È proprio dell’impressione che fa la bellezza (e così la grazia e l’altre illecebre, ma la bellezza massimamente, perch’ella non ha bisogno di tempo per fare impressione, e come la causa esiste tutta in un tempo, così l’effetto è istantaneo) è proprio, dico, della impressione che fa la bellezza su quelli d’altro sesso che la veggono o l’ascoltano o l’avvicinano, lo spaventare; e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch’ella produce a prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; perchè neppure il possedimento carnale, che in quel punto non gli si offre affatto al pensiero, anzi questo n’è propriamente alieno; ma neppur questo possedimento gli parrebbe poter soddisfare e riempiere il desiderio ch’egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa (come profondamente, benchè in modo scherzevole osserva Aristofane nel Convito di Platone): ora ei non vede che questo possa mai essere. La forza del desiderio ch’ei concepisce in quel punto, l’atterrisce per ciò ch’ei si rappresenta subito tutte in un tratto, benchè confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà soffrire; perocchè il desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio, vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena perpetua.Ora a lui pare e che quel desiderio non sarà mai soddisfatto (o non ne vede il come, e gli par cosa troppo ardua e difficile e improbabile), e ch’esso non sarà mai per estinguersi da se medesimo, come quando proviamo un dolor vivissimo, ci pare a prima giunta ch’ei sarà perpetuo, e che ne sia impossibile la consolazione, e che niuna cosa mai lo consolerà. Tutto questo accade principalmente (ed oggimai unicamente) ai giovani prima d’entrar nel mondo, o sul loro primo ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son più suscettibili di vivezza d’impressione e di vivezza di desiderio ec., e sono inesperti del quanto presto e facilmente l’amore o si dilegui o si soddisfaccia, e del come; e che al mondo non v’ha cosa veramente amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa ch’ei brama da quegli oggetti ch’ei stima inaccessibili ec. ec.

Del resto, generalizzando, è da osservare che il primo concepimento d’un desiderio vivissimo di cosa difficile a ottenere, il qual concepimento non ha più luogo se non se ne’ fanciulli e nella prima gioventù, è sempre accompagnato da spavento, e ciò si spiega colle cagioni sopraddette. Massime se la cosa è o pare impossibile ad ottenere; l’uno e l’altro de’ quali casi è ben frequente nelle suddette età. Alle quali, per queste ragioni, i desiderii come son penosissimi nella lor durata e nel loro corso, così riescono spaventosi nella or nascita (e più quel d’Amore, ch’è più penoso, perchè più forte; massime negl’inesperti). E si dice per ischerzo, ma non senza ragione di verità, che bisogna soddisfare ai desiderii de’ fanciulli per non trovargli morti dietro alle porte. (16. Sett. 1823.).

Fermezza di carattere e facoltà di generalizzare formano quelli che si chiamano uomini superiori: essi sanno pensare e sanno operare: dice M. Say ne’ Cenni sugli uomini e la Società. Ma la fermezza di carattere è di due sorti, che nascono da principii affatto contrarii, l’una da forza d’animo, e da acutezza d’ingegno ec.; l’altra da stupidità di spirito, da incapacità di ragionare, di comprendere ec. e quindi di mutare opinione, da scarsezza d’ingegno, ottusità e tardità di mente ec. E il come, è facile a concepirlo ec. (16. Sett. 1823.).

Gli uomini straordinari, bene spesso e forse il più delle volte, non son tali per grandezza assoluta di niuna loro qualità, nè anche per grandezza o forza ec. di essa qualità considerata rispettivamente a quel ch’ella suol essere nel comune degli uomini; insomma non sono straordinarii perchè veruna lor qualità sia straordinaria (cioè non si trovi nel comune), nè straordinariamente grande o perfetta ec.; ma solo per lo squilibrio delle loro qualità, cioè perchè l’una o più d’una di esse, senza esser nè straordinaria, nè maggior ch’ella soglia, prepondera all’altre, e perciò risalta e dà negli occhi. Mentre molti uomini di qualità tutte grandi, (ed anche straordinarie), ma ben tra loro equilibrate, bilanciate e compensate, sicchè l’una non eccede l’altra, non sono stimati straordinarii, perchè l’una offusca lo splendore e nuoce alla vista dell’altra scambievolmente. E spesse volte lo stesso avere, benchè non tutte, però molte o parecchie qualità grandi, (ed anche straordinarie), producendo un certo equilibrio e contrappeso, e facendo che l’una di loro renda l’altra meno notabile, è cagione che l’uomo non paia straordinario. Ed all’opposto l’averne poche o una sola che sia o straordinariamente grande o straordinaria, producendo uno squilibrio e sbilancio, non solo non nuoce alla riputazione d’uomo straordinario, nè la rende minore, ma la produce e l’accresce. (16. Sett. 1823.).

Tragedie o drammi di lieto fine. — L’effetto loro totale, si è di lasciar gli affetti dell’uditore in pieno equilibrio; cioè di esser nullo. — Il fine dei drammi non è, e non dev’essere, d’insegnare a temere il delitto, cioè di far che gli uomini temano di peccare. Meglio sarebbe una predica dell’inferno o del purgatorio; e meglio ancora una lettura del codice penale, che si facesse dalla scena. Il loro scopo si è d’ispirare odio verso il delitto. Questo è ciò che le leggi non possono. Laddove l’ispirar timore è proprio uffizio di esse, ed esse sole il possono, o certo più e meglio d’ogni altra cosa, eccetto forse l’esempio vivo de’ gastighi, cioè l’effettiva esecuzione delle leggi penali. Ora la punizione del delitto non ispira odio. Anzi lo scema, perchè sottentra e con lui si mescola la compassione. Anzi lo distrugge, perchè la vendetta spegne tutti gli odi. Anzi produce un effetto a lui contrario, perchè la compassione è contraria all’odio; e spesso avviene che nel veder punito il delitto, questa superi ogni altro sentimento, e gli spenga, e resti sola; e spesso la pena, benchè giusta ed equa, par più grave del delitto; e spessissimo è odiosa, parte per la pietà, parte perchè alcuni per viltà d’animo e poca stima di se stessi, altri per cognizione dell’uomo, si sentono, più o meno, prossimamente o lontanamente, capaci di peccare; e niuno ama di esser punito, anzi tutti abborrono il gastigo in se stessi. — Il dramma di lieto fine coll’effetto di una sua parte distrugge quello dell’altra[a]

Veggasi la pag. 3122.

[Chiudi]. Voglio dire la compassione. (Dell’odio verso la colpa, ch’è pur distrutto dalla catastrofe, ho già detto). Il giusto ec. divenuto felice, per infelice che sia stato, non è più compatito. Ognuno quasi si contenterebbe di arrivare per la stessa strada alla stessa sorte. L’oppresso vendicato non è compatito. Ora egli è cosa stoltissima il travagliare in un dramma ec. ad eccitare un affetto che il dramma medesimo debba direttamente spegnere, e che, non a caso, ma per intenzione dell’autore e per natura dell’opera, finita la rappresentazione o la lettura, non debba lasciare alcun vestigio di se; un affetto che non debba esser durabile, che durando si opponga all’effetto voluto e cercato dall’autore e dalla qualità del dramma. E quando l’eccitar questo affetto, come la compassione per gl’immeritevolmente infelici, è il principale scopo che l’autore e il dramma si propongono (come ordinariamente accade), il farlo non durevole, il distruggerlo nel suddetto modo, è contraddizione ne’ termini: principale e non durevole, principale e da distruggersi appostatamente e volutamente col dramma stesso, principale e non risultante dal totale del dramma, principale e da non dover perseverare nè sino alla fine nè dopo la fine, e da non dover esser prodotto dal dramma considerato nell’intero; dovere dal dramma considerato nell’intero esser prodotto un effetto diverso, anzi contrario, a quello ch’ei si propone per iscopo principale. — La naturalezza[a] e la verisimiglianza è maggiore assai ne’ drammi di tristo che in quelli di lieto fine, perchè così va il mondo: il delitto e il vizio trionfa, i buoni sono oppressi, la felicità e l’infelicità sono ambedue di chi non le merita. — Ma nel mondo il felice per lo più ha nome di buono, e viceversa. Il dramma chiama la bontà e la malvagità col loro nome, e mostra il carattere e la condotta morale de’ felici e degl’infelici qual ella è veramente. Quindi la sua grande utilità, quindi l’odio e il disprezzo originato dal dramma, verso i malvagi benchè felici, e viceversa. Non dall’alterar la natura e la verità delle cose, facendo sfortunato il vizio e la virtù. E ben grande utilità morale, e che ben di rado si proccura e si ottiene, e basta ben a produr l’odio e l’indignazione, il far conoscere e recar sotto gli occhi le vere qualità morali e i veri meriti de’ felici e degl’infelici. E l’odio, il disprezzo, il vitupero, l’infamia, l’indignazione, la pietà, la stima, la lode sono non piccoli, e certo i soli, gastighi e compensi destinati in questo mondo al vizio e alla virtù. Non è poco il far che l’uno e l’altra gli ottengano, che l’uno sia punito, l’altra premiata com’ambedue possono esserlo, che la natura delle cose abbia luogo, che l’ordine stabilito alle cose umane e il decreto della natura sia effettuato. Il qual ordine e decreto non è altro che questo: sieno i malvagi felici ed infami, i buoni infelici e gloriosi o compatiti. Ordine spesso turbato, e decreto ben sovente trasgredito, non quanto alla felicità ed infelicità, ma quanto al biasimo e alla lode, all’odio ed all’amore o compassione. — L’uditore vedendo il vizio e il delitto rappresentato con vivi e odiosi colori nel dramma, desidera fortemente di vederlo punito. E per lo contrario vedendo la virtù e il merito oppressi e infelici, e rendutigli con bella e viva pittura ed artifizio amabili e cari dal poeta, concepisce sensibile desiderio di vederli ristorati e premiati. Or se nè l’uno nè l’altro fa il dramma stesso[b], cioè lascia il vizio impunito anzi premiato, e la virtù non premiata anzi punita e sfortunata; ne seguono due bellissimi effetti, l’uno morale e l’altro poetico. Il primo si è che l’uditore, appunto per lo sfortunato esito della virtù e il contrario del vizio, che se gli è rappresentato nel dramma, si crede obbligato verso se stesso a cangiare quanto è in lui le sorti di que’ malvagi e di que’ virtuosi, punendo gli uni col maggior possibile odio ed ira, e gli altri premiando col maggior affetto di amore, di compassione e di lode. E con questa disposizione tutta di abborrimento e detestazione verso i malvagi e di tenerezza e pietà verso i buoni, egli parte dallo spettacolo. La qual disposizione quanto sia morale e buona e desiderabile che si desti, chi nol vede? E questo è veramente l’unico modo di far che l’uditore parta appassionato per la virtù, e passionatamente nemico del vizio; l’unico modo di ridurre a passione l’amor dell’una e l’odio dell’altro, cosa difficilissima a conseguirsi oggidì in chicchessia, e stata sempre difficile ad ottenersi ne’ cuori volgari e plebei della moltitudine; ma cosa dall’altra parte così utile che più non può dirsi, perchè nè quell’amore nè quell’odio saranno nè furono mai efficaci nell’uomo essendo pura ragione, e s’ei non si convertano in passione, quali furono non di rado anticamente. L’effetto poetico si è che un dramma così formato lascia nel cuore degli uditori un affetto vivo, gli fa partire coll’animo agitato e commosso, dico agitato e commosso ancora, non prima commosso e poi racchetato, prima acceso e poi spento a furia d’acqua fredda, come fa il dramma di lieto fine; insomma produce un effetto grande e forte, un’impressione e una passion viva, nè la produce soltanto ma la lascia, il che non fa il dramma di lieto fine; e l’effetto è durevole e saldo. Or che altro si richiede al totale di una poesia, poeticamente parlando, che produrre e lasciare un sentimento forte e durevole? quando anche ei non fosse d’altronde utile e morale, come nel nostro caso. Certo ben pochissime sono quelle poesie qualunque, che ottengano il detto scopo; e quelle qualunque pochissime che l’ottengono, non sono e non possono esser altro che grandi, insigni, famose e vere poesie. Or fate che il dramma dopo avervi mosso all’odio verso il malvagio, ve lo dia, per così dir nelle mani, legato, punito, giustiziato. Voi partite dallo spettacolo col cuore in pienissima calma. E come no? qual vostro affetto resta superiore agli altri? non rimangon tutti in pienissimo equilibrio? e una poesia che lascia gli affetti de’ lettori o uditori in pienissimo equilibrio, si chiama poesia? produce un effetto poetico? che altro vuol dire essere in pieno equilibrio, se non esser quieti, e senza tempesta nè commozione alcuna? e qual altro è il proprio uffizio e scopo della poesia se non il commuovere, così o così, ma sempre commuover gli affetti? E quanto all’equilibrio, vedete: da una parte l’odio e l’ira che avevate concepita, dall’altra la vendetta che placa e sfoga l’uno e l’altra; di qua il desiderio, di là l’oggetto desiderato, cioè il castigo del malvagio. Le partite sono uguali; l’affare è finito, il negozio è terminato, gl’interessi pareggiati: voi chiudete il vostro libro de’ conti e non ci pensate più. Infatti l’uditore si parte dal dramma di lieto fine non altrimenti che chi abbia ricevuto un’offesa e fattone piena e tranquilla vendetta, o ne sia stato pienamente soddisfatto, il quale torna a casa e si corica colla stessa placidezza e coll’animo così riposato, come se non gli fosse stata fatta alcuna offesa, e di questa non serba pensiero alcuno. Bello effetto di un dramma, di una rappresentazione, di una poesia; lasciare di se tal vestigio negli animi degli spettatori o uditori o lettori, come s’e’ non l’avessero nè veduta nè udita nè letta. Meglio varrebbe essere stato a uno spettacolo di forze, di giuochi, equestre, e che so io, i quali pur lasciano nell’animo alcuna orma o di maraviglia o di diletto o d’altro. Ma in verità in quella parte dell’anima in cui il dramma e la poesia deve agire, quivi il dramma di lieto fine non lascia alcun segno. Se lascia alcuna traccia in altra parte dell’anima, questo effetto o è alieno dalla poesia, o l’è secondario, o estrinseco, accidentale, di circostanza, parziale, cioè non prodotto dal totale della composizione, forse proprio della decorazione, dell’azione ec. dello spettacolo più che del dramma, non poetico ec. Or quanto all’effetto del dramma di lieto fine poeticamente considerato, esso è tale qual si è mostrato, anzi non è, perch’esso è nullo, e per ciò che spetta al totale, il dramma di lieto fine non produce, poeticamente, alcun effetto. Quanto all’effetto morale, che odio, che ira verso il vizio può rimanere in chi l’ha visto totalmente abbattuto, vinto, umiliato e punito? Quella punizione che l’uditore gli avrebbe dato nel cuor suo, l’ha preoccupata il poeta: questi ha fatto il tutto; l’uditore non ha a far più nulla, e nulla fa. Quella passione ch’egli avrebbe concepita, l’ha sfogata il poeta da se: al poeta dunque rimane. L’ira l’odio che l’uditore avrebbe portato seco, il poeta l’ha soddisfatto. Odio ed ira e qualunque passione soddisfatta, non resta. (Non resta, dico, quanto all’atto, di cui solo è padrone il poeta, e non dell’abito). Dunque l’uditore parte dal dramma senza nè odio nè ira nè altra passione alcuna contro i malvagi, il vizio, il delitto. Tutto questo discorso circa la parte che spetta nel dramma ai malvagi, si faccia altresì circa quella che spetta ai buoni. — Chiuderò queste osservazioni con un esempio di fatto, narratomi da chi si trovò presente. Si rappresentò in Bologna pochi anni fa l’Agamennone dell’Alfieri. Destò vivissimo interesse negli uditori, e fra l’altro, tanto odio verso Egisto, che quando Clitennestra esce dalla stanza del marito col pugnale insanguinato, e trova Egisto, la platea gridava furiosamente all’attrice che l’ammazzasse. Ma come in quella tragedia Egisto riesce fortunato e gl’innocenti restano oppressi, quivi si vide quello che possano le vere tragedie negli animi degli uditori, quando elle sono di tristo fine. Perchè promettendo gli attori che la sera vegnente avrebbero rappresentato l’Oreste pur d’Alfieri, ove avrebbero veduto la morte di Egisto, la gente uscì dal teatro fremendo perchè il delitto fosse rimaso ancora impunito, e dicendo che per qualunque prezzo erano risoluti l’indomani di trovarsi a veder la pena di questo scellerato. E l’altro dì prima di sera il teatro era già pieno in modo che più non ve ne capeva. O moralmente o poeticamente che si consideri un tanto odio verso un ribaldo di 3000 anni addietro, potuto ispirare e lasciare da quella tragedia, ed una passione così calda, un effetto così vivo, potuto da lei produrre e lasciare; per l’una e per l’altra parte si può vedere se le tragedie di lieto fine sieno poco o utili o dilettevoli. E paragonando gli effetti di questa con quelli dell’Oreste, che certo furono molto minori e men vivi (sebbene anche questa seconda tragedia sia bellissima), si sarà potuto notare da qualunque mediocre osservatore se il dramma di tristo, o quello di lieto fine, sia da preferirsi, e qual de’ due abbia maggior forza negli animi, e sia d’effetto più teatrale e poetico, e più morale ed utile. — Si potrà applicare tutto il passato discorso, colle debite modificazioni, a quei drammi ne’ quali l’infelicità de’ buoni o degli immeritevoli, non vien da’ cattivi, nè da altrui vizi o colpe, ma dal fato o da circostanze, quali sono l’Edipo re di Sofocle, la Sofonisba d’Alfieri, e molte tragedie di varie età e lingue, e molti drammi sentimentali moderni, appresso varie nazioni. E similmente a quei drammi in cui l’infelicità viene da colpa, ma o involontaria o compassionevole ec. degli stessi infelici, come appunto si può dire che sia l’Edipo re, la Fedra, e molti drammi, massimamente moderni, o tragedie ec. E dalle stesse predette osservazioni si potrà raccogliere se sia meglio che lo scioglimento di tali drammi sia felice o infelice, che la sorte de’ protagonisti si muti o si conservi la stessa, che di felice divenga infelice, o che per lo contrario, ec. (16-18. Settembre. 1823.).

Relatar spagnuolo, cioè riferire, raccontare, da relatus di refero. Relater francese antico, vale il medesimo. (18. Sett. 1823.).

I poeti latini (e proporzionatamente gli altri scrittori secondo che lor conveniva) usarono la mitologia greca, non per lo aver preso da’ greci la loro letteratura e poesia, ma perchè, o da’ greci o d’altronde ch’e’ ricevessero la loro religione, essa mitologia alla religion latina apparteneva niente meno che alla greca, e nel Lazio non meno che in Grecia era cosa popolare e creduta dal popolo. Laonde se questa o quella favola adoperata, accennata ec. dagli scrittori o poeti latini, fu tolta da’ greci, o ch’ella fosse stata primieramente e di netto inventata da qualche greco poeta, o che in Grecia e non nel Lazio ella fosse sparsa ec., non perciò segue che la mitologia dagli scrittori latini usata, non fosse, com’ella fu, altrettanto latina che greca. Perocchè il fabbricare, per dir così, sul fondamento delle opinioni popolari, fu sempre lecito ai poeti, anzi fu loro sempre prescritto. Laonde se i poeti latini fabbricarono su tali opinioni popolari nazionali, o dell’altrui fabbriche sì servirono, o rami stranieri innestarono sul tronco domestico, niuno di ciò li dee riprendere. Nè perciò essi vollero introdurre un nuovo genere di opinioni popolari nella nazione e farne materia di lor poesia; nè supposero falsamente un genere un sistema di opinioni popolari che nella nazione non esisteva, ma su di quel ch’esisteva in effetto, innestarono, fabbricarono, lavorarono. Similmente i greci, da qualunque luogo pigliassero la loro mitologia, certo è che di là presero eziandio la loro religion popolare, e che tra’ greci il sistema greco religioso e mitologico, quanto alla sostanza, alla natura, alla principal parte ed al generale, non fu prima de’ poeti che del popolo. E se i letterati greci si giovarono, come si dice, delle letterature o dottrine ec. egizie, indiane o d’altre genti, non adottarono perciò nelle loro finzioni ch’avessero ad esser popolari, e nazionali ec. le mitologie d’esse nazioni. L’aver noi dunque ereditato la letteratura greca e latina, l’esser la nostra letteratura modellata su di quella, anzi pure una continuazione, per così dire, di quella, non vale perch’ella possa ragionevolmente usare la mitologia greca nè latina al modo che quegli antichi l’adoperavano. Giacchè non abbiamo già noi colla letteratura ereditato eziandio la religione greca e latina, nè i latini, come ho detto, usarono la mitologia greca perciò ch’essi avevano adottato la greca letteratura; nè se la letteratura ebbero i greci dalla Fenicia o donde si voglia, perciò fu che i greci poeti e scrittori si valsero della mitologia di quella tal gente; ma fu per le ragioni dette di sopra, e che nel nostro caso non hanno alcun luogo. Tutt’altre sono le nostre opinioni popolari nazionali e moderne da quelle de’ greci e de’ latini. E gli scrittori italiani o moderni che usano le favole antiche alla maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione. L’imitare non è copiare, nè ragionevolmente s’imita se non quando l’imitazione è adattata e conformata alle circostanze del luogo, del tempo, delle persone ec. in cui e fra cui si trova l’imitatore, e per li quali imita, e a’ quali è destinata e indirizzata l’imitazione. Questa può essere imitazione nobile, degna di un uomo, e di un alto spirito e ingegno, degna di una letteratura, degna di esser presentata a una nazione. E una letteratura fondata comunque su tale imitazione può esser nazionale e contemporanea e meritare il nome di letteratura. Altrimenti l’imitazione è da scimmie, e una letteratura fondata su di essa è indegna di questo nome, sì per la troppa viltà, essendo letteratura da scimmie, sì perchè una letteratura che tra’ suoi è forestiera, e a’ suoi tempi antica, non può esser letteratura per se, ma al più solo una parte d’altra letteratura o una copia da potersi guardare, se fosse però perfetta (ch’è sempre l’opposto) collo stesso interesse con cui si guarda una copia d’un quadro antico ec. e niente più. Veramente pare che i nostri poeti usando le antiche favole (come già i più antichi italiani e forestieri scrivendo in latino) affettino di non essere italiani ma forestieri, non moderni ma antichi, e se ne pregino, e che questo sia il debito della nostra poesia e letteratura, non esser nè moderna nè nostra ma antica ed altrui. Affettazione e finzione barbara, ripugnante alla ragione, e colla qual macchia una poesia non è vera poesia, una letteratura non è vera letteratura. Come non è nè letteratura nè lingua nostra quella letteratura e quella lingua che oggidì usano i nostri pedanti affettando e simulando di esser antichi italiani, e dissimulando al possibile di essere italiani moderni, di aver qualche idea che gl’italiani antichi non avessero perchè non poterono, (così forse fece Cic. verso Catone antico ec. o Virgilio verso Ennio ec.?) ec. ec. Onde segue che noi oggi non abbiamo letteratura nè lingua, perchè questa non essendo moderna, benchè italiana, non è nostra, ma d’altri italiani, e perchè non si dà nè si diede mai nè può darsi letteratura che a’ suoi tempi non sia moderna; e dandosi, non è letteratura.

Quel ch’io dico dell’uso delle favole antiche fatto alla maniera antica (cioè mostrandone persuasione e presentandole in qualunque modo a’ lettori o uditori come e’ ne fossero persuasi, chè altrimenti il prevalersi della mitologia non ha peccato alcuno), fatto dico da’ poeti cristiani antichi o moderni (massime italiani) scrivendo a’ Cristiani, si dee dire dell’eccessivo uso, anzi abuso intollerabile della mitologia che fanno e fecero i pittori e scultori ec. cristiani, non d’Italia solo, ma d’ogni nazione, e niente meno i forestieri che gl’italiani. Se sta ad essi a scegliere il soggetto, potete esser sicuro, massime degli scultori, ch’e’ non escirà della mitologia. Ed anche grandissima parte de’ soggetti eseguiti per commissione, essendo mitologici, segue che il più delle pitture e massimamente delle sculture che si veggono in Europa (fuor delle Chiese), sieno mitologiche. Par che tutto lo scopo che si propone uno scultore (siccome un poeta) sia che la sua opera paia una statua antica (come un poema antico), dovendo solamente cercare ch’ella sia tanto bella quanto un’antica, o più bella ancora, quantunque, se si vuole, nel genere del bello antico. (19. Sett. 1823.).

Ces hommes qui existent ainsi (les Chartreux de Rome) sont pourtant les mêmes à qui la guerre et toute son activité suffiraient à peine s’ils s’y étaient accoutumés. C’est un sujet inépuisable de réflexion que les différentes combinaisons de la destinée humaine sur la terre. Il se passe dans l’intérieur de l’ame mille accidents, il se forme mille habitudes qui font de chaque individu un monde et son histoire. Connaître un autre parfaitement serait l’étude d’une vie entière; qu’est-ce donc qu’on entend par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais les comprendre, Dieu seul le fait. Corinne, livre 10. chap. 1. t. 2. p. 114. Ciò vuol dire che l’uomo è sommamente e infinitamente o indeterminatamente conformabile, e non è possibile conoscer mai tutti i modi e tutte le differenze in cui lo spirito degl’individui, secondo la diversità delle circostanze (ch’è infinita o indeterminabile), si conforma o si può conformare; per la stessa ragione per cui non si possono conoscere tutte le circostanze possibili ad aver luogo, che possono influire sullo spirito degl’individui, nè tutte quelle che hanno effettivamente influito su tale o tale individuo determinato, nè le loro combinazioni scambievoli, nè le loro minute diversità che producono non piccole differenze di carattere ec. La maggior cognizione adunque che si possa avere dell’uomo è quella di sapere perfettamente e ragionatamente che gli uomini non si possono mai ben conoscere, perchè l’uomo è indefinitamente variabile negl’individui, e l’individuo stesso per se. E il più certo segno di tal cognizione si è quello di non maravigliarsi mai un punto, e di esser bene e ragionatamente e veramente disposto a non maravigliarsi di qualunque strana e inaudita e nuova indole, carattere, qualità, facoltà, azione di qualunque individuo umano noto o ignoto ci possa venire agli orecchi o agli occhi, ci accada o possa accader d’intendere o di vedere, in bene o in male. Chi è veramente giunto a questa disposizione, e l’ha in se ben perfetta, radicata e costante, ed efficace, può dire di conoscer l’uomo il più ch’è possibile all’uomo. E più infatti non può se non Dio, come ben dice la Staël, perchè Dio solo può conoscere e conosce tutti i possibili. Or gli uomini non si possono perfettamente conoscere, chi non conosca poco men che tutti i possibili, dico, i possibili di questa natura e di questa terra. (19. Sett. 1823.).

Alla p. 2709. Quasi tutti gli antichi che scrissero di politica (tranne Cic. de rep. e de legibus ), la pigliarono puramente o principalmente dalla parte speculativa, la vollero ridurre a sistema teorico e di ragione, e disegnare una repubblica di lor fattura; e questo si fu lo scopo, l’intenzione e il soggetto de’ loro libri. Ond’è che quantunque i moderni, primieramente abbiano fatto della politica il loro principale studio, secondariamente, come privati che erano e sono la più parte, e quindi inesperti del governo, sieno stati obbligati a tenersi in ciò alla speculazione più che alla pratica, e per la medesima cagione abbiano immaginato, sognato, delirato e spropositato nella politica più che in altra scienza; nondimeno io tengo per fermo che gli antichi, anzi i soli greci, avessero più Utopie[a]

O sistemi di repubblica o di legislazione, praticabili o non praticabili, ma certo non praticati, e solo immaginati e composti da’ respettivi autori. V. Aristot. Polit. l. 2. p. 74. 171. 179. fine. 116. l. 4. p. 289-92. p. 358. fine.

[Chiudi] che tutti i moderni insieme non hanno. Utopia è la repubblica di Platone, sì quella disegnata nella Politia, sì l’altra ne’ libri delle Leggi, diversa da quella, come osserva Aristotele nel 2.do de’ Politici, p. 106-16. Utopie furono quelle di Filea Calcedonio ( Aristot. Politic. l. 2. ed. Victorii, Florent. p. 117-26.), e d’Ippodamo Milesio (ib. p. 127-35.), Utopia è quella d’Aristotele (v. il Fabricio)[b]. E senza fallo Utopie furono ancora i libri politici e peri nomon o nomoi di Teofrasto, di Cleante e d’altri tali filosofi, mentovati dal Laerzio, e i perduti libri pur politici e peri nomon dello stesso Aristotele, e molti altri siffatti[c]. Aristotele spianta le repubbliche degli altri, ma nè più nè meno che in filosofia, si crede in obbligo di sostituire, e ci dà la sua repubblica e il suo sistema[d]. E così gli altri. Ed è pur notabile che gli antichi, e nominatamente i greci, o avevano, o avevano avuto in mano gli affari pubblici, o potevano averli, o certo, ancorchè stati sempre privati, erano pur parte delle rispettive repubbliche, e contribuivano insieme col popolo al governo. E generalmente parlando, nelle antiche repubbliche, tutte libere, i privati, ancorchè dediti solo a filosofare e studiare, erano più al caso, se non altro per li continui discorsi giornalieri, per lo essersi trovati assai spesso alle concioni, perchè i negozi pubblici passavano tutti e succedevano sotto gli occhi di tutti, e le cause degli avvenimenti erano manifeste, e nulla v’avea di segreto; erano dico al caso d’intendersi veramente di politica, e di poterne ragionare per pratica, molto più che i moderni privati non sono, i quali si trovano e si son trovati, per lo più, in circostanze tutte opposte, e nemmeno fanno effettivamente parte della loro repubblica e nazione, nè d’altra veruna, se non di nome. E nondimeno essi seguono nella politica l’immaginazione e la speculazione molto manco, e l’esperienza e i fatti molto più che gli antichi non fecero, e vaneggiano e inventano ed errano molto meno. (19. Sett. 1823.).

Μὴ μετέχοντας δὲ τῆς πολιτείας, πῶς οἷόν τε φιλικῶς ἔχειν πρὸς τὴν πολιτείαν ; Aristot. Polit. l. 2. ed. Victor. Flor. 1576. ap. Juntas, p. 131. (19. Sett. 1823.).

Alla p. 2916. Questa uniformità di stile in Europa viene ancora da questo che tutte le moderne letterature son venute in principio dalla Francia (anche quel che v’ha nella letteratura e nello stile italiano e spagnuolo di moderno); laonde e gli stili nelle diverse lingue d’Europa sono conformi tra loro di genere, perchè tutti derivati da una stessa fonte; e poca varietà hanno ciascun d’essi stili verso se medesimo, perchè tutti derivati originariamente da uno stile che non ne ha veruna, e molti modificantisi tuttavia su di questo.

Del rimanente, egli è tanto certo che l’arte dello stile e del dire è propria esclusivamente degli antichi, quanto che l’arte del pensare è propria esclusivamente de’ moderni. Gli antichi non solo facevano di quell’arte uno studio infinitamente maggiore che noi non facciamo; non solo ne possedevano e conoscevano mille parti, mille mezzi, mille secreti che noi neppur sospettiamo, e che appena e a gran fatica possiamo intendere quando e’ gli spiegano e ne parlano exprofesso (come Cicerone Quintiliano ec.), non solo in somma la detta arte era senza paragone più ampia, stesa, ricca, varia, distinta, accurata, specificata, particolarizzata appo gli antichi che fra i moderni, ma essa era quasi l’unico, e senza quasi il principale studio degli antichi che pretendevano e aspiravano particolarmente al nome di scrittori, e massime di letterati. Si osservino sottilmente le opere d’Isocrate, di Senofonte e di tali altri cento. Tutte parole in sostanza senza più. Gli antichi letterati, se ben guardiamo, non si proponevano in conchiusione altro, che di dir bene, correttamente, cultamente e artifiziosamente, quello che tutti già sapevano e pensavano o facilissimamente avrebbero potuto e saputo pensare da se, ma pochi sapevano in quel modo significare. E non per altro in verità divenivano famosi che per questo (ancorchè forse nè gli altri nè essi se ne avvedessero, o avessero avuta questa intenzione espressa e distinta e a se medesimi manifesta), quando ottenevano il detto effetto. E non parlo già qui de’ sofisti, i quali a differenza degli altri, avevano e professavano apertamente la detta intenzione e la facevano vedere; e questa si era l’unica diversità reale che passasse tra’ più antichi sofisti e i classici, e il genere di scrittura di questi e di quelli. Gli uni affettavano di dir bene, e mostravano di affettarlo, gli altri dicevano bene per arte, ma non mostravano di proccurarlo e ricercarlo, come però facevano. Quanto allo stile, questi e quelli differivano notabilmente. Quanto a’ concetti, alle sentenze, all’invenzione, alla condotta, all’ordine ec. non v’è divario alcuno. Si considerino attentamente i due predetti (nemici ambedue de’ Sofisti), e tutti quelli che fra gli antichi cercarono e ottennero fama di bene scrivere[a]

Aristotele p. e. non la cercò, nè Teofrasto ec.

[Chiudi]; e si vedrà che ne’ loro concetti ec. tutto è sofistico. Nè anche bisognerà molta attenzione ad avvedersene. In Senofonte, particolare odiator de’ sofisti, tanto perseguitati dal suo maestro, (v. la fine del Cinegetico) e a lui per se stesso abbominevoli; in Senofonte così candido e semplice e naturale che par tutto l’opposto possibile del sofistico, in Senofonte il sofistico de’ concetti dà subito nell’occhio, tanto ch’io lo sentii notare con maraviglia a persona niente intendente nè di greco nè di letteratura antica, che avea non più che gittato l’occhio su certa traduzione di quell’autore. E Socrate stesso, l’amico del vero, il bello e casto parlatore, l’odiator de’ calamistri e de’ fuchi e d’ogni ornamento ascitizio e d’ogni affettazione, che altro era ne’ suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi? E per quanto poco gli antichi generalmente pensassero, non è possibile a credere che i pensieri e le osservazioni di Socrate, di Senofonte, di Isocrate, di Plutarco (tanto più recente) e simili, non fossero al tempo di costoro medesimi, comuni e triviali e volgari (sieno politici, filosofici, morali o qualunque) o eccedessero la comune capacità di pensare, di trovare, di concepire, di osservare. Ma pochi sapevano esprimerli a quel modo, come ho detto di sopra.

È cosa osservata che le antiche opere classiche, non solo perdono moltissimo, tradotte che sieno, ma non vaglion nulla, non paiono avere sostanza alcuna, non vi si trova pregio che l’abbia potute fare pur mediocremente stimabili, restano come stoppa e cenere. Il che non solo non accade alle opere classiche moderne, ma molte di esse nulla perdono per la traduzione, e in qualunque lingua si voglia, sono sempre le medesime, e tanto vagliono quanto nella originale. I pensieri di Cicerone non sono certo così comuni, come quelli de’ sopraddetti ec., nè furono de’ più comuni al suo tempo, massime tra’ romani. Nondimanco io peno a credere ch’altri possa tollerar di leggere sino al fine (o far ciò senza noia) qualunque è più concettosa opera di Cicerone, tradotta in qual si sia lingua. Che vuol dir ciò, che vuol dir questa differenza di condizione tra l’antiche e le moderne opere, tradotte ch’elle sieno, se non che negli antichi, anche sommi, scrittori, o tutto o il più son parole e stile, tolte o cangiate le quali cose, non resta quasi nulla, e le loro sentenze scompagnate dal loro modo di significarle paiono le più ordinarie, le più trite, le più popolari cose del mondo. Veramente i pensieri degli antichi, più o meno, son persone del volgo: detratta la veste, se le loro forme non appaiono rozze, certo paiono ordinarie, e di quelle che per tutto occorrono, senza nulla di peregrino, nulla che inviti l’occhio a contemplarle, anzi neppure a guardarle, nulla insomma nè di singolare nè di pregevole. Nelle opere moderne all’opposto tutto è pensieri e persona; stile nulla; vesti così dozzinali che più non potrebbero essere. E perciò appunto è necessario che le opere classiche antiche tradotte perdano tutto o quasi tutto il loro pregio cioè quello dello stile, perchè i moderni non hanno di gran lunga l’arte dello stile che gli antichi ebbero nè possono nelle loro tradizioni conservare ad esse opere il detto pregio ec. Ma non conservando lor questo, niuno altro gliene posson lasciare che vaglia la pena della lettura, e che distingua gran fatto esse opere dalle più volgari e mediocri, massime le morali, filosofiche ec. So che la volgarità de’ pensieri negli antichi, da molti è considerata come relativa a noi, che sappiam tanto di più; ma io dico che si fa torto all’antichità, allo spirito e alla ragione umana universale, se non si crede che questa volgarità, almen quanto a grandissima parte d’essi pensieri, non sia assoluta, o non fosse volgarità anche al tempo degli scrittori che gli esposero. (19. Sett. 1823.).

Sonito da sono as, continuativo o frequentativo (se però non è dal nome sonitus), ma d’incerta fede. Forcell. (20. Sett. 1823.).

Contentus a um (onde contentare ital. contenter franc. ec.) non è in origine che un participio bello e buono. Eppure appoco appoco ei divenne un aggettivo semplicissimo, e tale egli è unicamente nell’italiano, nel francese nello spagnuolo. (20. Sett. 1823.). Così falsus ec. di cui veggasi la p. 3488. V. p. 3620.

Frissont, frissonner, — brividoφρίσσω. (20. Sett. 1823.).

Alla p. 3156. Si potrebbe aggiungere il nostro Monti, nel quale tutto è immaginazione, e nulla parte ha il sentimento, come n’ha grandissima nel più delle poesie di Lord Byron (se però quel di Lord Byron è ben significato col nome di sentimento). Certo è che il Monti benchè d’immaginazione senz’alcun confronto inferiore a quella di lord Byron, e benchè non abbia di poetico che l’immaginazione (sì nelle cose sì nello stile), si lascia leggere non senza piacere, nè senza effetto poetico, e l’immaginoso in lui comparisce molto più spontaneo e men comandato che in Lord Byron. Ed è forse al contrario, perchè Lord Byron è veramente un uomo di caldissima fantasia naturale, e Monti, qualch’egli sia per se stesso, nelle sue composizioni non è che un buono e valente traduttore di Omero, Virgilio, Orazio, Ovidio ed altri poeti antichi, e imitatore, anzi spesso copista, di Dante, Ariosto e degli altri nostri classici. Sicchè Lord Byron tira le immagini dal suo fondo, e Monti dall’altrui. E se nell’uno ha dell’impoetico lo sforzo che [nel] suo poetare apparisce, nell’altro è veramente impoetico l’imitare e il copiare che però nella sua stessa poesia intrinsecamente non si lascia scorgere. Ond’è che le poesie di Lord Byron sieno meno poetiche, considerate in se stesse, che quelle di Monti. Mentre però questi è infinitamente meno poeta di quello. E si conchiude che le poesie dell’uno sieno impoetiche, e che l’altro non sia poeta. E l’effetto poetico delle poesie di Monti spetta più agli antichi che a lui, ed è piuttosto come di poesia e d’immaginazione antica, che di moderna. Nel sentimento poi la vena del Monti è al tutto secca, e provandocisi, il che egli fa ben di rado, non ci riesce punto, come nel Bardo. (20. Sett. 1823.).

Il poeta dee mostrar di avere un fine più serio che quello di destar delle immagini e di far delle descrizioni. E quando pur questo sia il suo intento principale, ei deve cercarlo in modo come s’e’ non se ne curasse, e far vista di non cercarlo, ma di mirare a cose più gravi; ma descrivere fra tanto, e introdurre nel suo poema le immagini, come cose a lui poco importanti che gli scorrano naturalmente dalla penna; e, per dir così, descrivere e introdurre immagini, con gravità, con serietà, senz’alcuna dimostrazione di compiacenza e di studio apposito, e di pensarci e badarci, nè di voler che il lettore ci si fermi. Così fanno Omero e Virgilio e Dante, i quali pienissimi di vivissime immagini e descrizioni, non mostrano pur d’accorgersene, ma fanno vista di avere un fine molto più serio che stia loro unicamente a cuore, ed al qual solo festinent continuamente, cioè il racconto dell’azioni e l’evento o successo di esse. Al contrario fa Ovidio, il quale non dissimula, non che nasconda; ma dimostra e, per dir così, confessa quello che è; cioè a dir ch’ei non ha maggiore intento nè più grave, anzi a null’altro mira, che descrivere, ed eccitare e seminare immagini e pitturine, e figurare, e rappresentare continuamente. (20. Sett. 1823.).

Io notava un vecchio ributtantemente egoista, compiacersi di parlare di certi suoi piccolissimi sacrifizi e sofferenze volontarie (vere o false ch’elle fossero, e volontarie veramente o no), e farlo con una certa quasi verecondia, che ben dimostrava, massime a chi conoscesse il carattere della persona, lui essere persuaso di fare e sostener cose eroiche, e quei sacrifizi e patimenti dimostrassero in lui una gran superiorità d’animo, e rinunzia di se stesso e del suo amor proprio. Egli aveva ben caro che così paresse agli altri, e a questo fine ne parlava, ma dava bene ad intendere che tale si era infatti la sua propria opinione. Tanto poteva in un animo il più radicato nel più schietto e completo egoismo, intollerante d’ogni menomo incomodo, e capace di sacrificar chi e che che sia ad una sua menoma comodità; tanto poteva, dico, in un animo qual esso era infatti, e di più totalmente inerte, solitario, e segregato affatto dalla società, il desiderio di parere sì agli occhi altrui, sì ancora a’ suoi propri, capace di grandi sacrifizi, superiore all’amor proprio, il contrario di egoista, ed insomma eroe. E tanto è vero che non si trova quasi uomo così impudentemente e perfettamente egoista nel fatto, che non desideri grandemente di comparire almeno a se stesso, e non si persuada effettivamente, e non si compiaccia sommamente dell’opinione di essere un eroe. Perocchè a tutti è grato il fare stima di se, e si può esser certi che tutti, o in un modo o nell’altro, si stimano, e grandemente, e così continuamente come e’ si amano, che vuol dir tuttafiata, senza intervallo alcuno, benchè la stima di se stesso (come anche l’amore, secondo che altrove s’è dimostrato) abbia in un medesimo individuo ora il più ora il manco, secondo diverse circostanze e cagioni. Del resto puoi vedere la pag. 124. 3108-9. e 3167-9. Questo che io dico dei vecchi egoisti si può applicare ai fanciulli, egoisti estremi, ignari ancora dell’eroismo, perchè niuno gliene ha parlato, e nondimeno vaghi di molte piccole glorie, come di star male o di farlo credere, perchè si parli di loro nella famiglia, e per aver qualche somiglianza cogli adulti, alla quale aspirano generalmente e continuamente in mille cose, solo per vanità o vogliamo dire ambizione ec. V. l’Alfieri di sè che facea gli esercizi militari da piccolo. (20. Sett. vigilia della Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.).

Ne’ tragici greci (così negli altri poeti o scrittori antichi) non s’incontrano quelle minutezze, quella particolare e distinta descrizione e sviluppo delle passioni e de’ caratteri che è propria de’ drammi (e così degli altri poemi e componimenti) moderni, non solo perchè gli antichi erano molto inferiori a’ moderni nella cognizione del cuore umano, il che a tutti è noto, ma perchè gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio, nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria degli antichi l’esattezza e la minutezza quanto ella è propria e caratteristica de’ moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate altrove.

Oltre di ciò i moderni ne’ drammi vogliono interessare col mettere i lettori o uditori in relazione coi personaggi di quelli, col far che i lettori ravvisino e contemplino se stessi, il proprio cuore, i propri affetti, i proprii pensieri, le proprie sventure, i proprii casi, le proprie circostanze, i proprii sentimenti, ne’ personaggi del dramma, e nel loro cuore, affetti, casi, ec. quasi in un fedelissimo specchio. Si può esser certi che l’intenzione de’ greci tragici, massime de’ più antichi, fu tutt’altra, e in certo senso contraria. Questo effetto era troppo debole, molle, intimo, recondito, sottile, perchè o i poeti antichissimi fossero capaci di proporselo, o i loro uditori di provarlo, o provato, di compiacersene. Secondo la natura de’ popoli e de’ tempi meno civili, gli spettatori cercavano e i poeti si proponevano nel dramma un effetto molto più forte e gagliardo ed éclatant, delle sensazioni molto più fiere, più energiche, più prononcées; delle impressioni molto più grandi; ed al tempo stesso meno interiori e spirituali, più materiali ed estrinseche. I tragici greci cercarono lo straordinario e il maraviglioso delle sventure e delle passioni, appresso a poco come fa oggi Lord Byron (con molta maggior cognizione però dell’une e dell’altre); tutto l’opposto di quel che si richiedeva per metterle in relazione, in conformità, e d’intelligenza, con quelle degli uditori. Sventure e casi orribili e singolari, delitti atroci, caratteri unici, passioni contro natura, furono i soggetti favoriti de’ tragici greci. Tale per certo si fu l’intenzion loro, sebbene la scelta l’invenzione l’immaginazione non sempre corrispondesse pienamente all’intento, e talor più talor meno, in chi più in chi meno. Ma generalmente parlando, e massime, torno a dire, i più antichi tragici greci, cercarono o amarono di preferenza il sovrumano de’ vizi e delle virtù, delle colpe e delle belle o valorose azioni, de’ casi, delle fortune: al contrario appunto de’ moderni tragici che cercano in tutto questo il più umano che possono. Quindi coloro si rivolsero per lo più al favoloso, quindi il corrispondente apparato della scena e degli attori; quindi non solo il soggetto ma il modo di trattarlo, di condurre il dramma, d’intrecciarlo, di recare lo scioglimento dovettero corrispondere al fine del poeta e dell’uditorio, che era in questo di ricevere in quello di produrre una sensazione delle più vive, delle più poetiche ec.; quindi anche gli episodii dovettero corrispondere alla natura di tale scopo e di tal dramma; quindi le furie introdotte nel teatro (nelle Eumenidi di Eschilo), che fecero abortir le donne e agghiacciare i fanciulli (v. Fabric. Barthélemy ec.); quindi i soggetti per lo più lontani o di tempo, o di luogo, di costumi ec. dagli spettatori, benchè tanti soggetti poetici offrisse ai tragici greci la storia, non pur nazionale ma patria, e non pur patria, ma contemporanea ec. ec.; quindi le inverisimiglianze d’ogni genere, i salti, le improvvisate, (fatte per verità con meno arte, varietà ec. che non farebbero i modi e che non si fa ne’ modi drammi e romanzi d’intreccio), l’intervento sì frequente degli Dei o semidei ec. ec. I moderni drammatici come gli altri poeti, come i romanzieri ec. si propongono di agir sul cuore, ma gli antichi tragici, non men che gli altri antichi, sulla immaginazione. Questa osservazione, che non si può negare, basta a far giudizio quanto debbano essenzialmente differire i caratteri dell’antico e del moderno dramma, con che diversi canoni si debba giudicar dell’uno e dell’altro, quanto sia assurdo il tirar le moderne poesie drammatiche a parallelo d’arte ec. colle antiche, quasi appartenessero a uno stesso genere, ch’è falsissimo. Gli antichi tragici non vollero altro che por sotto gli occhi e l’immaginazione degli spettatori quasi un volcano ardente o altro tale terribile fenomeno o singolarità della natura, che niente ha che fare con quelli che lo riguardano. Essi rappresentavano così quelle sciagure, quelle colpe, quelle passioni, quelle prodezze, come meteore spaventevoli che gli spettatori potessero contemplare senza pericolo di nocumento, provando il piacer della maraviglia, e dello spaventoso impotente a nuocere, senza però trovare nè dover trovare alcuna conformità o somiglianza fra esse sciagure ec. e le lor proprie, o quelle de’ loro conoscenti, anzi neppur de’ loro simili e degl’individui della loro specie.

Da queste osservazioni si dee raccogliere per qual ragione non si trovi, e come sia vano il cercare e più il pretendere di trovare nelle antiche tragedie que’ dettagli quelle gradazioni quella esattezza nella pittura e nello sviluppo e condotta delle passioni e de’ caratteri, che si trovano nelle moderne; anzi neppur cosa alcuna di simile odi analogo.

Queste osservazioni possono in parte applicarsi anche alle antiche commedie, massime a quella che in Atene si usò da principio e che poi fu chiamata propriamente antica, ἀρχαία. Neppur questa mirava a mettere i personaggi in relazione cogli spettatori, se non con alcuni in particolare, che in essa erano espressamente rappresentati in caricatura. Ancor essa mirava ad agir sull’immaginazione, intento affatto alieno dalla moderna commedia, ed anche da quella che fu chiamata in Grecia la commedia nuova νέα, o seconda δευτέρα, ch’è del genere di Terenzio, traduttor di Menandro, che ne fu il principe. Quindi nell’antica commedia le invenzioni strane, non naturali, poetiche, fantastiche; i personaggi allegorici, come la Ricchezza ec.; le rane, le nubi, gli uccelli; le inverisimiglianze, le stravaganze, gli Dei, i miracoli ec. Le antiche commedie non erano propriamente azioni (δράματα), ma satire immaginose, fantasie satiriche, drammatizzate, ossia poste in dialogo; come quelle di Luciano, conformi in tutto alle antiche commedie, se non quanto all’estensione, alla personalità, ed altre tali non qualità ma circostanze estrinseche, accidentali, arbitrarie ec. che non toccano alla natura del genere ec. (20. Sett. 1823. Vigilia di Maria SS. Addolorata.).

Alla p. 2928, marg. fine. Da falsus di fallere (fatto aggettivo) gli spagnuoli falto (seppur e’ non fosse contrazione di fallito, ma non credo, e in tal caso gli spagnuoli direbbero anzi faldo da un falido), e falta sostantivo per falsa, e così il franc. faute, cioè falte. E da falto o da falta il verbo spagn. faltar per falsare che noi diciamo, e che si disse ancora in latino (v. Forcell. ), e che i francesi dicono fausser; e per fallare o fallire ital., faillir franc., fallere lat. Faltar la palabra spagn. fausser sa parole, franc. falsare la fede, Speroni Orazz. Ven. 1596. Or. 8. contra le Cortegiane, par. 2. p. 195. ovvero fallire la promessa, ib. p. 198. fine. falseggiar l’amore per mancar delle promesse fatte in amore, abbandonando una donna per amare un’altra, o amando un’altra insieme, malgrado delle parole date . Speroni Dial. 1. Ven. 1596. p. 9. principio. V. p. 3772 [a]

Esempi analoghi di frasi vedili nell’Alberti in faillir.

[Chiudi]. V. la Crusca e il Glossar. (21. Sett. Festa di Maria Santissima Addolorata. 1823.).

Molti sono timidi i quali sono insieme coraggiosissimi. Voglio dire che molti si perdono d’animo nella società, i quali nè fuggono nè temono ed anche volontariamente incontrano i pericoli e i danni e le fatiche e le sofferenze ec.; e non sostengono gli sguardi o le parole amichevoli o indifferenti di tali di cui sosterrebbero facilissimamente l’aspetto minaccioso e l’armi nemiche in battaglia o in duello. La timidità spetta per così dire ai mali dell’animo, il coraggio a quelli del corpo. L’una teme de’ danni e delle pene interne, l’altro brava i danni e le sofferenze esteriori. L’una s’aggira intorno allo spirituale, l’altro al materiale. E tanto è lungi che la timidità escluda il coraggio, che anzi ella piuttosto lo favorisce, e da essa si può dedurre con verisimiglianza che l’uomo che n’è affetto sia coraggioso. Perocchè la timidità è abito di temer la vergogna, la quale assai facilmente e spesso incontra chi teme e fugge i pericoli. Onde il temer la vergogna, ch’è male, per così dire, interno e dell’animo, giacchè nulla nuoce al corpo nè alle cose esteriori, ed opera sul pensiero solo, ed ai sensi non dà noia; fa che l’uomo non tema i danni esteriori, e non fugga e, bisognando, affronti il pericolo ed eziandio la certezza di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl’interni e spirituali, e l’anima, per così dire, al corpo; e volendo innanzi soffrire ne’ sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire piuttosto che patir la pena della vergogna. Chè in questo e non altro consiste quel coraggio che viene da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità, o certo una spezie di qualità contraria alla sfrontatezza, all’impudenza, all’inverecondia. (21. Sett. Festa della Beatissima Vergine Addolorata. 1823.). V. la pag. seg.

Non si dà nella orazione, qualunque ella sia, tratto veramente sublime, in cui il lavoro non ceda di grandissima lunga alla materia, cioè dove l’altezza e il pregio del pensiero, dell’immagine, e simili, non vinca d’assaissimo la nobiltà, l’eleganza, e il pregio dell’espressione e dello stile. Una sola virtù dell’espressione può e deve, in un luogo ch’abbia ad esser sublime, andar di pari coll’altezza del concetto, e questa si è la semplicità, o vogliamo dir la naturalezza e l’apparenza della sprezzatura. (21. Sett. 1823.).

Θαυμαστὸν οὐδέν ἐστι μὲ ταῦθ' οὕτω λέγειν, , (Isacco Casaub. scrive οὐδὲν ἐστί με ) Καὶ ἁνδάνειν αὐτοῖσιν αὐτοὺς καὶ δοκεῖν Καλῶς πεφυκέναι• καὶ γὰρ ἁ κύων κυνὶ Κάλλιστον εἷμεν φαίνεται, καὶ βοῦς βοΐ, Ὄνος δὲ ὄνῳ κάλλιστον, ὗς δὲ ὑΐ. (il medesimo legge Ὄνος δ' ὄνῳ κάλλιστόν ἐστιν, ὗς δ' ὑΐ ). Epicarmo comico dell’antica commedia, Coo di patria, ma vissuto in Sicilia, contemporaneo di Gerone tiranno. Frammento recato da Alcimo appresso Diog. Laerz. in Plat. lib.3. segm.16. p. 175. ed. Amstel. 1692. Wetsten. (21. Sett. Festa di Maria SS. Addolorata. 1823.).

Rasito as da rado is — rasus, frequentativo. Il continuativo si trova in francese, cioè raser, che resta in luogo del positivo, mancante in quella lingua. (22. Settembre 1823.). V. ancora nello spagnuolo, arrasar.

Alla p. precedente. I timidi (cioè paurosi della vergogna, soggetti alla δυσωπία, mauvaise honte) non solo sono capaci di non temere nè fuggire il pericolo, il danno, il sacrifizio, ma eziandio di cercarlo, di desiderarlo, di amarlo, di bramar la morte, di proccurarsela colle proprie mani. Le stesse qualità morali o fisiche che portano sovente alla timidezza (ciò sono fra l’altre, la riflessione, la delicatezza e profondità di spirito ec.[a]

Veggansi le pagg. 3186-91.

[Chiudi] onde Rousseau era strabocchevolmente e invincibilmente timido), portano ancora alla noia della vita, al disinganno, all’infelicità, e quindi alla disperazione. È veramente mirabile e tristo, non men che vero, come un uomo che non solo non teme nè fugge, ma desidera supremamente la morte, un uomo ch’è disperato di se stesso, che conta già la vita e le cose umane per nulla, un uomo ch’è risoluto eziandio di morire, tema ancor tuttavia l’aspetto degli uomini, si perda di coraggio nella società, si spaventi del rischio di essere ridicolo (rischio ch’egli ha sempre davanti agli occhi, e il cui pensiero e timore si è quello che lo rende timido), e non abbia coraggio d’intraprender nulla per migliorare o render meno penosa la sua condizione, e ciò per tema di peggiorar quella vita della quale egli non fa più caso alcuno, della quale ei dispera, che non può parergli possibile a divenir peggiore, odiandola già egli tanto da desiderar sommamente d’esserne liberato, o da volere determinatamente gittarla via. È mirabile che un uomo desideroso o risoluto di morire, un uomo che ripone il suo meglio nel non essere, che non trova per lui miglior cosa che il rinunziare a ogni cosa; stimi ancora di aver qualche cosa a perdere, e cosa tanto importante, ch’egli tema sommamente di perderla; e che questa opinione e questo timore gli renda impossibile la franchezza, e il gittarsi disperatamente nella vita ch’ei nulla stima; ch’egli ami meglio rinunziare decisamente a ogni cosa e perdere ogni cosa, che mettersi, com’ei si crede, al pericolo di perdere quella tal cosa, cioè quella riputazione e quella stima altrui che l’uomo timido teme a ogni momento di perdere, conversando nella società, e ch’egli sa però bene di non avere, o di perderla, mostrandosi timido; ma contuttociò lo rende incapace di franchezza il timore continuo di perdere, e la continua e affannosa cura di conservare, quello ch’ei comprende di non possedere, quello ch’ei ben s’avvede o di perdere necessariamente o di non mai potere acquistare se non deponendo quel continuo ed eccessivo timore, quella continua ed eccessiva cura. Tutte queste misere e strane contraddizioni e tutti questi accidenti hanno luogo (proporzionatamente più o meno ec.) nelle persone timide, e più quanto elle sono di spirito più delicato ec. delicatezza che bene spesso è la sola o la principal cagione della timidità. Ma quanto al temere ancora la vergogna desiderando la morte o essendo disposto di proccurarsela, si spiega col vedere che quel coraggio il quale non nasce da cause fisiche, nè da atto o abito naturale o acquisito d’irriflessione, ma per lo contrario nasce da riflessione accompagnata col sentimento d’onore, e da delicatezza d’animo (non da grossezza, come quell’altro) preferisce effettivamente la morte alla vergogna, e tanto è più pauroso di questa che di quella, che ad occhi aperti e deliberatamente sceglie in fatto la prima piuttosto che la seconda, e antepone il non vivere alla pena di vergognarsi vivendo. (22. Sett. 1823.).

Si suol dire che gli antichi attribuivano agli Dei le qualità umane, perch’essi avevano troppo bassa idea della divinità. Che questa idea non fosse appo loro così alta come tra noi, non posso contrastarlo, ma ben dico che se essi attribuirono agli Dei le qualità umane, ne fu causa eziandio grandemente l’aver essi degli uomini e delle cose umane e di quaggiù troppo più alta idea che noi non abbiamo. E soggiungo che umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare e inalzar gli uomini; e ch’effettivamente non più fecero umana la divinità che divina l’umanità, sì nella lor propria immaginazione e nella stima popolare, sì nella espressione ec. dell’una e dell’altra, nelle favole, nelle invenzioni, ne’ poemi, nelle costumanze, ne’ riti, nelle apoteosi, ne’ dogmi e nelle discipline religiose ec. (22. Sett. 1823.). Tanto grande idea ebbero gli antichi dell’uomo e delle cose umane, tanto poco intervallo posero fra quello e la divinità, fra queste e le cose divine (non per abbassar l’une ma per elevar l’altre, nè per disistima dell’une ma per altissimo concetto dell’altre), ch’essi stimarono la divinità e l’umanità potersi congiungere insieme in un solo subbietto, formando una persona sola. Onde immaginarono un intiero genere participante dell’umano e del divino, participazione che lor sembrò naturalissima, e ciò furono i semidei. E similmente i fauni, le ninfe, i pani ed altre tali divinità, anzi semidivinità[a]

δαίμονες, genii, lares, penates, manes ec. V. Forcell. in tutte queste voci.

[Chiudi] terrestri, acquatiche, aeree, insomma sublunari, reputate mortali, si possono ridurre a questo genere di partecipanti (vedi il Forcellini in Nympha): sebben elle erano inferiori ai semidei, come Ercole (di cui vedi Luciano Dial. d’Ercole e Diogene, che fa molto a proposito), cioè participanti forse di minor parte di divinità e più d’umanità o mortalità; siccome gli eroi, finch’essi sono mortali possono parere un grado inferiori a’ Pani, ninfe ec. cioè men divini. (V. Forcell. in Heros, Indigetes, Semideus; e Platone nel Convito ed. Astii t. 3. 498. D- 500. E, che fa ottimamente al caso[a]). Gli antichi non trovarono maggior difficoltà a comporre in un suggetto medesimo l’umanità e la divinità, di quel che a comporre i due sessi umani, il maschio e la femmina, negl’immaginari ermafroditi; quasi l’umano e il divino fossero, non altrimenti che il virile e il donnesco, due diverse specie, per dir così, d’un genere istesso, nè maggior differenza, o intervallo, o distinzion di natura fosse tra loro. (22. Sett. 1823.).

Le speranze che dà all’uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l’infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all’animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l’adito ai piaceri, alle comodità, alle utilità, agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La promessa e l’aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1.o. che l’uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2.o. ch’egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3.o. ch’egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità; una tal promessa, dico, e una tale espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l’infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l’uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un’altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell’esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo. Così chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo[a]

L’uomo non desidera la felicità assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità qualch’ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità. Ei la desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso ch’ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell’Angelo e tutti i generi di felicità ad uno ad uno. Infinita è realmente la sola felicità di Dio. Quanto all’infinità, l’uomo desidera una felicità come la divina, ma quanto all’altre qualità ed al genere di essa felicità, l’uomo non potrebbe già veramente desiderare la felicità di Dio. L’uomo che invidia al suo simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè da invidia nè da desiderio dell’immensa e piena felicità di Dio, se non solo in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta. Veggasi la p. 3509. massime in margine.

[Chiudi]. È chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il fin suo, non già di un’altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità; chè desiderando quella di un’altra esistenza, ancorch’ella in questa s’avesse poi a tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui, ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che l’uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza. Nè egli può mai lasciar di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più possibile che l’uomo mortale desideri veramente la felicità de’ Beati, di quello che il cavallo la felicità dell’uomo, o la pianta quella dell’animale; di quel che l’animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui lo vegga cibarsi, all’uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere che l’animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l’uomo, nè forse l’animale nè verun altro essere, può esattamente definire nè a se stesso nè agli altri, qual sia assolutamente e in generale la felicità ch’ei desidera; perocchè niuno forse l’ha mai provata, nè proveralla, e perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che dell’idea; che nascono più dall’inclinazione e dall’appetito, che dall’intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai; quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì l’animale che l’uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch’ei desidera è cosa terrena. Quell’infinito medesimo a cui tende il nostro spirito (e in qual modo e perchè, s’è dichiarato altrove), quel medesimo è un infinito terreno, bench’ei non possa aver luogo quaggiù, altro che confusamente nell’immaginazione e nel pensiero, o nel semplice desiderio ed appetito de’ viventi. Oltre di ciò niuno è che viva senz’alcun desiderio determinato e chiaro e definibilissimo, negativo o positivo, nel conseguimento del quale o di più d’uno di loro, ei ripone sempre o espressamente o confusamente, benchè pur sempre per errore, la sua felicità e ’l suo ben essere. Quel trovarsi senz’alcun desiderio al mondo, se non quello di un non so che, quell’essere infelice senza mancare di niun bene nè patire assolutamente niun male, è impossibile; e se Augusto diceva d’essere in questo caso, poteva parergli che così fosse, ma s’ingannava; e niuno mai si trovò veramente in tal caso nè è per trovarvisi, perchè a niuno mai mancò nè è per mancar materia di qualche desiderio determinato, più o men vivo, o ch’esso miri a cosa che ci manchi, o a cosa che noi abbiamo e ci dispiaccia. Anzi a nessuno è per mancar mai materia di molti e vivi desiderii determinati di questa specie. Or tutti questi desiderii determinati che noi abbiamo, ed avremo sempre, e che non soddisfatti, ci fanno infelici, sono tutti di cose terrene. Promettere all’uomo, promettere all’infelice una felicità celeste, benchè intera e infinita, e superiore senza paragone alla terrena, e a’ piccoli beni ch’egli desidera, si è come a un che si muor di fame e non può ottenere un tozzo di pane, preparargli un letto morbidissimo, o promettergli degli squisitissimi e beatissimi odori. Con questo divario che l’affamato concepirebbe pure il piacer che fosse per provare il suo odorato da quella sensazione, e questo piacere sarebbe della medesima natura di quello ch’ei desidera e non ottiene, cioè materiale e sensibile come l’altro. Non così possiamo dire de’ piaceri celesti promessi a chi desidera e non ottiene i terreni, nel qual caso l’uomo si trova naturalmente e necessariamente sempre, e l’infelice massimamente, benchè tutti a rigore sono infelici, e lo sono perchè tutti e sempre si trovano nel detto caso. Ora i piaceri celesti, al contrario di ciò che s’è detto qui sopra, son di natura affatto diversi da quelli che noi desideriamo e non ottenghiamo, e non ottenendo siamo infelici; e questa lor natura non può da noi per verun modo mai essere conceputa. Onde segue che la consolazione che può derivare dallo sperarli, sia nulla in effetto; perchè a chi desidera una cosa si promette un’altra ch’è diversissima da quella; a chi è misero per un desiderio non soddisfatto, si promette di soddisfare un desiderio ch’ei non ha e non può per sua natura avere nè formare; a chi brama un piacer noto, e si duole di un male noto, si promette un piacere e un bene ch’ei non conosce nè può conoscere, e ch’ei non vede nè può vedere come sia per esser bene, e come possa piacergli; a chi è misero in questa vita, e desidera necessariamente la felicità di questa esistenza, ed altra esistenza non può concepire nè desiderarne la felicità, si promette la beatitudine di una tutt’altra esistenza e vita, di cui questo solo gli si dice, ch’ella è sommamente e totalmente e più ch’ei non può immaginare diversa dalla sua presente, e ch’ei non può figurarsi per niun conto qual ella sia. Come l’uomo non può nè collo intelletto nè colla immaginazione nè con veruna facoltà nè veruna sorta d’idee oltrepassare d’un sol punto la materia, e s’egli crede oltrepassarla, e concepire o avere un’idea qualunque di cosa non materiale, s’inganna del tutto; così egli non può col desiderio passare d’un sol punto i limiti della materia, nè desiderar bene alcuno che non sia di questa vita e di questa sorta di esistenza ch’ei prova; e s’ei crede desiderar cosa d’altra natura, s’inganna, e non la desidera, ma gli pare di desiderarla. Come dunque ei non può desiderar bene alcuno d’altra natura, così la promessa e la speranza di tali beni, non può per modo alcuno consolarlo realmente nè de’ mali di questa vita nè della mancanza de’ di lei beni, nè (quando e’ non fosse infelice) rallegrarlo e dilettarlo e compiacerlo colla dolcezza dell’aspettativa, e intrattenerlo e contribuire quaggiù al suo contento. Di più, l’uomo si pasce per verità e si sostiene e vive grandissima parte della sua vita, anzi pur tutta la vita sua, della speranza, ancorchè lontana, la qual è un piacere, ma come e perchè? Perchè l’uomo va immaginando e contemplando seco stesso a parte a parte il godimento ch’egli attende o spera, e prova diletto nel considerare e rappresentarsi il modo in che egli ne godrà, e le sue qualità e condizioni e circostanze, anticipando ed anzi assaporando effettivamente colla immaginazione mille volte il piacer futuro. Ma questa contemplazione, questa rappresentazione, quest’anticipazione, questo gusto o assaggio, questo deliro o sogno che ci fa parere e ci rende infatti presente il piacer futuro, ancor più ch’ei nol sarà quando si troverà presente in effetto (se egli si troverà mai presente), come può aver luogo intorno a un piacere assolutamente inconcepibile, non solo nel più e nel meno, o nella specie, ma nel genere, di modo che le nostre idee non hanno alcun potere di abbracciarne o di avvicinarne nè pure una menoma parte? Come ci può per verun deliro o veruno sforzo dell’immaginazione o dell’intelletto parer presente quello a cui nè l’immaginazione nè l’intelletto non si possono neppure a grandissimo tratto avvicinare; quello che non è fatto nè per questa immaginazione nè per questo intelletto; quello ch’è di natura affatto diversa da ciò che l’immaginazione o l’intelletto può concepire o congetturare; quello che non sarebbe ciò ch’egli è, s’a noi fosse possibile pure il congetturarlo; quello che spetta a tutt’altra natura che la nostra presente? Come può per alcun modo o in alcuna parte entrar nella mente nostra una tutt’altra natura?

Certo l’uomo desidererà sempre di esser liberato dai dolori e dai mali ch’egli effettivamente prova, e di conseguire quelli ch’ei crederà beni in questa vita, e di esser felice in questo mondo in ch’egli vive. E non potendo mai lasciare di desiderarlo niente più ch’ei possa ottenerlo, e la religion cristiana non soddisfacendo a questo suo unico e perpetuo desiderio, nè promettendogli di soddisfarlo mai per niun modo, anzi non dandogliene speranza alcuna, segue che le speranze cristiane non sieno atte a consolare effettivamente il mortale, nè ad alleviare i suoi mali nè i suoi desiderii. E la felicità promessa dal Cristianesimo non può al mortale parer mai desiderabile, se non in quanto infinita, anzi in quanto perfetta (chè infinita e non perfetta nol contenterebbe), e in quanto felicità, astrattamente considerata, ma non già in quanto tale qual ella è, e di quella natura di ch’ella è. Ed oso dire che la felicità promessa dal paganesimo (e così da altre religioni), così misera e scarsa com’ella è pure, doveva parere molto più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare, perchè felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente si desidera in terra.

Osservisi che di due future vite, l’una promessa l’altra minacciata dal Cristianesimo, questa fa sul mortale molto maggior effetto di quella. E perchè? perchè ci s’insegna che nell’inferno (e così nel Purgatorio) avrà luogo la pena del senso. Onde ci si rende concepibile nel genere, benchè non concepibile nell’estensione, la pena che dee aver luogo in una vita e in un modo di essere a noi d’altronde inconcepibile non meno che quello de’ Beati nel Paradiso. E sebbene noi non possiamo concepire il modo in cui questa pena possa aver luogo nell’altra vita e nell’anime ignude, pur ci si dice ch’ella ha luogo miris sed veris modis (S. Agostino), restando fermo ch’ella è pena sensibile e materiale; onde noi non sapendo nè immaginando il come, sappiamo però bene e concepiamo il quale sia quella pena.

E perciò può dirsi con verità che il Cristianesimo è più atto ad atterrire che a consolare, o a rallegrare, a dilettare, a pascere colla speranza. Ed è certissimo infatti che l’influenza da lui esercitata sulle azioni degli uomini, è sempre stata ed è tuttavia come di religion minacciante assai più che come di religion promettente; ch’egli ha indotto al bene e allontanato dal male, e giovato alla società ed alla morale assai più col timore che colla speranza; che i Cristiani osservarono e osservano i precetti della religion loro più per rispetto dell’inferno e del Purgatorio che del Paradiso. E Dante che riesce a spaventar dell’inferno, non riesce nè anche poeticamente parlando, a invogliar punto del Paradiso; e ciò non per mancanza d’arte nè d’invenzione, ec. (anzi ambo in lui son somme ec.) ma per natura de’ suoi subbietti e degli uomini. (Similmente, con proporzione, si può discorrere dell’Eliso e dell’inferno degli antichi, questo molto più terribile che quello non è amabile; dello stato de’ reprobi e della felicità de’ buoni di Platone ec.).

È anche certo che siccome il Cristianesimo senza il suo inferno e il suo Purgatorio e col solo suo Paradiso, non avrebbe avuta e non avrebbe sulla condotta e sui costumi degli uomini quella influenza ch’egli ebbe ed ha, così non l’avrebbe avuta, o minore assai, se e’ non avesse minacciato nell’inferno e nel Purgatorio una pena di qualità concepibile, e s’egli avesse solo minacciata la pena del danno ch’è di qualità inconcepibile, e di natura diversa dalle pene di questo mondo; benchè non tanto, quanto la beatitudine celeste dalle terrene; perchè noi concepiamo pure e sentiamo per esperienza come ci possa fare infelici la privazione e il desiderio di beni non mai provati, mal conosciuti, ed anche non definibili; dei desiderii vaghi ec. Onde anche non concependo il bene del Paradiso, possiamo in qualche modo concepire come la privazione irreparabile e il desiderio continuo ed eterno di esso, possa fare infelici, massime chi sa di non poter esser mai soddisfatto, e pur sempre desidera, e sa d’aver sempre a desiderare, e chi è certo di penar sempre allo stesso modo, e di essere eternamente infelice senza riparo, e senza sollievo alcuno ec. Tutto ciò noi possiamo ben concepire, quasi secondariamente, come possa esser causa di somma infelicità, benchè non possiamo concepirlo primariamente, cioè la qualità di quel bene che nell’inferno ec. si desidera, e la cui privazione e desiderio fa infelici i dannati ec. (23. Sett. 1823.).

Niente d’assoluto. — Veggasi il pensiero antecedente, in particolare p. 3498-9. margine. nel quale si dimostra che nè l’uomo nè alcun vivente non desidera neppur la felicità assolutamente, ma relativamente, e solo s’ella conviene alla di lui propria natura, ed è richiesta dal di lui modo particolare di essere ec. e in quanto ella sia tale. ec. Nè perchè una cosa sia felicità, per questo solo ei la desidera, nè si compiace nello sperarla, quando ella non convenga al suo modo di essere ec. — Si può però dire per un lato, che l’uomo desidera la felicità assolutamente. Veggasi la p. 3506. Ei non desidera tale o tale felicità, s’a lui non conviene: e dovendo desiderare una tale felicità, ei non può desiderar se non la conforme e propria al suo modo di essere. Ma la felicità assolutamente e indeterminatamente considerata, e s’ei così la considera, ei non può non bramarla, cioè in quanto felicità semplicemente

Di qual cosa par che si possa ragionare più assolutamente che della lunghezza o estensione di una data porzione di tempo? la quale si misura esattamente coll’oriuolo, e si divide perfettamente in parti anche minutissime, non col pensiero solo, ma con gl’istrumenti da ciò, e come fosse quasi materia, e queste parti si annoverano e si raccolgono, e il loro numero si conosce colla certezza che dà l’aritmetica. Ora egli è certissimo che la lunghezza di una medesima quantità di tempo ad altri è veramente maggiore ad altri minore, e ad un medesimo individuo può essere, ed è, quando maggiore quando minore. Onde può dirsi con verità che una medesima data porzione di tempo or dura più or meno ad un medesimo individuo, ed a chi più a chi meno. Lasciamo stare che il tempo disoccupato, annoiato, incomodato, addolorato e simili, riesce e si sente esser più lungo che quel medesimo o altrettanto spazio di tempo, occupato, dilettevole, passato in distrazione e simili[a]

Nella rimembranza è molte volte il contrario, che più corto pare il tempo passato senza occupazione e uniformemente, perchè allora nella memoria l’una ora e l’un dì si confonde e quasi sovrappone coll’altro, in modo che molti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro, nè moltitudine di azioni o passioni che si possa numerare, l’idea della qual moltitudine si è quella che produce l’idea della lunghezza del tempo, massime passato ec. Ma di questo pensiero altrove s’è scritto.

[Chiudi]; e ciò ad un medesimo individuo, o a diversi individui d’una sola specie in un tempo medesimo, o in tempi diversi. Lasciando questo, si osservi che agli animali i quali vivono meno dell’uomo per lor natura, a quelli che vivono al più trent’anni, venti, dieci, cinqu’anni, un anno solo, alcuni mesi, un solo mese, alcuni giorni soltanto (chè egli v’ha effettivamente animali che rispondano a tutte queste differenze di durata, e a cento e mill’altre intermedie); a questi animali, dico, una data porzione di tempo è veramente più lunga e dura più che all’uomo, e tanto più quanto la lor vita naturale è più corta; e l’idea che ciascun d’essi si forma ed acquista naturalmente della durata e quantità di una tal porzione qualunque di tempo, è assolutamente maggiore di quella che l’uomo concepisce; e maggiore in ragione esattamente inversa della lunghezza ordinaria del viver loro. E s’egli è vero come dicono, che nel fiume Apanis nella Scizia vi abbia degli animaletti, tra i quali, quei, i quali essendo nati il mattino, muojono la sera, sono i più vecchi, e muojono carichi di figli, di nipoti, di pronipoti, e di anni, a lor modo ( Genovesi, Meditazioni filosofiche sulla Religione e sulla Morale. Meditaz. 1. Piacere dell’esistenza. § o articolo 12. Bassano, Remondini 1783. p. 26. Vedilo dall’articolo 11. al fine della Meditazione); se questo, dico, è vero (che ben può essere[a], e se non d’essi animaletti, d’altri, visibili o invisibili; e se no, discorrasi proporzionatamente di quelli che, come di certo si sa, vivono pochissimi giorni), egli è certissimo che l’idea che questi animali si formano e naturalmente acquistano della durata e quantità p. e. di una mezz’ora di tempo, è tanto maggiore della nostra idea, che noi non possiamo pur concepire il quanto. E veramente una mezz’ora dura per essi indefinibilmente più che per noi, stante la rapidità delle loro azioni, sensazioni, passioni ed eventi; il velocissimo succedersi di questi, gli uni agli altri; la inconcepibile prontezza del loro sviluppo; la rapidità, per così dire, della lor vita ed esistenza; e stante ch’essi in una mezz’ora, in un minuto, vivono ed esistono, si può ben dire, assai più che noi nè gli altri più macrobii animali, in quel medesimo spazio, non fanno; e la loro esistenza in un minuto è veramente di quantità e d’intensità ec. maggiore che la nostra non è, in altrettanto spazio, e che noi non possiamo pure immaginare. In contrario senso ragionisi dell’idea che dovettero aver gli uomini naturalmente della durata e quantità di una data porzione di tempo, quando la lor vita naturale era strabocchevolmente più lunga della presente; e proporzionatamente dell’idea che debbono averne le nazioni (se ve n’ha) che vivono ordinariamente più di noi (siccome v’ha certo di quelle che vivono meno, e prestissimo giungono alla maturità, e ciò ne’ climi caldi, come nell’America meridionale, ove le donne si maritano di 10 o 12 anni[a], e tra gli orientali ec. e vedi a questo proposito l’ Indica di Arriano, c. 9. sect. 1-8. e Plinio se ha nulla ec.); e dell’idea che n’hanno gli animali più longevi dell’uomo, come l’elefante, il cervo, la cornice, la tartaruga, alla quale pigrissima e tardissima nelle sue operazioni, la natura diede, non lunghissima vita, ma moltissimi anni. E dico, non lunghissima vita, perch’ella stante la tardità de’ suoi movimenti ed azioni, alla quale corrisponde quella del suo incremento e sviluppo naturale ec. e di tutta la sua natura, vive ed esiste in un dato spazio di tempo assai meno che l’uomo in altrettanto spazio non fa. E così proporzionatamente gli altri animali più longevi di noi. E dalle suddette osservazioni si raccoglie che la somma e quantità della vita, e però la durata e lunghezza della medesima, è generalmente e appresso a poco altrettanta in effetto negli animali ed esseri brachibiotati, che ne’ macrobiotati e negl’intermedii, e niente minore, e così viceversa. Onde la durata di un medesimo spazio di tempo è naturalmente e generalmente e costantemente, salve le varie circostanze della vita di una stessa specie e individuo, accennate di sopra, come la noia, il piacere ec. che variano l’idea e ’l sentimento della durata ec. sempre però dentro i limiti e la proporzione e in rispetto dell’idea d’essa durata, propria particolarmente della specie per sua natura ec. per gli uni maggiore per gli altri minore ec. e non si può determinare ec. nè giudicarne assolutamente come noi facciamo ec. (24. Sett. 1823.).

Transito as, da transeo-transitus. V. il Forcell. in Transitans. Oggi questo verbo ci è comune, e lo trovo ancora nello spagnuolo moderno, e mi par eziandio nel francese. Ma in tutte tre queste lingue egli è piuttosto termine di gazzetta (inutilissimo), che voce degna della lingua ec. (25. Sett. 1823.).

Alla p. 2984. Vieil da veculus come oeil da oculus, oreille da auricula o aurecula (corrottamente) ec. vermeil, vermiglio, vermejo da vermiculus o vermeculus ec. Sommeil è certamente un somniculus diminutivo, preso in senso positivo, come somme da somnus. Resta però il senso diminutivo a sommeiller che vien da somniculare come il nostro sonnecchiare, e che serve a confermar la derivazione di sommeil da somniculus. Appareil; apparecchio, apparecchiare, sparecchio ec.; aparejo, aparejar dimostrano un diminutivo positivato appariculare per apparare, (come misculare per miscere, di cui altrove), appariculus per apparatus [a]

Parecchi, pareil, onde appareiller, sono da pariculus ec. V. Gloss. ec. parejo (cioè par) parejura ec. Pelleja, pellejo, pellico; pelliccia; pelisse; spagn. mod.no pellìz, da pellicula ec. Lo spagn. ha anche il positivo, piel. Semilla. Soleil. Ouaille da ovicula ec., come oveja spagn.

[Chiudi]; voci ignote nel buon latino, ma comuni alle tre lingue figlie. V. Glossar. ec. (25. Sett. 1823.).

A quello che altrove ho detto di occhio e di ojo, formati regolarmente da oculus, non da ocus, come potrebbe parere, aggiungasi che anche oeil viene manifestamente da oculus (v. la pag. qui dietro), e non potrebbe venire da ocus. Aggiungi ancora a quello che ho detto in tal proposito, che da somniculosus abbiam fatto oltre sonnacchioso e sonnocchioso, anche sonnoglioso e sonniglioso, mutato il cul in gli, come in vermiglio da vermiculus, di cui v. pur la pag. antecedente, e in periglio da periculum, e in coniglio (conejo) da cuniculus. Quindi i diminutivi spagn. in illo, da iculus. (25. Sett. 1823.). Abbiamo anche sonnoloso.

Axilla era voce antiquata fin dal tempo di Cicerone, e sostituitavi ala (v. Forc. in Axilla, in X ec.). Antiquata nel parlare e nello scrivere colto. Ora il volgo conservolla sempre, tanto che la trasmise a noi, i quali usiamo ancora volgarmente e tuttodì quella voce latina che al tempo di Cicerone era già disusata. Ascella, aisselle. Così dite di maxilla, (mascella, mexilla), che pur si trova usata da scrittori posteriori, ma ciò dovette esser con poca eleganza. Ala e mala che al tempo di Cicerone in questi significati erano più recenti e più usate di quell’altre, oggi, restando queste, sono esse affatto perdute in tali significazioni. (25. Sett. 1823.). Al contrario palus è rimasto, paxillus perduto; velum è rimasto, vixillum non è per noi che voce poetica ec. (25. Sett. 1823.).

Testa si dice anche per ogni genere di coccia, come di quella de’ pesci, onde la tartaruga è detta testudo ec. Quindi si conferma la congettura da me altrove fatta sopra l’origine del dir testa, cioè coccia per capo. Si cominciò a dar quel nome al cranio, ed è metafora o metonimia ec. molto naturale. V. Forcell. (25. Sett. 1823.).

Alla p. 3412. fine. Altrettanto però è certo che una società capace di repubblica durevole, non può essere che leggermente o mezzanamente corrotta; che una società pienamente corrotta (come la moderna) non è assolutamente capace d’altro stato durevole che del monarchico quasi assoluto; e che il non essere assolutamente capace se non di assoluta monarchia, e l’essere incapace di durevole stato franco, è certo segno di società pienamente corrotta. Così, apparentemente, si ravvicinano i due estremi, di società primitiva, di cui non è proprio altro stato che la monarchia; e di società totalmente guasta, di cui non è propria che l’assoluta monarchia. Colla differenza che questa società non è onninamente capace di altro stato durevole, quella sì; e che in questa non può durar che una monarchia assoluta cioè dispotica, in quella una tal monarchia non poteva assolutamente durare; ma l’era propria una monarchia piena bensì ed intera, ma non assoluta nè dispotica; una monarchia dove il re era padron di tutto, e il suddito niente manco libero. Del resto s’egli è proprio carattere sì della società primitiva come della più corrotta l’essere ambedue per natura monarchiche di governo, non è questo il solo capo in cui si veda che le cose umane ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo errore ai loro principii, e giunte (come or pare che siano) al termine di lor carriera, o tanto più quanto a questo termine più s’avvicinano, si trovano di nuovo in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo, stato ed essere che nel cominciar d’essa carriera. Bensì per cagioni ben diverse e contrarie a quelle d’allora: onde questi effetti e questo stato sono ben peggiori ritornando, che allora non furono; e se e dove furon buoni e convenienti all’umana società ed alla felicità sociale nel principio, son pessimi nel ritorno e nel fine ec. (25. Sett. 1823.).

Superiorità della natura sulla ragione, dell’assuefazione (ch’è seconda natura) sulla riflessione. — Mio timor panico d’ogni sorta di scoppi, non solo pericolosi, (come tuoni ec.), ma senz’ombra di pericolo (come spari festivi ec.); timore che stranamente e invincibilmente mi possedette non pur nella puerizia, ma nell’adolescenza, quando io era bene in grado di riflettere e di ragionare, e così faceva io infatti, ma indarno per liberarmi da quel timore, benchè ogni ragione mi dimostrasse ch’egli era tutto irragionevole. Io non credeva che vi fosse pericolo, e sapeva che non v’era pericolo nè che temere; ma io temeva niente manco che se io avessi saputo e creduto e riflettuto il contrario. (puoi vedere la p. 3529.). Non potè nè la ragione nè la riflessione liberarmi di quel timore irragionevolissimo, perch’esso m’era cagionato dalla natura. Nè io certo era de’ più stupidi e irriflessivi, nè di quelli che men vivono secondo ragione, e meno ne sentono la forza, e son meno usi di ragionare, e seguono più ciecamente l’istinto o le disposizioni naturali. Or quello che non potè per niun modo la ragione nè la riflessione contro la natura, lo potè in me la natura stessa e l’assuefazione; e il potè contro la ragione medesima e contro la riflessione. Perocchè coll’andar del tempo, anzi dentro un breve spazio, essendo io stato forzato in certa occasione a sentire assai da vicino e frequentemente di tali scoppi, perdei quell’ostinatissimo e innato timore in modo, che non solo trovava piacere in quello che per l’addietro m’era stato sempre di grandissimo odio e spavento senza ragione, ma lasciai pur di temere e presi anche ad amare nel genere stesso quel che ragionevolmente sarebbe da esser temuto; nè la ragione o la riflessione che già non poterono liberarmi dal timor naturale, poterono poscia, nè possono tuttavia, farmi temere o solamente non amare, quello che per natura o assuefazione, irragionevolmente, io amo e non temo. Nè io son pur, come ho detto, de’ più irriflessivi, nè manco di riflettere ancora in questo proposito all’occasione, ma indarno per concepire un timore che non mi è più naturale. Questo ch’io dico di me, so certo essere accaduto e accadere in mille altri tuttogiorno, o quanto all’una delle due parti solamente, o quanto ad ambedue. — Quello che non può in niun modo la riflessione, può e fa l’irriflessione. (25. Sett. 1823.). V. p. 3908.

Tre stati e condizioni della vecchiezza rispetto alla giovanezza[a]

Puoi vedere la p. 3846.

[Chiudi] ed alle altre età. 1. Quando il genere umano era appresso a poco incorrotto, o certo proclive ed abituato generalmente alla virtù, e quando l’esperienza insegnava all’individuo le cose utili a se ed agli altri, senza disingannarlo delle oneste, e delle inclinazioni virtuose, nobili, magnanime ec.; nè gli dimostrava la perversità degli uomini, che ancora non erano perversi, nè lo disgustava e faceva pentire della virtù, che ancor non era, se non altro, dannosa, e ch’egli per naturale istituto aveva intrapreso fin da principio di seguire, e seguiva; allora i vecchi, come più ricchi d’esperienza e più saggi, erano più venerabili e venerati, più stimabili e stimati, ed anche in molte parti più utili a’ loro simili e compagni ed al corpo della società, che non i giovani e quelli dell’altre età. 2. Cominciata a corrompere la società umana e giunta la corruzione al mezzo, o più oltre, l’esperienza dovette fare tutto il contrario delle cose dette di sopra, e distruggendo le buone disposizioni naturali, e le qualità contratte ne’ primi anni, render l’individuo tanto peggiore di carattere, d’animo, di costumi, di qualità, di azioni o di desiderii, quanto più egli avesse sperimentato. Allora dunque i vecchi furono (nella gran società) molto meno stimabili e stimati, quanto alla virtù ed all’onestà, che i giovani ec.; molto più tristi, svergognati, finti, coperti, furbi, traditori, malvagi insomma, alieni dal ben fare, e dannosi, o inclinati a far danno, a’ compagni e alla società. Laddove quei dell’altre età, e massime i giovani, furono molto più degni di stima e molto più utili o men dannosi, perchè meno corrotti; più buoni perchè più naturali; più proprii a ben fare, più misericordiosi, più benefici, perchè men freddi, più generosi per natura dell’età, men guasti dall’esempio e dalle cattive massime, o non ancor guasti ec. 3. Passata che fu la corruzione sociale di gran lunga oltre il mezzo, e giunta, si può dire, al suo colmo, nel quale oggidì si trova e riposa, ed è, a quel che sembra per riposar lungamente o in perpetuo; non fu e non è bisogno di molta nè lunga esperienza nè d’assai mali esempi per corrompere negl’individui la sempre buona natura ed indole primitiva; nascono, si può dir, gli uomini già corrotti; il primitivo, e seco la virtù ed ogni sorta di bontà effettiva, è sparito quasi onninamente dal mondo; il giovane, anzi pure il fanciullo, in brevissimo tratto è maturo e vecchio di malizia, di frode, di malvagità, e conosce il mondo assai più che i vecchi stessi per lo passato non facevano ec. Quindi per ben contrarie cagioni e con ben contrari effetti (veggasi la p. 3517-8.) son tornate le cose appresso a poco nel loro stato primiero. I giovani massimamente, sono ben più odiosi e dannosi de’ vecchi, perchè in essi alla disposizione intera e alla decisa volontà di mal fare si aggiunge il potere e la facoltà; e l’ardor giovanile, e la forza e l’impeto e il fiore delle passioni, che un dì conduceva gli uomini al bene, ora conducendogli dirittamente e pienamente e decisamente al male, rende gl’individui tanto più cattivi, perniciosi ed odiabili, quanto esso ardore è più grande. Laddove i vecchi sono, non dirò già più stimabili nè venerabili, ma più tollerabili e meno da essere odiati e fuggiti che quelli dell’altra età, siccome meno potenti di mal fare, benchè a ciò solo inclinati; e siccome anche meno desiderosi di nuocere e di far bene a se e male altrui, perchè più freddi, e di più sedate passioni, e dalla lunga esperienza più disingannati de’ piaceri e de’ vantaggi di questa vita, e fatti meno avidi, e di desiderii men vivi: essendo la freddezza e l’esperienza che un dì furon cagione d’ogni male e malvagità, divenute oggi cagione, non già di bene nè di bontà, ma di minor male e cattiveria, che non il calor naturale e l’inesperienza che già furon cagioni principali di bontà, ed or sono cagioni di maggiore ribalderia. Da principio dunque fu la vecchiezza rispetto alla gioventù (e proporzionatamente all’altre età), come il meglio al bene; poscia come il cattivo al buono; in ultimo è (e probabilmente sarà sempre) come il manco male al male, o come il cattivo al pessimo.

Quel che s’è detto della vecchiezza e della gioventù ec. dicasi ancora di quei caratteri e disposizioni degl’individui, o naturali e primitive, o acquistate e avventizie, le quali hanno faccia e sembianza di vecchiezza, di gioventù ec. e rispondono all’indole e qualità proprie di queste età, benchè ad esse disposizioni ec. non corrisponda in fatto l’età reale de’ rispettivi individui, anzi sia loro ben diversa o contraria ec. (25. Sett. 1823.).

L’uomo tanto può fare e patire quanto egli è assuefatto di fare e di patire (o che l’assuefazione continui, o che quantunque passata, ne restino gli effetti totalmente o in parte), niente più niente meno. (26. Sett. 1823.).

Tutti hanno provato il piacere, o lo proveranno, ma niuno lo prova. Tutti hanno goduto o godranno, ma niuno gode. Questo pensiero spetta a quelli sopra il non darsi piacere se non futuro o passato. (26. Sett. 1823.).

Alla p. 3141. marg. Ho detto che Argante, Solimano e Clorinda sono i soli Eroi degl’infedeli. Perocchè d’Altamoro e degli altri dell’esercito egizio, che non vengono, si può dire, in iscena prima dell’ultimo canto (si nominano nel 17o e nel 19o ma nulla operano) non pare che sia da tener conto, e l’interesse per loro non ha tempo di nascere perchè troppo poco conversano coi lettori, oltre che il Tasso li fa molto più barbari ancora e salvatichi, disumani ed odiosi di Argante e di Solimano, e più empi, dispregiatori degli uomini e degli Dei e d’ogni religione ec. Eroi Cristiani che soprassalgano, non v’ha nella Gerusalemme, oltre Goffredo, che Raimondo, Tancredi e Rinaldo. Ma questi sono ottimamente variati tra loro, e gli ultimi due squisitamente nuancés a rispetto l’uno dell’altro. E la superiorità di Goffredo e di Rinaldo è ben decisa e tale che i lettori non possono nè dubitarne ciascuno fra se, nè contrastarne fra loro, nè ricusare al poeta di confessarla; e con tutto questo ella non si nuoce scambievolmente, nè fa torto neppure a Tancredi o a Raimondo ec. In tutta questa parte l’equilibrio, l’armonia, la bilanciata ed armonica e concertata e concordevole varietà che regnano ne’ caratteri del valore de’ diversi Eroi de’ Cristiani, sono mirabilissime. I quali caratteri erano sommamente difficili a variare, e però la lor differenza (massime fra Tancredi e Rinaldo) è piccolissima, ma, quel ch’è maraviglioso, ell’è nel tempo stesso sensibilissima. Vero è che questa diversificazione l’ha proccurata e ottenuta il Tasso non tanto col variare le qualità del valore, quanto colla dispensazion de’ successi e delle imprese, giudiziosissimamente variata e graduata; e coll’altre circostanze, come della cura del cielo per Rinaldo dimostrata con visioni spedite e tanti miracoli fatti per produrre il suo ritorno al campo ec. ec. (26. Sett. 1823.). V. p. 3590.

Sopravvenendo il pericolo, ridere, diventare allegro fuor dell’uso, o più che il momento prima non si era, o di malinconico farsi giulivo; divenir loquace essendo taciturno di natura, o rompere il silenzio fino allora per qualunque ragione tenuto; scherzare, saltare, cantare, e simili cose, non sono già segni di coraggio, come si stimano, ma per lo contrario son segni di timore. Perciocchè dimostrano che l’uomo ha bisogno di distrarsi dall’idea del pericolo, e particolarmente di scacciarla col darsi ad intendere ch’e’ non sia pericolo, o non sia grave. E questo è ciò che l’uomo proccura di fare dando segni straordinarii d’allegrezza in tali occasioni; ingannar se stesso dimostrandosi di non aver nulla a temere, perocch’ei fa cose contrarie a quelle che il timore propriamente e immediatamente suol cagionare. Affine di non temere, l’uomo proccura di persuadersi ch’ei non teme, ond’ei possa dedurre che non v’è ragion sufficiente o necessaria di timore. Egli è un effetto molto ordinario di questa passione il muover l’uomo a cose contrarie a quelle a che immediatamente ella il moverebbe, ma e quelle e queste sono ugualmente effetti di vero timore. E quelle sono in gran parte, o sotto un certo aspetto, finte; queste veraci. Il timore muove l’uomo a far quasi una pantomima appresso se stesso. Per questo nelle solitudini e fra le tenebre e in luoghi, cammini, occasioni pericolose o che tali paiono, è uso naturale dell’uomo il cantare, non tanto ad effetto di figurarsi e fingersi una compagnia, o di farsi compagnia (come si dice) da se stesso; quanto perchè il cantare par proprio onninamente di chi non teme: appunto perciò chi teme, canta. (Vedi a tal proposito un luogo molto opportuno del Magalotti segnato da me nelle prime carte di questi pensieri, sul principio, se non erro, del 1819.). Dai medesimi principii (più che dal bisogno di distrazione) nasce che in un pericolo comune o creduto tale, e vero o immaginario assolutamente, piace, conforta, rallegra l’udire il canto degli altri, il vedergli intenti alle lor solite operazioni, l’accorgersi o il credere ch’essi o non istimino che vi sia pericolo, o nulla per sua cagione tralascino o mutino del loro ordinario, e di quello che infino allora facevano o che, senza il pericolo, avrebbero fatto; o che non lo temano, e sieno intrepidi ec. Il coraggio veduto o creduto negli altri, o l’opinione che non vi sia pericolo, veduta o creduta in essi, incoraggisce l’individuo che teme. Nello stesso modo il mostrar di non temere a se stesso è un farsi coraggio, o col persuadersi che non vi sia pericolo, o col dare a se stesso in se stesso un esempio di coraggio e di non temere questo pericolo, ancorchè vi sia. Or chi ha bisogno che gli sia fatto coraggio e di aver nello stesso pericolo esempi di coraggio, e altrimenti teme, non è certamente coraggioso, o in tale occasione non ha coraggio. E chi ha bisogno per non temere, di credere che non vi sia pericolo, cioè ragion di temere, o di sminuirsi l’opinion del pericolo, e di credere che questo pericolo, questa ragione sia piccola, o minore e più leggera ch’ella non è, ed altrimenti teme; non è coraggioso, perchè niun teme quello ch’ei non crede da temersi, e niun teme fuori dell’opinion del pericolo, vera o falsa, o ancor menoma ch’ella sia, o non ragionata, ma quasi istinto e passione (come quella di cui vedi la p. 3518-20. e massime 3519. marg.)

Anche il dolore degli uomini si consola o si scema col persuadersi che il danno, la sventura ec. o non sia tale, o sia minore ch’ella non è, o ch’ella non apparisce, o ch’ella non fu stimata a principio; e forse (eccetto quella medicina che reca la lunghezza del tempo) il dolore si consola o mitiga più spesso così che altrimenti. Per questo nelle pubbliche calamità, quando importa che il popolo sia lieto, o non abbattuto, o men tristo che non sarebbe di ragione, si proibiscono e tolgono i segni di lutto, e si ordinano e introducono feste e segni (anche straordinarii) di allegria. E ciò bene spesso non tanto come cagioni, quanto appunto come segni di allegria; non tanto a produrla dirittamente, quanto a dimostrarla; non tanto a divertir gli animi dal dolore e dalla mestizia, quanto a persuaderli che non ve ne sia ragione, o che questa sia minore che non è. Nelle pesti o contagi si vieta il sonar le campane a morto. Nelle sconfitte si cela al popolo il successo, si proibisce ogni segno di lutto pubblico, si accrescono le feste, si fingono e spargono ancora delle novelle tutte contrarie al vero e piene di felicità. È proprio del buon capitano il mostrarsi lieto o indifferente a’ suoi soldati dopo un rovescio ricevuto, dopo la nuova di un disastro ec. (Queste cose appartengono ancora al discorso del timore). Così negl’individui. L’afflitto si consola bene spesso o si rallegra, non tanto colla distrazione, quanto col dar segni a se stesso d’esser lieto o consolato, col canto, con altri atti ed operazioni d’uomo allegro o indifferente. Alla prima nuova, o al primo avvedersi in qualunque modo di un danno, di una sciagura ec., l’animo fa sovente ogni sforzo prima per non creder il fatto, ancorchè veduto cogli occhi propri, o con altri sensi ec. o per non credere che sia sciagura, poi per crederla molto minore ch’ei non è, poi alquanto minore, passando così più o meno rapidamente di mano in mano e di grado in grado per questi vani tentativi fino all’intera cognizione e forzata persuasione della vera grandezza del male, o fino a quell’ultimo tentativo che riesce, restando l’animo in una persuasione più o manco inferiore al vero. Chiunque nel pericolo in cui non v’è nulla a fare, comparisce diverso da quel ch’ei suole, qualunque ei soglia essere, e qual ch’ei divenga, e quanta che sia questa diversità, non è coraggioso, o in quel caso non ha vero coraggio.

Tornando al discorso del coraggio, il vero e perfetto coraggio (quando si tratti di un pericolo dove l’individuo non abbia nulla a fare per ischivarlo o mandarlo a vuoto) dee tanto esser lontano dal muover l’uomo ad allegria o dimostrazione d’allegria straordinaria o diversa dalla disposizione in che egli era il momento prima dell’apprensione del pericolo, quanto dal muoverlo a palpitare, a impallidire, a tremare, a dolersi, a perdersi d’animo, a cadere in tristezza, a divenir taciturno o serio contro il suo solito o contro quel ch’egli era il momento prima, a piangere, e a provar gli altri effetti immediati, e dar gli altri segni espressi e formali del timore. Com’ei non può produrre gli effetti nè i segni propri del timore, e deve impedirli, così ed altrettanto ei non può produrre e deve impedire gli effetti e i segni che paiono più contrarii a quelli del timore: dico, in quanto questi effetti e questi segni abbiano relazione al presente pericolo, e da esso, in quanto proprio pericolo, sieno occasionati, e non vengano da altre cagioni indifferenti. Ad essere perfettamente e veramente coraggioso, o a fare una prova particolare di vero e perfetto coraggio (il quale può essere ed atto ed abito, e quello talora senza questo), si richiede da una parte conoscere pienamente tutta la vera qualità e la vera grandezza del pericolo, o esserne pienamente persuaso, vero o creduto ch’ei sia; dall’altra parte non mutarsi per tale cognizione ovvero opinione e per tal pericolo, non mutarsi, dico, in nessunissimo conto nè nell’animo, nè nell’esterno, ma conservare esattamente e veramente lo stato del momento prima, allegro o malinconico ch’ei fosse, e seguitare, quanto è materialmente possibile, le stesse operazioni ec. nello stesso modo, in quanto e come si sarebbero seguitate, se il pericolo o l’opinione o la cognizione di esso non fosse sopravvenuta; insomma perseverare e conservarsi, o essere o divenir per ogni parte tale nel pericolo o nell’opinione o cognizione di esso, come appunto sarebbe avvenuto se tal pericolo, opinione o cognizione non fosse in alcun modo sopraggiunta (eccetto solamente quello che le circostanze d’esso pericolo impediscono materialmente di fare, o in qualunque modo, o per non accrescerlo: come se in una tempesta di mare lo strepito dell’onde m’impedisce di dormire; o se in una battaglia navale, io a quell’ora in cui sarei certamente andato a passeggiare sulla coperta, me ne sto, non toccando a me il combattere, chiuso nella mia camera, per non espormi inutilmente alle palle). Tutto ciò dev’essere senz’alcuno sforzo, come è manifesto dagli stessi termini, perchè altrimenti lo stato dell’individuo non sarebbe onninamente lo stesso allora che prima, ma ben diverso. E dev’esser naturale e vero (che torna a dir lo stesso che senza sforzo), sì perchè lo stato non sia cangiato, sì perchè è proprio sovente del timore, come il muovere all’allegria ec., così ancora il portar l’individuo a fingersi a se stesso indifferente, e nulla mutato nè di fuori nè di dentro da quel di prima; a perseverare con sembianza di tranquillità nelle stesse azioni, nello stesso stato, e fino nella malinconia, o nell’apparenza esteriore di essa, nella taciturnità, ed in altre condizioni spesso occasionate dal timore, se in queste egli si trovava prima del pericolo. Ciò per farsi coraggio, per persuadersi che non vi sia che temere ec. nè più nè meno che chi dimostra allegria ec. Questa indifferenza o dimostrazione d’indifferenza, lungi da essere effetto o segno di coraggio, lo è anzi di timore. Forse la similitudine può parer vile, ma io non trovo più naturale immagine di un uomo veramente e perfettamente coraggioso nell’ora del pericolo, di quella che Pirrone navigando mostrò a’ suoi compagni spaventati nel tempo di una burrasca; e ciò fu un porco che in un cantone della nave attendea tranquillamente a mangiar le sue ghiande, mostrando bene all’esterno che anche il suo stato interiore si era appunto tale quale se la burrasca non fosse stata. Ma una gran differenza che v’ha tra questa similitudine e il nostro caso, si è che quell’animale non conosceva punto il suo pericolo, dovechè l’uomo coraggioso dee pienamente comprenderlo e giustissimamente stimarlo, senza però curarsene più di quanto facesse quell’animale.

Un coraggio perfettamente corrispondente a quella idea che fin qui s’è descritta, com’è il solo che possa chiamarsi perfetto, anzi vero; così anche, senza fallo, è rarissimo, e forse in verità non se ne trova nè trovò mai nessun esempio reale fra gli uomini, che fosse con tutte le debite circostanze ec. da noi supposte ec. Onde si rileva che il vero coraggio tra gli uomini (e gli altri animali non ne sono capaci) o non esiste, come però si crede, o è di grandissima lunga più raro che non è creduto.

Quando poi si tratti di pericolo dove l’uomo ha qualcosa a fare per ischivarlo, per impedirlo, o per mandarlo a vuoto, per tornarlo in bene, come il nocchiero e i marinai nella tempesta, il capitano e i soldati nella battaglia; allora la indifferenza esteriore e l’operar non altrimenti che se il pericolo non fosse, non è debito del coraggio, anzi all’opposto; ma è bensì debito del coraggio la perfettissima calma interiore, la quale lasci le facoltà dell’anima pienamente libere di attendere a quello che fa bisogno contra il pericolo, senza che alla cura che si dee porre in combatterlo, si mesca neppure il menomo turbamento per la dubbiosa aspettativa del successo. E le operazioni esteriori debbono esser così riposatamente fatte come quelle che si fanno a qualunque altro fine. E in esse operazioni una certa avventatezza, un ardir temerario, un affrontare il pericolo più che non bisogna, un prenderne maggior parte che non è duopo, un accrescere irragionevolmente esso pericolo, un gittarsi via fuor di proposito e simili azioni, che paiono segni ed effetti di sommo coraggio, sono assai sovente tutto l’opposto, cioè segni ed effetti del timore, come quell’allegria di cui s’è parlato di sopra. Perocchè tali atti vengono da un’impazienza, da una fretta di veder l’esito, cioè d’uscir del pericolo col passargli, per così dire, per lo mezzo; da una confusione dell’anima, dal non poter tollerare la calma della riflessione a causa del turbamento che si prova, e ch’essa riflessione accrescerebbe; dal non essere in istato di considerare come si dovrebbe, per aver l’animo sossopra; insomma dal non trovarsi in pieno riposo di spirito, e libero da ogni passione, come vuole il perfetto coraggio, ma per lo contrario sentire una passione, la quale preferisce e trova più facile e tollerabile uno sforzo ancorchè difficile e pericoloso, che una riposatezza, che le riesce intollerabile e troppo penosa, e non solo difficile ma impossibile (come ogni passione per natura è incapace di riposatezza e l’esclude per la sua propria nazione, e spinge all’energico, allo sforzo ec.). E questa tal passione qual è? e qual può essere? non altro che il timore. Un tal animo è turbato: dunque non fa prova di perfetto coraggio. Come colui che nel pericolo, essendo assalito, o dubitando di esserlo, si diffonde in minacce e in bravare il nemico. Le parole e gli atti di costui dimostrano il coraggio e il non aver timore alcuno. Ma la sostanza è ch’egli teme assai, e che cerca d’allontanare o di scemare il pericolo col mostrare di non temerlo. E così il timore produce in lui le apparenze del coraggio. Or non altrimenti accade nel caso suddetto, dove il timore produce una specie di disperazione (segno ed effetto di timore eccessivo, quand’ella non è giusta, e quelli che più facilmente e grandemente si disperano nel pericolo, e che perciò, dovendo necessariamente combatterlo, fanno opere di maggior ardire, sono appunto i più timidi: il timore è per essi, come per tutti gli uomini, più insopportabile e penoso del pericolo e del danno: essi non si precipitano in questo se non perchè hanno moltissimo di quello, e per fuggir esso timore) di disperazione, dico, che ha sembianza di straordinario coraggio, e non è che temerità e cecità di mente prodotta dalla paura; e così nel caso di chi dimostra allegria ec.

Il perfetto coraggio ne’ pericoli ch’esigono operazione, ha molti più esempi reali che l’altro sopra descritto, e non è certamente una pura idea come forse l’altro lo è. L’uomo che pensa a combattere il pericolo, e che in effetto è occupato esteriormente a combatterlo, si può dir che non pensa al pericolo, bench’ei perfettamente l’intenda. Quella cura ed attività esteriore ed interiore è una specie di potentissima, efficacissima e total distrazione che diverte l’immaginativa e l’intelletto dal pensiero, dalla considerazione, dalla contemplazione, per così dire, e dalla vista di quel pericolo medesimo, a cui ella è tutta intenta di riparare, ed al qual solo ella è rivolta. Essa occupa tutto l’animo, essa è cura di provvedere al pericolo; ed occupando tutto l’animo non gli lascia luogo a considerare il pericolo per se stesso semplicemente. Egli è quasi impossibile a un uomo o ad un vivente il trovarsi in un gran pericolo, conosciuto e considerato come tale, e affissandosi in esso col pensiero senza distrazione alcuna, e pienamente e semplicemente comprendendolo per se stesso, e considerandone e rappresentandosene sia colla fantasia o anche col solo intendimento e ragione, tutta la qualità e la grandezza, e il danno che seguirebbe dal suo tristo esito, e riguardando questo come gran danno realmente; contuttociò non temere, e restare in perfettissima indifferenza e calma interiore ed esteriore.

Quel che ho detto sin qui del coraggio e del timore nel pericolo, cioè nel dubbio del danno futuro, si applichi proporzionatamente al coraggio e al timore che hanno luogo nella certezza del danno futuro imminente, o più o men prossimo. E intendo di quel danno ch’è subbietto di ciò che propriamente si chiama timore, e timidità, viltà ec. non di quello ch’è materia solamente di afflizione, dispiacere, cordoglio, ec. o dubbiosamente o certamente aspettato ch’ei sia (nel qual caso questo dispiacere suole altresì chiamarsi timore), o ricevuto o presente ec.

Il passato discorso spetta ai pericoli (o danni ec.) inevitabili e non dipendenti dalla volontà de’ rispettivi individui. Il coraggio d’affrontare o cercare i pericoli volontariamente e potendo a meno, procede per lo più, e principalmente da natura o abito d’irriflessione o di non riflettere profondamente; ovvero dal non curare il pericolo, cioè non considerar come male, o come assai piccolo e spregevol male, il danno che ne potrebbe seguire, (ancorchè tenuto generalmente grandissimo o sommo dagli uomini), il che viene a esser quanto non riguardare il pericolo come pericolo, o dal non credere che questo danno ne possa o debba facilmente o in niun modo seguire, il che torna il medesimo. Questo coraggio non ha che far colla idea del perfetto coraggio da noi proposta, il quale impedisce di temere il pericolo o il danno 1.o riguardato com’effettivo danno e pericolo, 2.o perfettamente conosciuto, compreso e considerato. Queste condizioni sono essenziali al perfetto, anzi al vero e proprio coraggio; e quel che n’è senza, o non è propriamente coraggio, o imperfetto ec. (26-7. Sett. 1823.).

Ho discorso altrove del verbo periclitor mostrando ch’egli è continuativo di un antico periculor, fatto dal participio di questo, cioè da periculatus contratto in periclatus come periculum in periclum, e mutata l’a in i secondo la solita regola, come in mussito da mussatus. Ora vedi appunto tal participio periculatus nel Forcellini in essa voce. E nóta ch’ei dimostra il detto verbo periculor, perocchè dice periculatus sum, tempo perfetto di periculor come periclitatus sum di periclitor. (27. Sett. 1823.).

Altrove ho notato e raccolto parecchie metafore delle voci caput, capo ec. Aggiungi Aristot. Polit. lib. 2. ediz. Flor. 1576. p. 159. fine κατὰ κεφαλὴν per testa, a testa, cioè per uno, per ciascuno, ciascuno, singuli. E v. la Crusca in Testa. ec. (27. Sett. 1823.).

Monosillabi latini. Pes, spes [a]

V. p. 3571.

[Chiudi], dies, nox, fax, nix, res. Nótisi che questi e tutti gli altri monosillabi da me raccolti, sono radici (anche rex, lex ec. come ho mostrato). E che i nomi greci corrispondenti, bene spesso, oltre al non essere monosillabi, non sono radici: come ἥλιος (lat. sol monosillabo) si deriva da ἅλς ec. ec. e πρᾶγμα (res) viene da πράσσω indubitabilmente. Ed essendo verisimile che i nomi delle cose più necessarie e frequenti a nominarsi, più materiali ec., delle cose che sembrano dover essere state le prime nominate ec. (come sono, almeno in gran parte, quelle significate ne’ monosillabi latini da me raccolti ec.) fossero radici, non meno che monosillabi; par che ne segua che in greco, ove tali nomi non sono radici, essi non siano i nomi primitivi greci delle dette cose, e che questi sieno perduti, e che il latino all’incontro gli abbia conservati; e così si confermi la maggior conservazione dell’antichità nel latino che nel greco. E probabilmente i detti nomi latini saranno stati una volta anche greci, e saranno venuti da quella lingua onde il greco e il latino scaturirono, ma il latino gli avrà sempre conservati, sino a trasmettergli alle lingue oggi viventi, e nel greco si saranno poi perduti o disusati ec. ec. (27. Sett. 1823.).

Verbi in uare. Perpetuo as da perpetuus. (28. Sett. Domenica. 1823.). Continuo as, Obliquo as. V. p. 3571.

Continuativo o frequentativo. Perpetuito as da perpetuo asperpetuatus. Vedi Forcell. in Perpetuitassint. Se già questa voce non fosse fatta (che nol credo) da perpetuitas, come forse necessitare ital. ec. da necessitas, di che ho detto altrove. (28. Sett. 1823.).

Tonsito as da tondeo-tonsus, frequentativo. Il continuativo l’abbiamo noi; tosare (quasi tonsare). V. il Gloss. ec. (28. Sett. Domenica. 1823.).

Nella Bibbia bisogna considerare l’immaginazione orientale e l’immaginazione antichissima, (anzi di un popolo quasi primitivo affatto ne’ costumi ec. e certo la più antica immaginazione che si conosca oggidì). Ben attese e pesate e valutate quanto si deve queste due qualità che nella Scrittura si congiungono[a]

Di un’altra qualità che sommamente contribuisce allo stesso effetto vedi le pagg. 3564-8.

[Chiudi], niuno più si farà maraviglia della straordinaria forza ch’apparisce ne’ Salmi, ne’ cantici, nel Cantico, ne’ Profeti, nelle parti e nell’espressioni poetiche della Bibbia, alla qual forza basterebbe forse una sola di dette qualità. E veggansi le poesie orientali anche non antichissime, le sascrite antichissime ma de’ tempi civili dell’India. (28. Sett. 1823. Domenica.).

Intorno allo spagn. pintar ho detto altrove che il primitivo e regolare participio di pingo, tingo e simili, fu pingitus, tingitus ec.? Poi pinctus, tinctus ec., poi pinctus, (e quindi pintar, quasi pinctare); e in questo 3.o stato molti di tali participii rimasero, come tinctus, cinctus ec. Molti altri passarono a un quarto stato, ove si fermarono, come pictus, fictus ec. Ma noi li conserviamo per lo più nel 3.o stato: pinto, finto. franc. peint, feint. Abbiamo anche pitto, fitto, ma antichi o poetici ec. Lo spagnuolo (regolarissimo ne’ participii passivi sopra ogni altra sorella, e sopra la stessa latina ec. nel modo che altrove ho detto[a]

P. 3074. sgg.

[Chiudi]) conserva il primitivo fingitus in fingido. (28. Sett. 1823.).

Alla p. 3341. Vedi a questo proposito Fabric. B. Lat. ed Ven. t. 1. p. 76. princip. l. I c. 6. de Corn. Nep. par. 3. fine. E nótisi che Catullo, come di stil familiare, inclina ai modernismi nella sua latinità. (28. Sett. 1823.). V. p. 3584.

Alla p. 3496. Platone nel cit. luogo non par che supponga i démoni un composto d’uomo e Dio, bensì un genere intermedio tra questo e quello, che serviva, com’egli espressam. dice, di gradazione, e a riempiere il vôto che sarebbe stato nella serie degli ésseri, tra il divino e l’umano genere. Pareva dunque agli antichi anche filosofi profondi che tra questi due generi, tra l’uomo e il Dio, avesse luogo ottimamente la gradazione, niente manco che tra specie e specie d’animali, tra il regno animale il vegetabile ec. Ed erano così lontani dal credere, come oggi si fa, che la distanza fra l’umano e ’l divino fosse infinita, e infiniti, o molto numerosi, i gradi intermedi; che anzi egli stimavano che un solo anello s’intrapponesse nella catena fra’ sopraddetti due, e bastasse a congiungerli o continuarli, e che dall’uomo al Dio un solo grado passasse, due soli gradi s’avesse a montare, e la serie nonpertanto fosse continua. Aggiungi gli amori degli Dei verso le mortali e delle Dee verso i mortali (tanto gli antichi stimavano la bellezza umana), e il congiungersi di quelli o di queste con quelle o con questi (come se il divino e l’umano non fossero pur due specie assai prossime, ma appresso a poco una stessa, così diversa, come in molte specie d’animali vi sono delle sottospecie, altre più forti, belle, maggiori ec. altre meno), e il generarsi o partorirsi figliuoli mortali dagli Dei e dalle Dee, mortali affatto, o semidei, come Bacco. ec. (28. Sett. 1823.).

Il più deciso effetto, e quasi la somma degli effetti che produce in un uomo di raro ed elevato spirito la cognizione e l’esperienza degli uomini, si è il renderlo indulgentissimo verso qualunque maggiore e più eccessiva debolezza, piccolezza, sciocchezza, ignoranza, stoltezza, malvagità, vizio e difetto altrui, naturale o acquisito; laddove egli era verso queste cose severissimo prima di tal cognizione; e il renderlo facilissimo ad apprezzare e lodare le menome virtù e i piccolissimi pregi, che innanzi alla detta esperienza ei soleva dispregiare, non curare, stimare indegni di lode, e quasi confondere o non distinguere dalle imperfezioni; insomma il renderlo facilissimo e solito a stimare, e difficilissimo, insolito, anzi quasi dimentico del dispregiare e del non curare, tutto all’opposto di quel ch’egli era per lo innanzi. Tanto poco vagliono gli uomini. E da ciò si può dedurre e far esatto giudizio quanto sia il valor vero e la virtù vera degli uomini. (28. Sett. 1823.). V. p. 3720.

In una città piccola, massime dove sia poca conversazione, non essendo determinato il tuono della società, (neppur un tuono proprio particolarmente d’essa città, qual sempre sarebbe in una città piccola, quando veggiamo che anche le grandi hanno sempre notabilissime nuances di tuono lor proprio, e differenze da quello dell’altre, anche dentro una stessa nazione) ciascun fa tuono da se, e la maniera di ciascuno, qual ch’ella sia, è tollerata e giudicata per buona e conveniente. Così a proporzione in una nazione, dove non v’abbia se non pochissima società, come in Italia. Il tuono sociale di questa nazione non esiste: ciascuno ha il suo. Infatti non v’è tuono di società che possa dirsi italiano. Ciascuno italiano ha la sua maniera di conversare, o naturale, o imparata dagli stranieri, o comunque acquistata. Laddove in una nazione socievole, e così a proporzione in una città grande, non è, non solo stimato, ma neppur tollerato, chi non si conforma alla maniera comune di trattare, e chi non ha il tuono degli altri, perchè questa maniera comune esiste, e il tuono di società è determinato, più o meno strettamente, e non è lecito uscirne senza esser messo, nella società ec., fuor della legge, e considerato come da men degli altri, perchè dagli altri diverso, diverso dai più. (28. Sett. 1823.).

Circa la radice monosillaba di jungo da me notata altrove in con-iux o con-iunx ec. aggiungi bi-iux o bi-iunx, il quale io credo che sia il vero nominativo del genitivo biiugis, e non, come scrive il Forcell., biiugis biiuge. Ben credo che il detto nominativo non si trovi, ma neanche, io credo, questo secondo, e quello mi par più conforme all’analogia di coniux ec. Dicesi ancora biiugus a um. (29. Sett. Festa di S. Michele Arcangelo. 1823.).

Radice monosillaba di capio, come altrove ec. For-ceps. Di facio For-fex. (29. Sett. 1823.).

Scambio del g e del v di cui altrove. Parvolo, parvulo, parvulino (vera pronunzia, da parvulus, e nondimeno disusata). — Pargolo (antico), pargoletto, pargoleggiare ec. (moderni ed usati). (29. Sett. 1823.).

Insetare (che noi volgarmente ma più correttamente diciamo insitare, e forse così tutti fuor di Toscana, come anche diciamo insito per innesto) è continuativo di insero-insevi-insitus (diverso da insero erui ertum); e ben s’ingannerebbe chi lo facesse tutt’uno coll’altro insetare (da seta) come par che faccia la Crusca. Il franc. enter forse ha la stessa origine, se non è fatto dal nome ente. Gli spagnuoli hanno in questo significato il verbo originale enxerir (insero, insitum o ertum), come ancor noi l’abbiamo oltre al sopraddetto, ma tra noi è tutto poetico, cioè introdotto da’ poeti, e da loro usato; benchè da essi pigliandolo, anche in prosa ben l’useremmo. (29. Sett. 1823.).

Il fine del poeta epico (e simili, e in quanto gli altri gli son simili), non dev’esser già di narrare, ma di descrivere, di commuovere, di destare immagini e affetti, di elevar l’animo, di riscaldarlo, di correggere i costumi, d’infiammare alla virtù, alla gloria, all’amor della patria, di lodare, di riprendere, di accender l’emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de’ propri avi, degli eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i veri e proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee però fare in modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal fine, non esser altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema il quale in verità non faccia altro che raccontare, cioè non produca altro effetto che di stuzzicare e pascere la semplice curiosità del lettore, ossia coll’intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con qualunque mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l’azione raccontata potesse esser nobile sublime interessante ec. (Di questa specie sono l’Orlando innamorato, il Ricciardetto e simili). E possono ben essere di questa natura anche i poemi tessuti o sparsi d’invenzioni capricciose e di favole ec. come i veri poemi. Anche favoleggiando sempre o quasi sempre, un poema può non far veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi perchè il poeta ha veramente e principalmente per fine quel ch’ei non dee senon far vista di avere, cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi pieni di lunghe descrizioni, di dissertazioni e declamazioni morali, politiche ec., di sentenze, di elogi, di biasimi, di esortazioni, di dissuasioni ec. in persona del poeta ec. e di simili cose, non sono poemi epici ec. perchè il poeta mostra veramente di avere per principali fini, quei ch’e’ non deve se non avere senza mostrarlo. (29 Sett. 1823.). V. p. 3552.

Alla p. 2861. fine. Questa proposizione corrisponde a quell’altra da me in più luoghi esposta, che il piacere è sempre o passato o futuro, non mai presente, e che quindi non v’ha momento alcuno di piacer vero, benchè possa parere. Così non v’ha nè vi può aver momento alcuno senza vero patimento, benchè possa parer che ve n’abbia (perocchè il patimento venendo a essere perpetuo, il vivente ci si avvezza per modo insin da’ primi istanti del vivere, che pargli di non sentirlo, e di non avvedersene). Anzi questa seconda proposizione è necessaria conseguenza della prima, e quasi la medesima diversamente enunziata. Perocchè dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perchè v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Nè v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perchè il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderandolo perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre. E non godendo mai, nè mai potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in quanto ei sente la vita: chè quando ei non la sente, non soffre; come nel sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perchè la vita non gli è sensibile, e perchè in certo modo ei non vive. Nè altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di esser vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale, come nella mia teoria del piacere ec.? (29. Sett. Festa di San Michele Arcangelo. 1823.).

Alla p. 3550. Il narrare non dev’essere al poeta epico che un pretesto, la persona di narratore non dev’essere a lui che una maschera, come al didascalico la persona d’insegnatore. Ma questo pretesto, questa maschera ei deve sempre perfettamente conservarlo, ed esattamente (quanto all’apparenza e come al di fuori) rappresentarla in modo ch’ei sembri sempre essere narratore e non altro. E così fecero tutti i grandi, incluso Dante che non è epico, ma il cui soggetto è narrativo, sebben ei dà forse troppo talvolta in dissertazioni e declamazioni ma torno a dire, il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di dottrinale, morale ec. (29. Sett. dì di S. Mich. Arcang. 1823.).

Alla p. 3388. Il vino (ed anche il tabacco e simili cose) e tutto ciò che produce uno straordinario vigore o del corpo tutto o della testa, non pur giova all’immaginazione, ma eziandio all’intelletto, ed all’ingegno generalmente, alla facoltà di ragionare, di pensare, e di trovar delle verità ragionando (come ho provato più volte per esperienza), all’inventiva ec. Alle volte per lo contrario giova sì all’immaginazione, sì all’intelletto, alla mobilità del pensiero e della mente, alla fecondità, alla copia, alla facilità e prontezza dello spirito, del parlare, del ritrovare, del raziocinare, del comporre, alla prontezza della memoria, alla facilità di tirare le conseguenze, di conoscere i rapporti ec. ec. una certa debolezza di corpo, di nervi ec. una rilasciatezza non ordinaria ec. come ho pure osservato in me stesso più volte. Altre volte all’opposto.

Le passioni che son cose indipendenti dalle idee, giovano pure assai volte, non solo all’immaginazione, ma eziandio all’ingegno in genere, alla ragione ec. perocchè negli accessi di passione si scuoprono non di rado, anche da’ piccoli o non esercitati o non riflessivi ingegni, delle verità così grandi come solide, secondo che ho detto altrove biasimando l’uso della nuda ragione o facoltà dialettica e ragionatrice nella filosofia, proprio de’ tedeschi ec. E per lo contrario le passioni mille volte nocciono, impediscono, offuscano, indeboliscono ec. ec. sì l’immaginazione, sì la facoltà ragionatrice, sì l’ingegno in genere, la memoria ec. come ognun sa ec. Così ancora il vino e le cose dette di sopra. ec. (29. Sett. dì di S. Michele Arcangelo. 1823.).

Ho notato altrove che la debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del subbietto in ch’ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non distrugga però la sostanza d’essa natura, e non ripugni più che tanto: insomma quando o convenga al subbietto, secondo l’idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle altre qualità d’esso subbietto, secondo la stessa idea (come ne’ fanciulli e nelle donne); o non convenendo, nè concordando, non distrugga però l’aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli uomini, o nelle donne in caso ch’ecceda la proporzione ordinaria, ec. La debolezza ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in quanto debolezza, (e talor lo è) purch’essa medesima non sia la cagione della bruttezza nè in tutto nè in parte. Ora l’esser la debolezza per se stessa, e s’altro fuor di lei non si oppone, naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo posto in ciascuna creatura l’amor proprio in cima d’ogni altra disposizione, ed essendo, come altrove ho mostrato, una necessaria e propria conseguenza dell’amor proprio in ciascuna creatura l’odio delle altre, ne seguirebbe che le creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri ami il subbietto in ch’ella si trova, e l’ami per amor proprio, cioè perchè da esso riceve diletto. Senza ciò i fanciulli, massime dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo degl’individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio mirando un fanciullo prova un certo piacere, e quindi un certo amore; e così l’uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente egoisti, offendano l’egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri). Ma il fanciullo è difeso per se stesso dall’aspetto della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l’amor proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a’ suoi bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi delle donne, nelle quali indipendentemente dall’altre qualità, la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così di certi animaletti o animali (come la pecora, i cagnuolini, gli agnelli, gli uccellini ec. ec.) in cui l’aspetto della lor debolezza rispettivamente a noi, in luogo d’invitarci ad opprimerli, ci porta a risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole ec. E si può osservare che tale ella riesce anche ad altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè non sieno lor genitori), ed eziandio d’altre specie (eccetto se non ci hanno qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoll degli animali che cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n’è solamente cagione la piccolezza per se (ch’è sorgente di grazia, come ho detto altrove),nè la sola sveltezza che in questi piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec. secondo il detto altrove da me sull’amor della vita, onde segue quello del vivo ec. ma v’ha la sua parte eziandio la debolezza. (29-30. Sett. 1823.). v. p. 3765.

Untare, untar (spagn.) da ungo-unctus. Unctito dal medesimo. Urtare, heurter (franc.) da un urtus partic. di urgeo, oda un ursus mutato in urtus, come falsus in faltus ec. vedi la p. 3488. e quella a che essa si riferisce. (30. Sett. 1823.).

Alla p. 2984. Anche il nostro vieto è il positivo vetus. E la doppia terminazione francese vieil vieux forse non ha altra origine che l’esser questi originalmente due nomi diversi, l’uno positivo, l’altro diminutivo. Ai diminutivi latini usati positivamente nello stesso fior della latinità, aggiungi oculus, e vedi quello che altrove ne ho detto in proposito della voce russa oco, citando l’Hager. (30. Sett. 1823.). Noi ancora diciamo veglio, vegliardo ec. voci antiche, ora poetiche, o da vieil, e d’origine provenzale ec. o da veculus dirittamente, come periglio da periculum del che vedi la pag. 3515 fine e marg.

Alla p. 3341. princ. Dire p. e. livre deux, chapitre dix e simili, sembra veramente esser uso de’ francesi più familiare che letterario. Trovo così scritto a lettere in libri modernissimi, ma di niun’autorità. In libri alquanto più antichi ma ben autorevoli, trovo p. e. chapitre dixième ec. (30. Sett. 1823.). V. p. 3560.

Alla p. 3003. mezzo. Su-spicio, il quale materialmente non si può dire se sia formato da sub, o da sursum (quando s’ammettesse questa seconda sorta di formazione), vale certamente guardare di sotto in su, perchè guardare in alto non è nè si può fare altrimenti che guardando di sotto in su. Or così dite degli altri tali composti pretesi di sursum. Fra’ quali i grammatici ripongono certamente ancor questo, e ciò perchè sursum significa in alto, in su. Ora osservino i suoi derivati suspicor, suspicio onis, ec. anzi pur lo stesso suspicere e suspectare quando significano sospettare, e mi dicano se possono esser composti della voce sursum. E mi neghino che non sieno composti della prep. sub, come nè più nè meno il greco corrispondente ὑποπτεύω ec. da ὀπτεύω (inusit.) specio, inspicio, inspecto ec. ὑπόπτομαι suspicor. (30. Sett. 1823.). I quali vocaboli esprimono il guardar sott’occhio ec. che fa chi sospetta, il guardare con diffidenza ec. e tutta la forza e proprietà della metafora, e la ragione per cui spicio in questi composti significa il sospettare, e la proprietà di tali voci ec. sta nella prepos. sub. (30. Sett. 1823.).

Dalle cose altrove dette (nel principio della teoria de’ continuativi) intorno al verbo aspettare si può dedurre con verisimiglianza che nel volgare latino aspecto as avesse il significato che ha oggi in italiano, come l’ebbe in lat. expecto; massime considerando il corrispondente greco προς-δοκάω che letteralmente si renderebbe appunto ad-spectare, e lo spagnolo a-guardar ec. Attendere attendre per aspettare, è traslazione fatta appunto nello stesso modo, cioè dalla significazione di osservare a quella di aspettare (e notate anche in attendere la preposizione ad in conferma della sopraddetta congettura); siccome all’incontro può vedersi nel Forcell. un esempio di Tacito, dove aspectare è preso per attendo is (il che potrebbe anche in certo modo confermare la stessa congettura). I quali dati possono farci ancora congetturare che attendere nel significato d’aspettare ch’egli ha nelle due lingue figlie italiano e francese abbia la sua origine nel volgare latino ec. V. il Gloss. in aspectare, attendere ec. se ha nulla. (30. Sett. 1823.).

Alla p. 3401. La lingua francese quanto all’origine (non quanto all’indole, veggasi la p. 2989. e altre) forma una famiglia colla greca, latina italiana spagnuola ma la letteratura francese appartiene ad un’altra famiglia, e le quattro letterature suddette formano una famiglia da se (aggiunta la portoghese ch’io comprendo ed intendo sotto la spagnuola). E questo non è contraddizione, come sarebbe, secondo i nostri principii, se la lingua francese appartenesse alla famiglia dell’altre quattro anche quanto all’indole. Laddove quanto all’indole, anche la lingua de’ moderni francesi appartiene a una famiglia diversa (ch’ella forma, si può dir, da se sola se non quanto ella, come la sua letteratura, ha corrotte e va corrompendo parecchie altre lingue, e letterature, e ad alcune che ancor non hanno carattere, come la russa, la svedese, olandese ec. ha impresso o imprime il suo, più o meno durevolmente ec.), e l’altre quattro suddette, formano una famiglia a parte. (30. Sett. 1823.).

Alla p. 3557. fine. Del resto l’uso de’ nomi ordinali de’ numeri in vece de’ cardinali è anche comune in parte agl’italiani, sì nel discorso familiare (come l’anno mille, il reggimento quattro ec. ec.) sì nella scrittura anche elegante. V. fra gli altri lo Speroni nel Discorso o lettera del tempo del partorire delle Donne, che tiene il terzo luogo tra’ suoi Dialoghi, Ven. 1596. p. 49. lin. 16. paragonata colle superiori, p. 50. lin. 23. 24. p. 51. lin. 24. p. 52. lin. 1. 7. 9. 10. 18. 22. p. 56. lin. 3. e altrove. (30. Sett. 1823.).

Francesismo ed italianismo (fors’anche spagnolismo) del genitivo plurale invece dell’accusativo del medesimo numero, appresso Aristot. Polit. l. 3. ed. Flor. ap. Iunt. 1576. p. 209. mezzo, e veggasi quivi il commento di Pier Vettori. (30. Sett. 1823.). Noi ed i francesi usiamo il genit. plur. anche in vece del nominativo plurale. Anche in caso terzo ec. a di molti, con di molti, à des femmes ec.

Alla p. 3413. Infatti la scrittura dello Speroni è tutta sparsa e talor quasi tessuta, non pur di vocaboli, o d’usi metaforici ec. di parole, tutti propri di Dante e di Petrarca, ma di frasi intere e d’interi emistichi di questi poeti, dall’autore dissimulatamente appropriatisi e convertiti all’uso della sua prosa. Nè tali voci, frasi ec. riescono in lui punto poetiche, ma convenientissimamente prosaiche. Altrettanto fanno più o meno molti altri autori del cinquecento, massime i più eleganti, ma lo Speroni singolarmente. Or andate e ditemi che altrettanto potessero fare, non pur i prosatori greci con Omero, o altro lor poeta, ma i latini con Virgilio ec. benchè il latino non abbia linguaggio poetico distinto. Che vuol dir ciò dunque, se non che il linguaggio di Dante e Petrarca era poco o nulla distinto da quel della prosa? Onde i prosatori potevano farne lor pro, anche a sazietà, senza dar nel poetico. Le voci e frasi e significati più poetici ed eleganti di Petrarca Dante ec. tengono come un luogo di mezzo tra il prosaico e il poetico, onde in una prosa alta, com’è quella dello Speroni, ci stanno naturalissimamente. P. e. talento in quel significato Che la ragion sommettono al talento. Non si sa ben dire se sia più del verso che della prosa. Vedilo benissimo usato dallo Speroni ne’ Diall. Ven. 1596. p. 69. fine. Altri, e non pochi, prosatori del 500, siccome nel 300 il Boccaccio, davano nel poetico sconveniente alla prosa, adoperando a ribocco e senza giudizio le voci, le significazioni, le metafore, le frasi, gli ornamenti, l’epitetare ec. sì di Dante e Petrarca sì de’ poeti del 500. stesso. E ciò per la medesima ragione per cui i detti poeti adoperavano le frasi e voci ec. della prosa, come a pagg. 3414. segg. Ciò era perchè i termini fra il linguaggio della poesia e della prosa non erano ancora ben stabiliti nella nostra lingua. Onde come noi non avevamo ancora un linguaggio propriamente poetico bene stabilito e determinato, (p. 3414. 3416.), così nè anche un linguaggio prosaico. Nella stessa guisa (ma però molto meno) che i francesi non hanno quasi altra prosa che poetica, perchè appunto non hanno lingua propriamente poetica, distinta e determinata, e assegnata senza controversia alla poesia (veggansi le p. 3404-5. 3420-1. 3429. e il pensiero seguente). Nessun buon autore del seicento, del sette e dell’ottocento dà nel poetico come molti buoni e classici del 500 (non ostante nel 600 la gran peste dello stile derivata appunto dal cercare il florido, il sublime, il metaforico, lo straordinario modo di parlare e di esprimere checchessia, il fantastico, l’immaginoso, l’ingegnoso; e consistente in queste qualità ec. peste che nel 500 ancor non regnava, eppur tanto regnava il florido e il poetico nella prosa, quanto non mai nelle buone e classiche prose del 600: segno che quel vizio nel 500. veniva da altra cagione, e ciò era quella che si è detta). Nessuno oggi (nè nei due ultimi secoli) per poco che abbia, non pur di giudizio, ma sol di pratica nelle buone lettere sarebbe capace di peccare, scrivendo in prosa, per poeticità di stile e linguaggio, altrettanto quanto nell’ottimo ed aureo secolo del 500. (mentre il nostro è ferreo) peccavano gli ottimi ingegni nelle classiche prose, sì nel linguaggio, sì nello stile, che quello si tira dietro (p. 3429. fine). E come ho detto a pagg. 3417-9. che il linguaggio propriamente poetico in Italia non fu pienamente determinato, stabilito, e distinto e separato dal prosaico, se non dopo il cinquecento, e massime in questo e nella fine dell’ultimo secolo; così si deve dire del linguaggio prosaico, quanto all’essere così esattamente determinato ch’ei non possa mai confondersi col poetico, nè dar nel poetico senza biasimo ec. Il che non ha potuto perfettamente essere finchè i termini fra questi due linguaggi non sono stati fermamente posti, e chiaramente precisamente incontrovertibilmente segnati, tirati, descritti. Onde il linguaggio perfettamente proprio e particolare della prosa, e il perfettamente proprio e particolare della poesia sono dovuti venire in essere a un medesimo tempo, e non prima l’uno che l’altro (o non prima esser perfetto ec. ec. l’uno che l’altro, e crescer del pari quanto alla loro prosaicità e poeticità); perchè ciascun de’ due è rispettivo all’altro ec. ec. (30. Sett. 1823.).

Alla p. 2911. marg. La lingua ebraica è poetica ancor nella prosa, per quella sua estrema povertà, della quale altrove ho ragionato, mostrando come in ciascuna sua parola cento significati si debbano accozzare e si accozzino, conforme accadde a principio in ciascheduna lingua, finchè col variare o per inflessione, o per derivazione, o per composizione, o con altra modificazione le poche radici a seconda de’ loro vari significati, si venne d’una sola parola a farne moltissime, e di poche, infinite; per modo che ciascun significato de’ tanti che dapprima erano riuniti in un solo vocabolo, non per esser trasportato ad altra parola, ma come per suddivisione o emanazione o altra varia modificazione di quello stesso primo vocabolo, ebbe una parola per se, o con poca e discreta compagnia d’altri significati.

Or dunque non potendo quasi la prosa ebraica usar parola che non formicolasse di significazioni, essa doveva necessariamente riuscir poetica e per la moltiplicità delle idee che doveva risvegliare ciascuna parola, (cosa poetichissima, come altrove ho detto);e perchè essa parola non poteva dare ad intendere il concetto del prosatore se non in modo vago e indeterminato e generale come si fa nella poesia; e perchè quasi tutte le cose, eccetto pochissime si dovevano esprimere con voci improprie e traslate (ch’è il modo poetico); cosa che in tutte le lingue intravviene, rigorosamente parlando, ma non si sente, se non alcune volte, la traslazione, perchè l’uso l’ha trasformata, quasi o del tutto, in proprietà; laddove ciò non poteva aver fatto nella lingua ebraica, la qual se toglieva a una parola il significato proprio in modo che il traslato divenisse padrone e paresse proprio esso, al vero proprio che cosa poteva restare in tanta povertà? sentivasi dunque sempre, anche nella prosa ebraica, la traslazione, perchè la voce, insieme co’ sensi traslati, riteneva il proprio. Tale pertanto essendo la lingua destinata alla prosa, necessariamente anche lo stile del prosatore doveva esser poetico, siccome per la contraria ragione i primitivi poeti latini italiani ec. non trovando nella lingua voci poetiche, furono necessitati a tenersi in uno stile che avesse del familiare, come altrove ho detto.

La prosa ebraica era dunque poetica per difetto e mancamento, e perchè la lingua scarseggiava di voci. Non così la prosa francese, la qual è per lo più poetica, mentre la lingua abbonda di voci, come ho detto altrove. Ma essa prosa è poetica perchè la lingua francese scarseggia, e si può dir, manca di voci poetiche, cioè di voci antiche ed eleganti propriamente, cioè peregrine ec. E vedi il pensiero antecedente con quello a cui esso si riferisce. Le voci ebraiche sono tutte poetiche non appostatamente, nè perchè usate da’ poeti, nè perchè fatte ad esser poetiche e destinate all’uso della poesia, nè perchè peregrine o per antichità, o per traslazione ec. ma per causa materiale ed estrinseca, e semplicemente perchè son poche. E la lingua ebraica è tutta poetica materialmente, cioè semplicemente perciocch’è povera. E lo stile e la prosa ebraica sono poetiche stante la semplice povertà della lingua. Qualità comune a tutte le lingue ne’ loro principii, insieme colla conseguenza di tal qualità, cioè insieme coll’esser poetiche. Non intendo però di escludere le altre ragioni non materiali che certo anch’esse grandemente contribuirono a render poetica la lingua, stile e prosa ebraica, cioè l’orientalismo e la somma antichità, del che vedi la pag. 3543. E questa seconda condizione influisce altresì grandemente e produce l’effetto medesimo in ciascun’altra lingua ne’ di lei principii, in ciascuna lingua che conserva il suo stato primitivo, in ciascun’altra lingua antichissima ec. Del resto la somma forza e il sommo ardire che si ammira nelle espressioni della Bibbia, e che si dà per un segno di divinità, (veggasi la p. citata qui sopra) non proviene in gran parte d’altronde che da vera impotenza e necessità, cioè da estrema povertà che obbliga a un estremo ardire nelle traslazioni e in qualsivoglia applicazione di significati, a tirar le metafore di lontanissimo ec. (1 Ottobre, giorno in cui s’intese la creazione del nuovo Papa. 1823.).

Della corruzione, degenerazione, snaturamento, deterioramento ec. delle generazioni degli uomini civili, e degli animali dagli uomini dimesticati, cioè alterati, snaturati e corrotti, in quanto tal deterioramento viene da cause fisiche, e in quanto la civiltà dell’uomo ec. opera fisicamente sulla generazione, è da esser veduto il Discorso o Lettera del tempo del partorire delle donne di Sperone Speroni, che tiene il 3.o. luogo tra’ suoi Dialoghi, Venez. 1596. p. 53-54. principio. (1. Ottobre. 1823.).

Δῆλον δ' ὡς καρτεροῦσι πολλὴν κακοπάθειαν οἱ πολλοὶ τῶν ἀνθρώπων γλιχόμενοι τοῦ ζῆν, ὡς ἐνούσης τινὸς εὐημερίας (prosperitatis. Victorius) ἐν αὐτῷ καὶ γλυκύτητος φυσικῆς. Aristot. Polit. l. 3. ed. Flor. Iunt. 1576. p. 211. (1. Ottobre. 1823.).

A ciò che ho detto del nostro usare, usar, user continuativo di utor-usus, aggiungi il nostro abusare, abusar, abuser, continuativo di abutor abusus, e v. il Gloss. se ha nulla. Oltre disusare, ausare o adusare ec. (1. Ott. 1823.).

Cuso as continuativo di cudo-cusus. V. il Forcell. e le cose da me dette in proposito di accuso, excuso, recuso, incuso e simili. (1. Ott. 1823.).

Curtare (cortar spagn. accortare, scortare coll’o stretto, accorciare ec. ital. accourcir ec. franc.) viene da curtus. Così decurtare ec. Ma curtus che cos’è? forse un semplice aggettivo? Signor no, ma egli è senza fallo originariamente un participio (come insinua anche la sua forma materiale e il modo della sua significazione e del suo uso assolutamente e generalmente considerato) di un verbo di cui curtare è continuativo. E questo verbo perduto era un curo o cero o ciro o simile da κουρεύω o da κείρω, tondeo, scindo, abscindo. Curtare per tondere vedilo nell’ultimo esempio del Forcellini; il qual luogo non sarebbe stato tentato dai critici, o forse guasto dagli amanuensi se avessero saputo e considerato questa certissima etimologia e formazione di curtare che, secondo le norme della nostra teoria de’ continuativi, qui dichiariamo. La qual etimologia indica ancora il proprio significato di curtare ch’è appunto tondere, creduto finora al più metaforico, e il proprio significato di curtus che è tonsus. Questo verbo originario di curtare, e affatto conforme a un verbo greco della stessa significazione è da riporsi insieme con quelli che abbiamo dimostrato per mezzo di gustare, potare e s’altri tali n’abbiamo accennati, conformi ai greci πόω γεύω [a]

γεύω propriam. è gustare facio. Trovasi però in Erodoto p. gusto ch’è (o dicesi da’ Lessicografi) il proprio di γεύομαι. Così ἵζω e ἱζάνω co’ composti loro, che propriam. sono attivi, e valgono sedere facio ec. s’usano a ogni tratto in senso neutro, p. sedere ec. che è il proprio de’ loro passivi. E così, credo, avviene in altri tali verbi. Onde guo in lat. potè ben essere propriam. gusto neut.

[Chiudi] che altrettanto vagliono quanto essi verbi ignoti, e quanto i loro noti continuativi, non altrimenti che κείρω vaglia il medesimo che curto. E il discorso e le ragioni addotte per li suddetti verbi, si ripetano in proposito di questo. La forma di questo verbo doveva essere, s’io non m’inganno, e s’è lecito il congetturare, curo is, curti, curtum, ovvero cureo es ui tum, ovvero anche curo as curui curtum, come neco as ui ctum, seco as ui ctum, eneco as ui ctum, reseco ec. i quali supini sembrano contratti da necitum, secitum (non già necatum, secatum), fatti alla forma di domitum da domo as ui, cubitum di cubo as ui [a] ec. Onde il primitivo e intero sarebbe curitum, curitus p. curtus. (1. Ott. 1823.).

Risito da rideo-risus. (1. Ott. 1823.).

Alla p. 3542. A questo discorso appartengono oltre i verbi in uare, e i nomi in uosus, anche i nomi in ualis che son sempre fatti da’ nomi della quarta o da’ nomi in uus ec. ec. altrimenti tali nomi fanno alis semplicemente[b]

Manuarius, Manuatus sum (da manuo o manuor), Mortualia, Mortuarius, Mortuosus, Flexuosus, Flexuose. Portuosus, saltuosus, flatuoso.

[Chiudi]. Come ritualis, manualis, tonitrualis ec. ec. da ritus us ec..E così appartengono a questo discorso gli altri o nomi aggettivi o sustantivi, o avverbi, o voci qualunque derivative, che hanno l’u davanti alla desinenza propria della loro specie particolare, qualunque sia e la desinenza e la specie ec. (1. Ott. 1823.).

Alla p. 3541. Il primitivo e proprio significato di spes non fu già lo sperare ma l’aspettare indeterminatamente al bene o al male. V. Forc. in Spes, Spero ec. insperatus ec. Sveton. in Iul. Caes. c. 60. par. 1. e quivi il Pitisco, i greci in Ἐλπὶς, ἐλπίζω ec. gli spagn. in esperar, inesperado ec. ec. gl’it. in speranza, sperare ec. insperato ec. (oggi nel discorso civile non mai, nella scrittura di rado, nel volgare e plebeo discorso conservatore perpetuo dell’antichità spessissimo e più frequentemente ancora che nelle nostre antiche scritture, si usa speranza, sperare ec. p. aspettare semplicemente[c]

Anche ne’ nostri antichi scrittori questo uso di sperare ec. non sembra esser che volgare.

[Chiudi] e anche per l’aspettativa determinata al male, ossia il timore, ma in tal caso non s’usa cred’io che negativamente, oppure non vuole indicar propriamente il timore, ma solo l’aspettativa del male, benchè questo naturalmente sia temibile: come in un autore spagnuolo, estavan esperando la muerte, non vuol dir che la temessero, benchè certo la temevano, ma e’ vuol dir solo che s’aspettavano di dover morire, ed esperar ha riguardo alla semplice opinione e giudizio del futuro, non al piacere o dispiacere che da tal giudizio e opinione ci deriva, e al male o bene che dal futuro ci verrà o si aspetta, ed al desiderio o nondesiderio e avversazione del medesimo ec. al che ha pur riguardo la voce timore ec. e la voce speranza ec. nel nostro senso, che vale aspettativa con piacere, con desiderio ec. ec.[a]) Richelet in espérer ec. Il detto significato ch’è certamente il primitivo e proprio di spes (e non quello che le dà il Forcellini) rende più probabile che spes sia voce delle primitive, perocchè l’aspettare, l’aspettativa è un’idea che dovette esser tra le prime dinominate, e innanzi allo sperare ec. ch’è una specie dell’aspettare, e un’idea troppo sottile e metafisica ec. ec. (1. Ott. 1823.).

Alla p. 3077. È da notare che gli argomenti ch’io traggo da tali participii spagnuoli a dimostrare gli antichi participii latini regolari ec. (e così sempre che dallo spagnuolo io argomento all’antico latino, al volgare ec.), sono tanto più valevoli, quanto siccome la lingua francese è nell’estrinseco e nell’intrinseco, fra tutte le figlie della latina, la più remota e alterata dalla lingua madre (secondo ho detto altrove), così la spagnuola è nell’estrinseco la più vicina[b]

V. p. 3818.

[Chiudi], mentre però nell’intrinseco lo è la italiana, come altrove ho distinto. Ma dell’intrinseco poco ha che fare il nostro discorso. La lingua spagnuola che per la forma esteriore delle parole ha più di tutte le sue sorelle ereditato dalla latina, e che più di tutte le lingue, a sentirla leggere o a vederla scritta, rappresenta l’esterna faccia e il suono della latina e può con essa esser confusa; dev’esser considerata come speciale e principale conservatrice dell’antichità, della latinità, del volgar latino ec. quanto alla material forma delle parole e alla proprietà delle loro inflessioni ec. che è quello che ora c’importa. La qual conformità particolare col latino si può notar nello spagnuolo da per tutto, ma nominatamente e singolarmente e forse più ch’altrove, nelle coniugazioni de’ verbi, il che fa appunto al nostro caso. amo, amas, amat, amamus (lo spagnuolo muta l’u in o, e questa è la sola mutazione in tutto questo tempo), amatis, amant. Leggansi le sole maiuscole, e s’avrà la coniugazione spagnuola. La quale in questo tempo è tutta latina, salvo l’omissione del t in tre soli luoghi[a], e la mutazione dell’u in o in un luogo, mutazione pur tutta latina (vulgus-volgus ec. ec. ec.) e propria senz’alcun dubbio, anche in questo caso, o di tutto l’antico volgo che parlò latino, o di molte parti e dialetti di esso. Infatti tal mutazione non solo è propria e dell’italiano e del francese in questo medesimo caso sempre, ma ordinarissima e quasi perpetua (massime nell’italiano) in quasi tutti o nella più parte degli altri casi, sì nelle desinenze, sì nel mezzo delle parole o nel principio. V-u-lg-u-s-V-o-lg-o[b]. La congiugazione italiana è ben più mutata, e molto più dell’italiana la francese. Basta a noi che le regole e le inflessioni della coniugazione latina sieno specialmente conservate nella spagnuola, ancorchè gli elementi del verbo che non toccano l’inflessione e la regola della coniugazione sieno alterati, o soppressi ec. Come leo è mutato da lego. Ma la coniugazione di quello essendo similissima alla coniugazione di questo, l’omissione del g, in cui consiste l’alterazione di quello, non indebolisce punto l’argomento che dal suo participio leido si cava a dimostrare il latino corrispondente legitus. E così discorrete degli altri casi e argomenti, o sieno dintorno a’ participii, o a checchessia ch’appartenga alle forme generali della congiugazione od’altro ec.

È da notare che la suddetta specialissima conformità colla lingua latina, nella quale conformità la spagnuola vince tutte l’altre, fu da questa ed è propriamente conservata[c]

V. p. 3638.

[Chiudi]; e che avvenga che la conformità dell’intrinseco sia di molto maggior peso che non l’estrinseca, nondimeno se la lingua italiana nella conformità col carattere della latina, vince la spagnuola e con essa tutte l’altre moderne, questa conformità non si può dir propriamente da lei conservata, ma riacquistata, e non rimastagli naturalmente e spontaneamente da se, ma restituitagli con arte, dopo già perduta. Perocch’ella fu in grandissima parte opera de’ nostri letterati che la lingua italiana modellarono sulla latina. E così accade generalmente che il carattere di ciascuna lingua è formato e determinato dalla sua letteratura. (Ben è vero che il carattere di questa corrisponde al carattere nazionale, e ch’ella non potrebbe già andar contra la natura e l’inclinazione della lingua, o ciò facendo, non riuscirebbe, o malissimi effetti partorirebbe e poco durevoli). Ma l’estrinseca forma non si conserva se non se naturalmente, e perduta che fosse, quasi impossibile sarebbe il ricuperarla (siccome la forma intrinseca di nostra lingua, o s’attribuisca alla letteratura o a che che si voglia, dovrà sempre dirsi, non propriamente conservata, ma ricuperata). Laonde si può dire veramente che, quanto è alla natura e al popolo, la latinità si è meglio e in maggior parte e più propriamente conservata e conservasi in Ispagna che in alcun’altra parte del mondo. (Per lo meno quanto alle voci e alle norme e regole delle loro inflessioni e modificazioni, perchè quanto alle frasi, anche senza uscir del popolo, pare che la latinità rimanga e siasi sempre conservata ben più in Italia, com’è di ragione, che altrove, dove forse, parlando di locuzioni popolari, neppur s’introdusse mai quel che tra noi si conserva ancora, o se n’introdusse assai meno, o con differenze nate dalle lingue indigene e dalle diversità de’ climi e dall’altre circostanze. Or quel che mai non fu introdotto, o che fu diverso nell’introdursi, non potea conservarsi).

Questa mirabile e così lunga conservazione di sì speciale conformità col latino nella lingua spagnuola, conformità che passa quella conservata nella stessa sede dell’antico latino, cioè in Italia, dee riconoscersi dalle stesse circostanze che rendono e sempre resero gli spagnuoli, o loro permisero e permettono di essere così tenaci de’ loro istituti, costumi, opinioni, religione ec.; così stazionari nel loro carattere, nel grado della loro civiltà; così lenti ne’ loro progressi sociali ec. tanto che oggidì, dopo il rapido corso incominciato e tenuto dalle altre nazioni nell’ultimo secolo, la Spagna, a paragone del resto d’Europa, viene ad aver più del barbaro che del civile: (onde è famoso il detto, mi pare, di Mons. de Pradt, che la Spagna appartenendo all’Africa, per isbaglio geografico si fa parte d’Europa). La stessa gravità e posatezza delle maniere negl’individui spagnuoli, la lunghezza delle lor cerimonie, de’ loro preparativi alle operazioni manco importanti, e cose simili, sono indizio della stabilità del carattere, costumi e opinioni nazionali; perchè generalmente, come tutte le cose in natura osservano la legge dell’analogia, gl’individui delle nazioni lente ne progressi sociali, letterarii e simili, e tenaci del loro essere, sono tardi nell’operare e di carattere riposato, e dove gl’individui son tali, tale è la nazione, e per lo contrario nel caso opposto. E così discorrasi di ciascun’altra qualità nazionale, che suol generalmente trovarsi ritratta e quasi compendiata negl’individui.

Or tornando al proposito, le dette circostanze si possono dividere in geografiche, naturali e storiche. Se guardiamo alle prime, il sito della Spagna ch’è in uno estremo d’Europa, facendola poco frequentata dagli stranieri, rende la nazione poco soggetta a variarsi. Le seconde sono il clima, e il carattere nazionale in quanto alla parte fisica. Questo negli spagnuoli è pigro e molle e vago del riposare e dello stare più che dell’azione e del movimento, o certo capace di contentarsi facilmente del riposo, per poco che l’operare gli sia impedito o reso difficile. Così suole ne’ climi caldi e felici. La terra molle e lieta e dilettosa Simili a se gli abitator produce ( Tasso Gerus. i. 62.) Le circostanze istoriche corrispondono alle suddette, e da esse sono influite e modificate ordinariamente, onde sono piuttosto da considerar com’effetti che come cagioni. Pur non lasciano talvolta di esser eziandio cagioni. Considerandole rispetto alla Spagna, le troveremo essere or l’uno or l’altro, onde talvolta le troveremo come sorelle di quell’effetto di cui cerchiamo l’origine (dico della singolare conservazione della latinità), talvolta come madri.

Nella generale inondazione di barbari che infestò le contrade culte di Europa, la Spagna non ebbe (credo) che i Vandali, (o gli Ostrogoti) ec. i quali anche poco vi si mantennero; certo assai meno che in Italia non fecero i Goti, i Longobardi e i tanti e sì varii popoli che la travagliarono e vi fondarono e tennero regni ec. La Spagna ebbe lunghissimo tempo i mori, e questi, potenti e regnanti. Ma che, non le religioni, non le lingue, non i costumi, non il sangue di questi conquistatori stranieri e degl’indigeni e in gran parte sudditi, si mescolarono insieme mai. Due sangui, due religioni, due lingue, due maniere di vita, in somma due nazioni diversissime, contrarie, nemiche, perseverarono sempre in Ispagna, e sempre divise e ben distinte l’una dall’altra, benchè sempre l’una accanto all’altra, e materialmente confuse insieme, e sugli occhi l’una dell’altra. Nè il maomettano riconobbe mai Cristo, nè il Cristiano Maometto, nè l’arabo lasciò la sua lingua per la spagnuola, nè lo spagnuolo succhiò mai col latte altra lingua che l’indigena. Cosa mirabile e che non ha, credo, altro esempio oltre di questo, se non quello de’ greci e de’ turchi, il quale ancor dura, e che altrove ho considerato parlando della singolare tenacità de’ greci rispetto ai loro costumi, pratiche ec. come alla lingua. Tenacità in cui i greci non hanno forse pari altra nazione che la spagnuola, nè la spagnuola forse altra che la greca. E ben corrisponde la parità o somiglianza dei climi e delle qualità del cielo e del suolo in ambo i paesi. E corrisponde eziandio la qualità degli stranieri, ambo arabi, non di origine, ma di lingua (se non m’inganno), ed ambo maomettani di religione; i mori di Spagna e i turchi. Con questa differenza però a favor della Spagna, che laddove i turchi barbari e ignorantissimi vennero in un paese civile e dotto, e barbari regnano sopra una gente per lor cagione imbarbarita, e non più coltivata; i mori non barbari vennero in un paese già rozzo, e quasi civili regnarono in un paese molto men civile di loro. Ebbero i mori in Ispagna un’estesissima letteratura, e piene sono le biblioteche spagnuole e straniere delle loro opere (alcune, come quelle di Averroe, note per traduzioni e celebri in tutta Europa). Nè per tanto poterono essi introdurre nè lasciare la loro letteratura (ch’era pur l’unica a que’ tempi in Europa) tra gli spagnuoli che niuna ne avevano; nè la loro civiltà (altresì unica); nè col mezzo ed aiuto di questa e della letteratura, la loro lingua; nè poteron fare che nella Spagna mezza coperta e dominata da stranieri di diversissimo linguaggio e costume, e questi civili e letterati, e ciò per lunghissimo tempo, non si conservasse la lingua indigena, quanto è al popolo, assai meglio che nelle altre nazioni partecipi della stessa lingua, le quali non ebbero mai stranieri nè civili nè letterati, e quei barbari che ebbero, o gli ebbero per molto minore spazio di tempo, o ben tosto naturalizzati di costumi, di religione ec.

Al contrario della Spagna, e della Grecia, i franchi nelle Gallie mescolarono ben tosto coi nazionali ogni cosa; genere, sangue, nozze, costumi, lingua, fede, mutando i vincitori barbari tutte le lor qualità e il lor carattere istesso in quello de’ vinti civili. Così proporzionatamente in Italia i goti, i Longobardi ec. Or questa mescolanza appunto nocque alla conservazione delle qualità indigene in questi due paesi, e nominatamente a quella della lingua, della qual discorriamo. I franchi non poterono divenir Galli, nè i goti ec. italiani, senza che i Galli divenissero in molte parti Franchi, (come appunto poi sempre si chiamarono e chiamano), e gl’italiani goti.

Finalmente la Spagna non mai intieramente soggettata e signoreggiata da’ mori (a differenza della Grecia) estirpò e scacciò affatto gli stranieri dal suo seno. E non solo gli stranieri, ma con essi la lor fede, lingua, letteratura, costumi e tutto. E non solo tutto questo, ma eziandio il sangue e il genere straniero, che non mai potutosi mescolare col nazionale, tutto intero quasi, fu finalmente rigettato fuori dalla nazione, restando questa così puramente spagnuola di sangue (parlando senza guardare alle minuzie) come l’olio resta puro quando si separa da qualche liquore a cui non siasi mai punto commisto. (E voglia Dio che anche in quest’ultima parte la storia de’ greci rispetto a’ maomettani sia conforme a quella degli spagnuoli, com’ella è nel resto, e come i greci oggi proccurano).

Laddove nella Gallia i Franchi sempre regnarono, e spento il nome stesso de’ nazionali, e mutatolo nel loro proprio, e confusi intieramente con essi, ancora regnano, sicchè, quanto al sangue, non si può dir se quella nazione sia piuttosto Gallese o Franca, quanto alla religione è Gallese, quanto ai costumi e alla lingua è parte Gallese (cioè latina) parte franca, benchè l’indigeno prevalga, ma non quanto in Ispagna. Similmente discorrete dell’Italia.

Della storia moderna di Spagna, della sua tenacissima fede e superstizione, onde quanto alla religione ella è ancora, si può dire, oggidì nè più nè meno qual fu quando scacciò i mori, e qual fu prima de’ mori e dello stesso Maometto, e qual fu la Cristianità generalmente ne’ bassi tempi, a differenza di tutte l’altre moderne nazioni cristiane, e anche non cristiane; della mirabile antichità, per così dir, di carattere da lei mostrata negli ultimi tempi, non accade parlare, essendo cose assai note. E veggansi le pagg. 3394-6. (1-2. Ott. 1823.).

Glisser– γλίσχρος lubricus. (3. Ott. 1823.).

Alla p. 3544. Di unus per primus ve n’ha un solo esempio nel Forcell. ed è l’ottavo da lui portato alla voce Unus, preso da Cic. de Senect. c. 5. ma il Forcellini non vi nota il significato di primus. Puoi vederlo ancora in duo, tres ec. se avesse nulla in proposito. (3. Ott. 1823.).

Assulito per assulto da assilio. Resilito per resulto da resilio. V. Forcell. Ambedue queste voci sono bonissime, e dimostrano l’antico e vero ed intero participio di salio, cioè salitus (salito, salido, sailli), poi contratto in saltus (o sup. saltum). E confermano le mie osservazioni e opinioni sopra le primitive, regolari ed intere forme de’ participii o supini. Se avessero potuto considerare queste opinioni, e se avessero bene osservato che i continuativi e i frequentativi in ito si formano da’ participii o supini, i Critici non si sarebbero maravigliati dei suddetti due verbi, nè gli avrebbero tentati con diverse lezioni, e fors’anche scacciati assolutamente da’ testi ov’essi si trovano (de’ quali bisogna vedere l’ultime edizioni). (3. Ott. 1823.). V. p. 3845.

Alla p. 2821. Che tutto ciò sia vero, e della derivazione di confutare ec. da fundo, e del participio futus per fusus ec. osservisi il nostro rifiutare, ossia il latino refutare (che significa sovente lo stesso), dirsi nel francese, refuser e nello spagnuolo, refusar o rehusar, come da refusus o da fusus, noti participii di fundo o refundo. Eppur tanto sono i verbi francese e spagnuolo quanto l’italiano e il latino. I francesi hanno anche réfuter in altro senso, (ch’è il proprio di refuto e il più frequente) ma questo è certamente molto meno volgare e più moderno (benchè non moderno) di refuser, e non conservato ma ricuperato per mezzo degli scrittori ec. non del popolo, e non continuatamente pervenuto dalla lingua latina nella francese.

Al qual proposito, parlando delle lingue moderne figlie, rispetto alla lingua madre, e volendo argomentare da questa a quelle, o viceversa, o tra loro ec. in materia di antichità ec. bisogna nelle lingue moderne molto accuratamente distinguere tra voci e frasi latine conservate, e voci e frasi ricuperate, per mezzo della letteratura, filosofia, politica, giurisprudenza, diplomatica ec. ec. che sono infinite, e possono anche essere molto antiche; ma da queste alle latine sarà sempre o nullo o debolissimo l’argomento, per chi pretenda investigarvi le antichità della lingua ec. Al contrario nelle voci e frasi conservate cioè trasmesse per continua e perpetua successione dall’antico e talora dall’antichissimo e primitivo latino fino alle lingue moderne per mezzo del latino volgare. V. p. 3637. Simile distinzione è quella che convien fare nella lingua latina rispetto alle voci greche, cioè tra quelle introdotte dagli scrittori ec. e quelle antiche e veramente popolari ec. Così nell’inglese rispetto alle voci francesi ec. (3. Ott. 1823.).

Diciamo volgarmente e con eleganza scriviamo, senz’altro pensare, senz’altro dire o fare, senz’altro preparativo, senz’altra cura senz’altro curarsene e simili, per senza nulla pensare, senza niun preparativo, niuna cura ec. Nelle quali frasi la voce altro ridonda, e s’usa per pleonasmo, venendo in somma quelle locuzioni a dire senza pensare (anche il nulla è inutile qui, perchè il senza privativo, unito a pensare, comprende il detto vocabolo, giacchè chi non pensa, nulla pensa), senza preparativo, cura, (e qui pure sarebbe pleonastico il niuno, sebben s’usa, come il nulla nel caso sopraddetto) senza curarsene ec. Veggasi lo Speroni, solertissimo raccoglitore, e larghissimo spenditore delle più fine e più varie e moltiplici eleganze di nostra lingua; nel Discorso o lettera Del tempo del partorire delle donne, che tiene il terzo luogo fra’ suoi Dialoghi Ven. 1596. p. 53. lin. penultima. Or confrontisi questo mero idiotismo italiano, e proprio tutto della lingua, e perciò elegante collo stessissimo idiotismo usitato nella lingua greca ed attica da’ più eleganti e studiati scrittori. V. Creuzer Meletemata ex disciplina antiquitatis, par. 1. Lips. 1817. p. 86. not. 62. e Platone nel Convito ed. Astii Lips. 1819. sqq. t. 3. p. 472. B. v. 1. e p. 532. v. 7. Ai quali esempi è anche più conforme quello del Petrarca recato dalla Crusca alla voce Altro dalla Canz. 18.6. dove altra parimente e manifestissimamente ridonda, anzi pare affatto fuor di luogo e contraddittorio, come appunto in alcuni de’ passi greci che son da vedere ne’ luoghi accennati. E così un altro esempio dello Speroni nel Dialogo della Retorica. Diall. Ven. 1596. p. 153. lin.26. e Dial. 10. p. 207. lin. ult. Vedi ancora il Forcellini se ha nulla. Senz’altro vale similmente alcune volte senza nulla, semplicemente, onninamente ec. V. p. 3885. Così ἄλλως, del che vedi le mie Annotaz. all’Eusebio del Mai. (3. Ott. 1823.).

Alla p. 3080. Assaltare, assaltar è un continuativo latino-barbaro di assalire pur latino-barbaro, ed è nella stessa significazione di questo. (V. il Glossar. in Assaltare, Assalire, Adsalire ec.). Laddove sobresaltar è in significato diverso da sobresalir (saltar conserva il significato latino, ma salir non già, se non alla lontana o in parte ec. V. il Forcell. ), e non ha con esso niuna analogia di significazione. Così risaltare e risalire; da ambedue i quali è affatto diverso e lontano di significato il nostro risultare o resultare (resultar, résulter), e da questo e da quelli il latino resulto (V. il Glossar. ). Resulto però e risultare ec. sono per origine gli stessi che risaltare, e vengono entrambi da resilire, che noi diciamo risalire con corrotta significazione. (rejallir forse è lo stesso che resilire, e jallir per origine lo stesso che saillir, e salire lat. come anche, in parte, per significato.) Così assaltare è per origine lo stesso che assultare (vera forma latina di questo verbo), il quale ha anche talvolta una significazione o uguale o simile a quella di assaltare, come pure assilire. (V. Forc. in assilio ed assulto, e il Gloss. in adsalire e assultare ec.[a]

Divenire-diventare fa a questo proposito.

[Chiudi]) Continuativo affatto italiano di un verbo affatto italiano, ma pur continuativo formato alla latina, cioè dal participio del verbo originale, si è scortare (coll’o largo) da scorto di scorgere in significato di guidare ec. (se pur non fosse da scorta sostantivo: i francesi hanno escorte ed escorter). Il qual verbo scorgere fratello di accorgere (e s’altro n’abbiamo di cotali) è tutto italiano, non men che accorgere ec. ma forse questi verbi vengono originariamente per corruzione di forma e traslazione di significato ec. dal latino corrigere. V. il Gloss. se ha niente in proposito. Forse vi fu un excorrigere (scorgere), un adcorrigere (accorgere) ec. E la metafora sarebbe al contrario di avvisare, che dal vedere è passato all’ammonire ec. (v. il detto altrove di questo verbo avvisare). Laddove scorgere dall’ammonire (correggere) sarebbe passato al vedere. Ma l’uno e l’altro significato si troverebbe appresso a poco in accorgere (accorgimento, accortezza ec.), come appunto in avvisare (avviso per opinione, accortezza; avvisamento; avvisato per accorto ec. ec.). Del resto scorgere sarebbe contratto da corrigere come porgere da porrigere, e simili. (3. Ott. 1823.).

Alla p. 3526. Gran difetto però è nella Gerusalemme l’aver voluto compensare e bilanciare insieme i meriti, l’importanza, le parti di Goffredo e quelle di Rinaldo, e l’interesse per l’uno e per l’altro. Da ciò segue che l’interesse è veramente doppio, come nell’Iliade, ma non, come in questa diverso. E perciò appunto, contro quello che a prima vista si potrebbe giudicare, l’uno interesse nuoce all’altro e l’indebolisce; voglio dire perchè l’interesse è altro senza esser diverso, cioè concorre nella medesima parte, ch’è la cristiana, ed al medesimo fine, ch’è il buon esito dell’impresa de’ Cristiani. Due interessi affatto diversi, e lontani l’uno dall’altro, possono non pregiudicarsi nè indebolirsi l’un l’altro. E così accade ne’ due interessi d’Ettore e d’Achille, i quali cadono sopra due contrarie parti la greca e la troiana, e l’uno nasce dalla sventura, l’altro dalla felicità. Ma due interessi posti strettamente a lato l’uno dell’altro, prodotti ambedue dalla fortuna ec. miranti ambedue ad un medesimo fine, non possono non farsi ombra e non impedirsi scambievolmente. Ed essi non producono il bello effetto del contrasto di passioni nell’animo de’ lettori, e gli altri bellissimi e poetichissimi risultati che nascono ancora dalla lettura dell’Iliade, o nascevano per lo meno, al tempo e ne’ lettori o uditori per li quali ella fu composta.

Questa duplicità d’interesse, benchè paia non ripugnare all’unità (e così credette il Tasso, il quale si persuase poter con essa servire alla varietà e schivare l’uniformità, senza punto violar l’unità), o benchè paia, se non altro, ripugnare alla perfetta unità molto meno che non faccia la duplicità d’interesse nell’Iliade, nuoce però molto più di questa al fine per cui l’unità si prescrive. Il qual fine si è che l’interesse nell’animo de’ lettori non s’indebolisca col dividersi nè col distrarsi, e sia più forte come rivolto a un segno solo. Ora, come ho mostrato, la duplicità d’Eroe nella Gerusalemme indebolisce l’interesse nell’animo de’ lettori, molto più che non faccia nell’Iliade. E ciò appunto perchè quella duplicità concorre in una medesima parte, ed è rivolta a un segno medesimo, e perchè i due interessi son troppo vicini e del tutto concordi, e sono due, senza esser diversi. Nella Iliade dove essi sono tutto l’opposto, essi non solo s’indeboliscono meno, ma non s’indeboliscono punto, o certo l’interesse totale risultante dal poema nell’animo de’ lettori non pur non è indebolito dalla duplicità, ma a molti doppi accresciuto, e in buona parte assolutamente prodotto. Onde si confermano le mie osservazioni sulla necessità di un interesse veramente doppio, e di due interessi diversi, alla maniera che si vede nell’Iliade; e sul danno di quella unità che i precettisti hanno prescritta e che gli epici posteriori ad Omero si sono proposta. Perocchè, come ho mostrato in questo discorso, essa unità nuoce al suo medesimo fine, che è di far che l’interesse e l’effetto totale nel lettore sia più vivo essendo uno e indiviso, e mirando a un sol segno; chè altrimenti la prescritta unità non avrebbe ragione alcuna, ed il precetto sarebbe arbitrario, laddove il poeta dev’esser padrone della sua libertà in quanto l’esserlo e il disporne a suo modo non ripugna alla natura, e alla qualità e debito del poema epico. L’unità dunque da’ precettisti prescritta nel poema epico, pregiudicando e ripugnando al suo medesimo fine, è qualità non pur dannosa, ma vana ed assurda in se stessa e ne’ proprii termini.

Ritornando al Tasso, molto ingegnoso è quel modo in ch’egli proccura, quasi espressamente prevenendo le obbiezioni de’ rettorici, di mostrar l’accordo de’ suoi due Eroi nella sua opera, e che dal loro esser due, non nasca nel suo poema duplicità d’interesse. Parla l’anima di Ugone a Goffredo, e dice di Rinaldo (c. 14. stanza 13.) Perchè-lece . Colle quali parole poste nell’altrui bocca il Tasso viene molto chiaramente a dire ai pedanti e a’ detrattori in persona propria: Gli eroi del mio poema son due, ma l’interesse è un solo, perchè una è l’impresa e uno il fine a cui servono entrambi . Ma questa distinzione metafisica, accettata ancora e predicata da’ precettisti (indipendentemente dal negozio del Tasso), e da molti ancora di buon giudizio, non si avvera mai nell’animo de’ lettori[a]

Dicono i precettisti che le persone d’ugual merito possano esser più, purchè l’interesse sia un solo (così ne’ drammi, così nell’epopea ec.). E si pregiano molto di questa distinzione, come acuta e sottile e ben giudiziosa. Ora i due suddetti termini non possono stare insieme.

[Chiudi]. Due Eroi d’ugual merito, o che servano alla stessa impresa, o che ad imprese diverse, fanno nell’animo de’ lettori due distinti interessi (che tanto più s’offuscano l’uno coll’altro, quanto men sono diversi, e più tra loro somiglianti od uguali, e concordi): perocchè questi due Eroi sono sempre per verità, nell’animo de’ lettori, due ben separate persone, e non già una sola, come vorrebbe il Tasso, della quale l’un degli Eroi sia capo, l’altro mano; o sieno che che si voglia.

Provasi questa verità con effetto nella lettura della Gerusalemme. Ma siccome è soltanto supponibile, come il punto matematico, e non mai però vero il caso di un uomo che intra duo cibi distanti e moventi d’un modo, innanzi si muoia di fame che e’ si rechi a’ denti l’un d’essi cibi ( Dante Par. 4.), e tra due o più cose da scegliere, l’uomo trova sempre, e trovò, alcuna diversità che l’inclini e determini ad elegger l’una, e l’altra rifiutare; o quando non sia in sua mano l’eleggere, o non si tratti di sceglier coll’opera, è impossibile che egli coll’affetto (sia il desiderio, sia l’amore, sia il compiacimento, sia qualunqu’altro) non s’inclini più ad una cosa ch’a un’altra, o più da una che da un’altra non fugga; così non potendo accader che di due o più Eroi, quanto si voglia pari di merito, l’uno, per qualsiasi cagione, non prevaglia nell’animo de’ lettori, massime quando il loro merito sia di specie diverso; però è ben lungi che l’interesse nella Gerusalemme (piccolo e quasi morto com’egli è, secondo che ho detto altrove, e seppur v’è interesse alcuno) sia quanto al lettore con esatta parità di misura diviso tra Goffredo e Rinaldo. Ben è vero che l’uno di questi Eroi nuoce all’interesse dell’altro, ma pure, se il lettor prova nella Gerusalemme qualche interesse, ei non manca di scegliere tra’ due Eroi quello in che egli ne ponga la maggior parte, e forse anche tutto. Or questo Eroe prescelto (e me n’appello al testimonio di qualsivoglia lettore della Gerusalemme), contro l’intenzione del poeta, o certo contro il manifesto scopo del poema, e quindi contro il suo debito, e in pregiudizio del dovuto effetto e dell’unità (molto più che nell’Iliade ella, e lo scopo e il debito della qualità del poema non sono pregiudicati); questo eroe, dico, è Rinaldo; laddove tutte le dette cose volevano, prima, che l’interesse fosse uguale, anzi indiviso tra i due; poi per lo meno (essendo questo veramente per natura impossibile, perchè da una parte la duplicità degli Eroi non si può palliare ed eludere, come vorrebbe il Tasso, in modo veruno, sia quale si voglia, nè fare che il lettore se la dissimuli, considerando le due persone come una sola; dall’altra parte non si può togliere che tra’ due o più, il lettore non iscelga e non ponga l’uno innanzi all’altro, e se son più, l’un dopo l’altro per gradi) ch’ei fosse maggiore per Goffredo.

Ma Goffredo (e questo è un altro grandissimo, ed intimo, benchè poco o non mai osservato difetto della Gerusalemme, e benchè colpa della natura de’ tempi moderni e delle raffinate idee, anzi che del Tasso), Goffredo è personaggio pochissimo interessante, e forse nulla, perchè i suoi pregi e ’l suo valore son troppo morali. Egli è persona troppo seria, troppo poco, anzi niente amabile, benchè per ogni parte stimabile. E come può essere amabile un uomo assolutamente privo d’ogni passione, e tutto ragione? un carattere freddissimo? Difficilmente ancora può farsi amare chi non è o non apparisce capace per niun modo di amare. Ora il Tasso gli fa un pregio di questa incapacità. (c. 5. st. 61-4.) Achille è interessantissimo perch’egli è amabilissimo. Ed è amabilissimo non solamente a causa del suo sovrano valor personale, ma eziandio per la stessa ferocia, per la stessa intolleranza, per la stessa suscettibilità, veemenza ed impeto di carattere e di passioni, superbia, carattere e maniere disprezzanti (veri mezzi di farsi amare, e forse soli ec.) iracondo, incapace di sopportare un’ingiuria, soverchiatore, un poco étourdi, volage ec. e per lo stesso capriccio, qualità che congiunte colla gioventù e colla bellezza, e di più col coraggio, la forza e i tanti altri pregi, fortune, circostanze, e meriti reali di Achille, sono sempre amabilissime, e fanno amatissimo chi le possiede. Ciò avviene anche oggidì e sempre avverrà. (E veramente Achille è un personaggio completamente amabile: non sarebbe tale se mancasse dei detti difetti). Nondimeno s’elle si trovassero oggi in una persona civile in quel grado in cui Omero le dipinge in Achille, esse parrebbero certamente eccessive, e mal riuscirebbero; ma ben bisogna distinguere i tempi antichissimi da’ moderni, e la misura conveniente a nazioni semirozze da quella che può star bene nelle civili. Del resto poi il poema epico in qualunque secolo dee proporre un personaggio che sia singolare, e le cui qualità eccedano le ordinarie anche quanto alla misura. Questo personaggio non dev’esser solamente amabile ed ammirabile ma mirabilmente amabile, e singolarmente ammirabile. Il Tasso si guardò bene dal dar negli eccessi per questa parte, rispetto a Rinaldo. Ei gli diede le dette qualità, per le quali lo fece amabile (mentre Goffredo non lo è) e perchè amabile, interessante assai più di Goffredo (quanto può essere quel leggiero interesse che si prende per uomini non isventurati, e in impresa che non può più starci a cuore, secondo il già detto in tal proposito). Se il Tasso eccedette in Rinaldo, ciò fu piuttosto dal lato contrario. Cioè nel farlo ancor troppo ragionevole, troppo pio e devoto. Colle quali qualità ei si credette di ornarlo e renderlo più interessante, e si stimò in dovere di attribuirgliele, e facendo altrimenti avrebbe creduto di peccare, non solo contro la morale o la religione, ma contro la poesia e contro il buon giudizio e contro la proprietà del poema epico. Egli arriva sino a farlo confessare e far la sua penitenza sul monte Oliveto, prima di andare all’impresa del bosco (c. 18. stanza 6-17.). Egli avrebbe creduto lasciare una gran macchia nell’onor di Rinaldo e una grande mancanza nella stima de’ lettori verso di lui, s’e’ non gli avesse fatto purgar la coscienza ed assolverlo de’ peccati dell’uccision di Gernando e delle fornicazioni con Armida. Contuttociò il carattere di Rinaldo riesce bene amabile. Ma Goffredo non ha nè ferocia, nè capriccio, nè impeto, nè passione veruna; non è giovane, non risplende per bellezza; il suo coraggio e la sua prodezza di cuore e di mano piuttosto si afferma di quello che si dimostri e si faccia operare; i suoi pregi eroici si riducono ad una somma pietà e devozione e cura e zelo religioso (ma non superstizioso nè passionato in niun modo) e quasi santità, sì di pensieri, sì di parole e sì di fatti che lo fanno degno di visioni celesti e di conversar cogli Angeli e co’ Beati, e d’impetrare o far miracoli (v. fra gli altri luoghi c. 13. st. 70 e segg.), e ad un eccellente senno; qualità niente amabili, perchè tutte, per così dire, immateriali. Adunque Goffredo non è amabile, ma stimabile solamente. Adunque non è che pochissimo interessante o nulla; massime oggidì ch’è svanito l’interesse dell’impresa, come ho già detto a suo luogo, e quel zelo o fanatismo di religione, nel quale il Tasso lo fa singolare.

Difficilmente si può concepire vivo interesse per una persona, non solo finta, ma neppur vera e viva, senza una specie d’amore. Parlo di quello interesse che altrove ho distinto, cioè che ne’ poemi o romanzi o storie o simili non nasce dalla pura curiosità, e nella vita non nasce da qualche cosa di cotale o dalla cura de’ proprii vantaggi (il quale interesse sarebbe per se, non per altrui), o da che che si voglia di simil fatta. La semplice stima non ha sede nel cuore, e non tocca in alcun modo al cuore. Or l’interesse così inteso come noi dobbiamo e vogliamo intenderlo in questo discorso, o dev’esser tutto nel cuore, o il cuore non può far che non v’abbia parte. Si può veder nella vita, che non si prova interesse efficace e sensibile per persona alcuna, il quale risieda al tutto fuori del cuore. O gratitudine, o naturale consanguineità, o simpatia o altra cosa qualunque che produca tale interesse, il cuore v’ha sempre parte. E dov’ei non l’ha, o quello non è vero interesse, ma egoismo (come chi s’interessa per chi gli è utile o piacevole, o tale lo spera, e ci s’interessa con relazione diretta e immediata a se medesimo e al suo proprio vantaggio), o è ben debole, e per lo più inefficace, come quello ch’è prodotto dal solo dovere in quanto dovere, sia di natura sia di che che si voglia, o da altra tale cagione. Or quello interesse ch’è tutto nel cuore, o dove il cuore ha parte, o è amore o specie di amore. Non può dunque il poeta render molto interessante colui ch’e’ non sa o non si propone di rendere amabile. E proprio della poesia il destar la meraviglia e pascerla. Ma oltre che questa passione non può esser molto durevole, e quando pure lo fosse, il maraviglioso, s’altro non l’accompagna, presto sazia; l’interesse che può concepirsi per una persona solamente ammirabile, non può esser che debolissimo. Si può dir di questo interesse appresso a poco quel medesimo che abbiam detto dell’interesse prodotto e sostentato dalla curiosità (il quale può anche esser più durevole di quello, perchè la curiosità può durar molto più della meraviglia, la quale spesso, e ne’ poemi forse sempre, si è l’obbietto della curiosità, ch’è specie di desiderio, e l’obbietto conseguito, per poco spazio diletta). E tornando a mirar nella vita, possiamo veder tuttodì quanto sia debole e inefficace e passeggero l’interesse che producono l’ammirazione o la stima ancorchè somma; seppure interesse alcuno, degno veramente di tal nome, è mai prodotto da queste qualità. Or dunque volgendoci a’ poemi epici veggiamo nell’Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benchè sventurato per quasi tutto il poema, niente interessa. Ei non è giovane, anzi n’è ben lontano, benchè Omero si sforza di farlo apparire ancor giovane e bello per grazia speciale degli Dei, di Minerva ec. o per una meraviglia (che niente ci persuade perchè inverisimile), piuttosto che per natura, anzi contro natura. Ma il lettore segue la natura, malgrado del poeta e Ulisse non gli pare nè giovane nè bello. Le qualità nelle quali Ulisse eccede, sono in gran parte altrettanto forse odiose quanto stimabili. La pazienza non è odiosa, ma tanto è lungi da essere amabile, che anzi l’impazienza si è amabile[a]

Certam. l’eccesso della pazienza, massime nella conversazione e nelle tenui relazioni giornaliere degli uomini si può dir che sia odiosa, o certo dispiacevole, o almen dispregevole, e lo spregevole è non solo inamabile, ma quasi odioso, e chi è disprezzato, oltre che non può essere amato nè interessare, difficilmente è senza un certo odio o avversione. La pazienza è di tutte le virtù forse la più odiosa o la meno amabile, e ciò massimamente doveva essere presso gli antichi, e presso noi ancora, quando la consideriamo in personaggi e circostanze antiche, come in Ulisse.

[Chiudi]. Insomma ne nasce che Ulisse malgrado delle sue tante e sì grandi e sì varie e sì nuove e sì continue sventure, e malgrado ch’ei comparisca misero fino quasi all’ultimo punto, non riesce per niun modo amabile. E per tanto ei non interessa. Ulisse è personaggio maraviglioso e straordinario. I pedanti vi diranno che ciò basta ad essere interessante. Ma io dico che no, e che bisogna che a queste qualità si aggiunga l’essere amabile, e che quelle conducano e cospirino a produr questa, o, se non altro con lei, sieno condite; e che il protagonista sia maravigliosamente e straordinariamente amabile, cioè straordinario e maraviglioso nell’amabilità, o per lo meno tanto amabile quanto maraviglioso e straordinario.

Da questi discorsi si raccoglie essere un sostanziale e capitale (benchè non avvertito) difetto della Gerusalemme, che il suo principale Eroe, o quello che tale doveva essere, non solamente non riesca per niuna parte amabile, ma il suo carattere e le sue azioni sieno state espressamente delineate e composte in modo ch’ei non dovesse riuscire amabile, o senza l’intenzione di renderlo tale; essendosi il Tasso contentato di farlo ammirabile e fra tutti sommamente (insieme con Rinaldo) stimabile, e straordinario per qualità solamente stimabili. Goffredo è appresso a poco conforme ad Ulisse nel genere di eroismo e di superiorità (salva la differenza de’ tempi, de’ costumi e circostanze ec. tanto d’ambo gli Eroi, quanto de’ due poeti): conforme, dico, ad Ulisse, eccetto nell’odiosità, la quale ancora non so bene se manchi affatto al carattere di Goffredo, e se possa mancare ad un uomo incapace affatto di passioni, privo affatto d’illusioni, tutto ragione, austerissimo ne’ costumi, nelle azioni, nella disciplina militare o civile o privata ec. nelle massime di morale, di condotta ec. austero verso se e verso gli altri, verso i soggetti ec. irreprensibile in ogni cosa, grave, malinconico, e quasi tristo e accigliato ec. ec. Non so, dico, se il lettore della Gerusalemme lasci di concepire nel suo secreto, se non odio, pure una certa mal conosciuta, mal distinta, non confessata alienazion d’animo ed avversione per Goffredo.

Richiedendosi necessariamente, come s’è mostrato, al poeta epico (e similmente al drammatico, al romanziere ec. ed anche allo storico) ch’egli renda in alcun modo, qualunque siasi, amabile colui ch’e’ voglia rendere interessante, e grandemente amabile, colui ch’abbia ad essere sommamente interessante; è da considerare che a tal effetto giova grandissimamente la sventura, la quale accresce a più doppi l’amabilità ove la trova, e rende spesse volte amabile chi non lo è, ancorchè sia meritevole delle disgrazie; molto più quando e’ ne sia immeritevole. L’uomo poi amabilissimo, che sia indegnamente sventuratissimo, è la più amabil cosa che possa concepirsi. L’uomo amabile e sventurato meritatamente, è sempre molto più caro e compatito e interessante, che il non amabile e immeritatamente sventurato, il quale può non esser nulla compatito e nulla interessare (e così spessisimo accade), quando eziandio le sue sventure sieno estreme, e quelle dell’altro menome, nel qual caso ancora, colui non può mancare d’esser compatito e riuscir più amabile dell’ordinario. Ma non entriamo in tante sottigliezze e distinzioni. La infelicità nel principal Eroe dell’impresa ch’è il proprio soggetto del poema, non può aver luogo, se non come accidentale, e risolvendosi all’ultimo in felicità, secondo che a suo luogo ho spiegato e mostrato. Per tanto queste osservazioni confermano grandemente il mio discorso sulla necessità di raddoppiar l’interesse nel poema epico, a voler ch’esso poema riesca sommamente interessante e produca grandissimo effetto; e giustificano ed esaltano il fatto di Omero nell’Iliade. Perocchè non dandosi sommo interesse senza somma amabilità, e la sventura essendo principalissima fonte di amabilità, e quasi perfezione e sommità di essa, e non potendo una grandissima e piena e finale infelicità aver luogo nell’eroe dell’impresa, resta che sia bisogno, a far che il poema sia sommamente interessante, duplicarne formalmente l’interesse, e diversificar l’uno interesse dall’altro, introducendo un altro eroe sommamente amabile, e sommamente sventurato, dalla cui finale sventura sia prodotto e intorno ad essa si aggiri, e ad essa sempre tenda e sia spinto, e in vista di essa per tutto il poema sia proccurato, questo secondo interesse di cui parliamo, il quale renda il poema sommamente interessante e capace di lasciar l’interesse nell’animo de’ lettori per buono spazio dopo la lettura ec. Questo è ciò che fece Omero nell’Iliade, nella quale Ettore è per le sue proprie qualità ed azioni, e per la sua somma, piena e finale sventura, sommamente amabile, e quindi sommamente interessante. Quanto ad Achille, ch’è l’altro protagonista, e l’Eroe dell’impresa (così lo chiameremo per esser brevi), Omero non potea farlo sfortunato e infelice, massime considerando la natura e le opinioni di quei tempi, che riponeano il sommo pregio degli uomini nella fortuna, ed anche ragionando (nel modo che altrove ho detto), dalla fortuna o buona o ria argomentavano o la malvagità o la bontà, o il merito o il demerito di ciascuno, non istimando che nè la sventura nè la buona sorte potesse toccare agl’immeritevoli. Pur quanto gli fu possibile, Omero non mancò di cercar di conciliare ad Achille, cogli altri affetti i più favorevoli, anche l’affetto dolcissimo della pietà, madre o mantice dell’amore. Ciò non solo coll’accidentale sventura della morte del suo amico Patroclo e con altre tali, ma col mostrare eziandio, come in lontananza, la finale sventura e l’infelice destino del bravo Achille, che per immutabile decreto del fato aveva a morire nel più bel fiore degli anni, e questo in prezzo della sua gloria, ch’egli scientemente e liberamente aveva scelta e preposta, insieme con una morte immatura, a una vita lunga e senza onore. Tratto sublime che perfeziona il poetico e l’epico del carattere di Achille, e della sua virtù, coraggio, grandezza d’animo, ec. e che finisce di renderlo un personaggio sommamente amabile e interessante.

Il carattere di Enea partecipa molto de’ difetti di quel di Goffredo. Egli ha più fuoco, ma e’ non lascia però di essere alquanto freddo (e un carattere freddo sì nella vita sì ne’ poemi lascia freddo e senza interesse il lettore, o chi ha qualunque relazione reale con esso lui, o di lui ode o pensa); egli ha o mostra più coraggio personale e valor di mano, ma queste qualità ci appariscono in lui come secondarie, e poco spiccano, e tale si è l’intenzion di Virgilio, il quale volle che ad esse nel suo Eroe prevalessero altre qualità, che non molto conducono, o piuttosto nuocono all’essere amabile. La pazienza in lui è simile a quella di Ulisse. La prudenza e il senno soverchiano ed offuscano le altre sue doti, non quanto in Goffredo, ma tuttavia troppo risaltano, e troppo sono superiori all’altre sue qualità, e troppo è maggiore la parte ch’esse hanno. Troppa virtù morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo equilibrio e tranquillità d’animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l’amor di Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo ch’egli è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell’idea che Virgilio ci fa concepir del suo Eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo, e quasi ci giungono nuove e ci fanno meraviglia (la meraviglia poetica non dev’esser certo di questo genere), e quasi non ce ne persuadiamo, benchè sieno naturalissime; o per lo meno vi passiamo sopra, senza valutarle, senza fermarci il pensiero, senza formarne l’immagine, senza considerarli come pregi notabili di Enea, perchè Virgilio avrebbe creduto quasi far torto al suo eroe ed a se stesso, s’egli ce gli avesse rappresentati come pregi veramente importanti e degni di considerazione, e notabili in lui fra le altre doti. E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passion di Didone e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti; dà bene ad intendere ch’ella non era senza corrispondenza, e nella grotta, come ognun sa quel che Didone patisse, così niun si può nascondere quello ch’Enea facesse;ma Virgilio a riguardo d’Enea e della sua passione parla così coperto, anzi dissimulato, (dico della passione, e non di ciò che ne segue d’inonesto a descrivere, nel che giustamente egli è copertissimo anche rispetto a Didone), anzi serba quasi un così alto silenzio, che e’ non mostra essa passione se non indirettamente e per accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch’ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non istimasse Enea per niun modo tocco dalla passion dell’amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer suo, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo Eroe un errore, una debolezza, laddove non v’è cosa più amabile che la debolezza nella forza, nè cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere appo i lettori alla stima non solo, ma all’interesse pel suo Eroe (che mal ei confuse colla stima), il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile, di cuore. Come se potesse interessare il cuore chi non mostra, o dissimula a tutto potere, di averlo, o di averlo capace della più dolce, più cara, più umana, più potente, più universale delle passioni, che si fa pur luogo in chiunque ha cuore, e maggiormente in chi l’ha più magnanimo, e similmente ancora ne’ più gagliardi ed esercitati di corpo, e ne’ più guerrieri (v. Aristot. Polit. l. 2. ed Flor. 1576. p. 142.); e che sovente rende ancora amabili chi la prova, eziandio agl’indifferenti, al contrario di quel che fanno molte altre passioni per se stesse. Il giudizio del Tasso, rispetto a Rinaldo, fu in questa parte migliore assai di quel di Virgilio. Egli non si fece coscienza di mostrare Rinaldo soggetto alle passioni, alle debolezze e agli errori umani e giovanili. Egli non dissimula i suoi amori descrivendo quelli di Armida per lui, ma si ferma e si compiace in descrivergli anch’essi direttamente. Egli non ha neppure riguardo di farlo assolutamente reo di un grave, benchè perdonabile misfatto cagionato da una passione propria e degna dell’uomo, e quasi richiesta al giovane, e più al giovane d’animo nobile, e pronto di cuore e di mano, dico dall’ira mossa dalle contumelie. Passione, che, massime colle dette circostanze, suol essere amabilissima, malgrado i tristi effetti ch’ella può produrre, e malgrado ch’ella soglia altresì essere biasimata (perocchè altro è il biasimare altro l’odiare), e che i filosofi o gli educatori prescrivano di svellerla dall’animo o di frenarla. E certo in un giovane, e quasi anche generalmente, ella è molto più amabile che la pazienza. E ciò si vede tuttodì nella vita. Però il carattere di Rinaldo è molto più simile ad Achille, e molto più poetico, amabile e interessante che quello di Enea. O si può, se non altro, dire con verità che Rinaldo è tanto più amabile di Enea, quanto Enea di Goffredo. Del resto Enea ha passato e passa molte sciagure prima di giungere a stato felice. Ma la compassione ch’elle cagionano non è grande, perch’ella cade sopra un soggetto che il poeta ha creduto di dover fare più stimabile che amabile; e perchè in oltre non si compatisce molto colui che nella sciagura e nel male mostra quasi di non soffrire.

Da tutte queste considerazioni risulta che l’Iliade oltre all’essere il più perfetto poema epico quanto al disegno, in contrario di quel che generalmente si stima, lo è ancora quanto ai caratteri principali, perchè questi sono più interessanti che negli altri poemi. E ciò perchè sono più amabili. E sono più amabili perchè più conformi a natura, più umani, e meno perfetti che negli altri poemi. Gli autori de’ quali, secondo la misera spiritualizzazione delle idee che da Omero in poi hanno prodotta e sempre vanno accrescendo i progressi della civiltà e dell’intelletto umano, hanno stimato che i loro Eroi dovessero eccedere il comune non nelle qualità che natura mediocremente dirozzata e indirizzata produce e promuove (le quali dalle nostre opinioni sono in gran parte e ben sovente considerate per vizi e difetti), ma in quelle che nascono e sono nutrite dalla civiltà e dalla coltura e dalle cognizioni e dall’esperienza e dall’uso degli affari e della vita sociale, e dalla sapienza e saviezza, e dalla prudenza e dalle massime morali e insomma dalla ragione. Or quelle qualità sono amabili, queste stimabili, e sovente inamabili ed anche odiose. Gli Eroi dell’Iliade sono grandi uomini secondo natura, gli eroi degli altri poemi epici sono grandi secondo ragione; le qualità di quelli sono più materiali, esteriori, appartenenti al corpo, sensibili; le qualità di questi sono tutte spirituali, interiori, morali, proprie dell’animo, e che dall’animo solo hanno ad esser concepite, e valutate. Dico tutte, e voglio intender le principali, e quelle che formano propriamente e secondo l’intenzion de’ poeti, il carattere di tali Eroi; perocchè se i poeti v’aggiunsero anche i pregi più esteriori e corporali, gli aggiunsero come secondarii e di minor conto, e vollero e ottennero che nell’idea de’ lettori essi fossero offuscati dai pregi morali, e poco considerati a rispetto di questi; e in verità essi son quasi dimenticati, e, come ho detto in proposito di Enea, paion quasi fuor di luogo, e poco convenienti con gli altri pregi, o pare fuor di luogo il farne menzione e il fermarcisi, come cose degne da esser notate ed espresse[a]

Queste considerazioni hanno tanto maggior forza in favore di Omero, e in favor della nostra opinione che vuol che si segua il suo esempio, quanto che è natura della poesia il seguir la natura, e vizio grandiss. e dannosiss. anzi distruttivo d’ogni buono effetto, e contraddittorio in lei, si è il preferire alla nat. la ragione. La mutata qualità dell’idea dell’Eroe perfetto ne’ poemi posteriori all’Iliade, proviene da quello stesso principio che poi crescendo, ha resa la poesia allegorica, metafisica ec. e corrottala del tutto, e resala non poesia, perchè divenuta seguace onninam. della ragione, il che non può stare colla sua vera essenza, ma solo col discorso misurato e rimato ec. Puoi vedere la p. 2944. sgg.

[Chiudi]. E sembra, ed è vero, che i poeti l’han fatto più tosto per usanza e per conformarsi alle regole ed agli esempi, che perchè convenisse al loro proposito e al loro intento, e perchè la natura e lo spirito de’ loro poemi e de’ loro personaggi lo richiedesse, anzi lo comportasse. Or, siccome l’uomo in ogni tempo, malgrado qualsivoglia spiritualizzazione e qualunque alterazione della natura, sono sempre mossi e dominati dalla materia assai più che dallo spirito, ne segue che i pregi materiali e gli Eroi, dirò così, materiali dell’Iliade, riescano e sieno per sempre riuscire più amabili e quindi più interessanti degli Eroi spirituali e de’ pregi morali divisati negli altri poemi epici. E che Omero, ch’è il cantore e il personificatore della natura, sia per vincer sempre gli altri epici, che hanno voluto essere (qual più qual meno) i cantori e i personificatori della ragione. (Perocchè veramente gli Eroi dell’Iliade sono il tipo del perfetto grand’uomo naturale, e quelli degli altri poemi epici del perfetto grand’uomo ragionevole, il quale in natura e secondo natura, è forse ben sovente il più piccolo uomo).

Del resto par che Omero medesimo sacrificasse e fosse strascinato dalla crescente ragione e civiltà, quando avendo nell’Iliade modellato il perfetto guerriero con sì felice successo, volle poi nella vecchiezza (per quanto si dice dell’epoca dell’Odissea) modellare il perfetto politico; un guerriero giovane, un maturo e quasi vecchio politico; certo con poco felice riuscimento, e men felice di quello degli altri poeti che lui seguirono, i quali fecero i loro Eroi poco amabili, dov’egli il fece poco meno che odievole. E ben era ragione che così fosse, perchè quella era ancor l’epoca della natura, e troppo imperfetta era la ragione perch’altri potesse con buono esito modellare un carattere che avesse ad esser perfetto secondo lei, ed avere in lei il principio e la ragion della sua bontà e perfezione, ossia del suo esser buono e lodevole ec. (3-6. Ottobre. 1823.). V. p. 3768.

[3617 - 3810]

Tostar spagn. da torreo-tostus. (6. Ott. 1823.).

Torto as da torqueo-tortus. (6. Ott. 1823.).

Nomi in uosus ec. Impetuosus, da impetus us. Se quella voce, e impetuose, non sono veramente nel buon latino (v. Forcell. ) certo elle sono nelle lingue figlie. (V. il Gloss. ) Tortuosus, tortuose ec. da tortus us. (6. Ott. 1823.).

Andare per essere, del che altrove. Ar. Fur. c. 11. st. 79. Nè però fu tale pena, ch’al delitto andasse eguale. (6. Ott. 1823.).

Il Tasso, descrivendo i momenti che precedono una battaglia campale, e i due campi ordinati in battaglia ( Gerus. Liber. c. 20. stanza 30.): Bello in sì bella vista anco è l’orrore, E di mezzo la tema esce il diletto . Tant’è: ogni sensazion viva è gradevole perciocchè viva, benchè d’altronde, e pure per se, dolorosa o paurosa ec. Fuor di quelle che son dolorose al corpo. All’animo, eziandio dolorose, o altramente spiacevoli, sono sempre in qualche parte piacevoli. (6. Ott. 1823.).

A proposito del diminutivo ginocchio a noi rimasto pel positivo, del che altrove. Genou è il positivo genu. Ma agenouiller viene dal diminutivo genuculum o ec. non altrimenti che inginocchiare. Il Gloss. ha anche l’espresso ginochium.

Servirsi de’ diminutivi in luogo de’ positivi fu anche de’ greci. Ποίμνιον grex ovium è diminutivo di ποίμνη, come κόριον di κόρη, ma vale il medesimo. (6. Ott. 1823.).

Alla p. 2983. I francesi chiamano cervelet quello che gli anatomici appo noi cerebellum. Sicchè quello è un diminutivo di diminutivo. Così noi diciamo cervellino e agnellino e cento diminutivi di diminutivi positivati. Ma noi sogliamo diminuire anche i diminutivi propri, come in fiorellino ec. fino anche a triplicar la diminuzione. (7. Ott. 1823.).

La parola veneziana e marchigiana magari si fa venir dal greco μακάριος o μάκαρ. Ed io ne son persuasissimo. Così diciamo ancora beato me, beati noi, beato lui, loro, voi, te, se questo accadesse. Ch’equivale a magari, utinam. (7. Ott. 1823.).

Sciscitor dimostra il proprio participio di scisco, che or veramente non l’ha (siccome non l’hanno tanti altri del suo genere, p. e. hisco ec. neanche il perfetto passato), benchè lo pigli in prestito, siccome anche il perfetto, da scio. V. p. 3687. Così scisco e così i suoi composti. Sciscitor o sciscito, dimostra il partic. sciscitus regolare e perfetto. Giacchè ben s’inganna il Forcellini che deriva sciscitor da scio, da cui esso viene solo in quanto scisco è da scio, come vivisco da vivo ec. ec. (7. Ott. 1823.). Che sciscito sia fatto per anadiplosi di scitus (sia di scitus di scio o di quel di scisco, che secondo me, non è che un medesimo participio) o di scitor oltre l’altre improbabilità, e il suo evidente venir da scisco, (il quale non è fatto per anadiplosi), e il non avervi, ch’io sappia, altro cotal esempio, ec.; lo dimostra per falso la brevità del secondo i, laddove l’i di scitus, e di scitor ec. è lungo. Vedi il pensiero seguente. (7. Ott. 1823.).

Alla p. 2865. marg. Queste osservazioni indebolirebbero o torrebbero l’argomento circa il continuativo di cio e di cieo da me recato a p. 2820. Nondimeno io trovo che da scitus di scio lungo, si fa scitor (o scito) altresì lungo. E quanto ai verbi in ito fatto da’ participi in itus della quarta congiugazione io credo che in tutti l’i sia lungo come in essi participii (7. Ott. 1823.). Equito è da eques equitis. Bisognerà dire che suppedito sia similmente da pedes peditis, onde gli sia venuta la desinenza in ito. Pur non trovo in ciò gran ragionevolezza, e non rinunzio affatto all’altra mia opinione.

Sancitus, vero participio di sancio per sanctus che n’è contrazione, ancor si trova. Ovvero sancitum ec. V. Forcell. (7. Ott. 1823.).

Alla p. 3477. Citus a um. Sanctus a um, che nelle lingue figlie non è più che aggettivo. Servio (v. Forcell. Sancio in fine) par che derivi sancio da Sanctus [a]

Minutus a um particip. tanto aggettivato che se n’è fatto anche il diminut. minutulus ec. Quietus. Lautus il quale ha anche variato la significaz. in modo che in questa non si potrebbe mai riconoscere p. partic. ed essa è diversiss. da quella che lautus ancora ha, propria sua, come participio. Certus. V. Forc.

[Chiudi]. In questo caso ei s’inganna assai, perocch’ei viene a derivare il verbo dal suo participio. (7. Ott. 1823.).

Relictos atque desertos habere espressamente per reliquisse ac deseruisse. Frammenti dell’epistola di Cornelia madre de’ Gracchi, sulla fine; i quali frammenti, come antichi, e come di donna (che men si sapeva allontanare dal modo di parlar familiare e usitato in voce), in alcune parti sanno di frase italiana o vogliamo dir moderna. (7 Ott. 1823.).

Le voci e frasi greche che ho in più luoghi notate nelle lingue spagnuole francesi e italiane e che non si trovano nel buon latino, possono sì essere state introdotte nel latino volgare dagli scrittori grecizzanti fuor di modo, dalla moltitudine di greci inquilini (la massima parte de’ quali apparteneva all’infimo volgo, ai servigi domestici ec.), dal corrotto uso della conversazione romana ec. e non essere state adottate nel linguaggio illustre de’ buoni scrittori, nè anche de’ mediocri generalmente, e quindi a noi non essere pervenute nel latino scritto; sì esser venute dalla stessa fonte nel Lazio che nella Grecia, cioè proprie dell’antichissimo latino, antiquate o non mai ammesse nello scritto, ammesse e perpetuamente conservate nel volgare, come di molte e frasi e voci, ancor viventi fra noi, o no, greche o qualunque, ec. s’è fatto da noi vedere manifestamente essere accaduto: massime ne’ nostri discorsi sui continuativi. ec. (7. Ott. 1823.).

Monosillabi latini. Falx, calx (calcagno). (7. Ott. 1823.).

Participii in us di verbi neutri in senso neutro. V. Forcell. in Desitus confrontando quegli esempi col quarto esempio di Desino appresso il medesimo Forcellini. (7. Ott. 1823.).

Materia p. legno, legname. Del qual significato ho detto altrove in proposito della voce silva e d’ὕλη. V. Forc. in materiarius, materiatio, materiatura, materiatus, materio, materior. In ispagnuolo oltre madera per legno, v’è maderamen per legname, ec. ec. (7. Ott. 1823.).

Sempre che l’uomo non prova piacere alcuno, ei prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere qualunque, o e’ non s’accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai propriamente che l’uomo provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo di tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con noia. Ed essendo la noia, pena e dispiacere, segue che l’uomo, quanto ei sente la vita, tanto ei senta dispiacere e pena. Massime quando l’uomo non ha distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio continuo del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi chiamiamo particolarmente di noia. V. p. 3713. (7. Ott. 1823.).

Vermiglio, vermeil, vermejo vien da vermiculus, come a pagg.3514. fine e 3515. fine. Or dunque questa voce vermiculus è comune a tutte e tre le lingue figlie per significare il rosso ec. Dunque dico io che questo significato di vermiculus dovette essere del volgare latino. E tanto più, quanto è noto che il color della porpora ec. si faceva appunto con certi vermicelli. V. gli antiquarii, e fra gli altri la Dissertaz. del Cav. Rosa sulla porpora. Onde è naturalissima la metafora da’ vermicelli, vermiculi, al color rosso, e specialmente al rosso profondo, vermiglio, qual doveva essere quel della porpora, che noi ben potremmo chiamare vermiglia. Niente meno che sia naturale la metafora da’ vermicelli a quell’opus vermiculatum, che si trova detto pure vermiculus (vedi Forcell. ). Anzi assai più naturale è quella che questa. E notisi che l’uso di fare il color della porpora ec. co’ vermetti, fu dismesso da gran secoli addietro, tanto che ora non si può certamente sapere che sorta di vermetti fossero quelli. E s’io non m’inganno, l’uso medesimo della porpora propria, fu tralasciato ne’ tempi bassi a causa del suo gran costo, e della povertà di que’ tempi, e dell’interrotto commercio colle Indie, donde, se non fallo, s’avevano que’ vermicelli, o dove le porpore si fabbricavano ec. Laonde, essendo evidentissimo che il significato di rosso a vermiculus venne dal detto uso; ed essendo questo uso antichissimo, e fino ab antichissimo dimenticato o tralasciato; ed essendo detta significazione comune a tutte le tre lingue figlie della latina, le quali da’ tempi romani in poi, non ebbero fra loro alcun commercio diretto e notabile ec. se non negli ultimi tempi; ed essendo detta voce e significazione in tutte tre le lingue antica e propria e natia ec., parmi evidente che vermiculus per rubicondo, purpureo ec. fu dell’antico volgare latino altrettanto che de’ moderni, e di là viene. V. il Gloss. se ha nulla. V. anche il Forcell. circa il proprio color della porpora o purpureo, in purpura, purpureus ec. Secondo lui però la porpora si faceva non con vermi, ma con una sorta di conca marina detta purpura. Il color coccineus si facea colla grana. Il conchyliatus colla stessa conchiglia detta purpura, o con altra simile ec. Certo la nostra cocciniglia è un color fatto d’una specie di vermi, che anch’essi si chiamano cocciniglie. Così conchylium è la conchiglia e il colore che se ne fa. Così dunque vermiculus fu il verme e il colore. Similmente coccum, conchylium, κογχύλιον, sono sì la grana o la conchiglia, sì la lana, il panno, la veste, il filo, tinti con esse. Fucus si trova eziandio pel colore fatto del fuco. (7. Ott. 1823.). V. p. 3632.

Purgito as da purgo as. (7. Ott. 1823.).

Il v non fu che un’aspirazione che si metteva, per evitare l’iato, fra più vocali; e tralasciavasi spessissimo ec. ec. come altrove in più luoghi. V. il Forcellini in Fuam. (7. Ott. 1823.).

Alla p. 2821. fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell’esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un luogo di Virgilio da me altrove esaminato, per excipio. Nótisi ancora che nell’improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo. Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno colle ragioni, confondere le ragioni di uno, confondere l’avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi un atto, e quasi il termine e l’effetto del confutare ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la traslazione del suo significato da quel di mescere insieme a quel di confutare, e così mi par di doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de’ continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch’ei faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s’inganna assai. Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, ec.[a]

V. p. 3635.

[Chiudi] e nel Gloss. in Confundere, avvertendo che la lingua latina antichissima aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non ebbe poi l’aurea latinità, o piuttosto il latino più illustre scritto; e n’ebbe in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de’ bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne’ volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più l’illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per ignoranza o per elezione, gli andavan dietro, questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l’avessero saputa scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto meno diversa che non nell’aureo secolo e ne’ prossimi a quello. Siccome eziandio tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di stile, più conservano dell’antico latino, più rappresentano della frase volgare e parlata, più hanno delle voci e locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così Cornelio, Fedro, Celso ec. più somigliano quella degli scrittori bassi e de’ volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero all’antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.) perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato, nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta nel comporre, non vollero o non seppero troppo scostarsi dal linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato. Onde a noi paiono amabilissimi e pregevolissimi per la loro semplicità ec. ma certo a’ contemporanei dovettero riuscire poco colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell’aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de’ tempi bassi), o non si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si vede essere stata come di autori, al più, di second’ordine. Tali sono Cornelio Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fèvre il più vicino alla semplicità di Terenzio (v. Desbillons Disputat. II. de Phaedro, in fine), e simili. De’ quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre) hanno disputato se appartenessero al secol d’oro, ed anche se fossero antichi, ed hanno penato a riconoscerli per autori dell’aurea latinità; e le Vite di Cornelio sono state attribuite ad Emilio Probo (autore assai basso) per ben lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti, e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del Desbillons ). Non così è accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come altrove ho sostenuto, assai men diviso dal volgare e parlato, e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p. e. di Senofonte fu subito acclamata, non men che fosse quella di Platone ch’è lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e bella sprezzatura, questo dell’eleganza, diligenza e artifizio. Pur l’uno e l’altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da’ Greci e contemporanei e posteri, e così da’ latini e dagli altri in perpetuo ec. (8. Ott. 1823.).

A proposito del detto da me altrove sopra il verbo necessitare, notinsi i verbi felicitare, debilitare, nobilitare, impossibilitare, facilitare, difficultare, ereditare e simili che son fatti evidentemente da felicità, eredità e simili, ovvero da felicitas, hereditas ec. (8. Ott. 1823.).

Quanto fosse incerta l’ortografia stessa italiana (che oggi è la più giusta di tutte) anche nel 600, cioè nel secolo dopo il miglior secolo della nostra letteratura, veggasi la prefazione all’ortografia del Bartoli, (uomo che fra tutti del suo tempo, e fors’anche di tutti i tempi, fu quello che e per teoria e scienza e per pratica, meglio e più profondamente e pienamente conobbe la nostra lingua), e il consiglio che quivi egli dà a chi vuole scrivere, di pigliarsi cioè o di formarsi un’ortografia a suo modo, e quella sempre seguire; consiglio che niuno certamente darebbe oggi in Italia ad alcuno, nè vi sarebbe più che una ortografia da poter pigliare cioè scegliere ec. Ma al contrario era allora, dopo tre secoli e più che si scriveva la nostra lingua, e ciò da letterati, non sol per uso della vita. (8. Ott. 1823.).

Le forme regolari e perfette ec. de’ participii e supini (e anche de’ perfetti e lor dipendenze) della seconda e terza maniera massimamente, da me stabilite e richiamate nei verbi che più non le hanno, sono, oltre gli altri argomenti, confermate da’ verbi delle stesse maniere che ancor le hanno, e che ne’ participii o supini son regolari e perfetti, sia ch’essi abbiano anche degl’irregolari, o che gl’irregolari solamente; e ch’essi sieno regolari e perfetti in tutto, o che senza ciò lo sieno ne’ participii o supini. P. e. habeo habes habui, verbo tutto regolare e perfetto, fa habitum e habitus a um, non habtum. Perchè dunque doceo doces docui, doctum, non docitum [a]

Exerceo, coerceo ec. es ui itum. Mentre che arceo, ch’è il semplice di questi verbi, fa arctum, come si dimostra dall’aggett. arctus, secondo il detto altrove in proposito. placeo-taceo-noceo es ui itum. Perchè nocitum e non docitum? se non per pura casualità d’uso nel pronunziare?

[Chiudi]? E da tali osservazioni si vede che questo paradigma e quello di lego sono male scelti ad uso delle grammatiche, perchè ambo irregolari, o vogliamo dire alterati dalla prima lor forma, e dalla vera forma de’ loro pari, ne’ supini e ne’ participii in us. Il che di lego si dimostra anche particolarmente col suo derivato legito, come altrove. (8. Ott. 1823.).

Mi pare di aver nella teoria de’ continuativi detto che il perfetto di lego fu legsi. Notisi che oggi e’ non lexi come texi, rexi ec. ma legi, ed è regolarissimo, e quello fu mio errore. (8. Ott. 1823.).

Alla p. 3624. Sempre questa voce vermiglio, derivata certo dal latino, come mostrano le pagine 3514. fine, 3515. fine, e l’altre analoghe; derivatane molto ab antico, come mostra la p. 3623. fine, e l’altre analoghe; potrà e dovrà servire ad insegnare (chè forse per l’addietro non si sapeva, faute di non avere osservato le cose da me dette in proposito, e i generali su cui esse si fondano) e a provare che anticamente ancora, siccome oggi la cocciniglia, si usava di fare un color rosso carico, con non so quali vermicelli. E molto anticamente, perch’egli è anche a notare che sebbene l’origine di vermiglio, vermeil, vermejo, e del suo presente significato, e il modo della traslazione di questo, e la cagion d’essa ec. è indubitatamente quella che abbiamo spiegato, nondimeno oggi le dette voci sono già passate non solo a significare qualunque color rosso acceso, ancorchè non fatto con vermi, ma anzi più volentieri (v. in particolare i Diz. franc.) s’adoprano a significare un colorito naturale affatto che artifiziale; bench’elle per la loro etimologia, e propria forza, e primitiva qualità, non valgano a significare altro che un color fattizio, una tintura ec. Ma ora elle hanno mutato il loro valore nel detto modo, e ciò in tutte tre le lingue del pari, onde si rileva che questa medesima mutazione è bene antica. (8. Ott. 1823.). Ed ella può anche servire a dimostrare assolutamente l’antichità della voce ec. ch’è ciò ch’io ho inteso di provare nel pensiero a cui questo si riferisce. (8. Ott. 1823.).

Scriveva Voltaire al Principe Reale di Prussia, poi Federico II, in proposito di una frase di Orazio e del modo in cui Federico l’aveva renduta traducendo in francese l’ode in ch’ella si trova: Ces expressions sont bien plus nobles en français: elles ne peignent pas comme le latin, et c’est là le grand malheur de notre langue qui n’est pas assez accoutumée aux détails. ( Lettres du Prince Royal de Prusse et de M. de Voltaire, Lettre 118. le 6. avril 1740. Oeuvres complettes de Frédéric II roi de Prusse. 1790. tome 10, p. 500.) Aveva detto Voltaire che l’espressione latina serait très-basse en français.

Con buona pace di Voltaire la lingua francese è ed assuefatissima e proprissima ai dettagli, perch’ella ha parole per significare fino alle più menome differenze delle cose, come altrove ho detto, e vince in questo forse tutte l’altre lingue antiche e moderne, comprese le più poetiche, o quelle che meglio hanno linguaggio poetico e nobile. Ma non avendo sinonimi, nè parole o frasi antiche o poco usitate e correnti, e rimote dall’uso comune, nè significazioni cotali, ma vocaboli e frasi e significati triti continuamente dall’uso corrente del discorso e della conversazione, e tanto solo avendo quanto si trova in questo tal uso, ed essendo non che pregiato e buono e prescritto, ma vizioso e intollerabile e condannato e vietato in francese tutto ciò ch’è rimoto dall’uso del dir comune e presente, ella non può, quando vuol esser nobile, entrar ne’ dettagli, ma le conviene tenersi sempre all’espressioni generali, che son sempre nobili, o piuttosto, che non sono mai nè possono essere ignobili. Neanche la lingua latina, nè qual altra è più poetica, più capace di eleganza e maestà ec., più avvezza ai dettagli, ec. potrebbe mai nella poesia o in uno stile nobile, entrar gran fatto ne’ particolari, s’ella non avesse parole e modi per significarli, diversi da quelli con che l’uso corrente del parlare, e lo stil familiare ec. scritto o parlato, significa quei medesimi particolari. E l’espression latina che sarebbe bassissima in francese, sarebbe stata bassissima anche in latino, se fosse stata quella o conforme a quella con che l’uso corrente del dir latino significava quella tal cosa. (8. Ott. 1823.).

Alla p. 3626. Queste osservazioni possono dimostrare che l’uso moderno metaforico del verbo confondere nel significato appresso a poco di confuto, benchè non si trovi precisamente nell’antico latino noto, viene però da esso, per mezzo del volgare latino; giacchè tale si è il significato latinissimo e ordinario di un antichissimo verbo latino, che è continuativo di confundo, e che n’è continuativo appunto nel detto significato. Similmente nel primo principio della mia teoria de’ continuativi ho discorso in proposito di un significato dello spagnuolo traer conforme a quello del suo continuativo tractare, ma ignoto in latino ec. (9. Ott. 1823.).

L’uso de’ diminutivi positivati (sì verbi che nomi ec.) o che i positivi non s’usino o non esistano ec., o che s’usino collo stesso valore o equivalente, è comune alle nostre lingue anche in vocaboli che non derivano dal latino, donde ch’egli abbiano origine. V. p. 3946.3998. Come in francese fardeau (it. fardello), marteau, martel (martello, martillo), roseau, berceau, tonneau ec. ec. diminutivi per forma, sono tutti positivi di significato[a]

Fromba e frombola, coi derivati dell’uno e dell’altro. Puoi vedere la p. 3968-9. 3992. capoverso I. 3993. capov. ult. 3994. fin. 4000. fin. — 4001. 4003. paquet empaqueter ec. Noi volgarm. pacco e pacchetto. V. l’Alberti e gli spagnuoli.

[Chiudi]. Fourreau, diminutivo di un fourre, onde fourrer, che rispondesse al nostro fodero o fodera. Infatti in spagnuolo si ha a forro onde a forrar ec. come noi da fodera, foderare. L’aggiunta dell’a nel principio delle voci è usitata assai in spagnuolo come in italiano (Monti Propos. in ascendere). Sicchè aforro è fourre. V. p. 3852. A proposito di berceau, anche noi diciamo positivamente culla, ch’è altresì diminutivo, fatto da cuna (che noi pure abbiamo), o ch’e’ sia corruzione moderna di cunula (che si trova in Prudenzio), o ch’e’ sia forma antica latina, diminutiva anch’essa, e contratta da cunula, o indipendente da questo. Vedi il Forcellini in trulla diminutivo di trua. (9. Ott. 1823.). V. p. 3897.3993.

Alla p. 3310. Non è propriamente (benchè si chiami) Amore quello che noi ponghiamo al cibo che ci pasce e diletta, e agl’istrumenti e alle cose tutte che servono ai nostri piaceri, comodi e utilità. Perocchè l’affetto che ci muove verso questi obbietti non ha nemmeno apparentemente per fine gli oggetti medesimi (che è il caso in cui il nostro affetto si chiama propriamente amore)[b]

Perocchè amor vero cioè che abbia effettivamente per proprio fine l’oggetto amato, o vogliamo dire il suo bene e la sua felicità, non si dà in alcuno essere, neppure in Dio, se non verso lo stesso amante.

[Chiudi], ma noi soli apertamente e immediatamente o vogliam dire i nostri piaceri, comodi, vantaggi, in quanto nostri. (9. Ott. 1823.). V. p. 3682.

Alla p. 3586. Quanto più tai voci e frasi saranno e saranno sempre state, nelle moderne lingue, affatto volgari, e quanto meno proprie degli scrittori e delle moderne lingue illustri, o meno sospettabili di essere state introdotte dagli scrittori e dalla lingua illustre, tanto più forte e concludente sarà l’argomento da esse al latino, e dal latino a esse, poste l’altre debite circostanze ec. Onde i nostri dialetti volgari e non mai scritti (se non per giuoco ec.) e che non hanno linguaggio illustre, sono molto a proposito in queste materie, e se ne conferma quello che ho detto della loro utilità per investigar le origini della lingua latina ec. nella mia teoria de’ continuativi verso il fine. Altrettanto e più dicasi intorno alla lingua Valacca, che non è stata mai per niun modo, neppure indiretto, influita da niuna letteratura, ch’io sappia. (9. Ottobre 1823.).

Alla p. 3575. Ond’è tanto più forte, anzi fortissimo l’argomentare ch’io fo dallo spagnuolo (da’ participii spagnuoli ec.) all’antico latino. Vedi la pag. 3586. e il pensiero antecedente. (9. Ott. 1823.).

Léser o lézer da laesus di laedo. (9. Ott. 1823.).

Primos in orbe deos fecit timor. Intorno a ciò altrove. Or si aggiunga, che siccome quanto è maggior l’ignoranza tanto è maggiore il timore, e quanta più la barbarie tanta è più l’ignoranza, però si vede che le idee de’ più barbari e selvaggi popoli circa la divinità, se non forse in alcuni climi tutti piacevoli, sono per lo più spaventose ed odiose, come di esseri tanto di noi invidiosi e vaghi del nostro male quanto più forti di noi. Onde le immagini ed idoli che costoro si fabbricano de’ loro Dei, sono mostruosi e di forme terribili, non solo per lo poco artifizio di chi fabbricolle, ma eziandio perchè tale si fu la intenzione e la idea dell’artefice. E vedesi questo medesimo anche in molte nazioni che benchè lungi da civiltà pur non sono senza cognizione ed uso sufficiente di arte in tali ed altre opere di mano ec. come fu quella de’ Messicani, i cui idoli più venerati eran pure bruttissimi e terribilissimi d’aspetto come d’opinione. Molte nazioni selvagge, o ne’ lor principii, riconobbero per deità questi o quelli animali più forti dell’uomo, e forse tanto più quanto maggiori danni ne riceveano, e maggior timore ne aveano, e minori mezzi di liberarsene, combatterli, vincerli ec. La forza superiore all’umana è il primo attributo riconosciuto dagli uomini nella divinità. V. p. 3878. E certo egli è segno di civiltà molto cresciuta e bene istradata il ritrovare in una nazione e la idea e le immagini o simboli o significazioni della divinità, piacevoli o non terribili. Come fu in Grecia, sebben molto a ciò dovette contribuire la piacevolezza e moderatezza di quel clima, che nulla o quasi nulla offre mai di terribile. Perocchè le forze della natura vedute negli elementi ec., riconosciute per superiori di gran lunga a quelle degli uomini, e, a causa dell’ignoranza, credute esser proprie di qualche cosa animata e capace, come l’uomo, di volontà, poichè è capace di movimento, di muovere ec.; sono state le cose che hanno suscitata l’idea della divinità (perchè gli uomini amano e son soliti di spiegar con un mistero un altro mistero, e d’immaginar cause indefinibili degli effetti che non intendono, e di rassomigliare l’ignoto al noto; come le cause ignote de’ movimenti naturali, alla volontà ed all’altre forze note che producono i movimenti animali ec.), ond’è ben naturale che tale idea corrispondesse alla natura di tali effetti, e fosse terribile se terribili, moderata se moderati, piacevole se piacevoli ec. e più e meno secondo i gradi ec. Se non che nell’idea primitiva dovette sempre prevalere o aver gran parte il terribile, perchè essendo l’uomo naturalmente inclinato più al timore che alla speranza, come altrove in più luoghi, una forza superiore affatto all’umana, dovette agl’ignoranti naturalmente aver sempre del formidabile. Oltre che in ogni paese v’ha tempeste, benchè più o meno terribili ec. E tra le varie divinità di una nazione che ne riconosca più d’una, di una mitologia ec., le più antiche son certamente le più formidabili e cattive, e le più amabili e benefiche ec. son certamente le più moderne. Le nazioni più civilizzate adoravano gli animali utili, domestici, mansueti ec. come gli egizi il bue, il cane, o loro immagini. Le più rozze, gli animali più feroci, o loro sembianze (v. la parte i. della Cron. del Peru di Cieça, cap. 55. fine. car.152. p. 2.). Quelle p. e. il sole o solo o principalmente, queste, o sola o principalmente la tempesta ovvero ec. ec. E a proporzione della rozzezza o civiltà, gli Dei ec. malefici e benefici erano stimati più o men principali e potenti, ed acquistavano o perdevano nell’opinione e religion del popolo, e nelle mitologie, e riti ec. V. p. 3833. Come della mitologia greca e latina ec. senza dubbio si dee dire. Infatti anche indipendentemente da questa osservazione, s’hanno argomenti di fatto per asserire che p. e. Saturno, Dio crudele e malefico, e rappresentato per vecchio, brutto, e d’aspetto come d’indole e di opere, odioso, fu l’uno de’ più antichi Dei della Grecia o della nazione onde venne la greca e latina mitologia, e più antico di Giove ec. Effettivamente la detta mitologia favoleggia che Saturno regnò prima di Giove, e da costui fu privato del regno. La qual favola o volle espressamente significare la mutazione delle idee de’ greci ec. circa la divinità, e il loro passaggio dallo spaventoso all’amabile ec. cagionato dal progresso della civiltà, e decremento dell’ignoranza; o (più verisimilmente) ebbe origine e occasione da questo passaggio, di essere inventata naturalmente.

Del resto, ho detto altrove che dalla considerazione della divinità come formidabile, odiosa, odiatrice, nemica ec. nacque l’uso de’ sacrifizi cruenti, comune alla massima parte degli antichi popoli e de’ selvaggi ch’ebbero o hanno una qualunque religione o tintura di religione. Ora è da notare che detti sacrifizi furono e sono tanto più crudeli, quanto i detti popoli furono o sono più barbari e ignoranti, perchè tanto più crudele, nemica, maligna, odiosa, terribile e’ si figuravano o si figurano la divinità. Onde per placarla e soddisfarla, tormentano le vittime, volendo pascere il di lei odio e sfamarlo, acciocch’esso risparmi i sacrificatori. E perciò ne’ più antichi tempi de’ greci e de’ latini, così de’ Galli a’ tempi e nella religione de’ Druidi, tra’ Celti ec. furono propri di questi popoli ancor barbari e ignoranti, i sacrifizi d’uomini (che poi per l’uso durarono anche fino a tempi più civili), e lo sono e furono d’altri moltissimi popoli selvaggi; come che con tali sacrifizi meglio si soddisfacesse l’ira e l’odio della divinità verso gli uomini, cioè verso quel tal genere che a lei facea sacrifizi. E non pur d’uomini nemici, che non sarebbe gran meraviglia (uso anch’esso comunissimo tra’ selvaggi), o di colpevoli e malvagi, ma eziandio nazionali e probi, benchè questi sacrifizi sieno e fossero meno frequenti di quelli di nemici o di rei. Qua si può riferire lo spontaneo sacrifizio e devozione (cioè esecrazione di se stessi ec.) di Codro, de’ Decii, di Curzio (s’è vero) e simili. Tutti appartenenti a’ più antichi e barbari tempi della Grecia e di Roma, nè mai rinnovati ne’ tempi civili appo l’una nè l’altra nazione.

È da considerare ancora che tra’ selvaggi e tra’ barbari antichi o moderni ch’ebbero o hanno più divinità, altre più odiose, altre meno, altre amabili e buone ec.; le più venerate e colte con sacrifizi e riti e cerimonie e preci ec. sono o furono le più cattive, terribili, odiose, brutte a vedere ec. perchè il timore è più forte, valevole, efficace, attivo che la speranza e l’amore. Al contrario accadde e accade ne’ men barbari ec. e tanto più quanto men barbari, e altresì in quelle medesime nazioni in tempi più civili, e a proporzione degl’incrementi della civiltà e delle conoscenze e del lume della ragione ec. e de’ progressi dello spirito umano. L’una e l’altra di queste verità è dimostrata dalla storia, dalle notizie dell’antichità, e dalle relazioni de’ viaggiatori ec. V. fra gli altri mille, D. Ant. de Solìs, Historia de la Conquista de Mexico L. 1. c. 15. p. 43-45. L. 3. c. 13. p. 236-8. Madrid 1748. (9. Ott. 1823.).

Fuoco — Il suo uso è indispensabile necessità ad una vita comoda e civile, anzi pure ai primissimi comodi. — Or tanto è lungi che la natura l’abbia insegnato all’uomo, che fuor di un puro caso, e senza lunghissime e diversissime esperienze, ei non può averlo scoperto nè concepito — E non possono neppure i filosofi indovinare come abbia fatto l’uomo non pure ad accendere, ma a vedere e scoprire il primo fuoco. Chi ricorre a un incendio cagionato dal fulmine, chi al frottement reciproco de’ rami degli alberi cagionato da’ venti nelle foreste, chi a’ volcani, e chi ad altre tali ipotesi l’una peggio dell’altra — E conosciuto il fuoco, come avrà l’uomo trovato il modo di accenderlo sempre che gli piaceva? Senza di che e’ non gli era di veruno uso. E di estinguerlo a suo piacere? Quanto avrà egli dovuto tardare a sapere e a trovar tutte queste cose — Gli antichi favoleggiavano che il fuoco fosse stato rapito al cielo e portato di lassù in terra. Segno che l’antica tradizione dava l’invenzione del fuoco e del suo uso e del modo di averlo, accenderlo, estinguerlo a piacere, per un’invenzione non delle volgari, ma delle più maravigliose; e che questa invenzione non fu fatta subito, ma dopo istituita la società, e non tanto ignorante, altrimenti ella non avrebbe potuto dar luogo a una favola, e a una favola la quale narra che il ratto del fuoco fu opera di chi volle beneficare la società umana ec. — Non solo la natura non ha insegnato l’uso del fuoco, nè somministrato pure il fuoco agli uomini se non a caso, ma ella lo ha fatto eziandio formidabile, e pericolosissimo il suo uso. E lasciando i danni morali, quanti infiniti ed immensi danni fisici non ha fatto l’uso del fuoco sì all’altre parti della natura sì allo stesso genere umano. Niuno de’ quali avrebbe avuto luogo se l’uomo non l’avesse adoperato, e contratto il costume di adoperarlo. Il fuoco è una di quelle materie, di quegli agenti terribili, come l’elettricità, che la natura sembra avere studiosamente seppellito e appartato, e rimosso dalla vista e da’ sensi e dalla vita degli animali, e dalla superficie del globo, dove essa vita e la vegetazione e la vita totale della natura ha principalmente luogo, per non manifestarlo o lasciarlo manifestare che nelle convulsioni degli elementi e ne’ fenomeni accidentali e particolari, com’è quello de’ vulcani, che sono fuor dell’ordine generale e della regola ordinaria della natura. Tanto è lungi ch’ella abbia avuto intenzione di farne una materia d’uso ordinario e regolare nella vita degli animali o di qualsivoglia specie di animali, e nella superficie del globo, e di sottometterlo all’arbitrio dell’uomo, come le frutta o l’erbe ec., e di destinarlo come necessario alla felicità e quindi alla natural perfezione della principale specie di esseri terrestri — Orazio ( i. od. 3.) considera l’invenzione e l’uso del fuoco come cosa tanto ardita, e come un ardire tanto contro natura, quanto lo è la navigazione, e l’invenzion d’essa; e come origine, principio e cagione di altrettanti mali e morbi ec. di quanti la navigazione; e come altrettanto colpevole della corruzione e snaturamento e indebolimento ec. della specie umana — Ma il fuoco è necessario all’uomo anche non sociale, ed alla vita umana semplicemente. Come si vivrebbe in Lapponia o sotto il polo, anzi pure in Russia ec. senza il fuoco? Primieramente, rispondo io, come dunque la natura l’ha così nascosto ec. come sopra? Come poteva ella negare agli esseri ch’ella produceva il precisamente necessario alla vita, all’esistenza loro? o render loro difficilissimo il procacciarselo? e pericolosissimo l’adoperare il necessario? pericolosissimo, dico, non meno a se stessi che altrui? Ed essendo quasi certo, secondo il già detto, che gli uomini non hanno potuto non tardare un pezzo (più o men lungo) a scoprire il fuoco, e più ad avvedersi che lor potesse servire ed a che, e più a trovare il come usarlo, il come averlo al bisogno ec. e a vincere il timore che e’ dovette ispirar loro, sì naturalmente, sì per li danni che ne avranno ben tosto provati e certo prima di conoscerne anzi pur d’immaginarne l’uso e la proprietà, sì ancora forse per le cagioni che lo avranno prodotto (come se fulmini o volcani o tali fenomeni ec.), sì per gli effetti che n’avranno veduto fuor di se, come incendi e struggimenti d’arbori, di selve ec. morti e consunzioni e incenerimento d’animali, o d’altri uomini ec. ec.; stante dico tutto questo, come avranno potuto vivere tanti uomini, o sempre, o fino a un certo tempo, senza il necessario alla vita loro? Secondariamente, chiunque non consideri il genere umano per più che per una specie di animali, superiore bensì all’altre, ma una finalmente di esse; chiunque si contenti e si degni di tener l’uomo non per il solo essere, ma per un degli esseri, di questa terra, diverso dagli altri di specie, ma non di genere nè totalmente, nè formante un ordine e una natura a parte, ma compreso nell’ordine e nella natura di tutti gli altri esseri sì della terra sì di questo mondo, e partecipante delle qualità ec. degli altri, come gli altri delle sue, e in parte conforme in parte diverso dagli altri esseri, e fornito di qualità parte comuni parte proprie, come sono tutti gli altri esseri di questo mondo, ed insomma avente piena e vera proporzione cogli altri esseri, e non posto fuor d’ogni proporzione e gradazione e rispetto e attinenza e convenienza e affinità ec. verso gli altri; chiunque non crederà che tutto il mondo o tutta la terra e ciascuna parte di loro sian fatte unicamente ed espressamente per l’uomo, e che sia inutile e indegna della natura qualunque cosa, qualunque creatura, qualunque parte o della terra o del mondo non servisse o non potesse nè dovesse servire all’uomo, nè avesse per fine il suo servigio; chiunque così la pensi, risponderà facilmente alla soprascritta obbiezione. S’egli v’ha, come certo v’avrà, una specie di pianta, che rispetto al genere de’ vegetabili ed alla propria natura loro generale, sia di tutti i vegetabili il più perfetto, e sia la sommità del genere vegetale, come lo è l’uomo dell’animale, non per questo seguirà nè sarà necessario ch’essa pianta nè si trovi nè prosperi, nè debba nè pur possa prosperare nè anche allignare nè nascere in tutti i paesi e climi della terra, nè in qualsivoglia regione de’ climi ov’ella più prospera e moltiplica, nè in qualsivoglia terreno e parte delle regioni a lei più proprie e naturali. Così discorrasi nel genere o regno minerale, e negli altri qualunque. Che all’uomo in società giovi la moltiplicazione e diffusione della sua specie, o per meglio dire che alla società giovi la moltiplicazione e propagazione della specie umana, e tanto più quanto è maggiore, questo è altro discorso[a]

Questo suppone lo stato di società ch’io combatto.

[Chiudi], e certo s’inganna assai chi lo nega. Ma che la natura medesima abbia destinato la specie umana a tutti i climi e paesi, e tutti i climi e paesi alla specie umana, questo è ciò che nè si può provare, e secondo l’analogia, che sarà sempre un fortissimo, e forse il più forte argomento di cognizione concesso all’uomo, si dimostra per falsissimo. Niuna pianta, niun vegetale, niun minerale, niuno animale conosciuto si trova in tutti i paesi e climi nè in tutti potrebbe vivere e nascere, non che prosperare ec. Altre specie di vegetabili e di animali ec. si trovano e stanno bene in più paesi e più diversi, altre in meno, niuna in tutti, e niuna in tanti e così vari di qualità e di clima, in quanti e quanto vari è diffusa la specie umana. Tra la propagazione e diffusione di questa specie e quella dell’altre non v’ha proporzione alcuna. E notisi che la propagazione di molte specie di animali, di piante ec. devesi in gran parte non alla natura, ma all’uomo stesso, onde non avrebbe forza di provar nulla nel nostro discorso. Molte specie che per natura non erano destinate se non se a un solo paese, o a una sola qualità di paesi, o a paesi poco differenti, sono state dagli uomini trasportate e stabilite in più paesi, in paesi differentissimi ec. Ciò è contro natura, come lo è lo stabilimento della specie umana medesima in quei luoghi che a lei non convengono. Le piante, gli animali ec. trasportate e stabilite dall’uomo in paesi a loro non convenienti, o non ci durano, o non prosperano, o ci degenerano, ci si trovano male ec. Gl’inconvenienti a cui le tali specie sono soggette ne’ tali casi in siffatti luoghi, sono forse da attribuirsi alla natura? e se esse in detti luoghi, pur, benchè male, sussistono, si dee forse dire che la natura ve le abbia destinate? e il genere di vita ch’esse sono obbligate a tenere in siffatti luoghi, o che loro è fatto tenere, e i mezzi che impiegano a sussistere, o che s’impiegano a farle sussistere, si debbono forse considerare come naturali, come lor propri per loro natura? e argomentare da essi delle intenzioni della natura intorno a detta specie?

Mentre pertanto non si può dubitare che la natura, quanto a se, ha limitato ciascuna specie di animali, di vegetabili ec. a certi paesi e non più; nel tempo stesso, al modo che nelle altre cose non si vuol riconoscere alcuna proporzione e analogia tra la specie umana e l’altre specie di esseri terrestri o mondani, così si pretende che la natura non abbia limitato la specie umana a niun paese, a niuna qualità di paesi; e a differenza di tutte l’altre specie terrestri, a ciascuna delle quali la natura ha destinato sol piccolissima parte del globo, si vuol ch’ella abbia destinato alla specie umana tutta quanta la terra. Che l’uomo infatto l’abbia occupata tutta, non si può negare. Così egli ha fatto milioni d’altre cose contrarie alla natura propria ed all’universale. Ma argomentar dal fatto, che tale occupazione sia secondo natura, è cosa stolta. Intorno a una specie di esseri che ha fatto e tuttogiorno fa tante cose evidentemente non pur diverse ma contrarie alla natura e propria ed universale, volendo discorrere della sua natura vera, e de’ suoi propri e primitivi destini, bisogna ragionare a maiori, perchè il ragionamento a minori diviene impossibile. Ragionare a maiori nel nostro caso, è considerare l’analogia, la quale abbiamo veduto che cosa dimostri. A minori si potrebbe confermare la stessa cosa, col veder le miserie fisiche a cui la specie umana è inevitabilmente soggetta in moltissimi paesi e climi, e le qualità e costituzioni fisiche p. e. de’ Samoiedi, la razza de’ quali, piccolissima e deforme, si può considerare come una degenerazione della specie umana, cagionata dal clima contrario alla sua natura propria e primitiva; degenerazione conforme a quella che manifestamente veggiamo in tante specie di animali, piante ec. stabilite da noi fuori de’ loro nativi, propri e naturali paesi, climi, terreni ec.

Ed in verità, ragionando anche astrattamente, non vi par egli assurdo, e fuor d’ogni verisimiglianza, e d’ogni proporzione o convenienza o similitudine con quello che in tutte l’altre cose veggiamo, che la natura abbia destinato una medesima e identica specie d’animali a nascere e vivere e prosperare indifferentemente in tante e così immense diversità di climi e di qualità di paesi, quante si trovano in questa terra, quanta è quella (per considerare una sola di tali infinite diversità, cioè quella del caldo e del freddo) che passa tra le regioni polari e l’equinoziale? Che l’ardore, il gelo; l’estrema umidità, l’estrema secchezza; la terra affatto sterile, la sommamente feconda; il cielo sempre sereno, il sempre piovoso; tutte queste cose sieno state dalla natura rendute affatto indifferenti al bene e perfetto e felice e proprio essere della specie umana? Ch’ella abbia ugualmente disposta la detta specie a tutte queste cose, a tutti questi estremi? Or questo è ciò che seguirebbe dal fatto, cioè dall’universale diffusione di nostra specie, se dal fatto si dovesse argomentare la di lei natura: questo è ciò che suppone veramente e necessariamente nel fatto la detta universal diffusione, e senza cui essa non può non esser cosa snaturatissima e contrarissima al ben essere della specie. Qual altra specie di animali, di vegetali ec. è o può mai parere a un filosofo disposta naturalmente, non dico a tutti i diversi estremi delle qualità de’ paesi, come si pretende o è necessario pretendere che lo sia indifferentemente la specie umana; non dico a due soli di tali estremi; ma pure a due differenze in tali qualità, che non sieno molto lontane dagli estremi? Qual proporzione, quale analogia sarebbe tra la detta natura fisica della specie umana, e quella di qualsivoglia altra specie, e di tutte insieme, e tra la natura universale?

Io dico dunque per fermo, che la specie umana per sua natura, secondo le intenzioni della natura, volendo poter conservare il suo ben essere, non doveva propagarsi più che tanto, e non era destinata senon a certi paesi e certe qualità di paesi, de’ limiti de’ quali non doveva naturalmente uscire, e non uscì che contro natura. Ma come contro natura ella giunse a un grado di società fra se stessa, ch’è fuor d’ogni proporzione con quella che hanno l’altre specie, e che in mille luoghi s’è dimostrato esser causa del suo mal essere e corruzione ec., così contro natura si moltiplicò e propagò strabocchevolmente; perocchè questa moltiplicazione, come poi contribuì sommamente ad accelerare, cagionare, accrescere i progressi della società, cioè della corruzione umana, così dapprincipio non ebbe origine se non dal soverchio e innaturale progresso d’essa società. Quanto le specie sono meno socievoli o hanno minor società, tanto meno si moltiplicano; e viceversa. Vedesi ciò facilmente nelle varie specie d’animali, e anche di piante ec. Vedesi ancora ne’ selvaggi e ne’ popoli più naturali, il numero della cui popolazione è per lo più stazionario come il loro stato sociale, il loro carattere, costume ec. (e tale doveva egli essere, secondo natura, in tutta la specie umana; e tale par che sia nell’altre specie d’animali). Piccole isole, segregate affatto dall’altre terre, hanno da tempo immemorabile fino a’ dì nostri, sempre ugualmente bastato alla popolazione racchiusa in esse, e tale certo ve n’ha, non ancora scoperta, che ancor basta alla sua popolazione, e basteralle fino a tempo illimitato, o in perpetuo. Ne’ paesi dove, dopo la prima occupazione fattane dagli uomini, la società non ha fatto altri progressi, non si è stretta niente di più che allor fosse, neanche il numero degl’individui umani è cresciuto, e la moltiplicazione appena v’ha luogo. Al contrario nelle società colte, e tanto più al contrario (salvo però molte altre circostanze naturali o sociali che giovano o nocciono per se alla moltiplicazione) quanto elle sono più colte. Dal che si vede che la soverchia moltiplicazione del genere umano, e la sua propagazione che da lei nasce e che ne è necessario effetto, non sono cose che vengono dalla natura, se non fino a un certo e conveniente grado. E necessaria alla soverchia diffusione del genere umano è stata, fra l’altre cose, la navigazione, così evidentissimamente contro natura; mentre questa anzi avrebbe dovuto insegnarla e renderla facilissima e non, com’è, pericolosissima ec. ec. ec., se la detta propagazione, a cui l’arte del navigare era necessaria, fosse stata secondo le sue intenzioni.

Come ho detto, altre specie sono naturalmente più, altre meno atte a moltiplicarsi, altre destinate a più e più diversi paesi, altre a meno e men diversi. Che la specie umana sia piuttosto delle seconde che delle prime, si può per analogia dedurre dal suo stesso essere nel suo genere, cioè nel genere animale, la più perfetta e suprema e migliore. Perocchè veggiamo che in ogni genere di vegetali, di minerali ec. le specie migliori son le più rare, le meno trasferibili fuor de’ luoghi natii ec. Quella pianta più d’ogni altra perfetta, che abbiam supposto di sopra, sarebbe verisimilmente la più rara, la più limitata a certa sorta di paese, di terreno. Le men perfette, a proporzione. Così pure a proporzione nel genere animale. Le migliori specie sarebbero le più rare, le più scarse nell’intrinseco numero ec. (Se tra le migliori e superiori vogliamo contare la scimia, l’uomo selvatico ec. che più s’avvicinano all’uomo, il fatto confermerebbe la mia supposizione). Ed essendo il genere animale nella natura terrestre, il migliore; e la specie umana essendo la sommità del genere animale, e quindi di tutte le specie e generi di esseri terrestri; ne seguirebbe ch’ella naturalmente dovesse essere di tutte le specie terrestri la più rara, e la più limitata nel numero e ne’ luoghi.

Con questi discorsi alla mano, e tenendo fermo che la propagazione della nostra specie accadde per la massima parte contro natura, io risponderò facilmente a chi dalle qualità di tali o tali paesi abitati ora dagli uomini, volesse dedurre che tali o tali istituti, costumi, usi, invenzioni ec. ec. non insegnati nè suggeriti, anzi contrariati dalla natura, e per lunghissimo tempo stati necessariamente ignoti ec. sieno, malgrado della natura, necessarii alla specie umana, alla sua vita, al suo ben essere. Io considererò tali costumi ec. come i rimedii dolorosi o disgustosi de’ morbi, i quali tanto sono naturali quanto essi morbi, che non sono naturali o avvengono contro le intenzioni e l’ordine generale della natura. La natura non ha insegnato i rimedii perchè neanche ha voluto i morbi; così s’ella ha nascosto p. e. il fuoco, non l’ha fatto perchè l’uomo dovesse di sua natura cercarlo con infinita difficoltà, usarlo con infinito pericolo ec. ma perch’ella non ha voluto che l’uomo vivesse e abitasse in luoghi dove gli facesse bisogno di fuoco, (nè si cibasse di ciò che senza fuoco non è mangiabile nè atto per lui ec.). E in questo modo e con questo mezzo ribatterò infinite obbiezioni di simil genere contro la mia teoria dell’uomo; chè certo il detto mezzo si estende a infinita diversità di cose.

E quanto al fuoco in particolare, dal quale abbiam preso occasione di questo discorso; che ne’ luoghi temperati o caldi, soli destinati dalla natura all’uomo, e ne’ quali infatti si vede che la vita de’ popoli non corrotti ancora, o men corrotti, dalla società, fu ed è più naturale che altrove, e men bisognosa d’invenzioni e mezzi e usi ec. ascitizi, e meno effettivamente di essi contaminata e alterata (si sa d’altronde e si vede sempre più chiaro per le storie e i monumenti e avanzi delle memorie antichissime, che si vanno di dì in dì più scoprendo e intendendo, che un paese caldissimo fu la culla, ed io aggiungo, la propria e natural sede di nostra specie); che ne’ paesi caldi, dico, la specie umana non abbia mestieri di fuoco a vivere e a ben vivere secondo natura (non secondo società, chè la vita sociale senza fuoco non può stare), si vede con effetto v. g. ne’ Californii; i quali, ch’io sappia, non usano fuoco in alcun modo, vivendo in caldissima temperatura, che lor risparmia il fuoco non men che le vesti; e cibandosi solo d’erbe e radici e frutta e animali che colle proprie mani disarmate raggiungono, vincono e prendono, e altre tali cose, tutto crudo. Ma quivi proprio, accanto a loro e tra loro, i missionarii ed altri europei quivi stabiliti, morrebbero certo se non usassero fuoco. La necessità del fuoco non vien dunque da’ climi ec. Intanto quei Californii sono a cento doppi nel fisico più sani, forti, allegri d’aspetto, e certo nel morale e nell’interno felici, che non questi europei.

Non sarà alieno da questo proposito il prevenir chi volesse obbiettare che moltissimi degli usi invenzioni ec. che hanno cagionato la corruzione del genere umano, o vi hanno contribuito, o da essa son nate, e l’hanno accresciuta ec. si trovano esser comuni o a tutti o a moltissimi popoli, anche selvaggi, anche affatto divisi tra loro, e diversissimi ec. anche privi fino agli ultimi momenti d’ogni commercio col resto del mondo ec., o alla massima parte dei popoli ec. (com’è l’uso del fuoco); e da ciò volesse dedurre che tali usi, invenzioni ec. benchè dalla natura contrariate, pur dalla natura dell’uomo erano richieste, ed a lei convengono, ed essa presto o tardi immancabilmente le scuopre, le adotta ec. Rispondo che tutte le cose persuadono una essere stata la culla del genere umano, e da un solo principio esser derivate tutte le nazioni, e da un solo paese uscite, e ad una sola origine doversi tutte riferire. Certo per lunghissimo tempo ebbe tutto il genere umano stretta relazione insieme, stante la prossimità de’ luoghi che esso, accrescendosi e dilatandosi, veniva di mano in mano occupando. Prima che alcuna parte dell’uman genere, o vogliamo dire alcun popolo, restasse così disgiunta dall’altre che niuna relazione avesse seco loro, era certamente già, non pur nata, ma notabilmente avanzata la corruzione del genere umano. Poichè, fra l’altre cose, questa medesima propagazione di esso genere, che le sue parti appoco appoco divise l’una dall’altra, non potè aver luogo senza ch’e’ fosse già corrotto, come dico nel pensiero antecedente, e la navigazione molto meno, senza cui non pare che il genere umano si potesse tanto diffondere, sino a perdere ogni communicazione tra le sue parti. Da qualunque causa per tanto e in qualunque modo nascesse e crescesse la corruzione e lo snaturamento di nostra specie, esso fu uno, e nacque e crebbe (fino a un notabil segno) in tutto il genere umano ad un tempo, siccome tutto il genere umano fu per immenso corso di secoli, una nazione sola, benchè sempre crescente. Dico dunque che questa corruzione è un fatto solo, e non più, tanto che dalla moltiplicità de’ fatti conformi, si possa raccogliere ch’essa corruzione era naturale e inevitabile. Dico che tutte le dette invenzioni, usanze ec. che si trovano esser comuni a tutti o alla più parte de’ popoli, ebbero una origine sola, (o il caso, o qualunque altra ch’ella si fosse); che una sola volta furono dagli uomini superate le immense difficoltà che la natura a tali invenzioni ec. opponeva; ch’elle si propagarono insieme coll’uman genere; che i più selvaggi popoli che fino al dì d’oggi si trovino nelle più remote isole e più divise da ogni commercio, erano, quando in esse si recarono, già notabilmente corrotti, e portarono seco le dette invenzioni ec. che lor sono comuni con tutti gli altri popoli, perchè tutti gli altri ancora dalla medesima fonte derivarono, e dal medesimo luogo e nazione ebbero quei tali usi e cognizioni ec., e non perchè queste nascessero tante volte quanti sono e furono i popoli della terra che le posseggono e possederono. Se l’uso del fuoco è comune a tutti i popoli, io dico che la sua origine fu sola una. Se la navigazione è comune anche a moltissimi selvaggi e barbari che da tempo immemorabile fino agli ultimi secoli o fino agli ultimi anni, non ebbero relazione alcuna coi popoli civili, o niuna per ancora ne hanno; io dico che la navigazione fu scoperta una volta sola, e che di questa scoperta tutti i popoli che navigano ne profittarono, e che da essa derivano non meno le canoe fatte di un sol tronco scavato, e mosse con un ramo d’albero per remo, che i bastimenti i più artifiziati e le barche a vapore. E certo quei popoli non sarebbero, cioè non abiterebbero in quei paesi, e non sarebbero disgiunti dagli altri popoli, se prima di divenir tali, essi non avessero conosciuta la navigazione, col cui mezzo si allontanarono dagli altri. Dunque s’ei la conobbero prima di separarsi dalla nazione ond’essi derivano, questa nazione la conosceva. Dunque se questa la conosceva, anche quella ond’essa venne. Dunque così di mano in mano si giungerà fino a quella nazione, onde tutte provennero, cioè al genere umano ancora indiviso, e formante per anche una sola nazione. Così discorrasi di tutte quell’altre scoperte ec. ch’essendo maravigliosissime e parendo quasi impossibili, pur si trovano esser comuni a tutti o quasi tutti i popoli, ancorchè incolti, remotissimi, disgiuntissimi ec. (Giacchè dell’altre che son facili, e poco contrariate dalla natura ec. non è necessario il suppor lo stesso, non è maraviglia se ciascun popolo, ancorchè rozzo, potè trovarle, se il caso che le mostrò, essendo facile e proclive ad accadere, ebbe luogo molte volte e in molti luoghi ec. più presto qua e là più tardi, ma pur dappertutto, in tanto spazio di tempo quanto è ch’esistono quei popoli; e niuno argomento se ne può trarre a provare ch’elle sieno naturali, per la moltiplicità delle loro origini; perocchè de’ popoli bastantemente corrotti, era ben naturale che tutti, presto o tardi, le trovassero ugualmente; oltre che tali scoperte ec. facili e proclivi non sono mai causa di gran corruzione, nè molta ne richieggono, nè molto si oppongono alla natura, nè molto contribuirono a snaturare la nostra vita e la nostra specie).

Tant’è. Popolo umano totalmente naturale e incorrotto, non esiste. Tutti i popoli, tutti gl’individui umani sono corrotti e alterati, perchè tutti hanno origine da un medesimo popolo, il quale fu corrotto prima di emetterli, o vogliamo dire prima di diffondersi e dividersi, nè si sarebbe tanto diffuso e tanto diviso se prima non fosse stato corrotto. Ma questa originaria corruzione che in moltissimi popoli si fermò e non passò più oltra, e dura anche oggidì, quasi corruzione primitiva (giacchè popoli o uomini di vita veramente primitiva non si trovano, nè si possono onninamente trovare, stante la corrotta origine di tutti, [indicata ancora dalla Scrittura ec.]); questa corruzione dico, secondo le diverse circostanze naturali o accidentali o qualunque, in altri passò più o meno avanti, poi si fermò e divenne stazionaria (come nel Messico, nella China); in altri retrocedette, poi risorse, poi seguitò e segue sempre a progredire, come in Europa.

Questo mio discorso non è immaginazione. L’universale e costantissima tradizione e le memorie tutte della remotissima antichità provano che una in fatto fu l’origine dell’uman genere[a]

V. p. 3811.

[Chiudi]. Esse e la ragione provano che l’unicità di nazione nell’uman genere durò e dovette naturalmente durare per lunghissimo tratto di secoli. Essa tradizione espressa, esse memorie, essa ragione provano che la prima corruzione del genere umano fu universale, cioè di tutto il genere insieme, che dalla nazione umana già corrotta, già degenerata, già ricca di moltissime invenzioni ec. (il che non potè essere che dopo lunghissimo spazio) si derivarono e si diffusero e separarono le varie nazioni in ch’ella poi si divise. (torre di Babele ec.)

E venendo ad altri fatti, si trova che le scoperte ec. difficili, le quali furon proprie di qualche nazione particolare, e nacquero dopo la divisione del genere umano; benchè necessarissime alla vita civile, benchè tali che senza di esse la civiltà non sarebbe potuta crescere, nè pur giungere a un grado da meritare un tal nome, non si sono mai introdotte, se non presso le nazioni che hanno o hanno avuto relazione tra loro; e nell’altre, benchè giunte ancora fino a un certo segno di dirozzamento, come la China e il Messico ec., non si sono introdotte ancora, quantunque nelle civili nazioni esse sieno antichissime, e d’origine immemorabile; o non vi s’introdussero se non per mezzo delle nazioni civili che ve le recarono dopo innumerabili secoli. Il che prova evidentemente che tali scoperte ec. ebbero un’origine sola (o fosse il caso o qualunqu’altra), poich’esse non furono mai note se non a nazioni che scambievolmente conversarono; e che esse scoperte non si rinnovarono mai, poichè nelle nazioni separate da quelle, ancorchè colte, in immenso spazio di tempo, mai non nacquero. Onde se quelle nazioni le conobbero, ciò fu precisamente a causa del loro scambievole usare; sicchè quelle scoperte ec. ebbero un’origine sola, e non furon fatte più che una volta, e da detta origine provennero a tutte le nazioni che le conobbero e le conoscono. Dunque se altre tali scoperte ec. difficili, son comuni a tutti i popoli, anche separati, anche barbarissimi, si dee supporre ch’elle fossero fatte prima che tali popoli si separassero di là ond’essi vennero; e si deve parimente dire che anch’esse non ebbero più che una sola origine.

Le scoperte ec. che ho detto esser solamente comuni ai popoli che tra loro hanno trattato, sono infinite. Bastimi una. L’uso della lingua è necessario alla società. Mirabilissima scoperta è quella della favella. Nondimeno tutti i popoli favellano. Appena gli uomini incominciarono a stringere una società, incominciarono a balbettare un linguaggio. La natura stessa lo insegna sino a un certo punto, non solo agli uomini, ma eziandio agli altri animali; agli uomini molto più, ch’ella ha fatto certo più socievoli. Stringendosi maggiormente la società, e crescendo lo scambievole usare degli uomini, fino a passare i termini voluti e prescritti dalla natura; crebbe necessariamente il linguaggio, e divenne più potente che la natura non voleva. Tutto ciò dovette necessariamente aver luogo prima che il genere umano si dividesse. Quando e’ si divise, ei parlava di già, non che favellasse. Ciò si prova a maiori e a minori; e perchè la società crescente produceva di necessità l’incremento della lingua, e perchè questo era necessario all’aumento di quella; perchè il genere umano non si sarebbe diffuso, se la società non fosse stata già bene stretta e cresciuta e adulta, nè questo poteva essere senza un sufficiente linguaggio, e senza un tal linguaggio il genere umano non si sarebbe diffuso ec. Quindi è che l’invenzione del linguaggio, così com’ella è maravigliosissima, è pur comune a tutti i popoli, anche a’ più separati e più barbari.

Ma è forse altrettanto della scrittura alfabetica? Questa non era necessaria alla diffusione del genere umano. Bensì ell’è necessarissima alla sua civiltà, bensì ell’è comune a tutte le nazioni civili, e a quelle che il furono ec. moltissime di numero, bensì ell’è antichissima, e la caligine de’ tempi nasconde la sua origine; ma perciò ch’ella fu pur più moderna della divisione dell’uman genere, non si troverà nazione alcuna divisa dall’europee ec. ec., per molto sociale ec. ec. ch’ella sia, la quale conosca la scrittura alfabetica, o che la conoscesse prima di riceverla da noi. La China così colta, ha una scrittura, ha libri, ha letteratura ec., ma l’alfabeto non già. I Messicani avevano una scrittura, ma di alfabeto neppur l’immaginazione. E ciò perchè l’invenzione dell’alfabeto (come ho sostenuto altrove, e come si può confermare con questo discorso) fu sola una, e mai non si rinnovò, e chi non ebbe e non potè aver notizia dell’alfabeto, direttamente o indirettamente, dal primo o da’ primi che l’inventarono, o fin ch’e’ non l’ebbe di là, mai non ebbe alfabeto, mai non l’inventò esso (in immenso spazio di tempo), nè gliene venne pure in pensiero. La China ne ha avuto notizia, ma non l’ha adottato, per la natura sua, e per la difficoltà di mutare o distruggere le usanze antichissime e universali nella nazione, e collegate con cento altre che converrebbe pur mutare (come lo è la scrittura chinese colla letteratura, e quindi coi costumi, coll’istruzione popolare ec. ec.); e d’introdurne universalmente delle affatto nuove e troppo diverse di genere ec. ec.

A questo proposito si consideri ancora quante invenzioni ec. che per lunghissimo tempo furono proprie degli antichi, ed anche comuni a molte nazioni, ed anche volgari; perdute ne’ tempi bassi, non si sono potute mai più rinnovare, nè mai probabilmente si rinnoveranno (com’è quella della pittura all’encausto); e ciò, non ostante che se n’abbia pur la notizia in genere, cioè la memoria ch’esse furono e quali furono, e sovente ancora parecchie notizie in ispecie, cioè vestigi del come furono, de’ metodi e processi ec. del modo ec. de’ mezzi, ingredienti ec. della forma di adoperarle ec., e le notizie particolari e distinte de’ loro effetti e fini ec. Contuttociò ad ingegni così civili, così raffinati, acuti, penetranti, esercitati, coltivati, così speculativi, così inventivi, così avvezzi e dediti a inventare, a speculare, a meditare, a riflettere, a osservare, a comparare, a ragionare ec. quali son divenuti gl’ingegni umani (ben altri erano certo e sono i primitivi e selvaggi ec.), non è bastato l’animo, dalla risorta civiltà in poi, di poterle ritrovare una seconda volta. (11. Ott. 1823.).

Il pensiero antecedente conferma le idee da me altrove esposte circa la primitiva unicità del linguaggio fra gli uomini, e la derivazione di tutte le lingue presenti e passate da una sola e primitiva (cosa appoggiata dalla Scrittura Santa); e circa l’unicità dell’invenzione dell’alfabeto, e dell’origine prima di tutti gli antichi e moderni alfabeti. (11. Ott. 1823.).

La impotenza e strettezza della lingua francese e la sua inferiorità per rispetto all’altre di qui facilmente si può comprendere, che l’altre lingue possono, sempre che vogliono, agevolmente vestire la forma e lo stile della francese (com’effettivamente hanno fatto o fanno tutte le lingue colte d’Europa, o per un certo tempo massimamente, come l’inglese e la tedesca, o anche oggidì, come l’italiana, la spagnuola, la russa, la svedese, la olandese ec.; e bene avrebbero potuto farlo e potrebbero farlo sufficientemente anche senza corrompersi e senza violentare dirittamente la loro propria e caratteristica indole); laddove la francese non può per niun modo prendere la forma nè lo stile dell’altre lingue, nè altra forma alcuna che la sua propria. E non pur dell’altre lingue che da lei sono aliene, per così dire, di famiglia e di sangue, come l’inglese, la tedesca, la russa ec. le quali pur possono vestire ed hanno vestito o vestono la forma della francese; ma neanche delle cognate, nè delle sorelle, come dell’italiana e della spagnuola; nè della lingua stessa sua madre, come della latina. (12. Ott. Domenica. 1823.).

Colla medesima proporzione che altri viene perfettamente e veramente conoscendo e intendendo le difficoltà del bene scrivere, egli impara a superarle. Nè prima si conosce e intende compiutamente, intimamente, distintamente e a parte a parte tutta la difficoltà dell’ottimo scrivere, che altri sappia già ottimamente scrivere. E ciò per la stessa ragione per cui l’arte di bene scrivere, e il modo, e che cosa sia il bene scrivere, non può essere compiutamente conosciuto e inteso se non da chi compiutamente possegga la detta arte, cioè sappia interamente metterla in opera. Sicchè in un tempo medesimo e si conosce la difficoltà del perfetto scrivere, e s’impara il modo di vincerla e se n’acquista la facoltà. E solo colui che sa perfettamente scrivere ne comprende sino al fondo tutta la difficoltà, nè altrimenti può mai bene scrivere, ancorch’ei già sappia compiutamente farlo, che con grandissima difficoltà. Coloro che male scrivono, stimano che il bene scrivere sia cosa facile, e scrivono al loro modo agevolmente, credendosi di scriver bene. E peggio e’ sogliono scrivere, più facile stimano che sia lo scriver bene, e più facilmente scrivono. Il considerare il bene scrivere per cosa molto difficile, è certissimo segno di esser già molto avanzato nel sapere scrivere, purchè questo tale sia veramente ed intimamente persuaso della difficoltà ch’ei dice, e non la affermi solamente a parole e mosso da quello ch’ei n’intende dire, e dalla voce comune. (Perocchè anche chi non sa scrivere, dice che il bene scrivere è molto difficile, ma e’ nol dice per coscienza nè per prova nè con vera persuasione, e s’egli è uno di quelli che s’intrigano di scrivere e che presumono di saperlo fare, certo è ch’egli in verità non crede che ciò sia difficile, come comunemente si dice, e com’ei pur dice cogli altri). Per lo contrario lo stimare che il bene scrivere sia cosa facile o poco difficile, e il confidarsi di poterlo e saperlo agevolmente fare, o poterlo apprender con poco, è certo segno di non saper far nulla, e di esser sui principii nel possesso dell’arte, o molto indietro. (Così è generalmente di tutte le arti, scienze ec.) Da queste osservazioni si dee raccogliere quanti possano esser quelli che perfettamente conoscano il pregio, e stimino il travaglio, il sapere, l’arte e l’artifizio di una perfetta scrittura e di un perfetto scrittore, del che a pagg. 2796-9. (12. Ott. 1823. Domenica.).

Alla p. 3349. Non è da trascurare una differenza che si trova fra il carattere, il costume ec. degli antichi settentrionali e abitatori de’ paesi freddi, e quel de’ moderni; differenza maggior di quella che suol trovarsi generalmente dagli antichi ai moderni. Perocchè gli antichi settentrionali ci sono dipinti dagli storici per ferocissimi, inquietissimi, attivissimi non solo di carattere, ma di fatto, per impazienti del giogo, sempre vaghi di novità, sempre macchinanti, sempre ricalcitranti e insorgenti, e per quasi assolutamente indomabili e indomiti. Germani, Sciti ec. I moderni al contrario sono così domabili, che certo niun popolo meridionale lo è altrettanto. E tanto son lungi dalla ferocia, che non v’ha gente più buona, più mansueta, più ubbidiente, più tollerante di loro. E se v’ha parte d’Europa dove meno si macchini, e si ricalcitri al comando, e si desideri novità e si odi la soggezione, ciò è per l’appunto fra i popoli settentrionali. In questa tanta diversità di effetti hanno certamente gran parte da un lato la diversità de’ governi antica e moderno, dall’altro la poca coltura del popolo nelle regioni settentrionali. Ma grandissima parte v’ha certamente ancora la differenza materiale della vita. Gli antichi settentrionali, ma difesi contra le inclemenze dell’aria dalle spelonche, proccurantisi il vitto colla caccia ( Georg. 3. 370. sqq. etc.), alcuni anche erranti e senza tetto, come gli Sciti ec., erano anche più ὑπαίθριοι di vita, che non sono i meridionali oggidì. Introdotti gli usi e i comodi sociali, i popoli civilizzati del Nord divennero naturalmente i più casalinghi della terra. Niuna cosa rende maggiormente quiete e pacifiche sì le nazioni che gl’individui, niuna men cupidi, anzi più nemici di novità, che la vita casalinga e le abitudini domestiche, le quali affezionano al metodo, rendono contenti del presente ec. come ho detto ne’ pensieri citati in quello a cui questo si riferisce. Quindi è seguìto che non per sole circostanze passeggere e accidentali, come la maggiore o più divulgata e comune coltura di spirito ec. ma naturalmente e costantemente, nel sistema di vita sociale, e dopo resa la civiltà comune al nord come al sud, i popoli del mezzogiorno, come meno casalinghi, sieno stati, sieno, ed abbiano a essere più inquieti e più attivi di quelli del settentrione, sì d’animo, sì di fatti, al contrario di quello che porterebbe la pura natura degli uni e degli altri comparativamente considerata. Ond’è che i settentrionali moderni e civili sieno in verità molto più diversi e mutati da’ loro antichi, che non sono i meridionali dagli antichi loro, sì di carattere, sì di usi, di azioni ec.

Ed è a notare in proposito della vita casalinga, metodica e uniforme, ch’ella contribuisce a mettere in attività l’immaginazione, a destare e pascere le illusioni, a far che l’uomo abbondi d’immagini e di deliri, e con questi facilmente faccia di meno delle opere, e basti a se stesso, e trovi piaceri in se stesso, ad accrescere la vita e l’azione interna in pregiudizio dell’esterna; assai più che non fanno la bellezza e la vitalità della natura ne’ paesi meridionali. Qui gli uomini sono distratti e dissipati, e versati al di fuori, ed hanno sempre sotto gli occhi il mondo, e gli altri uomini, e la vita, e la società e la realtà delle cose; il che distrugge o impedisce l’immaginazione e l’illusione, e produce la noia, e quindi la scontentezza del presente e il desiderio di novità. Ma nella vita casalinga, la solitudine, l’esser sempre, o il più del tempo, raccolto in se stesso, l’esser privo o scarso di distrazioni, stante il metodo e l’uniformità della vita e la poca società, lascia libero il campo alle facoltà dell’anima di agire, di svilupparsi, di ripiegarsi sopra se stesse, di meditare, di pensare, di riflettere, d’immaginare, e produce necessariamente un’abitudine di pensiero, che nuoce sommamente, o anche esclude, sì l’abito sì l’inclinazione sì l’atto dell’operare. E d’altronde l’esser gran parte del tempo, lontano dal mondo, dalla società, dagli uomini di fuori; l’abitudine di veder la vita e le cose umane ordinariamente da lungi, produce naturalmente le illusioni e i bei sogni e i castelli in aria, e lascia libero l’immaginare e il figurarsi, e il crearsi il mondo e gli uomini e la vita a suo modo, e dà luogo alla speranza; o perduta ch’ella sia, le agevola il ritorno (perchè la speranza, purchè sia lasciata fare, e non sia continuamente respinta dalla realtà, per natura dell’uomo indubitatamente e presto ritorna); o indebolita, le dà agio di ristorarsi e rintegrarsi; o moribonda, la conserva, se non altro, in vita; o fa insomma, che in parità di circostanze, ella sia sempre maggiore che non sarebbe in una vita in mezzo al mondo; e tien lungi, o ritarda, o minora il disinganno, o ne indebolisce gli effetti, o ne ristringe l’estensione ec.

Conseguenza e prova di queste osservazioni si è che infatti i settentrionali per una parte sono più profondi e sottili speculatori, più filosofi, massime nelle scienze astratte, o parti più astratte di esse, o generi più astratti ec., e insomma più pensatori, che i meridionali; onde la Staël chiama la Germania la patrie de la pensée. E per altra parte, cosa che sembra contraria sì alla detta qualità, sì alla natura rispettiva de’ settentrionali e meridionali, sono più immaginosi e più poeti veramente e più sensibili, entusiasti, e di fantasia più efficace e forte (quanto però al poetare, non quanto all’operare; e quanto a ciò ch’è opera del solo spirito, non del corpo), e più inventivi originali e fecondi che non sono i meridionali. Ma ciò, secondo le suddette osservazioni, si deve intendere, ed è infatti, de’ soli settentrionali e meridionali moderni, stante le moderne circostanze degli uni e degli altri. Negli antichi, stante la diversità di tali circostanze, doveva essere ed era tutto l’opposto, cioè i meridionali più immaginosi, fecondi ec. de’ settentrionali, conforme alla vera natura, e alla natural proprietà degli uni e degli altri. Sicchè la detta superiorità de’ settentrionali moderni ec. è veramente uno de’ tanti accidenti sociali; bensì di quelli costanti e connaturali all’essenza della civiltà assolutamente, e che durando la civiltà appo gli uni e appo gli altri popoli, non possono mai venir meno.

Del resto l’immaginazione de’ settentrionali rispetto alla meridionale quanto è, generalmente e tutta insieme, più forte, viva, vigorosa, attiva, feconda e maggiore, tanto ancora è più sombre, lugubre, trista, malinconica, funesta e, si può dir, brutta. Perocchè, lasciando l’altre circostanze, essa è nutrita dalla solitudine, dal silenzio, dalla monotonia della vita; e la meridionale dalle bellezze e dalla vitalità ed attività della natura; e le opere di quella nascono tra le pareti di una camera scaldata da stufe; le opere di questa nascono, per così dire, sotto un cielo azzurro e dorato, in campagne verdi e ridenti, in un’aria riscaldata e vivificata dal sole. (13. Ott. 1823.)

Alla p. 3637. Anzi l’amore che noi portiamo al cibo e simili cose che o ci servono o ci dilettano, si potrebbe piuttosto chiamare odio, perocch’esso, mirando solamente al nostro proprio bene, ci porta a distruggere, in vista di esso bene, o a consumare in qualunque modo e logorare e disfare coll’uso, l’oggetto amato; o ad esser disposti a disfarlo o pregiudicarlo se, e quanto, e come il nostro bene, e l’uso che perciò abbiamo a farne, lo richiedesse. Quale è l’odio che il Lupo porta all’agnello, e il falcone alla starna, i quali veramente non odiano nè la starna nè l’agnello, anzi, secondo che noi sogliamo discorrere dell’altre cose, si dovrebbe dire ch’essi gli amassero. Ma perciocchè questo amore li porta a ucciderli e distruggerli per loro proprio bene, perciò noi lo chiamiamo odio e inimicizia. (V. Speroni Dialogo 5.o Ven. 1596. p. 87-8.) Or tale nè più nè meno si è l’amore degli uomini primitivi verso le femmine, se non quanto il piacere ch’essi ne bramano e ricercano non richiede la distruzione di quelle. Ma s’e’ la richiedesse, l’amor delle donne porterebbe i primitivi a distruggerle, tanto è lungi ch’e’ ne gli ritenesse. Siccome infatti ei gli porta a non avere riguardo alcuno agl’incomodi e ai danni fisici che molte volte loro recano per soddisfare al desiderio proprio, nel proccurarsi il proprio piacere con esse ec., anche potendo far questo senza danneggiare. Ed accade pure (eziandio fra’ civili) che volendo con esse proccurarsi il proprio piacere, o potendo o non potendo a meno, o prevedendolo o non prevedendolo, e’ le uccidano, o loro sieno cagione di morire in breve o fra certo tempo, o di soffrir grandemente nella sanità corporale, anche per sempre. E non sono elle uccise tuttodì dagli amanti nell’onore? ec. ec. Così fatto e non altro si è l’amore de’ primitivi verso le donne; e delle donne altresì verso gli uomini, proporzionatamente alla natura e alle forze di quelle rispetto a questi. E forse solamente dei primitivi? Queste osservazioni si applichino a quelle in cui proviamo che dall’amor proprio nasce necessariamente l’odio verso altrui ec. (13. Ott. 1823.).

Cattiva ortografia italiana nel 500. per troppo voler somigliarsi all’uso della scrittura latina. Machiavelli scrive alcune volte (o così portano le sue antiche stampe) sanctissimo per santissimo. (13. Ott. 1823.).

Non v’è persona che riesca più intollerabile e che meno sia tollerata nella società, di uno intollerante. (14. Ott. 1823.).

Mêler ant. mesler, secondo che ho detto altrove, è da misculare o mesculare, come mâle, ant. masle, da masculus. (14. Ott. 1823.).

Excusso as, excussabilis, excussatus, da excutio is (intorno al qual verbo e suoi affini, come concutio ec. e loro continuativi, mi pare aver detto altrove), vedili nel Forcellini. (14. Ott. 1823.).

Intorno alla voce anceps, di cui nella mia teoria de’ continuativi, vedi la voce am nel Forcell. (14. Ott. 1823.).

Voci basse e volgari e del latino non illustre ma rustico, e riprovate dagli scrittori anche fino al tempo di S. Girolamo; due delle quali sono ora proprie delle lingue moderne. V. il Forcell. in Annihilare , e il Gloss. ec. (14. Ott. 1823.).

Nomi in uosus, verbi in uare ec. ec. come altrove in più luoghi. Aggiungi amanuensis. Casuale. Exercitualis. Casuiste, franc. Luctuosus. Fructuosus. Fatuité. fortuitus. mortualia, mortuarius, mortuosus. manualis. manuarius. Questi nomi o verbi o avverbi ec. ch’essendo fatti da nomi della quarta declinazione (come da manus) conservano sempre l’u, mentre quelli fatti da’ nomi della seconda, sempre (o regolarmente) lo perdono, mostrano chiaramente che il genitivo ec. de’ nomi della quarta, ch’ora è in us lungo ec. o in u lungo ne’ neutri, anticamente fu in uus o in uu ec. V. p. 3752. Giacchè si vede che i derivati da’ nomi della quarta si formano al modo istesso che i derivati delle voci nelle quali il doppio u ancor si conserva ed è manifesto e fuori di controversia, come dire i derivati de’ nomi in uus ec. I quali due in valsero per una sola sillaba, come il doppio u degli ablativi singolari della prima. Sia che questo, e il doppio u, si pronunziassero doppi, o pur semplici, strascinando in certo modo la voce ec. In tutti i modi quest’osservazione si riferisca al mio discorso sui dittonghi latini non considerati da’ grammatici, o ch’essi nella pronunzia fossero monottonghi, o dittonghi veramente, o trittonghi ec. che tutto fa egualmente a quello ch’io voglio dimostrare in detto discorso. Perocchè s’anche e’ divennero col tempo monottonghi, e ciò fino nella migliore età della lingua latina (come i comuni ae oe ec.), ciò tuttalvolta, anzi più che mai, dimostra che gli antichi latini (de’ quali nel detto discorso si parla) pronunziavano sì rapidamente le vocali successive e concorrenti, ch’e’ le tenevano tutte insieme (o due o più che fossero) per una sillaba sola, e tale le facevano essere nella pronunzia, e sovente nella scrittura e ne’ versi più o men regolari, più o men rozzi e informi, e massime ne’ ritmici, che certo furono propri de’ più antichi, come poi de’ più moderni, invece de’ metrici, o più di questi ec. ma eziandio ne’ metrici, ec. ec. (14. Ott. 1823.).

Alla p. 2903. — e conspico o conspicor, despico (v. Forc. in despicatus) e despicor, (e s’altro tale ve n’ha da specio o da’ suoi vari composti), a proposito del quale, benchè conspicor si trova ordinariamente in senso nè più nè meno di conspicio, cioè per nulla continuativo, nondimeno è da notare il luogo di Varrone, ap. Forcell. Contemplare et conspicare, idem esse apparet. Dunque conspico è propriamente di significazione continuativo. Vedi ancora l’altro luogo di Varrone dove conspicor è passivo ap. Forcell. ibid. cioè in Conspico. (14. Ott. 1823.).

Ignotus, ch’è specie di participio, attivamente preso per qui non novit. V. Forcell. (14. Ott. 1823.).

Nella mia teoria de’ continuativi ho discorso in differente luogo di exercitare e di arctare, quello continuativo di exerceo, questo di arceo. Nótisi che exerceo è un de’ composti di arceo (almeno così giudico), come coerceo, onde forse (sebbene ei fa coercitum) è coarctare ec. come ho detto parlando di arctare ec. (14. Ott. 1823.).

Sella è certamente un diminutivo positivato di sedes (o di sedia, di cui altrove), come tra noi seggiola e seggetta sono diminutivi positivati di seggia, corruzione di sedia, che parimente abbiamo, cioè seggia e sedia, siège ec. Gli spagnuoli silla, pur diminutivo positivato. Sella it. selle franc. in uno de’ significati del lat. sella. Gli spagnuoli anche qui silla. Sella per sedia, sede, è di Dante. Sella in senso lordo, v. la Crusca. Sella lat. è diminutivo come trulla e simili. Diminutivo del diminutivo, sellula. Quindi sellularius, il cui senso si può dir positivo. Così bene spesso formula lat. formola ec. per forma. (14. Ott. 1823.).

Alla p. 3618. fine. Io credo che niun de’ verbi di questo genere abbia perfetto proprio, nè i tempi che ne dipendono, nè supino, nè participio in us, ma li tolgano in prestito[a]

V. p. 3725.

[Chiudi] dal verbo originale. Che se questo non esiste, io credo che un tempo esistesse. P. es. di suesco, adolesco, cresco ec. che hanno perfetto e supino, io credo che esistessero verbi originali, come sueo, adoleo ec.[b] di cui fossero propri i detti perfetti e participii, giacchè il perfetto e participio o supino regolare e dovuto di suesco ec. sarebbe suesci, suescitum, non suevi, suetum [a]. Così dico di glisco, il quale non ha nè perfetto nè supino. Così di adipiscor, di nascor, di nosco. Se ciò è vero, notus, natus, non sarebbero contrazioni di noscitus (questo esistè come prova il verbo noscitare), di nascitus e questo ancora è provato da nasciturus (nè adeptus di adipiscitus) come ho detto altrove in più luoghi, ma participii e supini proprii d’ignoti verbi da cui nosco, nascor ec. sarebbero stati formati. E nosco non verrebbe da νοΐσκω, come ho detto p. 2777., ma sarebbe stato anche in latino un verbo originale no (diverso da nare) conforme al greco νοῶ (come δόω do, πόω po che altrove abbiam dimostrato, e simili monosillabi di cui ho detto in più luoghi); dal qual no sarebbe stato fatto il verbo nosco, non per uso greco, ma per uso latino, (e secondo la ragion latina di formazione e significato ec.) concordevole in questa parte quanto al materiale della formazione o della forma col greco, che ebbe pur νοΐσκω e νώσκω, onde γινώσκω e γιγνώσκω che suonan lo stesso di nosco. Ma concordevole per pura combinazione particolare, anzi singolare forse. V. p. 3826.

Io credo certo che tutti questi tali verbi sieno originariamente fatti da altri verbi ignoti, come vivesco dal noto vivo [b]

V. p. 3708.

[Chiudi], hisco dal noto hio, e altri tali di questa desinenza in sco. E lo credo perchè, come vivesco significa divenir vivo, cioè divenir quello che dal verbo vivo è significato essere, cioè esser vivo, e come hisco significa aprirsi, cioè divenire aperto, mentre hio significa essere o stare aperto ec.; così tutti i detti verbi nosco, nascor, adipiscor, sinesco, adolesco, cresco ec. di cui non si conoscono gli originali, significano però divenire, incominciare a essere o a fare quella tal cosa o azione, venir essendo o soffrendo ec.[c] che è proprietà del significato de’ verbi latini in sco. E stimo che dovessero avervi per tutti questi, altrettanti verbi originali che significassero il pieno essere quella tal cosa, il pieno fare o patire quella tale azione o passione. Come vivo rispetto a vivesco, hio rispetto ad hisco, ed altri tali non pochi. Così augesco rispetto ad augeo neutro (v. Forcellini in Augeo sulla fine). Così scisco da scio, è propriamente divenire sciens, cioè quasi imparare, intendere, conscius, certior fieri, divenire, esser fatto consapevole, e quel che i latini dicono discere, il qual verbo (che manca del supino) spetta pure a questa categoria. E poichè i perfetti e supini di tali verbi (se e’ gli hanno) non sono regolari, io credo che ciò sia perchè questi non son loro, ma di altri verbi originali, ne’ quali essi sarebbero regolari, e stimo che tale irregolarità e tali perfetti e supini, convenienti ad altri verbi, e sconvenienti (per analogia grammaticale) a quei verbi a cui ora appartengono, dinotino altri verbi originali perduti. Massime che si trovano vestigi de’ supini ec. regolari di detti verbi ch’ora esistono, come noscitare, nasciturus, che mostrano i regolari supini di nascor e nosco, cioè noscitus e nascitus; i quali non è verisimile che sieno stati contratti essi medesimi in natus e notus, e che sieno grammaticalmente tutt’uno con questi[a]. Il difettivo novi novisti, usato in senso presente ec. (ond’e’ non si può considerare per parte di nosco, come fanno i grammatici) è, secondo me, un avanzo e un segno evidente di no verbo perduto, che nel perfetto fece novi, e nel supino notum (come po fece potum che ancor resta, onde potare: resta anche potus participio. ec.), voci poi trasportate al suo derivato nosco, che grammaticalmente è in verità difettivo, non men di novi isti con cui egli è supplito, facendo d’ambo un solo[b]. Così memini è avanzo e segno certo di meno perduto, anzi rimasto difettivo; da cui reminiscor o reminisco (mancante di perfetto e supino) che spetta pure a questa categoria, e s’altri v’ha, suoi compagni; come, secondo me, comminiscor, che viene, credo, da meno (non da mens come Forcell.), a cui o a commeno (ignoto) spetta, grammaticalmente parlando, il participio commentus, contratto da menitus o da commenitus. (Puoi vedere la p. 2774.)

Del resto se in qualunque modo si volesse credere, come si è creduto finora, che p. e. suevi suetum sieno propri perfetti e supini di suesco, e non tolti in prestito, allora si dovrà dire che anche scivi scitum che sono della stessa forma, sieno propri e veri di scisco, ch’è della stessa forma, genere di significato e categoria di suesco. Ma il verbo sciscitor dimostrando il supino sciscitum è un altro esempio che conferma, come noscito, la mia opinione. E la conferma altresì il vedere che il perfetto e il supino di scisco sono infatti, grammaticalmente, gli stessi che quelli di scio, verbo noto ed esistente e usitato, e verbo riconosciuto fuor di dubbio per origine di scisco. V. p. 3763.

Niteo es ui — nitesco is. Albeo es — albesco is. Nigreo es ui — nigresco is. Flaveo es — flavesco is. Horreo es ui — horresco is. Candeo es ui — candesco is — excandesco is ui (notate lo stesso perfetto di candeo, che certo, almeno grammaticalmente, è di excandeo ignoto, e non, come dicono, di excandesco. Così dite di extimesco, e pertimesco, is, che hanno il perfetto ui, il quale grammaticalmente è certo di un pertimeo e di un extimeo, da timeo che ha infatti timui. E trovasi veramente pertimens, e fors’anche il verbo extimeo.) Notesco is ui ec. Vireo — Viresco. Valeo — Valesco — Convalesco, ui. Sanesco, Consanesco ui. Fluesco. Liquesco. Seneo, Senesco, Consenesco ui. Crebresco is ui. Flammesco is. (14. Ott. 1823.). Tutti questi verbi in esco significano fio col participio attivo de’ rispettivi verbi in eo. Cioè nitens fio, candens fio. ec. Concupisco is — concupio. Il proprio senso de’ verbi in sco, è quale l’abbiam definito: pur se ne troverà che o sempre o per lo più o talvolta abbiano un senso diverso, p. e. conforme a quel de’ loro verbi originali noti o ignoti[a]

V. p. e. la definiz. di tremisco nel Forcell.

[Chiudi]. Ciò non fa meraviglia. Il simile ho notato accadere ne’ continuativi. E questo esempio de’ verbi in sco, del cui proprio significato non v’è controversia[b], può servire a rispondere a chi dal non continuativo senso di molti continuativi, o in molti casi ec., volesse trarre argomento di riprovare la nostra teoria della vera e propria e regolare significazione de’ continuativi ec. (14. Ott. 1823.).

Credito as da credo itus. (14. Ott. 1823.).

Circa il verbo nicto, di cui altrove, vedi Forc. in nico is. Inclino molto a credere che quello sia continuativo di questo, anzi che d’altro verbo; dico quel nicto che sta appresso a poco per μύω ec. (14. Ott. 1823.).

Alla p. 2819. marg. Vado che è βάδω (derivativo di βάω, o piuttosto lo stesso verbo diversamente pronunziato ec.) verrebbe a essere originalmente stretto affine di bito o beto per etimologia, come lo è per significato compagno. Del resto il significato di bito e βαίνω (alterazione di βάω come φαίνω di φάω ec. ec. del che altrove) è propriamente lo stesso. Bito is continuativo sarebbe come nicto is, piso is e simili di cui a’ lor luoghi. Dell’esistenza de’ quali però, o di alcuni di loro, si dubita. Pur gli uni possono servir di appoggio agli altri, e i certi ai dubbi, riportandoli alla nostra teoria, ed a’ nostri principii di formazione ec. i quali mostrano l’analogia che v’è tra gli uni e gli altri, sinora non osservata. ec. (15. Ott. 1823.). V. p. 3710.

Aiguille, aguglia, aguja, guglia (co’ lor derivati ec.) diminutivo sovente positivato, dal lat. aculeus, altresì diminutivo come equuleus. Anche il greco ὀβελίσκος quando significa guglia è un diminutivo positivato. Ὀβελίσκος e aguglia o guglia, aiguille, aguja suonano cose simili tra loro anche nel senso proprio. (15. Ott. 1823.).

Alla p. 2777. fine. Il g protatico avanti la n, trovasi nel latino aggiunto eziandio a voci semplicemente latine, non greche, come al tema nascor in molti de’ suoi composti: adgnascor, agnatus, prognatus, cognatus, cognatio ec. ed anche nel semplice gnatus. Così gnavus, gnavare ec. per navus, navare, e ignavus per iñavus. V. Forcell. in gnarus, ignarus, e nelle voci suddette e simili ec. (15. Ott. 1823.). V. p. 3727.

Alla p. 2996. marg. Nigreo — nigrico — nigro as. Se nigro venisse da nigreo apparterrebbe forse alla nostra teoria, almen quanto alla derivazione e formazione, e sarebbe a notare che il suo verbo originale sarebbe della seconda, non della 3.a. Ma forse nigro viene a dirittura da niger gri. Nigrico o da nigreo, o da nigro. (15. Ott. 1823.).

Obsoleto as da obsolesco — obsoletus. (15. Ott. 1823.). Ma questo non è continuativo. Esso significa obsoletum reddere, significato alienissimo della sua formazione. Ei non è che di Tertulliano e d’altri d’inferior latinità (Forcell. e Gloss.). La sua barbarie è maggiormente manifesta per la nostra teoria de’ continuativi la quale fa vedere l’improprietà e disanalogia totale (perchè niuno altro esempio ve n’ha, ch’io sappia, nel buon latino) del suo significato ed uso[a]

V. Forc. in oleto .

[Chiudi]. Completare, compléter ec. voce moderna, sarebbe di simile genere di significazione perocch’ella propriamente vale far completo; benchè questo viene a coincidere col senso del verbo originario complere, il che non accade in obsoletare, perchè obsolesco è neutro e obsoleto attivo. Di completare mi ricordo aver detto altrove. Questi tali verbi son fatti da’ rispettivi participii (come obsoletus, completus) già passati in aggettivi, e non come participi ma come aggettivi, onde e’ non spettano alla nostra teoria. E’ sono assaissimi. Forse ve n’ha anche nel buon latino, sotto questo aspetto. Ma meno, cred’io, che nel basso latino, e fra’ moderni. (15. Ott. 1823.).

Alla p. 2996. fine. Obsoleo, obsolesco da obs e oleo, olesco. Vedi il pensiero seguente. (15. Ott. 1823.).

Alla p. 3687. Che adoleo o certamente il semplice oleo esistesse una volta, vedi il Forcell. in Obsolesco, principio. Dico un oleo e un adoleo diverso da quelli che ancora esistono, o con diverso significato. Qual fosse questo significato nol saprei dire. Il Forc. l. c. dice cresco, ma questo è il significato de’ derivativi adolesco ec. e proprio del genere e forma grammaticale d’essi derivativi. Si può anzi dire che il tema che noi cerchiamo esista ancora; in obsoleo cioè ed in exoleo, de’ quali però v. il Forc. Se obsolesco è da obsoleo, exolesco da exoleo, ciò è lo stesso che dire che adolesco, inolesco ec. sono da adoleo inoleo ec. Tutti questi da un medesimo tema, e la ragion degli uni è quella degli altri. Da ben diverso tema deriva il verbo obsolesco chi lo deriva (e fors’anche obsoleo) da ob e soleo ( Forcell. l. c.). Ma chi fa così mostra non aver considerato i fratelli carnali di obsolesco ne’ quali la prima s non comparisce; nè il verbo exoleo, fratello di obsoleo, il quale non può esser che da ex e oleo. Negar che questi verbi sieno fratelli è da stolto. Il significato lo prova. Exolesco e obsolesco vagliono, si può dire, altrettanto. Gli altri corrispondono, secondo le preposizioni rispettive. Di più, soleo ha forse il perfetto solui o solevi? fa forse nel supino soletum? nel participio soletus? Or così fa ed ha obsoleo. E se obsoleo non ha che fare con soleo, come dunque obsolesco? si potrà negare che questo venga da obsoleo? oltre che ciò è più ch’evidente per se, e per tanti altri esempi analoghi, nol mostra l’esempio affatto compagno, di exolesco da exoleo? Finalmente che la prima s di obsolesco e di obsoleo spetti alla preposizione ob, vedi la p. 2996. e le quivi richiamate.

Del resto chi volesse dire che il proprio preterito perfetto di oleo, adoleo e simili fosse e dovesse essere olui, adolui ec. onde adolevi inolevi ec. non sieno propri di adoleo, inoleo (ignoto), ma di adolesco veramente e di inolesco ec., osservi che anche l’altro oleo ne’ composti fa olevi per olui (Forc. in oleo [a]

Neo-nevi, fleo-flevi ec. ec.

[Chiudi]); e che queste desinenze evi ed ui, sono in verità una sola, cioè varie solamente di pronunzia, perchè gli antichi latini massimamente, e poi anche i non antichi, o meno antichi, ed anche i moderni ec., confondevano spessissimo l’u e il v [b] (che già non ebbero se non un solo e comune carattere): sicchè olevi è lo stesso che olui, interposta la e per dolcezza, ovvero olui è lo stesso che olevi, omessa la e per proprietà di pronunzia. Giacchè il v di questo e l’u di quello non furono mai considerate da’ latini se non come una stessa lettera. Così nell’ebraico, così nelle lingue moderne, sino agli ultimi tempi, e dura ancora ne’ Dizionari delle nostre lingue (come ne’ latini) il costume di ordinar le parole come se l’u e il v nell’alfabeto fossero una lettera stessa, ec. ec. ec. Dunque non saprei dire, nè credo che si possa dire, se il vero e regolare e primitivo perfetto della seconda coniugazione abbia la desinenza in evi o in ui, se sia docui o docevi: e piuttosto si dee dire che, se non ambo primitive, ambo queste desinenze son regolari, anzi che sono ambo una stessa. Io per me credo che la più antica sia quella in evi, anticamente ei (conservata nell’italiano: potei, sedei ec. che per adottata corruzione e passata in regola, si dice anche sedetti [a] ec.), poi per evitar l’iato eFi, e poi evi (come ho detto altrove del perfetto della prima: amai, conservato nell’italiano ec. amaFi, amavi), indi vi (docvi) o ui (docui), ch’è tutt’uno, e viene a esser contrazione di quella in evi (docevi). Ed è ben consentaneo che da doceo si facesse primitivamente nel perfetto, docei, conservando la e, lettera caratteristica della 2.da coniugazione come l’a nella prima, onde l’antico amai. Ma l’u com’ebbe luogo nella desinenza de’ perfetti della seconda, essendo una lettera affatto estranea alle radici (come a doceo) ec.[b]? Si risponde facilmente se si adottano le cose sopraddette: altrimenti non si può spiegare. L’u ebbe luogo nella seconda, come il v, ch’è la stessa lettera, ebbe luogo nella prima e nella quarta: per evitar l’iato. L’u e il v ne’ perfetti di queste coniugazioni e nelle dipendenze de’ perfetti sono dunque lettere affatto accidentali, accessorie, estranee, introdotte dalla proprietà della pronunzia, contro la primitiva forma d’essi verbi, benchè poi passate in regola nel latino scritto. Passate in regola nelle due prime. La quarta è l’unica che conservi ancora il suo perfetto primitivo (come la terza generalmente e regolarmente, che non patì nè poteva patire quest’alterazione) insieme col corrotto: audii, audivi. Il latino volgare per lo contrario non conservò, e l’italiano non conserva, che i primitivi: amai, dovei, udii. Queste osservazioni mostrano l’analogia (finora, credo sconosciuta) che v’ebbe primitivamente fra la ragion grammaticale, la formazione la desinenza de’ perfetti della 1. 2. e 4. e che v’ha effettivamente fra l’origine delle forme e desinenze di tutti e tre. Analogia oscurata poscia e resa invisibile dalle alterazioni che dette desinenze variamente ricevettero nella pronunzia, nell’uso ec., le quali alterazioni passate in regola, furono poi credute forme primitive ec. Forse la coniugazione in cui più verbi si trovino che abbiano il perfetto (e sue dipendenze) veramente primitivo, e ciò senz’averlo doppio come que’ della quarta, ne’ quali l’un de’ perfetti non è primitivo, si è la 3.a.

Tornando a proposito, adultum mutato l’o in u al solito: volgus — vulgus ec. come ho detto in 100 altri luoghi. Così da colo colui, colitum — coltum — cultum. Vedi la pag. 3853-4. di adolesco e di adoleo è contrazione di adoletum, anzi di adolitum, supino regolare di adoleo, come docitum di doceo, poi contratto in doctum. Infatti inolesco (o piuttosto l’ignoto inoleo) ha inolitum non inoletum. Obsoletum, exoletum e simili, sono irregolari, e corruzioni dell’ignoto exolitum, obsolitum. Se però docitum non è corruzione di docetum, che sarebbe regolare come amatum da amare. Ovvero se doctum non è contrazione di docetum, come docui di docevi. Onde il regolare e primitivo supino della 2. sia in etum da ere, come exoletum, netum, fletum, suetum (dall’ant. sueo) ed altri tali, e come amatum da amare; e quelli in itum, come exercitum, habitum ec. sieno corruzioni, come domitum e simili sono corruzioni di domatum ec. Io così credo. V. p. 3704. e 3853. 3871.

Si attribuisce ad adolesco anche il perfetto adolui. Forc. in adolesco.

Aboleo es evi itum pur da oleo. Prisciano ammette anche abolui. Abolesco neutro. Deleo es evi etum pur da oleo. V. Forc. in Deleo e Leo es. Oboleo es ui. Obolitio. Suboleo es ui — Subolesco is.

Adoleo nel senso nel quale ei può aver generato adolesco si trova veramente ancora. Forc. in Adoleo. Siccome adolesco trovasi ancora in senso conforme all’usitato di adoleo. Forc. in adolesco.

Il senso di oleo (diverso o tutt’uno con l’oleo che ancora abbiamo) dovette esser poco diverso da cresco. Infatti obsoleo di senso appena o nulla differisce da obsolesco. Così dunque dovette essere adoleo rispetto a adolesco. ec. V. Forcell. in Adoleo. Il quale forse da bruciare ne’ sacrifizi fu trasferito ad accrescere, come per lo contrario mactare da accrescere ad immolare, sacrificare ec. E similmente si potrà dire di oleo ec. ec. Cioè che il suo primo significato fosse ulire (com’è oggi), indi abbruciar cose odorifere ec. (come adoleo), indi accrescere o crescere, nel qual ultimo senso ei sarà stato preso ne’ composti-derivati, adolesco, exolesco ec. nel composto obsoleo, in exoleo ec. ed avrà prodotto il derivato olesco, cioè cresco, di cui v. Forcell. e vedilo ancora in macto ec. ec. e in sobolesco. (15. Ott. 1823.).

Alla p. 3688. principio. Che cretum e cretus non sieno propri di cresco (v. Forc. cresco fine), ma di altro verbo, lo dimostra la differenza del significato. (cretus da cerno è altra voce). Cretus vale generato. Io tengo certo ch’esso sia contrazione di creatus; che cresco sia fatto da creo as, come hisco da hio as; e ch’ei vaglia propriamente quasi venirsi creando, generando, formando; che è veramente quello che fa chi cresce; a ciascun momento si forma e genera quello che a lui aggiungi e in che consiste il suo incremento. L’incremento è una continua formazione e generazione, non del tutto, ma delle parti accedenti ec. ec. V. Forc. in Crementum e cretus. Quest’etimologia non è stata forse data da alcuno. E ciò perchè niuno, credo, ha considerato cresco come un verbo della nostra categoria de’ verbi in sco fatti da altri originali, con analoga variazione di significato ec. Noi e la troviamo e la confermiamo per mezzo dell’analogia e proprietà generale del significato, formazione ec. de’ verbi in sco. Cretus non è dunque di cresco ma di creatus, e ciò anche per la significazione, laddove gli altri tali, suetus, p. grammatica è di sineo, per significazione però, di suesco ec. (15. Ott. 1823.).

Alla p. 3702. Queste osservazioni, e i confronti di fletum, netum e tali altri supini tutti della seconda, confermano che suetum, exoletum, e simili, non sono di sinesco, exolesco ec. verbi della terza, alla quale punto non conviene questa desinenza, ma di altri della seconda da cui essi derivano. Cretum da cerno e suoi composti è corrottissimo, per cernitum, ch’è il vero, e la desinenza in etum v’è accidentale ec. (15. Ott. 1823.). V. p. 3731. Altresì quel che s’è detto de’ perfetti della seconda, e il confronto di nevi, flevi ec. mostra che suevi, crevi, adolevi ec. non sono di suesco ec. verbi della terza. (15. Ott. 1823.). V. p. 3827. La desinenza de’ perfetti in evi o in vi, propria della prima coniugazione e, come abbiamo mostrato, della seconda, che ora ha più sovente ui, ch’è il medesimo, e finalmente eziandio della quarta che conserva però anche quella in ii, è al tutto aliena da’ verbi della terza, se non se per qualche rara anomalia, come in crevi da cerno, e suoi composti perfetto irregolarissimo, per cerni, e in sevi da sero, e suoi composti verbo d’altronde ancora irregolarissimo, come si vede nel suo supino satum, ne’ composti situm, solita mutazione in virtù della composizione ec. V. p. 3848. ec. Ovvero per qualche altra ragione come dal verbo no (di cui p. 3688.) che dovette essere della terza, il perfetto novi per evitare la voce poco graziosa ni, che sarebbe stata il suo perfetto regolare, e che d’altronde concorreva colla particella ni: oltre che niun perfetto latino, se ben mi ricordo, è monosillabo, ancorchè fatto da tema monosillabo: eccetto ii da eo, e da fuo, fui, i quali furono monosillabi, e forse ancora lo sono talvolta presso i poeti latini del buon tempo ec. secondo il mio discorso altrove fatto della antica monosillabia di tali dittonghi ec. Da’ monosillabi do, sto ec. si fece il perfetto dissillabo per duplicazione: dedi, steti, ec. Onde avrebbe da no potuto anche farsi neni. O forse il verbo da cui viene nosco, non fu no, ma noo ((νοῶ), onde il perfetto novi invece del regolare noi sarà stato fatto (come que’ della 1. in avi per ai, della 2. in evi per ei, della 4. in ivi per ii) per evitare l’iato; il quale iato però non può essere che affatto accidentale ne’ perfetti di questa coniugazione. V. p. 3756. Così per fui, regolare perfetto dell’antico fuo, verbo della terza, il qual perfetto anche oggidì si conserva[a]

Suo is ha sui, e non ha che questo. Abluo Diluo ec. lui. Veggasi la p. 3732. Assuo assui ec. e gli altri composti di suo.

[Chiudi], e solo esso, e tutto regolare, Ennio disse fuvi, non metri causa, come crede il Forcellini, (in fuam), ma secondo me, per evitare l’iato[b]. L’evitazion del quale stette a cuore principalmente agli scrittori (come anche in altre lingue), e ad essi, cred’io, si deve attribuire l’esser passate in regola le desinenze avi ed evi (poi ui) della 1. e 2. ne’ perfetti e lor dipendenze, ed in parte la desinenza ivi nella quarta, in vece delle primitive ai, ei, ii. E quelle in avi, evi, ivi, secondo me, non furon proprie che della scrittura, o certo del linguaggio illustre, o di esso principalmente, e nulla o poco le adottò il plebeo, perocch’esso conservò le primitive ai, ei, ii, come lo dimostra l’italiano (e anche il franc. aimai, onde lo spagn. amè, come ho detto nella mia teoria de’ continuativi). Tornando a proposito la desinenza in vi, fuori de’ detti casi, anomalie ec. non è propria punto, anzi impropria, de’ perfetti della terza, se non per puro accidente, come in solvi, volvi e simili. Ne’ quali casi il v non è di tal desinenza, nè del perfetto, nè dell’inflessione ordinaria de’ verbi della 3.a. nel perfetto ec. ma del tema (solvo, volvo), ed è lettera radicale di tutto il verbo ec. Trovansi però molti verbi della 3.a che (per anomalia) fanno il perfetto in ui (come il più di quelli della seconda): e questi sono in molto maggior numero che quelli della 3.a che facciano il perfetto in vi (siccome anche nella 2.a oggi son più quelli in ui che quelli in vi). Per esempio l’altro sero (diverso dal sopraddetto a p. 3705.) che ha il supino sertum, nel perfetto fa serui, e così i suoi composti. Così colo is ui. Ed altri molti. Ma questa desinenza è pure affatto impropria della 3. e vi è sempre anomala, come quella in vi o in evi ec. che originalmente son tutt’una con quella in ui.

Del resto dalle soprascritte osservazioni si potrebbe conchiudere che i veri e regolari e primitivi supini delle 4. coniugazione son questi: 1.a atum, 2.a. etum, 3.a itum [a]

Puoi vedere il pensiero seg. e p. 3710. capoverso I. ec. ec.

[Chiudi], 4.a itum. E i perfetti (con lor dipendenze): 1.a avi (antic. ai), 2.a evi (ant. ei, più mod. ui), 3.a i preceduto dalla ultima radicale del tema, 4.a ii (antica ma conservata) ed ivi (posteriore). (16. Ott. 1823.).

Alla p. 3698. P. e. solutum, volutum, non sono che o modi di pronunziare o scrivere o di pronunziare e di scrivere i regolari supini volvitum, solvitum e simili, che non son pochi; o contrazione di essi supini regolari, fatta per l’elisione dell’i e non altro (giacchè l’u e il v, come dico, sono una stessa lettera[a]

Così sutum da suo è contraz. di suitum. V. la fine del pensiero precedente. Ablutum da abluo. Dilutum ec. Lautum (onde lotum) è contraz. di lavitum, e dimostra quel che ho detto della confusione tra l’u e ’l v. V. p. 3731.

[Chiudi]) contrazione ed elisione ordinaria, e si può dir, regolare (per il suo grand’uso) sì ne’ verbi della terza, come dictum per dicitum ec. ec., sì in quelli della seconda, come doctum per docitum (che non si ha, mentre si ha nocitum, placitum, tacitum, habitum ec. e non noctum ec.: vedi la p. 3631) ec. ec. (16. Ott. 1823.).

Alla p. 3689. princ. Vivesco non ha perfetto nè supino neppur tolto in prestito. Ma il suo composto revivisco ha revixi. Ora il Forcell. conviene che questo non è suo ma di revivo, e ne conviene quantunque revivo, com’ei dice, a nemine est, quod sciam, usurpatum, si unum excipias Paulin. Nolan. ec. (e v. il Gloss. ). Perchè dunque non conviene egli che p. e. scivi scitum non sia di scisco ma di scio, ch’è pur verbo ab omnibus usurpatum? che suevi suetum non sia di suesco ma di sueo, benchè questo a nemine sit usurpatum? Del resto il trovarsi pure revivo, conferma la mia sentenza che tutti i verbi in sco sieno fatti da un altro analogo, sebbene non sempre noto; e il vedere che revivisco fa revixi e revictum (dimostrato da revicturus, se questo non è di revivo), come appunto revivo, conferma che i perfetti e supini de’ verbi in sco, se gli hanno, sieno sempre tolti in prestito da’ verbi originali, e non mai loro propri, o ch’essi mai non gli ebbero (ma nosco p. e. ebbe il supino suo proprio, noscitus, come a pp. 3688. 3690.), o che gli hanno perduti. Sebbene non vi era bisogno di revivo a mostrar tutto questo nel nostro caso, bastando che vi fosse, e fosse noto, il verbo vivo, da cui a dirittura, senza revivo, o da vivesco (che vien da vivo) per composizione, poteva ben esser fatto il verbo revivisco, e forse e’ lo è in effetto.

Del resto, sì revivisco, sì l’analogia (perchè l’e nella desinenza de’ verbi in sco non ha luogo s’e’ non son fatti da verbi in eo [b]

Fors’anche da quei della prima, come p. e. se consanesco fosse fatto da consano as neutro (v. Forc. in consano ) nel qual caso anche sanesco sarebbe fatto da un sano neutro.

[Chiudi]; e p. e. da meno is ch’è della coniugione di vivo is, si fa reminisco, come a p. 3691., e non reminesco), da tremo is, tremisco e composti; ingemisco ec. Vedi al proposito Forc. in tremisco ec. mi persuadono che vada detto vivisco anzi che vivesco; e v. Forc. in vivesco, fine; e il Gloss. in vivescere. (16. Ott. 1823.). V. p. 3828.3869.

Viviturus regolare, per victurus del buon latino, dimostrante il vero supino vivitum (vivuto), secondo le nostre teorie (v. fra l’altre, p. 3709. fine), vedilo in una carta del secolo del mille nel Gloss. Cang. (16. Ott. 1823.).

Alla p. 3694. Conferma la nostra congettura sull’origine del verbo bito o beto, il latino-barbaro rebitare, dove si vede appunto la coniugazione propria de’ continuativi ond’egli sarebbe più regolare dell’antico bitere ec., e può servire a mostrare che questo (ond’esso pur viene, o a cui è affine) sia altresì un continuativo come certo lo è rebitare ec. ec. V. il Gloss. Cang. in revidare , rettificandolo secondo la nostra teoria e osservazioni ec. e con queste confermando la lezione di rebitare (da cui revidare non varia che per pronunzia, propria degli spagnuoli ec. sicchè ben può stare nel latino barbaro), e dilucidando i dubbi ec. E chi sa che bitere o betere ec. non sia veramente bitare o betare (ma piuttosto quello, sì a causa di rebitare, sì che da batus di bo o bao doveva farsi, secondo la regola, bitare anzi che betare) corrotto dagli scrivani per ignoranza della nostra teoria, e per la stessa cagione non restituito da’ critici ec. Infatti che questi e quelli abbiano esitato su questo verbo, lo dimostra la sua diversa scrittura, bitere, betere, bitire, e il trovarsi in molti codici vivere per bitere (vedi Forc.) ec. ec. Nel Curcul. 1. 2. 52. bitet può così essere presente congiuntivo di bitare, come futuro indicativo di bitere ec. (16. Ott. 1823.).

Excisare o excissare. V. Forcell. in Excissatus. (16. Ott. 1823.).

A quello che altrove ho detto del verbo cillo a proposito di oscillo parrebbe che si opponesse il verbo percello e procello ec. Ma io, qualunque sia l’origine di questi, non credo abbiano che fare con cillo, stante la differenza (oltre le lett. e ed i) della coniugazione de’ perfetti e supini ec. Ben crederò che percello ec. sia da κέλλω, e così il semplice cello is perduto, ma non già cillo as ec. Quod os cillent, idest inclinent, praecipitesque in os ferantur . (Fest. ap. Forc. in Cillo ). Non è chiaro a un fanciullo che quel cillent è da cillare non da cilleo nè da cillo is? Donde dunque s’ha preso il Forc. quel suo cillo is? Se già non fosse, come io penso, errore di stampa is per as. Quanto a cilleo che sta in Servio (se non v’è errore) ei potrebbe pur esser da cio, fatto come conscribillo da conscribo ec., benchè d’altra coniugazione (cioè della 2. invece della prima) per anomalia, come viso is da video per viso as, e gli altri tali continuativi d’anomala formazione, cioè d’altra coniugazione che della prima, da me in più luoghi accennati, insieme e separatamente. O forse cill eo è da ci eo ? (16. Ott. 1823.).

Tutte le qualità e cagioni che producono la grazia nelle persone o portamenti o azioni ec. umane, sono più efficaci, e gli effetti loro più notabili negli osservatori ec. di sesso diverso. I quali concepiscono quella tal grazia per molto maggiore ch’essa medesima non apparisce agli osservatori del sesso stesso. Ma tal differenza d’idee non ha punto che fare colla natura nè della grazia in genere, nè di quella tale in ispecie. E quel grand’effetto non è della grazia, ma della diversità del sesso aiutata dalla grazia, o viceversa della grazia aiutata ec. in quanto aiutata ec. Tutto ciò dicasi ancora della bellezza ec. (17. Ott. 1823.).

Advento as. N’ho discorso, mi pare, nella mia teoria de’ continuativi. Aggiungo. Qual cosa v’ha mai nel suo significato, che possa, neppure per somiglianza, farlo chiamare frequentativo? quale che non sia continuativa, e che non convenga a questo nome, e lo giustifichi, e ne sia bene dinotata? E con qual altro nome generalmente potrebb’essere indicata quella significazione, se non con quello di continuativo? (17. Ott. 1823.).

Alla p. 3622. L’idea e natura della quale esclude essenzialmente sì quella del piacere che quella del dispiacere, e suppone l’assenza dell’uno e dell’altro; anzi si può dire la importa; giacchè questa doppia assenza è sempre cagione di noia, e posta quella, v’è sempre questa. Chi dice assenza di piacere e dispiacere, dice noia, non che assolutamente queste due cose sieno tutt’una, ma rispetto alla natura del vivente, in cui l’una senza l’altra (mentre ch’ei sente di vivere) non può assolutamente stare. La noia corre sempre e immediatamente a riempiere tutti i vuoti che lasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto, cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso animo, come non si dava in natura secondo gli antichi. La noia è come l’aria quaggiù, la quale riempie tutti gl’intervalli degli altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animo umano, e l’indifferenza, e la mancanza d’ogni passione, è noia, la quale è pur passione. Or che vuol dire che il vivente, sempre che non gode nè soffre, non può fare che non s’annoi? Vuol dire ch’e’ non può mai fare ch’e’ non desideri la felicità, cioè il piacere e il godimento. Questo desiderio, quando e’ non è nè soddisfatto, nè dirittamente contrariato dall’opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della felicità, lasciato, per così dir, puro. Questo desiderio è passione. Quindi l’animo del vivente non può mai veramente essere senza passione. Questa passione, quando ella si trova sola, quando altra attualmente non occupa l’animo, è quello che noi chiamiamo noia. La quale è una prova della perpetua continuità di quella passione. Che se ciò non fosse, ella non esisterebbe affatto, non ch’ella si trovasse sempre ove l’altre mancano. (17. Ott. 1823.). V. p. 3879.

Alla p. 3700. marg. Che la desinenza ui nel perfetto della 2.da, sia stata introdotta nel modo che abbiam detto, mostrasi ancora col considerarla in alcuni verbi della 1.a. Della quale niuno dubita che il perfetto regolare e proprio non sia quello in avi. Ma pur parecchi suoi verbi l’hanno in ui: domui, secui, vetui, necui, crepui ec. co’ loro composti enecui, perdomui ec.[a]

Puoi vedere p. 2814-5. e 3570.

[Chiudi] Or da che è venuta quest’anomalia? Dalla stessa cagione che l’ha introdotta ne’ verbi della 2.da, nella quale ella, per esser più comune assai che nella prima, e più comune che non è ciascuna dell’altre desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto chiamasi anomalia quella in evi perchè divenuta più rara, e una di quell’altre meno comuni. Ma parlando esattamente e guardando all’origine, quella in ui è anomalia o alterazione nella seconda non meno che nella prima, e quella in evi è così regolare nella 2. come nella prima quella in avi. E più comune si è la desinenza in ui nella seconda che nella prima, perchè l’ommissione della vocale, da cui essa deriva, era ed è più facile e naturale circa la e che circa la a, lettera più vasta, per servirmi dell’espressione di Cicerone in altro proposito (Orat. c. 45. circa l’x.). Del resto, come parecchi della seconda hanno il perfetto così in evi come in ui, qualunque de’ due sia più comune, così tutti o quasi tutti quelli della 1. che l’hanno in ui, conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi il più usitato, o viceversa. E tutti altresì, se non erro, hanno il supino in itum, come quelli della seconda ch’hanno il perfetto in ui (mentre quelli che l’hanno in evi conservano altresì il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in ctum contratto da citum (nectum, sectum ec.) come appunto lo sogliono avere quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum contratto da docitum [a]. Plico as (v. Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi atum, ui itum. Frico as ui ctum, fricatum. Perfrico ec. Sono as avi atum, ui, sonitus us. V. p. 3868. Mico as ui, micatus us. Emico as ui, emicatio, emicatim. Ma molti di que’ della 1. che hanno il supino in itum, conservano altresì, come il vero perfetto in avi, così il vero supino in atum (o il participio in atus o in aturus ec. ch’è tutt’uno, e lo dimostra) più o meno usitato di quello in itum, non altrimenti che alcuni della seconda conservino forse accanto del supino in etum il vero in etum. Dico, forse, perchè ora non me ne soccorre esempio. (17. Ott. 1823.).

Alla p. 2980. Immaginazione continuamente fresca ed operante si richiede a poter saisir i rapporti, le affinità, le somiglianze ec. ec. o vere, o apparenti, poetiche ec. degli oggetti e delle cose tra loro, o a scoprire questi rapporti, o ad inventarli ec. cose che bisogna continuamente fare volendo parlar metaforico e figurato, e che queste metafore e figure e questo parlare abbiano del nuovo e originale e del proprio dell’autore. Lascio le similitudini: una metafora nuova che si contenga pure in una parola sola, ha bisogno dell’immaginazione e invenzione che ho detto. Or di queste metafore e figure ec. ne dev’esser composto tutto lo stile e tutta l’espressione de’ concetti del poeta. Continua immaginazione, sempre viva, sempre rappresentante le cose agli occhi del poeta, e mostrantegliele come presenti, si richiede a poter significare le cose o le azioni o le idee ec. per mezzo di una o due circostanze o qualità o parti di esse le più minute, le più sfuggevoli, le meno notate, le meno solite ad essere espresse dagli altri poeti, o ad esser prese per rappresentare tutta l’immagine, le più efficaci ed atte o per se, per questa stessa novità o insolitezza di esser notate o espresse, o della loro applicazione ed uso ec., le più atte dico a significar l’idea da esprimersi, a rappresentarla al vivo, a destarla con efficacia ec. Tali sono assai spesso le espressioni, o vogliamo dire i mezzi d’espressione, e il modo di rappresentar le cose e destar le immagini ec. nuove o novamente, e per virtù della novità del modo ec. ec. usati da Virgilio, e massime, anzi peculiarmente, e come caratteristici del suo stile e poesia, da Dante ec. ec. Tutte queste cose si richiedono in uno stile come quel di Virgilio (e più o meno negli altri: ma quel di Virgilio, in quanto stile, è precisamente il più poetico di quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poetichità); e questi infatti sono i mezzi ch’egli adopera e gli effetti ch’egli consegue. Or non si possono adoperar tali mezzi, nè produr tali effetti (che con altri mezzi, nello stile, non si ottengono) senza una continua e non mai interrotta azione, vivacità e freschezza d’immaginazione. E sempre ch’essa langue, langue lo stile, sia pure immaginosissima e poetichissima l’invenzione e la qualità delle cose in esso trattate ed espresse. Poetiche saranno le cose, lo stile no; e peggiore sarà l’effetto, che se quelle ancora fossero impoetiche; per il contrasto e sconvenienza ec. che sarà tanto maggiore quanto quelle e l’invenzione ec. saranno più immaginose e poetiche. Del resto è da vedere la p. 3388-9. (17. Ott. 1823.).

Alla p. 3546. I detti effetti accadono in un gran letterato, in un gran filosofo, in un gran poeta, in un gran professore di qualsivoglia o letteratura o arte o scienza o abilità ec. verso quelli che si arrogano quella medesima arte, e la professano. ec. Severissimi, disprezzantissimi, intollerantissimi a principio, non per superbia (anzi questi tali sono sempre modestissimi) ma per non trovar niuno che non sia indegnissimo di stima per se, o che meriti più che pochissimo nella sua professione; e disprezzanti nel cuor loro, piuttosto ch’esternamente; a poco a poco persuadendosi che insomma non v’è di meglio di coloro ch’ei disprezzava, dalla mancanza de’ veramente stimabili piglia argomento e in ultimo abitudine di tollerare il niun merito, e di stimare e lodare il piccolissimo, e di celebrare e fino ammirare il mediocre (non per se ma per la sua rarità, finalmente conosciuta, e conosciuta per universale) e insomma di contentarsi del poco e pochissimo, e di dare alle cose non il peso assoluto ma il peso relativo che meritano. Sicchè gli si viene a fare ben raro il caso nel quale ei possa e sappia totalmente disprezzare.

Passo più oltre, e dico che l’essere disprezzante, non curante, severissimo, esigente, incontentabile, intollerante ec. o verso gli uomini in genere, o verso quelli della propria professione, è segno certo, vista la qualità del mondo, o d’inesperienza, e poca o niuna cognizione e pratica degli uomini, o di poco talento, che dall’esperienza non è persuaso e non ne cava il profitto e le conseguenze che deve, e non sa mai da pochi particolari generalizzare, ma per ciascun particolare che gli occorre nella vita ha bisogno di nuova ed apposita esperienza, ch’è il caso, la proprietà e il distintivo degli uomini di poco ingegno; o finalmente è segno di poco o niun valore sia in genere, sia nella sua professione, perchè sempre chi poco vale, non potendo giustamente estimar se stesso nè gli altri, è superbo verso se, e verso gli altri disprezzante. Laddove chi molto vale, ben potendo intendere ed estimare il suo valore e l’altrui, sia in genere sia nella sua professione, e compararlo ec. può giustamente dispensare e dispensa, almeno nel suo interno, tanto a se stesso quanto agli altri, il grado di stima o assoluta o almen rispettiva, che a ciascun si conviene, e si mette al disopra o al disotto degli altri, e questi al disopra gli uni degli altri, secondo il merito rispettivo ec. (17-18. Ott. 1823.).

Alle cose da me dette nella teoria de’ continuativi (sul principio) ed altrove, circa il verbo exspectare ec. aggiungi il franc. guetter che propriamente vuol dire osservare ec. e per metafora aspettare ec. (18. Ott. 1823.).

Participii in us de’ verbi attivi in senso attivo, ovvero neutro, o attivo intransitivo. Desperatus. Corn. Nep. in Attico c. 8. lin. ult. Dove pare che desperatus sia qui desperavit [a]

Certus: qui crevit. Certa mori : quae crevit, cioè decrevit, mori, senso attivo, anzi in certo modo, transitivo ec. E qui e in simili moltiss. casi, certus è adoprato in senso di participio, non di aggettivo, come in altri molti casi, massime quando si dice di cose. Ma quando di persone, dubito ch’e’ sia mai altro che participio, onde anche certior può forse fare al caso nostro ec. ec.

[Chiudi]. (18. Ott. 1823.).

Radice monosillaba di dico. Carisio, e il Vossio credono che il genitivo dicis non venga da δίκη, ma da un dix, e spetti a dico ec. Probabilmente essi vorranno che dix venga da dico, ma sarebbe il contrario, come nella teoria de’ continuativi s’è detto di lex, rex ec. Aggiungi grex monosillabo, significante un’idea primitivissima, e radice di più voci semplici e composte, come congregare ec. Simile dicasi di nubs. V. Forc. (18. Ott. 1823.).

Alla p. 3717. Quest’osservazione circa il trovarsi costantemente o quasi costantemente il supino in itum ne’ verbi della 1. e della 2. ch’hanno il perfetto in ui, ancorchè e quel supino e quel perfetto ne’ verbi della 1. senza controversia, e ne’ verbi della 2. giusta le nostre osservazioni, sieno anomali ec.; par che dimostri una corrispondenza, una dipendenza che passasse nella lingua latina fra il perfetto e il supino (come fra il perfetto e i tempi che è già noto formarsi da questo, fra’ quali niuno, ch’io sappia, ha mai ancora contato il supino); e che la formazione del supino seguisse e fosse determinata e modificata dalla forma del perfetto, e che in somma anche il supino nascesse in qualche modo dal perfetto, come assolutamente, in tutto, e senza controversia ne nasce il più che perfetto, il futuro dell’ottativo ec. ec. Questo sospetto si potrebbe anche, cred’io, confermare con molte altre osservazioni P. e. juvo as fa il perfetto iuvi, contratto da iuvavi o per evitare quel doppio v [a]

Anzi gli u in iuvavi sarebbero tre, giacchè tanto era p. gli antt. l’u che il v ec., onde, p. es. in pluvi si chiamava duplex u ec. V. Forc. in Luo fine, in U ec. e l’ Encyclopédie in U ec. e l’Hofman in U ec.

[Chiudi], o per effetto della pronunzia accelerata e confondente que’ due v insieme: confusione e accelerazione passata poi in regola, onde venne iuvi solo perfetto di iuvo, e con un v solo e semplice. Perfetto che viene a essere anomalo, ma anomalia di cui ben si conosce l’origine e la cagione. Ora nel supino iuvo ha iutum per iuvatum. Participio anomalo, della cui anomalia non si conosce origine nè cagione, se non dicendo ch’egli è formato dal perfetto, il quale essendo iuvi, ne vien di ragione iutum, così bene come da iuvavi verrebbe iuvatum. V. Forcell. in Juvo fine. Si potrebbe però dire che iutum è fatto da iuvatum per evitare quel doppio u, benchè l’uno consonante l’altro vocale, e per sincope ed elisione dell’a, e per effetto di pronunzia ec. E certo non si può negare, perchè dà negli occhi, che qui il supino corrisponde al perfetto (e così in tutti i composti di iuvo; adiuvi, adiutum ec. ec.), e stolto sarebbe l’attribuire questa corrispondenza al caso, e il non volere, come sembra evidente, che l’anomalia del supino della quale non si vede ragione, venga da quella del perfetto la cui ragion si vede, e comparato col qual perfetto, e in ragione di lui, esso supino non è anomalo ec. ec. e il voler piuttosto che l’anomalia del supino sia casuale ec. (18. Ott. 1823.). V. p. 3732.

Alla p. 3687. Quando però n’hanno alcuno. Giacchè grandissima e forse la maggior parte de’ verbi in sco, non hanno nè perfetto nè supino alcuno, e niuno gliene attribuiscono i grammatici. Altra prova che niun di loro abbia perfetto nè supino proprio. Voglio dire che niun l’abbia oggidì, e avendolo, non sia il proprio. Giacchè anticamente l’ebbero, e proprio, ma diverso da quel che hanno oggi (se l’hanno), e diverso da quel che conviene o converrebbe a’ lor verbi originali, e da quel d’essi verbi (se esistono ed hanno perfetto e supino), e regolare ec. come s’è dimostrato con noscitus, nascitus ec. p. 3690.3692.3758. Siccome pur n’è una gran prova, che tutti i verbi in sco i cui originali si conoscono, se hanno perfetto e supino (o l’un de’ due solamente come spesso accade) che per significato sia loro, o che da’ grammatici lor venga attribuito, questo perfetto e questo supino non è mai, quanto alla material forma, diverso nè altro da quello de’ detti originali, di qualunque coniugazione si sieno questi ultimi. La quale osservazione conferma l’altra parte della mia proposizione (anzi la dimostra, si può dire, affatto), cioè che tutti i perfetti e supini dei verbi in sco che gli hanno, o a’ quali i grammatici n’attribuiscono, sieno tolti in prestito da’ verbi originali (ne’ quali essi sarebbero o sono regolari ec. laddove in essi nol sono), noti o ignoti che sieno questi verbi. Giacchè da quello che accade universalmente sempre che i verbi originali son noti, ben si argomenta quello che dovette accadere quando e’ sono ignoti, e che benchè ignoti oggidì, esistessero una volta ec. Perchè insomma i verbi in sco o non hanno perfetto nè supino alcuno, o tale che ad essi grammaticalmente non conviene, ma ben converrebbe a un verbo loro originale, e se questo verbo si trova, il perfetto o supino del verbo in sco (che ne abbia) è sempre materialmente lo stesso.

Del resto per verbo originale intendo un tema non in sco che abbia dato origine al verbo in sco o immediatamente o mediatamente. P. e. trovandosi il verbo reminiscor non è bisogno supporre l’originale remeno immediato: basta il mediato meno, di cui già s’ha notizia più particolare, anzi degli avanzi. Trovandosi dignosco, non è bisogno supporre il verbo originale immediato dignoo o digno: basta il mediato no o noo o gnoo; ovvero il verbo nosco che da lui nasce, dal quale senz’altro potè per composizione esser fatto il verbo dignosco e cognosco ec. ec. (p. 3709.) e probabilmente così fu. (18. Ott. 1823.).

Alla p. 3695. E quanto a nosco, non solamente ne’ suoi composti, ma eziandio nel semplice si trova il g. V. Forcell. in gnosco, gnobilis ec. Del resto il vedere che questo g protatico è d’uso non men proprio latino che greco, servirà di risposta a chi dal trovarlo nel semplice e ne’ composti di nosco, come nel greco γνόω e γιγνώσκω ec., volesse dedurre che nosco deve essere immediatamente di origine greca, e fatto da νοΐσκω ec. contro il detto a p. 3688. Qual sia poi l’origine in generale dell’uso del g protatico appo i latini, o venuto dagli Eoli, o da un fonte comune a questi e a quelli ec. nulla importa al nostro caso. E ben poterono i latini antichi per un uso ricevuto dagli Eoli, e quindi d’origine greca, preporre (o interporre) il g a voci d’altronde non per tanto affatto latine, o vogliamo dire non greche, come si vede infatti che fecero in adgnascor ec. (la qual voce nascor si dimostra anche affatto propria latina per le cose dette a p. 3688-9. nello stesso modo che nosco) ec. ec. (18. Ott. 1823.). V. p. 3754.

Alla p. 3390. Anche ne’ nostri più antichi, cioè ne’ trecentisti e così in que’ del 500 che più gl’imitano, o in quanto egli adoprano le voci antiquate (come spesso il Davanzati e altri assai), e fors’anche ne’ ducentisti si trovano moltissime parole spagnuole, oggi fra noi disusate affatto, o rare più o meno, e tra gli spagnuoli ancora correnti e usuali, o ancor fresche più o meno; le quali anche chi sa spagnuolo e italiano, non sa che sieno o sieno state comuni ad ambe le lingue, e trovandole ne’ nostri antichi se ne maraviglia, perchè son prettissime spagnuole. Queste o furon tolte dallo spagnuolo (forse per mezzo de’ provenzali ch’ebbero a fare coi catalani, ec. e ne presero e dieder loro voci e modi e poesia e stile e metri ec. ec.: v. Andres); o forse più probabilmente vengono dalla comun fonte d’ambo gl’idiomi, o ciò fosse il latin volgare, o qualchessia altra delle tante secondarie che diedero de’ vocaboli alle nostre lingue, potendo essere che da una di queste le ricevesse sì l’Italia, come la Spagna indipendentemente l’una dall’altra. P. e. da’ provenzali ec. ec. Del resto lo stesso ci accade di vedere ne’ nostri antichi rispetto alle parole e frasi francesi ec. Ma quanto a queste le cagioni parte son note, parte l’ha spiegate Perticari nell’Apologia. V. p. 3771. e già fur propri italiani (senza esser punto presi dalla Spagna), indi passarono in disuso, mentre in Ispagna si conservano ancora: e chi sa che questa non li ricevesse originariamente dalla lingua italiana. Come che sia, tali voci (o frasi ec.) appo i nostri antichi non hanno punto del forestiero, se non per chi sappia che or sono spagnuole, e sia avvezzo a sentirle, leggerle, parlarle nello spagnuolo, e di là le creda venute ec. ma per se stesse hanno tutta l’aria naturale.

Molte ancora delle voci, frasi ec. spagnuole che si trovano ne’ cinquecentisti (e anche secentisti) italiani, ed ora son fuor d’uso, è probabilissimo che nè allora fossero antiquate e prese da autori del 300 ec. ma usitate ancora (il che è facile a vedere, se ne’ trecentisti non si trovano, i quali erano forse meno studiati, (fuor de’ tre grandi) e certo in assai minor numero noti ed editi, che oggidì, sicchè gli scrittori del 500 o 600 non potessero conoscerne quello che noi non ne conosciamo, anzi assai meno di noi); nè fossero prese dallo spagnuolo, ma proprie e native italiane, benchè alle spagnuole conformi affatto, ed oggi antiquate tra noi e non nello spagnuolo.

Del resto gli spagnuoli ancora, massime nel 500 e 600, pigliarono dall’italiano moltissime voci e frasi ec., sì gli scrittori, sì l’uso del favellare spagnuolo (pel commercio scambievole sì delle due letterature sì delle due nazioni e insomma per le cause medesime che introdussero tanto spagnuolo nell’italiano). Or queste voci e frasi italiane stettero e in grandissima parte stanno ancora nello spagnuolo così naturalmente che nulla hanno del forestiero per se, e per chi non sappia che tali sono; e non parvero nè paiono (agli spagnuoli nè agl’italiani nè agli altri) adottive (com’erano e sono) ma naturali, secondo l’espressione dello Speroni in altro proposito (Diall. p. 115.). (Non altrimenti che accadde e accade nell’italiano alle voci e frasi spagnuole sì per rispetto a noi, sì agli spagnuoli sì agli altri). Il che si applichi allo scopo del pensiero a cui il presente si riferisce. (18. Ott. 1823.).

Alla p. 3704. E se ne sa l’origine, perocchè cretus è metatesi di certus (che ancor rimane in aggettivo, ed anche in certo senso di participio, e come participio ha prodotto il verbo certare di cui altrove ec.), contrazione di cernitus. (19. Ott. 1823.).

Scambio tra il v e il g ec. Trève-tregua. (19. Ott. 1823.).

Laxus, onde laxare, lassare, lasciare, lasser ec. è un di quelli aggettivi, che come ho detto nella mia teoria de’ continuativi, mi sanno di participio di verbi ignoti, o non noti come padri di tali aggettivi ec. e laxare mi sa pur di continuativo per origine ec. V. Forc. ec. (19. Ott. 1823.).

Alla p. 3708, marg. Lavitum è dimostrato dal verbo lavito. Così fautum è contrazione di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il detto scambio tra il v e l’u è dimostrato piucchè mai chiaramente da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti di lavo, in cui lavo diventa luo. Contrazione la qual conferma mirabilmente e pienamente quella ch’io ho supposta ne’ perfetti in ui della seconda e massime della prima. P. e. domui è da domavi nello stessissimo modo che abluo per ablavo, soppressa la a e volto il v in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit per evitar l’iato, come a p. 3706. Exuo is ui utum. Ruo is ui utum contrazione di ruitum, che anche esiste: prova delle mie asserzioni. V. Forc. in Ruo e composti. Fruor, itus e ctus sum, ma fruitus è più usato, e così fruiturus ec. Luo is ui luitum dimostrato da luiturus. Anche si disse o scrisse luvi. V. Forc. in luo, verso il fine. Fluo is fluxi, fluctum, fluxum e fluitum dimostrato da fluito e da fluitans. Tribuo, Minuo, Statuo, Induo, Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec., Imbuo ec. ui utum, co’ loro composti, e così con quelli di Sino ec. In tutti questi supino l’i è stato mangiato per evitar l’iato, o come in docitum ec. Notisi che laddove l’u in tutti gli altri tempi di questi verbi, compreso il perfetto, è sempre breve. V. p. 3735. (19. Ott. 1823.). Così i composti di fluo ec.

Lavito da lavare o da lavere. (19. Ott. 1823.).

Alla p. 3725. Queste osservazioni confermano il mio discorso[a]

P. 2982-30.

[Chiudi] sull’antico vexus di veho (fatto da me in proposito di vexare). Ben è ragione che veho abbia vexum poich’egli ha vexi, e poich’il supino corrisponde al perfetto. Viceversa quel discorso conferma grandemente queste osservazioni. Le conferma flexus da flexi, nexus da nexi, e gli altri quivi notati. Le conferma lo stesso vectus, noto, certo e moderno participio di veho, nel qual vectus, donde viene il c, che niente ha che fare con questo tema, se non dal perfetto vecsi? Così dite di victus per vivitus (vedi la p. 3710.), dove il c viene da vixi che sta pel regolare vivi. Così in mille altri di questo genere. Fluo ha fluxi; dunque fluxum; ed anche fluctum antichissimo (v. Forc. in fluo fine), onde anche oggi fluctus us, fluctuare ec. (E così appunto è vectus per vexus). Ma il suo regolare perfetto sarebbe flui: or dunque egli ebbe pur fluitum dimostrato da fluito e fluitans ec. Così per diversi perfetti, diversi corrispondenti supini si troveranno, cred’io, in molti verbi. Ai perfetti in xi corrisponde egualmente il supino in xum e quello in ctum. L’uno e l’altro si troverà insieme in non pochi verbi che abbiano il perfetto in xi (negli altri nol saprei ora dire). Forse o da xi direttamente, o poscia da xum, si disse ctum per accostarsi alla desinenza regolare de’ supini che dovrebb’essere universalmente in tum. Forse xum fu corruzione di ctum, o viceversa, e xum fu il vero e primo supino de’ verbi che fecero il perfetto in xi ec. Insomma quale di questi due, xum e ctum, sia più antico, non lo so. Forse ambo sono una cosa stessa (benchè non sempre si conservino ambedue, o forse non sempre sieno stati messi in uso ambedue), diversi solo per accidente di pronunzia ec. ec. Ciò si applichi al mio discorso sopra vexus, avendosi già vectus ec. V. p. 3745. Iubeo ha iussi, anomalo per iubevi iubesi: dunque il suo supino è iussum, e niun altro, benchè anomalo anch’esso. Così infiniti: e la corrispondenza fra il perfetto e il supino, e la formazione e dipendenza di questo da quello, almeno il più delle volte, ancorchè quello sia anomalo, ancorchè moltiplice, ancorchè forse talvolta perduto affatto, restando il supino, o perduto quel tal perfetto restandone un altro o più d’uno, non corrispondente al supino o ai supini ec. ec.[a]; tal corrispondenza, dico, è evidente e fuor di controversia. (19. Ott. 1823.).

Alla p. 3732. marg. — (fuorchè ne’ perfetti di luo ec. V. Forc. luo: fui da fuo è breve), ne’ supini in utum è sempre lungo (dico l’u radicale), fuorchè ne’ composti di ruo; dico ne’ composti, ma in ruo no. (V. Forc. in ruo fin. e in Ruta caesa ). Anche l’antico futum di fuo (per fuitum) dovette aver la prima breve, come l’ha futurus che da esso viene, e che sta per fuiturus. Vedi la pag. 3742. Il che par che dimostri che quell’u radicale in utum tien luogo di due vocali (ui); altrimenti non avrebbe alcuna ragione di esser lungo quivi, e in tutto il resto del verbo, breve. E infatti se il supino si conserva primitivo e non contratto, cioè desinente in uitus, l’u è breve non men che l’i, come in ruitus (Aeg. Parnas.) e in fluito, fluitans ec. (20. Ott. 1823.).

Che fino ad ora sia stata poco bene osservata la formazione costante de’ continuativi e frequentativi da’ participii o supini, me lo persuade fra gli altri il vedere che Forcell. da fluctus us ec. deduce l’inusitato supino fluctum di fluo (v. Fluo fin.), ma dal verbo fluito (ch’e’ pur chiama frequentativo di fluo) non si avvisa punto di dedurne l’inusitato fluitum, che n’è evidentemente dimostrato. Sebbene il medesimo non lascia in parecchi continuativi o frequentivi di ammonire ch’e’ son fatti dal supino de’ rispettivi verbi originali. (20. Ott. 1823.).

Alla p. 3734. fine. Per es. fusum di fundo potrebbe mostrare un antico perfetto fusi. Fluitus di fluo un antico perfetto flui che sarebbe il regolare e corrispondente agli altri notati p. 3706. 3732. ec. E così, osservata la corrispondenza tra i perfetti e i supini in latino, tanto ci possiamo servire de’ perfetti noti a dimostrare o congetturare i supini ignoti, (come abbiam fatto p. 3733.) quanto viceversa ec. (massime quando i supini noti sieno regolari ec. e i perfetti noti nol sieno, o viceversa ec.). Anzi tanto meglio da’ supini si conghiettureranno i perfetti, quanto che quelli derivano da questi, ma non questi da quelli. Onde dati i supini par necessario supporre i perfetti; ma non v’è tanta necessità nel caso inverso. (20. Ott. 1823.).

Participii in us di verbi attivi o neutri, in senso attivo intransitivo, o attivo transitivo, o neutro ec. Si esaminino gli esempi d’Indutus e di Exutus nel Forc. paragonandoli con quelli di Exuo, Induo, e anche coll’uso italiano antico ed elegante moderno delle voci Spogliare, Vestire, Spogliato (o Spoglio), Vestito ec. (20. Ott. 1823.).

Altrove ho detto che non si dà reminiscenza senza attenzione, e che dove non fu attenzione veruna, di quello è impossibile che resti o torni ricordanza. L’attenzione può esser maggiore o minore e secondo la memoria (naturale o acquisita) della persona, e secondo la maggiore o minore durevolezza e vivacità della ricordanza che ne segue. Può essere anche menoma, ma se una ricordanza qualunque ha pur luogo, certo è che una qualunque attenzione la precedette. Può essere eziandio che l’uomo non si avvegga, non creda, non si ricordi di aver fatta attenzione alcuna a quella tal cosa ond’e’ si ricorda, ma in tal caso, che non è raro, e’ s’inganna. Forse l’attenzione non fu volontaria, fors’ella fu anche contro la volontà, ma ella non fu perciò meno attenzione. Se quella tal cosa lo colpì, lo fermò, anche momentaneamente, anche leggerissimamente, anche decisamente contro sua voglia, ancorch’ei ne distogliesse subito l’animo; ciò basta, l’attenzione vi fu, l’averlo colpito non è altro che averlo fatto attendere, comunque pochissimo e per pochissimo, comunque obbligandovelo mal grado suo. (20. Ott. 1823.).

Alla p. 3409. Similmente la lettura di que’ nostri classici (e son quasi tutti) che hanno arricchita la lingua col derivar prudentemente vocaboli e modi dal latino, dal greco, dallo spagnuolo o donde che sia, ci giova sommamente ad arricchirci nella lingua, non in quanto noi con tale lettura apprendiamo que’ vocaboli e modi come usati da quegli scrittori, e perciò come usabili da noi ancora, per esser quegli scrittori, autentici in fatto di lingua; chè questa sarebbe maniera di utilità pedantesca, e nel vero se quei vocaboli e modi riuscissero nell’italiano latinismi e spagnolismi ec. non dovremmo imitar quelli che gli usarono, benchè classici ed autentici scrittori, nè l’autorità loro ci gioverebbe presso i sani, quando noi volessimo usar di nuovo quelle voci e quei modi. Ma detta lettura ci giova in quanto ella ci ammonisce per l’esperienza presente che ne veggiamo negli scrittori, la lingua italiana esser capacissima di quelle voci e maniere; perocchè noi veggiamo sotto gli occhi, che sebben forestiere di origine, elle stanno in quelle scritture come native del nostro suolo, ed hanno un abito tale che non si distinguono dalle italiane native di fatto, e vi riescono come proprie della lingua, e così sono italiane di potenza, come l’altre lo sono di fatto, onde il renderle italiane di fatto non dipende che da chi voglia e sappia usarle; e per esperienza veggiamo che quegli scrittori, trasportandole nell’italiano, le hanno benissimo potute rendere, e le hanno effettivamente rese, italiane di fatto, come lo erano in potenza, e come lo sono l’altre italiane natie. Or questo medesimo è quello che nello studio delle lingue altrui dee fare in noi, in luogo dell’esperienza, l’ingegno e il giudizio nostro; cioè mostrarci, non per prova, come fanno gli scrittori nostri classici, ma per discernimento e forza di penetrazione, e finezza e giustezza di sentimento, benchè sprovveduto di prova pratica, che tali e tali vocaboli e modi sono italianissimi per potenza, onde a noi sta il renderli tali di fatto, sieno o non sieno ancora stati resi tali dall’uso, o da parlatore, o da scrittore veruno; chè ciò a’ soli pedanti dee far differenza, e soli essi ponno disdire o riprendere che tali voci e forme (greche, latine, spagnuole, francesi, o anche tedesche ed arabe ed indiane d’origine, di nascita e di fatto) italianissime per potenza, si rendano italiane di fatto, senza l’esempio di scrittori d’autorità; siccome essi soli ponno concedere e lodare che mille e mille vocaboli e modi niente italiani per potenza, (qualunque sia la loro origine), pur si usino, perchè usati da scrittori classici che infelicemente li derivarono d’altronde, o dalle italiane voci e maniere, o li inventarono. Questi mai non furono nè saranno veramente italiani di fatto (se non quando l’uso e l’assuefazione appoco appoco li rendesse tali ancor per potenza); quelli per solo accidente sono nati in Francia o in Ispagna o in Grecia ec. piuttosto che in Italia, ma per propria loro natura non sono manco italiani che spagnuoli ec. nè manco italiani di quelli che nacquero in Italia (e di quelli che dall’Italia altrove passarono), e forse talora ancor più di alcuni di questi, che per solo accidente nacquero tra noi. Siccome per solo accidente e contro la lor natura vennero tra noi que’ vocaboli e modi che nell’italiano son latinismi o francesismi ec., o che i classici scrittori, o che i mediocri, o che i cattivi, o che la corrotta favella gli abbia introdotti e usati, chè queste differenze altresì sono affatto accidentali, e nulle per la ragione. (20. Ott. 1823.).

Della bassa opinione in cui fino nel 500 era tenuta la lingua italiana (detta allora, quasi per disprezzo, volgare) e la sua capacità e nobiltà e degnità ed efficacia e ricchezza e potenza e possibilità di crescere ec. e il suo stato d’allora (ch’era pur certo assai più potente ed efficace e forte ed espressivo e ricco e nobile e capace ed idoneo, che non fu prima nè poscia e non è oggi, dopo sì lungo tempo e tanto accrescimento del numero e varietà degli scrittori che la trattarono, e delle materie che vi si trattarono, e delle idee che vi furono e sono, tuttodì in maggior copia e varietà, significate, non solo rispetto a letteratura, ma a filosofia e politica, e maneggi e trattati civili, e storie, ed arti e scienze d’ogni maniera; onde questa lingua in quel tempo fu meno stimata in ch’ella più valse per ogni verso che in qualsivoglia altra età e ch’ella sia forse mai per valere), vedi il Dialogo delle Lingue dello Speroni, tutto, ma particolarmente dal principio del Discorso tra il Lascari e il Peretto, sino al fine del Dialogo. (20. Ott. 1823.).

Mutolo, quasi mutulus, per muto; diminutivo positivato, restando anche il positivo. Quindi ammutolire ec. per ammutire ec. che pur si ha. (20. Ott. 1823.).

Il supino futum dell’antico fuo, onde futare ec. come altrove, è dimostrato eziandio chiaramente dal participio futurus. Sicchè non si dubiti che futare non venisse da futum supino di fuo come tutti gli altri continuativi benchè oggi non si trovi supino alcuno del difettivo fum, di cui il difettivo fuo è ausiliare o suppletorio ec. ma non già il medesimo in origine ec. (21. Ott. 1823.).

Altrove ho detto che l’antico participio di sum, desinenza attiva, vi fu, e non fu ens ma sens. Non si creda che potens possa provare il contrario. Questa voce anch’essa contiene il detto participio, ma detrattane la s, come l’f in potui ec. ch’è fatto da potis o pote e fui nientemeno che possum da potis e sum, e potens da potis e sens. Del resto è ben vero che, come possum non potum, così si avrebbe avuto a dire possens anzi che potens.

Or che diremo che in tutte tre le lingue figlie si conserva quella verissima pronunzia e forma di potens? Noi diciamo potente e possente, ma questo è più proprio antico, perchè ora non sarebbe della prosa (se non in qualche caso ec.) bensì del verso. E questa antichità fa tanto meglio al caso nostro. Simile si dica di possanza e potenza, possentemente, onnipossente ec. E notisi che non è per niente il costume della lingua o pronunzia di veruna parte d’Italia il mutare in due ss il t, sia nelle parole italiane, sia da principio nella formazione di nostra lingua, rispetto alle voci latine ec. Insomma mai in nessun tempo noi non avemmo quest’uso, e però bisogna riferire in questo caso la detta mutazione da potens a possente, ad altra cagione, perch’ella non è delle solite, anzi affatto insolita ec. Qual cagione dunque? Ch’ella non è mutazione ma vera pronunzia antica latina, anteriore ancora a quella di potens. Perocch’ella è più regolare, e ci fu trasmessa dal volgo, il quale certo non la usò per parlar più regolare delle persone colte, nè per correggere la falsa pronunzia de’ più antichi, ma anzi per conservar l’uso più antico. I francesi hanno solamente puissant cioè possens, e non potens. Così puissance cioè possentia solamente, e non potentia; tout-puissant, puissamment ec. Gli spagnuoli non hanno il participio di posse [a]

Gli spagn. hanno veram. anche pujante. Hanno pure potente, potencia, potentem. ec. ma questi probabilm. sono tolti poi dal latino: pujante e pujanza ec. sono i propri spagnuoli: bensì torti alquanto di significaz. cioè usati, almeno comunem., p. forte, robusto, forza, robustezza ec.

[Chiudi], nè in senso di aggettivo, come i francesi e noi, nè in quello di participio, come noi talvolta (esser potente di fare una cosa ec. Speroni spesso), ma hanno pujanza cioè possentia, mutati i due ss nell’aspirata, come è loro ordinario. Nè i francesi nè gli spagnuoli sono punto soliti di mutare il t in due ss o nell’aspirata ec. come ho detto degl’italiani.

Del resto anche potens serve a mostrar l’esistenza antica del participio attivo di sum ec. (21. Ott. 1823.).

Il v non è che aspirazione nell’antico latino ec.: sta in vece dello spirito nelle parole tolte dal greco, e non pur dell’aspro ma del lene ec. come nella mia teoria de’ continuativi Paphlagonia insignis Roco heneto, a quo, ut Cornelius Nepos perhibet, Paphlagones in Italiam transvecti, mox veneti sunt nominati . Solin. c. 44. ed. Salmas. 46. al., Plin. l. 6. c. 2. V. Menag. ad Laert. II. segm.113, e notate che ivi il greco Ἐνετὸς è sempre collo spirito lene, benchè nell’addotto luogo si scriva Heneto. V. anche Cellar. ec. Del resto quelle mie osservazioni potrebbero confermare questa etimologia e questa storia. (21. Ott. 1823.). V. Forc. in Veneti e in Velia.

Alla p. 3734. marg. Qua spetta futum e fusum da fundo, confutum e confusum, ec. come altrove in proposito di confuto; e conferma queste osservazioni, e da queste può esser confermata notabilmente la derivazione di confuto da fundo o confundo e l’esistenza di un antico confutum o futum ec. di che altrove in più luoghi. (21. Ott. 1823.).

Il piacere è sempre passato o futuro, e non mai presente, nel modo stesso che la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno, o sempre condizionata e non mai assoluta: e così è impossibile che altri dica con pieno sentimento di vero dire, e con piena sincerità e persuasione, io provo un piacere, ancorchè menomo, quantunque tutti dicono io n’ho provato e proverò; quanto è impossibile che alcun dica di cuore io son felice, o Beato me, quando però tutti dicono beato il tale o il tal altro, e io sarei felice se mi trovassi tale o tale, e beato me se ottenessi tale o tal cosa, e se fosse questo o questo. E le cagioni per cui sono impossibili parimente le due cose sopraddette, sono appresso a poco le stesse. E come il non esser niuno che dica me beato, dimostra che tutti s’ingannano quelli che dicono beato te o lui, e io sarei beato in tale o tal caso (e tutti gli uomini così parlano e parleranno sempre e di cuore); così il non esser chi dica di vero animo io provo piacere presentemente, dimostra che niuno provò nè proverà mai piacere alcuno, benchè tutti si pensino e moltissimi affermino con sentimento di verità, di averne provato e di averne a provare. (21. Ott. 1823.).

Come la lingua francese illustre è dominata, determinata e regolata quasi interamente dall’uso, e certo più che alcun’altra lingua illustre, così, perocchè l’uso è variabilissimo e inesattissimo, essa lingua illustre non solo non può esser costante, nè molto durare in uno essere, come ho notato altrove, ma veggiamo eziandio che la proprietà delle parole in essa lingua è trascurata più che nell’altre illustri, e trascurata per regola, cioè presso gli ottimi scrittori costantemente, non meno che nel parlare ordinario. Voglio dir che gli usi di moltissime parole e modi ec. anche presso gli ottimi scrittori, sono più lontani dall’etimologia e dall’origine e dal valor proprio d’esse parole ec. meno corrispondenti ec. che non sogliono esser gli usi de’ vocaboli nell’altre lingue illustri presso, non pur gli ottimi, ma i buoni scrittori, e in maggior numero di voci ec. che nelle altre lingue illustri non sono. Che vuol dir ch’essi usi e significati sono più corrotti ec. E non potrebb’essere altrimenti perchè l’uso corrente cotidiano e volgare e generalmente la lingua parlata, anche dai colti, (che è quella cui segue il francese scritto) corrompe ed altera ogni cosa e non mai non cessa di rimutare e logorare ec. P. e. per dire il materiale e lo spirituale, o il sensibile e l’intellettuale, i francesi dicono il fisico e il morale. (le physique et le moral, le physique et le moral de l’homme, le monde physique et le monde moral etc.). Qual cosa più impropria di queste significazioni, o che si considerino in se stesse o nella loro scambievole opposizione e in rispetto l’una all’altra? Fisico propriamente significa forse materiale o sensibile? E il fisico, che vuol dir naturale, è forse l’opposto dello spirituale o intelligibile? Quasi che questo ancora non fosse naturale, ma fuori della natura, e vi potesse pur esser cosa non naturale e fuori della natura, che tutto abbraccia e comprende, secondo il valor di questa parola e di questa idea, e che si compone di tutto ch’esiste o può esistere, o può immaginarsi ec. E il morale com’è l’opposto del naturale? Sia che riguardiamo la propria significazione di morale sia la francese. E che hanno che far l’idee, l’intelletto, lo spirito umano, gli altri spiriti, il mondo e le cose astratte ec. coi costumi, ai quali soli propriamente appartiene la voce morale? e gli appartiene pure anche in francese, e anche nel parlare e scriver francese ordinario (la morale, moralité, etc.). Così dite degli avverbi physiquement o moralement ec.

Di tali esempi se ne potrebbero addurre infiniti.

La lingua latina illustre fu, non solo tra le antiche, ma forse fra tutte, la più separata e diversa, e la meno influita e dominata dalla volgare. Parlo della lingua latina illustre prosaica (ch’è poco dissimile dalla poetica) rispetto all’altre pur prosaiche perchè p. e. la lingua poetica greca fu certo (almen dopo Omero ec.) anche più divisa ec. dalla greca volgare. Ma ciò come poetica, non come illustre, e qualunque linguaggio appo qualunque nazione è veramente poetico e proprio della poesia, di necessità e per natura sua è distintissimo dal volgare; chè tanto è quasi a dir linguaggio proprio poetico, quanto linguaggio diverso assai dal volgare. S’egli ha ad esser assai diverso dal prosaico illustre, molto più dal volgare. Fra le lingue illustri moderne, la più separata e meno dominata dall’uso è, cred’io, l’italiana, massime oggi, perchè l’Italia ha men società d’ogni altra colta nazione, e perchè la letteratura fra noi è molto più esclusivamente che altrove, propria de’ letterati, e perchè l’Italia non ha lingua illustre moderna ec. Per tutte queste ragioni la lingua italiana illustre è forse di tutte le moderne quella che meglio e più generalmente osserva e conserva la proprietà delle voci e modi. Ciò presso i buoni scrittori, cioè quelli che ben posseggono e trattano la lingua illustre, i quali oggi son men che pochissimi, e quelli che scrivono la lingua illustre, i quali oggi sono in minor numero di quelli che non la scrivano, o il fanno più di rado che non iscrivono la volgare. Perocchè oggi la lingua più comunemente scritta e intesa in Italia nelle scritture, non è l’illustre ma la barbara e corrotta volgare; e però ella non conserva punto la proprietà delle parole ec. ma sommamente se n’allontana, come fa la volgare. E p. e. quel fisico e morale, fisicamente e moralmente ec. nel senso francese, è oggi del volgare italiano, e dello scritto non illustre, non men ch’e’ sia dell’illustre e del volgare francese ec. Ma presso i nostri buoni scrittori di qualunque secolo (non che gli ottimi), si vedrà forse più che in niun’altra lingua illustre moderna, osservata e conservata la proprietà delle parole e dei modi ec. Cioè l’uso loro esser totalmente e sempre, o quasi totalmente e quasi sempre, o più e più spesso che nell’altre lingue illustri, e in assai maggior numero di parole e modi ec., conforme al significato ch’essi ebbero da principio nella lingua e ne’ primitivi scrittori italiani, ed anche alla loro nota etimologia, ed al senso ed uso ch’essi ebbero nella lingua onde alla nostra derivarono, cioè massimamente nella latina, madre della nostra. Certo la proprietà latina nell’uso e significato delle parole e dei modi, (siccome la forma, lo spirito ec. della latinità, della dicitura latina, il modo dell’orazione in genere, del compor le parole, dell’esporre e ordinar le sentenze, dello stile ec. ec. E quanto a queste cose, anche in ordine alla lingua greca l’italiano illustre è la lingua più simile ch’esista ec. ec.) è molto meglio e in assai maggior parte conservata nell’italiano veramente illustre, per insino al dì d’oggi, che in alcun’altra lingua; e forse più nell’italiano illustre degli ultimi nostri buoni scrittori, che nel linguaggio de’ più antichi e migliori scrittori francesi, spagnuoli ec. (21. Ott. 1823.).

Diminutivi positivati. Novello, nouveau, Novella, rinnovellare ec. ec. V. il Forc. in Novellus (quasi iuvenculus) e i derivati sopra e sotto la detta voce: gli spagnuoli ec. (22. Ott. 1823.).

Alla p. 3685. Ho detto il genitivo ec. Tutti i nomi o verbi o avverbi ec. latini che son fatti immediatamente da qualche nome, son fatti dal genitivo o da’ casi obliqui di questo nome, non mai dal nominativo (nè dal vocativo s’egli è conforme al nominativo, nè dall’accusativo come da manum onde sarebbe manalis non manualis, da tempus accusativo onde sarebbe tempalis non temporalis ec. ec. Tempestas però par che venga da tempus accusativo o nominativo). Ciò in moltissimi casi (come in dominor da dominus i ec.) non si può conoscere nè distinguere, ma in moltissimi sì. Miles itis — milito, militia, militaris ec. nomen inis — nomino ec.[a]

Nomenclator p. nominclator ec. non è che alteraz. di pronunzia, e così mille casi simili. (come quello di cui nel marg. della pag. seg. cioè imaguncula).

[Chiudi] salus utis — saluto ec. Imago inis — imagino ec. Virgo inis — virgineus ec. Magister istri — magistratus ec. Sempre che si può distinguere, troverete che così è. (V. la p. 3006. marg.) Eccezione. Propago inis — propagare in vece di propaginare (che noi però abbiamo altresì, e l’ha anche Tertull. V. Forc. e il Gloss. ec.), se però propagare non è piuttosto fatto da propages is, o se propago non viene anzi da propagare (il che mi è molto verisimile, se l’etimologia è da pango, come il Forcell. in propago inis. Allora propago as per propango is apparterrebbe a quella categoria di verbi di cui p. 2813. sqq. e nelle ivi richiamate ec. E in esse pagg. si vedrebbero gli esempi e l’analogia e la ragione per cui pango in propago as o in propago inis abbia perduta la n, e perchè mutata coniugazione ec. che altrimente non son cose facili a dirsi. E certo l’osservazione fatta qui dietro, persuade che propagare non debba venir da propago inis: bensì propaginare). E s’altre tali eccezioni si trovano; ma saranno ben poche, s’io non m’inganno[b]. Eccettuo ancora quei derivati che piuttosto sono inflessioni ec. de’ rispettivi nomi, che altri nomi fatti da questi, come lapillus, (se questa e simili non sono contrazioni, v. p. 3901) vetusculus dal nominativo di vetus eris ec. Ma questo diminutivo è di Sidonio. Gli antichi vetulus. Nigellus potrebb’esser da nigeri non da niger, come puellus da pueri non da puer. V. p. 3909.; nigellus ch’è dal nominativo di niger, e altri tali diminutivi ec. Se già gli antichi non dissero magister isteri, niger eri ec. (22. Ott. 1823.). E così tengo per fermo; ond’è magisterium, ministerium ec. per magistrium, piuttosto dall’obliquo magìsteri, magìstero ec. poi contratti, che da magistrium, ministrium per epentesi della e. Infatti gli antichi dissero magisterare, ma i più moderni magistrare, onde magistratus us ec., come ministrare ec. Insomma queste non mi paiono eccezioni, perchè si riducono alla regola coll’osservare il modo dell’antichità e lo stato primitivo delle voci, mutato poscia, e così si potranno risolvere mill’altre tali eccezioni apparenti. In ogni modo il più delle volte è vero che i derivati de’ nomi vengono da’ casi obliqui, come ho detto, di qualunque declinazione sieno i nomi originali, come si è mostro cogli esempi, e non solamente se essi nomi son della quarta, chè allora si potrebbe negare quello che noi affermiamo dei derivati di questi, cioè che vengano da’ casi obbliqui e fra questi derivati da’ casi obliqui sono certamente quelli fatti da’ nomi della quarta e notati da noi ec. Il che basta al caso nostro. (22. Ott. 1823.).

Alla p. 3728. Quest’uso latino di mutare alle volte il primo n in g, quando concorrerebbero due n, uso che si vede in agnatus, cognatus, cognosco, ignosco, ignotus, ignobilis, ignarus, ignavus ec. per annatus, connatus, (che anche si trova), connosco, innosco, innotus (v. Forc. ), innobilis, innarus, innavus (che sarebbero come innocens, innumerus, innobilitatus) ec. ec.[a]

Agnomen, agnomentum, ec. cognomen ec. ignotitia (p. innotitia), tutti derivati da noo. Ignoro ec.

[Chiudi] (p. 3695.) corrisponde all’uso della pronunzia spagnuola che suol mutare in gn il doppio n delle parole latine o qualunque (come año, caña per canna ec.), e che generalmente rappresenta il suo gn col carattere ñ che è il segno di un doppio n. (Se però i latini pronunziavano ig-navus ec. come a p. 2657., l’uso spagnuolo di dir agno per annus ec. non ha che far niente col lat. ig-navus per innavus. Tuttavia può pur avervi che fare, in quanto anche appo gli spagnuoli quell’ año ha sempre una pronunzia di g).

Del resto non solo nel concorso delle due n, ma anche fuor di questo caso, i latini usavano di preporre o frapporre avanti la n il g. Come in prognatus per pronatus (che anche si trova), adgnascor per adnascor, adgnatus per adnatus ec. (i quali perciò dimostrano un semplice gnascor), e in gnarus, gnavus, gnavo, gnosco, gnobilis ec. (sicchè forse ignarus ec. non sono per innarus ec. ma più probabilmente per i-gnarus, i-gnavus ec. cioè per ingnavus, ingnarus ec.). Onde resta fermo quel ch’io [ho] detto p. 3695. che i latini usavano, come gli Eoli, il g veramente protatico (perchè anche in pro-gnatus per pro-natus, in i-gnobilis per in-nobilis ec. ei viene a esser protatico.). E quest’uso ancora avrebbe qualche corrispondenza coll’uso spagnuolo di mutare alle volte, se non erro, anche l’n semplice delle voci latine ec. in ñ (22. Ott. 1823.).

Prolicio, prolecto as ec. Aggiungansi alle cose dette nella mia teoria de’ continuativi (sul principio) circa i verbi allicio, allecto ec. (22. Ott. 1823.).

Verbo diminutivo in senso positivo. Nidulor per nidor aris (che non esiste) da nidulus per nidus. Noi abbiamo annidare ec. (22. Ott. 1823.).

Alla p. 3706. Senza fallo il nostro verbo fu noo is, non no nis. (e altrettanto si dica di poo, non po, da πόω, il quale dovette essere poo pois povi potum secondo le ragioni che or si diranno). 1. Da no non si sarebbe fatto nosco ma nisco. Veggasi la p. 3709. fine— 10. principio. 2. No non avrebbe fatto nel preterito novi ma ni (o per duplicazione neni), come suo sui, luo lui ec. Noo bensì doveva far noi, come suo sui ec. (p. 3731. seg. 3706. marg.), poi per evitar l’iato fece novi, come amai amavi, docei docevi, lui luvi ec. (p. 3706.3732. V. Forc. in luo verso il fine). 3. Così no non avrebbe fatto notum ma nitum [a]

Ne’ composti notum o gnotum si cambia in gnitum (cognitum ec.) fuorchè in ignotus nome, e in ignotus partic. e supino. V. anche agnotus ec.

[Chiudi]. Nè questo si sarebbe mai mutato in notum, nè ni o neni in novi. Bensì noi in novi nel modo detto; e in notum il regolare noitum di noo (p. 3708. marg. 3731-2. 3735.). Anche Nomen, agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo non no (onde sarebbe nimen, come da rego, regimen ec.); secondo, noo da cui esso viene, non da nosco, checchè dica il Forc. in nomen, princip. e quivi Festo ec. 4. Nobilis non potrebbe venir da no. Bensì da noo. Perocchè i verbali in bilis nel buon latino non si fanno se non da supino in tum (o partic. in tus), e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. V. p. 3825. Bensì tali supini (o participii) non sono sempre noti, ma dato il verbale in bilis, e’ si possono conoscere mediante l’analogia e la cognizione dell’antichità e della regola della lingua latina, le quali anche da se li possono mostrare, e il verbale in bilis li conferma, sempre ch’egli esista. P. e. Docibilis è da doci-tum. Questo supino già lo conoscevamo per altra via, benchè inusitato, cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma. Immarcescibilis da marcescitus inusitato. Già abbiam detto e sostenuto che il proprio participio o supino de’ verbi in sco era in scitus. Eccone altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o non gli s’attribuisce supino alcuno) dimostrato da immarcescibilis. Solu-tum, volu-tum, solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, habilis ec. sono dai regolari, veri ed interi, benchè inusitati supini, labitum, nubitum, (habitum è usitato, anzi solo usitato, ma non è il primitivo) ec., secondo la regola, fuor solamente ch’e’ son contratti da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di pronunzia accelerata o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec.[a] Or dunque da no nitum avremmo nibilis. Nobilis non può essere che da no-tum, gnobilis da no-tum o da gnotum, ignobilis da no-tum o gno-tum o igno-tus o gnobilis o nobilis. Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis come notum lo è di noitum. Vedi la pag. 3832. fine.

Secondo queste osservazioni, nobilis, gnobilis, ignobilis confermano l’esistenza di un verbo originario di nosco, al quale è chiaro ch’essi hanno attinenza; ma se venissero da nosco farebbero noscibilis ec. da noscitum, ed anche il Forc. che certo non aveva osservata la formazione de’ verbali in bilis da’ supini in tum, pur vide che nobilis era quasi noscibilis (vedilo in nobilis princip. dove ha vari spropositi, secondo le nostre osservazioni). Nè da noscibilis sarebbe stata punto naturale nè latina la contrazione in nobilis ignobilis ec. V. ignoscibilis, antica voce, nel Forc. la quale conferma il supino noscitum, secondo le presenti osservazioni, e che da nosco si sarebbe fatto noscibilis, non nobilis, come anche da marcesco immarcescibilis, non immarcibilis ec. V. anche nel Forc. noscibilis, agnoscibilis ec. irascibilis. Del resto nobilis, gnobilis ec. sono voci antichissime, onde ben poterono venire dall’antichissimo e poscia inusitato noo.

Possibilis (e impossibilis, possibilitas ec.) dimostra possitus, e quindi il participio o supino situm di sum, confermando il detto da noi in proposito di sto, come potens dimostra il participio sens (pag. 3742-4.).

Del resto noo, poo e simili andarono presto in disuso probabilmente per il cattivo suono di quel doppio o l’un dietro l’altro, onde si preferì l’uso de’ verbi lor derivati, i quali restarono, e quasi o senza quasi nel senso degli originarii (massime nosco e composti ec.), o anche in esso senso ec. Nosco però non restò tutto, nè noo perì tutto, ma ne restò novi e notum ec. insomma una gran parte (dove non aveva luogo, o n’era stato scacciato, il cattivo suono), la quale supplì ai mancamenti e perdite sofferte dal derivato ec. Così di poo restò potus, epotus, potum, poturus ec. anche più usati di potatus ec., e potus sum ec. (22. Ott. 1823.). V. p. 3850.

Niente d’assoluto. Qual cosa par più assoluta e generale, almen fra gli uomini, di quello che la corruzione sia nauseosa? Or le sorbe e le nespole, perocchè nello stato che per loro è vera maturità e perfezione, per noi non son buone a mangiare; bensì nello stato che per loro è vera, non pur vecchiezza, ma morte e corruzione; perciò mezze e corrotte si mangiano. — Lo schifoso è interamente relativo. La lumaca non fa schifo a se stessa. Non è schifoso a noi quello che in noi, o da noi uscito o prodotto ec. è schifoso agli altri. Il porco si diletta di ravvolgersi nel fango e lordure ec. E quanti uomini trattano e amano, e mangiano e gustano ec. cose che agli altri (a tutti o a più o ad alcuni, nella stessa nazione o in diverse) riescono schifosissime. — La sorba, la nespola, secondo noi, è perfetta quando è corrotta, misurando noi la perfezione di queste, come d’infinite altre cose, dall’uso nostro ec. Ma chi non vede che questa perfezione è al tutto relativa? e relativa a noi soli, anzi al solo uso del nostro palato e stomaco, ed in quanto la sorba è atta a divenirci una volta cibo, cosa a lei affatto accidentale ed estrinseca? E che la sorba non ne è perciò meno corrotta e degenerata? nè, per se stessa e per sua natura, meno perfetta allor quando ec. e non in altro tempo ec. (23. Ott. 1823.).

Si può applicare all’uomo in generale avendo riguardo alle illusioni e al modo in che la natura ha supplito coi felici errori ec. alla felicità reale, anzi può applicarsi ad ogni genere di viventi, quel verso del Tasso ( Gerus. I. 3.) E da l’inganno suo vita riceve . (23. Ott. 1823.).

Forte, fortemente, fort, force ec. per molto, molti ec. Κάρτα Vedi lo Scapula, e Arriano nell’Indica e nella Spediz. d’Alessandro ec. E nótisi che κάρτα per valde mostra d’essere antichissimo, ond’egli è poetico piucch’altro ec. V. Forcell. Gloss. Diz. franc. spagn. ital. Anche i latini vehementer, vehemens ec. E valde è contrazione di valide ec. Onde nelle lingue moderne dicendo fortemente per valde si conserva la etimologia di questa parola ec. (23. Ott. 1823.).

A quello che altrove ho detto di dompter da domitare [a]

V. p. 3071.

[Chiudi], aggiungi promtus e promptus, promsi e prompsi, promtum e promptum, demsi e dempsi, demtum e demptum, temptare per tentare (v. Forcell. e il Cod. Cic. de republ. col Conspectus Orthograph. del Niebuhr), comsi e compsi, comptum e comtum, comptus e comtus, compte e comte, ec. ec. V. Forcell. I francesi scrivono anche domter domtable ec. e forse oggi più frequentemente. Il Richelet non ha che domter, l’Alberti che dompter. Vedi il Richelet in Compte, compter ec. che scrivevasi ancora, com’egli dice, comter, comte ec. Notisi peraltro che compter ec. viene da computare, sicchè il p vi è naturale e non ascitizio come in dompter ec. Infatti oggi i francesi, i quali scrivono Comte (da comes itis), comtat ec. scrivono sempre, ch’io sappia, compte da computus, compter ec. (23. Ott. 1823.).

A proposito di sylva da ὕλη, del che altrove. Sulla e Sylla, Symmachus e nel Cod. Ambros. delle Orazioni Summachus costantemente. V. Forcell. ec. (23. Ott. 1823.).

Chi vorrà credere che apto ed ἅπτω (de’ quali altrove) essendo gli stessissimi materialmente, e significando propriamente la stessissima cosa, non abbiano a far nulla tra loro per origine ec. converrà supporre un’assoluta casualità che troverà pochi fautori ec. (23. Ott. 1823.).

Alla p. 2657. marg. E se in Italia, in che parte, (avendo noi tanti e sì diversi dialetti), come ne’ paesi ove la pronunzia tien più dello straniero, ne’ paesi di confine, nel Piemonte (ove forse è probabile che sia stato scritto il Cod. de rep. e così di Frontone ec.) nell’alta Lombardia e Venezia, o generalmente nella Lombardia o nel Veneziano. E se nel cuor d’Italia, ed anche in Roma, a che tempo, come ne’ vari tempi che vi furono più stranieri, e più influenti ec. E finalmente da chi, se da italiani o stranieri, e italiani di che parte d’Italia, e di buona pronunzia o cattiva, e periti dell’ortografia o no, e vissuti fra gli stranieri o no ec. ec. (23. Ott. 1823.). Puoi vedere la p. 3754.

Alla p. 3692. Aggiungasi che scivi scitum di scisco, e de’ suoi composti (ascitum, conscitum, plebiscitum) ec. hanno tutti l’i lungo. Or la desinenza in itum è affatto improprissima de’ verbi della terza. (Lascio quella in ivi, che n’è parimente impropria, ma altresì quella in ivi il sarebbe). Che segno è questo, se non che scitum grammaticalmente non è di scisco, ma di scio, di cui, come verbo della 4. è propria e debita peculiarmente la desinenza del supino in itum? Così dicasi di qualunqu’altro verbo in sco che sia fatto da un verbo della quarta, noto o ignoto: che se tal verbo in sco ha supino, o se gli si attribuisce, esso è certamente in itum, e però è certamente tolto in prestito dal suo verbo originale, il quale, se non esiste, da ciò n’è dimostrato ec. E può vedersi la p. 3707. fine 08. principio. (23. Ott. 1823.).

Necessità di nuove o forestiere voci, volendo trattar nuove o forestiere discipline. Impossibilità e danno del mutare i termini ricevuti in una disciplina che da’ forestieri sia stata trovata, o principalmente coltivata, o trasmessaci ec. di sostituire cioè altri termini a quelli con che i forestieri che ce la tramettono, sono usi di trattare quella disciplina, quando bene fosse facile alla nostra lingua il trovar termini suoi, novi o vecchi, da sostituir loro, anzi quando ella già ne avesse degli altri (sian termini sian vocaboli) con quel medesimo significato ec. V. Speroni Dial. della Retorica, ne’ suoi Diall. Venez. 1596. p. 139. a dieci pagg. dal principio, e 23. dal fine. (23. Ott. 1823.).

Gli spettacoli gladiatorii, così sanguinarii ec. appartengono a quel diletto delle sensazioni vive, di cui dico in tanti luoghi. (23. Ott. 1823.). Così le cacce di tori ec. ec.

Disperser da dispergo-dispersus (24. Ott. 1823.).

Ai verbi diminutivi o frequentativi italiani da me altrove raccolti, aggiungi per esempio di quelli in olare, crepolare da crepare, screpolare ec. (24. Ott. 1823.).

Quaero is, quaesitum e itus. Perchè dunque da queror, questus, ch’è verbo differente sol d’una lettera nella scrittura, e di nulla nella pronunzia? E da quaesitum e quaesitus che pur restano e son fuori di controversia, e non si potrebber dire altrimenti, abbiamo quaestus us e quaestor ec. ec. L’uso dunque delle contrazioni de’ supini che altrove in tanti luoghi io suppongo, è evidente; perocchè qui restando il supino e il participio intero, le voci quindi formate sono, le più, contratte al modo appunto degli altri supini e participi ec. i quali molte volte per lo contrario son dimostrati da voci derivate o affini ec. non contratte. Come qui vale l’argomento da quaesitum a quaestus us ec. così dovrà valere ne’ casi contrarii ec. (24. Ott. 1823.).

Alla p. 3557. principio. L’aspetto della debolezza riesce piacevole e amabile principalmente ai forti, sia della stessa specie sia di diversa. (forse per quella inclinazione che la natura ha messa, come si dice, ne’ contrarii verso i contrarii). Quindi la debolezza in una donna riesce più amabile all’uomo che all’altre donne, in un fanciullo più amabile agli adulti che agli altri fanciulli. E la donna è più amabile all’uomo che all’altre donne, anche pel rispetto della debolezza ec. Ed all’uomo tanto più quanto egli è più forte, non solo per altre cagioni, ma anche per questa, che l’aspetto della debolezza gli riesce tanto più piacevole, quando è in un oggetto altronde amabile ec. Ed anche per questa causa i militari, e le nazioni militari generalmente sono più portate verso le donne, o verso τὰ παιδικά ec. (V. Aristot. Polit. 2. Flor. 1576. p. 142.). Le cose dette della debolezza si possono anche dire della timidità. Piace l’aspetto della timidità in un oggetto d’altronde amabile, e quando essa medesima non disconvenga. Piace p. e. ne’ lepri, ne’ conigli ec. Piace massimamente ai forti o assolutamente o per rispetto a quei tali oggetti. Piace ai più coraggiosi, e questo ancora si riferisca a quel che ho detto de’ militari. Il veder che uno teme e ha ragion di temere, e ch’e’ non si può difendere, è cosa amabile, e induce i forti e i coraggiosi, o della stessa specie o di diversa, a risparmiare quei tali oggetti; quando non v’abbia altra causa che operi il contrario, come nel lupo verso la pecora ec. Cause indipendenti dalla timidità e dal coraggio. E da ciò, almeno in parte, deriva che gl’individui e le nazioni forti e coraggiose sogliono naturalmente essere le più benigne; e in contrario è stato osservato che gl’individui e i popoli più deboli e timidi sogliono essere i più crudeli verso i viventi più deboli di loro, verso i loro stessi individui più deboli ec. Ed è proposizione costante e generale che la timidità la codardia e la debolezza amano molto di accompagnarsi colla crudeltà, colla inclemenza e spietatezza e durezza de’ costumi e delle azioni ec. (Che il timore sia naturalmente crudele, perchè sommamente egoista, e così la viltà ec. l’ho notato in più luoghi). Ciò non solo si osserva negli uomini, ma eziandio negli altri animali. E con molta verisimiglianza, se non anche con verità, si attribuisce al leone la generosità verso gli animali di lui più deboli e timidi ec. quando la natura, cioè una nimistà naturale, o la fame ec. non lo spinga ad opprimerli ec. o ve lo spinga talora, ma non in quel tal caso, o quando la natura non glieli abbia destinati particolarmente per cibo, chè allora sarà ben difficile ch’ei se ne astenga, o se ne astenga p. altro che per sazietà. Si applichino queste osservazioni a quelle da me fatte circa la compassionevolezza naturale ai forti, e la naturale immisericordia e durezza dei deboli ec. e viceversa quelle a queste (p. 3271. segg.). Si suol dire, e non è senza esempio nelle storie che le donne divenute potenti in qualunque modo, sono state e sono generalmente come più furbe e triste, così più crudeli e meno compassionevoli verso i loro nemici, o generalmente ec. di quel che sieno stati o sieno, o che sarebbero stati o sarebbero, gli uomini, in parità d’ogni altra circostanza. Ed è ben noto che i Principi più deboli e vili sono sempre stati i più crudeli proporzionatamente alle varie qualità ed al vario spirito de’ tempi a cui sono vissuti o vivono, e alle varie circostanze in cui si sono rispettivamente trovati o trovansi, e secondo le varie epoche e vicende della vita di ciascheduno ec. (24. Ott. 1823.).

Alla p. 3616. fine. Un’altra osservazione confermante il mio parere, che l’Iliade se cede agli altri poemi in qualche cosa, ciò possa essere ne’ dettagli, ma tutti li vinca nell’insieme, e nella tessitura medesima e disposizione e condotta, non che nell’invenzione (al contrario del comun giudizio), si è che nell’Iliade l’interesse cresce sempre di mano in mano, sin che nell’ultimo arriva al più alto punto. Laddove nella Gerusalemme egli è, si può dire, onninamente stazionario; nell’Eneide assolutamente retrogrado dal settimo libro in poi, e così nell’Odissea: errore e difetto sommo ed essenzialissimo e contrario ad ogni arte. Nella Lusiade nol saprei ora dire, nè nella Enriade, dove però l’interesse non può essere nè stazionario nè retrogrado nè crescente, essendo affatto nullo, almeno per tutti gli altri fuor de’ francesi. Puoi vedere a proposito del crescente interesse l’ Elogio di Voltaire nelle opp. di Federico II. 1790. tome 7. p. 75.

Ho detto in questo discorso come sia necessario che il soggetto dell’epopea sia nazionale, e come dannoso sarebbe ch’ei fosse universale ec. (se non nel modo usato dal Tasso ec.). Ma per altra parte la nazionalità del soggetto limita, quanto a se, l’interesse e il grand’effetto del poema, a una sola nazione. Non v’è altro modo di ovviare a questo gran male (il qual fa ancora che i posteri, dopo le tante mutazioni politiche che cagiona il tempo, distruttore o cangiatore delle nazioni, o de’ loro nomi, ch’è tutt’uno, e loro carattere nazionale ec. non considerino più quegli antichi, nè possano considerarli, come lor nazionali, e che a lungo andare, immancabilmente, non vi sia più nazione a cui quel poema sia nazionale), se non di costringere l’immaginazion de’ lettori qualunque a persuaderli di esser compatrioti e contemporanei de’ personaggi del poeta, a trasportarli in quella nazione e in quei tempi ec. Illusione conforme a quella che deono proccurare i drammatici ec. Or tra tutti gli epici quel che meglio l’ha proccurata si è Omero nell’Iliade, siccome fra tutti gli storici Livio. Vero è che questo viene in grandissima parte da quelle tante cagioni altrove da me esposte, le quali fanno che tutte le nazioni civili in tutti i tempi sieno state e sieno p. essere connazionali e contemporanee de’ troiani, greci antichi romani antichi ed ebrei antichi. Infatti dopo l’Iliade, il poema epico che meglio proccura la detta illusione universale, si è l’Eneide, perchè di soggetto troiano e romano. Ma vero è ancora che, massime quanto ai troiani, le dette cagioni si riducono alla sola Iliade (ed all’Eneide), onde l’illusione ch’essa proccura, non viene da cause a lei affatto estrinseche, anzi l’Iliade è tanto più mirabile quanto essa sola, o essa principalmente (cioè aiutata dall’Eneide ec.), ha potuto rendere e rende tutti gli uomini civili d’ogni nazione e tempo compatrioti e contemporanei de’ troiani. Questo ella consegue mediante le reminiscenze della fanciullezza ec. le quali l’accompagnano perchè sin da fanciulli conosciamo l’Iliade, o i fatti da essa narrati e inventati, e la mitologia in essa contenuta, ec. e le prime nozioni della mitologia che apprendiamo, sono strettamente legate e in buona parte composte delle invenzioni d’Omero ec. ec. Ma tutto questo non sarebbe nè sarebbe stato se l’Iliade non fosse sempre stata così celebre. Nè così celebre sarebbe stata sempre senza il suo sommo merito. Vero è che questo non ha che fare in particolare colla condotta ec. ec. (25. Ott. 1823.).

Alla p. 3729. marg. Trovansi eziandio ne’ nostri antichi parecchie voci o significazioni ec. proprie del latino noto, ma che ora non potremmo in alcun modo usare, ben sono usate e familiari appo gli spagnuoli: il che pare che provi ch’elle fecero parte di quel volgare che precedette ambo le lingue, del volgar latino ec. se non vogliamo supporre che l’antico italiano allo spagnuolo, o l’antico spagnuolo all’antico italiano le comunicasse, che nè l’uno nè l’altro è molto verisimile. (25. Ott. 1823.).

Alla p. 3488. marg. Trovo in un cinquecentista spagnuolo, ma di poca autorità, falsar la paz per rompere frodolentemente la pace, o violar le condizioni della pace, mancare ai trattati ec. Del resto falsare in questi sensi è quasi un continuativo di fallere. Falsar la fede nell’esempio dello Speroni è lo stesso che il fallire, cioè fallere, la promessa nell’altro esempio. E anche in se stesso, falsare nelle dette significazioni ha un certo senso d’ingannare, cioè fallere, benchè forse si vorrà piuttosto dargli quello di mancare. Ma in questo senso non si vede come nè fallirefalsarefaltar ec. possano essere attivi ec. ec. (25. Ott. 1823.). Falsare in altri sensi, (come in falsatus e falsatio ap. Forc.) è bensì da falsus di fallere ma preso in senso di aggettivo; laddove ne’ detti significati falsare sarebbe da falsus in senso di participio ec. (25. Ott. 1823.).

Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri viventi. Io dico che lo è men di tutti, perchè avendo più vitalità, ha più amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell’altre, secondo i principii da me in più luoghi sviluppati. Or qual altra qualità è più antisociale, più esclusiva per sua natura dello spirito di società, che l’amore estremo verso se stesso, l’appetito estremo di tirar tutto a se, e l’odio estremo verso gli altri tutti? Questi estremi si trovano tutti nell’uomo. Queste qualità sono naturalmente nell’uomo in assai maggior grado che in alcun’altra specie di viventi. Egli occupa nella natura terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli tiene la sommità fra gli esseri terrestri.

Il fatto dimostra, al contrario di quel che gli altri lo interpretano, che l’uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi che per natura hanno qualche società fra loro. Da che il genere umano ha passato i termini di quella scarsissima e larghissima società che la natura gli avea destinata, più scarsa ancora e più larga che non è quella destinata e posta effettivamente dalla natura in molte altre specie di animali; filosofi, politici e cento generi di persone si sono continuamente occupati a trovare una forma di società perfetta. D’allora in poi, dopo tante ricerche, dopo tante esperienze, il problema rimane ancora nello stato medesimo. Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni, con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte quelle che oggi hanno luogo, lo sono altresì. I filosofi lo confessano; debbono anche vedere che tutti i lumi della filosofia, oggi così raffinata, come non hanno mai potuto, così mai non potranno trovare una forma di società, non che perfetta, ma passabile in se stessa. Nondimeno ei dicono ancora che l’uomo è il più sociale de’ viventi. Per società perfetta non intendo altro che una forma di società, in cui gl’individui che la compongono, per cagione della stessa società, non nocciano gli uni agli altri, o se nocciono, ciò sia accidentalmente, e non immancabilmente; una società i cui individui non cerchino sempre e inevitabilmente di farsi male gli uni agli altri. Questo è ciò che vediamo accadere fra le api, fra le formiche, fra i castori, fra le gru e simili, la cui società è naturale, e nel grado voluto dalla natura. I loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione del riunirsi in società; e se l’uno nuoce mai all’altro, ciò non è che per accidente, nè il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui. E talora gli uni fanno male ad alcun degli altri, o tutti ad un solo o a pochi, per lo solo oggetto del ben comune o del ben dei più, come quando le api puniscono le pigre. Nol fanno già esse per il bene di un solo. Nè chi ’l fa, lo fa pel solo ben suo, anzi pel bene ancora di chi è punito. Ed anche questo far male ad alcuno è un cospirare al ben comune. Ma nelle società umane quello non si trovò mai, questo sempre. Leggi, pene, premi, costumi, opinioni, religioni, dogmi, insegnamenti, coltura, esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori di un’altra vita, niente ha potuto far mai, niente è nè sarà bastante di fare, che l’individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia, non dico giovi altrui, ma si astenga dall’abusarsi, o vogliamo dire dal servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a se col male altrui, dal cercare di aver più degli altri, di soverchiare, di volgere in somma quanto è possibile, tutta la società al suo solo utile o piacere, il che non può avvenire senza disutile e dispiacere degli altri individui. Infinite e diversissime furono e sono le forme dei costumi, delle opinioni, delle istituzioni, de’ governi, le varietà delle leggi ec. infinite e diversissime quelle che i filosofi ec. in tutti i secoli e nazioni civili hanno immaginato ed immaginano e che non sono mai state poste in effetto, ma in ciascuna di queste forme è sempre avvenuto, o certo sempre avverrebbe il medesimo. Quali mezzi, quali artifizi non si sono immaginati o impiegati per impedirlo? che studio, che dottrina, che esperienza, che fatica, che forza d’ingegno si è risparmiata per ottener questo effetto? quanti geni sommi non vi si sono applicati? ma tutto è stato pienissimamente indarno; e chiunque abbia fior di giudizio dee senza difficoltà convenire, che tutto lo sarà sempre ugualmente, qualunque affatto nuova e strana circostanza si possa mai offrire, e qualunque novissima arte e via ritrovare. Il che insomma vuol dire che una società perfetta, e niente più perfetta che nel modo spiegato di sopra, senza il quale l’idea della società è contraddittoria ne’ termini; una società, dico, perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera è impossibile. Or come può star che sia impossibile, se la natura ce l’avesse destinata, e se l’uomo fuor di una tal società non potesse conseguire la sua perfezione e felicità naturale? Veggiamo pur che quella società ch’è stata destinata dalla natura ad animali tanto inferiori a noi, è stata sempre fin dal principio, ed è costantemente, perfetta nel suo genere, bench’essi non abbiano avuti e non abbiano nè legislatori, nè filosofi, nè esperienze d’altre forme di società ec. Veggiamo eziandio ch’ella è perfetta, non pure nel genere suo, ma rispetto al genere ed all’idea della società assolutamente, la quale importa, moltitudine maggiore o minore d’individui cospiranti in una o altra forma al bene di tutta la moltitudine, e ad essa in niun modo mai, se non accidentalmente, pregiudicanti; del resto poi comunicanti tra se più o meno, e moltissimo o pochissimo; ciò nulla rileva, purchè in tanto cospirino al ben comune, in quanto e’ comunicano insieme, poco o molto che ciò sia. Non dobbiamo dunque dedurre da tutto il sopraddetto, sì ragioni, sì esperienze di tanti e tanti secoli, che il genere umano per natura, o non è destinato a società veruna tra se, o (com’è vero) è destinato ad un genere, o per meglio dire, ad un grado di società diverso affatto da tutti quelli che in esso lui ebbero luogo dal primissimo principio del suo (così detto) dirozzamento, fino al dì d’oggi? Cioè ad una scarsissima comunione de’ suoi individui tra loro, nella qual comunione, in quanto ella si stendeva ed esigeva, ciascuno avrebbe cospirato al comun bene degl’individui in essa compresi, e niuno, se non per caso, gli avrebbe nociuto; onde sarebbe risultata agli uomini una specie di società perfetta in se stessa e relativamente ai subbietti suoi proprii, e perfetta in ordine all’idea ed alle condizioni essenziali della società assolutamente considerata. La quale specie di società essendosi bentosto perduta, niun’altra specie di società perfetta ha potuto mai rimpiazzarla in non so quante migliaia d’anni, nè mai la rimpiazzerà, perchè la natura non si rimpiazza, nè più d’una sola perfezione (cioè del suo naturale stato) può convenire a niuna specie d’esseri creati, e quindi non più d’una felicità.

Stante la natura generale de’ viventi, e massime quella dell’uomo in particolare, una società stretta, la quale è cosa dimostrata che necessariamente produce tra gli uomini la disuguaglianza di mille generi e intorno a mille beni e mali, non può a meno di eccitare e di mettere in movimento, com’ella fa in effetto, le passioni dell’invidia, dell’emulazione, della gara, della gelosia, conseguenze necessarie, o piuttosto specie e nuances dell’odio verso gli altri, naturale ad ogni essere che ami naturalmente se stesso. Or qual cosa è più antisociale di queste passioni? Elle non avrebbero avuto luogo nella società scarsa e larga destinataci dalla natura, il cui uffizio sarebbesi limitato al vero fine d’ogni società, quello di soccorrersi scambievolmente ne’ bisogni (che in natura son pochi), e massime in quei bisogni (che sono anche meno) i quali esiggono la cospirazione di più individui, come sarebbe il difendersi dagli altri animali nemici, al qual effetto anche gli animali meno socievoli, si riuniscono e fanno tra loro una società temporanea, che dura quanto il pericolo, come i cavalli si stringono insieme in una ruota, ove ciascuno resta co’ piedi di dietro al di fuori, per difendersi dal lupo, ec. Le dette passioni, ripeto, non avrebbero avuto luogo, sì per la poca strettezza di quella società, sì perchè in essa e nello stato naturale dell’uomo, i vantaggi naturali dell’uno individuo sull’altro sarebbero stati pochi, rari, e piccoli, e i sociali non vi sarebbero stati affatto. La disuguaglianza tra gli uomini che la società rende naturalmente somma e di mille generi, sarebbe stata quasi nulla, e limitata a ben poche cose. Infatti fra gli altri animali, fra cui la società è scarsa, la disuguaglianza fra gli individui è rara e sempre scarsissima; così i vantaggi degli uni sugli altri. Quindi le dette passioni, che sono necessariamente suscitate da’ vantaggi e dalla disuguaglianza ch’è inevitabilmente prodotta da una società stretta, sono fra gli altri animali rarissime e debolissime. E quelle che nascono dall’orgoglio naturale di ciascheduno individuo, necessariamente punto ed afflitto e molestato dal comando, dalle dignità, dalle preminenze qualunque, dalla stima e dalla gloria degli altri individui della stessa specie e compagnia, non avrebbero avuto luogo nella società scarsa in modo alcuno, nè l’hanno tra gli animali i più socievoli, perchè nè in quella si sarebbero trovati, nè fra questi si trovano gli oggetti che le suscitano, anzi neppur l’idea loro, non che il desiderio. E quanto al comando, se ve n’ha vestigio alcuno tra gli animali, come tra le api, tra’ buoi, tra gli elefanti (v. Arriano Indica ), esso viene da superiorità di natura e quasi di specie, intorno a cui non ha luogo invidia nè emulazione; come le pecore non possono invidiare al montone che le conduce e quasi governa perch’egli è di sesso più forte, nè le donne invidiano agli uomini la loro maggior fortezza, nello stesso modo che noi non l’invidiamo al leone. Oltre di che il comando e qualunque specie di preminenza fra gli animali, come dalla natura fu posta, così da tutti gli altri individui soggetti è sempre riconosciuta per utile a tutti loro, ed utile non solo in potenza non solo in destinazione, ma in atto e in effetto continuamente, e come a tale essi vi si soggettano naturalmente, non pur senza la menoma ripugnanza, ma con piacere, e molto si dolgono s’ella, per qualche accidente, vien loro a mancare, come alle api il re ec. Ma in una società stretta, massime umana, è d’inevitabile necessità che abbiano luogo tutte le dette preminenze, come altresì è necessario ch’elle sempre offendano grandemente l’orgoglio naturale degli altri individui. E fra esse preminenze è d’indispensabile necessità che v’abbia luogo il comando, e questo fra gli uomini non può esser effetto di superiorità di natura o di specie, ma è necessario che l’uguale per natura, sia signor degli uguali. E il comando e la soggezione fra gli uomini è incontrastabilmente inevitabile che sebbene utili per istituto, il più delle volte sieno anzi dannosissime in effetto a chi ubbidisce e sottostà, e per tale siano riconosciute da loro, seguendone naturalmente un’invidia e un odio sommo verso chi comanda; odio antisocialissimo, massimamente che il comando è necessario, ec. Ed è ancora inevitabile che non di rado, (anzi quasi sempre), il comando e la signoria per l’origine medesima e per istituto sieno dirette al danno de’ sottoposti ed al solo bene de’ signori: come sono le signorie acquistate per viva forza o per arte, contro il volere e l’intenzione de’ subbietti, le quali si chiamano tirannie. E certo è che tutti o la più parte de’ principati passati e presenti hanno avuto principio dalla forza o dall’artifizio, e che tutti i troni d’Europa si possono, genealogizzando, far risalire a queste radici. Insomma, com’egli è cosa certissima che tutto il mondo è il patrimonio della forza (sia fisica, cioè vigore, sia morale, cioè ingegno, arte ec. ch’è tutt’uno), e ch’egli è fatto per li più forti, ne segue che in una società stretta, inevitabilmente, qualunque forma se gli possa mai dare, i più deboli individui denno essere, furono sono e saranno la preda, la vittima, il retaggio de’ più forti. Onde non si può assolutamente dare, molto meno fra uomini, una società stretta, che ottenga il fine della società, cioè il ben comune degl’individui che la compongono, ed il cui risultato sia il detto ben comune. Senza di cui la società non può avere ragione alcuna. In una società larga i più forti non hanno nè mezzo nè occasione nè desiderio nè stimolo alcuno di esercitare e porre in opera la superiorità delle loro forze sopra gl’individui di essa società, se non solamente alcuna volta per accidente, in modo scarso e passeggero. Ciò ch’ei si propongono di ottenere, non è a spese della lor società, nè di alcuno de’ suoi individui; esso è fuori di lei; la lor società è troppo scarsa perchè alcuno possa farci sopra dei disegni, e riporre la sua felicità in beni dipendenti o appartenenti in alcun modo alla medesima società, di cui appena si avveggono di esser parte, e che loro è, per così dire, fuori degli occhi, e quindi anche del pensiero, almeno il più del tempo. ec. I lupi fanno società per attaccare un ovile, ma i disegni ch’essi formano sì nel tempo di questa passeggera società, sì nel resto, e i vantaggi che essi, e tra essi massimamente i più forti, si propongono di ottenere, non sono sopra gli altri lupi, ma sopra le pecore. Se poi nella division della preda, nasce fra loro qualche discordia, e se in questa i più forti hanno il più, queste son cose accidentali e poco durevoli, e che non lasciano ne’ più deboli alcun rancore, perchè la società subito si discioglie, sicchè l’effetto della discordia si limita a quei pochi momenti, e in ultimo è maggior l’utile che quei lupi hanno riportato da quella società, senza cui non avrebbero penetrato l’ovile, e maggior l’utile che i più deboli hanno ricevuto da’ più forti che han combattuto più di loro ec., di quello che sia il danno che quei lupi hanno riportato da tal discordia, e i più deboli da’ più forti. Ma tutto l’opposto accade nelle società umane: dove i più forti non servono ad altro che a far male ai più deboli e alla società, e la superiorità qualunque di forze è sempre dannosa altrui, perchè sempre (almeno oggidì, e per lo passato il più delle volte) adoperata in solo bene di chi la possiede.

La società stretta, ponendo gl’individui a contatto gli uni degli altri, dà necessariamente l’essor all’odio innato di ciascun vivente verso altrui, il qual odio in nessuno animale è tanto, neppur verso gl’individui di specie diversa e naturalmente nemica, quanto egli è negl’individui di una società stretta verso gli altri individui della medesima società! Perchè ogni odio naturalmente si accresce a mille doppi colla continua presenza dell’oggetto odiato, e delle sue azioni ec. massime quando quest’odio sia naturale, in modo che, per natura, e’ non possa esser mai deposto. Ora, checchè si voglia dire, e in qualunque modo (anche sotto l’aspetto di amore) si mascheri l’odio verso altrui (così fecondo in trasfigurazioni come l’amor proprio suo gemello), egli è così vero che l’uomo è odioso all’uomo naturalmente, com’è vero che il falcone è odioso naturalmente al passero. E quindi tanto è consentaneo riunire insieme in una repubblica sotto buone leggi i falconi e i passeri (quando anche ai falconi si tagliassero gli artigli, e si operasse in modo che di forza fisica non eccedessero i loro compagni), quanto riunire gli uomini insieme in istretta società sotto qualsivoglia legislazione. E quando anche la società stretta non accrescesse il detto odio, certo non si potrà negare ch’ella lo sveglia e l’accende, e ch’ella sola somministra le occasioni di esercitarlo, rendendo così fatalissimo alla specie e mettendo in opera l’odio scambievole innato negl’individui d’essa specie, il quale senza società o in società larga, sarebbe stato affatto o quasi affatto innocuo alla specie, ed inefficace, e per mancanza o insufficienza di occasioni e di stimoli neppur sentito. Il che sarebbe stato conforme alle intenzioni della natura, ed anche alla ragione assoluta, non essendo presumibile che la natura abbia voluto che niuna specie (molto manco l’umana) perisse per le sue medesime mani, o fosse infelicitata (e per conseguenza impeditagli la perfezione e il fine del suo essere) da’ suoi propri individui; sicchè ella medesima fosse causa di distruzione e d’infelicità, e quindi imperfezione, a se stessa, e la sua medesima esistenza cagionasse direttamente e come propria, non altrui, opera la sua non esistenza, sia col distruggersi, sia coll’infelicitarsi, che è privarsi del proprio fine e complemento, e quindi rendersi non esistenza, e peggio ancora[a]

Come il suicidio, o il tormentar se stesso p. odio proprio, quello è, questo, se potesse essere, sarebbe evidentem. contro natura, così la guerra tra gl’individui d’una specie medesima, le uccisioni scambievoli, e i mali qualunque proccurati da’ simili ai simili, sono cose evidentemente contro natura, mentre pur sono assolutam. inevitabili, e non accidentali (se non a una p. una, non generalmente e tutte insieme), ma essenziali e costanti in qualsivoglia società stretta. V. p. 3928.

[Chiudi]. Queste, essendo contraddizioni evidentissime e formalissime, sono escluse dal ragionamento assoluto; il principio stesso della nostra ragione, o si riconosce per falso, e non possiamo più discorrere, o impedisce di supporre queste contraddizioni nella natura; le quali però vi avrebbero necessariamente luogo s’ella avesse voluto in qualunque specie una società stretta, siccome sempre in una società stretta, qualunque sia stata o sia o sia per essere la sua forma, hanno avuto ed avranno luogo le cose sopraddescritte. Dal che si deduce efficacissimamente che il supporre nella natura l’intenzione di una società stretta in qualsivoglia specie, e massime nell’umana (che da una parte, essendo la prima, doveva esser la più felice e perfetta, dall’altra, in una società stretta, è necessariamente più di tutte sottoposta ai detti inconvenienti) ripugna dirittamente al principio stesso della ragione. La natura non ha posto nel vivente l’odio verso gli altri, ma esso da se medesimo è nato dall’amor proprio per natura di questo. Il quale amor proprio è un bene sommo e necessario, e in ogni modo nasce per se medesimo dall’esistenza sentita, e sarebbe contraddizione un essere che sentisse di essere e non si amasse, come altrove ho dichiarato. Ma da questo principio ch’è un bene e che la natura non poteva a meno di porre nel vivente, e che anzi, senza l’opera diretta della natura, nasce necessariamente dalla stessa vita (onde la natura medesima, per così dire, lo aveva e lo ha, verso se stessa, indipendentemente dal suo volere)[a]; ne nasce necessariamente l’odio verso altrui, ch’è un male, perchè dannoso di sua natura alla specie, come ne nascono cento altre conseguenze, che sono mali, e producono di lor natura effetti dannosissimi, non pure alla specie e agli altri individui, ma all’individuo medesimo. Or questi effetti non sono stati voluti dalla natura, nè ella n’ha colpa, (come l’avrebbe), perchè ella ha provveduto che quelle cattive conseguenze dell’amor proprio fossero inefficaci, e tali sarebbero state nell’esser naturale di quel tale individuo e specie. Così ella dunque ha provveduto che l’odio verso gli altri individui della stessa specie fosse inefficace, se non per qualche assoluto accidente, perchè privo di occasione e di stimolo e di circostanza ove potesse operare. E ciò ha fatto destinando agl’individui di una stessa specie, e fra questi agli uomini, o niuna società, o scarsa e larga.

Una società stretta pone necessariamente in contrasto gl’interessi degl’individui, rende necessario alla soddisfazione dei desiderii degli uni, il male degli altri; alla superiorità, ai vantaggi, alla felicità degli uni, l’inferiorità, gli svantaggi, l’infelicità degli altri; desta il desiderio di beni che non si possono conseguire senza il male degli altri, di beni che consistono nel male altrui, che corrispondono per lor natura ad altrettanti mali degli altri individui, ed altrettali, anzi, per lo più, maggiori che quei beni non sono. Dunque una società stretta nuoce necessariamente a grandissima parte (e la maggiore, perchè i più deboli sono sempre i più) de’ suoi individui: dunque il suo effetto è il contrario del fin proprio ed essenziale della società, ch’è il bene comune de’ suoi individui, o almeno dei più: dunque ella è il contrario di società, e ripugna per essenza non pure alla natura in genere, ma alla natura e alla nozione stessa della società.

Sì il contrasto degl’interessi, sì l’altre cose qui dietro esposte, fanno in modo che l’odio naturale d’ogn’individuo verso gli altri, in una società stretta, non pur si sviluppa tutto intero, e riceve tanta efficacia e tanto atto quanto egli ha di potenza, ma fa necessariamente, che, contro le intenzioni della natura e il ben essere della specie, quell’odio naturale che in potenza e in natura è molto minore verso i suoi simili che verso gli altri viventi, in atto sia molto maggiore verso i suoi simili, anzi quasi tutti i suoi atti e i suoi effetti sieno rivolti contro i soli suoi simili. Perocchè l’individuo di una società stretta, coi soli suoi simili ha stretto e quotidiano commercio ed affare. Or l’odio verso altrui non si può sviluppare nè porre in atto se non quando si abbia o si abbia avuto affare coll’oggetto odioso. E tanto più si sviluppa ed opera quanto questo affare è o è stato maggiore, e più frequente, più lungo, più continuo. E in conformità di questi evidenti principii, veggiamo infatti che mentre l’individuo umano da principio odiava assai più sì in potenza sì in atto gli altri viventi, massime gli a lui dannosi ec. ora in atto odia senza alcun paragone più i suoi simili che gli altri viventi qualunque, anche gli a lui più micidiali, perchè da questi è lontano, o poco affar ci può avere, e niun commercio di spirito; a quelli è sempre presente, e sempre ha affar seco loro, e commercio continuo e grandissimo, sì di corpo, sì, che è molto più, di spirito. Per le quali cose è veramente un zucchero l’odio che oggidì l’uomo porta a qualsivoglia più misantropo animale rispetto a quello ch’ei porta a’ suoi simili, e ciascun vede quanto sarebbe ridicolo il farne paragone. Sicchè l’odio verso gli altri, qualità come naturale, così distruttiva della vera società, non solo in una società stretta non si scema nulla rispetto ai suoi simili da quel ch’egli era in natura, ma anzi, se non in potenza, certo in atto s’accresce a mille doppi, anzi pure svolgendosi da tutti gli altri viventi, si raccoglie tutto, si termina e si rivolge ne’ soli suoi simili. Onde se il vivente, stante il detto odio, è antisociale per natura, in virtù della società stretta, non pur diviene più sociale, ma infinitamente più antisociale che da principio, perchè da principio egli odiava i suoi simili quasi solo in potenza, e in atto soli o molto più gli altri viventi, e nella società stretta il suo odio dimentica quasi affatto gli altri viventi, ed in atto odia, si può dir, soli i suoi simili, e gli odia più assai che da principio non fece i dissimili, co’ quali ebbe sempre molto meno affare ed intimo commercio, che non ha ora co’ simili suoi.

Dalle quali cose tutte, parlando in somma, si raccoglie che il dir società stretta, massime umana, è contraddizione, non solo rispetto alla natura ec. ma assolutamente, rispetto a se stessa, ne’ termini, e rispetto alla nozione di queste parole. Perocchè società importa quello che disopra (p. 3777.) si è definito; e società stretta importa communione d’individui sommamente nocentisi scambievolmente, e odiantisi in atto gli uni gli altri sopra ogni altra cosa, giacchè, stante la natura de’ viventi, non vi può essere società stretta i cui individui non sieno tali, come si è dimostrato.

Quindi non è maraviglia se mai non si è trovata nè mai si troverà, fra le infinite eseguite, immaginate, eseguibili e immaginabili, forma alcuna di società perfetta, da quella primitiva e naturale in fuori. Perocchè gli elementi di tali forme dovevano ben sempre esser discordi, poichè la idea medesima d’esse forme è contraddittoria per natura. E quella prima società non è stata mai potuta nè si potrà mai rimpiazzare, perchè la natura universale, nè particolare e speciale, non si rimpiazza, nè si rimpiazza la felicità e la perfezione destinata a qualsivoglia essere o specie dalla natura, nè veruna specie e veruno esser creato è capace di più che una sola e determinata felicità e perfezione, la quale non altrove si può trovare nè può consistere, che nel suo naturale stato, nè d’altronde derivare. Nè volle il destino, nè comporta la natura delle cose che niuna specie e niuno essere mortale e creato sia l’autore del sistema e dell’ordine che dee condurlo alla propria felicità e perfezione (come avverrebbe se l’uomo fosse destinato a quella società che noi pensiamo, la quale è capace e bisognevole di una forma, non che eseguita ma immaginata dagli uomini, e infinite ne può ricevere e n’ha ricevute, tutte parimente buone o cattive, tutte o quasi tutte a lei ed alla sua idea convenienti, [cioè tutte contraddittorie e discordevoli in se stesse ec.] e la natura niuna forma le prescrisse nè potè prescriverle, non avendola voluta; quando però ella ben ne prescrisse, ed intere, e costanti, a quelle società ch’ella volle, come a quella de’ castori, e delle gru ec.): ma la natura stessa e sola, o vogliamo dire il Creatore, dovette esser l’autore, come di ciascuna creatura, così del sistema, ordine e modo che la dovesse condurre alla perfezione della sua esistenza, vale a dire alla felicità, e render compiuta l’opera di Lui.

Tutto questo discorso esclude una società stretta, non solo dalla specie umana, ma da tutte le specie viventi; tanto però maggiormente, quanto elle sono in maggior grado viventi, contro quello che si presume, e quindi hanno più vivo amor proprio, e quindi più vive passioni e più vivo e maggiore odio verso altrui. Il che vuol dire che il detto discorso esclude la società stretta, dalla specie umana massimamente. Venendo ora più da presso a mostrare quanto sia vero che l’odio verso gli altri, specialmente verso i simili, è assai maggiore nell’uomo che negli altri animali, e quindi l’uomo è il più insociale di tutti gli animali, perchè una società stretta di uomini, al comune degl’individui che la compongono, nuoce assai più che non farebbe in niun’altra specie; considereremo la guerra, male affatto inevitabile in una società stretta di uomini, e niente accidentale, al che dimostrare se non bastasse l’esperienza di tutte le nazioni e di tutti i secoli, sì dee bastare il riflettere che siccome una stretta società pone necessariamente in atto l’odio naturale degl’individui verso gl’individui simili nel modo e per le cagioni mostrate di sopra, altrettanto ella fa necessariamente fra classe e classe, ceto e ceto, ordine ed ordine, compagnia e compagnia, popolo e popolo. E come la guerra nasca inevitabilmente da una società stretta qual ch’ella sia, nótisi che non v’ha popolo sì selvaggio e sì poco corrotto, il quale avendo una società, non abbia guerra, e continua e crudelissima. Videsi questo, per portare un esempio, nelle selvatiche nazioni d’America, tra le quali non v’aveva così piccola e incolta e povera borgatella di quattro capannucce, che non fosse in continua e ferocissima guerra con questa o quell’altra simile borgatella vicina, di modo che di tratto in tratto le borgate intere scomparivano, e le intere provincie erano spopolate di uomini per man dell’uomo, e immensi deserti si vedevano e veggonsi ancora da’ viaggiatori, dove pochi vestigi di coltivazione e di luogo anticamente o recentemente abitato, attestano i danni, la calamità, e la distruzione che reca alla specie umana l’odio naturale verso i suoi simili posto in atto e renduto efficace dalla società. Vedi l’op. cit. da me a p. 3795., passim, e sommariamente nel cap. 116. E certo non v’ha nè v’ebbe al mondo così piccola e remota isoletta, così scarsa d’abitatori, e così poco di costumi corrotta, dove tra quelle decine d’abitanti umani stretti in società, non sia stata e non sia divisione, discordia e guerra mortalissima, e diversità di parti e moltiplicità di nazioni. Come sia nata e dovesse necessariamente nascere la guerra tra gli uomini, l’ho detto p. 2677. segg. dove si può vedere che la colpa di questo nascimento è tutta della società stretta, posta la quale, ei non poteva mancare. E tanto è l’odio dell’uomo verso l’uomo, e tanto il danno che inevitabilmente ne nasce in una società stretta, che la divisione in popoli diversi, e la nimistà tra popolo e popolo, posta una società stretta, è piuttosto utile che dannosa al genere umano, tenendo lontana la molto più terribile e fiera guerra intestina, sia aperta, come ho detto nel citato luogo, sia la coperta guerra dell’egoismo, che infelicita tutti gl’individui d’una stessa nazione, gli uni per opera degli altri, come lungamente ho disputato parlando dell’utilità dell’amor patrio e nazionale e quindi dell’odio verso gli estrani, e del danno che nasce dalla mancanza di nazionalità e dal preteso amore universale ec. Il tutto, supposta una società stretta, e che questa non si possa più (come già non puossi) evitare.

Or che la specie umana costantemente e regolarmente perisca per le sue proprie mani, e ne perisca in questo modo così gran parte e così ordinatamente come avviene per la guerra, è cosa da un lato tanto contraria e ripugnante alla natura quanto il suicidio, conforme di sopra (p. 3784.) si è detto, dall’altro lato priva affatto di esempio e di analogia in qualsivoglia altra specie conosciuta, sia inanimata o animata, sia d’animali insocievoli o de’ più socievoli dopo l’uomo. Che una specie di cose distrugga e consumi l’altra, questo è l’ordine della natura, ma che una specie qualunque (e massime la principale, com’è l’umana) distrugga e consumi regolarmente se stessa, tanto può esser secondo natura, quanto che un individuo qualunque sia esso stesso regolarmente la causa e l’istrumento della propria distruzione. Cani, orsi e simili animali vengono molte fiate a contesa tra loro, e fannosi non di rado del male ma rado è che una bestia sia uccisa dalla sua simile, anzi pur che ne soffra più che un male passeggero e curabile. E quando pur ne rimanga uccisa, primieramente questo è un di quei disordini affatto accidentali, non voluti, ma neanche provvedibili dalla natura, e di cui ella non ha colpa, accadendo e contro le sue intenzioni e contro le sue provvisioni, che, benchè non in quel caso particolare, nel generale però riescono sufficienti ed ottengono il loro fine. Questo caso, rispetto alla natura e all’ordine sì generale delle cose, sì generale della specie, è così accidentale come se un animale ammazza un suo simile involontariamente inscientemente ec., o se ammazza nello stesso modo qualche animale d’altra specie ec., o s’è ucciso dalla caduta di un albero, o da un fulmine, o da morbo ec. ec. ec. Secondariamente che proporzione, anzi che simiglianza può aver l’uccisione di uno o di quattro o dieci animali fatta da’ loro simili qua e là sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con quella di migliaia d’individui umani fatta in mezz’ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria d’alcun di loro, ma comune (laddove niuno animale combatte mai per altro che per se solo; al più, ma di rado co’ suoi simili, per li figli, che son come cosa, anzi parte di lui), e che neppur conoscono affatto quelli che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un’ora, tornano all’uccisione della stessa gente, e seguono talvolta finchè non l’hanno tutta estirpata ec. ec.? lasciando gli altri infiniti mali e infelicità che reca la guerra ai popoli; mali e infelicità parte reali in ogni caso, e che tali sarebbero anche nello stato naturale del genere umano (come le mutilazioni ec.); parte che son tali, posta fra gli uomini una società stretta, e le abitudini, e quindi i bisogni, di questa (come la devastazione de’ campi, e ruina delle città, e le carestie, oltre le pesti ec. ec.): i quali deono essere riconosciuti per mali massimamente da quelli che sostengono esser propria dell’uomo una società com’è la presente, e com’è quella che cagiona la guerra; ma oltre di ciò eziandio da chi negandola, per così dire, in diritto, dee pur supporla nel fatto, supponendo la guerra ec. e quindi supporre tutte le abitudini e i bisogni ch’ella non può a meno di produrre negli uomini ec. Solamente fra le api, la cui società è naturale, si potrebbe voler trovare un esempio della nostra guerra, fatta in più persone da ciascuna parte ec. Ma ben guardando, anche le battaglie dell’api, oltre che son rarissime e niente regolari e inevitabili (a paragon delle nostre), sono effetto di passione momentanea, come le battaglie singolari o poco più che singolari, e inordinate e confuse de’ cani, orsi ec. onde per l’una e per l’altra cagione son da considerarsi per disordini accidentali, come di quelle dei cani ec. si è detto. Del combattere in due partiti d’una stessa specie, fuor dell’api, non si troverà credo altro esempio che negli uomini, perchè gli altri animali quando anche combattano tra loro in molti, combattono uno contro un altro confusamente senza veruno amico, o ciascuno contro tutti, perchè ciascuno combatte per se solo, mosso dalla propria passione, e a fine del proprio, non dell’altrui nè di commun bene.

Quanto sia maggiore la facoltà di odiare che ha l’uomo verso tutti, e posta la società stretta, verso i suoi simili; maggiore, dico, di quella che ha verun’altra specie di animali, basti osservare le orribili e smisuratissime crudeltà che l’uomo col fatto si è mostrato e mostrasi infinite volte capace di esercitare verso i suoi simili a se nemici, sieno d’altra nazione, e questa nemica o amica, ed in tal caso esercitate dalle nazioni intere per costume o straordinariamente, ovver dagl’individui in particolare; sieno della stessa nazione e società qualunque. Nè l’uomo primitivo verso gli altri animali a lui più nemici, nè animale alcuno (per feroce, per insociale ch’ei sia), non pure verso i suoi simili, ma verso l’altre specie a lui più nemiche, esercitò nè esercita mai (se non per bisogno, come nel cibarsene ec. ma non per odio, nè a fine di straziarlo, benchè lo strazi), neppur nel più caldo dell’ira e nello stesso combattimento crudeltà così grande che sia degna d’esser comparata a quelle che gl’individui umani di una stessa nazione verso i loro compagni, le nazioni verso le nazioni nemiche, i governi verso i lor sudditi colpevoli o supposti tali, i tiranni ec. ec. esercitarono infinite volte ed esercitano dopo la vittoria, dopo il pericolo, a sangue freddo, spesse volte senza passione veruna, neppur passata, (come nelle pene de’ rei), per uso, per regola, per legge, per tradizione de’ maggiori ec. ec. ec.

Chi non sa che cosa possa nell’uomo lo spirito di vendetta? il quale rende eterna l’ira e l’odio verso i suoi simili cagionato da una piccolissima offesa, vera o falsa, giusta o ingiusta ec. e dalle altre cagioni che adirano gli uomini verso gli uomini sia nelle nazioni, sia negl’individui, sia privato sia pubblico ec. Or questo spirito ch’è inevitabile in qualunque società umana stretta, fu ignoto all’uomo primitivo, è ignoto a qualunque altro animale, in cui l’ira non dura più che qualunque altra passione momentanea, e la ricordanza dell’ingiuria non più dell’ira; e la vendetta o è subito ottenuta e fatta (e basta ben poco a placarli e soddisfarli), o di poi non è ricercata niente più che se l’ingiuria non avesse avuto luogo.

Questo spirito di vendetta ec. le crudeltà sopraddette ec. sono così naturali all’uomo posto in società stretta, la quale sviluppi il suo odio innato verso i simili ec., che non v’è bisogno di molta corruzione a cagionarle, anzi elle si trovano immancabilmente in qualunque più primitiva e più bambina società. Non si manchi di vedere intorno a questo proposito, e intorno ad altri orribilissimi costumi, propri solo dell’uomo verso i suoi simili, e dell’uomo anche mezzo naturale e quasi primitivo, la Parte primera de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon (soldato spagnuolo che fu alla conquista e scoprimenti di quei paesi, ove visse più di diciassett’anni[a]

Terminò questa prima parte nel Perù l’anno 1550, in età d’anni 32. de’ quali n’avea passati 17. nell’Indie meridionali, come dice nell’ultime linee del tomo.

[Chiudi], e vide esso medesimo, ed ebbe parte o udì da testimonii di vista e dagl’indiani stessi, ec. le cose, i costumi, gli avvenimenti, i luoghi ec. ch’esso racconta; e protesta sì nella prefazione sì in altri molti luoghi, e dimostra col suo scrivere semplicissimo e inornato, anzi incolto e senza niuna arte, di narrare la purissima verità: mostra ancora molto buon giudizio, eccetto solamente in ordine a superstizioni, dove manifesta quella credulità che in tali materie è propria della sua nazione e fu propria del suo secolo e de’ passati) en Anvers 1554 en casa de Jinan Steelsio. Impresso por Juan Lacio. in 8.vo piccolo, cap. 12. 16. (p. 41.) 19. (car.49. p. 2.) principalmente, oltre gli altri luoghi che si trovano notati nell’indice sotto il titolo Indios amigos de comer carne humana.

Tutte queste cose dimostrano che, come si è detto di sopra, la società stretta, in luogo di scemare, accresce per sua natura in mille doppi l’odio naturale dell’uomo verso i di lui simili, il qual è incompatibile coll’idea, colla nozione, ragione, fine, natura ec. di qualsivoglia società. Dico, accresce l’odio, non l’ira, se non in quanto mette anche questa in atto assai più spesso, e le dà molto più frequenti e maggiori occasioni e cagioni ec. ec. Gli altri animali verso i lor simili non provano mai o quasi mai, e ben pochi di loro, odio, ma sola ira (ch’è cosa accidentale, e disordine accidentale ch’ella si volga sopra i simili ec.). Eccetto talvolta alcuni di quelli che noi contra la natura loro stringiamo in società e sforziamo a vivere insieme: come talora un cane odia abitualmente per invidia un altro cane suo compagno, e i tori nella mandra si odiano per gelosia ec. E questo stesso dimostra come la società stretta ponga subito in azione l’odio naturale anche negl’individui e specie ec. che fuori di essa società mai non provano odio, o mai verso i loro simili, e sono anche mansuetissimi per natura, e verso gli estrani ec. ec.

Io noto che generalmente parlando, le dette crudeltà ec. tanto sono più frequenti e maggiori, e le guerre tanto più feroci e continue e micidiali ec. quanto i popoli sono più vicini a natura. E astraendo dall’odio e dagli effetti suoi, non si troverà popolo alcuno così selvaggio, cioè così vicino a natura, nel quale se v’è società stretta, non regnino costumi, superstizioni ec. tanto più lontani e contrarii a natura quanto lo stato della lor società ne è più vicino, cioè più primitivo. Qual cosa più contraria a natura di quello che una specie di animali serva al mantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto sarebbe aver destinato un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo effettivamente quelle proprie parti di ch’ei si nutrisse. La natura ha destinato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento l’une all’altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non per eccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca, e lo preferisca agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si trova in altra specie che nell’umana. Nazioni intere, di costumi quasi primitive, se non che sono strette in una informe società, usano ordinariamente o usarono per secoli e secoli questo costume, e non pure verso i nemici, ma verso i compagni, i maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli[a]

L’antropofagia era e fu p. lunghissimi secoli propria di forse tutti i popoli barbari e selvaggi d’America, sì meridionale che settentrionale (escludo il paese comandato dagl’incas, i quali tolsero questa barbarie, e l’imperio messicano e tutti i paesi un poco colti ec.) e lo è ancora di molti, e lo fu ed è di moltissimi altri popoli selvaggi affatto separati tra loro e dagli americani. L’antropofagia fu ben conosciuta da Plinio e dagli altri antichi ec. ec. E forse forse tutti i popoli ne’ loro principii (cioè p. lunghissimo tempo) furono antropofagi. V. p. 3811.

[Chiudi]. (Veggansi i luoghi citati nella pagina antecedente). Le superstizioni, le vittime umane, anche di nazionali e compagni, immolate non per odio, ma per timore, come altrove s’è detto, e poi per usanza; i nemici ancora immolati crudelissimamente agli Dei senza passione alcuna, ma per solo costume; il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità, per superstizione, per uso; l’abbruciarsi vive le mogli spontaneamente dopo le morti de’ mariti; il seppellire uomini e donne vive insieme co’ lor signori morti, come s’usava in moltissime parti dell’America meridionale; ec. ec. son cose notissime. Non v’è uso, o azione, o proprietà o credenza ec. tanto contraria alla natura che non abbia avuto o non abbia ancor luogo negli uomini riuniti in società. E sì i viaggi sì le storie tutte delle nazioni antiche dimostrano che quanto la società fu o è più vicina a’ suoi principii, tanto la vita degl’individui e de’ popoli fu o è più lontana e più contraria alla natura. Onde con ragione si considerano tutte le società primitive e principianti, come barbare, e così generalmente si chiamano, e tanto più barbare quanto più vicine a’ principii loro. Nè mai si trovò, nè si trova, nè troverassi società, come si dice, di selvaggi, cioè primitiva, che non si chiami, e non sia veramente, o non fosse, affatto barbara e snaturata. (o vogliansi considerar quelle che mai non furon civili, o quelle che poscia il divennero, quelle che il sono al presente ec. ec.). Dalle quali osservazioni si deduce per cosa certa e incontrastabile che l’uomo non ha potuto arrivare a quello stato di società che or si considera come a lui conveniente e naturale, e come perfetto o manco imperfetto, se non passando per degli stati evidentemente contrarissimi alla natura. Sicchè se una nazione qualunque, si trova in quello stato di società che oggi si chiama buono, s’ella è o fu mai, come si dice, civile; si può con certezza affermare ch’ella fu, e per lunghissimo tempo, veramente barbara, cioè in uno stato contrario affatto alla natura, alla perfezione, alla felicità dell’uomo, ed anche all’ordine e all’analogia generale della natura. I primi passi che l’uomo fece o fa verso una società stretta lo conducono di salto in luogo così lontano dalla natura, e in uno stato così a lei contrario, che non senza il corso di lunghissimo tempo, e l’aiuto di moltissime circostanze e d’infinite casualità (e queste difficilissime ad accadere) ei si può ricondurre in uno stato, che non sia affatto contrario alla natura ec.

Or dunque, poichè tutto questo è certo e dimostrato da tutte le storie e notizie di tutte le nazioni antiche o moderne ec., poichè da un lato è da tenere per fermissimo che la società e l’uomo non ha potuto nè può divenir civile senza divenir prima e durare per lunghissimo tempo, affatto barbaro, cioè in istato affatto contro natura; e dall’altro lato si vuole che nello stato di società civile consista la perfezione e felicità dell’uomo, e la condizione sua propria e vera e destinatagli ed intesa in principio dalla natura ec.; io domando se è possibile, se è ragionevole, il credere che la natura abbia destinato ad una specie di esseri (e massime alla più perfetta) una perfezione e felicità, per ottener la quale le convenisse assolutamente passare p. uno e più stati onninamente contrari alla natura sua ed alla natura universale, e quindi per uno e più stati di somma infelicità, di somma imperfezione sì rispetto a se medesima e sì a tutto il resto della natura. Una perfezione e felicità della quale essa specie per lunghissimi secoli, e infiniti individui suoi per tutta la vita loro, non solo non dovessero esser partecipi, ma averne anzi necessariamente tutto il contrario. Una perfezione e felicità le quali esigessero assolutamente gli estremi delle cose a loro contrarie, cioè gli estremi dell’imperfezione e dell’infelicità, senza i quali estremi essa perfezione e felicità della specie non avrebbero mai potuto aver luogo. Una perfezione e felicità di cui fosse proprio ed essenziale il dover nascere dall’estrema imperfezione e infelicità della specie, e il non poter nascere d’altronde nè senza queste. Una perfezione e felicità ch’essenzialmente supponesse la somma corruzione e infelicitazione della specie per moltissimi secoli, e d’infiniti suoi individui per sempre. Conseguentemente domando se l’estrema barbarie e corruttela ch’ebbe luogo anticamente nelle nazioni antiche o moderne, spente o superstiti, passate o presenti, che divennero poi civili; e quella che ancora ha luogo in tanto innumerabile quantità di popoli ancor selvaggi ec. ec. e che durerà per tempo indeterminabile e forse per sempre ec. domando, dico, se questa barbarie e corruzione, senza cui la civiltà non può nè potè nascere, fu voluta e ordinata dalla natura, la quale, secondo costoro, volle e ordinò la civiltà dell’uomo. Domando pertanto se tutto ciò che di contrario alla natura ebbe ed ha luogo nelle società selvagge, primitive ec., fu ed è secondo natura. Domando se la natura rispetto all’uomo ha bisogno del suo contrario, lo esige, lo suppone. Se fu intenzione della natura, se è cosa naturale che l’uomo divenisse e divenga naturale (cioè perfetto) mediante l’essere stato sommamente contrario e diverso dalla natura sua e generale. Se è proprietà dell’uomo l’acquistare la sua vera proprietà, mediante l’averla affatto deposta e contrariata ec. ec. Se l’antropofagia, se i sacrifizi umani, se le superstizioni, le infinite opinioni ed usi barbari ec. ec. le guerre mortalissime che nell’America, unite all’antropofagia ec., sino agli ultimi secoli, distrussero innumerabili popolazioni e spopolarono d’uomini molti e vasti paesi, e che una volta essendo state comuni a tutti i popoli, e ciò quando il genere umano era ancora scarso, misero necessariamente l’intera specie in pericolo di scomparire affatto dal mondo per sua propria opera; sono cose secondo natura, intese dalla natura, supposte, volute, ordinate dalla natura; non accidenti, non disordini, ma secondo l’ordine, e derivanti dal sistema naturale e da’ naturali principii; necessarie al conseguimento ed effettuamento della perfezione e felicità della specie. V. p. 3882. e vedi la pag. 3920. 3660-1.

I Californi, popoli di vita forse unico, non avendo tra loro società quasi alcuna, se non quella che hanno gli altri animali, e non i più socievoli (come le api ec.), quella ch’è necessaria alla propagazione della specie ec. e credo, nessuna o imperfettissima lingua, anzi linguaggio, sono selvaggi e non sono barbari, cioè non fanno nulla contro natura (almeno per costume), nè verso se stessi, nè verso i lor simili, nè verso checchessia. Non è dunque la natura, ma la società stretta la qual fa che tutti gli altri selvaggi sieno o sieno stati di vita e d’indole così contrari alla natura. La scambievole communione, voglio dire una società stretta, non può menomamente incominciare in un pugno d’uomini, che ciascheduno di questi non ne divenga subito, non che lontano e diverso, come siam noi, ma contrario dirittamente alla natura. Tanto la società stretta fra gli uomini è secondo natura.

Non è dubbio che l’uomo civile è più vicino alla natura che l’uomo selvaggio e sociale. Che vuol dir questo? La società è corruzione. In processo di tempo e di circostanze e di lumi l’uomo cerca di ravvicinarsi a quella natura onde s’è allontanato, e certo non per altra forza e via che della società. Quindi la civiltà è un ravvicinamento alla natura. Or questo non prova che lo stato assolutamente primitivo, ed anteriore alla società ch’è l’unica causa di quella corruzione dell’uomo, a cui la civiltà proccura per natura sua di rimediare, è il solo naturale e quindi vero, perfetto, felice e proprio dell’uomo? Come mai quello stato ch’è prodotto dal rimedio si dee, non solo comparare, ma preferire a quello ch’è anteriore alla malattia? Il quale già nel nostro caso, voglio dir lo stato veramente primitivo e naturale, non è mai più ricuperabile all’uomo una volta corrotto (non da altro che dalla società), e lo stato civile (socialissimo anch’esso, anzi sommamente sociale) n’è ben diverso. Bensì egli è preferibile al corrotto stato selvaggio: questa preferenza è ben ragionevole, e segue ed è secondo il nostro e il sano discorso: ma non al vero primitivo ec. ec. V. p. 3932.

Dai superiori ragionamenti appoggiati e accompagnati ai fatti e alle storie degli uomini, e queste paragonate con quello che avviene negli altri animali ec. si dee dedurre che dalla società che passa p. e. tra le api e i castori, e gli altri animali che per natura hanno tra loro più stretta comunione di vita, e dagli esempi naturali siffatti, ben si può argomentare che agli uomini non si convenga una società più stretta di quella; ma non già perch’ella si trovi in parecchie specie naturalmente, si può argomentare che agli uomini convenga neppure una società altrettanto stretta, giacchè gli uomini, contro quello che si stima, cioè che sieno per natura i più socievoli animali, sono anzi i meno socievoli, o certo manco socievoli di quello che sieno parecchi altri, cioè gli animali che veramente sono i più socievoli per natura. Onde, non che all’uomo convenga una società più stretta che all’api ec., come lo è di gran lunga quella ch’egli ha presentemente, ed ebbe da tempo immemorabile, si dee concludere che non gliene conviene se non una molto più larga ec. come ho accennato p. 3773. fine, e come risulta dagli estremi danni dell’umana società stretta (danni verso se stessa e la specie umana, e verso l’altre specie ancora e l’ordine della natura terrestre, in quanto egli può essere ed è influito dall’uomo, massime dall’uomo in società) considerati di sopra, e dall’estrema insociabilità dell’uomo, dimostrata in tutto il passato discorso.

— Moltissimi, anzi la più parte degli argomenti che si adducono a provare la sociabilità naturale dell’uomo, non hanno valore alcuno, benchè sieno molto persuasivi; perciocch’essi veramente non sono tirati dalla considerazione dell’uomo in natura, che noi pochissimo conosciamo, ma dell’uomo quale noi lo conosciamo e siamo soliti di osservarlo, cioè dell’uomo in società ed infinitamente alterato dalle assuefazioni. Le quali essendo una seconda natura, fanno che tuttodì si pigli per naturale, quello che non è se non loro effetto, e bene spesso contrario onninamente a natura, o da lei diversissimo. Onde gli effetti della società, quello che sola la società ha reso necessario, quello che non è vero se non posta la società, che senza questa non avrebbe avuto luogo ec., si fanno tuttogiorno servire nelle argomentazioni de’ filosofi a dimostrare la naturale sociabilità dell’uomo, la necessità della società assolutamente e secondo la nostra natura ec. Di questo genere è quella inclinazione che tutti abbiamo a far parte ad altrui delle nostre sensazioni vive e non ordinarie, piacevoli o dispiacevoli ec., inclinazione della quale ho parlato altrove più volte, ed osservato, che bench’ella sembri affatto spontanea ed innata, non è che l’effetto dell’assuefazione e del nostro vivere in società, e nell’uomo posto fuori di essa per qualunque circostanza, e massime nell’uomo primitivo e veramente incorrotto, non ha luogo e gli è ignota. Ed infiniti altri sono gli effetti di questo genere che paiono naturalissimi, e dimostrativi della naturale sociabilità dell’uomo, e che per tali si recano tuttogiorno, ma che per vero non sono naturali, se non in quanto naturalmente hanno luogo, posta la società, e le rispettive circostanze ed assuefazioni non naturali; e naturalmente nascono da tali cagioni; nè possono non nascere, supposte queste. È cosa onninamente e naturalmente difficilissima il discernere tra l’assoluto naturale, e gli effetti dell’assuefazione, massime dell’assuefazione universale, e contratta o cominciata a contrarre fin dalla nascita o da’ primi momenti del vivere, com’è l’assuefazione della società, e infinite assuefazioni subalterne da questa dipendenti e cagionate ec. o parti di lei, o da lei supposte ec.; e massime ancora nell’uomo, ch’essendo di gran lunga più conformabile e modificabile d’ogni altro animale, facilissimamente e presto si adatta alle assuefazioni, per innaturali ch’elle sieno, e se le converte in natura, e le abbraccia ed arripit, e seco loro s’immedesima in modo che appena l’occhio del più acuto filosofo è bastante a distinguerle dalle disposizioni naturali, e gli effetti loro dalle naturali qualità ed operazioni ec. Quindi non è maraviglia se tanti argomenti ci paiono dimostrativi della naturale sociabilità dell’uomo, e se di questa quasi tutti sono persuasi intimamente, e credono assurdo e impossibile il contrario, e stimano questa persuasione naturalissima, e fondata sopra il più certo ed intimo e spontaneo senso, ed autenticata dalla più chiara e sincera e manifesta voce della natura; e mai non deporranno questa credenza. Perocchè tutti gli uomini che di queste cose possono discorrere o pensare in qualsivoglia modo, filosofi o non filosofi o plebei, sono nati, allevati, formati e vissuti sempre nella società e nelle assuefazioni ad essa appartenenti. Onde, non veramente per prima natura, ma per seconda natura, essi sono tutti in verità esseri sociali, ed a cui la società è propria e necessaria. E s’alcuno è nato e cresciuto fuori della società esso non discorre nè pensa di queste cose, o non prima che la società e le sue assuefazioni, coll’abitudine, gli si sieno convertite in natura. Sicchè nel creder l’uomo naturalmente sociale, e fatto per la società, e di lei bisognoso assolutamente, e la società natural cosa e indispensabile all’uomo, i saggi e gl’idioti, i civili e i barbari, gli antichi e i moderni, e tutte le diversissime nazioni e tutte le classi dissimilissime di persone, consentono insieme e consentirono e consentiranno forse più interamente, fortemente, costantemente e per più lungo tempo, che non fecero non fanno e non sono per fare intorno ad alcun’altra quistione speculativa. Ma questo consenso quanto vaglia a dimostrar la proposizione da lui favorita, le cose sopraddette il deggiono fare giustamente e adeguatamente estimare.

Amongst unequals no society , dice Milton, cioè fra disuguali non è società ec. ec. Or quello che si suol dire dell’amicizia e delle secondarie società fra gli uomini, io lo trasporto, e dee parimente valere circa la società del genere umano generalmente considerata[a]

Puoi vedere la pag. 3891.

[Chiudi]. Di tutte le specie d’animali (così degli altri esseri) l’umana è quella i cui individui sono, non solo accidentalmente, ma naturalmente, costante e inevitabilmente, più vari tra loro. Come l’uomo è di gran lunga più conformabile d’ogni altro animale, e quindi più modificabile, ogni menoma circostanza, ogni menomo accidente (sia individuale, sia nazionale ec. sia fisico sia morale ec.) basta a produrre tra l’uno uomo e l’altro (e così fra l’una nazione e l’altra) notabilissime diversità. E come è assolutamente inevitabile la menoma varietà delle menome circostanze e accidenti, così è inevitabile la diversità degli umani individui ec. che ne deriva. Inevitabile si è l’una e l’altra in tutte le specie di animali, ma la seconda è molto maggiore nell’uomo perchè dal poco diverso nasce in lui il diversissimo, stante la sua somma modificabilità estremamente moltiplice, e la somma delicatezza e quindi suscettibilità della sua natura rispetto agli altri animali, come si è detto. Nel modo che la specie umana è divenuta, per la sua conformabilità, più diversa da tutte l’altre specie animali e da ciascuna di loro, che non è veruna di queste rispetto ad altra veruna di esse; e nel modo che l’uomo nelle sue diverse età, e in diversi tempi, anche naturalmente, è più diverso da se medesimo che niuno altro animale; più diverso l’uomo giovane da se stesso fanciullo, che non è niuno animale decrepito da se stesso appena nato; tanto che un uomo in diverse età o in diverse circostanze naturali o accidentali, locali, fisiche, morali, ec. di clima ec. native, cioè di nascita ec. o avventizie ec. volontarie o no ec. appena si può dire esser lo stesso uomo, ed il genere umano universalmente in diverse età, o in diverse circostanze naturali o accidentali, locali ec. appena si può dire esser lo stesso genere; nel modo stesso gl’individui di nostra specie sono per natura di essa specie molto più vari tra loro che non son quelli di verun’altra. Ciò accade ancora, ed inevitabilmente, e naturalmente, nell’uomo naturale, nel selvaggio ec. Onde anche considerando l’uomo in natura, si può, eziandio per questa parte, conchiudere che la sua specie è meno di verun’altra, disposta a società, perchè composta d’individui naturalmente più diversi tra loro, che non son quelli d’altra specie veruna. Ma come la società introduce e porta al colmo tra gli uomini quella disuguaglianza che si considera negli stati, nelle fortune, nelle professioni ec. così ella accresce a mille doppi, promuove inevitabilmente e porta per sua natura al colmo la diversità sì fisica sì morale, di facoltà, d’inclinazioni, di carattere, di forze, corpo ec. ec. degl’individui, delle nazioni, de’ tempi, delle varie età di un individuo ec. ec. Ella accresce le diversità naturali ed ingenite di uomo ad uomo, ed altre infinite e grandissime che nello stato naturale dell’uomo non avrebbero avuto luogo, necessariamente e per sua natura ne introduce e cagiona. Ella distrugge mille conformità e somiglianze naturali di uomo ad uomo. La natura è un canone generale e costante, indipendente dall’arbitrio, poco soggetta agli accidenti (rispetto alla dipendenza che hanno dagli accidenti e circostanze le opere ec. dell’uomo), una da per tutto, una sempre rispetto a ciascuna specie, consistente in leggi certe ed eterne, ec. La società, opera dell’uomo, dipendente dalla volontà che non ha niuna legge certa, altrimenti non sarebbe volontà, arbitraria, incostante, varia secondo gli accidenti e le circostanze de’ tempi, de’ luoghi, de’ voleri, delle mille cose che la cagionano e che determinano la sua forma e il modo del suo essere, non è una in se stessa, perchè ha avuto ed ha necessariamente infinite forme, e queste sempre variabili e variate; non è una in nessuna delle sue forme, perchè in ciascuna di queste v’ha mille varietà che diversificano l’una dall’altra necessariamente le parti che la compongono, chi comanda da chi ubbidisce, chi consiglia da chi è consigliato, ec. ec. Nella società l’uomo perde quanto è possibile l’impronta della natura. Perduta questa, ch’è la sola cosa stabile nel mondo, la sola universale, o comune al genere o specie, non v’ha altra regola, filo, canone, tipo, forma, che possa essere stabile e comune, alla quale tutti gl’individui agguagliandosi, sieno conformi tra loro ec. ec. La società rende gli uomini, non pur diversi e disuguali tra loro, quali essi sono in natura, ma dissimili. Onde anche per questo argomento si conchiude che l’essenza e natura della società, massime umana, contiene contraddizione in se stessa; perocchè la società umana naturalmente distrugge il più necessario elemento, mezzo, nodo, vincolo della società, ch’è l’uguaglianza e parità scambievole degl’individui che l’hanno a comporre; o vogliamo dire accresce per proprietà sua la naturale disparità de’ suoi subbietti, e l’accresce tanto che li rende affatto incapaci di società scambievole, di quella medesima società che gli ha così diversificati, anzi d’ogni società, anche di quella che per natura sarebbe stata loro e possibile e destinata e propria; insomma, per tornare al principio di questo discorso, rende i suoi soggetti quali son quelli tra’ quali naturalmente no society , anzi fa più, perchè se la società, secondo Milton, è impossibile tra disuguali, essa li rende dissimili. E in verità niuno animale meno che l’uomo ha ragion di chiamare suoi simili gl’individui della sua specie, nè ha più ragione di trattarli come dissimili, e come individui di specie diversa. Il che egli non manca di fare. E il farlo, com’ei lo fa ordinariamente, massime nella società, è ben prova effettiva del sopraddetto ec. ec. (25-30. Ottobre. 1823.).

Vomito as da vomo is itum. Arguto as e argutor aris da arguo is utum, o dall’aggett. argutus, che di là viene ec. V. Forcell. e i due pensieri seguenti. (31. Ott. 1823.).

Participii in us di verbi attivi ec. in senso attivo, transitivo o no ec. V. Forcellini in Odi isti osus, Exosus, Perosus ec. e in Argutus. (31. Ott. 1823.).

Veri participii passati poi in aggettivi ec. Argutus. (31. Ott. 1823.). V. il pensiero precedente.

[3811 – 4000]

Nomi in uosus ualis ec. V. Forcell. in Cornuatus, cornuarius. (31. Ott. 1823.).

Diminutivi positivati. Cornacchia (poet. cornice), corneja, corneille, per lo positivo cornix. Cornicula è di Orazio. V. Forcell. in Corniculans e corniculatus da corniculum diminutivo di cornu , e la Crusca in cornicolare, cornicolato, corniculato ec. A quel che si è detto altrove di flagellum aggiungi il verbo da lui fatto, cioè flagello as, mentre da flagrum non si disse flagrare. Vero è che flagrum si crede anzi derivato da flagrare ardere ec. Da flabellum flabellare, ma non da flabrum flabrare, il qual verbo, seppur esiste, è in altro senso ec.[a]

Fuseau. Figliuolo (filiolus), figliuolanza ec. Al detto altrove di scabellum, sgabello ec. aggiungi il franc. escabeau ed escabelle.

[Chiudi] (31. Ott. 1823.).

Alla p. 3797. marg. Cioè mentre la pigrizia e l’ignoranza dell’agricoltura ec. impediva loro o rendeva difficile il sostentarsi sufficientemente de’ frutti della terra; la pigrizia e la codardia e la mancanza d’armi sufficienti l’affrontare o l’inseguire, il domare o il raggiungere gli animali più veloci o più forti dell’uomo, o più veloci e forti insieme, o anche altrettanto veloci e forti ec. ec.

Alla p. 3666. Provano l’unicità di origine nel genere umano le conformità di tradizioni, di religioni, di opinioni non naturali, di mitologie, dì certe usanze, di certi dogmi, riti ec. conformità e corrispondenze che si trovano fra popoli del cui scambievole commercio non si ha memoria alcuna (fino agli ultimi momenti) nè se ne vede il come, in popoli affatto disgiunti dagli altri, come in isole remotissime ec. recentemente scoperte, e non mai, a memoria alcuna d’uomini, per l’avanti calcate da forestieri, e in cui tutto dà a vedere che non mai furono calcate da forestieri; conformità, corrispondenze, e unicità o medesimezze di origine ora più ora meno patenti, ora più ora meno svisate, lontane, leggere e difficili a riconoscersi, com’è naturale in tanti secoli e tanta diversificazione accaduta ne’ vari popoli, ma non però men vere, nè meno atte a dimostrare il nostro proposito, (poichè basta una menoma conformità, la quale non possa essere o non si possa credere accidentale, a provare l’unicità e medesimezza dell’origine ec.) e molte volte incontrastabili ec. Come son quelle che i critici hanno riconosciuto, e vengono sempre più riconoscendo tra la mitologia ec. indiana e la greca ec. tra l’egiziana e la greca ec. e quelle di moltissime altre nazioni antiche ec. V. Annali di Scienze e lettere di Milano. Gennaio 1811 num.13. vol. 5. p. 37. ec. Dove troverai osservazioni concorrenti a dimostrare l’unicità dell’origine di molti popoli la cui unica radice è generalmente sconosciutissima. Or da questa unicità, e da quella di altri ivi mentovati, che si dicono di altra origine dai primi ma comune tra loro (benchè parimente sogliano essere reputati diversissimi di radice), si può, se non istoricamente e per certe dimostrazioni o congetture critiche, ben però filosoficamente argomentare la più remota unicità dell’origine sì de’ secondi popoli rispetto ai primi, sì di tutti i popoli insieme. Alcuni popoli si diramarono e divisero in tempi a noi più prossimi o di cui ci restano più monumenti e più noti. Questi popoli son tenuti generalmente per conformi di origine. Altri in tempi più remoti e di cui ci restano meno o men noti monumenti, furon tutt’uno. Questi non son tenuti per conformi di origine se non da’ più dotti. Così salendo, si argomenta che anche dove l’unicità dell’origine non può (almen finora) per niun modo apparire, ella non è per tanto men vera, benchè non apparisca o per maggior lontananza de’ tempi, o per mancanza o scarsezza o oscurità o poca cognitezza di monumenti ec. Il filosofo da’ particolari inferisce i generali, da’ simili i simili, dal noto l’ignoto, e se neppure il critico, molto meno il filosofo ha bisogno di mostrar co’ fatti ogni particolare, ovvero ogni generale con fatti generali o con tutti i particolari che cadono sotto quel tal generale ec. ma spesso e bene dimostra co’ particolari il generale, e non con tutti i particolari, ma con alcuno, e i particolari con altri particolari o col generale ec. (31. Ott. 1823.).

L’amor della vita, il piacere delle sensazioni vive, dell’aspetto della vita ec. delle quali cose altrove è ben consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch’ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, son termini contraddittorii. S’ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e proccurerebbe contro se stessa. S’ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s’ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa (vedi la pagina 3785. principio), non proccurerebbe se stessa o il proprio bene, o non si amerebbe quanto più può (cosa impossibile), nè amerebbe il suo maggior possibile bene, e non proccurerebbe il suo maggior bene possibile (cose che parimente, come negl’individui e nelle specie ec., così sono impossibili nella natura). Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l’esistenza, l’essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi può esser cosa nè fine più naturale, nè più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l’esistenza e la vita, la quale è quasi tutt’uno colla stessa natura, nè amore più naturale, nè naturalmente maggiore che quel della vita. (La felicità non è che la perfezione il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne’ diversi generi di cose esistenti. Quindi ell’è in certo modo la vita o l’esistenza stessa, siccome l’infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perchè vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura, ch’è vita, è anche felicità.). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva. La vita generalmente è tutt’uno colla natura, la vita divisa ne’ particolari è tutt’uno co’ rispettivi subbietti esistenti. Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L’essere esistente non può amar la morte, (in quanto la morte abbia rispetto a lui) veramente parlando, non può tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch’ei possa, in veruno istante dell’esser suo; per la stessa ragione per cui egli non può odiar se stesso, proccurare, amare il suo male, tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch’ei possa, non amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il più ch’egli possa onninamente amare. Sicchè l’uomo, l’animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch’egli ama se stesso. (31. Ott. 1823.).

Al mio discorso sopra avvisare, divisare ec. aggiungi il franc. deviser (31. Ott. 1823.).

Alla p. 2928. fine. Noi abbiamo ancora, bensì in diversi significati, intenso ed intento. (intensità ec.). V. i francesi e gli spagnuoli. Nel lat. intensus è ben raro. V. Forcell. Tensus è de’ più moderni. Extensus ec. e gli altri composti, veggasene il Forcellini. (1. Nov. 1823.).

Come altrove ho congetturato dalla voce σῦκον, anche nel greco, come sì sovente in latino, lo spirito denso si cangia talora in s. P. e. da ἃλς, σαλεύω ec. V. i Lessici . Così in lat. sal, salum ec. dalla stessa voce. (1. Nov. 1823.).

A quello che nella teoria de’ continuativi ho detto per mostrare che sector aris è contrazione di secutor, aggiungi persector aris, che i francesi dicono infatti persécuter, noi perseguitare, e gli spagnuoli se non fallo, persecutar. (1. Nov. 1823.).

Alla p. 3036. marg. Periurus, cioè qui peieravit, o periuravit, non sembra essere altro che contrazione di periuratus (che pur si trova, come anche peieratus, in senso passivo), siccome coniuratus, qui coniuravit; iuratus, qui iuravit ec. (iuratus ha pure il senso passivo: non così periurus). (1. Nov. 1823.).

Participii in us in senso attivo o neutro ec. Periurus. V. il pensiero precedente (1. Nov. 1823.). Giurato, juré ec.

Alla p. 2779. Al contrario da φὼρ fur ec. (1. Nov. 1823.).

Diminutivi positivati. Libella (it. livella, livello, franc. niveau, spagn. se non erro, nivel; livellare ec., niveler ec., ec.) per libra che pur si dice nello stesso significato. V. Forcellini . Circulus (circulo as, circularis ec. ec.) per circus, voce antiquata ec. (benchè pur si trova) se non nel senso dell’anfiteatro romano ec. ec. V. Forc. (2 Nov. 1823.).

Mestare, rimestare ec. da misceo-mixtus o mistus, quasi mistare o mixtare. V. il Gloss. i Diz. franc. e spagn. ec. (2. Nov. dì de’ morti. 1823.). Expulser franc. da expellere-expulsus, come da pello-pulsus, pulso as ec. V. Forcell. in expulso ed expulsatus. (2. Nov. dì de’ morti. 1823.).

Alla p. 3067. Non altrimenti, al tempo di Voltaire e in quei contorni (quando l’unica letteratura d’Europa era, si può dir, la francese, benchè già ben decaduta; essendo spenta l’italiana e la spagnuola; la tedesca non ancor nata, o bambina, o tutta francese; l’inglese quasi interrotta, o francese anch’essa, ma già priva de’ capi di quella scuola anglo-gallica, cioè Pope, Addison, ec.: e parlo qui della letteratura non delle scienze e filosofia, dove gl’inglesi anche allora fiorivano), le epistole e poesie indirizzate o da Voltaire medesimo o dagli altri poeti francesi ai principi di Svezia, di Russia, d’Alemagna ec. o composte in loro lode, o su di loro, o sui loro affari, o sugli avvenimenti ec. si leggevano, si applaudivano, si ricercavano, si diffondevano, davano materia di discorso nelle rispettive corti e capitali, e nell’altre corti d’Europa ec. e da’ rispettivi principi ec. (lasciando anche da parte il re e la corte e capitale, e quasi tutto il regno, di Prussia, ch’era tutta francese ec.). Così anche l’altre opere in versi o in prosa, di francesi o scritte in francese, di letteratura e di poesia, non che di filosofia ec. Sicchè la lingua italiana occupava nel sopraddetto tempo il grado che la francese non solo occupa presentemente, ma quello ancora che occupò quando essa letteratura francese era unica; sì per universalità e diffusione, sì per riputazione, dignità, gusto e cura diffusane generalmente ec. come si vede anche per questa somiglianza d’esser ella in quei tempi così e sopra tutte gradita nelle corti, come lo fu nel 700, oltre la lingua, che ancor lo è sopra tutte, anche la letteratura francese, che or non lo è più se non di pari coll’altre moderne (dal qual numero l’italiana d’oggidì è fuori niente meno che la spagnuola). (2. Nov. dì de’ morti. 1823.).

Alla p. 2685. marg. Δέω, δέον ec. significa anche mancare mancante ec., e tale si è appresso appoco il suo significato nelle dette frasi, onde elle sono le stesse che le addotte italiane. Similmente il francese falloir vale propriamente mancare (dal lat. fallere, spagn. faltar, it. fallire, fallare ec. ed anche in franc. faillir), e riunisce i significati di mancare e bisognare appunto come il greco δέω, o l’impersonale δεῖ [a]

Poco manca che Senofonte non ci ritragga ec. Speroni Diall. Ven. 1596. p. 224. fine. Il s’en faut tant ou tant, il s’en faut plus de la moitié, il s’en faut peu, il s’en faut la moitié ec., il s’en faut bien, il s’en faut de beaucoup, il s’en faut beaucoup ec. il s’en faudrait beaucoup ec.

[Chiudi]. Simiglianza che non è da trascurare nè dev’esser casuale ec. Nelle addotte frasi il suo significato è parimente di mancare. In greco si dice anche semplicemente ὀλίγου, ὀλίγον, μικροῦ, senza il verbo δεῖν per fere, quasi ec. come noi per poco e di poco senz’altro verbo. V. la Crusca in di poco e in per par. 98. e i Lessici greci. Si dice ancora in greco assolutamente ὀλίγου δέον, μικροῦ, πολλοῦ δέον Ovvero concordato col subbietto ὀλίγου δέοντα, δέοντες ec. Ovvero p. e. δυοῖν δέοντα εἴκοσι cioè diciotto ec., ὀλίγου δέον ἶσος cioè quasi uguale ec. Anche si dice παρὰ μικρὸν ἐδέησα τοῦτο ποιεῖν che risponde precisamente al nostro per poco mancai di far questo: ovvero di poco ec. V. i Lessici in δέω. Qua si dee riferire il nostro di gran lunga e d’assai (à beaucoup près) in quelle frasi: egli non è di gran lunga, o d’assai, così grande (beaucoup s’en faut). Ovvero ei non fu ec. (beaucoup s’en fallut ec.). Dove il verbo mancare o simile, è soppresso, come nelle frasi greche ὀλίγου ovvero ὀλίγον ἀπέθανεν, μικροὺ ἀπόλωλα e simili, dove è taciuto il verbo δεῖν. Πολλοῦ così assoluto non mi par che si dica[a]. (3. Nov. 1823.).

Alla p. 3573. Questa proposizione è molto azzardata. Bisogna intenderla lassamente. Per rispetto alla lingua francese è vera, parlando generalmente. Ma per rispetto all’italiana, dubito che sia vero neppur generalmente, ben compensate che sieno insieme le conformità estrinseche che hanno le lingue italiana e spagnuola colla latina. Il suono della lingua spagnuola ha più del latino, ma questa è quasi un’illusione de’ sensi. Perchè quei tali suoni latini non sono nello spagnuolo a quei luoghi in cui erano nel latino. Per esempio la moltitudine degli s contribuisce, e forse principalmente, a rassomigliare il suon dell’una lingua a quello dell’altra. Ma lo spagnuolo abbonda di s, principalmente perchè in essa lingua tutti i plurali terminano in quella lettera. Non così in latino. (Vero è però che in latino la terminazione in s è propria di tutti gli accusativi plurali non neutri. Ora, secondo Perticari, i nomi latini trasportati nelle lingue figlie, son tutti fatti dagli accusativi delle declinazioni rispettive latine. Quindi che nello spagnuolo la terminazione in s sia caratteristica de’ plurali, potrebb’esser preso dal latino, e cosa anch’essa latina. E quest’osservazione può essere di non poco peso a confermare l’opinione di Perticari; (sebben ei parla solamente de’ singolari, i quali fatti dall’accusativo latino generano poi i plurali al modo nostro) mentre altri con più apparenza di ragione, ma forse men verità, vogliono che i nostri nomi sieno gli ablativi latini. P. e. amore ec. Ma veramente non si vede perchè, dovendosi perder l’uso degli altri casi, e restare un solo per tutti, com’è avvenuto nelle lingue moderne, e come, certo in gran parte, dovette avvenire anche nell’antico latino volgare e parlato, avesse a prevaler l’uso dell’ablativo. Ben è consentaneo che l’accusativo si usasse in vece degli altri casi ec. v. p. 3907. L’aggiunger sempre la es ai singolari terminati in consonante non è uso latino, se non in certi casi, e nella terza declinazione. (Noi per la terminazione de’ plurali imitiamo i nominativi latini della seconda e della prima. Sicchè quanto alla terminazione de’ plurali, la conformità dello spagnuolo col latino, supposta eziandio e conceduta, come sopra, non si può dire che superi punto quella dell’italiano. Del resto quel continuo s che si sente nello spagnuolo fa un suono che tutto insieme considerato è così poco, o tanto, latino, quanto le continue terminazioni vocali dell’italiano. Il latino è temperato di queste e di quelle, ed eziandio insieme d’altre molte terminazioni; sicchè veramente il suo suono, parlando pure in generale e astrattamente non è nè quello dell’italiano nè anche quello dello spagnuolo. Ben è vero che nello spagnuolo le terminazioni consonanti sono miste come in latino, alle vocali, laddove in italiano non v’ha quasi che le vocali; e nello spagnuolo, benchè la terminazione in s sia, almeno tra le consonanti, la più frequente, pur v’ha diverse terminazioni consonanti, come in latino; e niuna terminazione in consonante, che non sia propria, credo, anche del latino (al contrario che in francese in tedesco ec.), benchè non sempre, anzi non il più delle volte, ne’ casi stessi; e le terminazioni vocali son piane come in latino e non acute ossia tronche come in francese. Sotto questi aspetti il suono dello spagnuolo è veramente più conforme al latino che non è non solo il francese ma neppur l’italiano. E da queste ragioni nasce che udendo lo spagnuolo si possa più facilmente confonderlo col latino che non fa il francese nè anche l’italiano. E questo effetto, sotto questi aspetti, non è un’illusione, nè una cosa che non meriti esser considerata, e che non abbia un principio e una ragione di conformità o simiglianza reale. La terminazione consonante in d frequente nello spagnuolo è rara in latino ma pur v’è, come in ad, illud, id, istud, sed ec.). Del resto anche in francese (bensì nel solo francese scritto) la terminazione in s (e a’ singolari terminati in consonante, si aggiunge talvolta la es, se non m’inganno) è caratteristica del plurale (quella in x vien pure a essere in s); sicchè lo spagnuolo in questa parte non prevarrebbe al francese se non in quanto ei pronunzia sempre la s, e il francese solo talvolta, e piuttosto per accidente che per altro. Quanto all’italiano, anche nelle forme regolari delle coniugazioni, esso in molte cose [è] assai più conforme al latino che non è lo spagnuolo. V. p. e. le pag. 3699-701. e la mia teoria de’ continuativi dove si parla del digamma eolico in ama f i ec. E basti osservare che lo spagnuolo non ha che tre coniugazioni; l’italiano le ha tutte quattro, e tutte, in molti caratteri, corrispondenti alle rispettive latine, come negl’infiniti are, ere, ere, ire (lo spagnuolo manca del 3.o e gli altri non gli ha che tronchi), e in altre cose. Anche il francese ha 4. coniugazioni, ma non corrispondono alle latine (eccetto quella in ir quanto all’infinito ec.), e la conformità del numero (cioè l’esser 4. come in latino) sembra, ed è forse, un puro caso; il che non si può certo dire dell’italiano. E quanto alla conservazione della latinità in mille e mille altre sì regole, sì voci particolari materialmente considerate, sì frasi considerate pure materialmente (chè ora parliamo dell’estrinseco), significati ed usi delle parole e frasi, anche propri originalmente o sempre del popolo e del parlato, non del solo illustre ec. dubito assai che lo spagnuolo possa esser preposto, anzi pure agguagliato all’italiano. Questa e quell’altra voce ec. sarà più latina in ispagnuolo che in italiano (così avverrà alcune volte che nello stesso francese una voce ec. sia più latina che nelle due sorelle, o in una di loro, o che queste o l’una di esse, non abbiano una voce ec. nel francese conservata, nè pertanto sarà chi dica la latinità conservarsi più nel francese che nelle sorelle, o che nell’una di esse); questa e quella voce latina resterà nello spagnuolo, e all’italiano mancherà; ma, raccolti i conti e computati i casi contrarii, e posto tutto insieme, io credo che in tutte queste cose l’italiano soverchi lo spagnuolo di grandissima lunga. (3. Novembre 1823.).

Diminutivi positivati. Orbiculatus, orbiculatim, reticulatus, venniculatus ec. (3. Nov. 1823.) se già non sono frequentativi di significato come altrove generalmente ho avvertito.

Alla p. 3156. — quando eziandio il sentimentale di Lord Byron, quello che spetta al giuoco delle passioni, al cuore, all’espressione alla pittura all’imitazione de’ caratteri e de’ sentimenti degli uomini, alla scienza e considerazione dello spirito dell’uomo, dell’uomo interno ec. (del che le poesie di Lord Byron sommamente abbondano, anzi sono composte) pochissimo si communica a’ lettori, e veramente è poco fatto per comunicarsi agli animi altrui. E ciò appunto perchè esso pare, e forse è, piuttosto dettato dall’immaginazione che dal sentimento e dal cuore, piuttosto immaginato che sentito, immaginato che vero, inventato che imitato o congetturato, creato che ritratto ed espresso, e insomma ha certamente più dell’immaginoso che del passionato e sentimentale, ed è per sua natura più atto e disposto ad operare sulla immaginazione che sul cuore di chi legge. E così parrebbe che Lord Byron avesse voluto, e così certo accade. E perciò il suo effetto è debole, cioè poco intimo, e quindi poco durevole, benchè possa esser fortissimo al primo tratto, il che non è incompatibile col superficiale. L’effetto delle poesie di Lord Byron, tanto e così perpetuamente ed estremamente sentimentali, l’effetto del sentimentale di esse, non è sentimentale per le dette ragioni. Or veggiamo che per ciò è poco intimo, e poco si comunica il movimento dell’autore e di esse, perchè questo non essendo quasi proprio ad agire che sull’immaginazione, l’immaginazione de’ lettori oggidì è generalmente poco atta a ricevere forti, cioè intime e durevoli impressioni: il che è quello ch’io diceva, e il proposito di questo discorso. E quel movimento delle poesie e de’ poeti che spetta solamente o principalmente all’immaginazione, sia che nasca da essa sola nel poeta, e in essa sola abbia avuto luogo, sia che in essa sola possa agir ne’ lettori e ad essa sola comunicarsi, (questo è più probabilmente il caso nostro, perchè io credo che Lord Byron veramente senta, non solo imagini, anzi l’eccesso e la straordinaria forza e qualità de’ suoi sentimenti sia quel che gli noccia) difficilmente e in piccola parte e poco gagliardamente si comunica ai lettori d’oggidì. Diversamente certo accadeva negli antichi (lo vediamo infatti anche oggi ne’ fanciulli e ne’ giovani ancora inesperti del mondo, o nella prima gioventù, quando ella, in pratica, ancor non filosofa, come tutti fanno nell’altre età, o dopo l’esperienza; cioè tutti oggi filosofano, quanto alla vita ec. chi in teoria e in pratica, chi in questa sola). Oggi anche gli antichi sommi poeti presto ci stancano e lasciano in secco, se e quando non sono che immaginosi, ancorchè in questo medesimo sommi, straordinarii e pieni d’arte. Le poesie di Lord Byron molto più e più presto ci stufano e lascian freddi, per la grande uniformità che vi si sente, la quale può esser vera, e nascere da mancanza della vera e sottile arte poetica (sì bene e distintamente conosciuta e sì eccellentemente e maestrevolmente praticata dagli antichi); e può anche esser che sia apparente, e nasca solo dal continuo eccesso in ogni cosa, dalla continua intensità, dal continuo risalto straordinario di ciascuna parte. Il che da un lato produce l’effetto dell’uniformità, e lo è veramente, in quanto è continuo eccesso ec. benchè variato, quanto si voglia, ne’ suoi subbietti, qualità ec. Dall’altro lato stanca come l’uniformità, perchè troppo affatica gli animi, che ben tosto non possono più tener dietro all’entusiasmo del poeta, come la vista presto si stanca di colori tutti vivissimi, benchè e belli e varii; e perchè il molto ed ἀθρόον, sia pur bonissimo, presto sazia; come chi bee ad un tratto un boccale di liquore, ha subito estinta la sete, nè perchè tu gli offra altro liquore diverso e squisitissimo, ha voglia di gustarlo, ma egli ha perduto per allora la facoltà di provar piacere dal bere, e da’ grati liquori. Come nel corpo così nell’animo la facoltà la virtù di provar piacere è scarsa; bisogna risparmiarla, o ch’ella è ben tosto esaurita. Il corpo e l’animo cede e vien meno al soverchio piacere, come al soverchio dolore. Ben rare sono le cose piacevoli, e i piaceri ben piccoli. Ma fossero pur frequentissimi e grandissimi. Nè il corpo nè l’animo umano hanno la forza di goder più che tanto, e anche indipendentemente dall’assuefazione che rende indifferenti le sensazioni da principio piacevoli o dolorose, anche restando ai piaceri e ai dolori la lor forza, manca all’uomo la facoltà di sentirli, se e’ son troppo grandi, o se son troppi ec. La facoltà di soffrire è assai maggiore nell’uomo. Pur se il dolore è soverchio, nè il corpo nè l’animo umano non è capace di sentirlo, e non soffre, o per poco spazio, dopo il quale la sua facoltà di soffrire vien meno. L’uomo non può molto godere, non solo perchè pochi e piccoli sono i piaceri, ma anche rispetto a se stesso, perchè egli è molto limitatamente capace del piacere, e quegli stessi che vi sono, così piccoli e pochi, bastano a vincere di gran lunga la sua capacità. Bacco e Venere sono piaceri, ma l’uomo dopo un quarto d’ora ec. diviene incapace di gustarli, e soccombe alla loro forza niente meno che a quella de’ tormenti e de’ morbi. (3. Nov. 1823.).

Somma conformabilità dell’uomo ec. Tutto in natura, e massime nell’uomo, è disposizione. ec. Straordinaria, ed, apparentemente, più che umana facoltà e potenza che i ciechi, o nati o divenuti, hanno negli orecchi, nella ritentiva, nell’inventiva, nell’attendere, nella profondità del pensare, nell’apprender la musica ed esercitarla e comporne ec. ec. Similmente dei sordi nell’attenzione, nella contenzione e concentrazione del pensiero, nell’imparar cose che paiono impossibili ai sordi nati, fino a leggere, a scrivere, a parlare fors’anche ec. come nelle scuole de’ sordi muti ec. Le quali straordinarie potenze delle parti morali, che si scuoprono nell’uomo per la sola forza delle circostanze, e talora in un individuo medesimo che dapprima non le aveva, come in uno divenuto cieco a una certa età, ec.; sono analoghe a quelle, altrettanto straordinarie, delle parti fisiche, occasionate pur dalle sole circostanze, e che in tanto si credono possibili fisicamente all’uomo, in quanto solamente si vede in fatti qualche individuo che per forza delle sue circostanze, è giunto a possederle. Come quello che nato senza braccia, suppliva co’ piedi a tutte le funzioni delle mani, fino alle più squisite. Delle quali potenze niuno pure immagina che l’uomo e le rispettive sue parti morali o fisiche sieno in alcun modo capaci, se non vede o non conosce i fatti a uno per uno. Così dico di centomila altre facoltà straordinarie morali o fisiche possedute oggi o ne’ tempi addietro da individui, o da razze, o da nazioni particolari, per sola forza di circostanze, o di esercizio, o di costumi ec. Come son quelle de’ giocolieri indiani, ed eran quelle de’ giocolieri messicani ec. de’ nostri saltatori, giuocatori di forze, ed anche di lestezza di mano ec. E quel che dico delle facoltà dicasi ancora delle qualità straordinarie morali o fisiche, de’ costumi, delle abitudini d’ogni sorta ec. straordinarie, o che a noi son tali ec. (4. Nov. 1823.).

Non solamente in italiano e in francese ec. (come in châtelet) si diminuiscono i diminutivi positivati, come ho detto altrove, venuti dal latino o no, positivati nel latino o nelle lingue moderne ne ec.; ma eziandio nel latino medesimo, come flabellulum, s’è vera voce, e credo altre parecchie[a]

Sellula. Asellulus.

[Chiudi]. Del resto anche i diminutivi non positivati si tornano a diminuire talvolta in latino come in italiano ec. s’io non m’inganno. Puella, benchè sia voce esprimente una cosa piccola e da vezzeggiare ec. pur è un diminutivo positivato in quanto restò solo in uso in vece dell’antiquato suo positivo puera, di cui v. Forcell. E puella si diminuisce in puellula. (4. Nov. 1823.).

Alla p. 3757. Dagli altri supini, si fanno, ma son più rari, mutato l’um in ibilis, come da flexum flexibilis, inflexibilis, ec. passibilis ec. sensibilis, insensibilis ec. Nel latino barbaro, e nelle lingue moderne s’usa di far tali verbali allo stesso modo da’ supini in tum impuro, cioè sostituendo all’um l’ibilis, come fattibile, perfettibile, indefettibile, ec. da perfectum, defectum, factum. Ma non così in latino buono, o seppur v’avesse qualch’esempio simile, sarebbe de’ tempi più moderni ec. I buoni latini avrebbero detto facibilis da facitum, come anche noi diciamo concepibile inconcepibile ec. (concevable ec.) da concepitum, mentre però diciamo percettibile impercettibile ec. da perceptum; e diciamo reperibile da reperitum, non repertibile da repertum ec. Regolarmente e primitivamente niun supino latino finisce in tum impuro. Sicchè questa formazione non è latina. V. p. 3904.3928.

Del resto, queste osservazioni sopra la formazione de’ verbali in bilis servono anch’esse a confermare le nostre proposizioni circa l’antico e regolare stato de’ supini, sì in generale, sì per ciascuno di tai verbali in particolare, cioè di quelli che fanno al proposito ec. (4. Nov. 1823.).

Alla p. 3688. fine. Come il significato di νοέω abbia a fare con quel di nosco, vedi i Lessici . E in ogni modo o che nosco fosse da νοΐσκω, o che sia da νοέω, sarebbe la stessa cosa, quanto alla ragion del significato ec. perchè νοέω e νοΐσκω sono lo stesso verbo. E γιγνώσκω, che vale nosco, vien certamente da νοΐσκω ec. (4. Nov. 1823.).

Reperito da reperio-ertum, ant. reperitum. V. Forcell.

Manto as da maneo-mansum, ant. manitum regolare, contratto in mantum. Ovvero mantum sta per mansum mutato l’s in t. Vedi ciò che altrove s’è detto in più luoghi circa tal mutazione ne’ supini e participii, a proposito di vectum e vexum di veho, onde vectare e vexare, e ad altri propositi; e quello si riferisca a manto, e manto a quel che ivi si è detto. Mansum anomalo è dall’anomalo mansi per manui, secondo il detto altrove della formazione de’ supini da preteriti perfetti, al che si aggiunga anche questo esempio. Da mansum è mansitare fratello di mantare, come vexare di vectare ec. (4. Nov. 1823.).

Alla p. 3704. fine. E qualcosa similmente è più aliena dalla terza coniugazione, e più propria e caratteristica della prima, che la desinenza in avi nel perfetto e in atum nel supino? (sero is anomalo ha satum, anomalo come il perfetto sevi; ma oltre che questo supino è anomalo, ei non è in atum ma in atum). Or eccovi nascor della terza fa natus participio e sostantivo e natus sum, e natum, e natu ec. E tutti i verbi in asco e ascor, o non hanno perfetto nè supino, o se n’hanno o che se gli attribuiscano, e’ sono in avi e in atum. Qual più chiaro segno che questi non sono proprii loro, ma d’altro verbo, e questo della prima? Veterasco is ha, o se gli attribuisce, veteravi. Pare però che lo stesso Forcell. che glielo attribuisce, abbia veduto ch’e’ non può esser proprio suo, ma di un vetero as, il quale ei segna senz’alcun esempio, rimettendo a veterasco, dove di vetero non è parola; solo vi sono esempi di veteravi frammisti a quelli di veterasco. (Trovasi anche veteratus, v. Forc. in questa voce). Infatti abbiamo inveterasco is fatto evidentemente da invetero as avi atum, il quale ancora sussiste (tutto intiero), e così inveteratus (che il Forc. attribuisce giustamente ad invetero, sì come anche il perfetto inveteravi e il supino inveteratum, segnando inveterascere senza perfetto nè supino), e così forse altri composti di vetero. Dunque se v’invetero, e se a questo spetta inveteravi, atum, atus, dovette avervi anche vetero, e suo esser veteravi, atus ec. E così discorrasi di tanti altri verbi originali di quelli in sco, de’ quali mancando il semplice si trovano però i loro composti, a’ quali ordinariamente si attribuiscono i perfetti e supini che loro convengono, mentre quelli de’ semplici, se i semplici non si trovano, s’attribuiscono ai loro semplici derivati in sco.

Irascor sta nel Forcell. senza supino nè perfetto. Trovasi iratus. Vero participio, benchè forse, almeno in certi casi, aggettivato, come tanti altri. Or donde viene questo participio? Non dimostra egli un verbo della prima? un verbo onde venga sì egli sì irascor? Cioè un antico iror, conservato nell’italiano (irare, adirare, airare ec. con lor derivati ec.), e v. gli spagn. (4. Nov. 1823.).

Alla p. 3710. Da’ verbi della 2.da si fanno quelli in esco, dalla terza si fanno in isco, così dalla quarta, come scisco; dalla prima, in asco; del che vedi gli esempi nel pensiero precedente, ed aggiungi labasco e labascor da labo as, e simili. In Labasco nel Forcell. trovo il nome appellativo e speciale de’ verbi in sco. Essi si chiamano presso i grammatici, verba inchoativa. (4. Nov. 1823.). V. p. 3830. fine.

Adito as da adeo is-itum. (4. Nov. 1823.).

Al detto altrove del verbo bitere, aggiungi quello che ha il Forcell. in adito as. E nóta come anche [in] quell’esempio, il quale, secondo il Forcell. , è appoggiato da tutte l’ottime edizioni, la coniugazione di bito fu la prima. Si adbites. Certo questo è presente congiuntivo e non futuro indicativo. Almeno sen può ben dubitare. E veramente io mi maraviglio come nè per questo, nè per gli altri esempi, altrove da me esaminati, il Forcellini (e forse niun altro) si sia avveduto che bito è della prima, o anche della prima, e l’abbia pur creduto della terza, o della sola terza, oltre bitio is della 4.ta ec. s’è vera voce[a]

Anche in adbito (che veggasi) il Forc. ha adbito is con questo solo es. di Plauto.

[Chiudi]. (4. Nov. 1823.).

Lo stato della letteratura spagnuola oggidì (e dal principio del 600 in poi), è lo stesso affatto che quello dell’italiana, eccetto alcuni vantaggi di questa, ed alcune diversità di circostanze, che non mutano la sostanza del caso. Come noi (al paro di tutti gli altri stranieri) non dubitiamo che la Spagna non abbia nè lingua nè letteratura moderna propria, e dal 600. in poi non l’abbia mai avuta, così non dobbiamo dubitare che non sia altrettanto in Italia, e ciò dal 600. in poi, come gli stranieri, e forse tra questi anche gli spagnuoli (che del fatto loro non converranno), punto non ne dubitano. Quello che noi vediamo chiaro in altrui e nel lontano, ci serva di specchio e di esempio per ben vedere, per accorgerci, per conoscere e concepire il fatto nostro, e quello ch’essendoci proprio e troppo vicino, non suol vedersi nè conoscersi mai bene, sì per l’inganno dell’amor proprio, sì perchè la stessa vicinanza nuoce alla vista, e l’abitudine di continuamente vedere impedisce o difficulta l’osservare, il notare, l’attendere, il por mente, l’avvedersi. L’opinione che abbiamo di quelli stranieri c’istruisca di quella che dobbiamo avere di noi, e le ragioni di quella si applichino al caso nostro, chè ben vi sono applicabili ec.

Del resto tutto quello ch’io [ho] ragionato in più luoghi circa la presente (ec.) condizione della letteratura e lingua italiana; circa il mancar noi di lingua e letteratura moderna, di filosofia ec.; circa la condizione in cui si troverebbe oggidì un grande e perfettamente colto ingegno italiano, la necessità che avrebbe di crearsi una lingua, di creare una letteratura ec., il come e quale gli converrebbe crearle, e con quali avvertenze ec. ec. tutto, con lievi e accidentali diversità intendo altresì dirlo degli spagnuoli. E viceversa la considerazione di questi può e dee molto servire, sì a noi, sì anche agli stranieri, per giudicare e formarsi una giusta idea dello stato d’Italia e degl’ingegni italiani (se ve ne fossero) rispetto alla lingua, letteratura, filosofia ec. Le lingue e letterature italiana e spagnuola, le più conformi forse del mondo per mille altri titoli, come ho mostrato altrove (e così le nazioni ec.), lo sono altresì per la loro storia, e pel loro stato presente e passato ec. Ed altrimenti infatti non avrebbero avuto fra loro quelle conformità intrinseche che hanno, o certo non in tal grado, nè così durevolmente ec. ec. (4. Nov. 1823.).

Alla p. 3828. fine. Sicchè di ciascun verbo in asco si può sicuramente dire che viene da un verbo della prima, e non d’altra coniugazione, della quale è segno caratteristico l’a precedente la desinenza in sco; e così rispettivamente dite de’ verbi in esco ed isco ec. (se pur non v’ha qualche verbo in sco che non sia incoativo, neppur per origine, (giacchè per significato ed uso molti nol sono o nol sono sempre, come altrove dico) il quale sarebbe fuori del nostro discorso). Pasco è certamente da un antico pare da πάω (e non da βόσκω, come dubita il Forcell. in Pasco princip.) come l’antico poo da πόω, e altri tali di cui altrove sparsamente ed insieme. Dimostralo sì la sua desinenza in asco, sì il perfetto pavi, affatto anomalo rispetto a pasco e rispetto alla sua coniugazione, cioè alla terza, perchè tolto in prestito da quell’antico verbo della prima, di cui è proprio. Ecco come le nostre osservazioni scuoprono e illustrano le antichissime voci e radici della lingua latina, e la sua analogia, e le sue antichissime conformità colla greca, e la medesimezza di voci greche e latine che non paiono più aver nulla che fare (e ciò non per stiracchiate etimologie, come tanti altri han fatto, ma per accurato ed evidente ragionamento, e per mille confronti ec. e per regole grammaticali ec. trovate, o illustrate nuovamente e nuovamente applicate, ampliate, meglio stabilite, spiegate ec.), e le origini della lingua latina, e la proprietà vera e primitiva sua e delle sue voci, e le sue vere norme e regole, forme ec.; e le ragioni ed origini delle anomalie sue e delle sue voci ec. Pastum è contrazione di pascitum dimostrato da pascito. L’uno e l’altro è supino (e participio) proprio di pasco, non di pao. Nuova prova che il vero e proprio supino di tutti i verbi in sco è in scitum, benchè per lo più perduto, e sostituitigli degli altri ec.; e quindi ancora che il lor proprio perfetto sarebbe in sci, giacchè il supino si fa dal perfetto, come altrove. Il composto di pasco, compesco, s’egli però è veramente composto di pasco, come crede il Forcell. (vedilo in pasco fin. e in compesco), non fa compavi, ma compescui, anomalo anch’esso, (v. la pag. 3707.) ma, benchè anomalo, proprio di compesco e di un verbo in sco, non di compao nè di pao, e che pur serve a mostrare che pavi non è proprio di pasco. Per supino Prisciano gli dà compescitum, e a dispesco, dispescitum; nuova prova e di pascitum e della qualità de’ proprii supini de’ verbi in sco ec. Prisciano riconosce anche dispescui. Se dispesco sia composto di pasco, ne dico quello stesso che di compesco.

Del resto ne’ verbi in sco fatti da quelli della terza, non è essenziale la desinenza in isco. Da noo is si fa nosco: posco ec. ec. O che queste desinenze sieno primitive, ovvero, che m’è più probabile, l’i che dovrebb’esservi, vi è mangiato, e ciò per evitare il concorso delle vocali, giacchè tali desinenze han luogo quando la desinenza in isco sarebbe stata preceduta da una vocale. P. e. da noo is, regolarmente sarebbe stato noisco (intieramente conforme al greco νοΐσκω, e ciò per puro accidente, come a pag. 3688.). Ma siccome noo e simili andarono in disuso per la spiacevolezza del suono, cagionata dal concorso delle vocali, siccome altrove ho detto, così ne’ lor derivati che restarono in loro luogo, per evitar lo stesso concorso, fu soppresso l’i, ch’era la vocale più esile. Del resto nosco è per noisco, come notum per noitum, nobilis per noibilis, potum per poitum, sutum per suitum ec. ec. come altrove in più luoghi. E questi sono così ridotti per la detta ragione. (4. Novembre. 1823.).

Alla p. 3640. marg. Gl’Inca furono i civilizzatori di quella parte non piccola dell’America meridionale ond’essi in varie maniere s’insignorirono. Civilizzatori per rispetto alla barbarie estrema de’ popoli di quella parte non soggetti alla loro dominazione, anche de’ confinanti, ed alla barbarie de’ popoli da lor soggettati, prima della soggezione. La civilizzazione operata dagl’Incas, o da essi diffusa, fu principalmente nelle provincie più vicine alla lor capitale; nell’altre tanto minore proporzionatamente quanto più lontane, men soggette, e più recentemente riunite al loro impero. Or gl’Inca adorarono unicamente o principalmente il sole; e così la lor capitale e le più antiche provincie del loro regno. Essi introdussero il culto del sole per tutto insieme col lor dominio. L’altre provincie lor soggette massime le più lontane, o le men soggette, o le più recentemente, e ne’ principii della lor soggezione tutte o quasi tutte, lo riunirono ai culti lor naturali, ch’erano d’idoli orribili a vedere, e de’ quali avevano formidabili e odiosissime idee di figure d’animali feroci, o d’idee semplici di qualche essere spaventevole non rappresentato in niun modo. Le provincie non soggette agl’Inca non ebbero che questi o simili culti e mai non conobbero quello del sole. Quando gli Europei scoprirono il Perù e suoi contorni, dovunque trovarono alcuna parte o segno di civilizzazione e dirozzamento, quivi trovarono il culto del sole; dovunque il culto del sole, quivi i costumi men fieri e men duri che altrove; dovunque non trovarono il culto del sole, quivi (ed erano pur provincie, valli, ed anche borgate, confinanti non di rado o vicinissime alle sopraddette) una vasta, intiera ed orrenda e spietatissima barbarie ed immanità e fierezza di costumi e di vita. E generalmente i tempii del sole erano come il segno della civiltà, e i confini del culto del sole, i confini di essa ec. (5. Nov. 1823.).

Dico altrove che noi sogliamo cangiare l’i de’ participii latini in us, usitati o inusitati, nella lettera u. Che questa mutazione dell’i in u (mutazione propria della voce umana, come ho detto altrove in più d’un luogo) ci sia naturale segnatamente in questo caso, veggasi che noi diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus), e conceputo (diciamo anche concetto, voce tolta dal latino dagli scrittori e dalla letteratura). Ma questo secondo è più italiano ed elegante. Così empiuto, compiuto, riempiuto ec. rispetto ad empìto, compìto (in alcuni sensi però non si potrebbe dir compiuto per compito ma questi sono anzi forestieri che no) ec. Così forse altri ec. Nótisi però che i grammatici distinguono empiere ec. ed empire (meno elegante) ec.; concepere e concepire; e ad empiere danno empiuto ec., a concepere conceputo; ad empire empìto ec. (5. Nov. 1823.).

Diminutivi positivati. Rameau [a]

Anche tra noi ramoscello ec. molte volte è positivato, massime nel dir moderno.

[Chiudi], Taureau. (5. Nov. 1823.).

Participii affatto aggettivati. Acutus a um. E v. Forc. in Acuo sulla fine. (5. Nov. 1823.).

Verbi in uo. Tribuo da tribus us; verbo della terza, siccome acuo che forse è da acus us, statuo da status us ec. del che altrove. (5. Nov. 1823.).

L’esaltamento di forze proveniente da’ liquori o da’ cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagiona[b]

Puoi vedere la p. 3842. seg.

[Chiudi], come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento letargico (come diceva il Re di Prussia), essendo un accrescimento di vita, accresce l’effetto essenziale di essa, ch’è il desiderio del piacere, perocchè coll’intensità della vita cresce quella dell’amor proprio, e l’amor proprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere[c]. Quindi l’uomo in quello stato è oltre modo, e più ch’ei non suole, avido e famelico di sensazioni piacevoli, e inquieto per questo desiderio, e le cerca, e tende con più forza e più direttamente e immediatamente al vero fine della sua vita e del suo essere e di se stesso, e alla vera somma e sostanza ultima della felicità, ch’è il piacere, poco, o men del suo solito, curando le altre cose, che spesso son fini delle operazioni e desiderii umani, ma fini secondarii, benchè tuttogiorno si prendano per primarii e per felicità; perch’essi stessi tendono essenzialmente ad un altro fine, e tutti ad un fine medesimo, cioè a dire al piacere. In somma l’uomo è allora rispetto a se stesso ed al solito suo, quello che sono sempre i più forti rispetto agli altri, cioè più sitibondi della felicità, e più inquieti da’ desiderii, cioè dal desiderio della propria felicità, e più immediatamente e specialmente, e in modo più espresso, sensibile e manifesto sì agli altri che a se medesimi, avidi del piacere (al quale tutti tendono e sempre, ma i più forti più, e più immediatamente e chiaramente, o ciò più spesso e più ordinariamente degli altri), perocch’essi sono abitualmente più vivi degli altri.

Similmente, come in generale i più forti per l’ordinario, così gl’individui in quel punto, sogliono essere (proporzionatamente alle loro rispettive abitudini e caratteri, età, circostanze morali, fisiche, esteriori, di fortuna, di condizione e grado sociale, di avvenimenti ec. costanti, temporarie, momentanee ec.) più del lor solito disposti alle grandi e generose azioni, agli atti eroici, al sacrifizio di se stessi, alla beneficenza, alla compassione (dico più disposti, e voglio dire la potenza, non l’atto, che ha bisogno dell’occasione e di circostanze, che mancando, come per lo più, fanno che l’uomo neppur si avveda in quel punto di tal sua disposizione e potenza, ed anche in tutta la sua vita non si accorga che in quei tali punti egli ebbe ed ha questa disposizione ec.); perocchè la sua vita in quel punto è maggiore, e quindi più potente l’amor proprio, e quindi questo è meno egoista, secondo le teorie altrove esposte. Lasciando le illusioni proprie e naturali di quello stato, proporzionatamente all’abitual condizione morale dell’individuo ec.

E così troverassi che gli altri effetti che accompagnano o seguono la maggiore intensità della vita, la maggior forza corporale ec., avuta ragione de’ vari caratteri e circostanze morali e fisiche degl’individui ec. da me altrove considerati in più luoghi ec. hanno tutti luogo proporzionatamente nelle dette occasioni ec. (5. Novembre 1823.).

Il giovane che al suo ingresso nella vita, si trova, per qualunque causa e circostanza ed in qual che sia modo, ributtato dal mondo, innanzi di aver deposta la tenerezza verso se stesso, propria di quell’età, e di aver fatto l’abito e il callo alle contrarietà, alle persecuzioni e malignità degli uomini, agli oltraggi, punture, smacchi, dispiaceri che si ricevono nell’uso della vita sociale, alle sventure, ai cattivi successi nella società e nella vita civile; il giovane, dico, che o da’ parenti, come spesso accade, o da que’ di fuori, si trova ributtato ed escluso dalla vita, e serrata la strada ai godimenti (di qualsivoglia sorta) o più che agli altri o al comune de’ giovani non suole accadere; o tanto che tali ostacoli vengano ad essere straordinari e ad avere maggior forza che non sogliono, a causa di una sua non ordinaria sensibilità, immaginazione, suscettibilità, delicatezza di spirito e d’indole, vita interna, e quindi straordinaria tenerezza verso se stesso, maggiore amor proprio, maggiore smania e bisogno di felicità e di godimento, maggior capacità e facilità di soffrire, maggior delicatezza sopra ogni offesa, ogni danno, ogn’ingiuria, ogni disprezzo, ogni puntura ed ogni lesione del suo amor proprio; un tal giovane trasporta e rivolge bene spesso tutto l’ardore e la morale e fisica forza o generale della sua età, o particolare della sua indole, o l’uno e l’altro insieme, tutta, dico, questa forza e questo ardore che lo spingevano verso la felicità, l’azione, la vita, ei la rivolge a proccurarsi l’infelicità, l’inattività, la morte morale. Egli diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico, egli vuol soffrire, egli vi si ostina, i partiti più tristi, più acerbi verso se stesso, più dolorosi e più spaventevoli, e che prima di quella sua poca esperienza della vita egli avrebbe rigettati con orrore, divengono del suo gusto, ei li abbraccia con trasporto, dovendo scegliere uno stato, il più monotono, il più freddo, il più penoso per la noia che reca, il più difficile a sopportarsi perchè più lontano e men partecipe della vita, è quello ch’ei preferisce, ei vi si compiace tanto più quanto esso è più orribile per lui, egl’impiega tutta la forza del suo carattere e della sua età in abbracciarlo, e in sostenerlo, e in mantenere ed eseguire la sua risoluzione, e in continuarlo, e si compiace fra l’altre cose in particolare nell’impossibilitarsi a poter mai fare altrimenti, e nello abbracciar quei partiti che gli chiudano per sempre la strada di poter vivere, o soffrir meno, perchè con ciò ei viene a ridursi e a rappresentarsi come ridotto in uno estremo di sciagura, il che piace, come altrove ho detto, e se qualche cosa mancasse e potesse aggiungersi al suo male, ei non sarebbe contento ec. egl’impiega tutta la sua vita morale in abbracciare, sopportare e mantenere costantemente la sua morte morale, tutto il suo ardore in agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in sostenere la monotonia e l’uniformità della vita, tutta la sua costanza in scegliere di soffrire, voler soffrire, continuare a soffrire, tutta la sua gioventù in invecchiarsi l’animo, e vivere esteriormente da vecchio, ed abbracciare e seguir gl’istituti, le costumanze, i modi, le inclinazioni, il pensare, la vita de’ vecchi. Come tutto ciò è un effetto del suo ardore e della sua forza naturale, egli va molto al di là del necessario: se il mondo a causa di suoi difetti o morali o fisici, o di sue circostanze, gli nega tanto di godimento, egli se ne toglie il decuplo; se la necessità l’obbliga a soffrir tanto, egli elegge di soffrir dieci volte di più; se gli nega un bene ei se ne interdice uno assai maggiore; se gli contrasta qualche godimento, egli si priva di tutti, e rinunzia affatto al godere.

Il giovane è in queste cose così costante, risoluto, forte, durevole, che gli educatori e quelli che han cura di lui, anche sommamente benevoli, assai spesso e il più delle volte, stimano tali risoluzioni e tali forme di vita essergli naturali, nascere dalle sue inclinazioni, esser conformi al suo vero carattere, al suo vero piacere, e però determinano di non distornelo, non impedirnelo, di confermarvelo, di secondarlo, e così fanno, anche talora senz’alcun proprio interesse per sola premura ed affezione verso di lui. E’ s’ingannano sommamente e in tali casi la lor poca cognizione del cuore umano e de’ suoi mirabilissimi accidenti, de’ fenomeni dell’amor proprio e delle sue sottilissime e sfuggevolissime operazioni e modi di agire, e stravagantissimi effetti e trasformazioni, nuoce grandemente a quei poveri giovani, i quali ben potrebbero ancora, ma non senza molta forza e molto artifizio, essere strappati a quelle dure risoluzioni, azioni e abitudini, e riconciliati con se stessi e con la vita, vero partito che si dovrebbe prendere in tali casi da un prudente e filosofo e pietoso curatore, e solo mezzo di svolgere il giovane da’ tristi partiti ch’egli ha abbracciati o è per abbracciare, e di sottrarlo dalla vera infelicità che glien’è per seguire, massime calmato il furore e intiepidito l’ardore dell’età, che sono appunto quelli che cagionano quella tal sua pazienza e che l’agghiacciano, e che lo sostengono e nutrono in quella gelata, sterile, ed arida vita ch’egli ha intrapreso, o nella risoluzione d’intraprenderla; ma poco potranno durare a sostentarlo, e consumati o diminuiti, egli sentirà tutta la pena del suo stato, e gli mancherà la virtù di soffrirlo, dopo impostasene la necessità. La qual virtù manca insieme colla compiacenza ch’ei prova in soffrire o in voler soffrire, la qual compiacenza non può essere perpetua, e il tempo e l’età, se non altro, l’estingue. Massime ch’egli non potrà esser consolato e reso indifferente verso le sue privazioni dal disinganno, non avendo mai provato quello di ch’ei si privò, e non essendosene privato per disinganno e per dispregio ch’e’ n’avesse, anzi al contrario per inganno, perch’ei ne faceva gran conto, perchè assaissimo gli costava il privarsene. Chè questa è la differenza da questa sorta di sacrifizi che or discorriamo, e quella più facile e più nota, (perchè proveniente da causa più manifesta e facile a comprendere e a vederne la connessione coll’effetto) e forse più ordinaria, o altrettanto, che nasce dal disinganno, dall’esperienza de’ godimenti, dal disgusto della vita tutta felice com’ella può essere.

Quindi accade che tali giovani i quali nella gioventù son vecchi per lor volontà, e più fortemente vecchi de’ vecchi medesimi, perchè la lor morale vecchiezza viene a nascere appunto dalla lor gioventù fisica, e dalla forza e ardore di questa e del loro carattere, nella maturità e nella vecchiezza (posto che abbiano effettuato quelle loro risoluzioni) sono moralmente giovani, e più giovani assai de’ giovani stessi che abbiano fatta un poco di esperienza, o che sieno di men fervida e sensitiva natura. Perchè questi sono in parte disingannati, o meno avidi e smaniosi del godimento. Quelli continuano e serbano tutto intero e fresco il loro inganno giovanile e le loro illusioni, e come frutta l’inverno, conservate nella cera, state sempre escluse dal contatto dell’aria, sotto la vecchiezza del corpo conservano quasi intatta ed intera la gioventù dell’anima (mantenuta lungi dall’influenza esteriore ec. nel ritiro ec.) già vera gioventù, perchè cessata la gioventù del corpo che li spingeva a soffrire, e ne li facea compiacere, e gliene dava il valore. Questi tali, bene attempati, sono smaniosi del godimento, avidi e sitibondi della felicità senza sperarla, ma ben persuasi, come da principio, ch’ella sia possibile e non difficile nè rara, hanno ripreso i desiderii proprii dell’uomo, e massime della gioventù, con tutto il loro ardore ec. Quindi e’ vivono e muoiono disperati e infelici, tanto più quanto e’ credono felici gli altri, e che la loro infelicità, il lor soffrire, il loro non godere, o il non aver mai goduto e sempre sofferto, sia provenuto da loro, e ch’essi avessero potuto altrimenti se avessero voluto; la quale opinione e il qual pentimento è la più amara parte che possa trovarsi in qualunque abituale o attuale infelicità o sventura o privazione ec. e il colmo dell’infelicità.

Spettano a questo discorso e nascono dalle psicologiche cagioni e principii, e dagl’interni avvenimenti e circostanze sviluppate di sopra, gran parte delle monacazioni ec. di giovani, e lo sceglier di vivere in casa o in campagna, e i ritiri dalla società ec. fatti nel principio della gioventù, massime da persone vive e sensibili ec. e resi poi necessarii a continuarsi, per l’abitudine, per li rispetti umani, per l’imperizia, che ne segue, del conversare, per il timor panico dell’opinione, del ridicolo ec. che suole accompagnare lo straordinario, la novità, il cominciare, il mutar proposito e vita in tempo, in età non conveniente, non ordinaria al cominciare, o al nuovo proposito e vita per se medesima ec. ec. (5. Nov. 1823.).

Alla p. 2779. marg. fine. Che βούλω attivo esistesse una volta confermasi con argomento non solo di analogia, ma di fatto; cioè che βούλομαι trovasi anche usato in senso passivo. Dunque s’egli è passivo, ei dovette nascere da un attivo, ed avere il suo attivo onde egli fosse il passivo. Vedi Creuzer Meletemata e disciplina antiquitatis, par. 2. Lips. 1817. p. 55. fin.-56. init. (6. Nov. 1823.).

Sempre che l’uomo pensa, ei desidera, perchè tanto quanto pensa ei si ama. Ed in ciascun momento, a proporzione che la sua facoltà di pensare è più libera ed intera e con minore impedimento, e che egli più pienamente ed intensamente la esercita, il suo desiderare è maggiore. Quindi in uno stato di assopimento, di letargo, di certe ebbrietà[a]

V. la pag. 3835. seg. e 3846. fine-8.

[Chiudi], nell’accesso e recesso del sonno, e in simili stati in cui la proporzione, la somma, la forza del pensare, l’esercizio del pensiero, la libertà e la facoltà attuale del pensare, è minore, più impedita, scarsa ec. l’uomo desidera meno vivamente a proporzione, il suo desiderio, la forza, la somma di questo, è minore; e perciò l’uomo è proporzionatamente meno infelice. Quanto si stende quell’azione della mente ch’è inseparabile dal sentimento della vita, e sempre proporzionata al grado di questo sentimento, tanto, e sempre proporzionato al di lei grado, si stende il desiderio dell’uomo e del vivente, e l’azione del desiderare. Ogni atto libero della mente, ogni pensiero che non sia indipendente dalla volontà, è in qualche modo un desiderio attuale, perchè tutti cotali atti e pensieri hanno un fine qualunque, il quale dall’uomo in quel punto è desiderato in proporzione dell’intensità ec. di quell’atto o pensiero, e tutti cotali fini spettano alla felicità che l’uomo e il vivente per sua natura sopra tutte le cose necessariamente desidera e non può non desiderare. (6. Nov. 1823.).

Diminutivi positivati. Mamilla o mammilla diminutiv di mamma (mammella ec.). Papilla diminutivo di papula, come fabella di fabula e simili, del che altrove[a]

V. la p. seg.

[Chiudi]; e diminutivo in illa, come mammilla che il Forc. chiama diminut. a mamma, atq. idem saepe significans (scil. idem ac mamma ). (6. Nov. 1823.).

Convexo as vedilo nel Forcell. e applicalo a quello che ho detto altrove di convexus derivandolo da veho, come vexare, da cui è convexare che vale altrettanto ec. (6. Nov. 1823.).

La differenza che fa Prisciano tra nectus e necatus non sussiste. (ap. Forc. in Neco ). Seppur ei non intende di farla ancora tra necui e necavi. Perocchè nectus è da necui, e necatus da necavi, secondo il detto da me altrove della formazione de’ supini e participii passivi da’ perfetti. È anche certo che necui onde nectus, non è che corruzione di necavi onde necatus, sì che nectus viene a esser non altro che corruzione di necatus. Questo è almeno quanto all’origine e alla ragione grammaticale. Che l’uso e il significato de’ due detti participii sia diverso si potrebbe credere a Prisciano quando e’ ne recasse esempii idonei, o quando quelli che noi abbiamo favorissero o non contraddicessero la sua distinzione. Ora, di nectus non abbiamo esempi certi; ma necatus in un luogo di Ovidio ( Forc. in necatus ), detto delle api, non vuol certamente dire ucciso col ferro. E v. nel Forc. gli esempi di Enecatus e di Enectus. Del resto par veramente nel cit. luogo del Forcell. cioè in Neco, che Prisciano faccia anche tra’ due (che in origine sono uno solo) perfetti di neco la stessa distinzione di significato che tra’ due participii, i quali altresì per origine sono un solo, ma mediatamente, cioè in quanto vengono da perfetti che sono in origine uno stesso. (6. Nov. 1823.).

A quello che altrove ho detto di asinus-asellus, fabula fabella, populus-popellus ec. aggiungi pagina-pagella, Poculum-pocillum, Papula-papilla, Geminus-gemellus, Tabula tabella, Femina-femella, Baculum o us-bacillum o us, Pulvinus-pulvillus [a]

Aggiungi ancora il detto a pag. 3875. dimostrante che moltissimi nomi lat. in ulus, culus ec. non sono diminutivi neppur p. origine e regola di formazione.

[Chiudi]. E nóta il nostro diminutivo positivato favella, favellare ec. (V. la pag. 3896.) de’ quali verbi altrove ad altro proposito. Catulus-catellus. Anellus (anello ec.) è diminutivo di anulus (il quale ancora è forse diminutivo di annus, ma di senso diverso dal suo positivo onde non ha che fare col nostro discorso de’ diminutivi positivati). Sicchè il nostro anello ec. (e v. il Gloss. ) è un diminutivo positivato[b]. (7. Nov. 1823.).

Nomi in uosus. V. Forcell. in fetuosus. (7. Nov. 1823.).

Alla p. 3585. I quali testi, e per conseguenza questi due verbi, sono antichi, cioè l’uno di Catullo, l’altro di Paolo Diacono da Festo. Del rimanente assulito è per assilito, mutato l’i in u, per la grande affinità di queste due vocali, altrove considerata. La quale affinità non è fra l’a e l’u, nè in composizione nè altrove l’a (ch’io mi ricordi) si muta mai in u, nè viceversa. Sicchè assulito non può esser per assalito, nè assulto, resulto ec. per assalto, resalto ec. ma per resilto, assilto ec. E così tutti i composti di salto, i quali tutti (ch’io sappia) fanno in ulto (fuorchè resilito, che sarebbe da salito). O che essi vengano a dirittura da salto, nel qual caso l’a sarebbe stato cangiato in u, ma mediatamente, cioè prima in i (mutazione ordinaria nella composizione, come ho detto altrove in più luoghi, e come appunto l’a di salio, ne’ suoi composti), poscia l’i in u (sicchè veramente non l’a ma l’i fu cambiato in u); o, quel ch’è più verisimile, essi vengono da’ participii o supini de’ rispettivi composti originali, cioè da assultum, resultum ec. di assilio, resilio ec. Così facul, difficul, facultas, difficultas per facilitas, difficilitas ec. mutato l’i in u, e soppresso l’altro i. V. p. 3852. I quali participii o supini regolarmente sarebbero resilitum, assilitum ec. (e lo dimostra appunto col fatto il verbo resilito), ma ebbero il primo i cambiato in u, come maximus maxumus (e in tale stato, cioè da assulitum, viene assulito, e dimostra la nostra asserzione), e il secondo i soppresso, come nel semplice salitum-saltum: onde divennero assultum, resultum ec. onde assultare contratto d’assulitare. Potrebbe anch’essere che i più antichi, prima di assilio ec. pronunziassero assulio, resulio ec., come forse maxumus ec. ec. e più antica pronunzia o scrittura ec. che maximus; e per conseguenza assulitum, resulitum (che poi anche nella successiva lor contrazione conservarono la pronunzia e scrittura ec. dell’u) ec. In tal caso assulito sarebbe la più antica forma de’ composti di salto, e resilito sarebbe più moderna, dal più moderno resilitum. (7. Nov. 1823.).

Alla p. 3281. La somma e la forza di questo pensiero si è che la compassionevolezza, la beneficenza, la sensibilità ec. da tutti (e in particolare da Rousseau) considerate come proprie generalmente de’ giovani (massime uomini), e l’insensibilità, la durezza ec. considerate come proprie de’ maturi, e più, de’ vecchi (massime donne)[a]

Vedi la pag. 3520-5.

[Chiudi], non tanto derivano dall’innocenza, inesperienza e poca cognizione mondana degli uni, e dall’esperienza e scienza mondana, dal disinganno morale ec. degli altri, come ordinariamente si crede e si dice, quanto dalle altre cagioni sì fisiche sì morali accennate in questo discorso, o certo da esse ancora in gran parte, e forse principalmente; se non da ciascuna, posta per se sola al paragone della suddetta, che certo è grandissima, ed a cui spetta la differenza di virtù fra gli antichi e i moderni ec. almen dalla somma di esse. Infatti di un uomo e una donna egualmente giovani e inesperti e in parità d’ogni altra qualità e circostanza, quello, perchè più forte, ec. è naturalmente più dell’altra compassionevole, benefico ec. e più inclinato alla compassione, all’interessarsi per altrui ec. Così di due giovani, pari in ogni altra cosa e circostanza, il più forte è più portato a soccorrere altrui, a compatire, a ben fare ec. ec. (7. Nov. 1823.).

Sempre che il vivente si accorge dell’esistenza, e tanto più quanto ei più la sente, egli ama se stesso[a]

Puoi vedere p. 3835. seg. 3842. seg.

[Chiudi], e sempre attualmente, cioè con una successione continuata e non interrotta di atti, tanto più vivi, quanto il detto sentimento è attualmente o abitualmente maggiore. Sempre e in ciascuno istante ch’egli ama attualmente se stesso, egli desidera la sua felicità, e la desidera attualmente, con una serie continua di atti di desiderio, o con un desiderio sempre presente, e non sol potenziale, ma posto sempre in atto, tanto più vivo, quanto ec. come sopra. Il vivente non può mai conseguire la sua felicità, perchè questa vorrebb’essere infinita, come s’è spiegato altrove, e tale ei la desidera; or tale in effetto ella non può essere. Dunque il vivente non ottiene mai e non può mai ottenere l’oggetto del suo desiderio. Sempre pertanto ch’ei desidera, egli è necessariamente infelice, perciò appunto ch’ei desidera inutilmente, esclusa anche ogni altra cagione d’infelicità; giacchè un desiderio non soddisfatto è uno stato penoso, dunque uno stato d’infelicità. E tanto più infelice quanto ei desidera più vivamente. Non v’è dunque pel vivente altra felicità possibile, e questa solamente negativa, cioè mancanza d’infelicità; non è, dico, possibile al vivente il mancare d’infelicità positiva altrimenti che non desiderando la sua felicità, nè per altro mezzo che quello di non bramar la felicità. Ma sempre ch’ei si ama, ei la desidera; e mentre ch’ei sente di esistere, non può, nè anche per un istante, cessare di amarsi; e più ch’ei sente di esistere, più si ama e più desidera. Il discorso dunque della felicità umana e di qualunque vivente si riduce per evidenza a questi termini, e a questa conclusione. Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalmente ec., è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più si accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi zoofiti ec. è la più felice delle viventi). Così un individuo rispetto all’altro o agli altri. (Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice: e la nazion de’ Lapponi la più felice delle nazioni ec.). E un individuo rispetto a se stesso allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de’ turchi, debolezza non penosa, ec. negl’istanti che precedono il sonno o il risvegliarsi ec. Ed allora solo sì l’uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d’infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl’istanti che precedono la morte, cioè la fine del suo esser di vivente ec. Ciò vuol dire quando ei non è capace neanche di felicità veruna, nè di piacere o bene veruno, assolutamente; quando ei vivendo, non vive; allora solo egli è pienamente felice. S’ei desidera la felicità, non può esser felice; meno ei la desidera, meno è infelice; nulla desiderandola, non è punto infelice. Quindi l’uomo e il vivente è anche tanto meno infelice, quanto egli è più distratto dal desiderio della felicità, mediante l’azione e l’occupazione esteriore o interiore, come ho spiegato altrove. O distrazione o letargo: ecco i soli mezzi di felicità che hanno e possono mai aver gli animali. (7. Nov. 1823.).

Alla p. 3705. marg. Così sino is fa nel perfetto sivi. Ma notisi che il primo i quivi è breve, al contrario di quelle voci di cui or discorriamo, cioè de’ perfetti di cresco, suesco ec. ed anche di sevi e di crevi da cerno. Sterno is stravi atum. Quest’anomalia forse viene che sterno è difettivo, e supplito coll’avanzo di un antico stro as dall’inusitato στρώω, onde στρώσω, ἔστρωσα ec. Simile dico de’ composti prosterno, insterno ec. Le lettere vocali che precedono il vi ne’ perfetti delle altre coniugazioni sono sempre per lor natura lunghe (eccetto forse alcune anomalie), dico quelle che lo precedono regolarmente, cioè l’a nella prima, l’e nella seconda, l’i nella quarta (perocchè p. e. fovi, cavi da foveo, caveo sono contrazioni di fovevi, cavevi, sicchè non regolarmente il vi è preceduto in fovi dall’o, in cavi dall’a: per altro l’a e l’o di queste e simili voci, sono altresì lunghi). Insomma la desinenza di sivi non è veramente propria della 3. ma neanche di verun altra coniugazione. Al contrario di quella de’ perfetti de’ verbi in sco, i quali se sono in vi, la vocale che precede questa desinenza, è sempre (credo) lunga. Cosa affatto impropria della 3. e chiaro segno che tali perfetti sono propri di verbi d’altre coniugazioni. (8. Nov. 1823.). V. p. 3852.

Restito (onde restitrix) di cui v. Forcell. è notabile in quanto egli è continuativo o frequentativo di un verbo ch’esso medesimo in origine è continuativo, essendo composto del continuativo sto. Veggasi la p. 3298. (8. Nov. 1823.).

Monosillabi latini. Lax. Mors, onde morior ec. ec. idee ben primitive. Ius, onde iuro, iniuria ec. ec. tutte idee primitive nella società. Or la lingua non antecedette la società. Fraus. Res. (8. Nov. 1823.).

Nuo di cui altrove, oltre il suo continuativo nutare, e i suoi composti, annuo, innuo, renuo, abnuo ec. e loro continuativi adnuto, renuto ec., è dimostrato ancora sì dagli altri suoi derivati, sì dal verbale nutus us, ch’è fatto dal supino di nuo, secondo la regola altrove assegnata della formazione di tali verbali della 4. declinazione. Del resto, come da νεύω si fece indubitatamente nuo, così da γεύω potè bene e verisimilmente e secondo l’analogia, farsi guo, di cui altrove. E viceversa nuo da νεύω come guo da γεύω. ec. (8. Nov. 1823.).

Alla p. 3760. Similmente a guo andato in disuso, fu preferito il suo continuativo gusto, de’ quali verbi altrove. Similmente andò in disuso il verbo nuo, restando il suo continuativo nuto (e i derivati nutus, gustus us ec. ne’ quali non avea luogo l’iato). Restarono ancora i suoi composti (vedi il pensiero precedente) perchè l’iato nei non monosillabi è men duro e appariscente che ne’ monosillabi[a]

S’intendono qui p. monosillabi anche i formati di più d’una vocale contigue, e senza intermissione di consonante, secondo il detto altrove. Altrim. l’iato non potrebbe aver luogo ne’ monosillabi ec. ec.

[Chiudi], giacchè se in questi v’è l’iato, essendo essi d’una sillaba sola, son tutti formati d’un iato, e son quasi un puro iato essi stessi. Infatti l’osservazione della p. 3759. fine. — 3760. si verifica principalmente ne’ monosillabi, e di questi massimamente si deve intendere. Dove il tema monosillabo riceve un incremento restando l’iato, la voce benchè non più monosillaba, ha sempre men sillabe che la corrispondente ne’ verbi composti, e però l’iato in quella apparisce tuttavia ed offende maggiormente che in questa. Del resto essa talvolta, perito il tema, si è conservata, come noitum di noo, poitum di poo ec. bensì in queste e simili fu soppresso l’iato per contrazione, facendo notum, potum ec. (8. Nov. 1823.). V. p. 3881.

Alla p. 3758. marg. Se non si volesse che nubi-lis, labi-lis, fossero come doci-lis faci-lis ec. de’ quali verbali in lis, loro formazione ec. mi par che si possa discorrere come di quelli in bilis, e però trarne gli stessi argomenti ec. (10. Nov. 1823.).

Participii passivi di verbi attivi o neutri, in senso attivo o neutro ec. Ho detto altrove dello spagn. parida participio sovente (o sempre; v. i Diz.) attivo intransitivo di senso. Simili ne abbiamo ancor noi parecchi, e molto elegantemente gli usiamo, in luogo de’ participii veramente attivi di forma, il cui uso è poco grato alla nostra lingua, non altrimenti che alla francese e spagnuola. Uomo considerato, avvertito, avvisato vagliono considerante, avvertente ec. cioè che considera ec. veri attivi di significato, benchè intransitivi. Simili credo che si trovino ancora nel francese e più nello spagnuolo che se ne servono parimente in luogo de’ participii di forma attiva poco accetti a esse lingue[a]

Avisado p. prudente, accorto, è anche dello spagn. ma dubito che in ispagn. avisar abbia quel tal senso attivo analogo a questo di accorto ec., il quale egli ha tra noi. V. p. 3899.

[Chiudi]. La detta sorta di participii passivi attivati, fatti da’ verbi attivi ec. (ed infatti essi o sempre o per lo più, hanno ancora il proprio lor significato, cioè il passivo) è massimamente usata da’ nostri antichi del 300. e del 500. che ne hanno in molto più copia che noi oggidì non sogliamo usare o punto, o solo in senso passivo. La nostra lingua somigliava anche in questo alla spagnuola la quale mi pare che anche oggidì conservi quest’uso più frequente che non facciam noi, accostatici ora ai francesi, a’ quali esso è men frequente che agli altri, siccome esso pare singolarmente proprio della lingua spagnuola ec. ec. (10. Nov. 1823.).

Alla p. 3845. marg. Non credo, come il Forcellini, che facultas, difficultas venga da facul, difficul; ma che sieno contrazioni di facilitas, difficilitas, pronunziati difficulitas, faculitas. Facul ec. non sono che apocopi di facilis, facile avverbio ec. (pronunziati faculis ec.) dello stesso genere che volup ec. (v. Frontone e Forc. in famul , il quale non è già da famel (v. Forc. in familia ) ma da famulus.) (10. Nov. 1823.). E son le stesse voci identiche che sarebbero facil, difficil, mutata sol la pronunzia.

Alla p. 3636. marg. Forse però fourre valeva fodera, e quindi fourreau, quasi foderetta, per fodero, onde il diminutivo sarebbe d’un senso distinto dal positivo, e però non apparterrebbe al nostro discorso che considera i diminutivi usati in iscambio de’ positivi. (10. Nov. 1823.).

Diminutivi positivati. Ladrillo (diminutivo ladrillejo) con tutti i suoi derivati da later, quasi latericulus, o laterculus. E vedi appunto il Forc. circa l’uso positivato di laterculus. (10. Nov. 1823.).

Contracter franc. per contrarre, come in contrario lo spagn. traher alle volte nel senso di tractare, secondo che ho detto nel principio della teoria de’ continuativi. (10. Nov. 1823.).

Alla p. 3849. Il vero perfetto di sino è sini. Questo infatti si trova ancora. Da questo, cred’io, per soppressione della n (della qual soppressione credo v’abbiano altri esempi)[a]

V. p. e. Forcell. in fruniscor p. fruiscor , qualunque de’ due sia anteriore. E chi sa che prima non fosse sio, interposta poscia la n p. evitare l’iato, come in greco nel fine delle voci, e come forse v’hanno altri es.i in latino, e fra questi forse il predetto fruniscor.

[Chiudi], si fece sii che ancor si trova eziandio, massime ne’ composti (come desino is ii ed ivi). Da sii per evitar l’iato siFi, cioè sivi, come da audii audivi, da amai amavi, da docei docevi. Questo mi è più probabile che il creder sii posteriore a sivi, come gli altri fanno, e come fanno eziandio circa i preteriti perfetti della 4. coniugazione. Il supino nasce, come altrove dico, dal perfetto. Quindi da sii o sivi, situm (come da audii o audivi, auditum ec. da ama-vi ama-tum ec.), in luogo del regolare sinitum. Questo mi è più probabile che il creder situm contrazione di sinitum, fatto o per soppressione assoluta della sillaba ni, contrazione, che sappia io, non latina o per soppressione della n, onde siitum, come da sini sii, poi contratto in situm, nel qual caso l’i di situm parrebbe avesse ad esser lungo. (10. Nov. 1823.).

Alla p. 3702. La considerazione da me altrove fatta che i supini vengono dai perfetti, facilmente spiega il perchè l’etum, propria e regolare desinenza della 2. sia stato per lo più cambiato in itum, soppresso poi sovente, e forse il più delle volte, l’i. La cagione si è che l’evi de’ perfetti di essa coniugazione fu cangiato in ui, e il come, si è benissimo dichiarato di sopra. Con ciò si dichiara facilissimamente e bene, il come l’etum de’ supini (che in molti di essi ancor trovasi) sia passato in itum ec. mutazione che senza ciò difficilmente si spiegarebbe, non solendo l’e passare in i ec. Docitum per docetum, (meritum di mereo e simili che ancor si trovano e sono anche per lo più gli unici supini superstiti de’ rispettivi verbi, o i più usitati ec.) onde doctum, è da docui per docevi, come domitum per domatum è da domui per domavi, nè più nè meno (v. la p. 3715-7. 3723. ec.). E chi vuol vedere la contrazione di doctum anche ne’ supini della prima in itum, fatti dai perfetti in ui, come è doctum, osservi sectum, nectum da secui, necui, enecui di secare, necare ec. Se il perfetto de’ verbi della 2. si conserva in evi, il supino che ne nasce è in etum e non altrimenti, come deleo es evi etum Se il supino è in itum o contratto, mentre il preterito è in evi, come abolitum di aboleo abolevi, adultum di adoleo evi (comparato con adolesco: adolesco ha evi, adoleo ha ui), allora esso supino non nasce certo dal perfetto in evi, ma nasce ed è segno certo di un altro perfetto noto o ignoto, in ui. Infatti ne’ citati esempi, Prisciano riconosce ad aboleo un abolui, e bene: adolui di adoleo è noto e usitato; è noto anche adolui di adolesco, benchè rarissimo, dice il Forcell. V. p. 3872.

Mi pare che queste osservazioni sieno mirabilmente utili a scoprire l’analogia, la ragione, le cause della lingua e grammatica latina, e delle sue apparenti anomalie ec. ec. e a stabilir regola e cagione dove gli altri non veggono che capriccio, varietà, disordine, arbitrio e caso ec. (10. Nov. 1823.).

Quello che noi chiamiamo spirito nei caratteri, nelle maniere, ne’ moti ed atti, nelle parole, ne’ motti, ne’ discorsi, nelle azioni, negli scritti e stili ec. ci piace, e ciò a tutti, perch’egli è vita, e desta sensazioni vive sotto qualche rispetto, o desta sensazioni qualunque, e molte, e spesse, il che è cosa viva, perchè il sentire lo è. Infatti lo spirito si chiama anche vivacità ec. o semplicemente, o vivacità di spirito, di carattere, stile, modi ec. ec. Il suo contrario in certo modo è morte, e non desta sensazioni, o poche, leggere, non rapide, non varie, non rapidamente succedentisi e variantisi, il che è cosa morta. Noi lo chiamiamo spirito perchè siamo soliti di considerar la vita come cosa immateriale, e appartenente a cose non materiali, e di chiamare spirito ciò ch’è vivo e vive e cagiona la vita ec.; e la materia siamo soliti di considerarla come cosa morta, e non viva per se, nè capace di vita ec. (10. Nov. ottava del dì de’ Morti. 1823.).

Tra le cagioni del mancar noi (e così gli spagnuoli) di lingua e letteratura moderna propria, si dee porre, e per prima di tutte, la nullità politica e militare in cui è caduta l’Italia non men che la Spagna dal 600 in poi, epoca appunto da cui incomincia la decadenza ed estinzione delle lingue e letterature proprie in Italia e in Ispagna. Questa nullità si può considerare e come una delle cagioni del detto effetto, e come la cagione assoluta di esso. Come una delle cagioni, perocchè se noi manchiamo oggi affatto di voci moderne proprie italiane e spagnuole, politiche e militari, ciò viene perchè gl’italiani e spagnuoli non hanno più, dal 600 in poi, nè affari politici propri, nè milizia propria. Fino dall’estinzione dell’imperio romano, l’Italia è stata serva, perchè divisa; ma sino a tutto il 500 la milizia italiana propria ha esistito, e le corti e repubbliche italiane hanno operato da se, benchè piccole e deboli. Il governo era in mano d’italiani, le dinastie erano italiane in assai maggior numero che poi non furono ed or non sono. Influiti e dominati da’ governi e dagli eserciti stranieri, i governi e gli eserciti italiani, chè tali essi erano ancora, agivano tuttavia essi medesimi, ed avevano affari. Essi erano che si davano agli stranieri, quando a questo, quando a quello, che li chiamavano, che gli scacciavano, o contribuivano a ciò fare, che si alleavano cogli stranieri, o contro di loro, con altri stranieri, o con altri italiani, contro altri italiani, o a favore. L’amicizia de’ governi italiani, ancorchè piccolissimi, delle stesse singolari città, era considerata e ricercata dagli stranieri, e la nemicizia temuta; e in qualunque modo i governi e le città italiane erano allora nemiche o amiche di questa o quella straniera potenza. Gl’italiani agivano per se presso o nelle corti straniere, e gli stranieri presso gl’italiani. V. p. 3887. Quindi è che noi avevamo allora a dovizia voci politiche e militari; più a dovizia ancora delle altre nazioni, perchè la politica e il militare, ridotti ad arte e scienza tra noi, non lo erano presso gli altri. Negli storici, negli scrittori tecnici di politica o di milizia, o d’altre materie appartenenti, e generalmente negli scrittori italiani avanti il seicento, non troverete mai difficoltà veruna di esprimersi in checchessia che spetti agli affari pubblici, economia pubblica, diplomatica, negoziazioni, politica, e a qualsivoglia parte dell’arte militare; mai povertà; e mai li vedrete ricorrere a voci straniere, o che possano pur sospettarsi tali: al contrario li vedrete franchissimi nell’espressione di tali materie, anzi ricchissimi e abbondantissimi, esattissimi, provvisti di termini per ciascuna cosa e parte di essa, ed anche di più termini per ciascuna, voci tutte italianissime e tanto italiane quanto or sono francesi quelle di cui i francesi e noi ed anche altri in tali materie si servono; e queste voci e questi termini ben si vede che non erano inventati da quegli scrittori, nè debbonsi al loro ingegno, ma all’uso della favella italiana d’allora, e che erano fra noi (come anche fuori non pochi) comunissimi, notissimi, e di significato ben certo e determinato. La più parte di questi, dal 600. in poi, perduti nell’uso del favellare, lo furono e lo sono conseguentemente nelle scritture, di modo che le stesse cose ancora, che noi a que’ tempi con parole italianissime, e con più parole eziandio, chiarissimamente e notissimamente esprimevamo, or non le sappiamo esprimere che con voci straniere affatto, o se queste ci mancano, e son troppo straniere per potersi introdurre, o non furono ancora introdotte, non possiamo esprimer quelle cose in verun modo. Moltissime di quelle voci, usandole, sarebbero intese fra noi anche oggidì nel lor proprio e perfetto senso, come allora, e non farebbero oscurità. Ma moltissime, sostituite alle straniere che or s’usano, riuscirebbero oscure, parte per la nuova assuefazione fatta a queste altre voci, parte perchè il loro senso non sarebbe più inteso così determinatamente come allora. E il simile dico di molte voci con cui potremmo esprimer cose per cui non abbiamo nemmen voci straniere, o che a questi pur manchino, o che tra noi non sieno state ancora introdotte. Moltissime voci militari, civili e politiche sì del nostro 300, sì dello stesso 500, benchè significative di cose or notissime e comunissime, son tali che noi ora, leggendole negli antichi, o non le intendiamo, o non senza studio, o non avvertiamo, almen senza molta acutezza e attenzione, o imperfettamente la loro corrispondenza con quelle che oggi ne’ medesimi casi comunemente usiamo. Altresì ci accade non di rado tale incertezza nelle voci significative di cose, or non più comuni, e spesso in queste ci accade più che nell’altre. Ecco come, mancati gli affari politici e la milizia in Italia, la nostra nazione non ha nè può avere, nè ebbe dal 600 in poi, lingua moderna propria per significar le cose politiche e militari, non ch’ella mai non l’abbia avuta, anzi l’ebbe, ma l’ha perduta, o non l’ha se non antica. E nello stesso modo proporzionatamente e ragguagliatamente discorrasi della Spagna.

Come cagione assoluta, la nullità politica e militare degl’italiani e spagnuoli ha prodotto il mancar essi di lingua e letteratura moderna dal 600 in qua, ed il mancarne oggi. Essa nullità è cagione che l’Italia e la Spagna abbiano perduto d’allora in poi il loro essere di nazione. Quindi essa è cagione che l’Italia e la Spagna non abbiano, e d’allora in qua, nè letteratura moderna, nè filosofia ec. Esse non hanno lingua moderna propria, perchè mancano di propria letteratura e filosofia moderna; ma di queste perchè ne mancano? perchè non sono più nazioni; e nol sono, perchè senza politica e senza milizia, non influiscono più nè sulla sorte degli altri, nè sulla lor propria, non governano nè si governano, e la loro esistenza o il lor modo di essere è indifferente al resto d’Europa. Quanto al non influir sugli altri nè aver parte agli affari comuni d’Europa, è manifesto. Quanto al non influir sopra se stessi nè governarsi, gl’italiani o soggiacciono a un principe e ad un governo decisamente straniero, o italianizzato il principe ma non il governo, o se il governo e il principe sono italiani, come in Ispagna spagnuoli, lasciando star la continua influenza straniera che li determina, modifica, volge a piacer suo, e che agisce insomma essa per mano italiana, sì in Italia che in Ispagna la forma del governo è tale che la nazione non v’ha alcuna parte, gli affari sono in man di pochissimi e separatissimi dal resto de’ nazionali, tutto si passa senza pur venire a notizia della nazione, sicchè la politica è affatto ignota ed aliena alla nazione medesima, i suoi affari sono per essa come gli altrui, ed oltre di ciò la libertà di ciascheduno massime privato, cioè de’ più e del vero corpo della nazione, è così circoscritta che ciascheduno è ben poco in grado di determinar la sua sorte, e di governarsi, ma quanto più si può è governato veramente da altrui, e ciò non dalla nazione, non dal comune, non ciascuno da tutti, ma tutti da uno o da pochissimi particolari, e il pubblico, per così dir, da’ privati. Quanto alla milizia, ognun sa che l’Italia e la Spagna dal 600 ne mancano.

Questa politica condizione dell’Italia e della Spagna ha prodotto e produce i soliti e immancabili effetti. Morte e privazione di letteratura, d’industria, di società, di arti, di genio, di coltura, di grandi ingegni, di facoltà inventiva, d’originalità, di passioni grandi, vive, utili o belle e splendide, d’ogni vantaggio sociale, di grandi fatti e quindi di grandi scritti, inazione, torpore così nella vita privata e rispetto al privato, come rispetto al pubblico, e come il pubblico è nullo rispetto alle altre nazioni. Questi effetti nati subito, sono andati dal 600 in poi sempre crescendo sì in Italia che in Ispagna, ed oggi sono al lor colmo in ambo i paesi, benchè le cagioni assegnatene, forse non sieno maggiori oggi che nel principio, anzi forse al contrario (sebbene però la placidezza del dispotismo, propria dell’ultimo secolo, e quindi la blandizia di esso, n’è anzi la perfezione, la sommità e il massimo grado, che un grado minore). Questo è avvenuto perchè niente in natura si fa per salto, e perchè un vivente colpito dalla morte, si raffredda appoco appoco, ed è più caldo assai a pochi momenti dalla morte che un pezzo dopo. Nel 600, ed anche nel 700, l’Italia già uccisa, palpitava e fumava ancora. Così discorrasi della Spagna. Or l’una e l’altra sono immobili e gelate, e nel pieno dominio della morte.

Egli è costante, ed io in molti luoghi l’ho sostenuto, che crescendo le cose, la lingua sempre si accresce e vegeta. Ma appunto per la stessa ragione, arrestandosi e mancando la vita, si ferma e impoverisce e quasi muore la lingua, com’è avvenuto infatti dal 600 in qua agli spagnuoli ed a noi, le cui lingue di ricchissime e potentissime che furono, si sono andate e si vanno di mano in mano continuatamente scemando, restringendo e impoverendo, e sempre più s’impoveriscono e perdono il loro esser proprio, e le ricchezze lor convenienti, cioè le proprie, perchè le altrui ch’esse acquistano, molto incapaci d’altronde di compensare le loro perdite, non sono di un genere che si convenga alla natura loro. Veramente le dette lingue vanno morendo. Perchè in fatti la Spagna e l’Italia, dal 600 in qua, e negli ultimi tempi massimamente, non ebbero e non hanno più vita, non solo nazionale, ch’elle già non sono nazioni, ma neanche privata. Senz’attività, senza industria, senza spirito di letteratura, d’arti ec. senza spirito nè uso di società, la vita degli spagnuoli e degl’italiani si riduce a una routine d’inazione, d’ozio, d’usanze vecchie e stabilite, di spettacoli e feste regolate dal Calendario, di abitudini ec. Mai niuna novità fra loro nè nel pubblico nè nel privato, di sorta nessuna che dimostri in alcun modo la vita. Tutto quello ch’e’ possono fare si è di ricevere in elemosina un poco di novità sia di cose, sia di costumi, sia di pensieri, e quasi un fiato di falsa ed aliena vita, dagli stranieri. Questi sono che ci muovono quel pochissimo che noi siamo mossi. Se noi non siamo ancora dopo un sì rapido corso del resto d’Europa allo stato e grado in cui era la civiltà umana due o tre secoli addietro, (e gli spagnuoli vi sono quasi ancora, e noi siam pure addietro delle altre nazioni), son gli stranieri soli che ci hanno portati avanti. Noi non abbiam fatto un passo nella carriera, nè abbiamo nulla contribuito all’avanzamento degli altri, come gli altri hanno fatto ciascuno per la sua parte. Noi non abbiam camminato, noi siamo stati trasportati e spinti. Noi siamo e fummo affatto passivi. Quindi è ben naturale che noi siam passivi nella lingua eziandio, la quale segue sempre e corrisponde perfettamente alle cose. Noi abbiam pochissima conversazione, ma questa pochissima è straniera; conversazione italiana non esiste; quindi è ben naturale che la conversazione d’Italia non sia fatta in lingua italiana, e tutto ciò che ad essa appartiene, e questo è moltissimo, e di generi assai moltiplice, e coerente con molte parti della vita, costumi, letteratura ec. sia espresso in voci straniere, e non abbia in italiano parole nè modi che lo significhino. Noi non possiamo avere lingua propria moderna perchè oggi non viviamo in noi, ma quanto viviamo è in altri, e per altrui mezzo, e di vita altrui, ed anima e spirito e fuoco non nostro. Poichè la vita ci vien d’altronde, è ben naturale che di fuori e non altrimenti, ci venga la lingua che in questa vita usiamo. E così dico della letteratura. E quel che dico dell’Italia, dico altresì della Spagna, la quale però, dal 600 in poi (come anche al suo buon tempo), vive e ha vissuto men dell’Italia, non per altro se non perchè meno communicando cogli stranieri, men vita ha ricevuto di fuori, non che per se stessa ell’abbia avuto molto men vita di noi, e forse anche per suo carattere è meno atta a tal comunione, e a ricevere la vita altrui. E quindi la sua lingua e letteratura, isterilendosi, decrescendo, scemando, perdendo e riducendosi a nulla quanto la nostra ha fatto, si è forse contuttociò meno imbarbarita ec. della nostra: che non so se si debba contare per maggior male o bene ec. (10-11. Nov. 1823.).

A quello che altrove ho detto del latino diminutivo positivato sella, aggiungi il francese selle, col suo diminutivo sellette, ec. e v. gli spagnuoli ec. (11. Nov. 1823.).

Accade nelle lingue come nella vita e ne’ costumi; e nel parlare come nell’operare, e trattare con gli uomini (e questa non è similitudine, ma conseguenza). Nei tempi e nelle nazioni dove la singolarità dell’operare, de’ costumi ec. non è tollerata, è ridicola ec. lo è similmente anche quella del favellare. E a proporzione che la diversità dall’ordinario, maggiore o minore, si tollera o piace, ovvero non piace, non si tollera, è ridicola ec. più o meno; maggiore o minore o niuna diversità piace, dispiace, si tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo ora il comparare a questo proposito le lingue antiche colle moderne, e il considerare come corrispondentemente alla diversa natura dello stato e costume delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e società umana antica e moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più ardite delle moderne, e sia proprio delle lingue antiche l’ardire, e quindi esse sieno molto più delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocchè tra gli antichi, dove e quando più, dove e quando meno, ηὐδοκίμει la singolarità dell’opere, delle maniere, de’ costumi, de’ caratteri, degl’istituti delle persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion francese, che di tutte l’altre sì antiche sì moderne, è quella che meno approva, ammette e comporta, anzi che più riprende ed odia e rigetta e vieta, non pur la singolarità, ma la nonconformità dell’operare e del conversare nella vita civile, de’ caratteri delle persone ec.; la nazion francese, dico, lasciando le altre cose a ciò appartenenti, della sua lingua e del suo stile; manca affatto di lingua poetica, e non può per sua natura averne, perocchè ella deve naturalmente inimicare e odiare, ed odia infatti, come la singolarità delle azioni ec. così la singolarità del favellare e scrivere. Ora il parlar poetico è per sua natura diverso dal parlare ordinario. Dunque esso ripugna per sua natura alla natura della società e della nazione francese. E di fatti la lingua francese è incapace, non solo di quel peregrino che nasce dall’uso di voci, modi, significati tratti da altre lingue, o dalla sua medesima antichità, anche pochissimo remota, ma eziandio di quel peregrino e quindi di quella eleganza che nasce dall’uso non delle voci e frasi sue moderne e comuni, cioè di metafore non trite, di figure, sia di sentenza, sia massimamente di dizione, di ardiri di ogni sorta, anche di quelli che non pur nelle lingue antiche, ma in altre moderne, come p. e. nell’italiana, sarebbero rispettivamente de’ più leggeri, de’ più comuni, e talvolta neppure ardiri. Questa incapacità si attribuisce alla lingua; ella in verità è della lingua, ma è ancora della nazione, e non per altro è in quella, se non perch’ella è in questa. Al contrario la nazion tedesca, che da una parte per la sua divisione e costituzion politica, dall’altra pel carattere naturale de’ suoi individui, pe’ lor costumi, usi ec. per lo stato presente della lor civiltà, che siccome assai recente, non è in generale così avanzata come in altri luoghi, e finalmente per la rigidità del clima che le rende naturalmente propria la vita casalinga, e l’abitudine di questa, è forse di tutte le moderne nazioni civili la meno atta e abituata alla società personale ed effettiva; sopportando perciò facilmente ed anche approvando e celebrando, non pur la difformità, ma la singolarità delle azioni, costumi, caratteri, modi ec. delle persone (la qual singolarità appo loro non ha pochi nè leggeri esempi di fatto, anche in città e corpi interi, come in quello de’ fratelli moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità non hanno punto del moderno, e parrebbero impossibili a’ tempi nostri, ed impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed ammette e loda ec. una grandissima singolarità d’ogni genere nel parlare e nello scrivere, ed ha la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita per sua natura di tutte le moderne colte, e pari in questo eziandio alla più ardita delle antiche. La qual lingua tedesca per conseguenza è poetichissima e capace e ricca d’ogni varietà ec. (11. Nov. 1823.).

Il pellegrino e l’elegante che nasce dall’introdurre nelle nostre lingue voci, modi, e significati tolti dal latino, è quasi della stessa natura ed effetto con quello che nasce dall’uso delle nostre proprie voci, modi e significati antichi, o passati dall’uso quotidiano, volgare, parlato ec. Perocchè siccome queste, così quelle (e talor più delle seconde, che siccome erano, così conservano talvolta del barbaro della loro origine o dell’incolto di que’ tempi che le usarono ec.) hanno sempre (quando sieno convenientemente scelte, ed atte alle lingue ove si vogliono introdurre) del proprio e del nazionale, quando anche non sieno mai per l’addietro state parlate nè scritte in quella tal lingua. E ciò è ben naturale, perocch’esse son proprie di una lingua da cui le nostre sono nate ed uscite, e del cui sangue e delle cui ossa queste sono formate. Onde queste tali voci ec. spettano in certo modo all’antichità delle nostre lingue, e riescono in queste quasi come lor proprie voci antiche. Sicchè non è senza ragione verissima, se biasimando l’uso o introduzione di voci ec. tolte dall’altre lingue, sieno antiche sieno moderne, (eccetto le voci ec. già naturalizzate) lodiamo quella delle voci ec. latine. Perocchè quelle a differenza di queste, sono come di sangue, così di aspetto e di effetto straniero, e diverso da quello delle altre nostre voci, e delle nostre lingue in genere, e del loro carattere ec. La novità tolta prudentemente dal latino, benchè novità assolutissima in fatto, è per le nostre lingue piuttosto restituzione dell’antichità che novità, piuttosto peregrino che nuovo; e veramente (anche quando non sia troppo prudente nè lodevole) ha più dell’arcaismo che del neologismo. Al contrario dell’altre novità, e degli altri stranierismi ec. E per queste ragioni, oltre l’altre, è ancor ragionevole e consentaneo che la lingua francese sia, com’è, infinitamente men disposta ad arricchirsi di novità tolta dal latino, che nol son le lingue sorelle. Perocchè essa lingua è molto più di queste sformata e diversificata dalla sua origine, degenerata, allontanata ec. Onde quel latinismo che a noi sarebbe convenientissimo e facilissimo perchè consanguineo e materno ec. alla lingua francese, tanto mutata dalla sua madre, riescirebbe affatto alieno e straniero e non materno ec. Meglio infatti generalmente riesce e fa prova e si adatta e s’immedesima e par naturale nella lingua francese la novità tolta dall’inglese e dal tedesco (che agl’italiani e spagnuoli sarebbe insopportabile e barbara) che quella dal latino. Questo può vedersi in certo modo anche ne’ cognomi e nomi propri inglesi, tedeschi, ec. che si nominino nel francese. Paiono sovente e gran parte di loro molto men forestieri che tra noi, e men diversi ed alieni da’ nazionali.

Quello ch’io dico della novità tolta dal latino, si può anche dire intorno a quella tolta dalle lingue sorelle, la quale pure noi difendiamo, condannando gli altri stranierismi. Ma bisogna però in questo particolare far distinzione tra quello ch’è proprio delle lingue sorelle in quanto sorelle, e quello ch’è proprio loro in quanto lingue diverse dalla nostra; quello che conviene al carattere generale della famiglia, e quello che al carattere dell’individuo; quello che spetta in certo modo a tutta la famiglia, e che solo per caso si trova esser proprietà e possessione di un solo individuo di essa e non d’altri, o di alcuni sì, d’altro no, e quello che ec.; quello che spetta a quella tal lingua, in quanto ella si confa colla nostra, come che sia, e quello che le appartiene in quanto ella dalla nostra si diversifica; ec. ec. Quello è atto alla nostra lingua, qual ch’esso si sia per origine e per qualunque cosa, e può presso noi parere un arcaismo, ed avere un peregrino non diverso da quello de’ nostri effettivi arcaismi, e servire all’eleganza ec.; questo no, e non parrà che un neologismo ec. e un barbarismo, come se fosse tolto dalle lingue affatto straniere ec. La novità tolta dalle lingue sorelle dev’esser tale che per l’effetto riesca quasi un arcaismo, cioè il pellegrino e l’elegante che ne risulta somigli a quello che nasce dall’uso conveniente dell’arcaismo moderato ec. (11. Nov. 1823.).

Alla p. 3717. marg. V. il Forc. sì ne’ composti di sono, e sì in sono as fine, dalle cose dette nel qual luogo, e in Tono as ui fine, e in Crepo as fine ec. si potrebbe forse dubitare che la cagione dell’anomalia di cui discorriamo in tali verbi della prima, non sia quella che noi supponiamo, ma un’altra, ch’io però, generalmente almeno, non credo[a]

Detonat uit. Intono avi ed ui ec.

[Chiudi]. E certo quest’anomalia non è in pochi della prima, e nella più parte di questi, non si trova vestigio alcuno di terza coniugazione se non nel perfetto ec. e supino. E la desinenza in ui trovasi veramente in molti verbi della 3.a. (p. 3707.) ma ella è anche in essi anomala, e bisognosa essa stessa che se ne renda ragione e se ne assegni l’origine. E chi sa che anzi per lo contrario tali verbi della terza non abbiano ricevuto tali perfetti dalla prima o dalla 2.da cioè si coniugasse una volta p. e. coleo es, in vece o non meno che colo is, e di quello sia il perfetto colui: in luogo di dire che sonui sia di sono is, crepui e crepitum di crepo is ec. Il qual crepo is dev’essere stato supposto da quel grammatico del Forcell. per non essersi ricordato di tanti altri verbi della 1. che fanno in ui itum, come crepo as [b]. (12. Nov. 1823.). Lacesso is, ivi ed ii, itum, ere. Senza dubbio il perfetto e supino di lacessere non è suo, ma in origine è di un lacessio della quarta. Infatti si ha lacessiri. V. Forc. in lacesso princ. Così dite di peto is, ivi ed ii, itum, e s’altri simili ve n’ha. V. p. 3900.

Al detto altrove di tosare, tonsito ec. aggiungi detonso as da detondeo. (12. Nov. 1823.).

Alla p. 3710. I verbi incoativi si formano da’ supini regolari e primitivi, usitati o inusitati, de’ verbi positivi noti o ignoti, cioè da’ supini in atum della prima, etum della 2. itum della 3. ed itum della quarta; mutato il tum in sco. Quindi dalla prima gl’incoativi fanno in asco, dalla 2. in esco, dalla 3. e 4. in isco. Queste sono desinenze caratteristiche e dimostrative della congiugazione del verbo positivo ond’essi incoativi sono formati. E attendendo a queste, non si può sbagliare la coniugazione del rispettivo verbo positivo (se ciò non è tra la 3. e la 4. onde viene una sola desinenza, cioè in isco)[a]

V. p. 3900.

[Chiudi]. E noto il verbo positivo, non si può dubitar della desinenza dell’incoativo. Da’ supini in tum irregolari o contratti ec. e dagli altri irregolari supini in sum, in xum ec. ec. non mi sovviene che si faccia alcuno incoativo. Del rimanente attendendo a questa osservazione, gl’incoativi, non meno che i continuativi, e le altre specie di verbi o voci qualunque derivanti da’ supini, debbono servire a conoscere i veri supini regolari de’ verbi sì in generale sì ne’ casi particolari, e nell’uno e nell’altro modo appoggiano le mie asserzioni circa le vere primitive forme d’essi supini ec. Callisco da calleo è detto, come il Forc. osserva ἀρχαϊκῶς per callesco. Tali varietà di pronunzia ec. non debbono intendersi ostare alla regola da me proposta circa la formazione degl’incoativi. Fors’anche si potrebbe dire che callisco venisse dal non regolare e secondario supino callitum (inusitato) per calletum (inusitato). Dubito infatti che da’ supini in itum della prima e 2.da benchè non regolari o non primitivi ec. pur si faccia qualche incoativo, sebbene niun esempio me ne soccorre, se non fosse il sopraddetto.

Del resto la detta regola porta questo corollario, che non solo gl’incoativi dimostrano i verbi positivi ancorchè ignoti, cosa confermata da me con tante altre prove, ma ne dimostrano eziandio la coniugazione. E che se v’ha un verbo positivo il cui supino regolare e primitivo non sia capace di produrre un incoativo colla desinenza che si trova in quello ch’esiste, questo incoativo (eccetto le differenze di pronunzia o qualche irregolarità come sopra) dimostra un altro verbo positivo diverso da quello che generalmente forse sarà creduto essere il suo originale, o una diversa forma di questo verbo. Per es. fluesco parrà venir da fluo. Ma la desinenza in esco e non in isco (se già non fosse una variazione di pronunzia al contrario di callisco ch’è per callesco, variazione che potrebbe anche avere avuto luogo in vivesco per vivisco; ovvero un error di codici, come è creduto da alcuni quello di scriver vivesco) dimostra un flueo-etum, cioè un verbo diverso da fluo d’altro significato ec. ovvero un’altra forma dello stesso fluo, al qual proposito v. la pag. 3868-9. E vedila ancora per tonesco, se questo non è errore o varietà di pronunzia per tonisco da tonitum di tono is o di tono as ui. Io dico che i verbi in sco regolarmente debbono avere, ed anticamente ebbero, il supino in itum, e il perfetto in sci. Che regolarmente non possano avere se non questi perfetti e supini, è chiaro. Che anticamente l’avessero infatti, sebben questo non è necessario, e la prima proposizione può stare senza questa seconda, e ben poterono i verbi in sco, tutti o alcuni, esser difettivi anche anticamente; pure, almen quanto ad alcuni, si è già dimostrato altrove per quel che tocca al supino. Per ciò che spetta al perfetto gli esempi di fatto ne son più rari. Vero è che i supini dimostrano i perfetti, secondo il detto altrove della formazion di quelli da questi. Ma eziandio un effettivo perfetto in sci vedilo in Callisco appo il Forcell. (12. Nov. 1823.).

Alla p. 3702. Ben è consentaneo che da un tema in eo venisse un supino in etum, conservandosi l’e caratteristica della coniugazione, come s’è detto, p. 3699 fine, circa il perfetto in ei ed evi. E tanto più è consentaneo che il proprio supino della 2.da sia in etum, e questo, lungo, quanto che il suo proprio perfetto è in ei o evi; atteso che i supini si formano dai perfetti, come altrove dimostro. Onde anche viceversa i supini in etum lungo, dimostrano che il proprio perfetto della 2. è in ei o evi, ec. (12. Nov. 1823.). V. p. 3873.

Alla p. 3854. Nondimeno i supini contratti della 2. poterono anche direttamente venire dai rispettivi supini in etum senza passare per la forma in itum, cioè p. e. doctum esser contratto da docetum, non da docitum, soppressa la e, come nei perfetti in ui della stessa coniugazione, cioè p. e. docui ossia docvi, ch’è contrazione di docevi. Onde adultum cioè adoltum, potrebbe benissimo venire da adolevi senza adolui, cioè essere una contrazione immediata di adoletum fatto da adolevi. Anzi siccome per una parte non suole l’e passare in i , dall’altra non veggo ragion sufficiente per cui da’ perfetti in ui sì della seconda sì della prima, si debba fare un supino in itum, io dico che tutti i supini in itum usitati o no della 2. e della 1. vengono bensì da’ perfetti in ui, ma non immediatamente. Da’ perfetti in ui che sono contratti, p. e. domvi da domavi, mervi da merevi, vennero dei supini contratti, cioè domtum, mertum (che noi infatti ancora abbiamo, e i franc. domter ec.), ne’ quali era soppresso l’e e l’a come ne’ perfetti. Da questi supini poi, interpostavi per più dolcezza la lettera i, solita (com’esilissima ch’ella è tra le vocali) sì nel latino sì altrove ad interporsi tra più consonanti, quando non si cerca altro che un appoggio e un riposo momentaneo e passeggero alla pronunzia, riposo fuor di regola e originato ed autorizzato solo dalla comodità della pronunzia, onde quella vocale non ha che far col tema, ed è accidentale affatto, e un semplice affetto e accidente di pronunzia; vennero i supini in itum, come domitum, meritum. Sicchè al contrario di quel ch’io ho detto per lo passato, i supini contratti precederono quelli in itum, e questi vengono da quelli, e li suppongono e dimostrano, ma non viceversa. Sicchè doctum non dimostra nè esige che vi fosse un docitum, bensì meritum un mertum; sectum non dimostra un secitum, bensì domitum un domtum (simile ad emtum ec. onde domter ec.). Bensì i supini contratti, e per conseguenza anche quelli in itum, che ne derivano, suppongono e dimostrano i perfetti in ui. Da’ quali immediatamente e regolarmente vengono i supini contratti, e mediatamente e irregolarmente quelli in itum (specie di pronunzia de’ contratti, e però contratti essi stessi; avendo l’esilissima i e breve, in cambio dell’a o e): e non viceversa, come per l’addietro io diceva. (12. Nov. 1823.). V. p. 3875.

Alla p. 3872. Secondo queste mie osservazioni i temi della seconda avrebbero in tutta la coniugazione conservato l’e. Ed è ben giusto, perocch’ella in essi è radicale. Così l’i penultimo nella quarta, che si conserva in essa coniugazione tutta intera, ne’ verbi regolari[a]

V. p. 3875. fine.

[Chiudi]. Non così l’a nella prima, dove essa lettera non è caratteristica, benchè propria dell’infinito. Infatti manca nel tema, e nel presente ottativo ec. ec. Similmente il penultimo e di legere. Ne’ temi de’ verbi son radicali tutte le lettere eccetto l’ultima, cioè l’o, ch’è la desinenza non del tema in quanto tema, ma in quanto voce presente indicativo singolare prima persona attiva del verbo rispettivo. Or come la prima e la 3. finiscono per lo più in o impuro, esse coniugazioni per se stesse non hanno vocale alcuna che sia radicale generalmente in tutti i temi della coniugazione. Ma ne’ temi della 2. e 4. l’e e l’i penultimi son propri elementi del tema in quanto tema, non in quanto prima persona ec. Dunque come propri e radicali elementi del tema, si debbono conservare in tutta la coniugazione, considerata regolare e non contratta. E la propria forma, in somma, della coniugazione li deve conservar sempre, come la prima e la 3. conserva tutti gli elementi proprii de’ suoi temi, cioè am in amo, leg in lego ec. Li conserva, dico, sempre, se non quando è o irregolare o contratta, il che non ha che far colla sua proprietà, ed è accidente non regola nè natura. E quando ne’ verbi della prima o della terza, benchè in essi non sia costante nè proprio della coniugazione che l’ultima radicale del tema sia una vocale, come lo è nella 2. e 4., quando, dico, questo s’incontra, essa vocale si conserva per tutta la coniugazione del verbo, purch’ella sia regolare giacchè per anomalia spesse volte la sopprime, come in sapio, capio (verbi della 3.) e loro composti desipio, recipio ec. ec. come in meo as, fluo is (benchè non sia primitiva la coniugazione di questo ec.), ruo, tribuo ec. Or dunque perchè l’ultima vocale radicale del tema, che, regolarmente, si conserva in tutta la coniugazione de’ verbi sì della quarta, sì della 1. e 3. quando in queste ha luogo (e se non la vocale si conserva la consonante, quando questa è l’ultima radicale), perchè, dico, non si dee conservare nella seconda? anzi regolarmente e costantemente si dee perdere? e se non si perde, ha da essere irregolarità? Or tutto questo avverrebbe se non si ammettono le nostre osservazioni e regole, secondo le quali la presente forma della coniugazione 2. è contratta e non primitiva. E solo le nostre osservazioni mostrano, ciò, cred’io, per la prima volta, la primitiva analogia della seconda con tutte l’altre nel conservare l’ultima lettera radicale del tema, e le ragioni e i modi per li quali è avvenuto che nella sua presente più usitata forma ella sola, fra tutte, non lo conservi. (13. Nov. 1823.).

Ho detto altrove che patulus sembra diminutivo positivato di un patus. Male. Non tutti i nomi in ulus, nè tutti i verbi in ulare sono diminutivi neppur per origine e regola di formazione: p. e. iaculum da iacio, speculum e specula da specio, vehiculum, curriculum, adminiculum, amiculum da amicio, periculum da πειράω, iaculari, speculari, famulus, famulor ec., retinaculum, miraculum, obstaculum, stimulus, stimulo, stabulum, stabulo, pabulum, poculum, fabula, fabulor ec. (v. la p. 3844.), crepitaculum, sustentaculum, baculum, baculus, osculum, ec. Patulus è di questi, fatto a dirittura da pateo ec. (13. Nov. 1823.). Fors’anche oculus è di questi, contro il detto altrove. V. Forc. ec.

Alla p. 3873. Resta però quello che io per l’addietro ho sempre detto circa i supini della 3. e 4. E la presente correzione non riguarda che la 1. e 2. Lectum cioè legtum è vera contrazione di legitum, è fatto per soppressione dell’i, suppone e dimostra legitum, gli è posteriore, i supini veri e regolari e non contratti della 3. e 4. sono in itum e itum e non altrimenti ec. I contratti della terza e quarta, come lectum, quaestum, sono contrazioni de’ supini in itum e fatti per soppressione dell’esilissima vocale i o i. I supini in itum della 1. e 2. vengono da’ contratti, e son fatti al contrario di quelli per addizione dell’esilissimo suono i (13. Nov. 1823.).

Alla p. 3873. marg. — e non contratti. Come venio is veni. Perde spesso la i, come in venerunt, veneram ec. per venierunt venieram ec. che sarebbe il regolare; o ciò sia anomalia, o contrazione, ch’io piuttosto credo. La qual contrazione ha principio nella stessa prima voce del perfetto veni per venii. Anzi da questa nasce il tutto ec. Così ne’ composti, come invenio ec. e in altri molti verbi. (13. Nov. 1823.). V. p. 3895.

Dico che l’uomo è sempre in istato di pena, perchè sempre desidera invano ec. Quando l’uomo si trova senza quello che positivamente si chiama dolore o dispiacere o cosa simile, la pena inseparabile dal sentimento della vita, gli è quando più, quando meno sensibile, secondo ch’egli è più o meno occupato o distratto da checchessia e massime da quelli che si chiamano piaceri, secondo che per natura o per abito o attualmente egli è più vivo e più sente la vita, ed ha maggior vita abituale o attuale ec. Spesso la detta pena è tale che, per qualunque cagione, e massime perch’ella è continua, e l’uomo v’è assuefatto fino dal primo istante della sua vita, non l’osserva, e non se n’avvede espressamente, ma non però è men vera. Quando l’uom se n’avvede, e ch’ella sia diversa da’ positivi dolori, dispiaceri ec., ora ella ha nome di noia, ora la chiamiamo con altri nomi. Sovente essa pena, che non vien da altro se non dal desiderare invano, e che in questo solo consiste, e che per conseguenza tanto è maggiore e più sensibile quanto il desiderio abitualmente o attualmente è più vivo, sovente, dico, ella è maggiore nell’atto e nel punto medesimo del piacere, che nel tempo della indifferenza e quiete e ozio dell’animo, e mancanza di sensazioni o concezioni ec. passioni ec. determinatamente grate o ingrate; e talvolta maggiore eziandio che nel tempo del positivo dispiacere, o sensazione ingrata sino a un certo segno. Ella è maggiore, perchè maggiore e più vivo in quel tempo è il desiderio, come quello ch’è punto e infiammato dalla presente e attuale apparenza del piacere, a cui l’uomo continuamente sospira; dalla vicina anzi presente, straordinaria e fortissima, e fermissima e vivissima anzi si può dir certa speranza e quasi dal vedersi vicinissima e sotto la mano la felicità, ch’è il suo perpetuo e sovrano fine, senza però poterla afferrare, perocchè il desiderio è ben più vivo allora, ma non più fruttuoso nè più soddisfatto che all’ordinario. Il desiderio del piacere, nel tempo di quello che si chiama piacere è molto più vivo dell’ordinario, più vivo che nel tempo d’indifferenza. Non si può meglio definire l’atto del piacere umano, che chiamandolo un accrescimento del naturale e continuo desiderio del piacere, tanto maggiore accrescimento quanto quel preteso e falso piacere è più vivo, quella sembianza è sembianza di piacer maggiore. L’uomo desidera allora la felicità più che nel tempo d’indifferenza ec. e con assolutamente eguale inutilità. Dunque il desiderio essendo più vivo da un lato, ed egualmente vano dall’altro, la pena compagna naturale del sentimento della vita, la qual nasce appunto e consiste in questo desiderio di felicità e quindi di piacere, dev’esser maggiore e più sensibile nell’atto del piacere (così detto) che all’ordinario. Essa lo è infatti (se non quando e quanto la sensazione piacevole, o l’immaginazione piacevole, o quella qualunque cosa in cui consiste e da cui nasce il così detto piacere, serve e debb’esser considerata come una distrazione e una forte occupazione ec. dell’animo, dell’amor proprio, della vita e dello stesso desiderio; e questo è il migliore e più veramente piacevole effetto del piacere umano o animale; occupare l’animo, e, non soddisfare il desiderio ch’è impossibile, ma per una parte, e in certo modo, quasi distrarlo, e riempiergli quasi la gola, come la focaccia di Cerbero insaziabile). E l’uomo, che in uno stato ordinario bene spesso, anzi forse il più del tempo, appena si avvede di detta pena, nell’atto del piacere, se ne avvede sempre o quasi sempre, ma non sempre l’osserva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l’attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi nè in quel punto, nè mai, o ch’ei rifletta sul suo stato d’allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec. rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle universali e grandi verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec. (13. Nov. 1823.).

Alla p. 3639. marg. Esseri più forti dell’uomo; ecco i primi Dei adorati dagli uomini, o da loro riconosciuti e immaginati e considerati per tali; ecco la prima idea della divinità. E come i più forti per lo più anzi, naturalmente e primitivamente, sempre si prevalgono di questo, come di ogni altro, vantaggio, in loro proprio bene, e quindi sovente in danno de’ più deboli, e però essi sono, appunto in quanto più forti, malefici e formidabili ai più deboli; e come gli stessi individui umani, massime nella società primitiva e selvaggia (che fu quella in cui nacque l’idea della Divinità) così ne usavano e ne usano verso i più deboli per qualunque lato, sì loro simili, sì d’altre specie; quindi nell’idea primitiva della Divinità che consisteva nella maggior forza e soprumana, dovette necessariamente entrare l’idea della maleficenza e della terribilità, naturali effetti e conseguenze e compagne della maggior forza. Anche gli uomini ch’erano o erano stati straordinariamente superiori e più forti degli altri, sia di forza corporale, sia di quella che nasce da qualunqu’altro vantaggio, ancorchè malefici, temuti e odiati, furono non di rado nelle società primitive, e lo sono forse ancora nelle selvagge, divinizzati sì nell’idea, sì talora nel culto, vivi o morti; e questo si può anche riconoscere presso i critici che indagano le origini della stessa mitologia greca, men feroce e terribile e odiosa, anzi più molle ed umana e ridente e amena e vaga e graziosa ed amabile di tutte l’altre ec. (13. Nov. 1823.).

Alla p. 3715. Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell’è noia, in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che l’avvicinano all’infelicità così chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli alla noia. Ella infatti, benchè del genere stesso, è più passione è più penosa, che la noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale perch’ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai senza un’attuale, ancorchè indeterminata passione[a]

Se non in quanto essi sono più capaci di occupazione e distrazion forte dell’animo, e quando essi si trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentem. che agli altri p. molte ragioni) del che vedi la pag. 3878. principio.

[Chiudi], più viva d’essa noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di felicità e di piacere, ugualmente vano che nell’altre età, è molto più vivo, generalmente parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benchè privi di piacere e dispiacere, sono ancora similmente quegli stati dell’individuo, di cui ho detto p. 3835-6. 3876-8. e simili. Altresì lo stato di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benchè privo anche questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere ch’io abbia riguardo quando affermo che la noia corre immancabilmente e immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec. e che l’assenza dell’uno e dell’altro è noia per sua natura, e che mancando essi, v’è la noia necessariamente, e che posta tal mancanza è posta la noia ec. come alle p. 3713-5. (13. Nov. 1823.).

Come fra gli antichi le cose e funzioni sacre fossero in mano de’ profani ec. del che altrove, vedi la Polit. di Aristotele, l. 6. fine, Florent. 1576. p. 543. massime in fine, e quivi il Vettori. (14. Nov. 1823.).

Monosillabi latini. Pluo, secondo le nostre osservazioni sulla monosillabia antica e volgare di tali dittonghi (come uo) non riconosciuti da’ grammatici. (14. Nov. 1823.). V. il pens. seg.

Alla p. 3850. fine. Buo è andato in disuso restando il composto imbuo. Se però imbuo è da in e buo (v. Forc.) e non piuttosto corruzione e pronunzia d’imbibo (che pur sussiste) pronunziato imbivo (imbevere, imbevo che vale appunto imbuo, ed è certo da bibo, e v. i francesi e spagnuoli) — imbiuo — imbuo, come lavo ne’ composti e nel greco è luo, e per lo contrario da pluere noi facciamo piovere, llover ec. E mille esempi in questi propositi si potrebbero addurre[a]

Puoi vedere la p. 3885.

[Chiudi]. Così exbuae sarebbe corruzione o pronunziazione di exbibae, vinibuae di vinibibae, fors’anche bua (bumba) di biba. Di tali cangiamenti nati dall’affinità ec. tra il v e l’u, ho detto altrove. Ovvero Imbuo può esser fatto direttamente da in e da bua (bevanda), sia che questa voce sia alterazione di biba, o che sia un antico monosillabo significante bevanda, restato poi solo per usi puerili, sia anche in origine una voce puerile. (14. Nov. 1823.).

Il vino, il cibo ec. dà talvolta una straordinaria prontezza vivacità, rapidità, facilità, fecondità d’idee, di ragionare, d’immaginare, di motti, d’arguzie, sali, risposte ec. vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità, verità astruse, tenacità e continuità ed esattezza di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall’uno all’altro senza perderne il filo ec. volubilità somma di mente ec. Questo secondo le condizioni particolari delle persone, ed anche le loro circostanze sì attuali in quel punto, sì abituali in quel tempo, sì abituali nel resto della vita ec. Ma quello accrescimento di facoltà prodotto dal vino, ec. è indipendente per se stesso dall’assuefazione. E gli uomini più stupidi di natura, d’abito ec. divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi ec. V. p. 3886. Questo si applichi alle mie osservazioni dimostranti che il talento e le facoltà dell’animo ec. essendo in gran parte cosa fisica, e influita dalle cose fisiche ec. la diversità de’ talenti in gran parte è innata, e sussiste anche indipendentemente dalla diversità delle assuefazioni, esercizi, circostanze, coltura ec. (14. Nov. 1823.).

Alla p. 3801. Sì nelle nazioni barbare o selvagge sì nelle civili, sì nelle corrotte ec. la società ha prodotto infiniti o costumi o casi fatti ec. particolari, volontari o involontarii ec. che o niuno può negare esser contro la natura sì generale, sì nostra, contro il ben essere della specie, della società stessa ec. contro il ben essere eziandio delle altre creature che da noi dipendono ec.; ovvero se ciò si nega, ciò non viene che dall’assuefazione, e dall’esser quei costumi ec. nostri propri: onde dando noi del barbaro ai costumi e fatti d’altre nazioni e individui, ec. meno snaturati talora de’ nostri, non lo diamo a questi ec. E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch’è diverso dalle nostre assuefazioni ec. non quel ch’è contro natura, in quanto e perciocch’egli è contro natura. Ma tornando al proposito, tali costumi o fatti snaturatissimi che senza la società non avrebbero mai avuto luogo, nè esempio alcuno in veruna delle specie dell’orbe terracqueo, hanno avuto ed hanno ed avranno sempre luogo in qualsivoglia società, selvaggia, civile, civilissima, barbara, dove e quando gli uni, quando gli altri, ma da per tutto cose snaturatissime. Il che vuol dire che la società gli ha prodotti, e che non potea e non può non produrli, cioè non produr costumi e fatti snaturati, e se non tali, tali, e se non questi, quelli, ma sempre ec. P. e. Il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali dell’esistenza, ai principii, alle basi dell’essere di tutte le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla società? ec. ec. V. p. 3894. Ora in niuna specie d’animali, neanche la più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avessero luogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturati come quelli degl’individui e popoli umani in qualunque società, ma molto meno. Eccetto solo qualche accidentalissimo disordine, o involontario, e quindi da non attribuirsi alla specie, o volontario, ma di volontà determinata da qualche straordinarissima circostanza e casualissima. E la somma di questi casi non sarà neppure in una intera specie, contando dal principio del mondo, comparabile a quella de’ casi di tal natura in una sola popolazione di uomini dentro un secolo, anzi talora dentro un anno. Questo prova bene che la naturale società ch’è tra gli animali non è causa di cose contrarie a natura per se medesima e necessariamente, ma per solo accidente, e il contrario circa la società umana. E si conferma che l’uomo è per natura molto men disposto a società che moltissimi altri animali ec. (14. Nov. 1823.).

Les Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette langue d’ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air male et de l’énergie lorsqu’elle était maniée par cet habile poëte. Così scriveva il principe reale di Prussia, poi Federico II alla marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9. Nov. 1738. ( Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16. Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5.e p. 307.) E nóto queste parole perchè si veda l’esattezza del giudizio degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione ch’essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del Tasso, ch’è un fatto, e che poco si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del vero? Federico dice del Tasso quel ch’è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell’Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. V. p. 3900. (14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de’ frugoniani, degli arcadici de’ nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero nè seppero l’italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni rimprovero e controversia. (15. Nov. 1823.). V. p. 3949.

Alla p. 3706. Se però, come dubito, fuvi per fui non è un raddoppiamento dell’u, fatto per proprietà di pronunzia, della qual proprietà in questo e simili casi v’hanno molti altri esempi ec. (v. la pag. 3881. ec.). Il qual raddoppiamento bensì può avere avuto luogo e occasione dal voler evitare l’iato, ma in modo che ad evitarlo sia stato interposto il v, non in quanto semplicemente atto e solito ad interporsi tra le vocali ianti, ma in quanto l’una e la più sonante di queste nel nostro caso era l’u, cioè appunto un altro v, secondo il detto altrove circa la medesimezza di queste lettere u e v presso i latini massimamente. I quali non usavano che un carattere per esprimer l’una e l’altra, cioè anticamente e nel maiuscolo il V, più recentemente e nel semimaiuscolo o unciale, o forse in quello ch’era allora, o anche anticamente, il corsivo e l’usuale, sia tutt’uno coll’unciale, sia diverso, ec. l’u, come ne’ palimpsesti vaticani, ambrogiani, sangallesi, veronesi ec. (15. Nov. 1823.).

Alla p. 3588. marg. Di ciò che io, sapendo essere vostro servitio, senza altri vostri commandamenti era tenuto di fare. Cioè senz’alcun vostro comandamento, di proprio moto . Bernardo Tasso Lettere. Venetia 1603. appresso Lucio Spineda. Libro primo car.27. pag. 2. in 8.vo piccolo. (17. Nov. 1823.).

Altrove osservo che il cul de’ latini si cangia assai sovente nell’italiano in chi o cchi (o-cu-lus, o-cchi-o) o gli (pe-ri-cul-um, peri-gli-o), nello spagnuolo in i (o-cu-lus, o-j-o) nel francese in ill o il o eil o eill o ail o aill ec. (péril, abeille, vermeil, ouaille, o-cul-us, o-eil ec.). Nótisi che tali cangiamenti non sono certo direttamente stati fatti da cul, ma da cl contratto nella volgar pronunzia latina, come si vede anche non di rado nel latino illustre e scritto, massime appo i poeti; come seclum, periclum ec. (17. Nov. 1823.).

Saltuaris, saltuarius, saltuatim, saltuensis, saltuosus da saltus us. (17. Nov. 1823.).

Salitio voce di Vegezio dimostra l’antico supino salitum di salio pel contratto irregolare, ma solo superstite, saltum, da cui si farebbe saltio, non salitio, giacchè tali verbali son fatti da’ supini o seguono la forma del supino (17. Nov. 1823.).

Alla p. 3882. E quelli che per l’ordinario non dimostrano ingegno nè talento se non per le cose gravi e serie, allora lo dimostrano non di rado notabilissimo per lo scherzo ec. E gli uomini di talento profondo ec. ma scarsissimi o alienissimi da quello che si chiama spirito, e fors’anche tutto l’opposto che spiritosi; tardi, bisognosi di molto tempo a concepire a inventare ec. freddi, secchi ec. allor divengono spiritosissimi, prontissimi ec. E gli uomini d’ingegno riflessivo o simile, ma non inventivo non immaginoso ec. allor dimostrano e veramente acquistano per quel poco di tempo una notabile facoltà d’invenzione, immaginazione ec. ec. E così discorrendo sulle diversità dei talenti ec. (17. Nov. 1823.).

Alla p. 3856. L’Italia produsse nel 500 ec. molti capitani illustri, come il Trivulzio, il Montecuccoli ec. sia che questi servissero alle loro rispettive nazioni italiane, o ad altra nazione italiana diversa dalla propria, come la Repubblica di Venezia spesso conduceva Generali italiani d’altri stati, a comandar le sue forze di terra o di mare; o a principi stranieri, i quali in quel tempo si servirono spessissimo di Generali e uffiziali italiani pel governo de’ loro eserciti, conducendoli, anche con grossi partiti, al loro servizio. Del che è curiosa a leggere un’osservazioncella di Bernardo Tasso, Lettere citate qui dietro (p. 3885. fine), lib.1. car.29. e tutta quella lettera. Similmente dico de’ politici e ministri ec. italiani, e negoziatori italiani ec. di quel secolo, e anche de’ seguenti, fino agli ultimi tempi, in cui siamo veramente arrivati all’estremo della nullità politica, e passività, ed incapacità di ogni sorta di operazione, o certo totale inazione di fatto, sì in casa sì fuori. Come il Mazarino, l’Alberoni, il Bentivoglio, ed anche il Lucchesini ec. Il dominio della religione ai tempi passati, e fino alla rivoluzione, (benchè sempre decrescente, ma non estinto fino ad essa rivoluzione) ma specialmente prima del 600, e per conseguenza il credito, l’influenza, e l’importanza del Papa e della Corte di Roma, contribuirono grandemente, e forse, massime in certi tempi, principalmente, a tener l’Italia in azione, a darle campo di esercitarsi nella politica e negli affari, materia e modo di negoziare, importanza e peso, negoziatori, diplomatici, politici, uomini che ebbero parte attiva negli avvenimenti e ne’ destini d’Europa, e i cui nomi divennero propri della storia. Sia nelle materie strettamente religiose, che allora erano strettamente legate colle politiche, e di grande importanza temporale, sia nelle materie anche puramente politiche, gl’italiani ebbero allora dalla religione grandi e continue opportunità occasioni e necessità di agire e di pensare. Quanta politica ec. non fu dovuta mettere in opera dagl’italiani nel Concilio di Trento e in tutti gli affari del Luteranismo, Calvinismo ec. Grandi negoziazioni e trattative e maneggi e grandi e gravi affari furono allora operati dagl’italiani, o da una Corte italiana, qual era quella del Papa, e da membri che ad una corte italiana appartenevano; e tra questi brillarono non pochi politici ec. Cardinali e nunzi e prelati e Vescovi ec. potenti appo i forestieri ec. Negoziazioni ec. degli stranieri appo noi, che conservavano l’uso e l’esercizio della politica e degli affari in casa nostra ec. ec. Questa causa di azione e di qualche vita per l’Italia non si ristringeva ne’ suoi effetti alla sola politica, diplomatica, affari pubblici. Naturalmente i suoi effetti si stendevano a tutte le parti della società e del civile consorzio. V’era una vita in Italia. Or dunque tutte le parti della nazione e della società ne partecipavano, come suole accadere. Quindi lo splendor delle arti, le grandi imprese di edifizi ec. massime in Roma, sede della più importante politica italiana ec. la chiesa di S. Pietro, le scolture, le pitture, le poesie, le orazioni, le storie, il secolo di Leon X, la industria, il commercio ec. Massime nel 500. ma dipoi ancora, fino alla rivoluzione, Roma riunendo e ponendo in azione gli spiriti di conto sì propri, sì italiani, sì forestieri, e dando materia agl’ingegni di svilupparsi, e occasione ai già sviluppati di concorrere ad essa e quivi esercitarsi, stante l’esser sede d’importanti affari; ebbe spirito di società, e conversazioni ec. sempre decrescenti, fino ad estinguersi, ma pur non estinte affatto fino agli ultimi anni. ec. ec. (17. Nov. 1823.).

Come altrove ho dimostrato, il solo perfetto stato di una società umana stretta, si è quello di perfetta unità, cioè d’assoluta monarchia, quando il monarca viva e governi e sia monarca pel ben essere de’ suggetti, secondo lo spirito la ragione e l’essenza della vera monarchia, e secondo che accadeva in principio. Ma quando l’effetto della monarchia si riduca in somma a questo, che un solo nella nazione, viva, e tutti gli altri non vivano se non se in un solo e per un solo, e i suggetti servano unicamente al ben essere del monarca, in vece che questo a quelli, e che l’effetto e la sostanza dell’unità della nazione sia questo, che quanto essa unità è più perfetta, tanto la vita e il ben essere più si ristringa in un solo, o almeno lo spirito d’essa unità e il proposito della costituzion nazionale miri in effetto a questo fine; allora è certamente meglio qualsivoglia altro stato; perocchè senza la perfetta unità, gli uomini in società stretta non possono veramente godere del perfetto ben esser sociale, nè la nazione è capace di perfetta vita; ma egli è peggio non vivere e non essere (or la nazione sotto una tal monarchia, non è) che non vivere perfettamente e non essere perfetta. Or, come ho altresì provato altrove, non può assolutamente accadere che l’assoluta monarchia non cada nel detto stato, nè che conservi il suo stato vero per alcuna cagione intrinseca ed essenziale, e per altro che per caso, il quale è straordinariamente difficile che abbia luogo, e mille cagioni intrinseche ed essenziali alla monarchia assoluta considerata rispettivamente alla natura dell’uomo, si oppongono positivamente alla detta conservazione ec. (17. Nov. 1823.).

Σχεδὸν μὲν οὖν καὶ τὰ ἄλλα δεῖ νομίζειν εὑρῆσθαι πολλάκις ἐν τῷ πολλῷ χρόνῳ, μᾶλλον δὲ ἀπειράκις• τὰ μὲν γὰρ ἀναγκαῖα τὴν χρείαν διδάσκειν εἰκὸς αὐτήν, τὰ δὲ εἰς εὐσχημοσύνην καὶ περιουσίαν (Victor. splendorem et ubertatem), ὑπαρχόντων ἤδη τούτων (scil. τῶν ἀναγκαίων), εὔλογον λαμβάνειν τὴν αὔξησιν. Ὥστε καὶ τὰ περὶ τὰς πολιτείας οἴεσθαι δεῖ ἔχειν τὸν τρόπον τοῦτον. Ὅτι δὲ πάντα ἀρχαῖα, σημεῖον τὰ περὶ αἴγυπτον ἐστίν• οὗτοι γὰρ ἀρχαιότατοι μὲν δοκοῦσιν εἷναι, νόμων δὲ τετυχήκασι καὶ τάξεως πολιτικῆς. Διὸ δεῖ τοῖς μὲν εἰρημένοις ἱκανῶς, χρῆσθαι, τὰ δὲ παραλελειμμένα πειρᾶσθαι ζητεῖν.. Aristot. Polit. l. 7. Florent. 1576. p. 593. ( iis quae tradita sunt ita ut satis esse possint. Victor.) (18. Nov. 1823.).

Quelli che ci dicono che le cose di questa vita, la gloria, le ricchezze e l’altre illusioni umane, beni o mali ec. nulla importano, convien che ci mostrino delle altre cose le quali importino veramente. Finchè non faranno questo, noi, malgrado i loro argomenti, e la nostra esperienza, ci attaccheremo sempre alle cose che non importano, perciò appunto che nulla importa, e quindi nulla è che meriti più di loro il nostro attaccamento e sia più degno di occuparci. E così facendo, avrem sempre ragione, anche, anzi appunto, parlando filosoficamente. (18. Nov. 1823.).

Il carattere ec. ec. degli uomini è vario, e riceve notabili differenze non solo da clima a clima, ma eziandio da paese a paese, da territorio a territorio, da miglio a miglio; non parlando che delle sole differenze naturali. Ne’ luoghi d’aria sottile, gl’ingegni sogliono esser maggiori e più svegliati e capaci, e particolarmente più acuti e più portati e disposti alla furberia. I più furbi per abito e i più ingegnosi per natura di tutti gl’italiani, sono i marchegiani: il che senza dubbio ha relazione colla sottigliezza ec. della loro aria. Similmente gl’italiani in generale a paragone delle altre nazioni. Mettendo il piede ne’ termini della Marca si riconosce visibilmente una fisonomia più viva, più animata, uno sguardo più penetrante e più arguto che non è quello de’ convicini, nè de’ romani stessi che pur vivono nella società e nell’uso di una gran capitale. Così discorrasi delle altre differenze ec. Gli abitatori de’ monti differiscono notabilmente, se non di corpo, certo di spirito, carattere, inclinazione ec. da quelli degli stessi piani e valli lor sottoposte; i littorani da’ mediterranei lor confinanti ec. ec. anche parlando delle sole differenze cagionate dalle diversità naturali de’ luoghi ec. Infinito è il numero delle cagioni anche semplicemente naturali che producono differenze tra gli uomini, e queste, benchè or maggiori or minori, sempre notabili, e più notabili assai che in niun’altra specie di viventi, a causa dell’estrema conformabilità e modificabilità dell’uomo, e quindi suscettibilità di essere influito dalle cagioni anche menome di varietà, di alterazione ec. che in altri esseri o non producono niuna varietà, o piccolissima ec. Le dette cagioni di varietà s’incrociano per così dir tra loro, perchè il calor del clima produce un effetto, la grossezza dell’aria un altro contrario, e ambedue le dette cagioni s’incontrano bene spesso insieme; e così discorrendo. Esse si temperano, si modificano, si alterano, si diversificano, s’indeboliscono, si rinforzano scambievolmente in mille guise secondo le infinite diversità loro, e de’ loro gradi, e delle loro combinazioni scambievoli ec. ec. e altrettante diversità, cioè infinite, e diversità di diversità, e tutte notabili, ne seguono ne’ caratteri degli uomini. Queste osservazioni si applichino a quelle della p. 3806-10. e a quelle sopra le differenze vere, cioè naturali, de’ talenti, o innate, o acquisite e contratte naturalmente, e per cause e circostanze semplicemente naturali e indipendenti nell’esser loro dalle sociali, dagli avvenimenti ec. e che avrebbero operato ed operano per se stesse proporzionatamente anche negli uomini primitivi, ne’ selvaggi ec. che operano ancora, benchè infinitamente meno, negli animali, piante ec. ec. a proporzione, e secondo la loro suscettibilità, e la qualità e il grado e le combinazioni ec. d’esse cause e circostanze ec. ec. (18. Nov. 823.).

Tio spagn. Zio ital. θεῖος grec. (19. Nov. 1823.).

A proposito del danno recato al valore dall’invenzione delle armi da fuoco, vedi il detto di Archidamo appresso il Vettori ad Aristot. Polit. l. 7. Florent. 1576. p. 602. il qual detto è riportato da Senofonte, s’io non m’inganno, nell’Agesilao, ed attribuito forse a costui; ovvero nella Repubbl. de’ Lacedemonii. Oltre le invettive dell’Ariosto contro l’armi da fuoco in uno de’ dieci primi Canti del Furioso, a proposito di Cimosco ec. (19. Nov. 1823.).

Gli Americani consideravano per mostruosità la barba negli europei perocchè quei popoli naturalmente erano sbarbati, come i mori e altri popoli d’Affrica ec. Si applichi alle osservazioni sul bello. Solìs, Hist. de Mexico ; De Cieça Chron. del Peru , ec. (19. Nov. 1823.).

Diminutivi positivati. Gesticulor [a]

Questo però, se non viene da gesticulus (ch’è voce moderna e solo di Tertulliano) può esser piuttosto frequentativo che diminut. o un misto dell’uno e dell’altro, come tanti nostri verbi italiani, di cui altrove ex professo.

[Chiudi], ec. Vedi il Forcellini. Franc. gesticuler. Noi ancora volgarmente gesticolare. Vedi l’Alberti. ec. (19. Nov. 1823.). Corbeau da corvus.

Gero-gestum, gesto, gestito. (19. Nov. 1823.).

Alla p. 3883. La superstizione sia speculativa sia pratica è figlia della società, ed inseparabile da essa società quanto si voglia civile come dimostrano tutte le istorie. Anzi par ch’ella, a differenza di tanti altri incomodi e barbarie della società primitiva, cresca a proporzione della civiltà; e certo si son trovati e trovano alcuni popoli selvaggi senza superstizione alcuna, almeno efficace e che influisca sulla vita in niun modo, e che sia causa di veruna infelicità esteriore nè interiore; ma niun popolo civile si trovò mai nè si trova nè troverassi in cui la superstizione più o manco, e in uno o altro modo, non regni, per civilissimo ch’ei si fosse, o si sia, o che sia per essere[b]

Puoi vedere le Lettere di Federico II. e d’Alembert, Lett. 49. p. 125. seg. paragonandola colla lett. 45. p. 117. e lettera 47. p. 120. fine-121. e lett. 53. p. 135. fin e lett. 70. p. 185. fine.

[Chiudi]. Or di quanti e quanto gran mali sia stata e sia causa la superstizione per sua natura sì a’ popoli sì agl’individui, sì verso gli altri sì verso se stessi, travagliandoli sì esternamente sì internamente, per rispetto ai costumi, agl’istituti, alle azioni, alle opinioni ec.; quanti beni e quanto grandi abbia impedito e impedisca per sua natura ec. non accade dilungarsi a mostrarlo, anzi neppure a ricordarlo, essendo già e provato e notissimo. (19. Nov. 1823.). Certo la superstizione non ha luogo negli animali anche i più socievoli. Dunque l’uomo per natura è men sociale che alcun’altra specie ec. V. la p. 3896.

Diminutivi positivati. Faisceau da fascis e per fascis. Similmente fastello, quasi fascettello. Gocciola, gocciolare sgocciolare ec. diminutivi equivalenti ai positivi goccia, gocciare, sgocciare ec. da gutta. Questi diminutivi cioè gocciola (e così frombola di cui p. 3636. marg. benchè fromba non sia nome latino), ec. e simili altri in olo ec. breve, sono alla latina; il che è da notare. (20. Nov. 1823.).

Il sonno e tutto quello che induce il sonno, ec. è per se stesso piacevole, secondo la mia teoria del piacere ec. Non c’è maggior piacere (nè maggior felicità) nella vita, che il non sentirla. (20. Nov. 1823.).

Alla p. 3876. Venio ha già perduto il suo i in veni il cui i non è il radicale, ma quello della terminazione del perfetto, se già esso non comprende ambo gl’i, come negli antichi codici e monumenti si trova assai spesso audi per audii, Tulli per Tullii, anzi regolarmente Tulli e non Tullii ec. del che vedi il Conspectus orthographiae cod. vaticani de republica di Niebuhr. In ogni modo è certo che virtualmente l’i p. e. di Tulli, contiene due i, come il moderno nostro (e latino) j. Del resto, anomalie che faccian perdere l’i radicale ai temi della quarta, sono moltissime. P. e. vincio-vinxi (dove l’i secondo, non è il radicale) sentio-sensi ec. Contrazioni altresì moltissime, come saltum di salio per salitum ec. ec. ec. Audisti audistis ec. sono contrazioni, non, cred’io, di audiistis ec. ma di audivisti, come amasti di amavisti; onde in audisti audistis ec. l’i radicale non sarebbe perduto, ma sola la sillaba interposta, vi. (20. Nov. 1823.).

D’emblée viene evidentemente dal greco ἐμβάλλω. Grecismi del volgare italiano vedine ap. il Vettori Commentar. in Aristot. Polit. Lib. 7. fin. Florent. 1576. p. 646 fin.-647 princip. Il luogo di Aristot. quivi citato è ib. p. 641. fine. (21. Nov. 1823.).

Diminutivi positivati: pocillator da pocillum, invece di dir poculator da poculum, ma collo stesso senso, cioè di οἰνοχόος. (21. Nov. 1823.). Gemellus coi derivati, diminutivo di geminus (come pagella di pagina. Gemello, iumeau, v. gli spagn. Femelle da femella per femina, femme, passato in francese al semplice significato di donna. Così favellare da fabella, in vece e nel senso di fabulare da fabula, del che vedi la p. 3844. (21. Nov. 1823.).

Monosillabi latini. V. Forcell. in Leo es. (21. Nov. 1823.).

Alla p. 3894. marg. La ragione di cui l’uomo solo è provveduto (ossia quel grado di facoltà intellettuale che si chiama ragione, ed a cui il solo intelletto dell’uomo arriva e può arrivare), come per mille parti è utile, per mille necessaria alla società, ed origine e cagione effettiva di essa, così per mille altre parti (come p. e. per la superstizione la qual non sarebbe senza il grado di facoltà mentale che noi abbiamo, e che le bestie non hanno, e per cento mila altri effetti) è di sua natura nocevole e anche direttamente contraria alla società degli uomini, e al lor ben essere e lor perfezione nello stato sociale ec. ec. Parlo qui di quella facoltà di ragione che l’uomo ha per natura, anche nello stato primitivo, e dico che questa medesima dimostra che l’uomo per natura è men disposto a società che gli altri animali, benchè per altra parte ella sembri invitta e principalissima prova del contrario ec. ec. (21. Nov. 1823.).

La negativa francese ne è l’antichissima de’ latini, i quali dicevano ne e nec per non, come ho discorso in proposito di nihilum parlando della voce silva e della sua origine, e mostrato ancora che ne serviva in composizione di particella privativa, come in greco νη, νε, ν, e per conseguenza sì essa che le dette greche originariamente dovettero certo essere particelle negative, cioè assolutamente servienti alla negazione ec.[a]

Ne quidem p. nec quidem, nequam ec. dove il ne è privativo, ec.

[Chiudi] E v. il Forc. in Ne, Nec ec. e i Lessici greci in νη ec. (22. Nov. 1823.).

Febricito as, viene forse da un febrico as atum, ovvero ui itum (come applico, explico ec. ui itum ec. e simili, di cui altrove) che sarebbe affine a febricosus? (22. Nov. 1823.).

Non solo aggettivi si son fatti da’ participii in us, come altrove più volte, ma spessissimo essi participii son passati in sostantivi, come factum, actum, iussum ec. ec. Onde anche da tali sostantivi si può talora argomentare e de’ veri participii, e dell’esistenza di verbi ignoti, di cui questi sostantivi saranno stati originalmente participii, benchè or non si sappia, ec. ec. (22. Nov. 1823.).

Alla p. 3636. È da notare che quando il positivo de’ diminutivi positivati (come di martello ec.), sieno latini, sieno moderni, latini di origine, o di origine moderna ec., non si trova, o non se ne sa almeno il significato (sia nella stessa lingua, sia nella latina, o nelle altre ec.), allora può essere che questo fosse diverso da quello de’ loro diminutivi noti, o diverso affatto, o diverso in quanto più generale, o appartenente ad una specie di cose dello stesso genere ma pur diversa da quella significata dal diminutivo ec. Onde tali diminutivi non possono con certezza chiamarsi positivati, con tutto che nella loro significazione non si vegga causa nè vestigio alcuno di diminuzione; perocchè positivati si vogliono intendere quei diminutivi che son giunti ad essere usati in vece de’ loro positivi (o coesistenti, o andati in disuso), e per conseguenza nel medesimo senso di questi. E i diminutivi de’ quali io raccolgo gli esempi, han da esser di questo genere, e non altro. (22. Nov. 1823.). V. p. 3945.

Alla p. 3513. Come le donne naturalmente e generalmente parlando (e basta all’effetto, che così sia pernatura) vivono alquanto meno degli uomini, o son destinate ad uno spazio di vita alquanto più breve, ed infatti il loro sviluppo, e la decadenza ed estinzione delle loro facoltà e della giovanezza loro, è certamente più pronto, e la loro carriera fisica generalmente più rapida; così è ben verisimile che le date quantità di tempo, ad esse paiono alquanto maggiori che agli uomini, secondo la piccola proporzione che risulta dal poco svantaggio di lunghezza che ha la lor vita naturalmente dalla nostra; la qual differenza e proporzione essendo assai piccola, non è maraviglia se il detto effetto non si nota, e se riesce impercettibile, essendo quasi menomo ec. Forse anche simili differenze impercettibili si potrebbero supporre tra diversi individui di uno stesso sesso, nazione ec. come derivanti e proporzionate a certe relative differenze fisiche o morali, ec. che si potrebbe forse notare a questo proposito, e come atte a cagionare detto effetto ec. ec. (22. Nov. 1823.).

Je me rappelle souvent ce vers anglais: L’homme est fait pour agir, et tu prétends penser ? Frédéric II Lettres à d’Alembert, tome XIII. p. 203. (22. Nov. 1823.). V. p. 3931.

Voce comune alle tre lingue: Ciabatta, zapato, savate (è noto che il nostro c molle, in ispagnuolo è z, in francese vale s), savaterie, savetier, zapatero, ciabattino, acciabattare ec. ec. Anche le metafore di tali voci, come di saveter e acciabattare, di ciabattino e savetier per mauvais ouvrier ec. ec. sono conformi, almeno tra l’italiano e il francese, giacchè il significato di ciabatta, savate, zapato, benchè simile, è alquanto diverso nello spagnuolo ec. (23. Nov. Domenica. 1823.).

Alla p. 3851. marg. Anche tra noi però avvisato per prudente, può essere participio di avvisarsi, verbo reciproco, o neutro passivo, in senso di avvedersi ec., e in tal caso non apparterrebbe al nostro discorso, niente più di quello che gli appartenga appunto avveduto di avvedersi (che vale lo stesso che avvisato), accorto di accorgersi (che vale altresì lo stesso: dico aggettivamente presi accorto, avveduto, avvisato), e gli altri participi de’ neutri passivi o reciprochi. (23. Nov. 1823.).

Alla p. 3869. marg. Da queste osservazioni è chiaro che si dee dir vivisco e non vivesco, anche per regola e analogia e ragion generale. — Es. di verbo incoativo fatto da verbo della 4. può essere scisco da scio — Hisco da hio-hiatum, non è che corruzione d’hiasco che pur si trova, e che è proprio degli antichi; come hieto è corruzione d’hiato, che pur si trova, del che altrove. (23. Nov. 1823.).

Al detto altrove sopra il continuativo hietare, aggiungi quello che puoi vedere nel pensiero precedente. (23. Nov. 1823.).

Alla p. 3869. marg. principio. Arcesso, — Capesso, — Facesso (v. Forcell. in Facesso princ. e fin.) — is ivi itum. E credo che anche gli altri tali verbi frequentativi o desiderativi o come si chiamino (v. Forc. in Facesso princ.), se altri ve n’ha, facciano allo stesso modo, cioè una mescolanza della 3. e 4. coniugazione Anche Arcesso fa nell’infinito passivo arcessi e arcessiri. E v. Forcell. in arcesso princ. (23. Nov. 1823.). V. p. 3904.

Alla p. 3884. Se la qualità dello stile del Tasso, considerato in generale, pecca in qualche cosa, questo si è più che in altro, nel molle. E certo non di rado esso dà nel debole, anzi pur nel freddo, e in quel basso che nasce da debolezza, da mancanza di nervo e di forza per sostenersi in alto e ritto ec. ec., in poca sostenutezza ec. Questo è molto più frequente nel Tasso che o in Dante o in Petrarca, e più ancora che in parecchi poeti del 2. ordine. (23. Nov. 1823.).

Alla p. 2843. Che inceptare in questo senso d’incettare, cioè come composto di capto, non sia alieno dall’antica latinità, secondo che ho detto in una delle pagg. citate in quella a cui questo pensiero appartiene, me lo persuade eziandio il vedere che detto senso è tutto latino, e alla latina ec. e quasi è lo stesso che quello del semplice captare, se non che è determinato ad un certo modo di far quello che si denota col verbo captare. Del resto che la mutazione dell’a in e ne’ composti, e l’altre tali, usitate regolarmente nell’antico e buon latino, fossero trascurate ne’ composti de’ tempi bassi e delle lingue moderne, ne può essere una prova appunto accattare (acheter). Vedi Glossar. in accaptare [a]

Anche abbiamo accettare (accepter ec.) da acceptare, ma non di capto bensì di accipio acceptus ec.

[Chiudi]. (23. Nov. 1823.).

Simile esempio a quello di traer usato talora dagli spagnuoli nel senso di tractare, come nel primo principio della mia teoria de’ continuativi, si è quello di affecter spesso usato da’ francesi nel significato stesso (o simile) di afficere. V. Forcell. in affecto fin. e inaffector aris ; il Gloss., gli spagn. ec. (23. Nov. 1823.).

Alla p. 3753. marg. — come forse sono contrazioni quei diminutivi di cui a p. 3844. ec., cioè a dire pagella per paginella, asellus per asinellus, che noi diciamo, fabella per fabulella ec. (23. Nov. 1823.). V. p. 3992.

Alle cose dette altrove in più luoghi sopra il g protetico dei latini avanti la n, aggiungi gnatus, participio o aggettivo, e sostantivo, e gnatula, e v. Forcell. in queste voci. (23. Nov. 1823.).

Al detto altrove sopra l’uso dello spagn. luego simile a quello che i greci fanno degli avverbi significanti statim ec. aggiungi un esempio di Aristot. Polit. l. 8. Florent. 1576 p. 615. princip. 652. fine. p. 675. fine, εὺθὺς γὰρ ec. male inteso dal Vettori in tutti i tre luoghi, in un de’ quali ridonda. (23. Nov. Domenica. 1823.).

Andare per essere del che altrove. Petr. Sestina i verso penult. E ’l giorno andrà (sarà) pien di minute stelle Prima ch’ ec. (24. Nov. dì di San Flaviano. 1823.).

A proposito del diminutivo positivato ποίμνιον, di cui altrove, si può notare che anche in francese il vocabolo che significa gregge, e particolarmente gregge di pecore (come ποίμνιον e ποίμνη) o di montoni, è originariamente diminutivo, cioè troupeau per troupe, la quale seconda voce equivarrebbe a grex che forse propriamente è generica come troupe, e significa moltitudine, adunanza ec. secondo che in latino e in italiano tuttogiorno s’adopera. (24. Nov. 1823.).

Monosillabi latini. Lac: idea primitiva ec. Gr. γάλα γάλακτος, dalla qual voce gli etimologi derivano la latina. (24. Nov. 1823.).

Dico altrove che la lingua ebraica non ha voci composte. Si eccettuino molti nomi propri, come Ab-raham, Ben-iamin, Mi-cha-el, Ierusalem (non è dell’antico ebraico) ec. e forse anche alcuni nomi, non propri, ma appellativi o cosa simile. (24. Nov. 1823.).

L’uomo che ha molta capacità e quindi facilità, prontezza e moltiplicità di assuefazione, per questa medesima causa ha altrettanta capacità, facilità ec. di dissuefazione. Viceversa nel caso contrario. E sempre proporzionatamente, anzi sempre ugualmente, alla misura dell’una capacità risponde quella dell’altra. L’una e l’altra o sono la cosa stessa diversamente considerata, o due effetti gemelli d’una stessa causa, che non può produr l’uno senza produr l’altro nel medesimo grado. Dalle medesime cagioni fisiche, morali ec. che producono l’assuefabilità di un uomo o dell’uomo ec. nasce altrettanta sua dissuefabilità. E dall’una si può argomentare all’altra. L’uomo è assuefabile; dunque egli è dissuefabile; o viceversa. Il tale individuo ha tanta capacità di assuefazione; dunque tanta di dissuefazione nè più nè meno.

Questo principio, il quale risulta ed è dimostrato e sviluppato dalle osservazioni da me fatte altrove, si dee notare diligentemente, perchè nel corso delle nostre teorie sarà forse suscettibile di molte applicazioni. (24. Nov. 1823.).

A ciò che ho detto altrove in proposito di pintar e dell’antico participio latino di pingo e de’ verbi simili, aggiungasi dipinto (non dipitto) sostantivo e aggettivo o participio, dipintura ec. peint, e quindi peintre, peinture ec. dépeint ec. Pitto per pinto, non è che degli scrittori. Abbiamo però pittura, pittore ec. Ma anche pintore, pintura. Gli spagnuoli pintor ec. Fitto per finto (universale tra noi) non so se mai fosse del volgo e della lingua parlata. Da finto, e non da fictus o fitto, finzione, fintamente ec. infinto. fractus franto infranto, enfreint ec. Abbiamo però anche fizione ec. I franc. feint ec. Gli spagnuoli fingido (fingitus primitiva forma) ec. Vinto, non vitto (victus) se non poeticamente, ed or neanche ben si direbbe in poesia. Gli spagnuoli vencido, i francesi vaincu, che rispondono al primitivo vincitus di vinco, secondo il detto altrove della mutazione dell’itus latino in u, nella desinenza di molti participii francesi ec. (24. Nov. 1823.).

Alla p. 3900. Incesso is ivi, ( frequentativum ab incedo , dice il Forcell.). Quanto al suo preterito incessi (onde l’ incesserint nell’esempio di Tacito hist. 3. 77.), vedi il Forcell. in Incedo ne’ due ult. paragrafi, e confrontisi ciò ch’egli dice del perf. facessi in Facesso. (24. Nov. 1823.).

Incessare da incedere. V. il Forcell. in Incesso is , fine, e il pensiero antecedente, se vuoi. (24. Nov. 1823.).

Alla p. 3826. Il barbaro incapabilis (v. Forcell. e Gloss. ec.) o è voce falsa, o affatto barbara di formazione e fuor d’ogni regola, (come centomila simili delle latino-barbare, o delle moderne, anche in bilis), o dimostra un capo as atum, se non si dee leggere incapibilis da capitum (primitivo per captum), come io dubiterei. (24. Nov. 1823.).

Dice per dicono, aiunt, del che altrove. V. la Crusca in Fitto par. 3. esempio ult. e cercalo nel suo autore. (24. Nov. 1823.). Sta Orl. Innam. c. 37. st. 1, e non ha che far col proposito. (24. Nov. 1823.).

Ho detto che tutte le lingue nascendo dai volgari, le nostre sono nate dal latino volgare e parlato e non dal latino scritto. Da questo principio segue, fra gli altri molti, questo corollario che tutte le voci, frasi, significazioni ec. italiane, francesi spagnuole, e tutte le proprietà di queste tre lingue, o di qualunque di esse, che si trovano ancora, in qualsivoglia modo, nel latino scritto di qualunque età, e che nelle dette lingue non sono state introdotte dagli scrittori, dalla letteratura, da’ letterati, dalla favella de’ dotti o colti ec. nè passati dall’una di esse lingue nell’altra per qualunque mezzo, dopo essere in quella stati introdotti dagli scrittori o dal parlar letterato ec., ma che vengono originariamente dal semplice uso del favellare ec.; furono tutte proprie del latino volgare e parlato, non meno che dello scritto; e quindi chi cerca l’antico volgar latino, ha diritto di considerarle come sue parti e qualità ec. (24. Nov. 1823.).

Alla p. 3835. È da notare però che l’ubbriachezza ec. anche quando esalta le forze, e cagiona una non ordinaria vivacità ed attività ed azione esteriore o interiore, o l’uno e l’altro, sempre però o quasi sempre cagiona eziandio nel tempo stesso una specie di letargo, d’irriflessione, d’ἀναισθησία, ancorchè l’uomo per altra parte sia allora straordinariamente sensibile, e riflessivo e profondo sopra ogni cosa[a]

Veggasi la pag. 3921-27.

[Chiudi]. Ella infatti per sua proprietà trae l’uomo più o meno, ed in uno o in altro modo, fuor di se stesso, e in certa maniera, quando più quando meno, lo accieca, lo trasporta, lega le sue facoltà, ne sospende l’uso libero ec. Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole, perocchè sospendendo o scemando in certo modo il sentimento della vita nel tempo stesso ch’ella accresce la forza, l’energia, l’intensità, il grado, la somma, la vitalità d’essa vita, sospende o scema o rende insensibile o men sensibile l’azione, l’effetto, l’efficacia, le funzioni, l’attualità dell’amor proprio, e quindi il desiderio vano della felicità ec., secondo il detto nella mia teoria del piacere sopra l’essenziale piacevolezza di qualunque assopimento, in quanto sospensivo del sentimento della vita, e quindi del sentimento, anzi dell’attuale esistenza dell’amor proprio, e del desiderio della felicità. L’ubbriachezza e tutto ciò che le si assomiglia o le appartiene ec. è piacevole per sua natura, principalmente in quanto ell’è (per sua natura) assopimento[b]. Massime che questo nasce allora dall’eccesso medesimo della vita e del sentimento di lei, il qual eccesso è nella ubbriachezza quello che scema e mortifica più o meno esso sentimento (secondo che il troppo è padre del nulla, come altrove) e quasi estingue l’animo. (V. Victor. Commentar. in Aristot. Polit. Flor. 1576. pag. ult. lin.5. 6.).Ond’è sommamente piacevole per se stesso, astraendo dalle circostanze che possono produrre in qualche parte il contrario, e dall’altre qualità, ed effetti, anche essenziali, dell’ubbriachezza ec. ec. fra tutti gli assopimenti quello prodotto dall’ubbriachezza e simili cause, perch’esso solo include, suppone e porta seco ed ha per madre l’abbondanza relativa della vita e del sentimento di lei, la qual vita e sentimento è per natura e necessità supremamente piacevole al vivente, come altrove in più luoghi, se non che negli altri casi la maggior vita e il maggior sentimento di essa è proporzionatamente maggiore amor proprio, e quindi desiderio di felicità, e questo vano, e quindi maggiore infelicità ec. (24. Nov. Festa di S. Flaviano 1823.).

Alla lista de’ verbi frequentativo-diminutivi, disprezzativi, vezzeggiativi ec., frequentativi o diminutivi semplicemente ec. italiani, data da me altrove, aggiungi: in ettare, come da balbo, balbettare. (25. Nov. 1823.).

Alla p. 2924. Personale: ταῦτα μὲν οὕτως ἔχει, οὕτως ἐχέτω ec. ec. Impersonale εἴπερ τὸν τρόπον τοῦτον (se così è). Aristot. Polit. Flor. 1576. p. 557. fin. ἐν αἰγύπτῳ τε γὰρ ἔχει τὸν τρόπον τοῦτον p. 590 fin. ὅπου μὴ τοῦτον ἔχει τὸν τρόπον p. 595. 3 In italiano non credo che avere per essere sia mai veramente impersonale. Ci ha molti è il singolare pel plurale, come in greco co’ nomi neutri, e in italiano, massimo antico o volgare, assai spesso. Dunque in questa frase v’è la persona, cioè molti. Ebbevi di quelli che ec. Si sottintende alcuni. Pur questa frase (e simili) per se stessa è impersonale, e può chiamarsi così, giacchè in origine in tutte le frasi impersonali qualche cosa si sottintende, come nelle soprascritte greche τὰ πρὰγματα e simile. (26. Nov. 1823.).

Diminutivi positivati. Cultellus (coltello, couteau ec. V. i Diz. in coutre. Trovo in 2. lett. di Feder. II. coutelet, per coltellino.) cultellare, cultellatus ec. V. Forcell. (26. Nov. 1823.).

Alla p. 3819. I nomi latini neutri della 3. che hanno l’accusativo come il nominativo, e ben diverso dall’ablativo, si vede che nelle nostre lingue non hanno a far niente (in generale) cogli ablativi latini, ma ben co’ nominativi e accusativi Come tempus-tempore, tempo, temps ec.; semen-semine, seme ec., ec. (26. Nov. 1823.).

Bisogna notare che i diminutivi positivati (verbi o nomi ec.) da me raccolti non sieno di senso neanche frequentativo, nè disprezzativo, nè vezzeggiativo, nè simile, eccetto se tale non fosse anche quello del positivo, al quale esso deve insomma essere totalmente conforme. Misculare (a proposito di cui ho preso a discorrere de’ diminutivi positivati) a principio ebbe forse un senso frequentativo, che poi perdè, restandogli quello del positivo. E così gli altri, ciascuno de’ quali (nomi o verbi) in origine dovettero in qualunque modo differire nel senso dai positivi. Del resto i verbi in ulare ec. propriamente sono diminutivi e perciò spettano al mio discorso. Hanno però talora un senso simile al frequentativo (come tanti verbi italiani altrove da me notati), ma non perciò si possono men giustamente porre fra’ diminutivi, giacchè solo dalla diminuzione ricevono quel tal potere di significar la frequenza ec. il qual significato è come una specie de’ significati diminutivi ec. (26. Nov. 1823.).

Alla p. 3520. E bene spesso l’irriflessione de’ fanciulli, degl’ignoranti, degl’inesperti ec. fa quello stesso, e così perfettamente, o assai meglio ancora, che può fare e fa la riflessione, la prudenza, la provvidenza, l’accorgimento, l’abilità, la prontezza ec. e la presenza di spirito acquistata a forza di pratica ec. trova gli stessi partiti che potrebbe abbracciare dopo maturissima considerazione l’uomo il più riflessivo, e dov’è bisogno di prontezza, con altrettanta e maggior prontezza li trova e li eseguisce, che possa fare l’abito della riflessione ec. (26. Nov. 1823.).

Causare per accusare, accagionare, del che altrove in proposito dell’antico lat. cuso. Machiavelli Vita di Castruccio Castracani, non molto avanti il mezzo, tutte le Opere, 1550, parte 2.a p. 73. principio. Occorse in questi tempi che il popolo di Roma cominciò a tumultuare per il vivere caro, causandone l’assenza del Pontifice che si trovava in Avignone, et biasimavono i governi Tedeschi . (26. Nov. 1823.).

Alla p. 3753. E forse del resto, puellus è contrazione di puerulus, che pur si dice; e allo stesso modo nigellus di un nigerulus, e fratello è per fraterulus, culter cultri-cultellus, e tutti i simili similmente. (26. Nov. 1823.).

Alla p. 3310. Quanto influisca sempre l’immaginazione, l’opinione, la prevenzione ec. sull’amore anche corporale, sui sentimenti che un uomo prova in particolare verso una donna, o una donna verso un uomo, è cosa notissima. E in particolare ha forza sull’amore, non solo platonico o sentimentale, ma eziandio corporale verso gl’individui particolari, tutto ciò che ha del misterioso, e che serve a rendere poco noto all’amante l’oggetto del suo amore, e quindi a dar campo alla sua immaginazione di fabbricare, per dir così, intorno ad esso oggetto. Perciò moltissimo contribuisce all’amore e al desiderio anche corporale, tutto ciò che ha relazione ai pregi o alle qualità comunque amabili dell’animo nell’oggetto amabile, e in particolare un certo carattere profondo, malinconico, sentimentale, o un mostrar di rinchiudere in se più che non apparisce di fuori. Perocchè l’animo e le sue qualità, e massimamente queste che ho specificate, son cose occulte, ed ignote all’altre persone, e dan luogo in queste all’immaginare, ai concetti vaghi e indeterminati; i quali concetti e le quali immaginazioni congiungendosi al natural desiderio che porta l’individuo dell’un sesso verso quello dell’altro, danno un infinito risalto a questo desiderio, accrescono strabocchevolmente il piacere che si prova nel soddisfarlo; le idee misteriose e naturalmente indeterminate, che hanno relazione all’animo dell’oggetto amato, che nascono dalle qualità e parti apparenti del suo spirito, e massime se da qualità che abbiano del profondo e del nascosto e dell’incerto, e che promettano o dimostrino altre lor parti o altre qualità occulte ed amabili ec., queste idee dico, congiungendosi alle idee chiare e determinate che hanno relazione al materiale dell’oggetto amato, e comunicando loro del misterioso e del vago, le rendono infinitamente più belle, e il corpo della persona amata o amabile, infinitamente più amabile, pregiato, desiderabile; e caro quando si ottenga.

Generalmente una delle grandi cagioni che hanno prodotto il sentimentale, l’amore spirituale ec., oltre quella notata nel pensiero a cui questo si riferisce, si è che gli uomini civilizzandosi di più in più, e sempre colla stessa proporzione acquistandone ed aumentandosene di consistenza, di efficacia, di valore, d’importanza, di estensione, di attività, d’influenza, forza, e potere, di facoltà, la parte spirituale ed interna dell’uomo, si è venuto primieramente a riconoscere e supporre nell’uomo una parte nascosta e invisibile che i primitivi o non supponevano affatto o molto leggieramente, e poco distintamente dalla parte visibile e sensibile; poscia a considerarla altrettanto quanto la parte esteriore; poi più di questa, e di mano in mano tanto più, che oggimai nell’uomo e in ciascuno individuo umano, se la natura non ripugnasse (la quale all’ultimo non può mai totalmente essere nè spenta nè superata) non altro quasi si considererebbe che l’interiore, e per uomo non s’intenderebbe in nessun caso altro che il suo spirito. Ora in proporzione di questa spiritualizzazione delle cose, e della idea dell’uomo, e dell’uomo stesso, è cominciata e cresciuta quella spiritualizzazione dell’amore, la quale lo rende il campo e la fonte di più idee vaghe, e di sentimenti più indefiniti forse che non ne desta alcun’altra passione, non ostante ch’esso e in origine, e anche oggidì quanto al suo fine, sia forse nel tempo stesso e la più materiale e la più determinata delle passioni, comune, quanto alla sua natura, alle bestie, ed agli uomini i più bestiali e stupidi ec. e che meno partecipano dello spirito. Fino a tanto che giunta in questi ultimi tempi al colmo la spiritualizzazione delle cose umane, è, si può dir, nato a nostra memoria, o certamente in questi ultimi anni si è reso per la prima volta comune quell’amore che con nuovo nome, siccome nuova cosa, si è chiamato sentimentale; quell’amore di cui gli antichi non ebbero appena idea, o che sotto il nome di platonico, apparendo talora in qualche raro spirito, o disputandosene tra’ filosofi e gli scolastici, è stato finora riputato o una favola e un ente di ragione e chimerico, o un miracolo, e cosa ripugnante alla universal natura, o un impossibile, o una cosa straordinarissima, o una parola vuota di senso, e un’idea confusa; e veramente ella è stata, si può dir, tale finora, cioè confusissima e da’ filosofi piuttosto nominata che concepita, e da’ più savi, come tale, derisa e stimata incapace di mai divenir chiara. Questa eccessiva moderna spiritualizzazione dell’amore, la quale con proprio vocabolo chiamiamo amore sentimentale, risponde alla suprema spiritualizzazione delle cose umane, che in questi ultimi tempi ebbe ed ha luogo.

E come dalla spiritualizzazion delle cose umane sia nata e dovuta nascere, e seco sempre in esatta proporzione crescere, e finalmente venire al colmo la spiritualizzazione dell’amore, e quindi il vago e l’indefinito che ora è proprio di questa passione e de’ sentimenti dell’un sesso verso l’altro, è manifesto e facile a spiegare colle cose predette. L’uomo da principio, siccome in se stesso e negli altri uomini, così naturalmente anche nella donna, e viceversa la donna nell’uomo, non consideravano che l’esteriore. Ma col principiar della civilizzazione, nascendo l’idea dello spirito, a causa della forza ed azione che la parte interna incominciava ad acquistare e sviluppare, e di mano in mano, come questa parte all’esterna, così l’idea dello spirito a quella del corpo, prima agguagliandosi, e poi appoco a poco strabocchevolmente prevalendo, l’individuo dell’un sesso in quello dell’altro dovette necessariamente prima incominciare a considerare anche lo spirito, e poi seguendo, considerarlo quanto il corpo, e finalmente più del corpo medesimo, almeno in un certo senso e modo. Sicchè l’oggetto amabile dell’un sesso fu all’individuo dell’altro, non più un oggetto semplicemente materiale, come in principio, ma un oggetto composto di spirito e di corpo, di parte occulta e di parte manifesta, e poscia di mano in mano un oggetto più spirituale che materiale, più occulto e immaginabile che manifesto e sensibile, più interiore che esteriore. E come le idee che hanno relazione alla parte interna ed occulta dell’uomo, sono naturalmente vaghe ed incerte, quindi l’idea dell’oggetto amabile, considerato nel detto modo, cominciò necessariamente ad avere del misterioso, congiungendosi in essa idea la considerazion dello spirito a quella del corpo; e acquistando di mano in mano la prima considerazione sopra la seconda, sempre più misteriosa ne dovea divenire l’idea dell’oggetto amato, sino ad aver finalmente più del mistico, dell’incerto e del vago, che del chiaro e determinato. Così i sentimenti e le idee che appartengono alla passion dell’amore, pigliarono sempre più dell’indefinito a proporzion della civilizzazione (e quindi essa passione divenne, non v’ha dubbio, incomparabilmente più dilettosa); tanto che, quantunque il principio dell’amore sia quel medesimo necessariamente oggi che fu ne’ primitivi, che è ne’ selvaggi, che è e fu sempre ne’ bruti, ed altrettanto materiale e animale, nondimeno essa passione adunando in se lo spirituale col materiale, è divenuta così diversa da quelle, che certo l’amor propriamente sentimentale non sembra aver nulla che fare nè coll’amore de’ selvaggi, nè con quello dei bruti, ma essere di natura e di principio e di origine affatto diverso e distinto. Ed oggidì anche l’amore il meno platonico e il più sensuale pur tiene necessariamente nelle sue idee e ne’ suoi sentimenti assaissimo dello spirituale, e quindi dell’immaginoso, e quindi del vago e dell’indefinito; e nell’oggetto amato o goduto o amabile anche la persona più brutale sempre considera alquanto e in qualche modo una parte occulta di esso oggetto che accompagna ed anima e strettamente appartiene, abbraccia ed è congiunta a quella parte e a quelle membra che egli desidera, o ch’ei si gode, o ch’ei riguarda come amabili e desiderabili; perchè in fatti quella parte vi è, ed ha grandissima parte nell’essere di quell’oggetto, e l’interno è una grandissima porzione di questo, per brutale o insensato che anch’esso si sia; e l’amante il vede assai bene tuttodì. Parlo di oggetti amati e di amanti che quantunque brutali, o incolti, e poco esistenti per lo spirito, pur sieno de’ civili.

Del resto, tornando al primo proposito, come l’immaginazione e il mistero particolare ec. influisce sommamente e modifica ec. l’amore anche il più corporale verso gl’individui particolari d’altro sesso (o anche del medesimo sesso, secondo l’uso de’ greci), così l’immaginazione e il mistero generale derivante dall’uso delle vesti, influì nel modo che si è detto nel pensiero a cui questo si riferisce, e sempre e del continuo influisce generalmente sopra l’amore e i sentimenti (anche i più materiali per principio, per iscopo ec.) dell’un sesso verso l’altro, considerato tutto insieme. E come la considerazione dello spirito che è cosa occulta, influisce su quella del corpo, e rende misteriosi e vaghi i sentimenti e le idee che da questo naturalmente e principalmente hanno origine, ed a questo propriamente, benchè or più or meno apertamente e immediatamente e principalmente si riferiscono; così la considerazione del corpo divenuto anch’esso cosa, per la maggior sua parte, occulta e sottoposta all’immaginazione altrui più ch’ai sensi, rende misteriosi ec. e spiritualizza nel modo il più naturale i sentimenti e le idee ec.: e da una causa tutta materialissima nasce un effetto che ha dello spiritualissimo, del semplicemente spirituale, del più spirituale ch’alcuno altro ec.

Quanto poi l’immaginazione, l’opinione, la preoccupazione e cento cause affatto e per lor natura e principio aliene ed estrinseche ai soggetti medesimi, influiscano e possano sull’amore e sui sentimenti dell’un sesso verso l’altro ne’ casi particolari, mi basti considerarne fra gl’infiniti, un esempio. Suppongansi un fratello e una sorella, ambo giovanissimi, bellissimi, sensibilissimi, e per ogni parte dispostissimi, ed espertissimi eziandio, dell’amore verso gl’individui d’altro sesso. Supponghiamo che dopo lunga assenza, si riveggano l’un l’altro, e ponghiamo che ciò sia in tempi o in circostanze che il lor cuore, la loro sensibilità, la loro facoltà di passione non sieno state per niun modo blasées, usées, istupidite, indebolite ec. o dal commercio del mondo o da checchè sia. Certo è ch’essi proveranno l’un verso l’altro de’ sentimenti vivissimi, tenerissimi, amorosissimi, piangeranno di affetto ec. Ma in questa passione o momentanea o durevole che proveranno l’uno verso l’altro, benchè certamente v’avrà molto di corporale, perchè gli ho supposti bellissimi e giovanissimi, oltre sensibilissimi, non v’avrà però nulla di sensuale, e quel corporale prenderà forma della più spiritual cosa del mondo; e non per tanto la detta passione, come dall’amor sensuale di qualsivoglia specie, così sarà di genere e di natura sensibilissimamente diverso da qualunque di quegli amori verso un altro sesso, che si chiamano sentimentali, incominciando dal più imperfetto, fino al più puro, spirituale, platonico, ed apparentemente più casto ed angelico, insomma il più veramente e semplicemente sentimentale che si possa trovare o pensare. Ed essi medesimi o espressamente o implicitamente si accorgeranno di questa differenza in modo che non sarà loro possibile di confondere neanche per un momento quella passione che allor proveranno con nessuna di quelle altre, le quali pur saranno capacissimi di provare, come ho supposto, e quindi ben le concepiranno, e di più le avranno effettivamente provate, come ho anche supposto. Anzi voglio anche supporre che ambedue si trovino attualmente in una di queste altre passioni, e che sia delle vivissime dall’un lato, e dall’altro delle più pure e sentimentali possibili. Nè questa nocerà a quella, nè essi lasceranno di sentire, in modo da non poter dubitarne, una decisa ed intera differenza di specie dall’una all’altra. Certo è che tutte queste supposizioni non sono chimeriche, e che generalmente parlando, si son date e si danno effettivamente nelle nazioni civili delle passioni di amore vivissime, tenerissime, purissime costantissime, tra fratello e sorella, belli e giovani; di un padre verso una figlia bellissima, di una madre ec. e così discorrendo; e che queste passioni possono essere e furono e sono distintissime da qualunque altra di quelle che si provano o possono provare verso gl’individui d’altro sesso. Certo è insomma che si dà un amor fraterno, un amor paterno ec. più o men vivo, ma anche vivissimo e tenerissimo tra persone diverse di sesso, il quale è sensibilissimamente e totalmente distinto da qualunque altro di quegli amori più propriamente detti, che si provano verso gl’individui d’altro sesso verso i quali essi non sono vietati da certe leggi, pretese naturali, cioè dall’opinione ec. Si dà, dico, il detto amore nelle persone civili, o semicivili ec. cioè in quegli uomini in cui possono le leggi e quindi le opinioni relative ec. E si dà or più or meno durevole; più frequentemente però poco durevole (nel suo stato di così vivo e tenero, e di così distinto nel tempo stesso da quegli altri amori): ma basta al nostro argomento ch’esso sia e possibile e sovente (e foss’anche stato una sola volta) reale, eziandio per un solo istante. (Del resto, tutto ciò non toglie che non si dieno e si sien dati forse anche più spesso amori o sensuali o sentimentali, ma d’altro genere, tra fratelli e sorelle, padri e figlie, madri e figli ec. eziandio civilissimi.)

Or da queste osservazioni si deduce 1.o parlando dell’amore tra l’un sesso e l’altro generalmente, come esso dipenda e sia modificato, senza alcuna influenza della natura propria, dall’immaginazione e dall’opinione. Poichè quel fratello che alla vista di quella tal persona, se non fosse stata sua sorella, anzi pur solamente s’esso non lo avesse saputo, avrebbe certo provata tutt’altra specie di amore, o se non altro, si sarebbe sentito spinto o capace di tutt’altra specie di sentimenti verso lei; solo per sapere e pensare quella essere sua sorella, prova un amore e una sorta di sentimenti di diversissima e distintissima specie. Giacchè che questa differenza e il provar questi sentimenti e il non provar quelli, sia effetto dell’opinione e prevenzione ec., e non di un secreto istinto naturale, come dicono, per modo che quel fratello, anche non sapendo quella essere sua sorella, dovesse provare affetto (ancorchè menomo) verso lei, e questo fraterno, e non provare affetto d’altra sorta, e così un padre verso una figlia ignota, o verso un figlio del medesimo sesso, e cose simili, sono tutte stoltezze, e dimostrate per falsissime, oltre dalla ragione, da mille esperimenti.

2. Le dette osservazioni servono d’altro esempio confermante la prima mia proposizione, cioè quante passioni sentimenti ec. anche tenerissimi ec. che paiono assolutamente naturali, anzi pure quante specie di passioni assolutamente e per origine e principio sieno puri effetti di circostanze, opinioni ec. e di accidenti che in natura non avrebbero avuto luogo. Infatti questo amor fraterno o paterno ec. verso individui d’altro sesso, così vivo per una parte, e per l’altra così distinto dagli altri amori verso il sesso differente, anche da’ più puri, sembra bensì la più natural cosa del mondo, eppure è mero effetto delle circostanze, delle opinioni, delle leggi, le quali sono le vere madri di questa sorta di amore, che non par poter essere altro che opera e figlia della natura, e questa averla messa negli animi di propria mano, laddove senza le opinioni, costumi e leggi essa sorta di amore non avrebbe esistito, almeno in quel tal grado ec., e il genere umano ne sarebbe al tutto inesperto, e non saprebbe che cosa ella si fosse. Siccome accade veramente ne’ selvaggi ec. che non abbiano leggi o costumi relativi ec. i quali non faranno mai difficoltà di usare colle sorelle, e amandole vivamente ciò non sarà in altra guisa che carnalmente (poichè essi non sono capaci nemmeno degli altri amori sentimentali), altrimenti non le ameranno, o solo leggermente e senza trasporto, e come e in quanto compagne abituate fin dalla nascita a convivere seco loro, come accade anche agli altri animali verso i loro abituali compagni, senza alcuna relazione alla conformità del sangue, e senza che questa abbia alcuna parte nel produrre quell’affezione, eccetto in quanto ella può esser causa di somiglianza ec. che serve all’amicizia, e in quanto ad altre circostanze estrinseche, e in somma diverse dalla semplice e propria consanguineità per se stessa, benchè sieno anche suoi effetti. E tale non calda amicizia avrà luogo, come tra gli animali, così tra’ selvaggi (ed anche tra noi), più tra’ compagni abituati a vivere insieme, che tra’ fratelli, o tra padri e figli, posto il caso che questi non abbiano avuto o non abbiano tale abitudine, ed altri ed alieni sì. Perocchè essa amicizia è tra loro in quanto compagni abituati (accidente, e cosa i cui effetti appartengono all’assuefazione), non in quanto consanguinei, o in quanto simili di naturale, di carattere, inclinazioni, età ec., non in quanto consanguinei ec. ec. Del resto quel che ho detto dell’amor fraterno o paterno ec. tra individui di sesso diverso si stenda ancora a quello tra fratello e fratello, padre e figlio ec., chè anch’esso in grandissima parte è opera ed assoluta creatura, o delle leggi, costumi, opinioni ec. o dell’assuefazioni, del convitto, della somiglianza, e di cose diverse insomma dalla consanguineità per se stessa. Massime un amor vivo, sentimentale, tenero, fervido ec. Il quale parimente non suol aver luogo che ne’ civili ec. Tra’ selvaggi, come tra gli animali, l’amore, o almeno l’amor vivo tra’ genitori e’ figliuoli, anzi de’ genitori verso i figliuoli, non dura se non quanto è bisogno alla conservazione di questi ec[a]

Puoi vedere a questo proposito le pagg. 3797-802. e sopra alcune anche più orribili barbarie, uno o due de’ luoghi del Cieça citati a p. 3796.

[Chiudi]. In quel tempo egli è veramente naturale e d’istinto ec. Ma i selvaggi per barbarie non lasciano di avere talora anche in costume di abbandonare i figli appena nati, o poco appresso ec. di esporli ec. ec., come anche usavano molti antichi civili, e come pur troppo s’usa anche oggi tra noi in mille casi ec. ec.; e Rousseau espose o tutti o non pochi de’ figli che ricevette dalla sua Teresa Levasseur ec., cose tutte ignote in qualunqu’altra specie di animali, e contro natura se altra mai, e di cui non è capace se non l’uomo ridotto comunque in società, cioè corrotto, e perniciose di lor natura alla specie ec. ec. Puoi vedere Aristot. Polit. Florent. 1576. lib. 7. p. 638-40. dove si dà per legge conveniente e necessaria alle repubbliche l’esposizione dei figli, non solo imperfetti, come in Lacedemone, ma eziandio generati dopo una certa età ec., e di più dove l’esposizione per legge non sia permessa, si consiglia e prescrive da quel filosofo l’ἄμβλωσις artificiale e volontaria, ec. E vedi anche i commentari del Vettori ai detti luoghi. (26. Nov. 1823.).

Ortografia italiana peccante per latinismo. Machiavelli in una dell’edizioni della testina (che sono le originali, e dove l’ortografia non è rimodernata, come poi, per altre mani) scrive mille voci difformemente per latinismo, benchè certo al suo tempo non si pronunziassero così, ma come oggi ec., per esempio Pontifice (par. 2. p. 73. principio e in tutta la storia, ec.) e simili. (26. Nov. 1823.).

Dico altrove in più luoghi che gli uomini e i viventi più forti o per età o per complessione o per clima o per qualunque causa, abitualmente o attualmente o comunque, avendo più vita ec. hanno anche più amor proprio ec. e quindi sono più infelici. Ciò è vero per una parte. Ma essi sono anche tanto più capaci e di azion viva ed esterna, e di piaceri forti e vivi. Quindi tanto più capaci di viva distrazione ed occupazione, e di poter fortemente divertire l’operazione interna dell’amor proprio e del desiderio di felicità sopra loro stessi e sul loro animo. La qual potenza ridotta in atto è uno de’ principalissimi mezzi, anzi forse il principal mezzo di felicità o di minore infelicità conceduto ai viventi. (Io considero quelli che si chiamano piaceri come utili e conducenti alla felicità, solo in quanto distrazioni forti, e vivi divertimenti dell’amor proprio, (chè infatti essi non sono utili in altro modo) e tanto più forti distrazioni, quanto più vivi e forti sono essi piaceri, così chiamati, e maggiore il loro essere di piacere, e la sensazion loro più viva. I deboli sono incapaci di piaceri forti, o solo di rado e poco frequenti, e men forti sempre che non ne provano i vigorosi, perchè la lor natura non ha la facoltà o di sentire più che tanto vivamente, o di sentire piacevolmente quando le sensazioni sieno più che tanto vive.) Se l’uomo forte in qualunque modo, è privo, per qualunque cagione, di piaceri, o di piaceri abbastanza forti, e di sensazioni vive, e di poter mettere in opera la sua facoltà di azione, o di metterla in opera più che il debole, egli è veramente più infelice che il debole, e soffre di più. Perciò, fra le altre cose, nel presente stato delle nazioni e quanto alla sua natura, i giovani sono generalmente più infelici dei vecchi, e questo stato è più conveniente e buono alla vecchiezza che alla giovanezza. L’uomo forte è meno infelice del debole in uguali dispiaceri e dolori; più infelice s’egli è privo di piaceri, o di piaceri più vivi e frequenti che non son quelli del debole. Egli è più atto a soffrire, e meno atto a non godere; o vogliamo dire men disadatto all’uno, e più disadatto all’altro.

Ma oltre di tutto ciò, bisogna accuratamente distinguere la forza dell’animo dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede nell’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente, quanto è più forte e viva in lui quella parte che si chiama animo. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, nè accresce il suo amor proprio, se non in quanto il maggiore o minor vigore del corpo è per certe parti e rispetti, e in certi modi, legato e corrispondente e proporzionato a quello della parte chiamata animo. Ma nel totale e sotto il più de’ rispetti, tanto è lungi che la maggior forza del corpo sia cagione di maggiore amor proprio e infelicità, che anzi questa e quello sono naturalmente in ragione inversa della forza propriamente corporale, sia abituale sia passeggera. L’amor proprio e quindi l’infelicità sono in proporzione diretta del sentimento della vita. Ora accade, generalmente e naturalmente parlando, che ne’ più forti di corpo la vita sia bensì maggiore, ma il sentimento della vita minore, e tanto minore quanto maggiore si è e la somma della vita e la forza. Ne’ più deboli di corpo viceversa. O volendoci esprimere in altro modo, e forse più chiaramente, ne’ più forti di corpo la vita esterna è maggiore, ma l’interna è minore; e al contrario ne’ più deboli di corpo. Infatti è cosa osservata che generalmente, naturalmente, e in parità di altre circostanze, le nazioni e gl’individui più deboli di corpo sono più disposti e meno impediti a pensare, riflettere, ragionare, immaginare, che non sono i più forti; e un individuo medesimo lo è più in uno stato e tempo di debolezza corporale o di minor forza, che in istato di forza corporale, o di forza maggiore. Gli uomini sensibili, di cuore, di fantasia; insomma di animo mobile, suscettibile, e più vivo in una parola che gli altri, sono delicati e deboli di complessione, e ciò così ordinariamente, che il contrario, cioè molta e straordinaria sensibilità ec. in un corpo forte, sarebbe un fenomeno[a]

V. p. 3945.

[Chiudi]. La vita è il sentimento dell’esistenza. Questo è tutto in quella parte dell’uomo, che noi chiamiamo spirituale. Dunque la maggiore o minor vita, e quindi amor proprio e infelicità, si dee misurare dalla maggior forza non del corpo ma dello spirito. E la maggior forza dello spirito consiste nella maggior delicatezza, finezza ec. degli organi che servono alle funzioni spirituali. Delicatezza d’organi difficilmente si trova in una complessione non delicata; e viceversa ec. La delicatezza del fisico interno corrisponde naturalmente ed è accompagnata da quella dell’esterno. Di più la forza del corpo rende l’uomo più materiale, e quindi propriamente parlando, men vivo, perchè la vita, cioè il sentimento dell’esistenza, è nello spirito e dello spirito. Così le passioni ed azioni, le sensazioni e piaceri ec. materiali, tanto più quanto sono più forti; (rispettivamente alla capacità ed agli abiti fisici e morali, ec. dell’individuo); le attuali attualmente, le abituali abitualmente. Le sensazioni materiali in un corpo forte, o in un individuo che per esercizio o per altra cagione ha acquistato maggior forza corporale ch’ei non aveva per natura, o in un corpo debole che si trovi in passeggero stato di straordinaria forza, sono più forti, ma non perciò veramente più vive, anzi meno perchè più tengono del materiale, e la materia (cioè quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può esser vivo, e non ha che far colla vita, ma solo colla esistenza, la quale considerata senza vita, non è capace nè di amor proprio nè d’infelicità. Così la materia non è capace di vita, e una cosa, un’azione, una sensazione ec. quanto è più materiale, tanto è men viva. Insomma ciascuna specie di viventi rispetto all’altre, ciascuno individuo rispetto a’ suoi simili, ciascuna nazione rispetto all’altre, ciascuno stato dell’individuo sia naturale, sia abituale, sia attuale e passeggero, rispetto agli altri suoi stati, quanto ha più del materiale, e meno dello spirituale, tanto è, propriamente parlando, men vivo, tanto meno partecipa della vita e per quantità e per intensità e grado, tanto ha minor somma e forza di amor proprio, e tanto è meno infelice. Quindi tra’ viventi le specie meno organizzate, avendo un’esistenza più materiale, e meno di vita propriamente detta, sono meno infelici. Tra le nazioni umane le settentrionali, più forti di corpo, men vive di spirito, sono meno infelici delle meridionali. Tra gl’individui umani i più forti di corpo, men delicati di spirito, sono meno infelici. Tra’ vari stati degl’individui, quello p. e. di ebbrietà, benchè più vivo quanto al corpo, essendo però men vivo quanto allo spirito (che in quel tempo è obruto dalla materia, e le sensazioni spirituali dalle materiali, e le azioni stesse dello spirito, benchè più forti ec., hanno allora più del materiale che all’ordinario), e quindi la vita essendo allora più materiale, e quindi propriamente men vita (come in tempo di sonno o letargo, benchè questo sia inerte, e l’ebbrietà più svegliata ancora e più attiva talvolta che lo stato sobrio), è meno infelice.

Del resto egli è ben vero, come ho detto, che la forza del corpo rende il vivente più materiale, e gl’impedisce o indebolisce l’azione e la passione interna, e quindi scema, propriamente parlando, la vita. Ond’è che, generalmente parlando, quanto nel vivente è maggiore la forza e l’operazione e passione e sensazione del corpo particolarmente detto (sia per natura, o per abito, o per atto), tanto è minore la vita, l’azione e la passione dello spirito, cioè la vita propriamente detta. Ma questo si deve intendere, posta una parità di circostanze nel rimanente. Voglio dire, se il leone ha più forza di corpo che il polipo, non per questo egli è men vivo del polipo. Perocchè egli è nel tempo stesso assai più organizzato del polipo, e quindi ha molto più vita. Onde tanto sarebbe falso il conchiudere dalla sua maggior forza corporale che egli abbia più vita, e quindi sia più infelice, del polipo, quanto il conchiuderne ch’ei sia più infelice dell’uomo, come si dovrebbe conchiudere se la vita si avesse a misurare dalla forza comunque, o dalla forza estrinseca (nel che il leone passa l’uomo d’assai) e non dalla organizzazione ec. in cui l’uomo è molto superiore al leone. Se la donna è di corpo più debole dell’uomo, e la femina del maschio, non ne segue che generalmente e naturalmente la donna e la femmina abbia più vita, e sia più infelice del maschio. Converrebbe prima affermare che di spirito la femmina sia o più o altrettanto forte, cioè viva ec., che il maschio; ed accertarsi o mostrare in qualunque modo, che al minor grado della sua forza corporale rispetto al maschio non risponda generalmente nel suo spirito una certa qualità di organizzazione un certo minor grado di delicatezza ec. ec. da cui risulti che generalmente e naturalmente lo spirito della femmina sia minore, men vivo, che la femmina abbia men vita interna, e quindi propriamente men vita, del maschio, con un certo e proporzionato ragguaglio al minor grado di forza corporale che ha la femmina rispetto al maschio. Io credo onninamente che sia così e che il maschio in somma viva propriamente (per natura e in generale) più che la femmina, ed è ben ragione ec[a]

V. p. 3938.

[Chiudi]. Similmente discorrasi delle nazioni, degl’individui, e de’ vari stati di un medesimo individuo, avendo riguardo alle lor varie nature, caratteri ed abiti sì quanto al corpo sì quanto allo spirito[b], le quali disparità, e quelle de’ loro gradi, e le diverse combinazioni di questi e di quelle producono in questo nostro proposito, come, si può dire, in ogni altra cosa, (e in tutta la natura e in tutte le parti di lei similmente accade), infinite e grandissime diversità di risultati. Tutti i quali però, benchè impossibile sia lo specificarli e spiegarli a uno a uno, e benchè, stante la moltiplicità e sfuggevolezza delle cause che contribuiscono a modificarli in questa e questa e questa forma (una delle quali che mancasse, o non fosse appunto tale e tale, o in quel tal grado, o in quella proporzione coll’altre, o così combinata ec., il risultato non sarebbe quello) sieno anche bene spesso difficilissimi a spiegarsi, e a rivocarsi ai principii, ed a conoscerne il rapporto e somiglianza cogli altri risultati, chi non sia abilissimo, acutissimo e industriosissimo nel considerarli; nondimeno in sostanza corrispondono ai principii da me esposti, e non se gli debbono riputare contrarii, come non dubito che potranno parere mille di loro e in mille casi, alla prima vista, ed anche dopo un accurato, ma non idoneo nè giusto nè sufficiente esame. Bisogna aver molta pratica ed abilità ed abitudine di applicare i principii generali agli effetti anche più particolari e lontani, e di scoprire e conoscere e d’investigare i rapporti anche più astrusi e riposti e più remoti. Questa protesta intendo di fare generalmente per tutti gli altri principii e parti del mio sistema sulla natura. V. p. 3936.3977.

L’esistenza può esser maggiore senza che lo sia la vita. L’esistenza del leone può dirsi maggiore di quella dell’uomo. La vita al contrario. L’esistenza insieme e la vita del leone è maggiore rispetto all’ostrica, alla testuggine, alla lumaca, al giumento, al polipo. La vita del leone è maggiore che non è quella delle piante anche più grandi, de’ globi celesti ec. L’esistenza al contrario.

Vedi al proposito di questo pensiero le pagg. 3905-6. (27. Nov. 1823.) e la p. 3929. lin.11.12.

Al detto nella teoria de’ continuativi sul principio, circa sectari, seguitare ec. aggiungi il nostro conseguitare, lo stesso che conseguire ne’ suoi vari sensi. V. la Crusca. (27. Nov. 1823.).

Participii in us di senso neutro ec. Al detto altrove di defectus da deficio, aggiungi il suo composto indefectus, di cui v. Forcell., onde il moderno indefettibile (indéfectible ec.) in senso non passivo ma neutro, siccome anche indefectivus, defectivus, defettibile ec[a]

V. Forc. fisus, confisus, diffisus , ec.

[Chiudi]. V. Forcell. Gloss. Crus. Diz. franc. e spagn. (27. Nov. 1823.).

Al detto altrove in più luoghi in proposito di avvisare, aggiungi ravvisare di cui v. Crusca, e se raviser, e v. gli spagnuoli.

Nóta ancora che avvedere-avvisare spettano anch’essi a quella categoria della quale è scorgere-scortare, assalire-assaltare ec. da me distinta altrove. (27. Nov. 1823.).

Alla p. 3826. E il non esser essa del buon latino, e l’esserlo al contrario, e costantemente, quell’altra sopraddetta, cioè facibilis e non factibilis (se i latini antichi avessero fatto questa sorta di verbale da facio, come da doceo fecero docibilis e non doctibilis; ora factum e doctum sono la stessa forma), e simili[a]

Impercettibile ec. (da perceptum) — concepibile ec. da concepitum.

[Chiudi], dimostra che la propria forma de’ supini fu quale noi la diciamo, e non la più moderna ec. (27. Nov. 1823.).

Alla p. 3784. La guerra e qualsivoglia volontario omicidio è contrario e ripugna essenzialmente alla natura non men particolare degli uomini, che generale degli animali, e universale delle cose e della esistenza, per gli stessi principii per cui le ripugna essenzialmente il suicidio. Perocchè, come ciascun individuo, così ciascuna specie presa insieme è incaricata dalla natura di proccurare in tutti i modi possibili la sua conservazione, e tende naturalmente sopra ogni cosa alla sua conservazione e felicità: quanto più di non proccurare ed operare essa stessa per quanto, si può dire, è in lei, la sua distruzione. E questa legge è necessaria e consentanea per se stessa, e implicherebbe contraddizione ch’ella non fosse, ec. come altrove circa l’amor proprio ec. degl’individui. L’individuo, p. e. l’uomo, in quanto individuo, odia gli altri membri della sua specie; in quanto uomo, gli ama, ed ama la specie umana. Quindi quella tendenza verso i suoi simili più che verso alcun’altra creatura sotto certi rispetti, e nel tempo stesso quell’odio verso i suoi simili, maggiore sotto certi rispetti che verso alcun’altra creatura, i quali non men l’uno che l’altra, e ambedue insieme in tanti modi, con sì vari effetti, e in sì diverse sembianze si manifestano ne’ viventi, e massime nell’uomo, che di tutti è il più vivente (p. 3921-7.). E come il secondo, ch’è non men necessario e naturale della prima, nuoce per sua natura e alla conservazione e alla felicità della specie, e d’altra parte questo è direttamente contrario alla natura particolare e universale, e la specie presa insieme dee tendere e servir sempre (regolarmente) alla sua conservazione e felicità, non restava alla natura altro modo che il porre i viventi verso i loro simili in tale stato che la inclinazione degli uni verso gli altri operasse e fosse, l’odio verso i medesimi non operasse, non si sviluppasse, non avesse effetto, non venisse a nascere, e propriamente, quanto all’atto non fosse, ma solo in potenza, come tanti altri mali, che essendo sempre, o secondo natura, solamente in potenza, la natura non ne ha colpa nessuna. Questo stato non poteva esser altro che quello o di niuna società, o di società non stretta. E meno stretta in quelle specie in cui l’odio degl’individui, come individui, verso i lor simili, era per natura della specie, maggiore in potenza, e riducendosi in atto, ed avendo effetto, avrebbe più nociuto alla conservazione e felicità della specie: nel che fra tutti i viventi l’odio degl’individui umani verso i lor simili occupa, per natura loro e dell’altre specie, il supremo grado. In questa forma adunque la natura regolò infatti proporzionatamente le relazioni scambievoli e la società degl’individui delle varie specie, e tra queste dell’umana; e dispose che così dovessero stare, e lo proccurò, e mise ostacoli perchè non succedesse altrimenti. Sicchè la società stretta, massime fra gl’individui umani, si trova, anche per questa via d’argomentazione, essere per sua essenza e per essenza e ragion delle cose, direttamente contraria alla natura e ragione, non pur particolare, ma universale ed eterna, secondo cui le specie tutte debbono tendere e servire quanto è in loro alla propria conservazione e felicità, dovechè la specie umana in istato di società stretta necessariamente (e il prova sì la ragione sì ’l fatto di tutti i secoli sociali) non pur non serve ma nuoce alla propria conservazione e felicità, e serve quasi quanto è in lei alla propria distruzione e infelicità essa medesima: cosa di cui non vi può essere la più contraddittoria in se stessa, e la più ripugnante alla ragione, ordine, principii, natura, non men particolare della specie umana e di ciascuna specie di esseri, che universale e complessiva di tutte le cose, e della esistenza medesima, non che della vita. (27. Nov. 1823.).

Al detto altrove sopra i dialetti d’Omero, e quello d’Empedocle, che benchè Dorico usò il dialetto Jonico, aggiungi che nello stesso caso è Ippocrate, e vedi Fabric. B. G. edit. vet. in Hippocr. par. 1. t. 1. p. 844. lin.4-6. e nott. i. k. (27. Nov. 1823.).

Alla p. 3906. marg. L’ebbro ancorchè vivente, operante e pensante e parlante, non riflette sopra se stesso, nè sulla sua vita, azioni, pensieri e parole, o men del suo solito e più rapidamente e correndo via. — Infatti il timido suol divenir franco, sciolto ec. in quel punto. Segno ch’egli acquista allora una facoltà d’irriflessione, necessaria e madre della franchezza (anche de’ migliori spiriti, e in chicchessia), e la cui mancanza e il cui contrario, è talor la sola talora la principal cagione della timidità. Nondimeno egli è nel tempo stesso più spiritoso, pronto, ingegnoso, ed anche profondo ec. dell’ordinario suo: il che sembra mostrare per lo contrario una maggior facoltà ed atto di riflessione. Ma questa è una riflessione non riflettuta e quasi organica, e un’azione quasi meccanica del suo cervello e della sua lingua, leggermente influita e guidata appena appena dall’animo e dalla ragione, e un effetto quasi materiale e spontaneo ed αὐτόματος delle abitudini contratte ed esercitate e possedute fuori di quello stato, le quali agiscono allora con pochissimo intervento della volontà e dello stesso intelletto, a cui pure, gran parte di loro, totalmente appartengono, e da cui vengono o in cui si operano quelle tali azioni, pensieri, parole ec. (27. Nov. 1823.).

Alla p. 3899. L’homme est fait pour agir, non pour philosopher. Frédéric II. Épître I. à d’Argens, Sur la faiblesse de l’esprit humain. Oeuvres complettes 1790. tome 15. p. 9. (28. Nov. 1823.).

Verdaderamente yo tengo que ay muchos tiempos y años que ay gentes en estas Indias (la America meridional), segun lo demuestran sus antiguedades y tierras tan anchas y grandes como han poblado; y aunque todos ellos son morenos lampiños, y se parecen en tantas cosas unos a otros: ay tanta multitud de lenguas entre ellos que casi a cada legua y en cada parte ay nuevas lenguas . Chronica del Peru, parte primera (della quale opera vedi la pag. 3795-6.) hoja 272. capitulo 116 principio. (28. Nov. 1823.).

Alla p. 3926. — età, condizioni, malattie, climi, circostanze qualunque morali o fisiche, sì proprie sì esteriori, nazionali, locali, comuni al secolo, alla nazione, o particolari e individuali, comuni all’età, o non comuni, naturali, o acquisite, accidentali, abituali o attuali, durevoli o passeggere ec. ec. (28. Nov. 1823.).

Alla p. 3802. fine. Sebben però quanto all’animo, alla cognizione della verità, alla spiritualizzazione dell’uomo (p. 3910. segg.) che son tutte cose parte necessarie alla civilizzazione, parte suoi naturali effetti, parte sostanza e quasi sinonimi di essa, lo stato dell’uomo civile è indubitatamente di gran lunga inferiore a quello delle più selvagge e brutali società, e più lontano incomparabilmente dalla natura, e sotto questo rispetto non meno che per se medesimo infinitamente più infelice. L’individuo nella società civile nuoce meno agli altri, ma molto più a se stesso. Ed anche quanto agli altri, ei nuoce meno al lor fisico ma al morale molto più, ei li danneggia fisicamente meno, ma moralmente in mille guise e sotto mille rispetti, molto davantaggio. Ora il morale nell’uomo civile, lo spirito ec. è per natura dell’uomo in tale stato la parte principale e τὸ κυριώτατον dell’uomo, anzi quasi tutto l’uomo, non altrimenti e niente manco che nell’uomo primitivo o di società salvatica, la parte principale e quasi il tutto, sia il corpo. Dunque nella società civile, nuocendo gl’individui a’ lor simili moralmente assai più che nella selvaggia, e contribuendo alla infelicità dello spirito gli uni degli altri, essi non si nocciono scambievolmente meno, nè si cagionano l’un l’altro minore infelicità, nè di questa ne son manco cagione essi, di quel che avvenga nella società barbara, dove il nocumento scambievole, e l’infelicità che risulta dalla società stessa è più fisica che morale, perchè i lor subbietti cioè quegli uomini sono altresì più materia che spirito nella stessa proporzione. Anzi quanto e maggiore l’infelicità dello spirito che quella del corpo, tanto è maggiore il danno morale, o influente principalmente sul morale, e affliggente il morale, che gli uomini civili si recano scambievolmente (anche quando offendono in cose e con mezzi fisici); e quindi tanto maggiore è l’infelicità che gli uni agli altri in tal società si proccurano, di quella che nelle società barbare, o semibarbare, o semicivili, a proporzione. E quanto a se stessi, niuno nella società selvaggia nuoce a se moralmente, come inevitabilmente accade nella civile. Fisicamente già non può nuocersi il selvaggio se non per accidente. Il civile arriva fino al suicidio. Insomma si conchiude che tutto compensato, la società civile per sua natura è cagione all’uomo, benchè di minore infelicità fisica ed appariscente (o piuttosto di minori sciagure fisiche, perchè com’ella noccia generalmente al fisico, e particolarmente colle malattie, che a lei quasi tutte si debbono ec. si è mostrato in più luoghi), pur di maggiori sciagure morali, e tutto insieme di molto maggiore infelicità, che non è la società selvaggia o mal civile, altresì per sua natura. E similmente, compensato il tutto insieme, è molto più lontana dalla natura, benchè le snaturatezze della società selvaggia diano molto più nell’occhio, non per altro che perchè sono più materiali e fisiche, siccome gli uomini che compongono tali società, e siccome le sciagure e la infelicità generale che ne risulta. Non v’è cosa più contro natura, di quella spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo, ch’è essenzial compagna, effetto, sostanza della civiltà. Come le snaturatezze, le calamità, e la infelicità delle società selvagge, per esser naturalmente più fisiche, anzi tutte fisiche e materiali, sono più evidenti e tali che ognuno le può riconoscere per quel che sono, non v’è uomo il quale non convenisse che se la società umana non potesse esser altra che la selvaggia, la società nel gener nostro sarebbe cosa contro natura, e l’uomo non esser fatto per la società, ed in questa esser necessariamente imperfettissimo e infelicissimo. Ma perchè i danni e le snaturatezze della società civile sono più morali e spirituali, il che è ben consentaneo, perchè tale si è altresì l’uomo civile, ed e’ non può esser altrimenti, perciò, quantunque tali danni sieno molto più gravi veramente e contro natura, e tali snaturatezze molto maggiori, niuno però conviene che la società civile sia contro natura, e l’uomo non esser fatto per lei, e ch’ella sia necessariamente infelice, e molto meno ch’ella per propria essenza sia più contraria alla natura, e complessivamente più infelice che la società selvaggia. Questo veramente non è un ragionare da uomini civili, cioè spiritualizzati, ma appunto da primitivi o selvaggi, cioè materiali, non avendo riguardo che alle snaturatezze e infelicità materiali e sensibili, e che si riconoscono senza ragionamento, o stimandole sempre assai minori di quelle che il ragionamento dimostra essere molto maggiori, o negando affatto di riconoscere quelle che in verità sono molto maggiori, e negandolo perchè solo il ragionamento può mostrarle per tali e per infelicità e snaturatezze. Gli uomini anche i più civili e filosofi, così facendo (come quasi tutti, anche i sommi, fanno), somministrano nello stesso eccesso della lor civiltà e spiritualizzazione, una forte conferma di questa nostra proposizione che non vi sia cosa più contraria alla natura che la spiritualizzazione dell’uomo e di qualsivoglia cosa, e che tutto insomma per natura è materiale, e che la materia sempre vince, e che quindi essi così civili e spiritualizzati sono corrottissimi, perchè nello stesso loro ragionamento con cui vogliono difendere questo loro stato, e che loro è inspirato da questo, dànno la preferenza alla materia e non vogliono ragionare che materialmente.

Tout homme qui pense est un animal dépravé. Dunque l’uomo e la società civile lo è più che mai, e tanto più quanto più civile, non essendo quasi altro che spirito, ed éssere pensante, o adunanza di tali esseri.

Tutto questo discorso conviene colle osservazioni e prove che in mille di questi miei pensieri si sono fatte sopra la snaturatezza e infelicità vera dell’uomo corrispondente in proporzione alla sua maggior civiltà. Del che vedi in particolare il pensiero seguente, e quello a cui esso si riporta, come per natura sua, la civiltà sia supremamente contraria alla natura sì dell’uomo sì universale, e causa d’infelicità somma più che non è lo stato selvaggio, per una conseguenza della teoria e delle leggi universali di tutte le cose, e dell’esistenza. (28. Nov. 1823.).

Alla p. 3927. Non è difficile il concepire le per altro grandissime e moltiplici conseguenze che scaturiscono da’ suesposti principii, in ordine al dimostrare che la civiltà la quale per sua natura rende l’uomo, per così dire, tutto spirito (p. 3910. segg.), ed accresce per conseguenza infinitamente la vita propriamente detta, e l’amor proprio, accresce anche sommamente per sua natura l’infelicità dell’uomo e della società. E similmente in mille modi trasportando l’azione dalla materia allo spirito, l’attività, l’energia, ec. e, mettendo mille ostacoli all’attuale ed effettiva attività corporale (i governi, i costumi, la mancanza di bisogni, lo scemamento di forze, il gusto dello studio, ec. ec.), e scemando il grado e la forza e la frequenza delle sensazioni, passioni, azioni, e piaceri materiali, e la capacità di essi ec.; riconcentra orribilmente l’amor proprio, lo rivolge tutto sopra se stesso e in se stesso, per conseguenza l’aumenta sopra ogni credere, lo spoglia o impoverisce di distrazione ed occupazione ec. ec. Il selvaggio e per natura del suo corpo e de’ suoi costumi e della sua società, essendo men vivo di spirito, cioè propriamente men vivo, è meno infelice del civile, senza paragone alcuno. Così il villano, l’ignorante, l’irriflessivo, l’uom duro, stupido, è o per natura o per abito, inerte di mente, d’immaginazione di cuore ec. ec. a paragone dell’uomo ec. La civiltà aumenta a dismisura nell’uomo la somma della vita (s’intende l’interna) scemando a proporzione l’esistenza (s’intende la vita esterna). La natura non è vita, ma esistenza, e a questa tende, non a quella. Perocchè ella è materia, non spirito, o la materia in essa prevale e dee prevalere allo spirito (e così accade infatti costantemente in tutte l’altre sue parti sì animate che inanimate, e vedesi che tale è la sua intenzione, e che le cose sono ordinate a questo risultato universalmente e particolarmente, secondo le loro specie e lor differenze e proporzioni scambievoli, ma nel tutto il risultato è quello che ho detto), al contrario di ciò che accade nell’individuo e nel genere umano civilizzato, per propria natura della civiltà — ec. ec. — Vedi il pensiero precedente. (28. Nov. 1823.). — Segue ancora da questi principii che la vita attiva, come più materiale, e abbondante più di esistenza che di vita propria, la vita ricca di sensazioni ec. è naturalmente, e secondo la natura sì propria sì universale, più felice che la contemplativa ec. la qual è il contrario. V. p. seg.

Al detto altrove di possente, puissant, pujanza ec. aggiungi sobrepujar. (29. Nov. anniversario della morte di mia Nonna. 1823.).

Ho posto altrove tremolare, trembler, temblar ec. fra’ diminutivi positivati (o fossero frequentativi, o cose simili, in origine). Se però questi verbi son fatti da tremulus, e’ non sono diminutivi, perchè tremulus è da tremere come speculum da specere, e nè l’uno nè l’altro è diminutivo, e tremulare non sarebbe più diminutivo che speculare, jaculari e simili, del che vedi la pag. 3875. (29. Nov. 1823.).

Ho detto altrove in più luoghi che la francese per l’estrinseco e per l’intrinseco è di tutte le lingue sorelle la più lontana dalla madre. Molto più vicina le fu ne’ passati secoli (come nel 500 ec.) per l’intrinseco, siccome per l’estrinseco ancora, cioè per la pronunzia della loro scrittura (ch’è tanto più simile al latino che la loro favella) erano più vicini al latino non solo nel 300 ec. come ho detto altrove, e ne’ principii della lingua, ma nel 500 ancora e nel 600 di mano in mano ec. (29. Nov. 1823.).

Alla p. antecedente, marg. Or da ogni parte si vede che la natura avea destinato sì l’uomo, sì gli animali, nel modo stesso che ha evidentemente ordinato tutte le cose, all’azione esterna e materiale, e alla vita attiva. ec. E i detti principii cospirano ottimamente con tutto il corso de’ nostri pensieri che da per tutto preferiscono l’attivo al contemplativo in mille modi ec. (29. Nov. 1823.).

Alla p. 3926. Similmente si ragioni de’ vecchi rispetto ai giovani. Quelli hanno men vigore assai di corpo, ma anche assai men vigore di spirito, sì che la condizione dell’uno è temperata e compensata con quella dell’altro, sono men forti di corpo, ma eziandio assai men vivi di spirito, per ragioni fisiche, cioè decadenza fisica e logoramento della loro organizzazione e facoltà interne, corrispondente a quello dell’esterno ec. (29. Nov. 1823.).

Circa l’usarsi in latino frequentissimamente i participii sì passivi sì ancora attivi in forma aggettiva, del che altrove in più luoghi, vedi la mia annotazione alla Canzone VI (Bruto minore) strofe 3. verso 1. e le osservazioncelle marginali e postille volanti sopra la medesima annotazione. (29. Nov. anniversario della morte di mia Nonna. 1823.).

Monosillabi latini. Lux, idea primitiva. Gr. φάος, φῶς. (30. Nov. 1823.). Falx.

Al detto altrove di fictus, fixus ec. aggiungi confitto da configgere o configere (non da conficcare, come dice la Crusca). Non si dice confisso. Per lo contrario affisso e non affitto participio. V. però la Crus. in affitto aggett. , se quello non è un luogo male scritto, come pare ec. (1 Dec. 1823.).

Al detto altrove circa intentatus da intento, e in senso di non tentatus, aggiungi inauratus da inauro e in senso di non auratus. (1 Dec. 1823.).

Scambio del v col g, di cui altrove. V. Forc. in erivo. Rigo, irrigo ec. e per rivo, irrivo, irrivus (per irriguus), come de-rivo ec. E v. il Forc. in tutte queste voci ec. (4. Dec. 1823.).

Andare per essere, del che altrove. V. Virg. Aen. 1. 50. e il Forc. in incedo. (5. Dec. 1823.).

Non solamente i verbali in ibilis o in bilis, come altrove s’è detto, ma anche altri generi di verbali, come quelli in ilis breve (docilis, facilis, missilis, fissilis, fictilis, coctilis, versatilis, aquatilis ec.) o lungo (mictilis ed altri molti), in alis (genitalis ec.), in ivus (defectivus ec.), in itius o icius (emptitius ec.), in bundus (errabundus, ludibundus, pudibundus ec.), tutti fatti da’ supini regolari o irregolari, noti o ignoti ec. possono e debbono servire al discorso de’ supini e a confermare le nostre osservazioni su di questi, sì ne’ casi particolari, sì nel generale, osservando la più frequente, comune, antica, regolare, intera, e propria forma di ciascuno di tali generi di verbali collettivamente considerato ec. (5. Decembre. 1823.). V. p. 3984.

Al detto altrove sul vero supino di pingo, fingo ec. aggiungi mingo che fa minctum onde minctio ec. e pure si trova mictus us ec. corruzioni, come quella accaduta nello stesso supino di fingo, pingo ec. dove il supino corrotto ha scacciato affatto il regolare ec. (5. Dec. 1823.). Commingo inxi ictum inctum, commictus a um, commictilis. E v. gli altri composti. V. p. 3986.

A proposito dell’antico fuo di cui altrove, osservisi ch’egli è originariamente lo stesso di fio da φύω, mutato l’υ in i, come in silva, laddove in fuo è mutato in u. E questa osservazione di fuo e fio si applichi al detto da me in più luoghi sì circa lo scambio reciproco delle vocali u ed i, sì circa la pronunzia latina del greco υ, la quale forse, anche antichissimamente, come poi (a’ tempi di Cicerone di Marziano ec.) quella dell’y, fu tra l’i e l’u (cioè pronunzia di u gallico), come si può congetturare sì dal veder l’υ greco ora cambiato in u ora in i, sì dal vederlo talora in una stessa parola cambiato nell’uno e nell’altro, come in φύω — fuo-fio, che antichissimamente dovettero esser un sol verbo e per significato e per tutto, sì dallo stesso scambio reciproco dell’u e dell’i sì frequente in latino, come appunto tra fuo e fio, e in mille altre voci. ec. ec. (5. Dec. 1823.).

Che titillo, come altrove dico[a]

Puoi ved. la p. 3986.

[Chiudi], sia duplicazione (nata nel Lazio, o fatta p. e. dagli Eoli o da altro greco dialetto, o propria dell’antica lingua madre del latino e del greco, o dell’antico greco comune ec. ec.) del greco τίλλω, fatta all’uso greco, lo conferma l’osservare che la vocale di tal duplicazione cioè l’i è quella appunto che il greco usa in tali duplicazioni, come in τρώσκω ec. V. p. 3979. Laddove nell’altre duplicazioni latine, come in dedi, cecidi ec. la vocale della duplicazione è la e. E questo ancora è all’uso greco, che nella duplicazione de’ perfetti usa la ε. E notisi che come questa, così quella e è breve, fuorchè in cecidi che molti scrivono caecidi, dove forse non sarà breve per distinguerlo da cecidi. Del resto tal uso affatto conforme al greco ha luogo in molti verbi latini che non hanno a far niente con alcuna voce greca nota, ed è un uso antichissimo nel latino, e non introdottovi da’ letterati. Il che conferma l’antica conformità dell’origine, e fratellanza tra il greco e latino. Dalla quale origine dovette venir quest’uso nell’una e nell’altra lingua, in quella più conservato e steso, in questa meno, e sì può dire, perduto, se non in certe voci determinate, di cui si conservò sempre la forma antica, senza però mai applicar tal forma ad altri verbi, o a’ verbi di mano in mano introducentisi da quegli antichissimi tempi in poi. ec. Tal uso trovasi ancora nella lingua sascrita, come negli Annali di Scienze e lettere di Milano, altrove citati in proposito d’essa lingua ec. (5. Dec. 1823.).

Anche τιτρώσκω, come altrove ho detto di ὀφλισκάνω, è doppia alterazione, cioè da τράω,, τιτράω (che ancor si trova, v. Scap. in τιτράω ) e poi τιτρώσκω (così lo Schrevel.), ovvero da un τρώω, τιτρώω e poi τιτρώσκω. Così da τράω e τιτράω, τιτραίνω, è doppia alterazione: sempre però collo stesso senso del primitivo. Così altri non pochi. (5. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati. Pretto (puretto) per puro. (6. Dec. 1823.).

La facoltà d’imitazione non è che facoltà di assuefazione; perocchè chi facilmente si avvezza, vedendo o sentendo o con qualunque senso apprendendo, o finalmente leggendo, facilmente, ed anche in poco tempo, riducesi ad abito quelle tali sensazioni o apprensioni, di modo che presto, e ancor dopo una volta sola, e più o manco perfettamente, gli divengono come proprie; il che fa ch’egli possa benissimo e facilmente rappresentarle ed al naturale, esprimendole piuttosto che imitandole, poichè il buono imitatore deve aver come raccolto e immedesimato in se stesso quello che imita, sicchè la vera imitazione non sia propriamente imitazione, facendosi d’appresso se medesimo, ma espressione. Giacchè l’espressione de’ propri affetti o pensieri o sentimenti o immaginazioni ec. comunque fatta, io non la chiamo imitazione, ma espressione. Or come la facoltà d’imitare sia qualità e parte principalissima e forse il tutto de’ grandi ingegni, e così degli altri talenti in proporzione, è cosa da molti osservata e spiegata. Dunque riconfermasi che l’ingegno è facoltà di assuefazione. (6. Dec. 1823.). V. p. 3950.

Scambio del g e del v. Nivis-neige-ningit o ninguit (onde il nostro negnere) e nivit, onde il nostro nevicare, quasi nivicare, come da vello vellico ec. frequentativi, di cui vedi la p. 2996. marg.: e vedi il Gloss. se vuoi. (6. Dec. 1823.).

Alla p. 3275. marg. Anzi molti di questi amano più di aver de’ nemici che degli amici, son più contenti di essere odiati che amati, e si attaccano volentieri con chicchessia, non per sensibilità, neanche per misantropia, per l’odio naturale verso gli altri ec., ma perchè il loro stato naturale è lo stato di guerra, ed amano più di combattere che di stare in pace e posarsi, e più la vita inquieta che la tranquilla. E ciò semplicissimamente, senza malignità, senza carattere nè passioni nere e odiose. Infatti essi sono apertissimi, sincerissimi, compassionevolissimi, e beneficano più degli altri, ma le stesse persone che essi compatiscono o beneficano, amerebbero più di averle a combattere e di esserne odiati. E similmente cogli altri uomini i quali hanno più caro di averli contrarii che affezionati o indifferenti, e però tuttogiorno, senza passione alcuna, o ben leggera, e sopra menomissime bagattelle gli stuzzicano e provocano ed offendono o con parole o con fatti, per avere il piacer di combatterli e di stare in guerra. E come ciascuno s’immagina ordinariamente quello che più desidera, così essi ordinariamente si compiacciono in pensare che gli altri vogliano loro male, e in torcere ogni menoma azione e parola altrui verso loro a cattiva intenzione ed ostile, e pigliano occasione da tutto di entrare in lizza con chicchessia, anche coi più familiari, intrinseci, compagni ed amici. Torno a dire che tutto ciò è con grandissima semplicità ed anche nobiltà, o certo non doppiezza e non viltà, di carattere; senza umor tetro e malinconico (anzi questi tali sono per l’ordinario allegrissimi o tirano all’allegria) senza carattere atrabilare, nè quella che si chiama δυσκολία e morositas, carattere acre ec. indole e costume puntiglioso[a]

Chi sia accorto, facilmente distingue e nella speculazione e nella pratica, e in ciascuna persona e caso particolare, e nel generale, il carattere e costume puntiglioso, e i fatti puntigliosi, dal carattere ec. ch’io qui descrivo (il quale non è neppur lo stesso che quello del Burbero benefico di Goldoni) che certo in realtà sono cose molto diverse e distinte.

[Chiudi], anzi tutte queste cose son proprie degli uomini deboli e sfortunati (e quindi con verità si attribuiscono pariticolarmente a’ vecchi, massime donne), senza incontentabilità, malumore, scontentezza, senza umore soverchiamente collerico ed accensibile. La forza del corpo e dell’età e la prosperità delle circostanze, dà a questi tali tanta confidenza in se stessi, che non che cerchino o curino il favor degli altri, sono più soddisfatti di averli contrarii, e godono di riguardar gli altri piuttosto come nemici che come amici o indifferenti, ed anche di averli veramente nemici più o meno, secondo la qualità delle occasioni e la forza fisica di questi tali. La loro conversazione e compagnia e convitto, massime a lungo andare, è veramente molto difficile e dispiacevole, benchè essi sieno incapaci di tradimento, e servizievoli e benefici e compassionevoli e generosi. Essi sono, malgrado questo, poco capaci di amare, e poco fatti per essere amici, ma essi sono altresì più capaci e desiderosi di aver de’ nemici, che atti ad esserlo, perchè son più buoni all’ira che all’odio, a combattere che a odiare, a vendicarsi che a perseguitare. Anzi costoro son quasi incapaci di odiare, e l’ira eziandio propriamente presa in essi è molto blanda e breve, forse perchè frequentissima. (6. Dec. 1823.).

La memoria, l’immaginazione e oltre di queste, anche l’altre facoltà dell’animo e dell’ingegno s’indeboliscono e talora si estinguono coll’età, anche indipendentemente dalle circostanze estrinseche della vita, dall’esperienza, e dalle altre cose che influiscono sul carattere, spirito, ingegno, e lo modificano ec. Il rimbambimento de’ vecchi è cosa molte volte reale, molte volte anche prematuro per malattie, che rendono radoteurs a 50 anni e poco prima o poco poi. Questi tali sono facilissimi a piangere come i fanciulli. Ciò può accadere anche nel fiore e vigor dell’età per debilitamento passeggero o durevole delle forze fisiche, e con esse delle facoltà mentali. Io n’ho veduto gli esempi. Tutto ciò si applichi al mio discorso fatto per provare che v’ha differenze naturali ed ingenite fra’ talenti, al qual proposito veggasi ancora la p. 3891, e 3806-10. e il pensiero seguente. (6. Dec. 1823.).

Alla p. 3923. marg. Similmente i gran talenti di rado si trovano in corpi forti. In parità di circostanze e d’altro, i più deboli son più furbi de’ più forti, anche per naturale disposizion fisica, non considerando le abitudini ec. di cui altrove in proposito delle donne. Difficilmente si troverà gran furberia in uomo pingue (se la pinguedine non gli è malattia ed accidente ec.) ancorchè esercitato in tutto quello che più favorisce e più richiede furberia. Neanche gran talento nè fino in un corpo grosso, e meno in corpo pingue ec. ec. Le diversità de’ talenti si conoscono in gran parte e sogliono corrispondere, non solo alle varie conformazioni e disposizioni del cranio ec. interiori o esteriori ec. ma eziandio del resto della persona in genere, e di parecchie sue parti in particolare. Queste osservazioni si applichino alla materia del pensiero precedente. (6. Dec. 1823.).

Alla p. 3898. Museau. Niffolo, v. la Crus. in Niffo . Questa voce è anche del Rucellai, Api, v. 990, il quale scrive nifolo, da nifo, ch’è pur della Crusca. — Bisogna notare, quando il positivo non si trovi nella lingua a cui spettano i diminutivi che paiono positivati, se forse anticamente quel positivo vi si trovò, proprio di essa lingua, o venuto di dove che sia, e trovandovisi non ebbe lo stesso senso che ha oggi quel diminutivo. E ciò quando anche in altre lingue si trovi quel positivo col medesimissimo senso di quel tale diminutivo. P. e. in italiano si trova muso e vuol dir lo stessissimo che museau, che certo viene da una voce simile; ma chi sa che in francese una volta non si trovasse muse in senso diverso? (v. gli spagnuoli). E veggasi a questo proposito il detto a pag. 3152. sulla voce fourreau. (6. Dec. 1823.).

Alla stessa pag. margine. Alcune di queste voci potrebbero anche venire dal latino o ignoto, o volgare, o barbaro ec. e se ne vegga il Gloss. ed anche il Forcell. ec. (6. Dec. 1823.).

La lingua greca appartiene veramente e propriamente alla nostra famiglia di lingue (latina, italiana, francese, spagnuola, e portoghese), non solo perch’ella non può appartenere ad alcun’altra, e farebbe famiglia da se o solo colla greca moderna; non solamente neppure per esser sorella o, come gli altri dicono, madre della latina (nel primo de’ quali casi ella dovrebbe esser messa almeno colla latina, e nel secondo è chiaro ch’ella va posta nella nostra famiglia), ma specialmente e principalmente perchè la sua letteratura è veramente madre della latina, la qual è madre delle nostre, e quindi la letteratura greca è veramente l’origine delle nostre, le quali in grandissima parte non sarebbero onninamente quelle che sono e quali sono (se non se per un incontro affatto fortuito) s’elle non fossero venute di là. E come la letteratura è quella che dà forma e determina la maniera di essere delle lingue, e lingua formata e letteratura sono quasi la stessa cosa, o certo cose non separabili, e di qualità compagne e corrispondenti; e come per conseguenza la letteratura greca (oltre le tante voci e modi particolari) fu quella che diede veramente e principalmente forma alla lingua latina, e ne determinò la maniera di essere, il carattere e lo spirito, di modo che la lingua e letteratura latina, quando anche fossero nate, formate e cresciute senza la greca, non sarebbero certamente state quelle che furono, ma altre veramente, e in grandissima parte diverse per natura e per indole e forma, e per qualità generali e particolari, e sì nel tutto, sì nelle parti maggiori o minori, da quelle che furono; stante, dico, tutto questo, la letteratura greca (oltre lo studio immediato fattone da’ formatori delle nostre lingue, come da quelli della latina) viene a esser veramente la madre e l’origine prima delle nostre lingue, come la latina n’è la madre immediata; le quali lingue (anche la francese che insieme colla sua letteratura è la più allontanata dalla sua origine, e dalla forma latina, e dall’indole della latina, e quindi eziandio della greca) non sarebbero assolutamente tali quali sono, ma altre e in grandissima parte diverse sì nello spirito, sì in cento e mille cose particolari, se non traessero primitivamente origine in grandissima parte dal greco per mezzo del latino. E veramente la lingua greca mediante la sua letteratura è prima (quanto si stende la nostra memoria dell’antichità) e vera ed efficacissima causa dell’esser sì la lingua e letteratura latina, sì le nostre lingue e letterature, anche la francese, tali quali elle sono, e non altre; chè per natura elle ben potrebbero essere diversissime in molte e molte cose, anche essenziali ed appartenenti allo spirito ed all’indole ec. e alquanto diverse più o meno in altre molte cose più o meno essenziali o non essenziali. E forse non mancano esempi di altre letterature e lingue antiche o moderne, anche meridionali ec., che non essendo venute dal greco, sono diversissime, anche per indole ec. e nel generale ec. non meno o poco meno che ne’ particolari, dalla latina e dalle nostrali. E ne può esser prova il vedere quanto la francese si è allontanata, anche di spirito, dalla latina e dalla greca alle quali era pur conformissima nel 500 ec. (vedi la p. 3937.), senz’aver mutato clima ec. Certo i tempi nostri son diversissimi da quelli de’ greci e de’ latini, quando anche il clima sia conforme, diversissime sono state e sono le nostre nazioni, loro governi, opinioni, costumi, avvenimenti e condizioni qualunque, sì tra loro, sì ciascuna di esse da se medesima in diversi tempi, sì dalla greca, e dalla latina eziandio. Nondimeno le loro lingue e letterature sono state conformi, massime fino agli ultimi secoli, e tra loro, e tra’ vari lor tempi, e colla greca e latina ec. Sicchè tal conformità non si deve attribuire nè solamente nè principalmente al clima, nè ad altre circostanze naturali o accidentali, ma all’accidente di esser derivate effettivamente dal greco e latino, chè ben potevano non derivar da nessuno, o derivare d’altronde ec. ec.

Lascio che, come ho detto altrove, le lingue e letterature italiana e spagnuola, massime antiche, e più quanto più si considerano nel loro antico ed anche informe stato, e la francese antica ec., somigliano per l’indole ec. al greco forse più che il latino, e quasi senza forse più che al latino, e tengono del greco ec. (6. Decembre. 1823.).

Disserto as da dissero ertum. (7. Dec. Vigilia dell’Immacolata Concezione della SS. Vergine Maria).

Alla p. 3885. Allora l’italiano era principalmente noto e considerato dagli stranieri come lingua del Metastasio, e per li drammi del Metastasio[a]

Puoi ved. la lett. 101. del Re di Pruss. a d’Alembert , onde apparisce che il Metastasio s’avea fuor d’Italia pel principale ingegno italiano di que’ tempi.

[Chiudi], insomma come lingua dell’Opera. Peggio sarebbe se Federico avesse pigliato idea dell’italiano, com’è pur verisimile, da quello del suo Algarotti ec. (7. Dec. 1823.).

Participii aggettivati ec. di che altrove in più luoghi. Da molti participii si son fatti de’ vocaboli che non son che aggettivi, perchè non hanno alcun verbo di cui poter essere participj, come innocens, invictus, intentatus (che non hanno innoceo, invinco ec.) e cento mila altri. E vedi a proposito d’invictus e simili, il luogo citato a p. 3938. Nondimeno questi tali vocaboli conservano ancora un senso di participio, eccetto alcuni alcune volte (come illaudatus per illaudabilis, vedi il Forcell.), che oltre al non essere più participii perchè non hanno verbo, hanno anche ricevuto un secondo cangiamento cioè nella significazione. (7. Dec. Vigilia della Concezione. 1823.).

Participii passivi in senso attivo o neutro ec. Dañado da dañar per dañante, cioè nocente, dannoso. S’usa in forma aggettiva, come si deve anche intendere d’altri moltissimi di tali participii, o latini o moderni, sempre così usati, o per lo più, o talvolta, dico, in forma aggettiva. (7. Dec. 1823.).

Alla p. 3942. Anzi l’uomo, e lo spirito umano massimamente e i suoi progressi, e quelli dell’individuo, e delle sue facoltà, manuali o intellettuali ec. e lo sviluppo delle sue disposizioni, del suo spirito, talento, immaginazione ec. tutto è, si può dire, imitazione — Viceversa di quel che si è detto l’assuefazione è una specie d’imitazione; come la memoria è un’assuefazione, e viceversa ogni assuefazione una specie di memoria e ricordanza, secondo che ho detto altrove. (7. Dec. Vigilia dell’Immacolata Concezione. 1823.).

Non si dà ricordanza senza previa attenzione, ec. come altrove. Questa è una delle principali cagioni per cui i fanciulli, in principio massimamente, stentano molto a mandare a memoria, e più degli uomini maturi, o giovani. Perocchè essi sono distratti e poco riflessivi ed attenti, per la stessa moltiplicità di cose a cui attendono, e facilità, rapidità e forza con cui la loro attenzione è rapita continuamente da un oggetto all’altro. Gli uomini distratti, poco riflessivi ec. non imparano mai nulla. Ciò non prova la lor poca memoria, come si crede, ma la lor poca o facoltà o abitudine di attendere, o la moltiplicità delle loro attenzioni, il che si chiama distrazione. Perocchè la stessa troppa facilità di attendere a che che sia, o per natura o per abitudine, la stessa suscettibilità della mente di esser vivamente affetta e rapita da ogni sensazione, da ogni pensiero; moltiplicando le attenzioni, e rendendole tutte deboli, sì per la moltitudine, e confusione, sì per la necessaria brevità di ciascuna, da cui ogni piccola cosa distoglie l’animo, applicandolo a un altro, e per la forza stessa con cui questa seconda attenzione succede alla prima, cancellando la forza di questa, rende nulla o scarsissima la memoria, deboli e poche le reminiscenze. E così la stessa facilità e forza eccessiva di attendere produce o include l’incapacità di attendere, e così suol essere chiamata, benchè abbia veramente origine dal suo contrario, cioè dalla troppa capacità di attendere (come sempre il troppo dà origine o equivale e coesiste al nulla o alla sua qualità o cosa contraria); e l’eccesso della facoltà di attendere si riduce alla mancanza o alla scarsezza di questa facoltà, secondo che detto eccesso è maggiore o minore. Ciò ha luogo principalmente, per regola e ordine di natura, ne’ fanciulli. — Laddove una sensazione ec. una sola volta ricevuta ed attesa, basta sovente alla reminiscenza anche più viva, salda, chiara, piena e durevole, essa medesima mille volte ripetuta e non mai attesa non basta alla menoma reminiscenza, o solo a una reminiscenza debole, oscura, confusa, scarsa, manchevole, breve e passeggera. Perciò venti ripetizioni non bastano a chi non attende per fargli imparare una cosa, che da chi attende è imparata talora dopo una sola volta, o con pochissime ripetizioni estrinseche ec. (7. Dec. Vigilia della Concezione. 1823.).

Dal detto altrove circa le idee concomitanti annesse alla significazione o anche al suono stesso e ad altre qualità delle parole, le quali idee hanno tanta parte nell’effetto, massimamente poetico ovvero oratorio ec., delle scritture, ne risulta che necessariamente l’effetto d’una stessa poesia, orazione, verso, frase, espressione, parte qualunque, maggiore o minore, di scrittura, è, massime quanto al poetico, infinitamente vario, secondo gli uditori o lettori, e secondo le occasioni e circostanze anche passeggere e mutabili in cui ciascuno di questi si trova. Perocchè quelle idee concomitanti, indipendentemente ancora affatto dalla parola o frase per se, sono differentissime per mille rispetti, secondo le dette differenze appartenenti alle persone. Siccome anche gli effetti poetici ec. di mille altre cose, anzi forse di tutte le cose, variano infinitamente secondo la varietà e delle persone e delle circostanze loro, abituali o passeggere o qualunque. Per es. una medesima scena della natura diversissime sorte d’impressioni può produrre e produce negli spettatori secondo le dette differenze; come dire se quel luogo è natio, e quella scena collegata colle reminiscenze dell’infanzia ec. ec. se lo spettatore si trova in istato di tale o tal passione, ec. ec. E molte volte non produce impressione alcuna in un tale, al tempo stesso che in un altro la fa grandissima. Così discorrasi delle parole e dello stile che n’è composto e ne risulta, e sue qualità e differenze ec. e questa similitudine è molto a proposito.

Queste osservazioni si applichino al detto da me altrove sopra quanto debba naturalmente esser diverso il giudizio degli uomini circa il pregio ec. delle scritture, siccome è naturalmente diversissimo l’effetto loro (anche lasciando affatto da parte l’invidia l’ignoranza e cose tali che variano o falsificano i giudizi per colpa umana, sebbene anch’esse inevitabili e naturali); e quanto la fama degli scritti, scrittori, stili ec. dipenda dalle circostanze, e da infinite e diversissime circostanze, e combinazioni di circostanze. L’arte dello scrittore si riduce e deve ridurre a osservar qual effetto quali idee, appresso a poco ed in grosso e confusamente parlando, producano o sogliano produrre tali o tali parole e combinazioni e usi loro nel più degli uomini o de’ nazionali generalmente considerati, nel più delle circostanze di ciascheduno e nelle più ordinarie, per natura o per gli abiti più invalsi ec. ec. E gli scritti, scrittori e stili che sono in maggior fama e pregio, son quelli che meglio e più felicemente hanno osservato le dette cose e regolatisi secondo le dette osservazioni e saputo trarne vantaggio ed applicarle all’uso e conformarvi i loro modi di scrivere; non quelli che a tutti, neanche a’ nazionali, in ogni tempo e circostanza loro, piacciono e producono lo stesso effetto, e nello stesso grado, o pur solamente producono effetto qualunque, o una stessa sorte di effetto; chè tutto questo è impossibile ad uomo nato e di niuno o poeta o scrittore ec. libro, stile ec. si verifica, nè è per verificarsi mai, nè mai si verificò.

Si applichino eziandio le dette osservazioni alla difficoltà o impossibilità di ben tradurre, a ciò che perde un libro nelle traduzioni le meglio fatte, all’assoluta impossibilità, e contradizione ne’ termini, dell’esistenza di una traduzione perfetta, massime in riguardo ai libri il cui principal pregio, o tutto il pregio o buona parte spetti allo stile, all’estrinseco, alle parole ec. o col cui effetto queste sieno particolarmente ed essenzialmente legate ec., come debbono esser necessariamente più o meno tutti i libri di vera poesia in verso o in prosa ec. ec. (7. Dec. 1823.). — Si estendano ancora le dette osservazioni alla diversità delle idee concomitanti di una stessa parola ec. e quindi dell’effetto di una stessa scrittura ec. secondo i tempi, e le nazioni, i forestieri o nazionali, posteri più o meno remoti, o contemporanei ec. E quindi alla poca durevolezza ed estensione possibile della fama e stima di una scrittura per ottima ch’ella sia, almeno dello stesso grado e qualità di fama e stima, e del giudizio di essa ec., massime essendo impossibili le traduzioni perfette, o dall’antico nel moderno, o d’uno in altro moderno ec., come di sopra. E le differenze occasionate ne’ lettori da quelle de’ tempi, costumi, climi, luoghi ec. ec. ec. (7. Dec. 1823.).

Quoi qu’on en dise, il vaut mieux être heureux par l’erreur que malheureux par la vérité. Lettres du Roi de Prusse et de M. d’Alembert. Lettre 101. du Roi, fin. Parla del vantaggio delle illusioni. (8. Dec. Festa della Concezione Immacolata di Maria Vergine Santissima. 1823.).

Grazia dal contrasto. Parolacce in bocca di donne o di forme e maniere maschili, o gentili e delicate ec. Parole, discorsi, modi, atti, pensieri ec. tiranti al maschile, assennati, dotti ec. in donne di forme ec. maschili o all’opposto ec. S’intende di donne avvenenti ec. e che la maschilità non passi i termini del grazioso nello sconveniente ec. V. p. 3961. (8. Dec. Festa della Concezione. 1823.).

Da chaudron (caldaio), diminutivo di chaudière (calderone), chaudronnier in senso positivo cioè calderaio. Infiniti sono e in latino e massime nel latino basso e nelle lingue figlie i derivati e di questo e d’altri molti generi, e sorte di significati ec. V. p. 4006. ec. che avendo un senso positivo, e corrispondente a quello del positivo da cui hanno origine, sono però fatti da un diminutivo (usitato o no, ed anche semplicemente supposto) di esso positivo, sia ch’esso diminutivo abbia un uso positivato, o no, ec. e che tali voci derivino dal latino, o no, ec[a]

Vedi la pag. 3963. lin. 18. 3980. lin. 3. 4.

[Chiudi]. Forse la ragione di tali derivativi che in senso positivo sono formati da’ diminutivi, si è che essi e fors’anche i diminutivi da cui derivano, hanno un senso frequentativo o cosa simile[a]. Infatti la diminuzione in senso di frequentazione assolutamente e unicamente, ovvero in compagnia di questo senso, è comunissima nel latino nell’italiano ec. come altrove in più luoghi. E molti assoluti frequentativi (verbi o nomi ec.) non sono che per la forma diminutiva che hanno, e questa si è la sola che in essi indica la frequenza ec. sia che i positivi di senso o di forma o d’ambedue ec. si trovino ed usino, o no, neanche vi possano essere, come spesso accade in italiano, ec. p. e. balbettare non ha nè potrebbe avere balbare, al quale però equivarrebbe ec. (8. Dec. Festa dell’immacolata Concezione di Maria. 1823.).

Dico altrove che i verbali in us us derivano da’ supini, ec. Osservisi il supino in u. Questo non sembra esser altro che l’ablativo del verbale in us us. Di modo che io credo che il supino in um altresì originariamente non sia altro che l’accusativo singolare del verbale rispettivo in us us, usitato o inusitato che sia, poichè il supino in u non è altro che l’ablativo di quello in um, e che il supino in u sembra evidentemente appartenere a un nome della quarta. ec. (8. Dec. 1823. Festa della Concezione.)

Italianismi nello Spagnuolo, del che altrove. Quizà (cioè forse) voce che fino ne’ Vocabolari del 600 si dà per antica (bench’io la trovo in uso, anche frequente, presso i moderni eziandio). Pretto e manifesto italianismo, sì per la forma (in ispagnuolo si direbbe quien sabe?), sì pel significato, poichè anche noi, massime nel linguaggio parlato, e questo familiare, usiamo non di rado chi sa? chi sa che non, chi sa se ec. per forse o in sensi simili. (8. Dec. Festa della immacolata Concezione di Maria. 1823.).

Si dice con ragione, massime delle cose umane, e terrene, che tutto è piccolo. Ma con altrettanta ragione si potrebbe dire, anche delle menome cose, che tutto è grande, parlando cioè relativamente, come ancor parlano quelli che chiamano tutto piccolo, perchè nè piccola nè grande non è cosa niuna assolutamente. Sicchè non è per vero dire nè più ragionevole nè più filosofico il considerare qualsivoglia cosa umana o qualunque, come piccola, che il considerare essa medesima cosa come grande, e grandissima ancora, se così piace. E ben vi sono quasi altrettanti aspetti e riguardi, tutti egualmente degni di filosofo, altrettanti, dico, per la seconda affermazione che per la prima. Ed anche il mondo intero e universo e tutta la università delle cose o esistenti o possibili o immaginabili, a paragone di cui chiamiamo piccole e menome le cose umane, terrene, sensibili, a noi note, e simili, può nello stesso modo esser considerata come piccola e menoma cosa, e d’altro lato come grande e grandissima. Niente manco che mentre delle cose umane si chiamano piccole verbigrazia quelle degli oscuri privati a paragone di quelle de’ vastissimi e potentissimi regni, e nondimeno queste ancora, grandissime a paragon di quelle, si chiamano da’ filosofi piccolissime e nulle sotto altro rispetto, è ben ragionevole che sotto diversi rispetti, quelle eziandio de’ privati ed oscurissimi individui, sieno chiamate, anche da’ filosofi, grandi e grandissime, di grandezza niente men vera o niente più falsa che quella delle cose de’ massimi imperii. (8. Dec. 1823.).

In tutta l’America, abitata certo e frequentata da tempi remotissimi, poichè non s’ha notizia nè memoria alcuna del quando incominciasse, non si è trovato alcuna sorta di alfabeto nè orma alcuna di alfabeto, nè cosa che alla natura di esso si avvicinasse. Non ostante la molta e maravigliosa coltura, le arti, manifatture, fabbriche ammirabili, politica squisita e legislazione, ed altre grandi e numerose parti di civiltà che si trovarono nel paese soggetto al regno degl’Incas[a]

V. il Saggio di Algarotti sugl’Incas.

[Chiudi], cominciato da tre secoli prima della scoperta e conquista d’esso paese (cioè nel sec. 13.); e più ancora nel Messico, la cui civilizzazione credo che sia ancora più antica. Dico dell’ultima e più nota civiltà, poichè s’hanno molti indizi, e di tradizioni patrie, e d’avanzi d’edifizi e monumenti di gusto e maniera diversa da quelli dell’ultima epoca di civiltà, e d’altre cose, che dimostrano esservi state altre epoche in cui questa o quella parte dell’America (in particolare il Perù) fu, non si sa fino a qual segno, civile o dirozzata. Massime che l’America fu soggetta a rivoluzioni frequentissime e totali ne’ paesi ov’elle accadevano, trasmigrazioni e totali estinzioni d’interi popoli e città, e devastazioni e assolamenti d’intere provincie, per la ferocia e frequenza e quasi continuità delle guerre, come ho detto altrove in più luoghi (v. la pag. 3932. fra l’altre, con quelle ivi citate, e il pensiero a cui quest’ultime appartengono). La scrittura del regno degl’incas si faceva con certi nodi ( Algarotti Saggio sugl’Incas. opp. Cremona t. 4. p. 170-1 ); quella del Messico consisteva in pitture. Queste osservazioni si applichino al detto altrove 1. sopra l’unicità dell’invenzione dell’alfabeto, 2. sopra la difficoltà di questa invenzione tanto necessaria alla civiltà, e quindi tanto principal cagione dello snaturamento dell’uomo ec., 3. sopra le differenze essenziali tra lo stato de’ popoli anche civili, che non abbiano avuto relazioni tra loro, 4. sopra l’unicità di tutte o quasi tutte le invenzioni più difficili, e più contribuenti alla civiltà, dimostrata dall’esser esse, benchè necessarissime, state sempre ignote ai popoli, anche fino a un certo segno civili, che non hanno avuto che fare cogli europei ec. dopo esse invenzioni, o viceversa agli europei ec. benchè civilissimi, quelle degli altri popoli, ancorchè molto addietro in coltura, e ciò per lunghissimi secoli, fino al cominciamento delle relazioni scambievoli degli europei ec. e di tali popoli. (8. Dec. Festa della Concezione. 1823.).

Quanta fosse la difficoltà e dell’invenzione dell’alfabeto, e della sua applicazione alla scrittura, e alle diverse lingue antiche successivamente, e quanta dovesse essere l’irregolarità e falsità delle prime scritture alfabetiche e delle prime ortografie (difetti che si veggono ancora notabilissimi nelle più antiche scritture, cioè nell’orientali, come ho detto altrove, p. e. nell’ebraica, ch’è senza vocali, come molte altre orientali ec., difetti perpetuati poi in esse scritture, fino anche a’ nostri tempi, in quelle che sono ancora in uso ec.), si può congetturare dalle cose dette da me altrove in più luoghi circa la difficoltà dell’applicare primieramente la scrittura alle lingue moderne, e regolarne l’ortografia, e farla corrispondere al vero suono ec. delle parole, e circa l’irregolarità e falsità delle ortografie moderne ne’ loro principii, anzi pur fino all’ultimo secolo in Italia, ed altrove, massime in Francia, sino al dì d’oggi; non ostante e che si avessero modelli chiarissimi, completissimi e perfettissimi di scrittura e ortografia nel latino e nel greco; e che l’uso dello scrivere fosse da tanti secoli fino a quel tempo inclusivamente, così comune; e che gli uomini fossero tanto men rozzi e più sperti in ogni cosa che non al tempo della prima invenzione ed uso dell’alfabeto e sua successiva applicazione alle varie lingue; e queste benchè bambine, pure certamente più formate, e meno incerte, arbitrarie, istabili, informi che al detto tempo, in cui l’uomo non aveva ancora mai usato nè conosciuto nè avuto esempio alcuno di lingua non che perfetta, ma degna del nome di lingua, al contrario di allora che si conoscevano e s’erano parlate, scritte ec. ec. sì generalmente per tanti secoli le lingue greca e latina sì perfette, oltre tante altre colte; e finalmente non ostante la somma civiltà e il punto di perfezione a cui sono arrivate e in cui si trovano le cognizioni ec. dello spirito umano in questi tempi, e la tanta esattezza divenuta sua propria in ogni cosa, e caratteristica di questi secoli, e la facoltà d’invenzione e di applicazione ec. e gusto e frequenza di riforme e di perfezionamenti ec. ec. Si giudichi dunque con queste proporzioni della difficoltà, irregolarità ec. delle scritture antiche ec. come sopra. (8. Dec. 1823. Festa della immacolata Concezione di Maria Vergine Santissima.).

Disperser da dispergo-dispersum. (8. Dec. 1823. Festa della immacolata Concezione di Maria Vergine Santissima.).

Il v non è che un’aspirazione ec. Tovaglia it. — toalla, che anche si scrive toballa ( Cervantes, D. Quijote ), e toaja spagn. (9. Dec. Vigilia della Venuta della S. Casa. 1823.).

Participii passivi in senso attivo o neutro ec. Atentado cioè prudente accorto cauto ec. da atentar cioè tastare. Corrisponde appunto al lat. cautus, voce che originariamente è participio, e che spetta a questa medesima categoria, come altrove. Similmente l’ital. avvisato e simili, di cui altrove. V. ancora i Diz. spagn. in recatado, recatar ec. (9. Dec. 1823.).

Che mentar, rammentare, ammentare ec., o se non altro il primo, non venga da mente [a]

V. il Gloss. ec. Ramentevoir franc. antico.

[Chiudi], ma dal sup. mentum dell’inusitato meno di cui non sussiste in latino che il perf. memini, e del quale altrove? (9. Dec. Vigilia della Venuta della S. Casa. 1823.). V. p. 3985.

Che recatar ec. sia quasi recautare da recautum di un recaveo? V. i Diz. spagn. e il Gloss. ec. (9. Dec. 1823.). V. p. 3964.

Altrove ho notato non so qual verbo composto con preposizione latina inusitata nelle lingue moderne, ch’è usitato nelle lingue moderne e non si trova nel latino. Di questi tali sì verbi sì vocaboli qualunque, ve ne sono moltissimi nelle lingue nostre, e l’argomento da me fatto intorno al suddetto verbo si deve stendere a tutti questi altri. (9. Dec. 1823.). V. p. 3969.

Alla p. 3955. marg. Ovvero che la sua straordinarietà sia di quelle che producono un bello straordinario (e quindi grazioso, anzi tale che si chiama piuttosto grazia che bellezza) cioè un accozzamento di parti ec. che non sogliono riunirsi insieme a produrre e formare il bello, ma tra cui non v’ha sconvenienza veruna, del qual genere di bellezza, e di grazia, che può però essere di molte specie, ho detto altrove, non so se estensivamente a tutte le specie di cui tal genere è capace. (9. Dec. 1823.). V. p. 3971.

Ippocrate nel libro de aere, aquis et locis (p. 29. class.1 dell’ediz. del Mercuriale. Venet. 1588. fol. ap. Iuntas, in due tomi, ciascuno diviso in due classi) parla di una nazione che chiama de’ Macrocefali, presso i quali stimandosi γενναιότατοι quelli ch’avessero la testa più lunga, era legge che a’ bambini ancor teneri, quanto più presto colle mani si riducesse la figura della testa in modo che fosse lunga e così si facesse crescere obbligandola con fasce e altre stretture. Aggiunge ch’al tempo suo questa legge e questo costume non s’osservavano più, ma che i bambini naturalmente nascevano colla testa così figurata, perchè prodotti da genitori che tale l’avevano. Che però negli ultimi tempi già non nascevano e non erano più tutti nè tanti, come prima, di lunga testa, per lo disuso della legge.

Or vedi la par. 1. della Cronica del Peru di Pietro de Cieça (della quale op. v. la p. 3795-6.), capitulo 26. car. 66. p. 2-67. p. 1. e cap. 50. car. 136. p. 2. ed altrove, circa la stessa costumanza di figurar le teste de’ bambini a lor modo, propria di molte popolazioni selvagge dell’America meridionale. Or che relazione ebbero mai questi coi Macrocefali? E questo costume è forse cosa che la natura l’insegna, e in cui gli uomini facilmente, benchè per solo caso, debbano concorrere? Si applichi questa osservazione a quelle sopra l’unicità dell’origine del genere umano; l’antica e ignota divisione di popoli già ὁμόφυλοι, poi, fino da quando comincia la memoria delle storie, lontanissimi e separatissimi e diversissimi; l’unicità delle invenzioni e scoperte, dell’origine di moltissimi usi o abusi ec. ec. molti de’ quali si danno oggi per naturali solo per esser comuni, e son comuni solo per esser nati prima della divisione del genere umano, o dello allontanamento delle sue parti, e sua dilatazione ec[a]

Puoi ved. la p. 3988. Si può anche applicare al discorso sopra le barbarie della società umana ec. (p. 3797-802.).

[Chiudi]. E a questo medesimo proposito si applichi il luogo greco da me citato a pag. 2799. dove si narra un costume simile o conforme a quello di tanti e tanti altri selvaggi antichi, moderni, presenti, che nulla hanno avuto a far mai (in tempi che si sappiano) nè cogli Sciti di cui quivi si parla, nè tra loro. V. p. 3967. E quanti altri sono i costumi, credenze ec. affatto conformi tra selvaggi i quali non si può vedere come abbiano mai potuto aver, non ch’altro, notizia, gli uni degli altri; isolani, remotissimi. Eppur le dette conformità sono sovente tali e tante, ed anche così diffuse, e per altra parte così lontane, contrarie ec. alla natura, che per una parte sarebbe stolto l’attribuirle al caso, per l’altra non se [ne] può trovare cagione alcuna probabile, se non se ec. — Uso delle settimane ec. ec. (9. Dec. Vigilia della Venuta della S. Casa. 1823.).

Situla-sitella, tabula-tabella. V. la pag. 3844, (9. Dec. 1823.).

Il Forc. dice che sportella è diminutivo di sportula, benchè pur si trova sporta, di cui sportula è diminutivo. Forse si troverà che tutti i diminutivi in ellus ella ellum sono fatti da nomi (o verbi ec.) in ulus, noti o ignoti, diminutivi o no, positivati o assoluti ec[a]

Capsula, parva capsa; capsella, parva capsula. Forc. Pare che, se non altro, il Forc. creda che il diminut. in ellus ec. dinoti maggior diminuz. che quello in ulus ec., quando anche ei non lo creda sempre o non mai un sopraddiminutivo. Oculus-ocellus (oculus, come dico altrove, non è diminut. come altrove io aveva detto, o è positivato ec. sicchè ocellus non è sopraddiminutivo ec.).

[Chiudi]. In tal caso sportella sarebbe un sopraddiminutivo di sporta, giusta l’uso sì frequente in italiano de’ doppi e tripli diminutivi, e come ho detto altrove di anellus da anulus, se non che anulus è in significato diverso o per natura o per estensione dal suo positivo ec. Catena-catella. Catus-catulus catellus catellulus (v. il Forc. in tutte queste voci). Vitulus vitellus. (v. il Forc. in Catellus ). Vitellus è positivato, almeno nelle nostre lingue, ec. Catinus catillus, catinum-catillum, catillo as, catillo onis, ec. Patina o patena-patella (positivato; v. il Forc.). Pare che da patina sarebbe piuttosto patilla che patella. Patellarius ec. vedi la pag. 3955. Se fosse vero che i diminutivi in ellus non fossero che da’ vocaboli in ulus (e i verbi in ellare diminutivo, da quelli in ulare, e così gli avverbi ec.), catillus e gli altri simili, o sarebbero contrazioni di catinulus (e allora non deriverebbero, ma sarebbero tutt’uno col nome in ulus) o vero di catinellus fatto da un catinulus (che pur si trova). (9. Dec. 1823.). Cistella sarebbe diminutivo di cistula e non di cista ec. (9. Dec. Vigilia della Venuta della Santa Casa. 1823.). V. p. 3968.

Alla p. 3961. principio. Catus per cautus, v. Forcell. Recatar per recautar sarebbe un grandissimo arcaismo (quanto alla soppressione dell’u) conservato in una lingua moderna ec. (9. Dec. 1823.). V. p. 3980.

Dico altrove che bisogna esattamente distinguere tra’ vocaboli e modi latini conservati nelle lingue moderne, o ricuperati per mezzo della letteratura, scienze, diplomatica, politica, canoni, giurisprudenza, cose ecclesiastiche, liturgie ec. (o conservati ancora per questi mezzi, ma non per l’uso della favella ordinaria ec.). La stessa distinzione bisogna fare circa le forme delle parole ec. atteso massimamente che le ortografie moderne sono state da principio ed anche in seguito lungo tempo modellate sul latino, peccarono assai e lungamente per latinismo che nella rispettiva lingua parlata non si trovava, furono inesattissime ec. di tutte le quali cose ho detto in più luoghi. (9. Dec. Vigilia della Venuta. 1823.).

Parlo altrove de’ dialetti d’Omero. Posto che il dialetto Ionico non fosse il comune o il più comune, e perciò prescelto, l’avere Omero scritto in un dialetto piuttosto che nella lingua comune, non prova altro se non che questa a’ suoi tempi non v’era; e il non esservi prova che non vera ancora letteratura greca formata, perchè nè questa poteva esservi senza quella, e la mancanza di lingua comune è segno certo ed effetto non d’altro che della mancanza di letteratura nazionale o della sua infanzia, poca diffusione ec. Similmente dico di Democrito ec. Ctesia è più moderno, ma forse anteriore al pieno della letteratura ateniese, [di] Erodoto[a]

V. p. 3982.

[Chiudi] e degli altri che ne’ più antichi tempi scrissero ne’ dialetti loro nativi e non in lingua comune. Del resto se Omero usò e mescolò anche gli altri dialetti più di quello che poi fosse fatto dagli altri scrittori greci, anche poeti, prevalendo però in lui l’ionico, il simile fece Dante, che usò e mescolò i dialetti d’Italia molto più che poi gli altri, anche poeti, e a lui vicini, non fecero, e che oggi niuno farebbe, perchè v’è lingua comune, e questa certa e formata e determinata, e tutto ciò principalmente a causa della letteratura. Se poi alcuni, come Empedocle e Ippocrate, non essendo ioni ec., scrissero nell’ionico[b], ciò fu perchè Omero l’aveva usato e fatto famoso e atto alla scrittura, e creduto solo o principalmente capace di essere scritto, nel modo stesso che poi l’abbondanza degli scrittori ateniesi, maggiore che quella degli altri, rese comune, e per sempre, il dialetto attico, o una lingua partecipante massimamente dell’attico, e lo ridusse ad essere il greco propriamente detto sì nell’uso dello scrivere, sì in quello del parlare, massime delle persone colte[a]; e nel modo stesso che in Italia per simil cagione è avvenuto rispetto al toscano, mentre prima, come in Grecia l’ionico invece dell’attico, così in Italia si era fatto comune ec. non il toscano, ma il siculo ec. per la coltura di quella corte e poeti ec. e loro abbondanza preponderante ec. Onde molto s’ingannano, secondo me, quelli sì antichi (vedi i luoghi cit. alla pagina 3931.) sì moderni (che sono, io credo, non pochi) i quali riconoscono l’uso o preponderanza del dialetto ionico in Omero, in Ippocrate ec. e nelle scritture dell’antica Grecia da questo, che il dialetto ionico, secondo loro, o almen quello di detti scrittori quale egli si è ec. era l’antico dialetto attico, e usato dagli ateniesi. Il che, se non hanno altri argomenti per provarlo, certamente non è provato dall’uso di quegli scrittori, poichè che diritto e che mezzo aveva allora il dialetto ateniese per esser preferito agli altri nelle scritture? Essi cadono nel solito errore, sì comune per sì lungo tempo (e fin oggi) in Italia, anche fra’ più dotti e imparziali, circa il dialetto toscano, cioè di credere che l’attico prevalesse agli altri dialetti per se (mentre niun dialetto prevale per se, giacchè quanto all’ordine, forma ec. esso non l’ha prima della letteratura, quanto alla bellezza del suono materiale ec. questo è un sogno, perchè a tutti i popoli e parti di essi è più bello degli altri suoni quello che gli è dettato dalla natura, e quindi quello del dialetto nativo, e imparato nella fanciullezza ec.), e non per causa della preponderante letteratura e scrittori attici, la qual causa a’ tempi d’Omero ec. non esisteva, anzi Atene non aveva, che si sappia, scrittore alcuno, non che n’abbondasse particolarmente ec. Neanche era potente, nè commerciante, nè che si sappia, assai culta, o più culta degli altri, seppure aveva coltura alcuna notabile. Bensì lo erano gl’ioni ec. e questo appunto produsse o fece possibile un Omero ec. Se poi hanno altre prove della detta proposizione, certo ragionano a rovescio pigliando per effetto la causa, e per causa l’effetto. Poichè se quello fu allora il dialetto attico, ciò venne appunto perch’esso aveva avuto scrittori e letteratura, e così fattosi comune ec., ovvero a causa del commercio e potenza e della coltura degl’ioni, alla qual coltura non avrà poco contribuito la stessa letteratura che n’aveva avuto origine ec. Del resto gli attici erano molto facili ad adottare le voci e modi greci stranieri, e anche i barbari, almeno ne’ tempi susseguenti; e lo dice Senofonte in un luogo da me citato e discusso altrove. (9. Dec. 1823. Vigilia della Venuta della Santa Casa di Loreto.).

L’infinito per l’imperativo, del che altrove. Hippocrates in fine libri de aere aquis et locis. Ἀπὸ δὲ τουτέων τεκμαιρόμενος, τὰ λοιπὰ ἐνθυμέεσθαι, καὶ οὐχ ἁμαρτήση. Sono le ultime parole del libro. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa. 1823.). Questo modo è frequentissimo in Ippocrate da per tutto, come precettista ch’egli è.

Diminutivi positivati. Taureau. Molti de’ diminutivi ch’io chiamo positivati potranno ben trovarsi usati alle volte, più o men sovente, o da’ più antichi o da’ più moderni ec. ed usarsi ancora, in senso veramente diminutivo, o pur frequentativo ec. ec. E sia anche il più delle volte. A me basta che talora abbiano o abbiano avuto ec. senso positivo, conforme al positivo ec. (10. Dec. 1823.).

Alla p. 3962. È noto che Alboino re de’ Longobardi fece del teschio di Comundo (re de’ Zepidi, suo nemico) una tazza, con la quale in memoria di quella vittoria (sopra i Zepidi) bevea ( Machiav. Istorie fiorent. lib.1. opp. 1550. p. 9.), e come da questo ebbe origine la sua uccisione ordinata da Rosmunda sua moglie e figlia di Comundo, per mano di Almachilde (id. ib.). Da ciò si vede che questo costume dovette anche esser proprio de’ Longobardi (giacchè io non convengo col Machiavelli che attribuisce questo fatto in particolare all’ efferata natura di Alboino), popolo settentrionale e forse non estremamente lontano dagli Sciti, benchè d’altra razza e d’altro genere di lingua a quello ch’io credo. Poichè gli Sciti spettano alla razza slava. I Longobardi, cred’io, alla tedesca. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.).

Alla p. 3963. fine. Se i diminutivi in ellus ec. fossero fatti sempre da voci in ulus, lo stesso si dovrebbe dire di quelli in illus, illare ec. Quindi p. e. conscribillo sarebbe da un conscribulo. — Al detto di patella, aggiungi l’ital. padella, positivato (restando patena pel vaso sacro ec.), benchè forse quello che oggi si chiama padella non sia precisamente conforme a quello o quei vasi che si chiamavano in lat. patinae o patenae o patellae, e quindi il significato di tal diminutivo positivato padella non sia forse precisamente il medesimo del suo positivo latino, cosa inevitabile quasi in quelle voci che appartengono a oggetti di usi ec. sempre variabilissimi più d’ogni altra cosa. Ma in tal caso la significazion del diminutivo padella non sarebbe neppur la medesima del diminutivo patella, ch’è pur certamente positivato, e con cui padella è materialmente una stessa voce. Insomma padella è certamente un diminutivo positivato. V. i francesi e gli spagnuoli e il Gloss. ec. (10. Dec. dì della Venuta. 1823.). V. p. 3971.

Al detto altrove del diminutivo o vezzeggiativo ec. positivato figliuolo, aggiungi i suoi derivativi ec. pur positivati, come figliolanza. (10. Dec. Festa della Venuta. 1823.).

Ho detto, non mi ricordo il dove, di un diminutivo, mi pare, italiano che la sua inflessione in ol (sia verbo o sia nome ec. che non mi sovviene) dimostrava lui essere originariamente latino. Ma si osservi che la diminuzione in olo, olare ec. è non men propria dell’italiano moderno di quel che sia del latino quella in ulus, ulare, olus (come in filiolus) ec. Ben è vero ch’essa deriva onninamente da questa latina, anzi è la medesima con lei. Del resto l’aggiunta dell’u in questa nostra inflessione (come in figliuolo ec.). 1. è una gentilezza della scrittura e ortografia, un toscanesimo, non è proprio della favella, seppur non lo è della toscana, e in tal caso, che non credo neanche in Toscana sia troppo frequente e’ sarebbe un accidente della pronunzia. 2. non si trova nelle più antiche scritture, nè in moltissime delle meno antiche, benchè esatte, anzi fuorchè nelle moderne, forse nel più delle scritture ella manca, e credo ancora che manchi regolarmente anche oggidì, almeno secondo l’ortografia della Crusca, in molte parole dove l’olo è pur lungo. 3. ella svanisce regolarmente (per la regola de’ dittonghi mobili) sempre che l’accento non è sull’o: quindi da figliuolo figliolanza ec. 4. essa è veramente una proprietà italiana onde anche da sono, bonus e tali altri o semplici, facciamo uo, come suono, buono ec. siccome gli spagnuoli ue, che pur si risolve, o ritorna, in o sempre che l’accento non è sull’e, come da volvo buelvo e poi bolver ec. V. p. 4008. E anche quando la desinenza ec. in olus o ulus ec. non è diminutiva, noi ne facciamo sovente uolo ec. come da phaseolus, fagiuolo ec. 5. Essa manca sempre in moltissime parole italiane, come in tanti verbi diminutivi o frequentativi ec. in olare de’ quali ho detto altrove, che sarebbe sproposito scrivere in uolare. Insomma essa giunta non è propria di questa tale italiana inflessione diminutiva derivante dal latino, ma è un accidente di pronunzia o di ortografia italiana o toscana, che ha luogo anche in infiniti altri casi alienissimi da questa inflessione, e che in questa medesima non ha sempre luogo ec. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.). V. p. 3984.3992.3993.

Alla p. 3961. Così discorrasi ancora di cento altri generi di formazioni ec. latine e non proprie delle lingue moderne, che si trovano in mille parole moderne ignote nel latino, o solo note nel latino barbaro, mentre quelle formazioni ec. non sono proprie di questo e furono assolutamente proprie del buon latino, o speciali del latino antico ec. ec. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.). V. p. seguente, e 3985.

Ho detto altrove che male nelle nostre lingue spesso si usa per non, per particella privativa, ec. Questo è proprio particolarmente dell’antico delle nostre lingue, e fors’anche più in particolare, dell’antico francese. I francesi ora dicono mal— ora mé—, ch’è lo stesso (médire, dir male), e così il nostro mis (misdire, misfare). Le quali particelle corrotte da mal e destinate alla composizione, ora significano veramente male, ora sono assolutamente negative o privative, come in mépriser, mépris, miscredente, misleale ec. Questa particella mis (o simile) collo stesso uso è anche comune agl’inglesi, il che conferma il sopraddetto, cioè ch’ella e così mal ec. ond’ella è corrotta, fosse specialmente propria dell’antico delle nostre lingue, e particolarmente dell’antico francese. V. gli spagnuoli i quali se ne mancassero, sarebbero nuova prova di ciò, perchè lo spagnuolo non ha forse tanto tolto dal provenzale ec. quanto il nostro antico linguaggio, massimamente scritto ec. ec. Salvo sia sempre che mis ec. non si trovi essere di origine settentrionale, e di là venuta nell’inglese e nel francese ec. (10. Dec. Festa della Venuta. 1823.).

Participii passivi in senso neutro. — Aggettivazione de’ participii. Tacitus da taceo per tacens. Similmente in ispagnuolo callado per callante, zitto ( à todo havia estado suspenso y callado. Cervant. D. Quijote ). Bisogna però osservare intorno a questo e simili participii di verbi neutri delle lingue moderne, usati nel senso del participio di forma attiva, se quel tal verbo non è o non fu neutro passivo, fatto poi assoluto per ellissi del pronome o sempre o talvolta. Cosa ch’è avvenuta ed avviene infinite volte nelle nostre lingue. P. e. callar forse si disse ancora o solamente callarse, come in fr. se taire, e spesso anche in ital. tacersi, si tacque ec. benchè qui il pronome piuttosto ridonda, per proprietà di nostra lingua, come in altri assai casi, la qual proprietà non appartiene a questo discorso, e bisogna notare che un neutro assoluto non si pigli per neutro passivo a causa di essa, che sarebbe falso, onde tra noi il trovare un neutro col pronome, o presso gli antichi o presso i moderni non sempre è segno che quello sia neutro passivo, o lo sia stato ec. e poi soppresso il pronome, callar o sempre o per lo più. In tal caso callado nel senso suddetto, non sarebbe che in senso passivo, e non apparterrebbe al nostro discorso. (11. Dec. 1823.).

Alla p. 3968. Se i diminutivi in ellus ec. o illus ec. son fatti dalle voci in ulus ec. o sempre, o talvolta (ch’è fuor di controversia il talvolta), essi sono contrazioni di ulellus ec. ulillus ec. (11. Dec. 1823.). V. p. 3987.

Alla p. anteced. S’intende che tali composti, derivati ec. non sieno stati formati ec. dagli scrittori ec. ma propri della favella volgare, e tali che si possano credere conservati; come infatti ve ne sono, anche propri esclusivamente del solo dir familiare o parlato ec. o de’ più antichi e rozzi scrittori, e quindi certo delle favelle volgari di allora ec., in assai buon numero. (11. Dec. 1823.).

Alla p. 3961. Spettano a detta categoria la grazia e l’effetto spesse volte singolare delle bellezze forestiere o che hanno del forestiero, sia che questo bello spetti alla fisonomia, al personale ec. ovvero alle maniere ec., ovvero che le maniere sien forestiere e non il fisico, o viceversa ec. ec. ec. (11. Dec. 1823.).

Risulta da quello che in più luoghi si è detto circa la natura di una lingua atta (massime ne’ nostri tempi) veramente alla universalità, che ella non solo non può esser più delle altre lingue capace di traduzioni, di assumer l’abito dell’altre lingue, o tutte o in maggior numero o meglio che ciascun’altra, di piegarvisi più d’ogni altra, di rappresentare in qualunque modo le altre lingue; ma anzi ella dev’essere per sua natura l’estremo contrario, cioè sommamente unica d’indole, di modo ec. e sommamente incapace d’ogni altra che di se stessa, ed in se stessa minimamente varia, e da se medesima in ogni caso il men che si possa diversa. E una lingua che tenga l’estremo contrario è di sua natura, massime a’ tempi nostri, estremamente incapace dell’universalità. Non bisogna dunque figurarsi che una lingua universale nè debba nè possa portare questa utilità di supplire alla cognizione di tutte le altre lingue, di esser come lo specchio di tutte l’altre, di raccoglierle, per così dir, tutte in se stessa, col poterne assumer l’indole ec.; ma solo di servire in vece di tutte le altre lingue, e di esser loro sostituita. Anzi ella non può veramente altro ch’esser sostituita all’uso dell’altre e di ciascuna altra, e non supplire ad esse ec. Ben grande sarebbe quella utilità, ma essa è contraria direttamente alla natura di una lingua universale. Tale si è infatti la francese. Nè i francesi dunque nè gli stranieri si lusinghino di avere in quella lingua tutto ciò che potrebbero avere nell’altre, ma una lingua diversissima per sua natura dall’altre, il cui uso a quello di tutte l’altre possono facilmente sostituire. Nè stimino che volendo conoscer l’altre lingue, autori ec. il possederla francese, li dispensi più che alcun’altra lingua dallo studio di tutte l’altre, anzi per questo effetto la francese non serve a nulla, ed i francesi per parlare come nativa una lingua sommamente disposta alla universalità, si debbono contentare di avere una lingua incapacissima di traduzioni, inettissima a servir loro di specchio e di esempio, e fin anche di mezzo, per conoscere qualunque altra lingua, autore ec. Il fatto della lingua francese dimostra queste asserzioni. Sebbene i francesi coll’estrema trascuranza che hanno dell’altre lingue mostrano essere persuasi del contrario. La natura della greca era appunto l’opposto. Ella infatti perciò, anche nel tempo antico, non potè essere universale che debolissimamente e incomparabilmente alla possibile universalità di una lingua, ed anche all’effettiva presente universalità della francese, malgrado le molte qualità, e massimamente le infinite circostanze estrinseche (potenza, commercio, letteratura e civiltà unica della nazione che la parlava) che favorirono, (e per lunghissimo tempo), e quasi necessitarono la sua universalità, molto più che le circostanze estrinseche della francese ec. (11. Dec. 1823.).

Non è dubbio che la civiltà, i progressi dello spirito umano ec. hanno accresciuto mirabilmente e in numero e in grandezza e in estensione le facoltà umane, e generalmente le forze dell’uomo, il quale essendo ora, al contrario che da principio, più spirito che corpo, come dico altrove, può veramente, anche nelle cose materiali, infinitamente più che da principio. Ma bisogna vedere se queste nuove facoltà, questo accrescimento di forze ec. corrisponde ed era destinato dalla natura sì generale sì della specie umana in particolare, e giova o nuoce alla felicità d’essa specie, chè nocendo, è certo che non corrisponde alla natura ec. Di quante incredibili abilità vediamo noi col fatto che moltissimi animali (fino ai pulci addestrati da non so chi a tirare un cocchietto d’oro) sono capaci, e lo videro gli antichi che ne raccontano maraviglie, corrispondenti alle moderne, benchè alcune maggiori, per la maggiore industria degli antichi, in questa come in tante altre cose, manifatture, lavori d’arte ec. Chi non le avesse udite da testimonii irrecusabili, o vedute cogli occhi propri o ascoltate co’ propri orecchi, neppur le avrebbe immaginate, nè figuratasene la possibilità, la capacità, l’attitudine fisica in quella specie di animali, come p. e. elefanti, cani, orsi, gatti, topi (cosa vera) ec. ec., anche ferocissime, e apparentemente le più incapaci di disciplina e di mutar costumi ec. e di mansuefarsi e obbedire agli uomini ec. Or chi dirà che tali abilità le quali accrescono le facoltà di quelli animali ec. fossero per ciò destinate dalla natura o generale, o loro particolare ec. giovino alla loro felicità ec. e che le loro rispettive specie sarebbero più perfette o meno imperfette, se tali abilità fossero in esse più comuni, o universali ec.? E senz’andar troppo lontano, quante proprietà abilità ec. lontanissime dalla sua primitiva condizione, non acquistano tuttodì sotto i nostri occhi, e tuttodì esercitano, i cavalli da tiro, da maneggio ec. proprietà ed abilità che non ci fanno più meraviglia alcuna, a causa dell’abitudine e frequenza, e che l’arte d’insegnar loro siffatte cose è comunissima e presentemente e da lungo tempo, facile; ma nè questa nè quelle sono perciò men degne di maraviglia. Or con tutto questo, e con tutto che il numero degl’individui così ammaestrati sia tanto, e così continuo e successivo ec. chi dirà che ec. come sopra? se non chi stima che tutto il mondo, e in questo la specie de’ cavalli, sia fatta di natura sua per servizio dell’uomo, e tenda a questo come a suo fine, e non abbia la sua perfezione fuor di questo, onde sia destinata e disposta naturalmente all’acquisto di quelle facoltà e qualità che si richiedono o convengono e giovano a tal servizio, di modo che un cavallo non sia perfettamente cavallo se e fino ch’ei non sa portare un uomo sul suo dosso, e obbedire a’ suoi segni e prevenirli e indovinarli ec. ec. e far tutto questo perfettamente. (11. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati. Corbeau, corbin da corvus. (11. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati greci. θηρίον, βιβλίον, σιτίον co’ loro derivati. Altri che forse pur sono, almen talvolta, positivati, vedili nella Gramm. del Weller, Lips. 1756. p. 82., co’ lor derivati o composti ec. (12. Dec. 1823.).

In Omero tutto è vago, tutto è supremamente poetico nella maggior verità e proprietà e nella maggior forza ed estensione del termine; incominciando dalla persona e storia sua, ch’è tutta involta e seppellita nel mistero, oltre alla somma antichità e lontananza e diversità de’ suoi tempi da’ posteriori e da’ nostri massimamente e sempre maggiore di mano in mano (essendo esso il più antico, non solo scrittore che ci rimanga, ma monumento dell’antichità profana; la più antica parte dell’antichità superstite), che tanto contribuisce per se stessa a favorire l’immaginazione. Omero stesso è un’idea vaga e conseguentemente poetica. Tanto che si è anche dubitato e si dubita ch’ei non sia stato mai altro veramente che un’idea. (12. Dec. 1823.). Il qual dubbio, stoltissimo benchè d’uomini gravissimi, non lo ricordo se non per un segno di questo ch’iodico.(12. Dec. 1823.).

Non è propria de’ tempi nostri altra poesia che la malinconica, nè altro tuono di poesia che questo, sopra qualunque subbietto ella possa essere. Se v’ha oggi qualche vero poeta, se questo sente mai veramente qualche ispirazione di poesia, e va poetando seco stesso, o prende a scrivere sopra qualunque soggetto, da qualunque causa nasca detta ispirazione, essa è certamente malinconica, e il tuono che il poeta piglia naturalmente o seco stesso o con gli altri nel seguir questa inspirazione (e senza inspirazione non v’è poesia degna di questo nome) è il malinconico. Qualunque sia l’abito, la natura, le circostanze ec. del poeta, pur ch’ei sia di nazione civile, così gli accade, e come a lui così a un altro che non avrà di comune con lui se non questo solo. ec. Fra gli antichi avveniva tutto il contrario. Il tuono naturale che rendeva la loro cetra era quello della gioia o della forza della solennità ec. La poesia loro era tutta vestita a festa, anche, in certo modo, quando il subbietto l’obbligava ad esser trista. Che vuol dir ciò? O che gli antichi avevano meno sventure reali di noi, (e questo non è forse vero), o che meno le sentivano e meno le conoscevano, il che viene a esser lo stesso, e a dare il medesimo risultato, cioè che gli antichi erano dunque meno infelici de’ moderni. E tra gli antichi metto anche, proporzionatamente, l’Ariosto ec. (12. Dec. 1823.).

Alla p. 3927. Questa moltiplicità incalcolabile di cause e di effetti ec. nel mondo morale non deve nè parere assurda o difficile ad ammettersi nè far meraviglia a chi consideri com’ella si trova evidentemente, e del pari infinita e incalcolabile nel mondo fisico. Nè la medicina, nè la fisiologia, nè la fisica, nè la chimica, nè veruna anche più esatta e più materiale scienza che tratti delle più sensibili e meno astruse parti ed effetti della natura[a]

V. p. seg.

[Chiudi], non possono mai specificare nè calcolare nemmeno per approssimazione, se non in modo larghissimo, nè il numero nè il grado e il più e il meno, nè tutti i rapporti ec. delle infinite diversità di effetti che secondo le infinite combinazioni e rapporti scambievoli ec. e influenze e passioni scambievoli ec. che possono avere ed hanno effettivamente luogo, risultano dalle cause anche più semplici più poche e limitate, che dette scienze assegnano; nè le infinite modificazioni di cui dette cause, secondo esse combinazioni, sono suscettibili, ed a cui sono effettivamente soggette. E non per tanto, almeno in grandissima parte, esse cause non si possono volgere in dubbio, e nessuno dalla detta impossibilità di specificare e calcolare esattamente e pienamente, risolve ch’esse cause non sieno le vere, e moltissime sono evidenti e sotto gli occhi, e così il loro modo di agire, le loro relazioni cogli effetti ec., i quali tuttavia non sono più calcolabili nè numerabili. Basti solamente osservare le cause e gli effetti che agiscono ed hanno luogo nel corpo umano, e le infinite diversità ed anche contrarietà che per differenze, sovente impercettibili, di combinazioni, hanno luogo negli accidenti e passioni d’esso corpo anche in individui conformissimi[b], in un tempo medesimo, in circostanze che possono parere conformissime, in un medesimo individuo ec. Nè per tanto si può dubitare di quelle cause, purchè d’altronde ec. nè se ne dubita, nè si condannano quei sistemi e quei metodi ec. de’ quali in quanto a questo particolare niuno uomo potrebbe pensarne o usarne un migliore. (12. Dec. 1823.).

Alla p. antecedente. — niuna parte, niun sistema di esse scienze, anche il più dimostrato, niun ordine, niun metodo di trattarle, per efficace, accurato, minutissimo, ordinatissimo, solertissimo che possa essere; se esse scienze o sistemi non si fingono e suppongono, determinano, conformano e circoscrivono i subbietti e lor qualità vere o immaginarie a modo loro, come fanno le matematiche e, p. e. la meccanica nella considerazione delle forze fisiche e de’ loro effetti.

Le scienze e i sistemi non possono andare che per via di paradigmi e di esempi, supponendo tali e tali subbietti, di tali e tali qualità in tali e tali circostanze ec. ovvero generalizzando, sia col salire da questi particolari esempi alla università de’ subbietti in qualche modo diversi, e delle combinazioni diverse, sì nelle cause sì negli effetti; sia in qualunque altra guisa. E tutte sono obbligate di fare più o meno come le matematiche, che per considerare gli effetti delle forze, suppongono i corpi perfettamente duri, e perfettamente levigati, e l’assenza del mezzo, ossia il vóto, ec.; e così il punto indivisibile ec. (12. Dec. 1823.). V. Thomas Éloge de Descartes, Oeuvres, Amsterdam 1774. t. 4. p. 47. seg.

Diminutivi positivati. Grappo-grappolo. Franc. grappe. (13. Dec. 1823.).

Fusa e fusi plur. lat. sostantivi di cui altrove. Così locus-loci e loca. Il che è segno di un ant. locum. Così fusa di un fusum. Così, credo, altri nomi vi sono che hanno diversi generi o in ambo i numeri o in un solo, senza diversa significazione. Così caelus onde caeli, e caelum che oggi non ha plurale siccome il singolare di caelus è antiquato. (14. Dec. 1823.).

Come la lingua e letteratura italiana si stimassero nel 500 da molti anche dotti e gravi uomini non dovere nè potere uscire de’ termini in che le posero i 3. famosi trecentisti, anzi solamente il Petrarca e il Boccaccio, nè delle lor parole e modi e artifizi e stili, e dell’abito ch’essi avevan dato all’una e all’altra ec. del che altrove, vedi il Dial. della Rettorica dello Speroni, Diall. Ven. 1596. p. 147-150. p. 157. fine. — 158. principio, p. 162. verso il fine. (14. Dec. 1823.).

Alla p. 3940. Non sempre però usa l’i. Alle volte usa la vocale stessa ch’è la prima della parola raddoppiata, come in κάρχαρος da χαράσσω (dove anche è aggiunto l’ ρ, καρ), e credo in molti altri casi. Fors’anche usa altre vocali, e altri modi di duplicazione. Ma uno di tali modi è certo il sopraddetto, cioè la prima consonante della voce raddoppiata, e un i, e questo è regolare, e forse il più frequente e regolare e uniforme ec. (14. Dec. 1823.). E chi sa anche se quel κάρχαρος ha veramente l’etimologia che gli attribuiscono ec. E la forma della voce raddoppiata, cioè χάρος è molto irregolare quanto alla sua derivazione da χαράσσω, se questa è vera ec. Laddove le forme delle voci raddoppiate coll’i (come τιτρώσκω) sono regolari ec. (14. Dec. 1823.). V. p. 3989. 3994. 4009. capoverso 8.

Quanto alla particella negativa o privativa ne o nec per non, del che altrove, dà un’occhiata nel Forcellini a tutte le voci comincianti massimamente per ne, e così nello Scapula alle voci comincianti massimamente per νη e νε. (14. Dec. 1823.).

Genou sembra esser da genu, come altrove. Ma agenouiller è da un genouille diminutivo[a]

Diminutivo non in franc. ma fatto da una forma diminut. lat.a Vedi però la p. 3991. capoverso I. e 3985. princip.

[Chiudi]. Vedi la pag. 3955. Trovo nel D. Quijote finojo per ginocchio, voce che mi par quivi affettatamente antiquata, come molte altre, per contraffare il linguaggio degli antichi libri di Cavalleria, ed è posta in bocca di Sancho. In ogni modo mostra che anche l’antico spagnuolo (se già non prese questa voce dall’italiano) usava il diminutivo di genu nel senso positivo e in vece del positivo latino. Sta la detta voce nella Parte I. del D. Quijote, lib.4. cap. 31. p. 343. ediz. d’Amberes 1697. t. 1. (14. Dec. 1823.). V. p. 3983.

Alla p. 3964. principio. Catar da cui è recatar (riguardare), se già non è da captare, che non credo, sarà da calus, il quale da caveo, e quindi quasi caular, e continuativo di caveo. Cata (gare, guardati) equivale propriamente a cave. (14. Dec. 1823.).

Participii aggettivati. Catus, cautus. V. Forcell. (14. Dec. 1823.).

L’ortografia francese fu da principio ed anche per lungo tempo proporzionatam., molto più simile alla scrittura latina che non è oggi, anzi sempre più se ne va scostando per accostarsi alla pronunzia. Fu, dico, molto più simile, sì perchè anche la pronunzia lo era, e sì per l’inesattezza e latinismo comuni a tutte le ortografie moderne, come altrove in più luoghi. Ora, se cambiandosi la pronunzia e correggendosi il barbaro latinismo dell’ortografia, la scrittura francese si è mutata non poco, perchè non si dovrà mutarla affatto sin tanto ch’ella si conformi onninamente alla pronunzia e francese e presente, qual ella è in fatti, e rinunzi del tutto alla forma latina delle parole scritte in quanto ell’è diversa da quella di esse parole pronunziate, ed all’aver riguardo in qualunque modo al latino? Se ciò non si è ancor fatto, e se non si farà, vuol dire che l’ortografia francese non è ancora o non sarà mai perfetta, nè interamente rettificata, anzi è imperfettissima e scorrettissima. Il contrario è avvenuto ed avviene ancor tuttavia (conformandosi sempre al nuovo modo di pronunziare, o conformandosi alla pronunzia dove l’antica ortografia non vi si conformava; come p. e. oggi tutti scrivono ispirare e simili, laddove tutti gli antichi inspirare, sia che così pronunziassero, sia che latinizzassero in questa scrittura) nell’ortografia spagnuola e massimamente nell’italiano che perciò sono perfette, o quasi, e certo assai più della francese vicine alla perfezione. Non così nell’inglese, nella tedesca ec. perciò imperfette come la francese, ma forse meno, perch’esse da principio non ebbero occasione nè modo di guardare al latino, con cui non hanno che fare le loro lingue, massime il tedesco, o certo di guardarvi meno, e quindi minor cagione d’allontanarsi dalla pronunzia e dalla forma reale delle voci propria della loro lingua, e d’uscire dei termini e vera proprietà di questa ec. (14. Dec. 1823.).

Alla p. 3964. Anacreonte ionico scrisse nell’ionico, mescolato però, secondo il comun modo di dire degli eruditi, e temperato cogli altri dialetti, (massime il Dorico), al modo di Omero. V. il Fabric. e la pref. ad Anacr. del De Rogati ec. (14. Dec. 1823.). V. p. seg.

Alla p. 3965. I posteriori poi (com’Abideno, Arriano nell’Indica, Teocrito ec.), benchè già nato e stabilito e formato il dialetto comune e la letteratura nazionale, e prevaluto eziandio l’Attico, scrissero negli altri dialetti particolari nativi loro o alieni, perchè nobilitati da autori di grido che gli avevano usati quando ancor non v’era dialetto comune, o non ben formato nè fermamente applicato e aggiustato adequatamente alla letteratura. Il qual mal vezzo non ha avuto luogo in Italia, se non se in qualche scrittorello non mai divenuto (come Teocrito ec.) nazionale, e di poco giudizio; perchè buoni scrittori non si son dati a scrivere in altra lingua che nella comune, e ciò a causa che i dialetti particolari non avevano avuta la sorte di esser nobilitati da veruno insigne scrittore (benchè molti scrittori avessero) prima della formazione ec. del linguaggio comune e della letteratura. (Del resto non pare che opere gravi scritte in dialetti particolari, fuorchè nell’Attico, dopo la esistenza ec. del comune, avessero gran fortuna nè fama nè pure in Grecia, nè che veramente grandi o insigni ne fossero mai gli autori. Luciano de scribenda historia si burla di uno suo contemporaneo che avea scritto in dialetto ionico, come anche dell’affettato Atticismo di altri. Dionigi d’Alicarnasso compatriota d’Erodoto scrisse sì la storia sì il resto nell’attico o comune). Bensì quanto al toscano considerato come dialetto particolare, l’Italia si rassomiglia alla Grecia ed al suo attico proprio, per l’uso che gli autori anche insigni ne fecero, sì toscani nativi o attici nativi, sì forestieri, adoprandolo esclusivamente o principalmente ec. Però anche in Grecia come in Italia questo usare un dialetto, ancorchè nobilitato da molti scrittori ec. e prevalente ec., invece del comune, e massime l’abuso di esso e le smorfie, e massime nei non nativi, fu deriso dai più savi ec. benchè più ragionevole ciò fosse in Grecia che in Italia per molte cagioni, e fra l’altre che il dialetto attico propriamente detto era stato usato, e fu usato di mano in mano da autori veramente insigni e sommi, come Platone ec. Non così, strettamente parlando, il toscano proprio ec. che non è veramente la lingua neppur de’ sommi italiani scrittori, nativi toscani, Dante, Petrarca e Boccaccio, nè d’altri sommi toscani ec. (14. Dec. 1823.).

Alla p. 3980. Genouil antico, si trova. Vedi i Diz. e vedi i diversi suoi derivati, che sono parecchi, oltre agenouiller, incomincianti per genouill—. (14. Dec. 1823.).

Alla p. anteced. principio. Certo è però che Anacreonte si accosta assai più di Omero, e forse più di qualunque altro poeta greco al dialetto comune, anzi pochissimo se ne scosta nè per accostarsi all’ionico (se già le sue odi in questa parte de’ dialetti e massime nell’ortografia ad essi spettante non sono alterate) nè ad altro veruno. Segno che al suo tempo benchè molto antico, il dialetto comune esisteva già, per mezzo della letteratura ec. o piuttosto che il dialetto ionico (il quale probabilmente fu quello che poi divenne il comune, e produsse l’attico ec. come pare a molti eruditi) era allora per la maggior vicinanza de’ tempi (rispetto a quelli d’Omero) quasi uguale (eccetto nello scioglier de’ dittonghi, che in Anacreonte però di rado si sciogliono, e quando si sciolgono, è manifestamente per la necessità o comodità del metro, nel qual caso è ben naturale e in altre cose tali, che si posson chiamar di pronunzia, e in queste ancora Anacreonte è molto parco, se non dove l’uso del verso l’esige, di modo ch’egli usa il dialetto suo, e si scosta dal comune piuttosto come poeta che come scrittore, e come linguaggio e licenze poetiche, non come dialetto) a quello che poi fu il comune, come si vede in Ippocrate ec. ec. (15. Dec. 1823.).

Commeto as da commeo per commeato. V. Forc. e il detto altrove sopra hieto ec. (15. Dec. 1823.).

Bello non assoluto. Diversissime usanze, opinioni, gusti ec. circa le chiome, sì sopra l’acconciamento loro, come sopra il portarle o no, raderle, lasciare crescerle fino a terra, fino agli omeri, fino al collo, tagliarle all’intorno della testa ec. ec. presso gli antichi e i moderni e le varie nazioni, selvagge, barbare, civili ec. ec. ec. in vari tempi ec. anche egualmente colti e di buon gusto ec. ec. (15. Dec. 1823.).

Alla p. 3939. Così anche i verbali sostantivi formati da’ supini come quelli in us us. Così gli avverbi e tutte le (non poche) voci e sorte di voci che si fanno regolarmente da’ supini regolari o irregolari, usitati o inusitati, de’ verbi. (15. Dec. 1823.).

Alla p. 3969. fin. Anche la nostra diminuzione in ello ellare ec. viene dal latino, ed è latina, e così la spagnuola in illo, illar (lat. cantillare ec.) ec. (15. Dec. 1823.). Così la francese in el, eler, o eller (femin. elle) ec. (15. Dec. 1823.). V. p. 3991. e il pens. seg.

Dico altrove che tutti i nostri verbi diminutivi frequentativi disprezzativi ec. sono della 1. coniugazione come i più di tali generi in latino. Così gli spagn. e i franc.[a]

P. e. molti verbi in ailler, come ferrailler, tirailler, rimailler, grappiller, folâtrer ec. (puoi ved. la p. 3980. capoverso I.) babiller.

[Chiudi] V. il pens. preced. ec. (15. Dec. 1823.). e la pag. 3991. capoverso 1.

Alla p. 3970. principio. Si trovano ancora nelle nostre lingue parecchi semplici di cui in latino noto, non si hanno che i composti (e questi sono, più o meno, evidentemente tali, cioè composti e non semplici, e più o meno evidentemente formati da un semplice qual è il nostro ec.), e parecchie voci che nel latino noto non si hanno, ma se ne hanno le derivative ec. (più o meno evidentemente derivate, formate ec. da voci quali sono le nostre ec.). L’argomento in questi casi, massime ne’ primi (perchè il composto suppone necessariamente il semplice) è più forte che mai. (15. Dec. 1823.).

Alla p. 3960. fine. Tali verbi possono essere o da meno (o da remeno o remino-rementum: v. la pag. seg. ec.) ovvero da miniscor, reminiscor ec. i quali verbi avranno tolto facilmente in prestito il supino o participio di meno ec. secondo l’uso de’ verbi incoativi del quale altrove lungamente. Stimo dunque che rammentare sia quasi rementare da rementus sum di reminiscor (il qual verbo oggi non ha participio ossia perfetto deponente ma rammentare può dimostrarcelo) appunto al modo che commento as e commentor aris è da commentus sum di comminiscor (ovvero da commentum di ant. commeno, o da mentum di meno, aggiuntaci la prep. cum ec.). Veggasi il Gloss. Ammentare è da mentare (spagn.), usitato forse un tempo in italiano come in ispagnuolo aggiuntaci l’a per vezzo di nostra lingua (v. Monti Proposta in ascendere ); ovvero da un Adminiscor ec. V. il Gloss. Mentar da meno o da miniscor. V. il Gloss.

Il qual miniscor è notato da Festo. Nuova prova del verbo meno da me congetturato altrove. Mostrerebbe però che si dicesse mino non meno. Ma forse Festo dedusse miniscor per sola congettura da reminiscor (v. Forc.), dove l’e deve esser cambiato in i per la composizione, e così in comminiscor ec. Se vi fu un incoativo semplice da meno, questo crederei che dovesse essere un meniscor non miniscor. (15. Dec. 1823.). Vero è però ch’io non ho forse ragione alcuna per dire meno piuttosto che mino. Memini può esser da meno (come cecidi da caedo ec.) e da mino ugualmente. Ma pur commentus (che ben può esser da commino, ma da un commino fatto da meno, che ripiglia nel participio la sua vocale, come contineo contentum da teneo non tineo ec.) e memento ec. par che dimostrino un meno. Memento ec. par che dimostri un memeno per reduplicazione del che p. 3940-1. e altrove. O forse è fatto anomalamente da memini dopo la perdita degli altri tempi ec. e l’uso presente di questo perfetto venuto a divenir prima voce e tema del verbo; ovvero anche prima. (15. Dec. 1823.).

Bito is, di cui altrove. V. Forcell. in Combitere. (15. Dec. 1823.).

Alla p. 3939. fine. Il supino è dal perfetto come provo altrove. Ma pingo, fingo, mingo ec. fanno pinxi ec. (e non altrimenti); dunque il lor vero supino è pinctum ec. Mingo ha veramente mictum [a]

mungo, pungo, fungo, iungo ec. — nctum.

[Chiudi]. Così almeno lo segna il Forcell. V. però quivi la varia lezione all’esempio di Caio Tizio, e i composti di mingo, e i derivati dal suo supino come minctio ec. Così i composti di pingo fingo ec. e lor derivati ec. (15. Dec. 1823.).

Alla p. 3971. Ma che pagella p. e., e catella e simili sieno contrazioni di catenulella, paginulella (benchè catenula e paginula pur si trovino) e simili, non mi par credibile; bensì di paginella, catenella ec. o anche di paginula, catenula ec. E poi che ragione v’ha per dire che il diminutivo in ellus ec. non si possa fare che dalle voci in ulus ec.? Forse che essa diminuzione in ellus ec. non può esser altro che sopraddiminutiva? Ma da tabula, fabula ec. che non sono diminutivi, benchè in ul, si fa tabella, fabella ec. che non sono sopraddiminutivi ma diminutivi semplici. O forse vorremmo che tabella ec. sia contrazione di tabululella ec.? Al contrario spesso si dice ellulus come asellulus, catellulus ec. Or queste sarebbero elleno contrazioni di asinulellulus, catululellulus, cioè ripetizioni dell’ul, e diminutivi tripli? Tenellulus. Vedi la pag. 3753. 3901. 3992. 3994. Agellulus. Impossibile: bensì di tabulella, come pagella di paginella ec. (15. Dec. 1823.).

Alla p. 3235. Metior o metio (avverti che questo è verbo della quarta e non della 3.) — metor aris e meto as, castrametari ec. (16. Dec. 1823.).

Sella che ho contato altrove fra’ diminutivi positivati, non lo è propriamente, se vien da sedes, perchè ha un senso molto più speciale di questo, benchè anch’esso molto esteso e vario. (16. Dec. 1823.).

A proposito dello spirito denso dei greci mutato in s ec. si può notare lo spagn. sombra (coi derivati) cioè ombra da umbra. E forse qua spetta anche il franc. sombre. V. il Gloss. ec. ec. (16. Dec. 1823.).

Bello non assoluto. I greci e i romani (erano nazioni di buon gusto?) pregiavano, almeno nelle donne, la fronte bassa, e l’alta stimavano difettosa, per modo che le donne se la coprivano ec. V. le note del De Rogati alla sua traduzione di Anacr. od. 29. sopra Batillo. Sul coprire o mostrar la fronte il che e la quale ha tanta parte nel differenziare le fisonomie, nè gli antichi nè i moderni, nè la moda oggidì è mai d’accordo con se stessa. Non è dubbio che quella nazione di cui parla Ippocrate (v. la p. 3961.), avvezza a non vedere che teste lunghe, benchè tali essi ed esse a dispetto della natura, pur contuttociò naturalmente avrebbe e avrà sentita una mostruosità e bruttezza notabilissima e, secondo lei, incontrastabile ogni volta che avrà veduto teste, non dico piatte, ma discrete ec. Così dite degli altri barbari di cui p. 3962. E così di cento mila altri usi contro natura, selvaggi o civili, antichi (greci, romani ec.) o moderni ec. spettanti alla conformazione o reale o apparente (come quella de’ guardinfanti ec.) del corpo umano. (16. Dec. 1823.).

Il v non è che aspirazione ec. Del Digamma eolico v. la Gramm. del Weller, Lips. 1756. p. 65.— È uso della lingua italiana l’omettere o l’aggiungere il v nei nomi, massime aggettivi in ío [a]

Così in latino: p. e. v. Forcell. in Dium . E certo da δῖος dev’essere divus; e v. Forc. in Divus .

[Chiudi]. Nel dire ío o ivo spessissimo varia sì la lingua scritta da se stessa (natio-nativo), sì il volgare dalla scritta (stantio, volg. stantivo, e viceversa in altri casi) e da se stesso, sì l’italiano scritto o parlato o entrambo dall’altre lingue, sì dalla latina o dall’originaria della rispettiva parola (joli-giulivo per giulío, che anche si disse anticamente, oggi è perduto affatto) sì da altre (rétif-rétive-restio), e viceversa queste dalla nostra, e tra loro, e in se stesse ec. (16. Dec. 1823.).

Si dans un pays on pouvait découvrir tous les talens que la nature se plait à distribuer au hasard, et qu’on pût employer chacun dans son genre, ce pays deviendrait bientôt le premier de l’Europe. Mais que de sagacité, de soins infinis et de patience faudrait-il pour de telles découvertes? Le Fatum s’est réservé la direction de nos destinées. À bien examiner la chose, nous y avons moins de part que notre orgueil ne nous en attribue. Lettres du Roi de Prusse et de M. d’Alembert. Lettre 188. du Roi. (16. Dec. 1823.).

Sculpter da sculpto-ptum. (16. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati. Ungula (onde unghia, ongle, e non da unguis): vedi però il Forcell. in Unguis. Quanto a unghia è certo ch’egli è positivato. Di ongle ancora è certo ch’equivale al positivo lat. unguis; non credo però ad ungula che si dice in franc. corne [a]

V. ancora i derivati ec. di ungula, unghia, ongle.

[Chiudi]. (17. Dec. 1823.).

Alla p. 3979. fine. I verbi poi (come τεθνήκω ec.) o nomi (come κεκρύφαλος ec.) o altre voci fatte da’ perfetti, hanno per lo più e regolarmente nella duplicazione la ε e non la ι, secondo la forma de’ perfetti onde son fatti. (17. Dec. 1823.).

Alla p. 3977. Basti solamente notare le infinite circostanze, qualità ec. ec. della persona, sì nel fisico sì nel morale, del clima, dell’anno, della stagione, degli avvenimenti ec. ec. che i buoni e veri medici e in particolare Ippocrate prescrive in molti luoghi di osservare in ciascuna malattia e in ciascun malato, per poterne fare retto giudizio, e applicare il rimedio, il cui effetto ognuna delle dette circostanze, ancorchè menoma, male osservata, ec. potrebbe impedire o render dannoso ec. e altresì falsificare affatto il giudizio della malattia il prognostico de’ suoi effetti e successi ec. ec. (17. Dec. 1823.).

Tutto è follia in questo mondo fuorchè il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorchè il ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorchè le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze. (17. Dec. 1823.).

Teschio non è certamente altro che un testulum o testulus da testa per capo, mutato al solito l’ul in i, e il t in ch per proprietà della nostra lingua, massime antica e toscana che dice p. e. schiantare e stiantare, schiacciare e stiacciare, e mastio per maschio (mutando per lo contrario il ch in t) ec. ec. Come da vetulus, vecchio, del che altrove[a]

Puoi ved. la p. 3992. capoverso 3. e la p. 3753. marg.

[Chiudi], così da testulum teschio; e se vecchio è da un veculus o contrazione di vetusculus ec. (e così viejo, vieil) nello stesso modo da testa potrà essersi fatto tesculum (come da ve t us ve c ulus ) o teschio esser contrazione di testiculum ec. Testula si trova da testa femmin. Or avvi anche testum e testu neutro. V. Forc. E pel latino testa noi diciamo testo masch. V. il Gloss. i franc. spagn. ec. La parola teschio par che mostri che la voce testa nel volg. lat. si usava particolarmente per denotare il cranio ec. e ciò rende tanto più verisimile la metafora da testa (coccia) a testa (capo) e l’analogia ec. Siccome viceversa le cose da me dette intorno a testa ec. confermano le presenti. Da teschio ben si può argomentare a testa e viceversa, essendosi già dimostrato con tanti esempi l’uso de’ diminutivi in vece e nel senso appunto de’ positivi in latino e nelle lingue moderne. Teschio o testulum dovette forse essere in principio un mero diminutivo positivato cioè significare il medesimo che testa preso o per capo o per cranio particolarmente ec. Del resto circa questa voce v. il Gloss. i francesi e spagnuoli ec. (17. Dec. 1823.).

Alla p. 3984. fine. I francesi hanno anche de’ diminutivi o frequentativi in il ille iller ec. (come grappiller pétiller ec. ec.) come gli spagnuoli e come i lat. catillus, pusillus, pocillum, conscribillo, sorbillo, cantillo ec. ec. (17. Dec. 1823.).

Alla p. 3965. marg. È da notare che molto più antichi di Empedocle, Ippocrate ec. furono Saffo ed altri, massime poeti, famosi, i quali scrissero ne’ dialetti natii diversi dall’ionico. Mostra dunque che non Omero, ma la preponderante civiltà, coltura (della quale ne dan chiaro segno e le cose e lo stile e lingua delle odi di Anacreonte, molto, se non altro, più giovane di Saffo), commercio, ricchezza, lusso, mollezza ec. e quindi arti, mestieri, scienze, belle arti, v. p. 3995. letteratura ec. degli Ioni rendesse comune il loro dialetto, e ciò molto dopo Omero, ed essendo già sparsa la letteratura per la Grecia, e varia di dialetti, ed altri dialetti applicati propriamente e per se stessi (non confusamente cogli altri, come in Omero) alla letteratura, almeno alla poesia. Erodoto fu circa contemporaneo d’Ippocrate. (18. Dec. 1823.). Simonide contemporaneo all’incirca di Anacreonte, dice il Fabric. che scrisse in dorico. Si veggano i suoi frammenti, e più vi si troverà dell’ionico che del dorico; in particolare poi i suoi giambi ed alcuni altri frammenti sono al tutto o ionici o comuni, cioè attici: parte l’uno, parte l’altro. Come però Simonide scrivea per mercede in lode di questo o di quello (v. il Fabr.), è naturale che in tali casi seguisse i dialetti di chi pagava. Quindi i suoi epigrammi, fatti pure per mercede o per casi particolari e luoghi ec., erano forse e si trovano in dorico, e così altri frammenti. V. p. 3997.

Alla p. 3969. La nostra diminuzione in olo olare ec., uolo ec. e la lat. in olui ec. (filiolus, vinolentus, vinolentia ec. ec. per filiulus, vinulentus ec. v. la p. 3955.) sono la stessa che quella in ulus ulare ec. Solito scambio dell’u ed o (come volgus-vulgus ec.) di cui ho detto in mille luoghi. (18. Dec. 1823.).

Lusito da ludo-lusum. (19. Dec. 1823.).

Alla p. 3901. Contrazioni, voglio dire, da lapidillus e simili. Vetulus potrebb’essere per veterulus, (quanto a questa voce puoi vedere la p. 3990. ec.). Puellus (agellus ec.) fors’è contrazione di puerulus, che pur si trova, fatto dal genitivo come gli altri nomi o voci che vengono da’ nomi della seconda. Nigellus potrebb’essere per nigerulus da nigeri genitivo non da niger. Tenellus (misellus ec.) per tenerulus da teneri genitivo non da tener ec. ec. Vedi le pag. 3963. 3968. 3971. 3987. (19. Dec. 1823.). V. p. 3994.

Diminutivi positivati. Mulet da mulus. Nel femminino mule. (19. Dec. 1823.).

Participio passato in senso neutro o attivo. Avvertito per avvisato, accorto, avvertente da avvertire in senso di por mente. Così advertido in ispagnuolo dove credo che advertir abbia pure questo senso come tra noi[a]

Così è infatti: advertid que ec. D. Quijote .

[Chiudi]. Credo ancora che avvertito nel detto senso sia preso dallo spagnuolo al quale è più che mai proprio l’usare questi cotali participii passati in cotali sensi attivi o neutri ec. Trovo advertido così preso nel D. Quijote. Avisé. V. i Diz. Saputo, Saputello ec. V. la Crus. e gli spagn. (19. Dec. 1823.).

Il me semble que l’homme est plutôt fait pour agir que pour connaître. Lettres du Roi de Prusse et de M. d’Alembert. Lettre CCXXXVII. du Roi. (19. Dec. 1823.).

Al detto altrove sopra i diminutivi positivati di acus, aggiungi aiguillon che grammaticalmente è un sopraddiminutivo, e corrisponde ad aculeus diminutivo semplice. L’uno e l’altro però differiscono dal positivo nel significato. Del resto aiguille originariamente e materialmente è lo stesso che aculeus. (19. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati. Poisson da piscis per poisse. (20. Dec. 1823.).

Alla p. 3636. Notate che v’hanno in francese molti diminutivi di questa sorta, positivati ec. non solo in eau, o in el elle, o in et ette (noisette ec. ec.) [o] in in ine (médecin), V. la pag. 3995. capoverso 1. princip. e quivi il marg. ec. ec. ec. ma in on [a]

V. il pens. precedente e p. 3996. capoverso I. 2. e ult. ec. questa desin. in on è comune cioè tanto masc. che fem. o l’uno e l’altro insieme ec. Se il nome in on, essendo aggettivo ha il femm. in one o onne, non è diminut. anzi dubito che un aggett. in on sia mai de’ diminut. — Compagnon (fem. compagne) sostantivo.

[Chiudi], ot ote, otte ec. P. e. oignon dev’essere originariamente un diminutivo. (20 Dec. 1823.). V. la fine del pens. seg.

Alla p. 3969. fine. La diminuzione però in olo breve, nei nomi, non par propria dell’italiano. Pur se ne trovano assai esempi di voci che non possono esser latine, o non v’è ragione per credere che lo siano. Zufolo, cicciolo, sdrucciolo, gomitolo, ec. ec. Ne’ verbi poi essa diminuzione è assolutamente italiana. (Dico diminuzione, che ora è in senso diminutivo ora frequentativo ec.). Sventolare che fa io svéntolo, tu svéntoli ec. Anzi tutti i nostri diminutivi o frequentativi ec. in olare, mi par che sieno in ol breve. Del resto mi pare che anche in francese la desinenza in ol ole, oler ec. sia non di rado diminutiva o frequentativa o disprezzativa ec. Prestolet (pretazzuolo) da prestre. Babiole ec. (20. Dec. 1823.). V. qui sotto.

Alla p. 3992. Nigellus (e così tutti gli altri simili) è da nigri per nigrellus, come flabellum, flagellum, lucellum da flabrum, flagrum, lucrum. Labrum labellum, monstrum-mostellum, tenebrae-tenebellae (Claud. Mamert.). Bensì può esser che nigri sia contrazione di nigeri, e quindi per questo rispetto fors’anche nigellus di nigerellus, e simili. Tenellus è certamente per tenerellus, puer per puerellus e simili, soppressa la r come in flabellum ec. (20. Dec. 1823.).

Alla p. 3979. fine. La duplicazione del genere di quella di κάρχαρος (eccetto che qui v’è un ρ di più) è comunissima in greco e si fa col raddoppiare la prima sillaba della voce, cioè la prima consonante e la prima vocale qual è, e fors’anche un’altra consonante prima o dopo essa vocale, se la prima sillaba della voce ha più consonanti ec. Se la consonante è aspirata, se le sostituisce nella sillaba che si aggiunge la corrispondente non aspirata. Se la voce comincia per vocale, anche pura, si ripete la prima vocale e la prima consonante, ancorchè questa spetti a un’altra sillaba. V. lo Scap. in ἀλαλή. Oppure la ε o α si cambia in η, l’o in ω ec. ec. ec. (20. Dec. 1823.).

Al pensiero ult. della pag. preced. Massimamente poi è proprio dell’italiano la desinenza in olo ec. breve, quando questa è frequentativa o frequentativo-diminutiva come in trottola ec. In tali casi non ha luogo la desinenza in ólo nè in uólo ec. (20. Dec. 1823.). V. p. 4000. fine.

Diminutivi positivati. Comignolo quasi culminulus. V. il Gloss. ec. Colmigno o è corruzione di culmine (che pure abbiamo, ma è voce della scrittura), o di culminulus, o apocope di colmignolo, che fu poi corrotto in comignolo ec. (20. Dec. 1823.). Capitulum, capitulo, capitolo, chapitre, per articolo di scrittura ec., s’anche da principio non fu così, oggi valgono lo stesso che caput, capo nel medesimo senso, nel quale in francese e in ispagnuolo non sussiste più il positivo (veggansi però i Dizionarii). (20. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati. Médecin francese[a]

Dubito però che in franc. la desinenza in in ine ec. nè abbia, ora nè abbia mai avuto la forza diminutiva in nessun modo. V. la pag. 3993. capoverso 4. marg.

[Chiudi]. Fiaccola quasi facula da fax. V. il Gloss. in facula ec. e la Crus. in facella . Faccellina vuol dir quasi lo stesso che fascina. Falcola e falcolotto (che il Monti nella Proposta condanna come voci inaudite, ma che sono frequentissime nella Marca, come debbono essere in Toscana, perchè la Crus. le porta senza esempio, ed hanno anche un senso proprio che non si può totalmente confondere con quello di candela) sono corruzioni di facula, ma non hanno precisamente il senso del positivo, ma più ristretto, ed anche indicano cosa piccola a rispetto delle faci di legno, come di pino ec. (v. Forc. in fax ) giacchè falcola è solo di cera. (21. Dec. 1823.).

Alla p. 3991. marg. fine. Si osservano dagl’interpreti anche in Anacreonte le espressioni o indicazioni ec. di usanze ec. che dimostrano l’alto grado in cui si trovava al suo tempo il lusso, l’opulenza, la mollezza, le arti belle ec. appo gl’Ioni. (21. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati. Menton, mentonnière da mentum. Puoi ved. p. 3993. capoverso 4. (21. Dec. 1823.).

Al detto altrove di vermiglio ec. aggiungi il franc. vermillon in quanto significa rosso (propriamente e originariamente rossetto). Vedi ancora vermiller che forse è da vermis, vermiculus. (20. Dec. 1823.).

Al detto altrove in più luoghi di falsus aggiungi. Falso per menzognero, finto, ingannatore, insomma per qui fallit, laddove falsus suonerebbe passivamente qui fallitur, detto di persona, è del latino, dell’italiano, dello spagnuolo (D. Quijote). V. i francesi. E anche generalmente nel suo significato aggettivo ordinario, cioè detto di cosa ec. sì falsus, sì falso ec. ha senso attivo e viene a dire ingannante, laddove parrebbe a causa della sua forma grammaticale passiva, ch’ei non potesse valer altro che ingannato. (22. Dec. 1823.).

Circa potus a um aggiungi. Si dice anche potus sum, in forma deponente come gavisus sum da gaudeo. V. Forc. in poto ec. Vedilo anche in prandeo fin. e in pransus, e simili. (22. Dec. 1823.).

Circa appariculus, apparecchio ec. di cui altrove, si osservi che non v’è alcuna necessità di crederlo diminutivo originariamente, malgrado la sua desinenza in ulus, come pure altrove ec. (22. Dec. 1823.).

Diminutivi positivati. Chardon da carduus o da cardus. Noi cardo. Cardone nella Crus. è dell’Alamanni, forse suo francesismo al suo solito, ovvero è un accrescitivo indicante la salvaticità della pianta, positivato ec. come altri molti. Ma in francese al contrario è diminutivo. V. lo spagnuolo. È da notare in proposito de’ diminutivi positivati, che anche il contrario de’ diminutivi cioè gli accrescitivi si positivano sovente nell’uso latino italiano spagnuolo francese greco ec. Così anche i dispregiativi e altri tali generi e modificazioni di nomi, verbi ec. peggiorativi ec. ec. (22. Dec. 1823.).

Al detto altrove intorno all’uso dell’avv. spagn. luego aggiungi un es. d’Ippocr. nel princ. del libello de flatibus. Αὐτίκα γὰρ λιμὸς νοῦσος ἐστίν Verbigrazia [a]

In simil senso di verbigrazia ec. o analogo a questo, mi par che si usi eziandio lo spagn. luego.

[Chiudi] la fame si è un’infermità. Scioccamente la versione emendata dal Mercuriale: Quare statim ubi fames molestat, morbus fit. E più scioccamente quanto quel quare non può ragionevolmente aver relazione a niuna delle cose precedenti. (22. Dec. 1823.).

Diminutivi greci positivati. Χρυσίον, ἀργύριον, che alle volte hanno un senso più circoscritto e particolare ec. che i positivi, alle volte lo stesso. V. Scapula. (22. Dec. 1823.).

Alla p. 3992. marg. Questo medesimo vale per gli altri poeti di quelli o de’ più antichi o più moderni tempi, i più de’ quali scrivevano o sempre o spessissimo per mercede, e commissione. Non si può dunque troppo ragionevolmente argomentare dello stato della lingua e letteratura greca di que’ tempi in ordine ai dialetti, dal dialetto che tali poeti, massime lirici, epigrammatici, elegiaci o trenici seguono in tali composizioni; ma bensì da quelle che si veggono essere state fatte per iscelta e genio ec. dell’autore. Tali sembrano esser quelle di Simonide i cui frammenti sono affatto o quasi affatto (quanto può il linguaggio greco poetico stringersi a un dialetto ec. ec.) ionici. E per contrario quelli che son dorici spettano evidentemente all’altro genere sopraddetto ec. (23. Dec. 1823.).

Alla p. 3636. — o che derivando dal latino, non hanno lo stesso significato, uso ec. che in latino ma diverso affatto come p. e. cintola diminutivo positivato da cinta, nome. V’è però in lat. cinctus us, e cinctum i, onde pur noi cinto e il diminutivo (alla latina) positivato cintolo, con cintolino ec. Forse però cinta per cinto non è che una corruzione di questo ec. E vedi il Gloss. in cincta ec. se ha nulla, cioè se fosse latino barbara essa medesima voce. (24. Dec. Vigilia di Natale. 1823.).

Diminutivi greci positivati. Μόριον. V. il Lessico con tutti i suoi composti, derivati ec. (e così i composti, derivati ec. degli altri diminutivi greci positivati, altrove notati da me). Μορὶς ίδος, μερὶς μερίδος. Ἀγγεῖον. Se questo è veramente diminutivo come dice la Gramm. di Padova, non solo è positivato, ma se ne fa un sopraddiminutivo, cioè ἀγγείδιον, e notisi anche in greco l’uso de’ sopraddiminutivi ec. benchè qui una sola delle due diminuzioni avrebbe vigore ec. Si può credere che moltissime voci greche in ιον, in ὶς ίδος, o in alcuna delle tante forme diminutive usitate in questa lingua (v. il Weller), sieno diminutivi positivati, benchè non si abbiano i positivi, o questi non si usino ora che in senso ben diverso, e per tali e simili e qualunque cagioni quei nomi non sieno considerati dai Gramm. per originariamente diminutivi (p. e. ἰσχίον, κοράλλιον (il derivato κουράλιον, βαλάντιον, σίλφιον; il derivato σιλφῶδες mostra un posit. di σίλφιον, perchè da questo sarebbe σιλφιῶδες). V. p. 4018. ec.). Così accade nel latino nelle lingue moderne ec. E quel che dico de’ nomi si può stendere all’altre voci ec. (24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.).

Al detto altrove di gozar, aggiungi gozoso, cioè gaudiosus, quasi gavisosus. (24. Dec. Vigil. del Santo Natale. 1823.).

Participii passivi in senso attivo o neutro ec. Agradecido per agradeciente, e lo trovo anche, nel D. Quijote, per piacevole, urbano, gentile, cortese [a]

Altra volta ve lo trovo per benigno, favorevole ( fue mas agradecida y liberal la natura que la fortuna ). Desagradecido p. ingrato. D. Quij. Leido p. che ha letto, alletterato (ib. leido en cosas de Caballeria andantesca , cioè, che ha letto romanzi di Cavalleria come quivi si vede).

[Chiudi]. Del resto questo participio è aggettivato e così tutti o quasi tutti gli altri tali participii così usati ec., come mi pare aver detto altrove, ma ciò non toglie ec. ec. (24. Dec. 1823. Vigilia del Santo Natale).

Che amarillo, voce evidentemente diminutiva, venga da un amaro (diverso da amargo) e questo da ἀμαυρός? Del resto l’esser voce diminutiva non dee far maraviglia, o che si consideri come voce significante colore (così rossetto ec. ec. nel qual caso ella sarebbe positivata, perchè non suona pallidetto ma pallido, che dovea pur essere il significato di amaro), o come significante mal essere, stato, colore ed aspetto infermiccio ec. (nel qual caso non sarebbe positivata ec.). Del resto sì il proprio sì il metaforico di ἀμαυρός, da qualunque de’ due sensi si voglia derivare amarillo, e qualunque sia il proprio e primitivo di questa voce, le conviene e corrisponde a maraviglia. Or la Spagna donde avrebbe avuta mai questa voce greca? Certo, ch’io sappia, ella non ebbe mai nè colonie greche, nè commercio co’ greci ec. e la sua posizione geografica la rese sempre per così dire ritirata, anche anticamente, fino alla venuta de’ Romani ec. ec. (24. Dec. 1823. Vigilia del S. Natale. 1823.).

Empujar cioè impellere, ma viene da un impulsare. V. i suoi derivati. Pousser, (pellere) da pulsare, co’ suoi derivati. Pujar e certi suoi derivati, sobrepujar parimente, o son fatti da pousser. V. i Diz. spagn. e correggi certe cose che ne ho dette parlando di pujanza in proposito di potens. La qual voce pujanza ha tutt’altra origine, cred’io, nè viene, come parrebbe a tutti, da pujar, nel modo che puissance, puissant ec. non ha che far niente con pousser e suoi derivati. (24. Dec. Vig. di Nat. 1823.).

A proposito della ridondanza del pronome altro nell’italiano e nel greco, notata altrove, osservivi che altro presso noi spesso vale semplicemente alcuna cosa, massime nella negazione, onde senz’altro vale sovente senz’alcuna cosa, cioè senza nulla, e altri quando si usa al modo del franc. on (e dell’ital. l’uomo, uno, la persona, si ec.) vale alcuno, che pur molte volte si dice ne’ casi stessi. V’ha un luogo nel Petrarca Canz. Una donna più bella, stanza 3. v. 12. dove altro , ben considerando il luogo, mi pare (e non credo che niuno fin qui l’abbia inteso) che non significhi se non alcuna cosa, cioè, poichè sta colla negazione virtualmente presa, nulla. (24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.).

Diminutivi positivati. Gomitolo, aggomitolare ec. da glomus o glomer. V. la Crus. e il Forcell. col Gloss. ec. e osserva se glomus ec. vale lo stesso. (24. Dec. 1823.).

Verbi frequentativi o diminutivi ec. italiani. Penzolare e spenzolare coi derivati. Paiono però fatti da penzolo, e questo da pendulus che non è diminutivo. Rotolare, rotolone ec. (24. Dec. 1823.). Penzigliare, penzigliante. V. il pens. seg.

[4001 - 4200]

Alla p. 3995. princ. Coccolone, o coccoloni da coccare, penzolone o penzoloni (v. il pens. precedente), rotolone ec. Tutte forme frequentative. E questa forma è usitatissima in cotali avverbi in one o oni propri della nostra lingua, che equivalgono a’ gerundi de’ rispettivi verbi (sieno frequentativi o diminutivi ec. in olare o comunque, o non lo sieno punto) da cui sono formati (se sono formati da verbo). Dunque la forma in ol breve, è ben propria della nostra lingua, e vi è frequentativa, diminutiva ec. come in latino ec. Ruotolo o rotolo. Coccola, coccolina. Concola (i romani concolina sempre, per quello che noi diciamo catino da lavar le mani e il viso) da conca. V. il Forc. e i Less. gr. dove κογχύλιον è diminutivo. E vedi alla pag. 3636. marg. fromba diminuito in frombola, voci l’una e l’altra, che non hanno a far col latino[a]

Così grappo e grappolo, di cui altrove; e v. il Gloss.

[Chiudi]. V. il Gloss. Goccia e gocciola, gocciolare e gocciare, sgocciolare ec. da gutta, del che altrove[b]. Snocciolare da nócciolo ec.[c]; v. la Crusca: nócciolo par che sia da nucleus che non è diminutivo: quindi neanche snocciolare cioè enucleare. (24. Dec. 1823.). V. p. 4003.

A proposito delle divinità benefiche, che altrove ho detto essere ed essere state venerate, inventate ec. dalle nazioni civili, e più quanto più civili, si aggiunga che non solo benefiche, ma graziose, amabili ec. ancorchè non benefiche, o indifferenti ec. come tante divinità, allegorici personaggi, personificazioni di qualità o soggetti ec. naturali, umani ec. nella mitologia greca ec. ec. (24. Dec. Vigilia del S. Natale. 1823.).

Delle colonie greche in Italia, Sicilia ec. e antico commercio ec. greco in Italia, avanti il dominio de’ romani, la diffusione o formazione di quella lingua latina, che noi conosciamo, cioè romana ec. e del grecismo che per tali cagioni può esser rimasto nel volgare latino in quelle parti, e quindi ne’ volgari moderni in quelle parti, e quindi nel comune italiano eziandio, massime che la formazione e letteratura di questo ebbe principio in Sicilia e nel regno, come mostra il Perticari nell’Apologia, ec. ec., discorrasene proporzionatamente nel modo che altrove s’è discorso delle Colonie greco-galliche, di Marsiglia ec. in rispetto ai grecismi della lingua francese non comuni al latino noto ec. (24. Dec. 1823. Vigil. del S. Natale.).

Κρεῖττον ἑλέσθαι ψεῦδος ἢ ἀληθὲς κακόν. Menander ap. S. Maxim. Capit. Theolog. serm.35. fin. (24. Dec. 1823. Vigilia del S. Natale.).

Diminutivi greci positivati. Προβάτιον. V. lo Scap. Il luogo d’Ippocrate quivi cit. è nel principio del lib. de morbo sacro: οὐ γάρ ἐστιν αὐτοῖς ἄλλο προβάτιον οὐδὲν ἢ αἶγες καὶ βόες.. Ἱμάτιον da εἷμα ατος o da un ἷμα ατος (come da ἀπόσπασμα ατος, ἀποσπασμάτιον diminutivo e simili), diminutivo positivato, eccetto che εἷμα. (poetico, cioè a dire antico) è forse un po’ più generico. Così forse dicasi di φόρτος e φορτίον. V. lo Scapula. (25. Dec. dì del Santo Natale. 1823.).

Dico altrove del nostro cangiar talora il cul latino in gli, coll’es. di periglio ec. Aggiungi spiraglio da spiraculum che anche si dice spiracolo, come pure pericolo. (25. Dec. dì del S. Natale. 1823.).

Volere per potere, idiotismo greco e italiano, di cui altrove. Ippocrate o chiunque sia l’autore del libro de morbo sacro a lui attribuito, ediz. del Mercuriale Ven. 1588. opp. d’Ippocr. classe 3. p. 347. D. terza pag. del detto libello. Οὐ μέντοι ἔγωγε ἀξιῶ ὑπὸ θεοῦ ἀνθρώπου σῶμα μιαίνεσθαι, τὸ ὑποκηρότατον ὑπὸ τοῦ ἁγνοτάτου, ἀλλὰ κ' ἢν τυγχάνῃ ὑπὸ ἑτέρου μεμιασμένον ἢ τὶ πεπονθός, ἐθέλοι (posset) ἂν ὑπὸ τοῦ θεοῦ καθαίρεσθαι καὶ ἁγνίζεσθαι μᾶλλον ἢ μιαίνεσθαι. Cioè purgaretur et purificaretur magis quam inquinaretur, ovvero posset purgari ec. L’ἐθέλοι si potrebbe facilmente ommettere risolvendo nell’ottativo colla particella ἂν i verbi infiniti che da lui pendono, e il luogo avrebbe quasi lo stesso valore. Ma la locuzione è elegantissima. (25. Dec. Festa del S. Natale. 1823.).

Alla p. 4001. Nótisi che la desinenza in olare, dove l’ol è breve ec., sia diminutiva, sia frequentativa ec. si dà presso noi a moltissime voci che non hanno nè poterono avere a far col latino. Si unisce eziandio ad altre desinenze e forme affatto italiane e per nulla latine, come da ballonzare, formazione italiana (o toscana) da ballare, si fa ballonzolare (anche la forma in olare sembra essere propriamente o più particolarmente toscana che altro). Così da pallotta pallottola, e simili. Collottola, frottola. Viottolo, viottola (questa è veramente una diminuzione in ottolo tutta italiana tanto è vero che l’olo breve è italiano ec.) diminutivi di via, e molti simili ec. L’uolo poi accoppiasi in mille modi ec. non mi par però che possa esser sopraddiminutivo (al contrario mi par dell’olo), bensì riceverlo ec. (25. Dec. 1823.). V. qui sotto.

Vedi il pensiero precedente, e osserva che la formazione in olare è anche oggi, fra l’altre, al discreto arbitrio dello scrittore, o parlatore ec. e di questo arbitrio se ne prevalgono anche i volgari, specialmente in Toscana ec. che non conoscono il latino ec. (25. Dec. 1823. dì del S. Natale.).

Frequentativi italiani ec. Vedi nell’anteced. pensiero un verbo sopraffrequentativo o sopraddiminutivo ec., come anche altri ve ne sono, o ne possiamo formare a piacere e giudizio dello scrittore parlatore ec. (25. Dec. 1823.). V. la p. seg.

Diminutivi greci positivati. Χωρίον. V. Scap. (25. Dec. 1823.).

Alla p. preced. — In icare, come verzicare o verdicare (inverzicare attivo a quel che pare) per verdeggiare ed altri molti (qua spetta dimenticare). Questa forma di frequentativi è affatto latina. V. la p. 2996. marg., ec. Ed altri molti esempi ve n’hanno, oltre i quivi citati[a]

Voltolare, rivoltolare, avvoltolatamente. Vagellare (Crus.), vagolare e svagolare (Alberti), da vagari.

[Chiudi]. Particolarmente poi s’usa nel latino appunto in fatto di colori, come quivi altresì puoi conoscere. V. appunto nel Forc. viridicans e viridicatus. Male dice il Forc. che viridicans è per viridans, questo attivo e quello neutro ed equivalente affatto al nostro verzicante o verdicante (Crus.), oltre che se viridans fosse anche neutro, non sarebbe però, come quello, frequentativo ec. V. il Gloss. ec. (25. Dec. Festa del S. Natale. 1823.). Così da nivo is e da nevare (ital.) nevicare (volgarmente nevigare, e v. il Gloss.) frequentativo alla latina, delle quali voci mi pare aver detto altrove. Morsicare; ma non ha più il senso frequentativo ec. anzi ha quello stessissimo del positivo mordere, sebben la Crusca lo definisce morsecchiare. Vedila, e in morsicatura ec. Masticare. V. Forc. e il Gloss. Vedi la p. 4008. capoverso 4. fine. Mordicare co’ deriv. Rampicare arrampicare arpicare da rampare-rampante, o da rampa o da rampo. Inerpicare, inarpicare. Luccicare, sbarbicarelucere, sbarbare. Vedi la pag. 4019. capoverso 1. Zoppicare, impetricato, nutrico as e nutricor di cui altrove.

Tetta tettareτιτθὸς o τίτθη o τιτθὴ (che vale anche nutrice ed ava: ora in questi sensi si dice anche τηθὴ) coi derivati. V. p. 4007. Εὐθὺ,, εὐθὺς ec. per subito ec. — a dirittura, dirittamente ec. per subito. (26. Dec. Festa di S. Stefano. 1823.).

Usi familiari del lat. recte conformissimi a quelli del nostro bene, franc. bien ec. (che secondo il più comune significato di recte, vagliono lo stesso, cioè probe ec.), veggansi nel Forc. in recte ne’ due ultimi paragrafi della seconda colonna di detto articolo. (26. Dec. Festa di S. Stefano. 1823.).

Setola per il lat. seta, setoloso setoluto per setosus, e v. gli altri derivati di setola, e il Forc. in setula . (26. Dec. 1823. Festa di S. Stefano.).

Nivitari pass. da nivo is. Gloss. Cang. (27. Dec. 1823. Festa di S. Giovanni Evangelista.).

Diminutivi greci positivati. Εἰρίον, ἔριον, da εἶρος (27. Dec. 1823.).

Verbi diminutivi positivati. Ringhiare cioè ringulare da ringere. V. i franc. e spagn. (27. Dec. 1823.). Avvinchiare, avvinghiare, succhiare, succiare (sugo is, suggere, sucer ec.). e molti altri simili verbi italiani in ghiare e chiare, iare ec. sono assoluti diminutivi (quasi tutti e per lo più o tutti e sempre positivati), e diminutivi non in italiano ma in latino donde mostrano assolutamente esser venuti, cioè da de’ rispettivi verbi in ulare, noti o ignoti. Così molti verbi spagn. in jar, franc. in iller, ec. Così anche nomi e altre voci ec.[a]

Morchia (noi marchigiani morca) — amurca.

[Chiudi] (27. Dec. 1823.). — Possono però tali verbi ec. esser fatti anche da nomi o latini o italiani ec. noti o ignoti, come p. e. ringhiare da ringhio (nome usato), il quale quando anche fosse da un ringulus, questo non sarebbe diminutivo, o da nomi che essendo diminutivi in latino, in ulus, non lo sieno in italiano ec. (27. Dec. 1823. Festa di San Giovanni Apostolo ed Evangelista.). Tali sono i verbi rugghiare e mugghiare, mugliare [b], mugolare, mugiolare, muggiolare coi derivati ec. di questi e di mugghiare, rugghiare ec. del quale però mi ricordo aver parlato altrove e veggasi il detto quivi. (28. Dec. giorno degl’Innocenti. 1823.). Veggasi la pag. 4008. capoversi 4. e ultimo.

Diminutivi positivati. Vasello. V. la Crusca, co’ suoi derivati, e in Vagello co’ derivati. (28. Dec. 1823.).

Plurali italiani in a. Vasella plur. di vasello. (28. Dec. 1823.). Vasa plur. di vaso. Crus. e Arios. Sat. 3.

Participii passivi in senso att. o neut. ec. Apercibido per fatto inteso, che sta sull’avviso ec. (D. Quijote). Inteso per informato, intendente, ec. (entendido, entendu. V. spagn. e franc. : se però in questo senso appartenesse al neut. pass. intendersi, entenderse ec. non spetterebbe al nostro proposito.). Discreto it. spagn. (di cui par che, almeno principalmente sia proprio) e franc. per discernente ec.[a]

Conocido, desconocido, p. conoscente, cioè grato, e sconoscente, come diciamo noi l’uno e l’altro, come anche disconoscente. V. la Crusca in disconosciuto esempio 2. dove vale che non conosce, ch’è privo di conoscimento, e nota ch’è di Guittone, cioè antichissimo.

[Chiudi] V. il Gloss. ec. (29. Dec. 1823.).

Alla p. 3955. marg. — di questo però particolarmente. — Coltellinaio ec. ec. (29. Dec. 1823.).

Avvisato, avisado ec. nel senso di accorto ec. molto s’ingannerebbe chi lo credesse un significato passivo dall’attivo di avvisare cioè avvertire ec. (29. Dec. 1823.).

Participii passati in senso attivo o neutro, aggettivato. V. Forc. in consultus dove non approvo il modo in ch’egli spiega l’origine del significato attivo o neutro di questa voce, per non aver considerato i tanti altri es. che v’hanno di tali participii così usati, aggettivamente o no, ne’ quali non ha punto luogo una simile spiegazione. In particolare poi v’hanno esempi in significati simili a quello di consultus, sì nel latino sì nelle lingue moderne, come cautus, avvisato, avvertito ec. da me sparsamente notati altrove, e consideratus attivamente nel latino e nell’italiano ec. di cui v. il Forc. la Crus. gli spagnuoli e francesi. V. ancora i composti ec. di consultus in tal senso, come jurisconsultus ec. e di consideratus, come inconsideratus ec. e così degli altri tali participii. (29. Dec. 1823.).

Appellito as, apellidar ec. (30. Dec. 1823.).

Diminutivi greci positivati. τιτθὸς ec. τιτθίον, (come in lat. mamma e mammilla nello stesso senso, del che altrove), τιτθὴ ec. e τιτθὶς ίδος, quasi nutricula ec. (30. Dec. 1823.). Vedi la pag. seg. capoverso 1

Diminutivi positivati. Sencillo da sincerus. Così pretto da purus del che altrove, nel medesimo senso, e ambo diminutivi aggettivi il che è raro ec. Tenellus, tenellulus, lascivulus, blandulus, misellus ec. ec. miserello ec. ec. ma è raro che gli aggettivi diminutivi sieno positivati ec. ec. Seggiola, seggiolo (v. i derivati sopraddiminutivi, e anche accrescitivi, come seggiolone, fatti dal diminutivo, il che è notabile, nè potrebbe ragionevolmente aver luogo se il diminivo non fosse positivato, o non avesse un senso disgiunto da diminuzione ec. e in tali casi è frequente) per sedia, seggia, seggio, sebbene hanno forse un senso più circoscritto ec. e vedi il detto altrove del lat. sella, e la Crusca ec. (1. Gen. 1824.).

Alla p. 4004. Dicesi anche tettola, che la Crus. chiama espressamente diminutivo di tetta, come in lat. mamma e mammilla nel senso stesso, e come appunto in greco τίτθη ec. e τιτθίον, collo stesso significato. Vedi la pag. anteced. fine. e 4001. (2. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Porcello ec. V. Crus. e nota che questa positivazione è massimamente propria de’ nostri antichi e trecentisti più che del moderno linguaggio. Forc. ec. (2. Gen. 1824.). V. Forc. in Puera, esemp. 1.

Sopraddiminutivi latini. Agellulus. Asellulus ec. (2. Gen. 1824.). Tenellulus. Vedi la p. 3987.

Alle varie alterazioni de’ verbi greci quanto alla forma (sia nel tema, sia altrove ec.) senz’alterar punto il significato, delle quali altrove, aggiungi in ννύω o ννυμι, come κεράω, κεραννύω, κεράννυμι;; χρώω, χρωννύω, χρώννυμι; che valgono tutti tre lo stesso, e sono un sol verbo. Lascio poi l’alterazione sì comune in μι, ch’è pur di tante forme, e sì di regola e proprietà dell’uso greco ec. ec. e che parimente non muta punto il significato, che moltissime volte ha fatto dimenticare, disusare, o anche ignorare affatto il vero tema in ω, che in molti verbi si congettura o si dee congetturare, benchè espressamente non si trovi, essere stata usata ec. (2. Gen. 1824.).

Participii passati in senso attivo o neutro ec. Trascurato, tracutato, tracotato, straccurato ec. V. la Crus. in Tracotare, sebbene quell’etimologia è falsissima perchè tracotare è da cuite o cuyte, cuyter ec. provenz. ec. cuita, cuitar ec. spagn. ant. cuidado cuidar ec. spagn. mod. (4. Gen. 1824.).

Diminutivi greci positivati. φρούριον. V. Scap. (4. Gen. Domenica. 1824.).

Alla p. 3969. Appunto hanno anche gli spagnuoli il diminutivo in uelo, che come il nostro uolo vale olo e viene dal latino in olus o ulus. (5. Gen. Vigilia della Santa Epifania. 1824.).

Diminutivi greci positivati: ἀκόντιον che ha cacciato l’uso del posit. V. Scap. πεδίον. V. Scap. (5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.).

Participi italiani in ito ed uto, del che altrove. Apparito e apparuto ( Machiav. Istor. l. 7. opp. 1550. par. 1. p. 268. mezzo). Questo secondo però, oltre a non avere, ch’io sappia, altra autorità che di uno scrittore molto poco diligente nella lingua, in particolare nella Storia, dov’anche potrebb’esser fallo di stampa, può essere da apparere (laddove il primo da apparire), onde anche apparso, come da parere, paruto e parso. Comparere non si trova, almeno nella Crus., bensì però comparso, oggi assai più frequente di comparito ch’è di comparire, da cui però non viene comparso, il quale forse è moderno e fatto solo per analogia di apparso e parso, che sono oggi i più usitati. (5. Gen. Vigilia della S. Epifania. 1824.).

Verbi frequentativi ec. italiani. Sputacchiare, stiracchiare da sputare, stirareù. Questa forma in acchiare, e in occhiare, icchiare, ecchiare, ucchiare e in ghiare ec. (v. il pens. ult. di questa pag.) e simili, han tutte origine dal buon latino (essendo equivalenti al lat. culare) nel quale ancora, questa forma è diminutiva o disprezzativa o frequentativa ec., e immediatamente poi hanno forse origine dal latino barbaro, almeno molte di tali voci, p. e. sputacchiare da sputaculare ec. Vedi la pag. 4005. capoverso 2. — Al detto altrove di crepolare, aggiungi screpolare ec. — Sghignazzare, ghignazzare da sghignare, ghignare. (6. Gen. Festa della S. Epifania. 1824.). Ammontareammonticare (vedi la pag. 4004. capoverso 2), ammonticchiare, ammonticellare. Raggruzzareraggruzzolare.

Al detto altrove d’inopinus, necopinus ec. aggiungi odorus, il quale non mi sembra altro che contrazione di odoratus, e in fatti è voce propria de’ poeti come le sopraddette ec. V. Forcell. (6. Gen. 1824.).

Quel che altrove si è detto in più luoghi, cangiarsi nell’italiano regolarmente il cul de’ latini in chi, dicasi pur del gul in ghi ec. V. la pag. 4005. capoverso 2. (6. Gen. 1824. dì della S. Epifania.). V. p. 4109.

Diminutivi positivati. Fragola da fraga. V. Crus. Forc. Gloss. e franc. spagn. ec. Ugola e uvola per uva. (7. Gen. 1824.).

Scambio del v e del g. V. il pensiero precedente. (7. Gen. 1824.).

Diminutivi greci positivati. οἰκίον per οἶκος o οἰκία. Notisi ch’egli è antichissimo, perchè proprio di Omero. O forse degl’ioni, massime antichi. Arriano imitatore di questi l’usa nell’Indica 29.16, 30.9. Lo Scap. non cita che Omero. È positivato anche presso Arriano. (7. Gen. 1824.). Lo stesso discorso o dell’antichità o del dialetto ionico, massime antico, si può fare intorno al diminutivo positivato προβάτιον, ch’è d’Ippocrate, o di chi altro è l’autore del libro ec., e di cui altrove. La quale osservazione unita con questa della voce οἰκίον, e coll’altre che si potranno fare, può dar luogo a buone conghietture circa l’uso de’ diminutivi positivati nell’antico greco o ionico ec. (7. Gen. 1824.). πλημμυρὶς ίδος. φυκίον. (7. Gen. 1824.).

Verbi frequentativi o diminutivi ec. ital. Morsecchiare, morseggiare (coi derivati ec.) che la Crusca chiama quello diminutivo e questo frequentativo di mordere. Aggrumolare da aggrumare che non è della Crus., bensì aggrumato, digrumare ec. (8. Gen. 1824.).

V aspirazione. Tardivo ital. tardío spagn. ( Cervantes D. Quij. par. i. cap. 47. principio, ed. di Madrid ch’io ho.). (8. Gen. 1824.).

Al detto altrove sopra la frase ὀλίγου o πολλοῦ δεῖν ec. aggiungi Arriano Ind. 43. 6. τοσούτου δεῖ τά γε ἐπέκεια ταύτης τῆς χώρης οἰκεόμενα εἶναι ; e altre simili frasi dello stesso genere τοσούτου ἔδει, ἐδέησεν, δέον ( Luc. Nigrin. opp. i. 35.) πόσου δεῖ ec. ec. (8. Gen. 1824.).

Al detto altrove di juntar aggiungi ayuntar (aggiuntare) co’ derivati ec. e fors’anche coyuntar (v. i Dizionari) e simili composti, se ve n’ha. Vedi pur la Crus. in giuntare co’ derivati ec. (8. Gen. 1824.).

Alla p. 3979. Al detto di κάρχαρος, aggiungi i suoi derivati, e il composto καρχαρόδους ec. (8. Gen. 1824.).

Grecismo. Per parte mia, per la mia parte ec. ec. V. la seconda annot. del Gronov. al Nigrino di Luciano , opp. Luc. Amst. 1687. t. 1. p. 1005. init. (8. Gen. 1824.).

Participii passati in senso attivo o neutro ec. Entendido per intendente. Cervantes D. Quij. cap. 47. o 48. par. 1. V. i Diz. Mirado per mirante: mal mirado ec. V. i Diz. (10. Gen. 1824.).

Male per non ec. di cui altrove. V. il pensiero precedente e gli spagnuoli ec. (10. Gen. 1824.).

Avvi due sorte di coraggio ben contrarie fra loro. L’una che dirittamente e propriamente nasce dalla riflessione, l’altra dall’irriflessione. Quello è sempre e malgrado qualunque sforzo, debole, incerto, breve e da farci poco fondamento sì dagli altri, sì da quello in cui esso si trova ec. (10. Gen. 1824.).

Diminutivi greci positivati. κρανίον, in senso di capo per κράνον o κάρηνον, (da cui è fatto κράνον per metatesi) o ec. V. Scap. — τεύτλιον e τευτλὶς per τεῦτλον. Appo Ateneo trovo anche σεύτλιον nello stesso senso per σεῦτλον. V. Scap. E appunto noi abbiamo bietola (onde bietolone) da beta, diminutivo positivato, in cui luogo poeticamente si dice anche bieta, come osserva la Crusca ec. V. il Gloss. ec. in betula, se v’è, ec. (10. Gen. 1824.).

Al detto altrove circa la ridondanza del pronome ἄλλος e altro appo i greci e gl’italiani in molte dizioni, e circa il significato di nulla o nessuno ec. assoluto o virtuale ec. che ha molte fiate nel nostro parlare il detto pronome, aggiungi le frasi non ne fece altro, non ne fate altro e simili, dove altro sta per niente, ed aggiungi eziandio che anche siffatto uso di questo pronome, oltre all’essere analogo alla predetta sua ridondanza usitata e nel greco e nell’italiano, è anche analogo a un uso particolare della voce plur. ἄλλα che i greci adoprano talora per cose frivole, vane, da nulla, cioè insomma nulla, come in un luogo di Fenice Colofonio, poeta, appresso Ateneo l. 12. p. 530. F. οὐ γὰρ ἄλλα κηρύσσω , che il Dalechampio traduce frivola non denuntio: bene, ma propriamente sarebbe non enim nihil (cioè rem o res nihili) denuntio. E certamente qua spetta quel che dice lo Scapula che appresso Euripide ἄλλα si spiega per rationi non consentanea. E qua eziandio l’uso dell’avverbio ἄλλως per incassum, frustra, temere ec.; (del qual uso v. lo Scapula e l’indice greco a Dione Cassio coi luoghi quivi indicati, ad uno de’ quali v’è una nota, dove si dice che tal uso è stato illustrato, dimostrato ec. dal Perizonio ad AElian. ec.[a]

ἄλλως p. falso, frustra in un luogo di Alessi Comico ap. Ateneo l. 13. p. 562. D. fin. male inteso dal Dalechampio.

[Chiudi]) e in parte ancora l’uso del medesimo avverbio ne’ significati da me notati e illustrati nelle Annotazioni all’Eusebio del Mai, e nelle postille al Fedone di Platone sul fine ec. (10. Gen. 1824.). Presso Euripide il Tusano spiega ἄλλα per οὐκ ἐοικότα aberrantia a proposito. Ben può essere che questo sia il proprio senso, e l’origine di tal uso della voce ἄλλα sì presso Euripide sì presso Fenice. Con tutto ciò non credo tal uso alieno dal nostro proposito e dall’analogia col sopraddetto uso italiano ec. (10. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Scintilla e suoi deriv. ec. V. l’etimolog. di scintilla nel Forcell. e nelle note al Timone di Luciano principio, opp. ed. Amstel. 1687. t. 1. p. 55. not. 7. (11. Gen. Domenica. 1824.).

Al detto altrove dell’antico meno (tema di memini) e del nostro rammentare ec. che forse ne deriva ec. aggiungi mentio, verbale dimostrativo del supino mentum, onde noi ec. menzionare ec. — Mentovare ec. (11. Gen. Domenica. 1824.). V. p. 4016.

Ayrarse o airarse, airado ec. airarsi, adirarsi ec. da aggiungersi al detto altrove in proposito dell’antico lat. iror aris. E v. il Gloss. in adirari, irari ec. se ha nulla. (11. Gen. Domenica. 1824.).

Non mi ricordo a qual proposito, ho detto altrove che noi siam soliti di usare gli aggettivi singolari mascolini in forma di avverbi. Così anche gli spagnuoli, p. e. demasiado per demasiadamente (che credo si dica altresì), infinito ( D. Quijote par. i. c. 49.) per infinitamente (che pur credo si dica) ec. Massime l’antico, cioè il buono e vero, spagnuolo, come pur s’ha a dire circa l’italiano in cui quest’uso è proprio più particolarmente dell’antico, e quindi, anche oggi, familiare singolarmente ai poeti ec. Così i francesi fort per fortement, in senso di molto (come anche noi forte ec.). Pare però che quest’uso sia molto più frequente nell’italiano, massime antico, buono, poetico, elegante ec. che nello spagnuolo qualunque, e massime nel francese. (12. Gen. 1824.).

Uso di porre i genitivi plurali, in vece de’ nominativi, col pronome alcuni, ovvero di questo pronome co’ detti genitivi, nel qual caso quest’uso verrebbe a essere ellittico. Proprissimo de’ francesi, proprio ancor sommamente degli italiani, non solo moderni e francesizzati, come si crede, ma antichi, di tutti i tempi, ed ottimi e purissimi. Credo ancora degli spagnuoli. Mi pare aver detto altrove come quest’uso è un pretto grecismo. Aggiungici ora l’esempio di Luciano, Nigrin. opp. Amstel. 1687. t. 1. p. 34. lin.15-6. e vedi i grammatici greci dove parlano della Sintassi, che certo denno aver qualche cosa sopra questo genere di frasi ec. (12. Gen. 1824.). Nel cit. esempio τῶν φιλοσοφεῖν προσποιουμένων si sopprime evidentemente il τινὰς al nostro modo e de’ francesi. (12. Gen. 1824.)[a]

V. ancora lo stesso Luc. i. 178. lin. 25.26. dove pur sottintendesi τὶ o τινὰ.

[Chiudi].

Diminutivi greci positivati. ὀχεῖον da ὄχος εος, come ἀγγεῖον da ἄγγος εος. (12. Gen. 1824.).

A proposito del detto altrove circa il vario modo di significare la probità e bontà degli uomini usato nelle varie nazioni e lingue e tempi, secondo le differenze de’ costumi, opinioni, caratteri, istituti e vita e costituzione loro, osserva che come i romani dissero fringi, così i greci oltre καλὸς κ' ἀγαθός anche χρηστὸς che propriamente vale utile (e s’usa anche in questo senso ec. v. i Lessici), e per lo contrario ἄχρηστος che propriamente è inutile e così per l’ordinario usato, fu anche detto per cattivo ec. (V. i Lessici, e quivi anche gli altri composti e i derivati di χρηστός). Ed è ben ragione, perchè l’utilità delle persone doveva esser valutata anche dai greci sommamente, costituiti, come romani, in istato franco ec. secondo che ho detto circa la parola frugi al suo luogo. (12. Gennaio 1824.).

Che i perfetti in ui sien fatti da quelli in avi o evi o ivi ancorchè ignoti, come ho detto altrove, e ciò anche nella terza coniugazione, in cui tal desinenza (come pur quella in ivi, o qualunqu’altra in vi), è sempre anomala, vedi Forcell. in pono is fin. circa l’antico posivi, apposivi ec. per posui, apposui ec. (13. Gen. 1824.).

Al detto altrove di mescolare ec. aggiungi rimescolare ec. e composti e derivati dell’uno e dell’altro ec. (13. Gen. 1824.).

Digamma eolico. Levis o laevis da λεῖος, come si osserva nelle note a Luciano opp. t. 1. p. 113. not. 9 (14. Gen. 1824.).

Verbi italiani frequentativi o diminutivi ec. Abbrostire abbrostolire, abbrustolare, abbrustiare. (14. Gen. 1824.). Bezzicare.

Diminut. greci positivati. Ὅριον, οὕρια, μεθόριον, μεσούριον da ὅρος. (14. Gen. 1824.).

Tacendo Un gran piacer (cioè, s’egli è taciuto), non è piacer intero . Machiavelli Asino d’oro, Capitolo 4. verso 86-7 (14. Gen. 1824.).

Senz’altro puntello per senz’alcun puntello. Machiav. Asino d’oro, cap. 5. v. penult. Di tal modo di dire, altrove. (14. Gen. 1824.).

Senz’altra (senz’alcuna) disciplina . ibid. capitolo 8. verso 4 (15. Gen. 1824.).

Digamma eolico. Viscum (raro Viscus) da ἰξὸς colla metatesi delle lettere κσ incluse nel ξ. Nóta che lo spirito è lene, e il genere (almeno in viscum) mutato, come in οἶνος-vinum ec. Vivo da βιῶ (βιϜῶ). Forcell. e not. a Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 143. not. 3 (15. Gen. 1824.).

A quel che ho detto altrove, che talora il cul latino si cangia in gli italiano (come periculum-periglio ec.) in il francese ec. j spagnuolo ec., dicasi ancora del gul. Vedi, se vuoi la pag. 4005. capoverso 2., nel marg. al numero 1. (15. Gen. 1824.).

Alla p. 2779. lin. 1. Da βόρος o βορὸς ec. vorax ec. V. lo Scapula e il Forcell. Da βιῶ vivo. V. il capoverso 3. in questa presente pag. Nelle note quivi citate si fa anche venire vis da βιὰ, che altrove parlando del digamma eolico, ho fatto venire, e così credo meglio, da ἲς ἰνὸς. V. Forcell. ec. (15. Gen. 1824.).

Intorno al verbo italiano rotolare frequentativo o diminutivo ec. di rotare, (rotolone ec.) del quale mi pare aver detto altrove, osservisi il francese rouler. Se questo verbo co’ suoi molti derivati (o anche voci originarie e anteriori ad esso) di cui v. il Diz. e colla voce rôle e derivati (ruotolo o rotolo) non vengono originariamente dall’italiano, come poi noi dal franc. ruolo, arruolare ec. ne segue che la diminuzione latina in ol o ul dovesse anche esser propria in certo modo del francese, non solo dell’italiano come s’è dimostrato altrove, giacchè non pare che queste voci francesi vengano immediatamente dal latino. V. però Forcell. il Gloss. ec. Esse sono certo originariamente diminutive o frequentative ec. Rouler è frequent. anch’oggi in certo modo ec. (15. Gen. 1824.).

Come la preposizione sub nella composizione spesso dinoti sursum, o sia di sotto in su, del che ho detto altrove in proposito di sustollo ec. vedi nel Forcell. la definizione e gli esempi di subduco, la prova che risulta dal quale non può esser più chiara nè piena. (16. Gen. 1824.).

Errato per errante, come andar errato ec. V. la Crusca. E in ispagn. ir errado (Cervantes), pensamiento errado , (ib.) ec. Fra noi però errare è per lo più neutro, (benchè si dice errar la strada ec.) e così credo in ispagnuolo. Il Forcell. lo chiama attivo. V. Erratus per qui erravit appo il medesimo in erro fin. e vedilo pure esso Forcell. in Certatus a um. (16. Gen. 1824.). Impransus, incoenatus ec. V. il Forc. Si aggiungano al detto altrove di pransus, coenatus ec. e così gli altri loro composti, se ve n’ha. (16. Gen. 1824.).

Ridondanza del pronome altro, ed ἄλλος, usitata nell’italiano e nel greco, come altrove. Così otro nello spagnuolo. Cervant. D. Quij. par. 1. capit. 51. Cerca de aqui tengo mi majada, y en ella tengo fresca leche, y muy sabrosissimo queso, con otras varias y sazonadas frutas, no menos à la vista que al gusto agradables . (16. Gen. 1824.). Son le ult. parole del capitolo.

Al detto altrove di avvedere-avvisare ec. aggiungi divisar spagn. ( D. Quij. par. 1. cap. 51. e v. i Dizionari) e nóta che noi ec. abbiamo anche divedere. E che il participio visus da cui è avvisare, divisare ec. (se non sono da viso sost. o da guisa-visa ec. come altrove) e così avisar, aviser ec. è proprio solo del latino e non dell’italiano nè dello spagnuolo[a]

Desaguisar, desaguisado, aguisado ec.

[Chiudi] nè del francese. Abbiamo bensì anche avvistare da visto, nostro participio, o da avvisto pur nostro, se non è da vista sostantivo. (16. Gen. 1824.). Avvistato (ch’è però in altro senso da avvistare nella Crus.) par certo venire da vista, come svistare (uso ital.) da esso vista o da svista ec. (16. Gen. 1824.).

Alla p. 4011. Rammentare, ammentare ec. di cui altrove, si paragonino co’ verbi latini commentari e s’altri tali ve n’ha, da meno poi memini, o da miniscor o da’ composti di questo o quello ec. (16. Gen. 1824.).

Nascere per avvenire, grecismo proprio anche dell’antico latino, come in quello o fortunatam natam cioè γενομένην. V. Forcell. ec. È proprissimo dell’italiano. Fra i mille esempi, hassi nel Guicciardini lib. 1. t. 1. p. 111. ediz. di Friburgo, 1775-6. nata la perdita di S. Germano , cioè accaduta semplicemente[b]

Nascere per procedere, provenire ec. ne nacque un ec. questa cosa nasce, nacque da ec. ne nascerà ec. per alcune difficoltà nate nella consegnazione delle Fortezze, non era ancora partito. Guicc. I. 280.

[Chiudi]. E in molti altri modi e casi si usa da noi il verbo nascere come il greco γίγνεσθαι, p. e. nella frase di qui o da ciò o quindi nasce che ec. il, la ec. ἐκ τούτου γίγνεται o γίνεται. V. i franc. e gli spagn. e il Gloss. e i Less. greci. (16. Gen. 1824.). V. per seg.

Non solo in italiano e in latino, come altrove in più luoghi è detto, ma in ispagnuolo altresì ed in francese adopransi spessissimo i participii, non solo aggettivamente, ma in significazione non propria loro, e propria di aggettivi a loro propinqui o simili, per catacresi o abusione (ch’è l’ abuti verbis propinquis , come dice Cic. ap. Forcell. in Abusio, o l’ abuti verbo simili et propinquo pro certo et proprio , come dice l’Autore ad Herenn. ibid. p. e. l’ aedificare equum di Virgilio Aen. 2. aedificare classem di Cesare, οἰκοδομεῖν πυργίον di Luciano in Timone, opp. Amst. 1687. t. 1. p. 135. dove vedi la nota 6.) come honrado per onorevole, uomo d’onore (D. Quij.), (in it. ancora onorato, e v. i latt. e il Gloss. ec.), simile all’invictus, invitto, invicto o invito spagn. (v. i Diz. spagn.) per invincibile, che però non è participio, voglio dire invitto, benchè fatto da participio[a]

Pregiato p. prezioso o pregevole, immensus p. immetibilis.

[Chiudi] ec. ec. (16. Gen. 1824.).

Bisavolo ec. aggiungasi al detto altrove di avolo, ayeul, abuelo ec. e v. ancora i francesi e gli spagnuoli. Trisavolo, terzavolo e terzavo, quintavolo ec. (16. Gen. 1824.).

Grecismo dell’italiano. Lucian. Timon. opp. 1687. t. 1. p. 77-79 καὶ αὖθις μὲν σκέψομαι, ἐπειδὰν τὸν κεραυνὸν ἐπισκευάσω πλὴν ἱκανὴ ἐν τοσούτῳ καὶ αὕτη τιμωρία ἔσται αὐτοῖς , cioè in questo mezzo. Noi appunto in tanto, fra tanto, in quel tanto, in questo tanto ec. Vedi gli spagn. e i francesi. Qui ἐν τοσούτῳ viene a essere ἐν ὅσῳ (χρόνῳ) ὁ κεραυνὸς ἐπεσκευασμένος ἔσταί μοι. E di questo genere è ancora la propria significazione del nostro intanto, secondo i casi, e tale si è l’origine di questo modo di dire preso nel senso d’interea, interim. (17. Gen. 1824.). Esempi simili al riferito di Luciano non mancano. V. p. 4022.

Alla p. anteced. capoverso 2. La frase o fortunatam natam , sembra essere una vera imitazione del modo greco, e così alcune di quelle dove nasci sta per initium ducere ec. ap. il Forcell. Non così certo le nostre frasi sopraddette. E re nata, pro re nata, queste son frasi ben e propriamente latine, (cioè non de’ soli letterati, a quel che pare), e spettano al presente proposito. (17. Gen. 1824.).

Alla p. 3176. marg. fin. Vedi la Storia del Guicciardini, ediz. di Friburgo, lib. 1. tom.1. p. 23. 27-28. 49. 55. 56. 64-5. 105-6. l. 2. p. 138-9. 142. l. 5. p. 422. 430. 431. da’ quali luoghi si rileva che Carlo ottavo di Francia ebbe inutilmente, come Filippo contro i Persiani, il disegno di passare contro i turchi, e far la grande impresa dell’Asia e Grecia ec. Principe non comparabile per altro a Filippo nè di valore nè di fortuna, la qual ebbe infelicissima all’Italia, anzi indegno di pure esser proposto a tal paragone. (17. Gen. 1824.). V. p. 4025.

Esperimentato per che ha fatto esperienza, perito. Guicciard. t. i. p. 128. mezzo circa, ediz. di Friburgo, t. 2. p. 240. principio. e altrove spessissimo e vedi la Crus. Esperimentato nelle guerre, nel governo, a ec. Sperimentato ib. p. 131. mezzo circa ec. (17. Gen. 1824.).

Sopraddiminut. greci. πόλις-πολίχνη-πολίχνιον. (18. Gen. Domenica. 1824.).

Spagn. tragar — τρώγω aor. 2 ἔτραγον, onde τράγημα ec. e fors’anche τράγος. (18. Gen. 1824. Domenica.).

I participii passivi di verbi transitivi usati in forma attiva, sì in lat. sì quelli massime delle lingue moderne, s’usano per lo più (e nelle lingue moderne forse tutti) assolutamente, o almeno senz’accusativo, insomma intransitivamente, sia che s’usino in forma aggettiva o di participio o comunque. (18. Gen. 1824. Domenica.).

Altro per nessuno o alcuno o ridondante, del che altrove. Non sì ch’io speri averne altra corona . Macchiavelli, Capitolo della ingratitudine v. 7. cioè averne corona, o averne nessuna o alcuna corona. (18. Gen. 1824.).

Nascere per avvenire, del che altrove non molto addietro. Dunque se spesso qualche cosa è vista Nascere impetuosa ed importuna Che ’l petto di ciascun turba e contrista, Non ne pigliare ammiration alcuna . (qualche tristo avvenimento). Macchiavelli Capitolo dell’Ambitione, v. 172-5. (18. Gen. 1824. Domenica.).

Latinismi dell’ortografia italiana nel 500. del che altrove. Macchiavelli opp. 1550. par. 5. p. 47. fin. adverso; p. 49. fin. admiration, e cento simili scritture. (18. Gen. Domenica. 1824.).

Plurali in a. Urla, strida. (18. Gen. Domenica. 1824.).

Alla p. 3998. marg. fine. τρύβλιον o τρυβλίον catillus (sebben l’interpretano catinus), patella, trulla, ollula (v. Scap.) tutte voci diminutive. E forse questa voce greca è veramente diminutivo anche per significato, ma la sua voce positiva contuttociò non si trova, il che serve a confermare il nostro sospetto circa gli altri simili vocaboli, che sono però di senso positivo, cioè positivati, secondo noi. Lo stesso dico di θρυαλλὶς diminutivo forse e di origine e di significato, ma che non trovandosene il positivo, non si ha per tale, nè quanto alla prima nè quanto al secondo. Luciano 1. 88. ha θρυαλλίδιον (come 1. 55. θρυαλλίδα) dove puoi veder le note. Ἰσχίον, forse è diminutivo positivato di ἴσχις, o che questo volesse anche dir coscia, ec. o ἰσχίον originariamente volesse dir lombo o anche lombo. Certo ἴσχις è voce poco nota, e che si ha, credo io, solamente da Esichio, onde ben potrebbe avere avuto uno o più de’ significati d’ἰσχίον, senza che noi lo sappiamo. (19. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Bouillon da bulla, bolla. (19. Gen. 1824.). Bouillonnement, bouillonner. Bulicare è corruzione di bollicare, dal quale abbiamo infatti bollicamento, e così bulicame è per bollicame che non si trova, sia che queste voci vengano a dirittura da bolla come le suddette francesi, sia da bollire (che vien da bolla), come par voglia la Crusca, che spiega bollicamento per leggier bollimento (sarebbe dunque diminutivo), e bulicare per bollire, di cui sarebbe frequentativo o diminutivo o frequentativo-diminutivo. Bulicame però non ha che far con bollire, bensì con bolla. Eccetto pigliando bollire, per far bolle senza fervore: v. Bollire par. 4. e il Forcell. Pare però che bulicame si dica propriamente delle acque bollenti benchè senza fuoco. ec. (19. Gen. 1824.). Vedi la pag. 4004. capoverso 2. Moisson diminutivo positivato di messis. (19. Gen. 1824.).

Sufrido per sofferente. (20. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. Gragnuola. V. Crus. franc. spagn. Gloss. Forc. ec. (20. Gen. 1824.).

Passava un pescivendolo, con un paniere di pesci sul capo, vicino a un filare d’alberi che costeggiava la sua strada, e da un ramo d’olmo che sporgeva in fuori, fugli infilzato un pesce. Piscium et summa genus haesit ulmo. Ecco rinovato questo prodigio, o dimostrato possibile questo impossibile, di cui vedi Archiloco appo Stobeo nel capitolo della speranza. (20. Gen. 1824.).

Al detto altrove di metari aggiungi immetatus. (21. Gen. 1824.).

Della differenza naturale e artificiale del gusto e del bello presso le varie nazioni e tempi, nelle arti, letterature, fattezze del corpo ec. ec. vedi il primo capitolo del Saggio sull’epica poesia del Voltaire ne’ suoi opuscoli tradotti e stampati in Venezia appresso il Milocco colla data di Londra nel 1760 (volumi 3), volume 2.o principio. (21. Gen. 1824.).

Grecismo. Soplandole, le ponìa (cioè le hazia, lo rendeva) redondo como una pelota , Cervantes, Prologo al Letor de la segunda parte del Don Quijote, p. 3. Frase familiare agli spagnuoli e tutta greca. Nel latino ponere per efformare non è col doppio accusativo, cioè sostantivo o pronome ec. e aggettivo, e non equivale a rendere, far divenire, benchè spetti a questo genere di significazione ed uso del greco τίθημι, e del resto è una frase tolta a dirittura dal greco e imitata, laddove la spagnuola è volgare e non è certo imitata dal greco. (21. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati greci. μηρίον per μηρός. Nóta ch’è proprio di Omero e di Esiodo (antichissimo cioè, o ionico, come altrove) da’ quali, al suo solito, lo piglia Luciano nel Prometheus sive Caucasus, opp. 1687. Amstelodami, t. 1. p. 183. e de Sacrificiis p. 363. (21. Gen. 1824.).

Diminutivi positivati. V. Forcell. in Spatha, spatula, spathalium , lo Scap. in σπάθη, σπαθίον, σπαθὶς ec. la Crus. in spatola, spazzola ec. il Gloss. i franc. gli spagn. (21. Gen. 1824.).

A proposito di fusa lat. ho notato altrove il plur. loci e loca e simili. Da μηρὸς in plur. μηροὶ et μηρὰ apud poetas per metaplasmum , dice lo Scapula. E così altri plurali assai, greci, o doppi (sia neutri e masc. sia fem. e masc. ec.) o diversi dal genere del sing. ec. de’ quali v. i grammatici. (21. Gen. 1824.). Loca in lat. dal sing. locus, è anche de’ prosatori.

Κακοδαίμων per che ha gli déi nemici, del che altrove. Luciano de Sacrificiis. t. 1. p. 362. init. (21. Gen. 1824.).

Figliuolo per figlio, diminutivo o vezzeggiativo positivato, di cui altrove. Credo anche in greco si dica talora τεκνίον senza intenzione nè di diminuire nè di vezzeggiare. (21. Gen. 1824.).

Desapercebido per isprovvisto, imprudens. Cervant. D. Quij. par. 2. cap. 1. p. 4. ed. di Madrid. V. il detto altrove di apercebido. E simili altri participii s’intenda che hanno tali significazioni anche coll’aggiunta del des ec. privativo in ispagnuolo, dell’in ec. in italiano ec. ec. (22. Gen. 1824.).

Rinnovellare, innovellare, renouveler, renovello, lat. (v. gli spagn.) ec. diminutivi positivati; si aggiungano al detto altrove di novellus ec. (22. Gen. 1824.).

Quanto allo stile e al bene scrivere, immensa fatica è bisogno per saper fare, ed ottenuto questo, non meno grande si richiede sempre per fare. E tanto è lungi che il saper fare tolga la fatica del fare, che anzi quanto quello è maggiore, con maggior fatica si compone, perchè tanto meglio si vuol fare e si fa, il che costa tanto di più a proporzione. Così nelle arti belle e in altre faccende d’ingegno ec. (23. Gen. 1824.). Non così riguardo all’invenzione sì nello scrivere sì nelle arti. ec. ec.

Fora plurale di foro (foramen). (23. Gen. 1824.).

Piacere della vita. Una statua, una pittura ec. con un gesto, un portamento, un moto vivo, spiccato ed ardito, ancorchè non bello questo, nè bene eseguita quella, ci rapisce subito gli occhi a se, ancorchè in una galleria d’altre mille, e ci diletta, almeno a prima vista, più che tutte queste altre, s’elle sono di atto riposato ec., sieno pure perfettissime. E in parità di perfezione, quella, anche in seguito, ci diletta più di queste. Così non la pensa la Staël nella Corinna dove pretende che sia debito e proprio della pittura e scultura il riposo delle figure, ma s’inganna, testimonio l’esperienza. ec. ec. (24. Gen. 1824.).

Alla p. 4017. Ὁ δὲ μάγος ἐν τοσούτῳ (intanto) δᾷδα καιομένην ἔχων ec. Luciano in Necyomantia. t. 1. p. 331. (25. Gen. Domenica. 1824.).

Composti spagnuoli. Cariredondo (facciatonda). D. Quij. par. 2. cap. 3. principio. (25. Gen. Domenica. 1824.).

Bobo spagn. co’ derivati aggiungasi, se v’ha punto che fare, al detto altrove di baubari ec. (26. Gen. 1824.).

I participii passivi di verbi attivi o neutri usati nelle lingue moderne in senso att. o neutro, sono quelli per lo più o tutti e questi molte volte nell’italiano, e massime nello spagn. ec. di senso non passato, ma presente o significante abitudine di quella tal cosa che è significata dal verbo. Così bien hablado ( D. Quij. par. 2. cap. 7. principio) per buen hablador ec. Così errato, errado per errante, di cui altrove. Sudato per sudante ec. Così pesado per pesante. Così tanti altri participii neutri, massime spagnuoli, che per questa qualità di significazione presente o indicante abitudine ec. meritano di esser considerati, giacchè i participii passivi di verbi neutri in significazione passata, come caduto, morto ec. sono regolari e ordinarissimi e infiniti sì nello spagnuolo che nell’italiano e francese ec. (26. Gen. 1824.), come dico altrove.

Al detto altrove di excito, suscito ec. in più luoghi, aggiungi nel Forc. Procitant e Procitare. (26. Gen. 1824.).

Sopraddiminut. franc. Feuilleton (fogliettino). (27. Gen. 1824.).

Verbi frequentativi o diminutivi o frequentativi-diminutivi o diminutivi positivati, italiani. Rinfocolare, rinfocolamento, da rinfocare ec. (27. Gen. 1824.).

Diceva il tale che da giovanetto quando da principio entrò nel mondo aveva proposto di non mai adulare, ma che presto se n’era rimosso, perchè essendo stato più tempo senza lodar mai nessuna persona e nessuna cosa, e vedendo che non troverebbe nulla a lodare se voleva durare nel suo proposito, temette disimparare per difetto d’esercizio quella parte della rettorica che tratta dell’encomiastica, la qual cosa, come fresco ch’egli era allora di studi, gli era a cuore che non succedesse, premendogli di conservarsi coll’esercizio le cose che aveva recentemente imparate. (27. Gen. 1824.).

Alla osservazione del Mai sopra il modo in cui ne’ codici è scritto il gn indicante esser più vera la pronunzia spagnuola, tedesca ec. cioè g-n, che l’italiana, osservisi, oltre il detto altrove, che molte voci latine o dal latino venute che hanno in latino il gn, in ispagnuolo si scrivono ñ, cioè pronunziansi gn all’italiana, come parmi aver detto altrove coll’esempio di cuñado (cognatus), a cui si può aggiungere leña (ligna) femin. eccetto se tali voci non son prese in ispagnuolo dall’italiano o dal francese piuttosto che dal latino a dirittura da cui hanno la prima origine. Infatti p. e. noi appunto diciamo legna femmin. nel senso spagnuolo, ed è voce propria nostra (lignum si dice in ispagnuolo altrimenti, cioè madera ec. come in francese bois ec.) e cuñado sta nel senso italiano per fratello o sorella della moglie o del marito ec. Ed è a notare che la maggior parte forse delle voci spagnuole derivanti dal latino e che in latino hanno il gn, si scrivono in ispagn. gn, pronunziando g-n, come digno, ignorante, magnifico (però tamaño e quamaño ec.) ec. ovvero n semplice per ellissi della n, che indica l’antica pronunzia spagnuola in quelle voci essere stata g-n e non all’italiana. (28. Gen. 1824.). Señal co’ derivati ec. è dal latino o dall’italiano?

Frequentativo o diminut. positivato ec. Modulor da modus, se già questo e gli altri simili, come nidulor di cui altrove, non sono di formazione in ul non diminutiva, come iaculus, speculum ec. da cui iaculor, speculor ec. ma modulor sarebbe a dirittura da modus, del che non so altro esempio, se modulor è non diminutivo, e così nidulor ec., e se sono da un modulus, nidulus ec. (v. Forcell.) in tal caso sono diminutivi positivati, o frequentativi piuttosto. (29. Gen. 1824.).

I nostri viaggiatori hanno raccolto un dizionario delle loro parole (degli esquimesi popolo verso la Groenlandia, il meno stupido di tutti i selvaggi del Nord ), che son più di 500. Quanto ai numeri le loro cognizioni sono molto limitate . Notizia del secondo viaggio (1821-3.) e ritorno del Cap. Parry, estratta dalla gazzetta letteraria di Londra del 25. Ott. e dell’1. Nov. 1824. nell’Antologia di Firenze. num. 36. p. 120. (29. Gen. 1824.).

Dice per dicono, ovvero per un dice (on cioè un dit), l’uom dice, alcun dice (come hanno buoni autori nello stesso senso), altri dice, la persona dice (Passavanti usa la persona in questo senso), la gente dice (buoni autori) si dice [a]

Veggasi la p. 4026. capoverso 5.

[Chiudi]; nel qual caso ella sarebbe un’ellissi, come anche in greco φησὶ ec. per φασὶ, sarebbe ellissi di φησὶ τὶς ec. del che altrove. Cervantes nel D. Quijote par. 1. cap. 50. ed. d’Amberes o Anversa 1697. p. 584. tom.1. lin. 4. avanti il fine, dove si legge dizen, la mia edizione di Madrid ha dice. (30. Gen. 1824.). V. p. 4026.

Al detto altrove di despertar aggiungi che gli spagnuoli hanno anche l’agg. despierto cioè experrectus. (31. Gen. 1824.)

Gli uomini di natura, costume, o circostanza ed occasione, allegri, sono generalmente disposti a far servigio o beneficio, e compatire, e i malinconici in contrario, o certo meno. Di ciò equivalentemente ho detto altrove molto a lungo. (31. Gen. 1824.).

Qual cosa più snaturata che il non allattare le madri i propri figliuoli? Ma egli è certo per mille esperienze che le donne civilmente nutrite di radissimo possono sostenere senza gran detrimento della salute loro, e pericolo eziandio della vita, il travaglio dell’allattare. Il che è lo stesso quanto a loro che se fossero impotenti a generare. E questo costume è antichissimo (a quel che credo), sin da quando incominciarono le donne nobili o benestanti a far vita sedentaria e non faticata. Raccolgasene se lo stato civile convenga all’uomo. (1. Feb. 1824.).

Abbraciare, bragia, brage, brace ec. co’ derivati (e v. i franc. spagn. Forc. Gloss.) aggiungansi al detto altrove in proposito delle lettere br usitate nelle nostre lingue nelle voci significanti arsione ec. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.).

Alla p. 4017. V. pure il Guicc. l. 3. p. 271. sopra Massimiliano Imp. in cui quel voler fare l’impresa degl’Infedeli pare fosse un semplice pretesto, e mostra che questo pretesto o discorso qualunque era allora e in simili tempi uno degli spedienti della politica, o diplomatica, un luogo comune, usitato e valevole con tutte le corti o potentati cristiani e con tutti i popoli cristiani. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.). V. p. 4044.

Altro per niuno ec. come altrove. Guicc. 1. 274. ed. di Friburgo lib.3. senza cercare altra risposta per senza più cercare la risposta. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria SS. 1824.).

Divisato per déguisé, del che altrove. V. la Crusca in dissimigliato, esempio primo. (2. Feb. Festa della Purificazione di Maria Santissima. 1824.). Divisar per vedere, discernere, scorgere cogli occhi. D. Quij.

Alla p. 4024. Del resto anche φασὶ, aiunt, dicen, dicono, narrano, vogliono, credono ec. ec. è un’assoluta ellissi degli stessi nomi o pronomi sopraddetti, o d’altri simili, o diversi, fatti plurali. (3. Feb. 1824.).

Αὐτίκα in modo simile allo spagn. luego, del che altrove. V. Plat. in Phaedro, opp. ed. Astii t. 1. p. 144. E. (4. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Gergo-jargon. V. gli spagn. ec. (7. Feb. 1824.).

Nascere per γενέσθαι, di che altrove. V. Guicciardini, ed. Friburgo t. i. p. 339. lin.5. a fine. (7. Feb. 1824.).

Altro per niuno, del che altrove. V. il med. ib. p. 340. lin.13. (7. Feb. 1824.). E notisi il nostro uso del pronome altri sing. nel significato di cui v. la pag. 4024. capoverso 3., significato che spetta a questo proposito, e talora è anche de’ francesi, i quali dicono per es. (credo in linguaggio familiare o burlesco) comme dit l’autre, parlando, v. g., d’un proverbio ec., cioè comme on dit. V. i Diz. franc. e spagn. (9. Feb. 1824.).

La eccessiva potenza di attenzione è al tempo stesso e per se medesima, potenza di distrazione, perchè ogni oggetto vi rapisce facilmente e potentemente la attenzione distogliendola dagli altri, e l’attenzione si divide; sicchè è anche, per se medesima, impotenza o difficoltà di attenzione, e facilità di attenzione, cose contrarie dirittamente a lei, onde sembra impossibile ch’ella sia insieme l’uno e l’altro, ma il troppo è sempre padre del nulla o volge al suo contrario, come altrove. Quindi principalmente nasce la incapacità di attenzione ne’ fanciulli ec. ec. (9. Feb. 1824.).

Dico altrove[a]

P. 2827.

[Chiudi] che la mutata pronunzia della lingua greca, dovette di necessità ne’ secoli inferiori, alterandone l’armonia, alterarne la costruzione l’ordine e l’indole ec. perchè da un medesimo periodo o costrutto diversamente pronunziato, non risultava più o niuna, o certo non la stessa armonia di prima. Aggiungi che anche indipendentemente da questo, gli scrittori, ed anche i poeti greci de’ secoli inferiori (come pure i latini, gl’italiani, e tutti gli altri ne’ tempi di corrotto gusto e letteratura) amavano e volevano un’armonia diversa per se ed assolutamente e in quanto armonia da quella degli antichi, cioè sonante, alta, sfacciata, uniforme, cadenziosa ec. Questa dagli esperti si ravvisa a prima vista in tutti o quasi tutti i prosatori e poeti greci di detti secoli, anche de’ migliori, ed anch’essi atticisti, formati sugli antichi, imitatori, ec. Tanto che questo numero, diverso dall’antico e della qualità predetta, che quasi in tutti, più o meno, e più o men frequente, vi si ravvisa, è un certo e de’ principali e più appariscenti segni, almeno a un vero intendente, per discernere gl’imitatori e più recenti, che spesso sono del resto curiosissimamente conformi agli antichi, da’ classici originali e de’ buoni tempi della greca letteratura. Ora il diverso gusto nell’armonia e numero di prosa e verso (nel quale aggiungi i nuovi metri, occasionati da tal gusto e dalla mutata pronunzia della lingua) contribuì non poco ad alterare, anche negli scrittori diligenti ed archeomani i costrutti e l’ordine della lingua, come era necessario, e come si vede, guardandovi sottilmente, per es. in Longino, perchè vi trovi non di rado in parole antiche un costrutto non antico, e si conosce ch’è fatto per il numero che ne risulta, e altrimenti non sarebbe risultato, e il quale altresì non è antico. (Così dicasi dell’alterazione cagionata ne’ costrutti ec. dalla mutata pronunzia). Questa causa di corruzione è da porsi fra quelle che produssero e producono universalmente l’alterazione e corruttela di tutte le lingue, nelle quali tutte (o quasi tutte) i secoli di gusto falso e declinato pigliarono un numero conforme al descritto di sopra e diverso da quello de’ loro antichi. Si conosce a prima vista, e indubbiamente, (almen da un intendente ed esercitato) per la differenza e per la detta qualità del numero, un secentista da un cinquecentista, ancorchè quello sia de’ migliori, ed anche conforme in tutto il resto agli antichi. Il Pallavicini, ottimo per se in quasi tutto il restante, pecca moltissimo nella sfacciataggine e uniformità (vera o apparente, come dico altrove) del numero, alla quale subito si riconosce il suo stile, diverso principalmente per questo (quanto all’estrinseco, cioè astraendo dalle antitesi e concettuzzi che spettano piuttosto alle sentenze e ai concetti, come appunto si chiamano) da’ nostri antichi, da lui tanto studiati, e tanto e così bene espressi e seguiti. Che dirò del numero di Apuleio, Petronio ec. rispetto a quello di Cicerone e di Livio? non che di Cesare, e de’ più antichi e semplici, che Cicerone nell’Oratore dice mancar tutti del numero, s’intende del colto, perchè senza un numero non possono essere. V. p. seg. Che dirò di Lucano, dell’autore del Moretum, Stazio ec. rispetto a Virgilio? Marziale a Catullo ec.? Or questa mutazione e depravazione del numero dovette necessariamente essere una delle maggiori cagioni dell’alterazione della lingua sì greca, sì latina e italiana, sì ec., massime quanto ai costrutti e l’ordine, e quindi alla frase e frasi, e quindi all’indole, insomma al principale. Anche si dovettero depravar le semplici parole per servire al numero, e grattar l’orecchio avido di nuovi e spiccati suoni, o sformando le vecchie, o inducendone delle nuove e strane, o componendone, come in greco, o troncandole come tra noi (l’uso de’ troncamenti è singolarmente proprio del Pallavicini, e de’ secentisti e de’ più moderni da loro in poi), avendo riguardo sì al suono della parola in se, sì al suo effetto nella composizione e nel periodo. (9. Feb. 1824.). Veggasi il detto altrove su d’alcuni sforzati costrutti d’Isocrate per evitare il concorso (conflitto) delle vocali ec. ec. (9. Feb. 1824.). (Riferiscasi ancora a questo proposito per quanto gli può toccare, il detto altrove sul vario gusto de’ greci, lat. e ital. in diversi tempi, circa il concorso, l’abbondanza ec. delle vocali). Ora se questo accadeva a Isocrate ottimo giudice, ed esposto [a] migliaia d’altri tali, e scrivente per piacere a essi, nel centro della lingua pel tempo e pel luogo, fiorente la lingua e la letteratura, nel suo gran colmo ec. ec. che cosa doveva accadere ne’ secoli bassi ne’ quali ec. fra gl’imitatori ec. la più parte, com’era allora non greci di patria, ma dell’Asia, e questa anche alta, non la minore ec. ec. molti ancora non greci neppur di genitori, come Gioseffo, Porfirio e tanti altri ec. ec.? (10. Feb. 1824.).

Alla p. preced. marg. In verità ed essi, e i greci ripresi da Cicerone ibid. di mancar di numero, che sono molti e classici, e i nostri trecentisti, e i cinquecentisti, (la più parte non numerosi, e tutti, [salvo lo Speroni, in ciò affettato e falso, ma diversamente da’ posteri,] poco solleciti del numero) hanno pure un numero benchè incolto più o meno, e casuale, pur proprio e certo e riconoscibile, o loro, o della lingua ec. e da questo è diverso quello degl’inferiori corrotti ec. ec. (10. Feb. 1824.). V. p. 4034.

Grecismo. Collaκόλλα e κόλλη coi derivati e composti della voce ital. e della greca. E vedi Forc. Gloss. i franc. gli spagn. Potrebbe però essere stata tolta questa voce a dirittura dal greco, anche ne’ bassi tempi, se si considera come assolutamente tecnica, ma ella è in verità, almeno oggi, di volgarissimo uso, come ciò che ella significa. (11. Feb. 1824.).

Plurali in a. Mantella plur. di mantello. (11. Feb. 1824.). Peccata. Uscia. (Machiavelli par. 5. p. 151.).

Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare o abbarbicarsi. Al detto altrove sopra i nostri verbi in icare, fatti da verbi originali usati o no, o pur da nomi ec. (11. Feb. 1824.). Barbare-barbicare.

Diminutivi greci positivati. Vedi σωμάτιον per σῶμα senza niuna causa di diminuzione, in Apollon. Dysc. Mirabil. c. 3. ed appresso altri, e v. lo Scapula. (11. Feb. 1824.).

Claquer-claqueter che l’Alberti chiama frequentativo di quello. Crier-criailler, della qual sorta di verbi dico altrove. (12. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Clientolo. Maillet-mail, maglio, malleus. Che la et in francese ne’ verbi e ne’ nomi sia per se diminutivo o frequentativo ec. come la ett in italiano vedesi per lo pensiero precedente e per mille altri esempi ec. (13. Feb. 1824.).

Nascere per accadere. ec. Se altro di meglio non nasce . Machiav. Clitia At. 5. sc. 2. fine. (13. Feb. 1824.).

Altro per nulla o alcuna cosa ec. V. il pens. preced. e le molte nostre frasi simili. (13. Feb. 1824.).

Faventia-Faenza. (14. Feb. 1824.). Faentini ( Guicc. 1. 418. 419. ec. Faventini , come in lat.). Fayence per Faenza e per una città di Francia, lat. Faventia.

Immutatus, immixtus affermativi e negativi. Al detto altrove in proposito d’intentatus. (14. Feb. 1824.).

Raddoppiamenti greci, del che altrove. ἐληλαμένος, ἐληλεγμένος, ὀρωρυγμένος, ἀληλειμμένος, ἀλήλειμμαι ec. ἄραρε ec. (14. Feb. 1824.).

Cangiamento del cul lat. in chi ital. Bernoccolo (voce affatto italiana, v. però il Gloss. e i vari dizionari) co’ suoi derivati bernocchio che vale lo stesso. (15. Feb. Domenica di Settuagesima. 1824.).

Diminutivi greci positivati. Συγγραμμάτιον. V. Luciano in principio dell’Erodoto, dove pare che sia positivato, e lo Scapula ec. se v’ha nulla a proposito. (15. Feb. Domenica di Settuagesima. 1824.).

Neanche ad Erodoto par che fosse nativo il dialetto ionico (a proposito del detto altrove), a quanto osservo nella nota del Palmerio al principio dell’Herodotus sive Aetion di Luciano. (15. Febbraio. 1824.).

Certo le condizioni sociali e i governi e ogni sorta di circostanze della vita influiscono sommamente e modificano il carattere e i costumi delle varie nazioni, anche contro quello che porterebbe il rispettivo loro clima e l’altre circostanze naturali, ma in tal caso quello stato o non è durevole, o debole, o cattivo, o poco contrario al clima, o poco esteso nella nazione, o ec. ec. E generalmente si vede che i principali caratteri o costumi nazionali, anche quando paiono non aver niente a fare col clima, o ne derivano, o quando anche non ne derivino, e vengano da cagioni affatto diverse, pur corrispondono mirabilmente alla qualità d’esso clima o dell’altre condizioni naturali d’essa nazione o popolo o cittadinanza ec. Per es. io non dirò che il modo della vita sociale rispetto alla conversazione e all’altre infinite cose che da questa dipendono o sono influite, proceda assolutamente e sia determinato nelle varie nazioni d’Europa dal loro clima, ma certo ne’ vari modi tenuti da ciascuna, e propri di ciascuna quasi fin da quando furono ridotte a precisa civiltà e distinta forma nazionale, ovvero da più o men tempo, si scopre una curiosissima conformità generale col rispettivo clima in generale considerato. Il clima d’Italia e di Spagna è clima da passeggiate e massime nelle lor parti più meridionali. Ora queste nazioni non hanno conversazione affatto, nè se ne dilettano: e quel poco che ve n’è in Italia, è nella sua parte più settentrionale, in Lombardia, dove certo si conversa assai più che in Toscana, a Napoli, nel Marchegiano, in Romagna, dove si villeggia e si fanno tuttodì partite di piacere, ma non di conversazione, e si chiacchiera assai, e si donneggia assaissimo, ma non si conversa; in Roma ec. Il clima d’Inghilterra e di Germania chiude gli uomini in casa propria, quindi è loro nazionale e caratteristica la vita domestica, con tutte l’altre infinite qualità di carattere e di costume e di opinione, che nascono o sono modificate da tale abitudine. Pur vi si conversa più assai che in Italia e Spagna (che son l’eccesso contrario alla conversazione) perchè il clima è per tale sua natura meno nemico alla conversazione, poichè obbligandoli a vivere il più del tempo sotto tetto e privandoli de’ piaceri della natura, ispira loro il desiderio di stare insieme, per supplire a quelli, e riparare al vôto del tempo ec. Il clima della Francia ch’è il centro della conversazione, e la cui vita e carattere e costumi e opinioni è tutto conversazione, tiene appunto il mezzo tra quelli d’Italia e Spagna, Inghilterra e Germania, non vietando il sortire, e il trasferirsi da luogo a luogo, e rendendo aggradevole il soggiornare al coperto: siccome la vita d’Inghilterra e Germania tiene appunto il mezzo, massime in quest’ultimi tempi, per rispetto alla conversazione, tra la vita d’Italia e Spagna e quella di Francia, e così il carattere ec. che ne dipende. E già in mille altre cose la Francia, siccome il suo clima, tiene il mezzo fra’ meridionali e settentrionali, del che altrove in più luoghi. Non parlo delle meno estrinseche e più spirituali influenze del clima sulla complessione e abitudine del corpo e dello spirito, anche fin dalla nascita, che pur grandissimamente contribuiscono a cagionare e determinare la varietà che si vede nella vita delle nazioni, popolazioni, individui tutti partecipi (come son oggi) di una stessa sorta di civiltà, circa il genio e l’uso della conversazione. (15. Feb. 1824.).

Οὐδὲν ξένον εἰ πάνυ ἐσπουδακὼς ἐπὶ τοῖς ἀρίστοις ὑπὸ σοῦ γνωρίζεσθαι, ἐκ τῆς ἄγαν ἐπιθυμίας εἰς τοὐναντίον, διαταραχθείς, ἐνέπεσον. Lucian. pro lapsu inter salutandum. opp. t. 1. 502. Amstel. 1687. (16. Feb. 1824.).

Appartiene al detto altrove sopra lo spagn. luego ec. la frase εὐθὺς ἀρχόμενος, e la corrispondente lat. statim ab initio o a principio ec. e quella di Luciano, loc. sup. cit. p. 498. εὐθὺς ἐν τῇ ἀρχῇ e πρῶτον εὐθὺς , e simili che puoi cercare nel Forcell. Scap. ec. (16. Feb. 1824.).

Fiorito, fleuri ec. per fiorente, come età fiorita cioè che fiorisce, floret. (16. Feb. 1824.).

Giuntare per truffare ec. viene da iungo iunctum come juntar spagn. in altro senso, poichè anche giungere si usa per giuntare che in questo senso, tutto italiano, n’è un continuativo. Pur da iungere viene aggiuntare per giuntare ( Machiav. Mandrag. at. 3. sc. 9. la Crus. ha il verbale aggiuntatore), come il nostro volgare aggiuntare e lo spagn. ayuntar ec. in altro senso. E v. il Gloss. Giunto per giunteria. Crus. (17. Feb. 1824.).

Imprenta, imprentare ec. impronta, improntare ec. quasi imprimita, imprimitare da imprimitum, supino regolare inusitato, per impressum. (17. Feb. 1824.).

Ἐθέλω per δύναμαι o piuttosto per μέλλω, del che altrove. V. Plat. de Rep. 4. opp. ed. Ast. t. 4. p. 200. B. (18. Febbraio. 1824.).

Diminutivi positivati. Compagnon. (20. Feb. 1824.).

Bequeter (beccare) frequentativo o diminutivo. Gresset Ver-vert, Chant premier. (20. Feb. 1824.). Feuilleter.

Diminutivi positivati. Avorton, menton mentonnière ec. (20. Feb. 1824.). Flacon-fiasco.

Καὶ ὅλως ἁπάντων ὁ πολυψηφότατος ἐν παιδείᾳ σύ γε, καὶ μάλιστα ὅσῳ τὴν λευκὴν ἀεὶ καὶ σώζουσαν φέρεις (Lucian. in Harmonide ad. fin.) E massime in quanto, o in quanto che. Grecismo dell’italiano in questa e molte simili nostre frasi. (21. Feb. 1824.). V. franc. e spagn. ec.

Alla p. 4029. Il numero o suono del periodo de’ trecentisti è un tale proprio loro, e ben diverso generalmente da quello de’ Cinquecentisti; e così non solo tutte le lingue, ma ciascun secolo di esse, anche quelli in cui non si coltiva il numero, hanno un periodo loro proprio quanto al suono, e diverso da quello degli altri secoli, anzi tanto più proprio loro e più diverso dagli altri, quanto il numero v’è meno studiato, perchè l’arte, sempre la stessa, induce conformità, onde due secoli studiosi del numero, ancorchè distanti, possono facilmente rassomigliarsi insieme, più che gli altri: quando infatti veggiamo anche tra diverse lingue tal somiglianza, come tra greco e latino e tra latino e italiano negli scrittori che sono studiosi del numero. (21. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Vallon, coteau, costola ec. (21. Feb. 1824.). Rayon, pavot.

Genitivo plurale in vece dell’accusativo col pronome alcuni o alcuno del che altrove. Luciano in Scytha, opp. 1687. t. I. p. 598. init. δεῖξαι τῶν λόγων ὑμῖν cioè ex meis orationibus o doctrinis, il qual luogo è bene interpretato dal Grevio nella fine del tomo, il quale è da vedere. (22. Feb. Domenica. 1824.).

Grecismo dell’italiano. Se non quanto o in quanto o quanto che, o in quanto che- παρ' ὅσον. V. Luciano loc. cit. qui sopra, ad fin. p. 599. e lo Scapula ec. e i franc. e spagn. ec. (22. Feb. 1824. Domenica.).

Σίλλος, σίλλοι o σιλλοὶ si fa derivare da ἴλλος occhio παρὰ τὸ διασείειν τοὺς ἴλλους. V. Scap. e Menag. ad Laert. in Timon. IX. III. Consento che venga da ἴλλος, ma non che ci abbia a fare il σείειν, formazione d’altronde molto inverisimile. Io credo che σίλλος sia lo stesso affatto che ἴλλος in origine, aggiuntoci il sigma in luogo dello spirito, benchè lene, all’uso latino circa lo spirito denso e al modo che gli Eoli usavano il digamma, ossia il v latino (e quindi i latini il v) in vece anche dello spirito lene, nel principio delle parole. Veggasi il detto altrove di σῦκον ch’io credo essere venuto da un ὗκον o ὖκον. Da σίλλος occhio la metafora trasportò il significato a derisione ec. quasi dicesse, come diciamo noi, occhiolino ec. onde σιλλαίνειν sarebbe quasi far l’occhiolino, in senso però di deridere ec. La metafora è naturale, perchè il riso generalmente, ma in ispezieltà la derisione risiede e si esprime cogli occhi principalmente e molte volte con essi unicamente. (22. Febbraio 1824. Domenica di Sessagesima.).

Ἔξω τῶν ὤτων fuorchè l’orecchie. Luciano opp. 1687. p. 580. ad fin. t. 1. Di quest’uso del greco ἔξω conforme all’italiano fuori, fuorchè, infuori ec. e al francese hors, hormis ec. e allo spagn. fuera, fuera de que (oltre di che) ec. (anche in greco s’usa, mi pare, ἔξω o simil voce per oltre. V. lo Scap. e il Forcell. ec.) dico altrove, se ben mi ricordo. (22. Feb. Domenica di Sessagesima. 1824.).

Accortare, scortare. Al detto altrove di curto as. (23. Feb. 1824.). Accorciare, scorciare ec. co’ derivati ec. non sono che corruzioni, e vengono pur da curtare. (23. Feb. 1824.).

Capter, Cattare ec. Al detto altrove di captare. (25. Feb. 1824.). Riscattare, rescatar ec. catar, di cui altrove, è forse da captare?

Faventini, del che altrove. Guicc. t. 2. p. 34-36. (25. Feb. 1824.).

Rilevato per che rileva, cioè pesa, cioè importa. Nardi spesso nella Vita del Giacomini. (25. Feb. 1824.).

Al detto altrove di suppeditare aggiungi che nel D. Quij. par. 2. cap. 18. fine, io trovo supeditar per calpestare. (28. Feb. 1824.).

L’uso della sinizesi da me altrove in moltissimi luoghi distesamente notato ne’ latini e dimostrata volgare fra loro e familiare ec. osservisi essere un’altra delle conformità del volgar latino colle nostre lingue, in cui essa sinizesi non è pur volgare, ma regolare ec. ec. (28. Feb. 1824.).

Diminutivi positivati. Struzzo-struzzolo. (28. Feb. 1824.).

Verbi frequentativi o diminutivi ital. Balzare balzellare. (28. Feb. 1824.).

Pelle per donna ec. nostro modo osceno. V. il Forc. in Scortum e in Pellex ec. e la Crus. se ha nulla. (28. Feb. 1824.).

Ἄλλο per οὐδὲν ridondante come in italiano, del qual modo italiano corrispondente anche ad un altro analogo modo greco, ho detto altrove in più luoghi. Luciano nel fine del libretto περὶ ἀσρτρολογίας (se però è suo): Ψπὸ δὲ τῇ δίνῃ τῶν ἀστέρων μηδὲν ἄλλο γίγνεσθαι ; per μηδὲν γίγνεσθαι; E questo luogo dimostra l’origine di questa frase ed uso del pronome ἄλλος altri o ἄλλο altro, sì quanto al greco, sì quanto all’italiano. Perocchè viene propriamente a dire: μηδὲν ἄλλο ἢ αὐτὸ τοῦτο τὸ δινέεσθαι; così senz’altro val propriamente senz’altro fuor della cosa medesima o delle cose di cui si parla. Vedi il detto da me lungamente circa la frase οὐδὲν πλέον sulla fine del Fedone, nelle mie note sopra Platone. E vedi anche il contesto del cit. luogo di Luciano. (28. Feb. 1824.). V. la p. seg.

Εὐθὺς ἐν ἀρχῇ τῶν λόγων. Luciano opp. 1687. t. 1. p. 861: del che altrove. (28. Febbraio. 1824.).

Alla p. preced. Qua spetta quel luogo del Guicc. lib.6. t. 2. ed. Friburgo p. 74. Ai Veneziani non pareva piccola grazia se non fossero molestati dagli altri . Cioè semplicemente non fossero molestati. Quel dagli altri ha relazione ai Veneziani medesimi, e vale insomma da nessuno, cioè infine ridonda affatto. Questo modo è ordinarissimo massime nel dir familiare[a]

Così diciamo l’amicizia altrui, la conoscenza altrui, le offese altrui e simili frasi dove l’altrui ha relazione a colui solo di cui si parla, sia persona o cosa, cioè in somma ridonda. E così mill’altre frasi.

[Chiudi]. E così credo che sia anche in greco e in latino[b] ed altresì in francese e spagnuolo le quali due lingue si osservino ancora circa gli altri modi notati di sopra ed altrove a questo proposito ec. (29. Feb. Domenica di Quinquagesima. 1824.).

Halo ai avi atum — halitans, alitare (verbo e sostantivo ossia infinito sostantivato), haleter. V. gli Spagn. e il Gloss. ec. (29. Feb. 1824.).

Lino linis, livi, et lini, et levi, litum per linitum. Osservisi questo verbo quanto alla sua coniugazione che mi par faccia a proposito d’altri miei pensieri. Ed osservisi ancora insieme con esso il suo compagno linio is ivi linitum, coi composti ec. dell’uno e dell’altro. (29. Feb. 1824.). Alo alis alui alitum altum alere.

Osado o ossado per che osa, ardito per che ardisce (aggettivati), hardi ec. atrevido per quien se atreve presente, anch’esso aggettivato: e simili. (29. Feb. Domenica di Quinquagesima. 1824.).

Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più stima di se, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di se, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti fanno al contrario per la contraria cagione, cioè per aver poca cura e poco concetto di se, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l’amor proprio degli altri, e n’hanno poca cura, per poco amor di se stessi. E i timidi lo risparmiano sempre con mille scrupoli e riguardi, e non impetrano mai da se stessi non che di lederlo menomamente, ma di porsene a rischio benchè leggero e lontano, e ciò per soverchio amor proprio, il quale parrebbe che dovesse principalmente offendere e muoverli ad offendere quello degli altri. E così per soverchia stima di se stessi, si guardano di mostrar dispregio degli altri, e infatti non gli spregiano, anzi gli stimano eccessivamente non per altro che per lo smisurato desiderio e conto che fanno della loro stima, anche conoscendoli di niun valore, o almeno per la gran tema che hanno di perderla, eziandio vedendo che la sarebbe piccola perdita per rispetto al merito di coloro. Tali sono ordinariamente i fanciulli e i giovani ancora inesperti e inesercitati nel commercio umano e nelle palestre dell’amor proprio, dov’esso riporta tanti colpi, che alla fine incallisce; e tali sono più o manco, per più o men lungo tempo, ed alcune per tutta la vita, le persone sensibili e immaginose, le quali restano sovente fanciulle anche in età matura, e vecchia, sì quanto a molte altre cose, sì quanto a questa della timidità nel consorzio umano, che in esse è sempre difficile a vincere più assai che negli altri, e in alcune è assolutamente invincibile, come fu in Rousseau. La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità della immaginazione, la quale non mai veramente spenta in loro, nè anche quando pare affatto agghiacciata, e quando effettivamente ha cessato affatto di partorire alcun piacere all’individuo medesimo, continuamente, secondo la sua natura, va fingendo ad esso amor proprio che è per se vivissimo, mille falsi pericoli e difficoltà, o smisuratamente accrescendo e moltiplicando i veri. Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per eccesso di amor proprio e d’immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell’anima (oltre i tanti da me altrove notati), della sensibilità, della squisitezza dell’ingegno, della natura riflessiva, immaginosa ec. Poichè in essa l’amor proprio essendo eccessivo e però tanto più bisognoso di successi, e desiderando la stima altrui e temendo la disistima molto più che gli altri non fanno, e impedito di conseguire e costretto ad incontrare quelli che gli altri con molto minor desiderio e bisogno conseguono facilissimamente ogni dì, ed evitano con molto minor tema, e che quando nol conseguissero o non lo evitassero, ne sarebbero molto meno afflitti e infelicitati, per la minore vivacità e sensibilità dell’amor proprio, ed anche della immaginazione, la quale a quegli altri accresce eziandio per se stessa e con mille false esagerazioni e finzioni la grandezza delle perdite fatte, di quello che essi desiderano naturalmente di conseguire, di quello che non ottengono, dei mali successi incontrati nella società, delle ἀσχημοσύναι, che anche bene spesso non son vere affatto, ma fabbricate di pianta dall’immaginazione, e non esistono se non nell’idea di questi tali, e così anche i buoni successi o gli oggetti che essi si propongono di conseguire che spessissimo sono vani e immaginari, e da niuno ottenuti nè possibili ad ottenere ec. ec. (1. Marzo. penultimo dì di Carnevale. 1824.) Ciò che ho detto dell’immaginazione, dico dell’amor proprio, il quale in questi tali, anche quando sembra rotto e fiaccato dall’uso de’ mali, dispiaceri, punture ec. anzi minore assai che non è negli altri, e quasi al tutto agghiacciato, addormentato e spento, è sempre in verità vivissimo assai più che negli altri anche giovani e principianti, caldissimo, e ancora in istato da esser chiamato tenerezza di se stesso (come suol essere nella gioventù) benchè sia in loro più negativo che positivo, più atto a impedire che a cagionare, piuttosto causa di passione che d’azione ec. quale egli è proporzionatamente anche ne’ primi anni di questi tali. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

Infundo infusus- infuser. (3. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati. Lucerta-lucertola, lucertolone. (3. Marzo. 1824.). Lacerta-lacertola.

Φάω, φαείνω, φαείνομαι. Alterazione di desinenza collo stesso significato, del che altrove. (3. Marzo. Mercoledì delle S. Ceneri. 1824.).

Diminutivi positivati. Fou-follet. V. i Diz. franc. in questa voce, e nóta che questo è un aggettivo. Noi pure folletto benchè per lo più sostantivato per la soppressione del nome spirito. E questa nostra voce (come fors’anche folle) par che venga dal francese o dal provenzale. Del resto v. la Crus. in folletto esem.2. e par. 2. e gli spagnuoli. (3. Marzo. dì delle S. Ceneri. 1824.).

Spiare-spieggiare. (3. Marzo, dì delle S. Ceneri. 1824.). Scoppiare, scoppiata sustantivo — scoppiettare, scoppiettata, scoppiettio. (4. Marzo. 1824.). Incrociare-incrocicchiare, croce-crocicchio ec.

Al detto altrove di ὀλίγου o μικροῦ δεῖν ec. aggiungi. Si dice anche assolutamente ὀλίγου (fors’anche μικροῦ) sottintendendosi il δεῖν o δέον, in senso di σχεδὸν ec. come appunto in italiano per poco. Plat. in Phaedro ec. (4. Marzo 1824.).

Inadvertido, inavveduto, desconocido per sconoscente, malaccorto e simili si aggiungano al detto altrove circa i participii avveduto ec. aggettivati ec. Condolido per condolente, participio vero e non in senso d’aggettivo. D. Quij. par. 2 cap. 21. avanti il mezzo. (4. Marzo 1824.).

Senz’altro patto per senza niun patto. Guicc. l. 7. ed. Friburgo t. 2. p. 124. principio. ed aggiunge assolutamente ch’è l’interpretazione espressa dell’anzidette parole. (5. Marzo 1824.).

L’ulus de’ lat. si cambia ordinariamente dagl’italiani in io (così l’ulum, e in ia l’ula), raddoppiando la consonante che lo precede, se ella in latino è pura, come oculus-occhio, nebula-nebbia ec.; se impura non si raddoppia, come masculus-maschio ec. (5. Marzo 1824.).

Vischio, succhio sost. e molti simili, sembrano esser tutti diminutivi positivati, fatti nel modo detto nel pensiero precedente, e però venuti certo dal latino e probabilmente stati usati nel volgar latino in luogo de’ loro positivi succus, viscum o viscus ec. ec. (5. Marzo 1824.). Così ho detto altrove de’ nostri verbi in iare ec.

Tomber-tombolare, tombolata ec. (5. Marzo 1824.). Di tali verbi italiani, oltre diminutivi frequentativi vezzeggiativi ec. alcuni, anzi forse, almeno in molti casi, non pochi, sono disprezzativi. (6. Marzo 1824.).

Al detto altrove di apparecchiare, aparejar ec. aggiungi sparecchiare e simili composti ec. ital. spagn. e franc. (6. Marzo. 1824.).

Diminutivi greci positivati. ἴχνος-ἴχνιον diminutivo assolutamente positivato, e proprio, a quel che sembra, di Omero, (sopra il che altrove) benchè si trovi anche in Senof. nel Cineg. dove bisogna però vedere se è veramente positivato, o se essendo, non è preso da Omero. (6. Marzo. 1824.).

Gli uomini sarebbono felici se non avessero cercato e non cercassero di esserlo. Così molte nazioni o paesi sarebbero ricchi e felici (di felicità nazionale) se il governo, anche con ottima e sincera intenzione, non cercasse di farli tali, usando a questo effetto dei mezzi (qualunque) in cose dove l’unico mezzo che convenga si è non usarne alcuno, lasciar far la natura, come p. e. nel commercio ch’è più prospero quanto è più libero, e men se ne impaccia il governo. Similmente dicasi de’ filosofi ec. Del resto la vita umana è come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, i filosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lasciano più far la natura. (7. Marzo. prima Domenica di Quaresima. 1824.).

Altro per nessuno o ridondante. Guicc. t. 2. ed. Friburgo p. 144. lin. penult. (7. Marzo. I. Domenica di Quaresima. 1824.).

Εὐθὺς γενόμενος ec. Questa forma è propria del greco, ed usasi eziandio con molti altri avverbi o significanti il med. che εὐθὺς, o d’altro significato, come ἅμα, μεταξὺ (i quali ricevono anche il participio presente, secondo la natura del loro significato, ed altri participii, oltre i passati) ec. ed è chiamata, se non erro, propria degli attici (benchè si trova anche in autori anteriori, per dir così, all’atticismo, come in Anacr. od. 33. εὐθὺς τραφέντες od. 55 εὐθὺς ἰδών ec.) — subito nato, dopo nato, appena nato ec. né à peine (vix natus) ec. despues de nacido ec. V. i Diz. franc. e spagn. e il Forcell. negli avv. corrispondenti a subito, dopo ec. simul ec. (8. Marzo. 1824.).

Indigesto per indigeribile o difficile a digerire. — Indigesto per che non ha digerito o che non digerisce. (8. Marzo. 1824.).

Μινύθω-minuo, forse l’uno e l’altro da μινύω, alterato nel greco colla interposizione del θ, (cosa usata), conservato purissimo in latino, eziandio ne’ composti: della qual conservazione dell’antichità appo i latini più che appo i greci, dico diffusamente altrove. (8. Marzo 1824.).

Ἀργεῖος-argi-v-us. Orazio e Ovidio alla greca comune, argeus, l’uno in un luogo, e l’altro in un altro. Così da ἀχαιός, oltre achaeus, achivus che forse è più proprio latino e più volgare, e achaeus sarà solamente letterario, come anche argeus senza fallo; e forse altri simili. (8. Marzo. 1824.).

Nè la occupazione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uomini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato o divertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quello che vive vita uniforme senza distrazione alcuna. Perchè? se nè questi nè quelli sono punto superiori gli uni agli altri nel godimento e nel piacere, ch’è l’unico bene dell’uomo? Ciò vuol dire che la vita è per se stessa un male. Occupata o divertita, ella si sente e si conosce meno, e passa, in apparenza più presto, e perciò solo, gli uomini occupati o divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più degli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e non divertiti, sono più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma per maggioranza di male, cioè maggior sentimento, conoscimento, e diuturnità (apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun altro male particolare. Il sentir meno la vita, e l’abbreviarne l’apparenza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione di male e d’infelicità, che l’uomo possa conseguire. La noia è manifestamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è la noia? Niun male nè dolore particolare, (anzi l’idea e la natura della noia esclude la presenza di qualsivoglia particolar male o dolore), ma la semplice vita pienamente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’individuo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: e il non vivere, o il viver meno, sì per estensione che per intensione è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile per se ed assolutamente alla vita ec. (8. Marzo. 1824.). V. p. 4074.

Forse diminutivo positivato: σπήλαιον (spelaeum). V. i Less. (9. Marzo. 1824.).

Alla p. 4025. Vedilo pure tom.2. lib.7. p. 18. l. 8. p. 219. analoghi a’ quali v’ha diversi altri luoghi nello stesso autore. (9. Marzo. 1824.). V. qui sotto.

Menare, portare, tirare ec. pel nasoτῆς ῥινὸς ἕλκειν nello stesso senso. Lucian. Dial. Deor., Iov. et Iunon. t. 1. opp. 1687. p. 196. V. i Less. e la Crus. e il Forcell. e i francesi e gli spagnuoli (9. Marzo. 1824.). Nóta che Luciano lo usa come proverbio o modo di dire vulgato, colla voce φασὶ.

Λαιὸς — lae-v-us. (9. Marzo 1824.). σκαιός— scae-v-us.

Al detto altrove dei verbali in bilis in ilis ec. ec. si aggiungano quelli formati da essi in ilitas, bilitas, e altri generi, siano del buono o del barbaro latino o delle lingue moderne, sia che i verbali da cui essi sono formati sieno individualmente noti o ignoti ec. ec., sia pure che tali nomi sostantivi verbali, derivino immediatamente dai verbi, e in tal caso bisogna vedere da che voce dei verbi e in che modo, secondo i rispettivi generi d’essi verbali. (10. Marzo. 1824.).

Al capoverso 2. di questa pagina. Anche nella lega di Cambrai contro i Veneziani fu presa per pretesto, o maggior coonestazione, secondo l’uso di quelli e de’ passati tempi, il voler far guerra contro i Turchi. V. il Guicc. t. 2. p. 180. e quivi le note, e p. 186. sulla fine. Ed è notabile in questo caso tanto più questo pretesto, quanto per distruggere i Veneziani allegavano la necessità di farlo a volere opprimere i Turchi, de’ quali i Veneziani erano i maggiori nemici, e quelli che avevano avuti seco maggiori guerre (come pur n’ebbero appresso), e fatti loro e riportatine maggiori danni. (10. Marzo. 1824.). V. p. 4073.

Non ne fece altro per non ne fece nulla; non se ne fece altro; non se ne farà, se ne fa altro; modi consueti del nostro favellare. Non volle farne altro cioè nulla: nelle note al Guicciard. t. 2. p. 183. 191. 363. (10. Marzo. 1824.).

In tutta l’Europa (massime in Italia, dove tutti gli assurdi e gl’inconvenienti sociali sono maggiori che altrove) non reca infamia l’essere o essere stato vizioso, nè l’aver commesso delitti (massime trattandosi di alcuni tali vizi e delitti, certi dei quali, anche atroci, fanno piuttosto onore, stima, e rispetto, che altro); ma bensì l’essere o l’essere stato punito di qualsivoglia vizio o misfatto, anzi pure della virtù o di azioni virtuose e degne di lode e di premio[a]

Certo la puniz. porta seco più infamia che la colpa.

[Chiudi]. Negli Stati Uniti d’America l’opinione pubblica non attacca veruna infamia alla punizione, e il colpevole che è stato punito e rientra nella società, v’è tanto più esente da obbrobrio che l’impunito che in essa si aggira, quanto che 1. si considera ch’egli ha espiato colla pena subita il suo fallo, e riparato e data soddisfazione del torto fatto alla società, e pagato il debito contratto seco lei: 2. si giudica, come in fatti ordinariamente succede, che la pena, la quale colà si considera e si chiama penitenza (le prigioni si chiamano case di penitenza), e le cure che nel tempo di essa espressamente si usano per curare con rimedi sì fisici che morali il morale del colpevole, abbiano corretto e riformato il suo carattere, i suoi costumi, le sue inclinazioni, i suoi principii, e ridottolo alla buona strada, con che e di diritto e di fatto e di opinione egli torna intieramente a paro e a livello degli altri cittadini o forestieri. Vedi il racconto sulle prigioni di Nuova York nell’Antologia di Firenze num. 37. Gen. 1824. e in particolare la pag. 54. (11. Marzo. 1824.).

Ἐθέλω ἐγρηγορέω-θέλω γρηγορέω possono essere esempi o di accrescimenti o di troncamenti fatti da’ greci ai loro temi senz’alterazione di significato. Così λῶ p. ἐθέλω, o quella sia la radice, o un troncamento, del che altrove. (12. Marzo 1824.).

Acertado per que acierta o que suele acertar, tanto di persona, quanto di cosa. D. Quij. par. 2. cap. 25. verso il fine, cap. 26. un poco sotto il principio. ec. (12. Marzo. 1824.).

Ἐθέλω per δύναμαι ec. del che altrove. V. Luciano opp. 1687. tom. i. p. 222. linea 10. in Dearum iudicio, e Plat. Phaedon. opp. ed. Astii, t. 1. p. 478. B. (12. Marzo. 1824.).

Il nostro pronome si, massime nel dir toscano, spessissimo ridonda per grazia e proprietà di lingua e per idiotismo, contro le leggi grammaticali delle favelle. Così fra’ latini il pronome sibi (a cui risponde il nostro si, che ne’ detti casi non so se tutti, è dativo, come in se n’andò e simili), massime appo gli antichi, e questi, comici, onde siffatto uso dovette esser proprio del dir volgare o familiare. V. il Forcell. in Sui . (13. Marzo. 1824.). V. qui sotto.

Essere in se (être en soi ec. V. i Diz. franc. e spagn.). ἐν ἑαυτῷ εἶναι — V. Luciano nel Dial. di Nettuno e Polifemo, opp. 1687. t. 1. p. 241. fine. Così esso ed altri sovente. Il Forcellini non ha nulla in proposito, nè in Sui , nè in Sum . (13. Marzo. 1824.).

Carra plur. di carro. (14. Marzo. 2.a Domenica di Quaresima. 1824.).

Necessitado per que necessita, cioè ha menester, e si unisce anche col genitivo, come il suo verbo. D. Quij. in più luoghi. Quanto ad errado, di cui altrove, notisi che in ispagnuolo si dice anche errarse. D. Quij. par. 2. cap. 27. se havia errado (avea sbagliato). (14. Marzo. 1824.).

Al capoverso 3. di questa pag. Dubito che anche in franc. e in ispagn. anche più vi sieno usi simili. V. per esempio il fine del pensiero preced. (14. Marzo. 1824.).

I nostri nomi diminutivi o disprezzativi ec. in acchio ecchio ec. e i verbi diminutivi o frequentativi o disprezzativi ec. in acchiare ecchiare ec. sono di una forma espressamente originata dal latino, cioè dalla forma diminutiva o frequentativa ec. in culus e culare. Lo stesso dico de’ nomi e verbi francesi diminutivi o frequentativi o disprezzativi ec. in ail aille ailler iller eiller (sommeiller) ec. de’ quali altrove. E credo che anche lo spagn. in illo o illar ec. venga da essa forma latina (come periglio péril ec. da periculum, del che in più luoghi) più tosto che da quella in illus illare ec. (15. Marzo. 1824.).

Alle altre barbarie umane da me altrove notate si aggiunga la pederastia, snaturatezza infame che fu pure ed è comunissima in Oriente (per non dir altro) e non fu solo propria de’ barbari ma di tutta una nazione così civile come la greca, e per tanto tempo (lasciando i romani), e sì propria che sempre che i greci scrivono d’amore in verso o in prosa, intendono (eccetto ben rade volte) di parlar di questo siffatto, voluto fino ridurre in sentimentale da Platone massimamente, nel Convivio e più nel Fedro, e altrove, e da Senofonte poi nel Convivio. E Saffo con tanta tenerezza canta la sua innamorata. Quanto noccia questo infame vizio alla società ed alla moltiplicazione del genere umano, è manifesto ec. ec. Aggiungansi similmente gli spettacoli de’ gladiatori, e l’altre barbarie romane ec. ec. (15. Marzo. 1824.).

Diminutivi greci positivati. Luciano nel Dialogo di Doride e di Teti dice prima ἐς κιβωτὸν e poi indifferentemente parlando della medesima arca τὸ κιβώτιον , e poi di nuovo τὴν κιβωτὸν ed ἡ κιβωτός , e così anche nel Dial. di un Tritone e delle Nereidi ἐν τῇ κιβωτῷ parlando della stessa arca. V. i Lessici ec. Ciò mostra che il significato di questo diminutivo e di questo positivo era conforme, o che anche in greco si usava elegantemente il diminutivo pel positivo o a piacere, o come catacresi o enallage ec., o comunque. Luciano non usa qui il diminutivo se non per variare o per grazia ed eleganza semplicemente senz’altra cagione, e senz’alcuna diversità di significato dal positivo che insieme adopera. (15. Marzo. 1824.).

Duplicazioni greche. ἄγω-ἤγαγεν, ἄγηχα, ἀγήοχα, ἀγαγεῖν ec. Si chiamano modi attici, ma sono anche (con certe mutazioni, salvo però il raddoppiamento) anche degli Joni, dei Dori ec. V. lo Schrevel. e lo Scap. nell’indice delle voci de’ verbi anomali a’ piè del Lessico, ec. (15. Marzo 1824.).

Prolato as in senso di differire ec. da profero che ha pur questo senso. V. Forcell. in Prolato, Prolatatio, Prolatatus. (16. Marzo 1824.).

Luciano nel Dialogo di Menippo Amfiloco e Trofonio. M. τί δὲ (lego δὴ ut contextus expetit) ὁ ἥρως ἐστίν;; ἀγνοῶ γάρ. Τ. ἐξ ἀνθρώπου τι καὶ θεοῦ σύνθετον. Μ. ὃ μήτε ἄνθρωπός ἐστιν, ὡς φῄς, μήτε θεός, καὶ συναμφότερόν ἐστι. Rechisi al detto altrove sopra l’opinione degli antichi circa i semidei, segno dell’alto concetto che avevano della natura umana. (16. Marzo 1824.).

Diminutivi greci positivati. ῥάκος-ῥάκιον, se questo non è disprezzativo più di quello. (20. Marzo 1824.).

Alterazioni de’ temi greci, senza mutazione di significato. στρέφω-στροφάω, στρωφάω (coi composti), i quali verbi originariamente (come anche poi in parte) dovettero significare ed essere onninamente gli stessi che στρέφω. V. i Lessici. E così si potrà di molti altri tali verbi alterati, che ora di senso differiscono alquanto dal primo tema, o hanno una significazione più determinata, o due ec. mentre quello ne ha di più, o viceversa, ec. ec. ma che in origine forse valsero nè più nè meno altrettanto che esso. (20. Marzo. 1824.).

Una nuova prova dell’antica tradizione, di cui altrove, che la popolazione del mondo, o certo quella d’Europa, venisse dall’Asia, si deduce dalla favola (o storia) che l’Europa pigliasse il nome da una donna d’Asia così chiamata. V. il sogno d’Europa nel 2.do idillio di Mosco ec. (20. Marzo. 1824.). V. ancora i mitologi e critici ec.

Στλεγγὶς forse da principio fu un diminut. di positivo ora ignoto. (20. Marzo. 1824.).

Troia per scrofa, del che altrove. In franc. truye o truie. Mi ricordo ancora aver trovato nella seconda parte del D. Quij. la voce troya, che mi parve dovere aver questo o simile significato, benchè usata, in tal supposizione, metaforicamente. (20. Marzo. 1824.).

Fante per uomo adulto con tutti i suoi derivati e diminutivi ec. (tra’ quali è fancello per fanciullo che n’è forse una corruzione, onde fanciullo sarebbe propriamente piccolo uomo, seppur non è corruzione d’infanticello, che non credo; e così dicasi degli altri diminutivi di fante) opposto d’infante, è proprio non solo de’ nostri antichi, (v. la Crus.) ma eziandio del volgare e familiar moderno, in cui resta ancora per proverbio lesto fante (il che si trova anche nell’Alberti.). Or questa voce e questo suo significato è certamente affatto latino, poichè fante non è che il partic. fans di for faris, verbo che non si trova nelle lingue moderne, e non dovette neppure esser proprio de’ bassi tempi. Oltre ch’egli è l’opposto d’infans cioè non parlante (νήπιος), e significa parlante, e perciò solo ha forza e ragione di significare uomo. E nondimeno essa voce non si trova in tal senso negli scrittori latini, se non solamente in senso molto analogo, in un luogo di Plauto, il quale può anche servire a dimostrar l’antichità di questa voce in siffatto senso e come opposta d’infante. Anche in tutti gli altri suoi sensi essa non è che metafora, o ec. di quel di uomo; p. e. fante per soldato pedone val propriamente uomo (così si dice mille uomini, mille bommes ec. per mille soldati; uomini d’arme, cioè soldati grevi a cavallo ec. ec. gente o genti per esercito; gente a piè, d’arme ec. gendarmes ec. ec.). I francesi fantassin, dall’italiano fantaccino ch’è un diminutivo o disprezzativo positivato. Infanterie non sembra che una corruzione di fanteria. V. gli spagn. Così dico del significato di servo o serva, divenuto pur proprio di fante, nel qual senso ne deriva fantesca ec. V. ancor qui gli spagnuoli ec. V. pure il Gloss. e l’articolo di Foscolo sopra l’Odissea di Pindemonte negli Annali di Scienze e Lettere di Milano 1810. (21. Marzo. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Taurus-taureau. Fante fantaccino (forse anche disprezzativo in origine) onde fantassin, cioè fante. V. il pensiero precedente. (21. Marzo. 1824.).

Dell’antiche opinioni circa i semidei e gli eroi, delle quali altrove, vedi ancora il Dialogo di Diogene ed Ercole ne’ Dial. de’ morti di Luciano. (21. Marzo. 1824.).

Οὐκ ἔστι μαθεῖν τοῦτο ῥᾴδιον, συνθέτους δύ' ὄντας Ἡρακλέας, ἐκτὸς εἰ μὴ ὥσπερ ἱπποκενταυρός τις ἦτε. Lucian. in Dial. mort. Dial. Diog. et Herculis . Di questo italianismo del greco dico altrove. (21. Marzo. 1824.). V. p. 4054. Vedilo ancora in Reviviscent. opp. 1687. t. i. p. 393.

Θανέω o θάνω-θνήσκω. Qui l’alterazione non solo è nella desinenza, ma eziandio nella omissione dell’α, onde θνήσκω per θανήσκω dal fut. θανήσω donde si fanno questi verbi in σκω, secondo il Weller. (21. Marzo. 1824.).

Delle cause della universalità della lingua francese, vedi Voltaire delle Lingue, nelle sue opere scelte Londra (Venezia) a spese del Milocco, tomi 3. in italiano, 1760. tom. 3. o p. 136-9. (21. Marzo. 1824.).

Come anticamente i francesi pronunziassero conforme scrivevano e in parte scrivono, vedi il cit. luogo del Voltaire p. 139-140. (21. Marzo. 1824.).

Povertà di parole nella lingua francese appetto all’italiana. V. il cit. tomo di Voltaire p. 207. nella nota, numero 3. (21 Marzo. 1824.).

Della superiorità della lingua latina sulla greca per certe parti e qualità, del che ho detto in proposito dei continuativi di cui i greci mancano, cioè non ne hanno un genere determinato, si può dire lo stesso rispetto agl’incoativi, di cui i greci non hanno un genere e forma così determinata e assegnata come i latini, sebbene si servono molto spesso, a significar l’incoazione, di verbi in ίζω fatti da quelli che significano l’azione o passione positiva, o aggiungono a’ temi in άω, έω ec. il ζ facendone άζω, έζω ec. Ma queste forme non sono così precisamente determinate alla significazione incoativa, perchè infiniti verbi così formati ne hanno tutt’altra, infiniti significano lo stesso che il primo tema (del che altrove, sebben forse in origine potranno avere avuto diverso senso), infiniti non hanno altro tema, almen noto, e non significano cosa incoativa ec. sia che questi e i sopraddetti abbiano perduta col tempo siffatta significazione, e confusala ec. sia che mai non l’abbiano avuta, il che, di moltissimi almeno, è certo, perchè molte volte la desinenza in ίζω o ζω è frequentativa. Anche de’ frequentativi determinati ec. mancano i greci, mentre gli hanno non solo i latini ma gl’italiani (e moltissimi generi, come pure in latino ve n’è più d’uno), i francesi ec. Mancano ancora de’ verbi disprezzativi, vezzeggiativi ec. ec. che i latini e gl’italiani ec. hanno, e più d’un genere. (21. Marzo. 1824.).

Molti di quelli che io chiamo diminutivi positivati, si potranno chiamare in vece disprezzativi o vezzeggiativi o frequentativi ec. positivati, sì verbi che nomi, sì sostantivi che aggettivi ec. Ma chiamarli generalmente diminutivi non è da potersi riprendere, perchè tali sono propriamente tutti, e la diminuzione è il mezzo con cui essi significano disprezzo, vezzeggiamento ec. secondo che ella è applicata ed intesa. (21. Marzo 1824.).

Imperfezione dell’ortografia italiana ne’ passati secoli. È noto che i manoscritti originali anche de’ più dotti uomini de’ migliori secoli, e in particolare e nominatamente quelli dell’Ariosto e del Tasso, che son pur tanto ripieni di correzioni, presentano una stortissima e scorrettissima ortografia, con errori tali che oggi non commetterebbe il più imperito scrivano o fanciullo principiante, e una stessa voce v’è scritta ora con una ora con altra ora con altra ortografia. (21. Marzo. Domenica terza di Quaresima. 1824.).

La ricchezza e varietà e potenza e fecondità della lingua italiana non solo s’ha a considerare nella copia de’ suoi vocaboli e modi e nella gran facoltà di formarne, ma eziandio nella gran moltitudine e varietà di tipi per così dire o coni che ella ha per poter formare voci e modi di uno stesso genere di significazione. (formati già moltissimi, e da potersene formar con giudizio, sempre che si voglia e bisogni). Servano di esempio le tante desinenze frequentative o diminutive o disprezzative ec. de’ verbi, da me annoverate altrove. Le tante diminutive de’ nomi ec. ec. Nella quale abbondanza di coni la lingua nostra vince d’assai, non che le lingue sorelle, ma la latina e la greca, e forse qualunque lingua del mondo antica o moderna. Nè questa abbondanza produce confusione nè indeterminazione, perchè detti coni sebbene sommamente moltiplici in ciascun genere, sono però di qualità e di valore ben determinato ed applicato e appropriato al suo genere di significazione. (21. Marzo. 1824.).

Κύμβον, κύμβη – κυμβίον, κυμβαῖον, κυμβεῖον, diminutivi positivati in certe significazioni. V. lo Scapula. (22. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati. Limon, limoneux-limus. (23. Marzo. 1824.). V. la p. seg. capoverso 1.

Lixi-v-ia, lixi-v-ium – lexia o legia spagn. (23. Marzo. 1824.).

Tomber, tumbar spagn. co’ derivati e composti ec. – tombolare coi medesimi. (23. Marzo. 1824.).

Tomba da τύμβος, del che altrove. Spagn. tumba, franc. tombeau, ch’è originariamente lo stesso, cioè ne è un diminutivo positivato come tanti altri. (23. Marzo. 1824.). I francesi hanno anche tombe ant. e poet. ed ora con un significato alquanto diverso. V. i Diz. V. p. 4076.

Venire per essere a modo di verbo ausiliare, congiunto co’ participii passivi degli altri verbi, s’usa non solo in italiano, anche antico, del che mi pare aver detto altrove, ma anche in ispagn., forse a imitazione dell’italiano. Vedi D. Quij. par. 2. (la qual parte è straordinariamente sparsa di manifestissimi italianismi, più assai che la prima ec.) cap. 32. ed. Madrid 1765. tomo 3. p. 370. (23. Marzo. 1824.).

La galanteria degli antichi italiani può esser dimostrata dall’etimologia del nome generico di donna, etimologia che in nessun’altra lingua cred’io, nè moderna nè antica si troverà nel corrispondente nome. (24. Marzo. Vigilia della SS. Annunziata. 1824.). V. p. 4067.

Al detto altrove di sencillo diminutivo positivato, aggiungi sencillamente, e considerinsi siffatti avverbi anche negli altri nomi ec. (24. Marzo. 1824.).

Origliare, origliere da auricula. Nuova prova del cangiarsi spesso il cul de’ latini in gli italiano benchè per auricula noi diciamo orecchia, non oreglia, come i francesi. (25. Marzo. dì della SS. Annunziata 1824.). Diciamo anche, ed oggi meglio, orecchiare.

Speculum-speglio antico e poetico. (26. Marzo. 1824.).

Discursos entretenidos per entretenientes, cioè di trattenimento, di passatempo. D. Quij. (26. Marzo. ultimo Venerdì. 1824.).

Continuo per continuamente. D. Quij. Nome aggettivo in luogo d’avverbio, del che altrove. (26. Marzo. 1824.).

Participii in us di verbi neutri. Licitus, licitum est o fuit dall’impersonale licet, come gavisus e gavisus sum dal personale gaudeo. Vedi il Forc. in Licitus, licet ebat, liceor, liceo, licito avverbio fatto da questo participio, ec. (27. Marzo. 1824.).

Alla p. 4050. Noi diciamo eccetto se non, se pure non, se però non, fuorchè se o se non, quando non, salvo se non ec. E queste frasi e la greca rispondono alla latina nisi o nisi si. Il non sì nel greco che nell’italiano vi sta fuor di ragione e per comun proprietà d’ambe le lingue. (28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima. 1824.).

Ri-v-us, ri-v-ori-g-agnolo ec. – rio ital. e spagn. (28. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati Rivus — ruisseau e ruscello che sono in parte e sovente positivati. Ascia lat. ascia e asce ital. hâche franc. ec. — accetta quasi ascetta, spesso positivato ec. perchè s’usa promiscuamente ascia e accetta, l’uno in cambio dell’altro, benchè forse abbiano differenza di significato proprio, che non ebbero però in origine, eccetto quanto alla diminuzione. (28. Marzo. 1824.).

Dormido per dormiente (fors’anche durmido). Voz algo dormida. D. Quij. E in altre maniere. Se però dormir non è anche neut. pass. (28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima. 1824.).

Diminutivi greci positivati. τειχίον. Luciano in Reviviscent. t. i. opp. 1687. p. 418. Notisi in proposito di questo e altri diminutivi positivati di Luciano, da me altrove segnati, che Luciano usa il linguaggio in gran parte familiare. Nel detto luogo si parla del muro dell’acropoli o cittadella di Atene. In due di Omero ( Odiss. π V. 165.343) τειχίον si unisce con μέγα. Parrebbe ridicolo l’interpretarlo parvus murus, come fa lo Scapula, e sembrerebbe che non si potesse trovar luogo dove fosse più evidente la positivazione di voci diminutive greche. Nondimeno (oltre che v’ha varietà di lezione, o dubbio degli eruditi sulla voce τειχίον, almeno nel primo di questi luoghi, come rilevo dall’Indice delle voci omeriche), si potrà forse dire che τειχίον è detto da Omero a differenza dei muri di città, e simili, detti τείχη, poichè egli quivi parla dei muri di un cortile, e che μέγα si riferisca alla grandezza di que’ muri in quanto muri di cortile. Non per tanto il luogo di Luciano e altri di Tucidide appo lo Scap. mostrano che τειχίον si diceva anche de’ muri di città fortezza ec. (moenia), e possono servire a illustrare quelli d’Omero, confermar la lezione, (massime il luogo di Luciano che è evidente), e provando che quivi τειχίον sta semplicemente per τεῖχος, benchè unito con μέγα, aggiungere una insigne prova alla mia opinione circa la positivazione di molti diminutivi greci, in particolare nel dir poetico, o piuttosto antico o ionico ec. (28. Marzo. Domenica quarta di Quaresima. 1824.).

Τῆς ῥινὸς ἕλκειν menar pel naso proverbio greco conforme all’italiano, del che altrove, con un luogo di Luciano, ove vi si aggiunge il φασὶ. Aggiungi lo stesso Luciano in Reviviscentibus opp. 1687. t. 1. p. 396. V. il Forcell. i Lessici e gli scrittori di adagi e proverbi ec. (29. Marzo. 1824.). Lucian. ib. 556. 560.

Plurali in a. Martella. Crusca in Asce. (29. Marzo. 1824.).

Diminutivi positivati. Lens-lenticula (lente, lenticchia ec.). (31. Marzo. 1824.).

Dita plur. di dito. Nota che il corrispondente nome latino non è neutro ma mascolino. (1. Aprile. 1824.). Nocca, Uova.

Come in italiano l’uomo per on franc. , per si ec., del che altrove, così anche in ispagn. el hombre nel modo stesso. D. Quij. par. 2. cap. 40. ed. Madrid. 1765. tomo 3. p. 446. (1. Apr. 1824.).

La lingua spagnuola è già conformissima all’italiana per indole (oltre all’estrinseco) quanto possa esser lingua a lingua. Ma più conforme sarebbe, se ella fosse stata egualmente coltivata, formata e perfezionata, cioè avesse avuto ugual numero e varietà e capacità di scrittori che ebbe l’italiana. Dalla piega che ella prese effettivamente si raccoglie che quando avesse progredito, la forma e l’indole che avrebbe avuta in uno stato di perfezione non sarebbe stata punto diversa dall’italiana, alla quale per conseguenza la lingua spagnuola sarebbe stata tanta più conforme che ora per la maggior conformità di grado e di perfezione, perchè ora la maggiore, anzi forse unica differenza che passi tra il genio o piuttosto la forma intrinseca di queste due lingue, si è che l’una è molto meno formata e perfezionata dell’altra, e anche men ricca, il che con la copia degli scrittori e delle materie non sarebbe stato. (1. Aprile. 1824.).

Moveo — moto, motito. (1. Aprile. 1824.).

Cessatus partic. di cesso verbo neutro. V. Forc. in Cessatus e in particolare il secondo es. paragonandolo col secondo par. di Cesso. (3. Aprile 1824.).

Al detto di acquistare in proposito di quisto, quaesitus ec. aggiungi lo spagn. aquistar. D. Quij. V. i Dizionari. (4. Aprile. Domenica di Passione. Nevica. 1824.).

Grandissima, e forse la maggior prova e segno del progresso che ha fatto negli ultimi tempi lo spirito e il sapere umano in generale e le scienze fisiche in particolare, è che per ispazio di quasi un secolo e mezzo, quanto ha dalla pubblicazione de’ Principii matematici di filosofia naturale a’ dì nostri (1687), non è sorto sistema alcuno di fisica che sia prevaluto a quello di Newton, o quasi niun altro sistema di fisica assolutamente, almeno che abbia pur bilanciato nella opinione per un momento quello di Newton, benchè questo sia tutt’altro che certo e perfetto, anzi riconosciuto ben difettoso in molte parti, oltre alla insufficienza generale de’ suoi principii per ispiegare veramente a fondo i fenomeni naturali. Nondimeno i fisici e filosofi moderni, anche spento il primo calor della fama e della scuola e partito di Newton, si sono contentati e contentansi di questo sistema, servendosene in quanto ipotesi opportuna e comoda nelle parti e occasioni de’ loro studi che hanno bisogno, o alle quali è utile una ipotesi. Ciò nasce e dimostra che gli spiriti e nella fisica e nell’altre scienze e in ogni ricerca del vero e in ogni andamento dell’intelletto si sono volti all’esame fondato dei particolari (senza cui è impossibile generalizzare con verità e profitto) e alla pratica ed esperienza e alle cose certe, rinunziando all’immaginazione, all’incerto, allo splendido, ai generali arbitrarii, tanto del gusto de’ secoli antecedenti e padri di tanti sistemi a quei tempi, che rapidamente brillavano e si spegnevano, e succedevansi e distruggeansi l’un l’altro. (4. Aprile 1824. Domenica di Passione. Nevica.).

Altro per alcuno o ridondante, del che altrove. Aggiungasi quell’uso dell’avv. altrimenti o altramente ec., uso frequentissimo appresso i nostri, massime de’ buoni secoli, e non raro neanche oggidì, nel qual uso quell’avverbio sembra un assoluto pleonasmo, quando cioè egli è congiunto alla negazione, p. e. così: non v’andò altrimenti, cioè non v’andò. (In altro modo egli può esser congiunto alla negazione con significati diversi, come quando si dice non altrimenti per parimente, non altrimenti che per come.) Par ch’esso avv. in tali casi equivalga al punto, al guari e simili italiani e francesii ec. aggiunti sì spesso alla negazione senz’alcuna maggior forza. In fatti spesso, o il più delle volte esso avverbio in questo caso non importa nulla, ma originariamente e veramente, e forse talvolta effettivamente massime presso gli antichi, vale in alcun modo. Gli altri l’usarono e l’usano senza certo aver mai neppure immaginato o sospettato quel che ei significhi in tali casi. Nei quali egli ha alcun chè a fare con quell’uso dell’avverbio ἄλλως, di cui altrove. (5. Aprile. 1824.).

È un grand’errore di quelli che hanno a congetturare o indovinare le risoluzioni o gli andamenti d’altri, sia nelle cose private sia nelle pubbliche, e queste o politiche o militari, e sia con dati o senza dati, il considerare con ogni sorta di acutezza e di prudenza quello che sia più utile a quei tali di risolvere o di fare, più conveniente, più secondo lo stato loro e delle cose, più giusto, più savio, e trovatolo, risolversi che essi faranno o determineranno, ovvero fanno e determinano appunto questa o queste cose o l’una di queste in ogni modo. Diamo uno sguardo all’intorno alla vita, alle azioni e risoluzioni degli uomini, e vedremo che per dieci ben fatte, convenienti ed utili a quei che le fanno, ve n’ha mille malissimo fatte, sconvenientissime, inutilissime, dannosissime a essi medesimi, più o meno, contrarie alla prudenza, a quello che avrebbe risoluto o fatto un uomo savio e perfetto, trovandosi nel caso loro. Vedremo che gli uomini il più delle volte non deliberano maturamente quando v’ha bisogno di maturità, non conoscono l’importanza delle cose che hanno a risolvere o a fare, non sospettano nemmeno che sia loro utile o necessario di consultare intorno ad esse, e non entrano affatto in alcuna consulta. Parlo egualmente de’ grandi e de’ piccoli, delle cose pubbliche e delle private, piccole relativamente e grandi. È certissimo che gli affari degli uomini qualunque, che vanno male, non vanno così (se non di rado) senza loro colpa o insufficienza; or come dunque dovrà essere regola per indovinare le opere o risoluzioni loro, il cercare quello che lor sia più utile e conveniente? Il numero o degli sciocchi assolutamente, o degl’inetti ai carichi e alle cose che hanno a maneggiare, benchè valorosi nel resto, o di quelli che anche al loro carico sono adattati, ma non perfetti, o insomma delle risoluzioni e delle azioni mal prese e mal fatte, inutili o dannose a chi le ha fatte o prese, sconvenienti al caso, o finalmente tali che nelle date circostanze non erano le migliori; il numero dico di tali azioni, risoluzioni ed uomini soverchia ed ha sempre soverchiato di grandissima lunga quello delle azioni, risoluzioni ed uomini loro contrarii, come apparisce da tutte le antiche e moderne storie sì civili sì militari sì private, e dall’osservazione della vita e avvenimenti giornalieri privati o pubblici. Onde quella regola in vece di condurre alla probabilità dell’indovinare, conduce chi la segue ad avere cento probabilità per una, contro quella o quelle cose che egli sceglie e quel giudizio o congettura che ei forma. Di più, assolutamente parlando, è falsissimo e malissimo considerato il persuadersi che gli uomini nel caso proprio veggano quel medesimo che in esso caso veggono gli altri posti fuori di esso, e pensino e sentano e sieno disposti allo stesso modo. Onde ancorchè pognamo in due persone perfetta parità di prudenza, di esperienza, insomma di attitudine a risolvere e fare in un dato caso quello che si conviene, è certissimo che se di queste due persone l’una si troverà nel caso e l’altra fuori considerandolo senza comunicare con quella, il più delle volte la risoluzione o il modo dell’azione dell’una sarà diversissima più o meno da quello che all’altra parrà si fosse convenuto. Aggiungasi la diversità dei principii, delle abitudini e di mille altre cose anche minime che diversificando gli spiriti (giacchè non si dà spirito perfettamente uguale ad un altro, più che si dieno due fisonomie al tutto conformi), diversificano altresì con mille modi le risoluzioni ed azioni di uno da quelle di un altro, anche supponendo in ambedue ugual capacità, e parità di caso, anzi diversificano le risoluzioni e azioni di una persona stessa in casi uguali o simiglianti. Senza poi parlare delle passioni e delle occasioni e circostanze del momento, spesso minime, che così minime modificano sovente e sovente cagionano al tutto e determinano le risoluzioni ed azioni di uno, mentre che l’altro che vuole indovinarle non è affetto da tali circostanze, sia fisiche, sia morali, sia qualunque. La vera regola per isbagliare il meno possibile, e la vera politica in tali casi, è conoscere quanto si può il carattere, le abitudini, le qualità della data persona, applicarle al caso di cui si tratta, e rinunziando a ogni prudenza propria, mettendosi ne’ piedi di quella, piuttosto come poeta, che come ragionatore, congetturar quello ch’egli è per fare o risolvere, anzi risolvere, per così dire, in vece sua, come il drammatico congettura quello che un dato uomo di un dato carattere in un dato caso sarebbe per dire, e congetturatolo parla in persona di esso. (5. Aprile. 1824.). V. il Guicc. ed. Friburgo. t. 4. p. 106.

L’uomo (per l’amor della vita) ama naturalmente e desidera e abbisogna di sentire, o gradevolmente, o comunque purchè sia vivamente (la qual vivezza qualunque, non può essere senza positivo diletto, nè sensazione indifferente veramente). Sì il sentire dispiacevolmente come il non sentire sono cose assolutamente penose per lui. E talora è men penosa, anzi più grata una sensazione con alquanto di dispiacevole, che la privazion di sensazioni. Se l’uomo potesse sentire infinitamente, di qualunque genere si fosse tal sensazione, purchè non dispiacevole, esso in quel momento sarebbe felice, perchè la sensazione è così viva, il vivo (non dispiacevole in se) è piacevole all’uomo per se stesso e qualunque ei sia. Dunque l’uomo proverebbe in quel momento un piacere infinito, e quella sensazione, benchè d’altronde indifferente, sarebbe un piacere infinito, quindi perfetto, quindi l’uomo ne saria pago, quindi felice.

Segue dal sopraddetto che universalmente non si dà sensazione indifferente. Questo pensiero si sviluppi. (5. Aprile 1824.). Una sensazione (interna o esterna) è necessariamente per se e in quanto sensazione, o piacevole o dispiacevole, e in quanto sensazione senz’altro, è necessariamente e insitamente ed essenzialmente piacere. (5. Aprile 1824.).

Diminutivi positivati. Ghiotto-glouton co’ derivati, e anche noi ghiottoneria ec. forse dal francese se viceversa glouton non è da ghiottone che noi pur diciamo per ghiotto e potrebbe anche ghiottone venir dal francese. V. gli spagnuoli ec.[a]

Spagn. gloton, glotoneria, glotonear ec.

[Chiudi] Nota che questo diminut. positivato (se è tale) è aggettivo. (6. Aprile. 1824.).

In tanto, gr. ἐν τοσούτῳ, del che altrove. Aggiungi intantochè, fra tanto, tra tanto (Guicc.) infra tanto, in quel tanto ec. E lo spagn. en tanto que (Don Quij.), entre tanto ec. v. i Diz. spagn. V. pur la Crus. e i Diz. franc. (7. Aprile. 1824.). V. p. seg. En este entretanto. D. Quij. Madrid 1765. t. 4. p. 244.

Moggia plur. Lat. modius masc. (7. Aprile. 1824.).

Al detto di moisson, diminutivo positivato di messis, aggiungi i derivati ec. come moissonner, e così ad altri simili diminutivi positivati. (7. Aprile. 1824.).

Chiunque gode molta fama e la merita, è stimato più dagli altri che da se stesso. E così tutti quei che già furono, e lasciarono degnamente agli uomini la lor gloria, sono più stimati che essi non si stimarono. (7. Apr. 1824.).

Alla p. preced. Finattanto, finattantochè, fin tanto, infinoattantochè ec. — ἐς τοσοῦτον ἄχρις ἂν. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 505. V. Forcell. Crus. franc. spagn. Gloss. ec. (7. Apr. 1824.).

Ἔξω per praeter, del che altrove. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 566. τὰ ἄλλα ἔξω τῶν λόγων. (7. Aprile. 1824.).

Il costume latino di servirsi de’ participii in us de’ verbi neutri e anche attivi in significato neutro o attivo, aggettivato, e ridotto anche a dinotar consuetudine e qualità abituale nel soggetto, come tacitus per qui tacet, cautus, qui solet cavere ec. ec., è se non altro una prova che il corrispondente costume tanto proprio della lingua spagnuola e frequente ancora nell’italiana, e non improprio forse della francese, ha esempio nella latina scritta, e quindi probabilmente viene affatto dal latino parlato e volgare, e di lui fu proprio e familiare. (8. Aprile 1824.).

La vita degli orientali e di coloro che vivono ne’ paesi assai caldi è più breve di quella dei popoli che abitano ne’ paesi freddi o temperati. Ma ciò non impedisce che la somma della vita di quelli non sia, non che uguale, ma superiore alla somma della vita di questi. Anzi non per altro è più breve la vita degli orientali se non perchè ella è molto più intensa, tanto che in pari spazio di tempo è maggiore la somma della vita che provano gli orientali che non è quella che provano gli altri popoli. Ora generalmente parlando, si scuopre nella natura quest’ordine che la durata della vita (sì negli animali sì nelle piante) sia in ragione inversa della sua intensità ed attività. La testuggine, l’elefante e altri animali tardissimi hanno lunghissima vita. I più veloci ed attivi, ancorchè più forti degli altri (come è per es. il cavallo rispetto all’uomo) hanno vita più corta. Ed è ben naturale, perchè quell’attività e intensità di vita importa maggiore rapidità di sviluppo della medesima, e quindi di decadenza. Infatti lo sviluppo sì degli uomini, sì degli animali, sì delle piante ne’ paesi assai caldi è molto più rapido che negli altri. Or dunque considerando queste condizioni fisiche della vita per rapporto al morale, si può ragionevolmente affermare che la sorte di quelli che vivono ne’ paesi assai caldi è preferibile quanto alla felicità a quella degli altri popoli. Primieramente la somma della loro vitalità, quantunque minore nella durata, è però assolutamente maggiore di quella degli altri, presa l’una e l’altra nel totale. Secondariamente, posto ancora che ella fosse uguale, a me par molto preferibile il consumare p. e. in 40 anni una data quantità di vita che il consumarla in 80. Ella riempie i 40, e lascia negli ottanta mille intervalli, gran vuoto, gran freddezza, gran languore. La vita assolutamente non ha nulla di desiderabile sicchè la più lunga sia da preferirsi. Da preferirsi è la meno infelice, e la meno infelice è la più viva. Or la vita degli orientali, pognamola di 40 anni, è molto più viva che quella degli altri, pognamola di 80, quando bene la somma della vivacità dell’una vita e dell’altra sia la stessa. Or questo paragone di climi io lo applico ai tempi, e mettendo gli antichi in luogo de’ popoli di clima caldo e i moderni in cambio de’ popoli di clima freddo, dico che sebben la vita degli antichi era forse generalmente più breve che quella dei moderni, per le turbolenze sociali e i continui pericoli dello stato antico, nondimeno perchè molto più intensa, ella è da preferirsi, contenendo nella sua minore durata maggior somma di vitalità, o quando anche in minore spazio contenesse ugual somma che la moderna in ispazio maggiore. Del che, senza il surriferito esempio, ho discorso particolarmente in altro pensiero. (8. Aprile 1824.). V. p. 4092. e v. la pag. 4069.

Ciascuno, e massimamente gli spiriti più delicati, sensibili e suscettibili, pervenuto a una certa età ha fatto esperienza in se stesso di più e più caratteri. Le circostanze fisiche, morali e intellettuali, cambiandosi continuamente nello spazio della vita di un uomo, e nelle sue diverse età, cambiandosi, dico, per rispetto a lui, cambiano continuamente il suo carattere, di modo che di tempo in tempo egli è uomo veramente nuovo di spirito, come dicono i fisici che di sette in sette anni (se non erro) egli è rinnovato di corpo. Gli uomini sensibili in particolare non solo cambiano carattere e più rapidamente degli altri, ma facilmente e ordinariamente acquistano caratteri contrari tra se, e massime a quel primo carattere che si sviluppò in essi, a quello più conforme alla loro natura, a quello che il primo potè in loro esser chiamato carattere. La coltura dell’intelletto fra l’altre cose cagiona in una persona stessa a proporzione de’ suoi progressi, e coll’andar del tempo, una variazione singolarmente rapida e singolarmente grande. Chi non sa quanto i principii, le opinioni e le persuasioni influiscano e determinino i caratteri degli uomini? Ora ciascuno individuo quando nasce è precisamente, quanto all’intelletto nello stato medesimo in cui fu il primo uomo. Quegl’individui che coll’andar del tempo si sono posti a livello delle cognizioni del nostro tempo, sono necessariamente passati per tutti quegli stati per cui lo spirito umano è passato dal principio del mondo fino al dì d’oggi (almeno per quei gradi per cui egli è passato progredendo e avanzando), e ha sperimentato in se tutti gli avvenimenti dell’intelletto che il genere umano ha sperimentato in tanti secoli quanti sono corsi dalla sua origine insino a ora. La storia del suo intelletto è quella appunto di tutti questi secoli ristretta e compresa in venti o trent’anni di tempo. Laonde da tutti i cambiamenti che il suo intelletto ha provati, cambiamenti che più volte l’hanno portato a persuasioni e stati contrarissimi ai passati, e in ultimo a un sistema di persuasioni ed a uno stato contrarissimo al suo primitivo; da tutti questi cambiamenti, dico, deggiono di necessità essere risultate in lui tante diversità e successivi cambiamenti di carattere, quanti ne sono stati prodotti nelle nazioni e nel genere umano in generale dai diversi principii e opinioni e dal diverso progresso e stato di cognizioni in tutto il tempo che ci è bisognato per portarlo dal suo primitivo stato al presente. (8. Aprile. 1824.). Onde questo tale individuo rinchiude e compendia in se, non solo la storia dello spirito umano, ma quella eziandio de’ caratteri successivi delle nazioni, in quanto essi ebbero origine e dipendenza dalle opinioni e conoscenze, che certo è grandissima e forse la massima parte. (8. Aprile. 1824.).

La maniera familiare che come più volte ho detto, fu necessariamente scelta da’ nostri classici antichi, o necessariamente v’incorsero senz’avvedersene ed anche fuggendola, può ora in parte o in tutto sfuggire massimamente alle persone di naso poco acuto, e a quelle non molto esercitate e profonde nella cognizione, nel sentimento e nel gusto dell’antica e buona lingua e stile italiano, che è quanto dire a quasi tutti i presenti italiani. Ciò viene, fra l’altre cose, perchè quello che allora fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è arcaismo. Non per tanto è men vero quel che io altrove ho detto. Anzi è tanto vero, che anche dopo che la lingua aveva acquistato la materia e i mezzi e la capacità della eleganza e del parlar distinto da quello del volgo e dall’usuale, si è pur seguitato sì nel 500 e 600 sì nel presente secolo da molti cultori e amatori dello scriver classico, a usare una maniera familiare, sovente non avvedendosene o non intendendo bene la proprietà e qualità della maniera che sceglievano e usavano, e sovente anche intendendo, credendo di usare una maniera elegante. E ciò si è fatto in due modi. O adoperando le stesse forme antiche, le quali oggi non sono più familiari, anzi eleganti, onde n’è risultata opinione di eleganza a tali stili ed opere modellate sull’antico, ma veramente esse hanno del familiare, perchè il totale dello stile antico da essi imitato necessariamente ne aveva anche indipendentemente dalle forme, bensì per cagion loro e per conformarsi e corrispondere ad esse forme che allora erano necessariamente familiari. Ovvero adoperando le forme familiari moderne a esempio e imitazione degli antichi, e della familiarità che nelle forme e nello stile loro si scorgeva, benchè non bene intendendola, e sovente confondendo sì la familiarità imitata sì quella che adoperavano ad imitarla, colla eleganza, dignità e nobiltà e col dir separato dall’usuale, perciò appunto che la familiarità in genere non era e non è più usuale, e l’uso della medesima è proprio degli antichi. Il terzo modo, che sarebbe quello di usar l’antico e il moderno e tutte le risorse della lingua, in vista e con intenzione di fare uno stile e una maniera nè familiare nè antica, ma elegante in generale, nobile, maestosa, distinta affatto dal dir comune, e proprio di una lingua che è già atta allo stile perfetto, quale è appunto quello di Cicerone nella prosa e di Virgilio nella poesia (stile usato quando la lingua latina era appunto in quelle circostanze e quello stato di capacità in cui è ora la lingua nostra); questo terzo modo non è stato non che usato, ma concepito nè inteso da quasi niuno, comechè egli è forse il solo conveniente, il solo perfetto, e convenevole a una lingua e letteratura già perfetta. (8. Aprile. 1824.).

Bien o mal mirado per que bien o mal mira. Anche noi diciamo in simil senso riguardato, mal riguardato, poco riguardato, ec. e così pur gli spagnuoli altri tali participii in simil senso, notati altrove. Così i latini circumspectus in senso att. o neut. da circumspicio, e cautus da caveo att. ec. (9. Aprile. 1824.).

Εὐθὺς ἐν ἀρχῇ. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 515. (9. Aprile, Venerdì di Passione. Festa di Maria SS. Addolorata. 1824.).

Alla p. 4053. Vedi però i Diz. spagn. buoni, alla voce dueña che mi pare in un luogo del D. Quij. significhi donna, e il Gloss. lat. in domina o domna, e il Forcell. e l’antico francese se hanno nulla in proposito. Del resto non solo etimologicamente ma anche presentemente donna significa pur signora in italiano, e donno, signore, padrone. (10. Aprile. 1824. Sabato di Passione.).

Divertido cuento ec. per que divierte. (13. Apr. 1824.).

Al detto di quisto, chiesto ec. aggiungi requête, ant. requeste. (13. Apr. 1824.).

Couper-κόπτειν, aor. 2. κοπεῖν, co’ derivati, ne’ più de’ quali si omette il τ. (13. Apr. 1824.).

Conforme per conformemente, avv. e preposiz. spagn. e italiano, forse di origine spagnuola. Al detto degli aggettivi usati avverbialmente. (13. Apr. 1824.).

Honrado per onorevole, come in ital. onorato, del che altrove. (13. Apr. 1824.).

Diminutivi positivati. Laurel-laurus. Laurel non è diminutivo in spagnuolo per la forma, ma lo è in lat. V. il Forc. se ha Laurellus.

Abortus-avorton franc. (14. Aprile. Mercordì Santo. 1824.).

Al detto altrove d’ignotus (per innotus) aggiungi ignotitia p. innotitia, di cui v. il Forcell. Vedilo anche in innotus. (15. Aprile. Giovedì Santo. 1824.).

A un giovane sventatello che per iscusarsi di molti errori e cattive riuscite e vergogne e male figure fatte nella società e nel mondo, diceva e ripeteva sovente che la vita è una commedia, replicò un giorno N.N., anche nella commedia è meglio essere applaudito che fischiato, e un commediante che non sappia fare il suo mestiere (professione), all’ultimo si muor di fame. (17. Aprile 1824.).

Le persone avvezze a versarsi sempre al di fuori, esclamano naturalmente anche quando sono solissime, se una mosca le punge, o si versa loro un vaso o si spezza; quelle assuefatte a convivere con se medesime, e ritenersi tutte al di dentro, anche in grande compagnia, se si sentono cogliere da un accidente non aprono bocca per lamentarsi o chiedere aiuto. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.).

Comidos y hebidos, como suele decirse. D. Quij. par. 2. ed. Madrid. 1765. tom.4. p. 169. cioè que han comido y bebido. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.).

Non molto addietro ho notato in questi pensieri p. 4062. segg. la maggior disposizione naturale alla felicità che hanno i popoli di clima assai caldo e gli orientali, rispetto agli altri. Notisi ora che in verità questi erano i climi destinati dalla natura alla specie umana, come si dimostra quanto all’oriente, dalle antiche tradizioni che provano l’origine del genere umano essere stata in quei paesi, secondo il detto da me altrove in più luoghi, e quanto ai climi assai caldi in generale, dall’essere essi i soli in cui l’uomo possa viver nudo, come la natura lo ha posto, e senza altri soccorsi contro gli elementi, di cui la natura l’ha lasciato sfornitissimo, e che in altri paesi gli sono di prima necessità e non pochi nè facili a procacciare, nè insegnati dalla natura, ma bisognosi di molte esperienze, casi ec. La costruzione ec. degli altri animali qualunque, e delle piante, ci fa conoscere chiaramente la natura de’ paesi, de’ luoghi, dell’elemento ec. in cui la natura lo ha destinato a vivere, perchè se in diverso clima, luogo, ec. quella costruzione, quella parte, membro ec. e la forma di esso ec. non gli serve, gli è incomoda ec. non si dubita punto che esso naturalmente non è destinato a vivervi, anzi è destinato a non vivervi. Ora perchè simili argomenti saranno invalidi nell’uomo solo? quasi ei non fosse un figlio della natura, come ogni altra cosa creata, ma di se stesso, come Dio. (17. Aprile. Sabato Santo. 1824.).

Gli uomini governati in pubblico o in privato da altri, e tanto più quanto il governo è più stretto, (i fanciulli, i giovani ec.) accusano sempre, o tendono naturalmente ad accusare de’ loro mali o della mancanza de’ beni, delle noie e scontentezze loro, quelli che li governano, anche in quelle cose nelle quali è evidentissima l’innocenza di questi, e la impossibilità o d’impedire o rimediare a quei mali o di proccurar quei beni, e la totale indipendenza e irrelazione di queste cose con loro. La cagione è che l’uomo essendo sempre infelice, naturalmente tende ad incolparne altresì sempre non la natura delle cose e degli uomini, molto meno ad astenersi dall’incolpare alcuno, ma ad incolpar sempre qualche persona o cosa particolare in cui possa sfogar l’amarezza che gli cagionano i suoi mali, e che egli possa per cagione di questi fare oggetto e di odio e di querele, le quali sarebbero assai men dolci di quello che sono a chi soffre se non cadessero contro alcuno riputato in colpa del suo soffrire. Questa naturale tendenza opera poi che il misero si persuade anche effettivamente di quello che egli immagina, e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli ha immaginato i nomi e le persone di fortuna, di fato, incolpati sì lungamente dei mali umani, e sì sinceramente odiati dagli antichi infelici, e contro i quali anche oggi, in mancanza d’altri oggetti, rivolgiamo seriamente l’odio e le querele delle nostre sventure. Ma molto più dolce fu agli antichi ed è a’ moderni l’incolpare qualche cosa sensibile, e massime qualche altro uomo, non solo per la maggior verisimiglianza, e quindi facilità di persuaderci della sua colpa, che è quello che ci bisogna, ma più ancora perchè l’odio e le querele sono più dolci quando si rivolgono sopra cose presenti che ne possano essere testimoni, e sottoposte alla vendetta che noi con esso odio vano e con esse vane querele intendiamo fare di loro. Massimamente poi è dolce l’odio e il lamento quando è rivolto sui nostri simili, sì per altre cagioni, sì perchè la colpa non può veramente appartenere se non a esseri intelligenti. Quelli che ci governano sono da noi facilmente scelti a far questa persona di rei de’ nostri mali, che non hanno altro reo manifesto o accusabile, e a servir di soggetto e scopo della vana vendetta che ci è dolce fare de’ medesimi mali. Essi sono in fatti in tali casi i più adattati, e quelli di cui ci possiamo dolere esteriormente e interiormente con più di verisimilitudine. Quindi è che chi governa in pubblico o in privato è sempre oggetto d’odio e di querele de’ governati. Gli uomini sono sempre scontenti perchè sono sempre infelici. Perciò sono scontenti del loro stato, perciò medesimo di chi li governa. (Essi sentono e sanno bene di essere infelici, di patire, di non godere, e in ciò non s’ingannano. Essi pensano aver diritto di esser felici, di godere, di non patire, e in ciò ancora non avrebbero il torto, se non fosse che in fatto questo che essi pretendono è, non che altro, impossibile.) E come non si può fare che gli uomini sieno mai felici, e però nè anche che sieno contenti, così niun governante nè pubblico nè privato, qualunque amore abbia a’ soggetti, qualunque cura del loro bene, qualunque sollecitudine di scamparli o sollevarli dai mali, qualunque merito insomma verso di loro, non può mai ragionevolmente sperare che essi non l’odino e non lo querelino, anche i più savi, perchè è natura nell’uomo il lagnarsi di qualcuno, quasi altrettanto che l’essere infelice, e questo qualcuno è per l’ordinario e molto naturalmente quello che li governa. Però circa il governare non v’ha pur troppo che due partiti veramente savi, o astenersi dal governo, sia pubblico sia privato, o amministrarlo totalmente a vantaggio proprio e non de’ governati. (17. Aprile. 1824. Sabato Santo.).

Diminutivi positivati. Piscis-poisson. Notisi che de’ diminutivi positivati delle lingue moderne altri hanno la diminuzione latina e questa o sonante diminuzione anche nelle lingue moderne o no, altre la diminuzione moderna affatto e non latina (18. Aprile. Pasqua. 1824.) e questa talora è diminuzione in quella tal lingua, talora in essa no, ma in altre moderne o in altra, sia sorella sia straniera, e sia che quella tal parola si trovi veramente in quest’altra lingua o non vi si trovi più, almeno con quella diminuzione. P. e. potrebb’essere che alcune voci francesi in in ine ec. in cui questa desinenza è additizia, perchè esse parole si trovano senza tal desinenza in latino o in italiano ec. sieno originariamente diminutivi positivati presi dall’italiano, quando bene in questo non si trovino più, almeno colla diminuzione, nè positivata nè veramente diminutiva. (19. Aprile 1824.). Così dicasi de’ verbi, ec.

Alla p. 4044. Ferdinando il Cattolico non solamente al tempo della lega di Cambrai, ma anche più anni dopo, e sciolta già la lega, seguitò sempre a spacciare di volere andar contro gl’infedeli, non pur Mori d’Affrica, come diceva altresì, ma eziandio contro i turchi a Gerusalemme. Vedi Guicc. t. 3. p. 109. (19. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1824.). Del resto v. ancora ivi p. 128. fine. V. p. 4081.

Senza per oltre (vedi i franc. e gli spagn. i quali dicono anche nel senso stesso a men de, oltre di, e viene a essere il medesimo). V. p. 4081. — Così i greci ἄνευ. V. Lucian. Ver. Hist. l. 1. opp. 1687. p. 647. t. i e lo Scap. in ἄνευ e ne’ suoi sinonimi e il Forcell. in absque che si usa per eccetto, ma ciò non è precisamente il medesimo. (19. Aprile 1824. Lunedì di Pasqua.).

Diminutivi positivati. ῥάφανος, ῥαφανὶς ίδος co’ suoi composti e derivati, i quali vedi nello Scap. che dice ῥαφανὶς per ῥάφανος essere attico. In tal caso la positivazione de’ diminutivi sarebbe anche propria dell’attico in particolare. I latini dicono rhaphanus. Che ῥαφανὶς sia veramente positivato, v. Luciano Ver. Hist. l. i opp. 1687. t. i. p. 649. ῥαφανίδας ὑπερμεγέθεις. E notabile che noi che abbiamo preso dal latino rafano, e più volgarmente benchè corrottamente ravano, l’abbiamo anche come gli attici diminuito e positivato, facendone ravanello, che vale in tutto lo stesso che le due voci suddette, ed è molto più comune di ambedue loro, anzi ormai il solo in uso, almeno nel dir familiare e parlato. V. gli spagnuoli e i francesi. (19. Apr. 1824.).

Alla p. 4043. Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co’ sentimenti, il piacere e la voluttà, esprime ancora o collo stile o co’ sentimenti formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una negligenza una specie di dimenticanza d’ogni cosa. E generalmente non v’ha altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà! Tant’è, il piacere non è che un abbandono e un oblio della vita, e una specie di sonno e di morte. Il piacere è piuttosto una privazione o una depressione di sentimento che un sentimento, e molto meno un sentimento vivo. Egli è quasi un’imitazione della insensibilità e della morte, un accostarsi più che si possa allo stato contrario alla vita ed alla privazione di essa, perchè la vita per sua natura è dolore. Onde è piacevole l’esserne privato in quanta parte si può, senza dolore e senz’altro patimento che nasca o sia annesso a questa privazione. Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario. Tali almeno sono i maggiori e più veraci piaceri. I piaceri vivi sono anche manco piaceri. Sempre portano seco qualche pena, qualche sensazione incomoda, qualche turbamento, e ciò annesso cagionato e dipendente essenzialmente da loro. (19. Aprile Lunedì di Pasqua 1824.). Dunque la vita è un male e un dispiacere per se, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmente piacere. Infatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichè naturalmente priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio, fine, e perfezione che è la felicità. E non cessando mai questa violenza, non v’è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infelicità e positiva pena e dispiacere. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.). Massimamente poi quando da una parte colla civilizzazione è accresciuta la vita interna, la finezza delle facoltà dell’anima e del sentimento, e quindi l’amor proprio e il desiderio della felicità, da altra parte moltiplicata l’impossibilità di conseguirla, i mali fisici e morali, e finalmente diminuita l’occupazione, l’azione fisica, la distrazione viva e continua. (20. Apr. 1824.).

Percussare da percutio. Crusca. V. il Gloss. (20. Apr. 1824.).

Quelli che non hanno bisogni sono ordinariamente molto più bisognosi di coloro che ne hanno. Uno de’ grandissimi e principalissimi bisogni dell’uomo è quello di occupare la vita. Questo è altrettanto reale quanto qualunque di quelli a’ quali occupandola si provvede; anzi è più reale, e maggiore eziandio assai, perchè il soddisfare a questo bisogno è l’unico o il principal mezzo di far la vita meno infelice che sia possibile, laddove il soddisfare a qualsivoglia di quegli altri per se, non è che un mezzo di mantenere la vita, la qual per se stessa nulla importa. Importa sibbene la felicità, o posta la vita, il menarla meno infelicemente che si possa. Ora al detto massimo bisogno, che è continuo ed inseparabile dalla vita umana, quelli che non hanno bisogni, o che per dir meglio non sono necessitati di provvedere essi medesimi a’ bisogni che hanno, gli suppliscono molto più difficilmente, e più di rado, e per lo più per molto minore spazio della loro vita, e in generale molto più incompletamente di quelli che hanno a provvedere da se a’ propri bisogni naturali e della vita. (20. Aprile. Martedì di Pasqua. 1824.).

Cuerpo mal sustentado y peor comido . D. Quij. ed. Madrid 1765. t. 4. p. 220. Muger parida cioè que ha parido. ib. p. 226. (21. Apr. 1824.).

Alla p. 4053. Nel Secolo di Luigi 14. di Voltaire ed. della Haye 1752. tome 2. fine del cap. 33. du jansénisme, p. 254. trovo tombeau e subito dopo tombe due volte, collo stessissimo senso di tombeau. (21. Apr. 1824.).

A proposito del detto altrove circa i semidei dimostranti l’alta opinione che gli antichi avevano della natura umana, osservisi con quanta facilità si divinizzavano appresso i romani gl’imperatori o altri della loro famiglia, o loro liberti e favoriti, o vivi ancora, o morti al tempo e sotto gli occhi di quelli che li divinizzavano, anzi allora allora[a]

Anche Cesare Dittat. fu divinizzato, con flamine ec. ec., dopo la morte almeno. V. gli storici e Sveton. in fine della sua vita.

[Chiudi]. Non dirò già io che nè quelli che li divinizzavano, nè le altre persone intelligenti, nè forse anche la più ignorante feccia del popolo e la più superstiziosa, massime in quei tempi già illuminati e disingannati in tante cose (sebbene anche a quei tempi v’aveano persone, eziandio tra’ nobili e senatori, di maravigliosa superstizione, come e più che non fu Senofonte, spirito sì colto e istruito, fra’ greci in tempi simili) credessero veramente alla divinità di quei tali imperatori o parenti o favoriti di essi, vivi o morti. Ma quest’uso solo di divinizzare delle persone contemporanee, cosa che poichè era tanto ricercata da un canto dall’ambizione, dall’altro dall’adulazione, non doveva essere al tutto senza qualche effetto di persuasione in qualche parte del popolo, dimostra quanto poca distanza e diversità di natura ponessero gli antichi fra il divino e l’umano, senza di che non sarebbe stato possibile che una tale assurdità fosse pur venuta loro nella mente. Certo nè anche a’ più barbari, ignoranti e superstiziosi tempi del Cristianesimo, niuno pensò nè avrebbe potuto pensare o di far credere ad alcuno o solamente di dire per adulazione o per altro qualunque motivo che una persona non solo contemporanea, non solo viva, ma morta ed antica e famosa pure per santità e per qualsivoglia virtù o dignità, potenza ed opere vere o credute, fosse stato trasformato o dovesse trasformarsi, non dirò nella natura divina, ma neanche nell’angelica. E qual Cristiano avrebbe osato fare sopra qualsivoglia Principe Cristiano o no, fosse stato anche molto più grande e formidabile e più despotico di Augusto, ed esso molto più adulatore e più vile di tutti gli uomini di quel secolo, un distico simile a quello attribuito a Virgilio: Nocte pluit tota ec.? Qual Principe Cristiano sarebbesi fatto rappresentare cogli attributi non dirò dell’Eterno Padre o del Figliuolo, ma d’un Angelo o di un Apostolo, come gl’Imperatori, i loro parenti, i loro favoriti, si facevano scolpire, dipingere ec. o erano dipinti e scolpiti per adulazione, non pur dopo morte, ma in vita, cogli attributi e sotto la forma di Ercole, (anche una donna è nel Museo Vaticano rappresentata in istatua sotto questa forma, cioè con clava, pelle di leone ec.) di Venere, di Mercurio e simili. Lascio i templi, gl’idoli ed altari eretti a’ viventi appo i Romani, con culto sacrifizi e onori regolari e giornalieri al tutto divini, con flamine apposta destinato al particolar culto di quella divinità ancor vivente (flamen augustalis ec.), le pene decretate ed eseguite contro i bestemmiatori o violatori qualunque d’esse divinità morte o vive, come rei di religione, non di politica, le accuse e giudizi contro gl’incolpati di tali delitti ec. ec. Anche Alessandro si fece passare per figlio di Giove Ammone, e pare che da qualche parte del popolaccio fosse creduto, non solo de’ barbari, ma de’ greci e macedoni, ed è ben verisimile, o certo egli usò questa finzione come un mezzo politico per farsi rispettare e temere ec. e tenere in dovere ec. onde mostra che egli giudicò dovergli essere creduto, e ciò dai greci principalmente e dai macedoni, poichè i barbari non riconosceano gli stessi déi. Vedi in Luciano tra i Diall. de’ Morti, quello di Alessandro e Diogene, Alessandro e Filippo, Alessandro, Annibale, Scipione e Minosse. (21. Aprile. 1824.). E certo la Grecia allora non era una sciocca nè meno illuminata che fosse Roma al tempo degl’Imperatori (21. Apr. 1824.).

Diminutivi positivati. Non solo in franc. pistolet per pistola, ma anche in ispagn. pistolete, forse dal franc. poichè in ispagn. ete non è diminuzione. (22. Aprile. 1824.). Si dice anche in ispagn. pistola. D. Quij. ed. Madrid 1765. t. 4. p. 237-238. dove poco avanti, p. 235. trovi pistolete. (23. Aprile 1824.).

Alla p. 3106. Niuna cosa è forse più atta di questa a mostrare la differenza del pensar moderno e del pensare antico (massime molto antico, al qual tempo appartiene Frinico e più che mai Omero) intorno a questi punti di cui qui discorriamo, differenza che tiene strettamente alla diversità generale dello stato dello spirito umano a’ tempi antichi e a’ moderni. Quando negli ultimi anni, dopo il ritorno de’ Borboni, fu rappresentata a Parigi la Tragedia del Vespro Siciliano, tragedia che ebbe un successo distinto, qual mai o francese o straniero, pensò ad accusare il poeta di poco amor nazionale o di mancamento alcuno verso la patria, per aver commosso o cercato di commuovere sopra una sventura de’ suoi nazionali seguìta per opera di stranieri? Anzi chi non riputò e questo proposito e la scelta del soggetto nazionalissima e degnissima quanto qualunque altra di un buon cittadino? perocchè il poeta non volle far piangere sopra i nemici della Francia, ma sopra i Francesi sventurati. Or questo appunto fece Frinico, il quale non commosse le lagrime sopra i barbari nè per li barbari, ma sopra i greci e per li greci. E per questo medesimo fu condannato, e sarebbe stato applaudito per lo contrario, e stimato buon cittadino, se avesse fatto piangere e rivolta la compassione e pietà degli uditori sopra i nemici della nazione, come fece Eschilo ne’ Persiani tragedia che ha per soggetto e per materia unica di pietà e di terrore i mali de’ nemici della Grecia, nè però fu condannata da alcuno, nè stimata altro che nazionalissima. Tale appunto nè più nè meno si è il caso della Iliade, che fa piangere quasi unicamente o certo principalmente sopra e per li troiani nemici de’ suoi. (23. Aprile. 1824.).

Nel Dialogo della Natura e dell’Anima ho considerato come la ragione e l’immaginazione e in somma le facoltà mentali eccellenti nell’uomo sopra quelle di ciascun altro vivente, gli sieno causa di non poter mai o quasi mai, e in ogni modo difficilmente, far uso di tutte le sue forze naturali, come fanno tutto dì e senza difficultà veruna tutti gli altri animali. Aggiungi. Si dice che i pazzi hanno una forza straordinaria, a cui non si può resistere, massime da solo a solo. Si crede che la loro malattia dia questa forza per se stessa, al contrario di tutte l’altre infermità. Non è egli chiaro che ciò procede dal non aver essi in se medesimi niuno impedimento a usare tutte le loro forze naturali? che i pazzi hanno più forza degli altri, solo perchè usano tutte quelle che hanno, o maggior parte che gli altri non usano? appunto come fa un animale nè più nè meno. Dal che deduco: quanti animali che si dicono fisicamente essere più forti dell’uomo, in verità non lo sono! quante forze debbe avere perdute l’uomo per i progressi del suo spirito, non solo radicalmente, ma anche per essere impedito a usare quelle che gli rimangono! quanto è più forte l’uomo, anche corrotto e indebolito, di quel che egli si crede. I pazzi lo dimostrano, che sovente superano di forze fisiche persone molto più robuste di loro, ed animali creduti ordinariamente più forti dell’uomo a corpo a corpo. L’ubbriachezza accresce le forze non solo radicalmente, ma eziandio negativamente per l’uso, che ella impedisce o turba, della ragione. Senza un’assoluta mancanza o sospensione di quest’uso, niuno uomo nè anche irriflessivo, nè anche fanciullo, nè anche selvaggio, nè anche disperato (i quali però tutti si vede per esperienza che hanno o piuttosto mostrano di avere a proporzione molta più forza de’ loro contrari), non usa, nè anche ne’ maggiori bisogni, ne’ maggiori pericoli, tutte le forze precisamente che egli ha in tutte le loro specie e in tutta la loro estensione. Non così gli animali: o certo essi risparmiano infinitamente minor parte delle loro forze, anche ne’ menomi pericoli, bisogni, desiderii, propositi, che non risparmia l’uomo, anche il più disperato ec., ne’ maggiori. (23. Apr. 1824.). Il detto de’ pazzi dicasi proporzionatamente de’ disperati. V. p. 4090.

Alla p. 4073. capoverso 2. Così i franc. à moins que... ne, che vale eccetto se... non ec. V. i Diz. (24. Aprile. Sabato in Albis. 1824.).

Alla p. 4073. capoverso 1. È noto che per lunghissimo tempo, almeno sino alla fine del 400 e ai principii del 500, si continuò in Ispagna, in Germania, e credo in tutta la Cristianità (che allora era o tutta o quasi tutta Cattolica) a fare questue annue per le crociate da farsi quando che fosse, le quali questue si chiamavano anche crociate, e montavano a grossissime somme (considerata specialmente la maggiore rarità della moneta a quei tempi), che i Pontefici, a cui disposizione pare che esse rimanessero, concedevano talvolta, ma con grandissime difficultà (e non di rado lo negavano) ai rispettivi Re di potere usare ne’ loro bisogni, massime quando erano loro collegati aperti od occulti, favoriti, per qualche impresa che premeva al Pontefice ec.[a]

V. Saavedra Idea de un Principe politico Christiano, Amst. 1659. ap. Iansson Iuniorem. empresa 25. p. 225-6.

[Chiudi] Così il Guicc. più volte, e fra l’altre t. 3. p. 143. (24. Aprile. Sabato in Albis. 1824.). Io non so però bene se fossero questue o taglie determinate, e forzose, con obblighi di coscienza, o altro. V. gli Storici. (24. Aprile. 1824.). V. p. 4083.

A proposito dei verbi in are fatti da quelli della 3., del che altrove, v. il Meurs. t. 5. opp. p. 419. dove però erra deducendo da vellicare che v’abbia a essere stato un vellare, mentre quello è frequentativo di vellere (o diminutivo ec.) ed è della prima, perchè tutti i frequentativi o diminutivi di questo genere, da qualunque congiugazione di verbi sieno fatti, sono della 1.ma (24. Apr. Sabato in Albis. 1824.).

Diminutivi positivati. Perpétuel, perpétuellement. Continuel, continuellement. Si dice anche continuement o continûment, e c ontinu. V. i Diz. Nota che questi sono diminutivi aggettivi. Struzzo struzzolo. Struffo strufolo. (25. Apr. 1824. Domenica in Albis.).

Apprendre plusieurs langues médiocrement, c’est le fruit du travail de quelques années; parler purement et éloquemment la sienne c’est le travail de toute la vie. Così dice Voltaire, la cui lingua pur non era che la francese, riputata la più facile delle lingue antiche e moderne. Histoire du Siècle de Louis XIV. chap. 36. Écrivains, art. de Longueruë. (à la Haye 1752-3. t. 3. dans les additions. p. 195-196.). (26. Aprile. 1824.).

Ἐν τοσούτῳ per intanto, del che altrove. Luciano opp. t. i p. 686. verso il fine. Simile è la frase ἐν ὅσῳ δὲ ταῦτα ἐλογιζόμεθα , ib. p. 692. ed. Amst. 1687. (26. Apr. 1824.). En tanto que. D. Quij. Madrid 1765. t. 4. p. 281.

Anche i latini nominavano be ce ec. non bi ci, come confessa il Corticelli nel principio della Gramm. Toscana, il qual vedi, e v. anche il Buommattei e gli altri grammatici latini italiani francesi spagnuoli ec. (26. Apr. 1824.).

Ser-v-ente — ser-g-ente. V. la Crus. Ser-v-ant — ser-g-ent. V. i Diz. franc. (26. Apr. 1824.).

Ἐκτὸς εἰ μὴ, della qual frase (simile all’italiana) altrove Luciano, opp. 1687. t. 1. p. 700. mezzo circa. (27. Aprile. 1824.). p. 701. princ.

Compagnon, di cui altrove è anche antico italiano e spagnuolo (D. Quij.) per compagno, forse l’uno e l’altro dal francese. (28. Aprile 1824.).

Exhaustare. Forc. in Exhaustant. (28. Apr. 1824.).

Μεταξὺ per nondimeno, con tutto ciò, al contrario, vedilo in Luciano nel Tirannicida, poco sotto il principio, opp. 1687. t. i. p. 694. fine. Questo significato è ignoto allo Scapula. L’interprete lo traduce interim, che è il suo proprio, ma qui non ha che fare. Interim Interea non hanno mai questo senso nel Forcell. Puoi vedere il Gloss. Certo è che in franc. cependant cioè μεταξὺ si adopra appunto nel senso ancora di nondimeno. Onde corrottamente gl’italiani moderni dicono e scrivono intanto, frattanto per nondimeno. V. gli Spagnuoli. (29. Apr. 1824.).

Alla p. 4081. V. pure il Guicc. 3. 216. e che cosa fosse la decima di cui quivi parla, vedilo ib. p. 96. 209. 254. (30. Aprile 1824.). V. pure il Guicc. 3. 248-53. 395. 397./4. 154. 172-4.

Ἐξ ἀρχῆς εὐθὺς. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 728. (30. Apr. 1824.).

Al detto altrove circa il nostro uso italiano di adoperare pleonasticamente e per idiotismo e grazia di lingua il pronome si, mi, ti, dativo, uso che abbiamo pur trovato nell’antico e familiare latino, aggiungi che noi italiani adoperiamo detto pronome in molti verbi neutri, o attivi, che quando sono congiunti con esso, mal si chiamano da’ grammatici e vocabolaristi, neutri passivi, come dimenticare che anche si dice dimenticarsi col genitivo o accusativo o col che ec., immaginare che anche si dice immaginarsi coll’accusat. o col che ec. Questi verbi col si che sono moltissimi, non sono punto neutri passivi, perchè il si in essi non è accusativo, e però non indica passione nè transizione dell’azione nel suggetto stesso che la fa, ma è dativo e assolutamente ridondante per grazia di lingua, come in lat. il sibi, onde essi verbi col si, restano quali sono senza di esso, neutri assoluti o attivi, e non sono neutri passivi più di quello che sia neutro passivo andarsi o andarsene, starsi o starsene e simili. E però quando i detti verbi sieno attivi, accoppiati col si, non debbono, p. e. nel più che perfetto, fare io me l’era immaginato, come è regola de’ neutri e de’ neutri passivi, ma io me lo aveva immaginato, io me lo aveva dimenticato, perchè quivi il verbo è tanto attivo quanto se senza il pronome si, mi, ti, che nulla altera e nulla vale in questi casi, si dicesse io l’aveva dimenticato ec. E così in fatti scrivono i buoni scrittori, cioè io me lo aveva immaginato ec. e così si dee scrivere, nè più nè meno che in quei verbi attivi in cui il pronome si, ti, mi ha vero significato, come p. e. io mi avea fabbricata una casa, cioè avea fabbricata una casa a me. Ma moltissime e forse le più volte sbagliano in questo anche gl’intendenti, scrivendo io me l’era immaginato. E non è maraviglia, perchè similmente sogliono per lo più scrivere io m’era fabbricata una casa, come se fabbricarsi fosse qui neutro passivo, quando è manifesto e fuori di controversia, che è assolutissimo attivo come fabbricare, essendo il mi dativo non accusativo, e lo stesso che si dicesse io gli avea fabbricata una casa, che certo niuno direbbe nè dice, nemmeno i più idioti, io gli era fabbricata. Del resto la detta ridondanza del si, mi, ti, dativo, credo sia anche comune in genere ai francesi e agli spagnuoli (30. Aprile 1824.). V. p. 4098.

Come la fisonomia degli uomini, e animali sia determinata dagli occhi, secondo il detto altrove, osserva che se tu disegni un volto umano o animalesco e non vi poni gli occhi, tu non vedi punto che fisonomia abbia quel volto, e appena senti (se ben conosci) che sia un volto. Così i ritratti levati dall’ombra in profilo non paiono ritratti finchè non vi si aggiunga convenientemente quello che dall’ombra non si può ricavare, dico l’occhio. Al contrario se ponendovi gli occhi, lasci qualche altro membro, tu senti benissimo che quello è un volto e ne comprendi la fisonomia; solamente ti parrà mostruosa, ma sempre ti riuscirà un volto e una fisonomia. E così dico a proporzione, del disegnare o accennar gli occhi più o meno imperfettamente, paragonando l’effetto di questa imperfezione in ordine al determinar la fisonomia, coll’effetto di una simile imperfezione in altra qualunque parte del volto. (30. Aprile 1824.).

Παρ' ὀλίγον , fere Lucian. opp. 1687. t. i. p. 718. V. i Less. per poco nel senso stesso. (1. Maggio. 1824.).

Ignominia per innominia. Come ignotus per innotus ec. del che altrove. (2. Maggio. 1824. Domenica.).

Nascere per accadere del che altrove. 3 Guicc. 3. 255. (2. Maggio. 1824. Domenica.).

Implicito as. Vedi Forc. (2. Mag. 1824.).

Che da’ partic. pass. della prima si facciano i continuativi o frequentativi in itare piuttosto che in atare, non dee parer maraviglia quando si consideri l’uso lat. di scambiare per regola l’a in i breve, in tante altre cose, come ne’ composti (facio jacio — conficio, conijcio ec.) ec. Oltre che anche nella prima v’ha molti supini e participii passati in itus, de’ quali altrove, come domitus ec. (2. Mag. Domenica. 1824.). Anche l’ae in i. Ae-quus in-i-quus.

En tanto que. D. Quijote ed. Madrid 1765. t. 4. p. 325. 334. più volte. (4. Maggio. 1824.).

Il verbo stare, che ha tanta relazione al verbo esse per l’uso, pel significato, alcune volte sinonimo ec. che in italiano supplisce col suo participio al difetto del verbo essere, e spesso si usa altresì, come anche più nello spagnuolo, in luogo di questo verbo, ec. non ha tuttavia nessunissima relazione grammaticale con lui, senza la mia osservazione che lo fa derivare da un antico participio o supino di sum. Similmente in greco ἵστημι, στάω, ec. che in se, e ne’ loro composti e derivati, e nel lat. sisto che ne deriva, e suoi composti, come exsisto, subsisto, exsistentia ec. e nella voce ὑπόστασις (substantia, subsistentia ec.), ha tanta relazione col verbo essere, non ha alcuna attinenza grammaticale con lui, senza la mia osservazione che lo fa derivare dal lat. sto, derivato da sum. Anche i composti e derivati di sto (come exsto, exstantia, substantia, substantivus, substo ec. ec.) manifestano nel significato ec. grandissima relazione col verbo essere. (4. Maggio. 1824.).

g omire-v omire. Crus. (6. Maggio. 1824.). g olpe co’ derivati, composti ec.

Gomita plur. di Gomito. (6. Maggio. 1824.).

Fello-fellico as, fellito as. (7. Maggio. 1824.).

En tanto que. D. Quij. Madrid. 1765. t. 4. p. 315. titolo. (9. Maggio. Domenica. 1824.). Ἐν τοσούτῳ. Lucian. opp. 1687. i .777. fin.

Enquérir, s’enquérir (inquirere, enquirir, inchiedere) — enquêter, s’enquêter (quasi inquisitare, inchiestare), enquête (inchiesta, come requête richiesta), enquêteur (inquisitor, inchieditore), enquérant, enquis participio. Riferiscasi al detto altrove in proposito di quaeritare, quaesitus, quisto ec. (10. Maggio. 1824.).

Non è forse cosa che tanto consumi ed abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri. E da altra parte la vita non è fatta che per il piacere, poichè non è fatta se non per la felicità, la quale consiste nel piacere, e senza di esso è imperfetta la vita, perchè manca del suo fine, ed è una continua pena, perch’ella è naturalmente e necessariamente un continuo e non mai interrotto desiderio e bisogno di felicità cioè di piacere. Chi mi sa spiegare questa contraddizione in natura? (11. Maggio. 1824.).

L’infinito in luogo dell’imperativo, del che ho detto altrove, si usa in greco massimamente colla negazione, il che è al tutto conforme all’uso italiano. Vedi per es. alcuni pseudoracoli in versi nel Pseudomantis di Luciano, opp. 1687. t. i pag. 765. lin. 14. 28. 778. fin. in due de’ quali luoghi notisi il nominativo coll’infinito, come in italiano. (12. Maggio. 1824.).

Bien razonado, cioè que razona bien. Cervantes Novelas exemplares. Milan. p. 2. (13. Maggio. 1824.).

Malheureux per scellerato e peggio ancora, cioè aggiuntovi il disprezzo. Aggiungasi al detto altrove in questo proposito. (14. Maggio. 1824.).

Affidé cioè fidato per fido, fedele. Aggiungasi al detto altrove sui participii aggettivati o sostantivati, come anche affidé talora è sostantivo. (14. Maggio. 1824.).

Ai frequentatativi in esso altrove notati, aggiungi petesso o petisso da peto, del quale v. Forcell. aggiungendo a’ suoi esempi due che si trovano nel lungo frammento di Cicerone de suo Consulatu, che sta nel primo de Divinat. , i quali esempi dimostrano pur la forza frequentativa di petesso. (15. Maggio. 1824.).

Nei frammenti delle poesie di Cicerone massime in quelli delle sue traduzioni di Arato, che si trovano principalmente citati da lui, come nei libri de Divinat. ec., sono abbondantissimi i composti, e in particolare quelli fatti di più nomi, alla greca (come mollipes), gran parte de’ quali, se non la massima, non debbono avere esempio anteriore, e mostrano essere coniati da lui ad esempio del greco, e forse per corrispondere a quelli appunto che traduceva. (15. Maggio. 1824.).

Εὐθὺς ἐν ἀρχῇ τοῦ λόγου. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 887. (15. Maggio. 1824.).

Diminutivi positivati. Ranunculus (onde ranocchio, grénouille ec. di cui altrove). Vedine la definizione nel Forcell. (15. Maggio. 1824.).

Ai composti di jugare notati altrove, aggiungi seiugare, cioè seiungere. (17. Maggio. 1824.).

Clepo is psi ptum — κλέπτω, quasi clepto as da cleptum di clepo. Il caso è al tutto simile a quel di apo-aptum-apto-ἅπτω, di cui lungamente altrove, eccetto che clepto lat. non si conosce (è però ben verisimile), e viceversa clepo è più noto e certo di apo benchè parimente antiquato. Avvi anche clepso is, se è vero. Vedi Forcell. (17. Maggio. 1824.). V. pag. 4115.

Il diminuimento spagnuolo in ico ica dee venire dal lat. iculus, icula, iculum, come ho detto altrove di altre diminuzioni spagnuole italiane francesi (17. Maggio. 1824.).

Cosa cioè causa per res. Uso proprio di tutte tre le lingue figlie. V. Forc. in Causa se ha nulla; il Gloss. ec. Anche causa si dice in italiano e in francese ec. spessissime volte per res, come la causa pubblica, in causa propria, giovava alla sua causa (rei suae o rebus suis), e nel Guicciardini è frequente questo parlare. (17. Magg. 1824.). Vedi la pag. 4294.

Premo-pressum-presser, pressare co’ derivati. Aggiungilo al detto altrove de’ composti oppressare, soppressare ec. e v. gli spagnuoli. (17. Magg. 1824.).

Marceo, ant. marcitum; marcire marcito; marchito spag. — marchitarse, marchitable. (18. maggio. 1824.).

Αὐτίκα nel modo e senso dello spagnuolo luego, del che altrove. Luciano opp. 1687. t. i. p. 897. ἐν ἀρχῇ μὲν ἐυθὺ τοῦ βίου ib. (18. Maggio. 1824.).

Altro per niuno, del che altrove. Senz’altro mezzo. Speroni Dialoghi, Ven. 1596. p. 275. verso il fine. (20. Maggio. 1824.). Nel Petrarca Canz. Una donna più bella ec. strofe 3. Altro volere o disvoler m’è tolto ; altro sta per alcuna cosa, nulla, quidquam. (21. Maggio 1824.).

Si riprende l’uomo che non sia mai contento del suo stato. Ma in vero questo non è che la sua natura sia incontentabile, ma incapace di esser felice. Se fossero veramente felici, il povero, il ricco, il Re, il suddito si contenterebbero egualmente del loro stato, e l’uomo sarebbe contento come possa essere qualunque altra creatura, perch’egli è altrettanto contentabile. (20. Maggio. 1824.).

Rodo-rosum-rosicchiare, rosecchiare, rosicare (volg.). Frequentativo o diminutivo. (20. Maggio. 1824.).

Alla p. 4081. L’uomo sarebbe onnipotente se potesse esser disperato tutta la sua vita, o almeno per lungo tempo, cioè se la disperazione fosse uno stato che potesse durare. (21. Maggio. 1824.).

S’è veduto altrove come la irregolarità e i vizi palpabili delle ortografie straniere vengano in gran parte dall’aver voluto accomodare le loro scritture alla latina. Ora egli è pur curioso che gli stranieri vogliano poi pronunziare la scrittura latina nel modo in cui pronunziano la propria. Questa non corrisponde alla parola pronunziata perchè l’hanno voluta scrivere alla latina, e le parole latine le vogliono poi pronunziare colla stessa differenza dalla scrittura, che usano nel pronunziar le loro parole, perchè sono male scritte. Ma se esse sono male scritte, le latine sono scritte bene; però s’hanno a pronunziar come sono scritte e non altrimenti; e gli stranieri mostrano di non ricordarsi che essi non pronunziano diversamente da quel che scrivono, se non perchè vollero scrivere alla latina, e che l’origine di questa differenza tra il loro scritto e il parlato, e della loro scrittura falsa, fu l’aver voluto scrivere alla latina mentre parlavano in altro modo, e l’aver voluto seguitare materialmente la scrittura latina, non falsa ma vera. Ora avendola malamente voluta prendere per modello, e con ciò falsificata la loro scrittura, pretendono poi per questa cagione medesima che quella sia falsa come la loro, e perchè la loro è falsa perciocchè segue quella; il che è ben lepido. (21. Maggio. 1824.). Quelli poi che non hanno tolta l’ortografia loro da’ latini (sebben tutti in parte l’han tolta o immediatamente o mediatamente), e quelli che l’han tolta, in quelle cose in cui la loro non deriva da quella, ma è pur viziosa manifestamente perchè ripugna al lor proprio alfabeto, tralascia lettere e sillabe che s’hanno a profferire, ne scrive che non s’hanno a pronunziare; come mai, dico, questi tali hanno da credere che l’ortografia latina sia e viziosa perchè la loro lo è, e macchiata di quei vizi appunto che ha la loro, diversissimi poi in ciascuna, di modo che ciascuna nazione straniera pronunzia il latino diversamente? (21. Mag. 1824.).

Alla p. 4064. Da questo ragionamento segue che la maggior parte degli altri animali (poichè la vita naturale dell’uomo è delle più lunghe, e il suo sviluppo corporale è de’ più tardi)[a]

Similm. discorrasi delle donne, in proporzione ec.

[Chiudi] sono anche per questa parte naturalmente più felici di noi, tanto più quanto il loro sviluppo è più rapido, al che corrisponde in ragion diretta la brevità della vita, perchè il Buffon osserva ch’ella è tanto più breve quanto più rapida è la vegetazione dell’animale (s’intende del genere, e spesso anche degl’individui rispetto al genere) l’accrescimento del suo corpo e facoltà, le sue funzioni animali per conseguenza, e il giungere allo stato di perfezione e maturità; e viceversa. Questo si osserva per lo meno in quasi tutti i generi anche vegetali. (Buffon, nel capitolo, se non erro, della Vecchiezza). Ond’è che p. e. i cavalli e poi di mano in mano gli altri di sviluppo più rapido, sino a quegl’insetti che non vivono più d’un giorno (v. il mio Dial. d’un Fisico e di un Metafisico) sieno tutti di mano in mano più e più disposti naturalmente alla felicità che non è l’uomo, nonostante che la brevità della vita loro sia nella stessa proporzione; la qual brevità o lunghezza non aggiunge e non toglie nè cangia un apice nella felicità d’alcun genere di animali (nè anche negl’individui), come ho dimostrato nel Dial. succitato e nel pensiero a cui questo si riferisce. (21. Maggio. 1824.).

Le mulina. Crus. e Guicc. t. 3. p. 361. bis. (23. Maggio. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Sciurus- écureuil (ant. escureuil da sciuriculus o altro simile), schiratto (Pozzi nel Bertoldo; noi volgarmente schiriatto) diminutivo o disprezzativo, scoiatto (Pulci nella Crus.), scoiattolo sopraddiminutivo, o sopraddisprezzativo. Gli spagnuoli harda, hardilla. (23. Maggio. Domenica. 1824.).

En tanto in ispagnuolo (del che altrove) o spesso o sempre vuol dire infino a tanto, come nelle Novelas exemplares di Cervantes p. 79. ediz. citata alcuni pensieri più sopra. (23. Maggio. Domenica. 1824.). Così noi mentre per finchè.

Retinere per ricordarsi, come in ital. ec. ritenere. Così anche il suo continuativo retentare sta espressamente per ricordarsi in un luogo di Cic. de Divinat. l. 2. c. 29. tradotto da Omero, il quale vedi, Il. 2 v. 301. (23. Maggio. 1824. Domenica.).

Inconsideratus per non considerans, qui considerare non solet. Vedi Forcell. e Cic. de Divinat. 2. c. 27. Così consideratus nel senso contrario. V. Forcellini . (23. Maggio. Domenica. 1824.).

Cieo cies civi citum (diverso da cio iis ivi itum)[a]

Neo nes nevi netum.

[Chiudi] co’ suoi composti, aggiungasi ai verbi della seconda che hanno il perfetto in vi, e il supino in itum breve, de’ quali altrove. E v. il Forcell. in cieo fine. (27. Maggio. Festa dell’Ascensione. 1824.).

Periurus sembra esser contrazione di periuratus o peieratus che pur si trovano, benchè in altro senso (per peiero si disse anche periero e periuro). Così iuratus, coniuratus ec. in sensi analoghi. Exanimus e inanimus debbono esser contrazioni di exanimatus e inanimatus, che pur si trovano. Similmente semianimus di un semianimatus dal semplice animatus. Innumerus debb’esser contrazione di un innumeratus dal semplice numeratus, con significato d’innumerabilis, come invictus per invincibilis e tanti altri simili, di cui altrove, e v. il Forc. in illaudatus. Queste contrazioni aggiungansi al detto d’inopinus necopinus ec. dove si prova che anche in latino vi fu il costume di contrarre il participio della prima colla detrazione delle lettere at, costume frequentatissimo nell’italiano anche in voci per niente latine di origine. (27.-28. Maggio. 1824.).

Non solo gli antichi avevano tanto alta idea della natura umana che la stimavano poco inferiore alla divina, come ho detto altrove parlando de’ semidei, ma credevano ancora le anime nostre parenti, emanazioni, parti della divinità, divine esse stesse, e quasi dee (τὸ ἐν ἡμῖν θεῖον). Della quale opinione non già volgare, anzi propria de’ filosofi, e questi molti e diversi, vedi fra i mille luoghi degli antichi, Cic. de Divin. l. i. c. 30. 49. l. 2. c. 11. 58. Virg. Georg. l. 4. v. 219. sqq. e quivi Servio ec. (28. Maggio. 1824.). Cic. de nat. deor. l. i. c. 11. 12. Vedilo anche ib. 2. c. 53. fin. 62. principio.

Diminutivi greci positivati. κυψέλη-κυψέλιον, κυψελὶς ίδος. V. Scap. e Luciano in Lexiphane p. 2. (29. Maggio. 1824.).

Il tale rassomigliava i piaceri umani a un carcioffo, dicendo che conveniva roderne prima e inghiottirne tutte le foglie per arrivare a dar di morso alla castagna. E che anche di questi carcioffi era grandissima carestia, e la più parte di loro senza castagna. E soggiungeva che esso non volendosi accomodare a roder le foglie si era contentato e contentavasi di non gustarne alcuna castagna. (30. Maggio. Domenica. 1824.).

Rassomigliava qualunque (Comparava ogni) piacere umano a un carcioffo dicendo che ne bisogna rodere e trangugiare tutte le foglie volendo arrivare a dar di morso nella castagna, e che di questi carcioffi è carestia grandissima, ed anche la maggior parte di loro è sole foglie senza castagna. E soggiungeva che esso non si potendo accomodare a ingoiarsi le foglie ec. (31. Maggio. 1824.).

Ἔτι γὰρ τοῦτό μοι τὸ λοιπὸν ἦν ci mancherebbe questo. Idiotismo comune al greco e italiano. Lucian. opp. 1687. t. i. p. 787. init. V. Crus. e Forcell. in supersum se hanno nulla. — παρ' ὅσον in quanto che. V. Lucian. ib. 786. e lo Scap. ec. modo pur comune, e del quale o cosa simile ho detto anche altrove. (31. Maggio. 1824.).

Diminutivi positivati. Vedi Creuzer Meletemata e Disciplina antiquitatis Lips. 1817. sqq. par. 3. p. 112. lin.28. p. 130. lin.23-24. dove però s’inganna quanto al supporlo necessario, perchè non sempre questi tali sono diminutivi, come ho provato altrove coll’esempio di iaculum, speculum ec. (1. Giugno. 1824.).

Sisto in vece di venire dal greco ἱστάω, come si crede e ho detto altrove, ben potrebbe venire da sto per duplicazione, non ignota neppure ai latini (come usitatissimo fra i greci), massime antichi, come ho mostrato altrove coll’es. di titillo da τίλλω, e dei perf. cecidi ec. ec. E la mutazione della coniugazione dalla prima nella terza, sarebbe appunto come nei composti di do (del che pure altrove) anch’esso monosillabo come sto. E quanto al significato e all’uso ec. chi non vede l’analogia fra sto e sisto? (1. Giugno. 1824.).

Il tale diceva non esser ben detto quel che si afferma comunemente che basta l’apparenza p. e. a un letterato per essere stimato, benchè manchi della sostanza. Ora l’apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perocchè la sostanza senza l’apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l’apparenza colla sostanza non fa nè ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza. (1. Giugno. 1824.).

Chi vuol vedere la differenza che passa tra l’antica filosofia e la moderna, e quel che di questa ci possiamo promettere, le consideri ambedue sul trono, cioè ἐξουσίαν λαβούσας, la quale non hanno i filosofi privati. Ora se egli è vero che la qualità d’ogni cosa non d’altronde si conosca meglio e più veramente che dagli effetti, da quelli de’ principi filosofi si dovrà giudicare delle due filosofie meglio che da’ privati, i quali hanno per necessità più parole che effetti, o effetti più deboli, e più desiderii e progetti che esecuzioni, perchè quel che vogliono, massime in cose grandi e rilevanti, nol possono. Paragoninsi dunque fra loro Marcaurelio e Federico, ambedue, si può dire, perfetti nella rispettiva filosofia, ambedue filosofi in parole e in opere, e corrispondenti ne’ loro fatti alle loro massime. E si troverà quello in un secolo inclinante alla barbarie essere stato il padre de’ suoi popoli ed esempio di virtù morali d’ogni genere anche a’ privati ed a tutti i tempi. Questo in un secolo sommamente civile essere stato il maggior despota possibile, il più freddo egoista verso i suoi popoli, il più indifferente al loro bene e curante del proprio, e solito e determinato ad antepor questo a quello, il maggior disprezzatore dico ne’ fatti e in parte eziandio ne’ detti, della morale in quanto morale, della virtù in quanto virtù, e del giusto come giusto; in somma, se non il più vizioso (chè egli non l’era per calcolo), certo il men virtuoso principe del suo tempo, e forse di tutti i tempi, perchè non avendo niuna delle virtù che vengono, o vogliamo dir venivano dalla forza della mente, mancava anche di quelle che nascono dalla debolezza (come n’erano in Luigi XV.). Fu anche disaffezionato stranamente alla sua patria, come gli è stato agramente rimproverato dai Tedeschi e fra gli altri da Klopstock, decisamente vago delle cose straniere, e solito d’antepor gli stranieri ai suoi nell’affetto, nella inclinazione e nei fatti. (1. Giugno. 1824.).

Alla p. 4085. Qua si dee riferire il nostro elegante uso di aggiungere il pronome pleonastico nelle frasi indeterminate, coll’ottativo, come, che che egli si voglia, comunque ciò si accada, per quanto egli si dica, non meno che me le sia servitore Caro, lettera a nome del Guidiccioni lett. 35. o neutri o attivi che sieno i verbi. Ne’ quali casi il pronome è sempre dativo ed accidentale al verbo, e s’inganna a partito chi sopra alcuno esempio sì fatto, battezza quel tal verbo per neutro passivo, come par che voglia fare il Rabbi o il Bandiera ne’ Sinonimi v. Affermare, dove allegando il Bocc. Nov. 19. quantunque tu te l’affermi (cioè per quanto tu te lo affermi, maniera indeterminata) e chiamandolo modo toscano, ne cava il verbo affermarselo, verbo nullo, perchè in tale e simili frasi indeterminate tutti o quasi tutti i verbi attivi o neutri passivi possono ricevere questa forma e ricevonla elegantemente (sia ciò proprietà toscana o altrimenti), ma fuor di tali casi in niun modo si direbbe affermarselo o affermarsi, come io mi affermo che tu ec. o egli se lo afferma asseverantemente, (1. Giugno. 1824.); e il luogo del Boccaccio non prova che ciò si possa dire. Chi che si fosse, qual o qualche se ne fosse la cagione, qual si sia o qualsisia, non so chi si fosse che ec. non so che o quello che si faccia o si voglia ec. (2. Giugno. 1824.). V. p. 4103.

Pesado per pesante, que pesa, tanto nel proprio come nel figurato. (2. Giugno. 1824.).

Non si può meglio spiegare l’orribile mistero delle cose e della esistenza universale (v. il mio Dialogo della Natura e di un Islandese, massime in fine) che dicendo essere insufficienti ed anche falsi, non solo la estensione, la portata e le forze, ma i principii stessi fondamentali della nostra ragione. Per esempio quel principio, estirpato il quale cade ogni nostro discorso e ragionamento ed ogni nostra proposizione, e la facoltà istessa di poterne fare e concepire dei veri, dico quel principio. Non può una cosa insieme essere e non essere, pare assolutamente falso quando si considerino le contraddizioni palpabili che sono in natura. L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo esser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno all’uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza. Or l’essere, unito all’infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a se stesso e suo proprio inimico. Dunque l’essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo. La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfezione dell’esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di essere infelice, e compresa in lei); cioè nell’essere, ed essere per necessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e propria. Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagione e principio di essere malamente, come può stare, se il male per sua natura è contrario all’essenza rispettiva delle cose e perciò solo è male? Se l’essere infelicemente non è essere malamente, l’infelicità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemica al suo subbietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che si contiene nella propria essenza e natura di un ente dev’essere un bene per quell’ente. Chi può comprendere queste mostruosità? Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però secondo tutti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa? L’amor proprio è incompatibile colla felicità, causa della infelicità necessariamente, se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la felicità non può aver luogo senz’amor proprio, come ho provato altrove, e l’idea di quella suppone l’idea e l’esistenza di questo.

Del resto e in generale è certissimo che nella natura delle cose si scuoprono mille contraddizioni in mille generi e di mille qualità, non delle apparenti, ma delle dimostrate con tutti i lumi e l’esattezza la più geometrica della metafisica e della logica; e tanto evidenti per noi quanto lo è la verità della proposizione Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione. (2. Giugno. 1824.). — Vedi un’altra evidente contraddizione della natura, e si può dire, in cose fisiche, notata alla p. 4087. e anche nel citato dialogo. (3. Giugno. 1824.).

Καθ' ὅσον in senso simile all’italiano in quanto o in quanto che, del che, e simili altre frasi, ho detto altrove. Luciano opp. 1687. t. i. p. 800. (3. Giugno. 1824.).

Εὐθὺς per primum. Luciano ib. p. 805. (3. Giugno 1824.).

Diminutivi positivati. Radium-rayon. (4. Giugno. 1824.).

Oficio descansado, cioè donde el hombre descansa. Cervantes Novelas exemplares, Milan 1615. p. 192. (4. Giugno 1824.).

A proposito di quel che ho scritto altrove sopra un luogo di Donato ad Terent. relativo al digamma, dove si parla di Davus, anticamente *** ec. notisi che i Greci dicevano infatti Δάος, o Δᾷος o Δᾶος o Δαὸς, e v. Lucian. opp. 1687. t. 1. p. 797. e not. e p. 996. (4. Giugno. 1824.).

En el entretanto que. Cervantes loc. cit. qui sopra, p. 195. (5. Giugno. 1824.).

Divido-diviser. (7. Giugno. 1824.).

In quanto per poichè alla greca, del che altrove in più luoghi. Vedi Bembo opp. t. 3. p. 129. col. 2. fine e Rabbi Sinonimi v. poichè, e Crusca se ha nulla. (9. Giugno. 1824.).

Altro per nulla ec. V. Caro Lettera a nome del Guidiccioni, lett. 15. fine. finchè non ho altro in contrario (modo comunissimo: avere o non avere altro in contrario, coll’interrogazione o positivo ec.), lett. 7. fine. senza darne altra (niuna) notizia al Padrone . (10. Giugno. 1824.).

Rilevato per rilevante, e così relevado in Cervantes Novelas exemplares. Milan 1615. p. 252. (11. Giugno. 1824.).

Hasta tanto come in ital. fino a tanto ec. di cui altrove. Cervantes loc. cit. qui sopra, p. 263. (11. Giugno. 1824.).

Illustratus per illustris, il participio per l’aggettivo. V. l’index latinitatis a Cic. de rep. e il Forcell. (12. Giugno. 1824.).

Il tale negava che si potesse amare senza rivale. E domandato del perchè, rispondeva: perchè sempre l’amato o l’amata è rivale ardentissimo dell’amante (del proprio amante). (13. Giugno. Domenica della SS. Trinità. 1824.).

Ἐχτὸς εἰ μὴ. Lucian. op. 1687. t. 2. p. 28. verso il fine. p. 31. princip. (14. Giugno. Vigilia di S. Vito Protettore di Recanati. 1824.).

Al detto altrove della somma facoltà e fecondità della lingua greca, non ancora esaurita nè spenta, aggiungi che oggidì chi vuol sostituire al suo proprio qualche nome finto espressivo di qualche cosa, o dar nome significativo a qualche personaggio immaginario, come Moliere nel Malato immaginario, nei nomi de’ medici, o nominar qualche nuovo essere allegorico, o nuovamente nominare i già consueti ec. ec. non ricorre ordinariamente ad altra lingua (qualunque sia la sua propria, in tutta l’Europa e America civile) che alla greca. (15. Giugno. Festa di S. Vito Protettore di Recanati. 1824.).

Τὸ μὲν γὰρ πρῶτον εὐθὺς. Luciano opp. 1687. t. 1. p. 41-42. (16. Giugno. Vigilia della Festa del Corpus-Domini. 1824.).

Ὅσον ἐν τῷ πλῷ quanto, per ciò che spetta alla navigazione. Luciano loc. cit. qui sopra. p. 34. (16. Giugno. Vigilia della Festa del Corpus-Domini. 1824.).

Tutto quanto, tutti quantiπᾶν ὅσον, πάντες ὅσοι, μικρὸν ὅσον, μύριοι ὅσοι, ὀλίγοι ὅσοι, πλεῖστον ὅσον ec. ec. V. lo Scapula ec. ec. (20. Giugno. Domenica. 1824.).

Alla p. 4099. Qua spetta il nostro idiotismo sempre comune tra noi, massime nello scritto, dal 300 a oggi, di aggiungere il si (dativo) al verbo essere. Questo si è, questa si fu la cagione ec. (21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga. 1824.).

Ficulneus — ficulnus appo Orazio, e nóta che l’us vi è breve. (21. Giugno. Festa di S. Luigi Gonzaga. 1824.).

Experimentado per esperto, come noi sperimentato ed esperimentato, del che altrove. Cervantes Novelas exemplares. p. 354. Milan 1615. 432. (22. Giug. 1824.).

Altro per nulla, cosa alcuna. Guicc. t. 4. p. 50. ediz. di Friburgo: innanzi tentasse altro : e non aveva ancora tentato niente. (23. Giugno. Vigilia di S. Giovanni Battista. 1824.).

Il est aisé de voir la prodigieuse révolution que cette époque (celle du Christianisme) dut produire dans les moeurs. Les femmes, presque toutes d’une imagination vive et d’une ame ardente, se livrèrent à des vertus qui les flattoient d’autant plus, qu’ elles étoient pénibles. Il est presque égal pour le bonheur de satisfaire de grandes passions, ou de les vaincre. L’ame est heureuse par ses efforts; et pourvu qu’elle s’exerce, peu lui importe d’exercer son activité contre elle-même. Thomas Essai sur les Femmes. Oeuvres, Amsterdam 1774. tome 4. p. 340. (24. Giugno. Festa di S. Giovanni Battista. 1824.).

Agnomen, cognomen, coi derivati ec. aggiungansi al detto altrove circa il g premesso a varie voci latine, come nosco agnosco ec. Anche nomen viene da nosco. (25. Giug. 1824.).

Il tale diceva che noi venendo in questa vita, siamo come chi si corica in un letto duro e incomodo, che sentendovisi star male, non vi può star quieto, e però si rivolge cento volte da ogni parte, e proccura in vari modi di appianare, ammollire ec. il letto, cercando pur sempre e sperando di avervi a riposare e prender sonno, finchè senz’aver dormito nè riposato vien l’ora di alzarsi. Tale e da simil cagione è la nostra inquietudine nella vita, naturale e giusta scontentezza d’ogni stato; cure, studi ec. di mille generi per accomodarci e mitigare un poco questo letto; speranza di felicità o almen di riposo, e morte che previen l’effetto della speranza. (25. Giugno. 1824.).

Ἐν τοσούτῳ — intanto, del che altrove. Luciano opp. 1687. t. 2. p. 48. principio, 51. dopo il mezzo. 64. (25. Giugno. 1824.).

Plus le lien général s’étend, plus tous les liens particuliers se relâchent. On paroît tenir à tout le monde, et l’on ne tient à personne. Ainsi la fausseté s’augmente. Moins on sent, plus il faut paroître sentir. Thomas, loc. cit. qui dietro, p. 448. Questo ch’ei dice dei legami di società sostituiti a quei di famiglia, di ristrette amicizie ec. ben puossi applicare all’amore universale sostituito al patrio al domestico ec. (27. Giugno. Domenica. 1824.).

Callado per tacente, come tacitus da taceo itum, del che altrove. Cervantes Novelas exemplares, Milan 1615. p. 431. (27. Giugno. 1824.).

Dilettare-dileticare coi derivati ec. frequentativo o diminutivo alla latina, e può anche aggiungersi agli esempi delle forme frequentative italiane di verbi, da me altrove raccolte[a]

Farneticare.

[Chiudi]. Avvertasi però che ha un significato diverso da dilettare, e forse è corruzione di solleticare, e così diletico, che altrimenti sarà un diminutivo o frequentativo di diletto. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.).

L’infelicità abituale, ed anche il solo essere abitualmente privo di piaceri e di cose che lusinghino l’amor proprio, estingue a lungo andare nell’anima la più squisita ogn’immaginazione, ogni virtù di sentimento, ogni vita ed attività e forza, e quasi ogni facoltà. La cagione è che una tale anima, dopo quella prima inutile disperazione, e contrasto feroce o doloroso colla necessità, finalmente riducendosi in istato tranquillo, non ha altro espediente per vivere, nè altro produce in lui la natura stessa ed il tempo, che un abito di tener continuamente represso e prostrato l’amor proprio, perchè l’infelicità offenda meno e sia tollerabile e compatibile colla calma. Quindi un’indifferenza e insensibilità verso se stesso maggior che è possibile. Or questa è una perfetta morte dell’animo e delle sue facoltà. L’uomo che non s’interessa a se stesso, non e capace d’interessarsi a nulla, perchè nulla può interessar l’uomo se non in relazione a se stesso, più o men vicina e palese, e di qualunque sorte ella sia. Le bellezze della natura, la musica, le poesie più belle, gli avvenimenti del mondo, felici o tragici, le sventure o le fortune altrui, anche dei suoi più stretti, non fanno in lui nessuna impressione viva, non lo risvegliano, non lo riscaldano, non gli destano immagine, sentimento, interesse alcuno, non gli danno nè piacere nè dolore, se bene pochi anni avanti lo empievano di entusiasmo e lo eccitavano a mille creazioni. Egli stupisce stupidamente della sua sterilità e della sua immobilità e freddezza. Egli è divenuto incapace di tutto, inutile a se e agli altri, di capacissimo ch’egli era. La vita è finita quando l’amor proprio ha perduto il suo ressort. Ogni potenza dell’anima si estingue colla speranza. Voglio dire colla disperazione placida, perchè la furiosa è pienissima di speranza, o almeno di desiderio, ed anela smaniosamente alla felicità nell’atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro se medesimo. Ma il desiderio è più spento che sia possibile in un’anima avvezza a vederli sempre contrariati, e ridotta o per riflessione o per abito o per ambedue a sopirli e premerli. L’uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono agli altri. Tutti i piaceri, i dolori, i sentimenti e le azioni che gl’inspiravano le cose dette di sopra, cioè la natura e il resto, si riferivano in un modo o nell’altro a se stesso, e la loro vivezza consisteva in un ritorno vivo sopra se medesimo. Sacrificandosi ancora agli altri, non d’altronde egli ne aveva la forza se non da questo ritorno e rivolgimento sopra di se. Ora senz’alcuna ferocia, nè misantropia nè rancore nè risentimento, senza neppure egoismo, quell’anima già poco prima sì tenera è insensibile alle lagrime, inaccessibile alla compassione. Si moverà anche a soccorrere, ma non a compatire. Beneficherà o sovverrà, ma per una fredda idea di dovere o piuttosto di costume, senza un sentimento che ve lo sproni, un piacere che gliene venga. La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto, e quindi incapacità di tutto, ed annichilamento dell’anima la più grande e fertile per natura.

Questo medesimo effetto che produce la infelicità, lo produce, come ho detto, l’abito di non provare o non vedersi d’innanzi alcuna apparenza di felicità, alcun dolce futuro, alcun piacere grande o piccolo, alcuna fortuna della giornata o durevole, alcuna carezza e lusinga degli uomini o delle cose. L’amor proprio non mai lusingato, si distacca inevitabilmente dalle cose e dagli uomini (fosse pur sommamente filantropo e tenero), e l’uomo abituandosi a non veder nella vita e nel mondo nulla per se, si abitua a non interessarvisi, e tutto divenendogli indifferente, il più gran genio diventa sterile e incapace anche di quello di cui sono capacissimi gli animi per natura più poveri, infecondi, secchi ed inetti. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. giorno mio natalizio. 1824.). Il che sempre più privandolo d’ogni illusione e successo dell’amor proprio, sempre più conferma in lui l’abito di noncuranza, e d’inettitudine e spiacevolezza. Trista condizione del genio, tanto più facile a cadere in questo stato (che certo non è strettamente proprio se non di lui), quanto da principio il suo amor proprio è più vivo, e quindi più avido e bisognoso di lusinghe e piaceri e speranze, meno facile ad apprezzare e soddisfarsi di quelle e quelli che agli altri bastano, e più sensibile alle offese e punture che i volgari non sentono. (29. Giugno. Festa di S. Pietro. dì mio natalizio. 1824.). V. p. 4109.

Φρύσσω o φρύττω- frissonner. Notinsi in questo verbo due cose. La derivazione manifesta dal greco, e la forma diminutiva o frequentativa. (30. Giugno. 1824. Anniversario del mio Battesimo.).

Della lingua universale, o piuttosto scrittura universale progettata da alcuni filosofi, vedi Thomas Éloge de Descartes, Oeuvres, Amsterdam 1774, t. 4. p. 72. (2. Luglio, Festa della Visitazione di Maria Vergine Santissima. 1824.).

Come tutte le facoltà dell’uomo siano acquisite per mezzo dell’assuefazione, e nessuna innata, fin quella di far uso de’ sensi, da’ quali ci vengono tutte le facoltà; insomma, come l’uomo impari a vedere, e nascendo non abbia questa facoltà, benchè egli non si accorga mai d’impararla, e naturalmente creda che ella sia nata con lui, vedi fra gli altri il Thomas loc. cit. qui sopra, p. 59-60. (2. Luglio. dì della S. Visitazione di Maria. 1824.).

C’est ainsi que les grands Hommes découvrent, comme par inspiration, des vérités que les hommes ordinaires n’entendent quelquefois qu’au bout de cent ans de pratique et d’étude; et celui qui démontre ces vérités après eux, acquiert encore une gloire immortelle. Thomas loc. cit. qui dietro, p. 37. Sa géometrie étoit si fort au dessus de son siècle qu’il n’y avoit réellement que très peu d’hommes en état de l’entendre. C’est ce qui arriva depuis à Newton; c’est ce qui arrive à presque tous les grands hommes. Il faut que leur siècle coure après eux pour les atteindre. Id. ib. not. 22. p. 143. (2. Luglio. Festa della Visitazione di Maria Santissima. 1824.).

Alla p. 2811. marg. E così anche δείδω potrà esser fatto da un preterito di δέω o δέομαι, da δέδια ec. (2. Luglio. Festa della Visitazione della Beatissima Vergine Maria. 1824.).

Alla p. 4008. fine. Così il bul in bbi, (nebula, nebbia), ec. Insomma generalmente l’ul in i, con duplicazione della consonante precedente, se la sillaba in latino è pura come in ne-bu-la , e non impura, come in misculare ( mi-scu-lare ), onde si fa mi-schi-are , e non mis-cchi-are . (3. Luglio. 1824.).

Alla p. 4108. Come l’uomo non è capace d’imprender nulla che non abbia in qualunque modo per fine se stesso, così i cattivi successi continui in quanto a se stesso, o la continua mancanza di successi qualunque dell’amor proprio, scoraggisce naturalmente l’uomo dall’intraprender più nulla, nè anche il sacrifizio di se stesso, e lo rende incapace e inabile a tutto per la mancanza di coraggio. Lo scoraggimento è proprio e facile sopra tutto agli animi dilicati e grandi. (3. Luglio. 1824.). V. p. seg.

Anche tra i greci fu in uso in certi luoghi lo spettacolo di combattenti mercenarii. V. Luciano sulla fine del Toxaris sive de Amicitia, opp. 1687. t. 2. p. 72. Furono poi introdotti a’ tempi romani in alcune città greche (d’Asia o d’Europa) i circhi e i ludi gladiatorii usati in Roma. E forse di questi tempi intende Luciano di parlare, anzi certo, poichè dal resto del Dialogo apparisce che egli finge il Dialogo a’ tempi romani. Del rimanente, v. Fusconi Dissertat. de Monomachia Rom. 1821. p. 9. not. 43. (4. Luglio. Domenica. 1824. infraottava della Visitazione di Maria Vergine Santissima.). V. anche Luciano 2. iii .

Calcagna (4. Luglio. 1824.).

Alla per antecedente. Un tal uomo ha tanto coraggio a operare o a risolversi di operare quanto chi è certo o quasi certo di non conseguire il fine di una operazione particolare. (4. Luglio. Domenica infraottava della Visitazione. 1824.).

Il titolo di divino (divinamente ec.) solito darsi in greco, in latino e nelle lingue moderne per una conseguenza dell’uso di quelle, agli uomini e alle cose singolari, eccellenti ec. ancorchè in niente sacre nè appartenenti alla Divinità, non avrebbe certamente avuto mai principio nè luogo nel Cristianesimo. Esso uso è un residuo dell’antica opinione che innalzava gli uomini poco più sotto degli Dei ec., del che altrove in più luoghi. (6. Luglio. 1824.).

Al detto altrove circa l’uso latino conforme all’italiano di usare pleonasticamente il pronome dativo sibi, v. anche il Forcell. in mihi, tibi, nobis e simili altri dativi di pronomi personali. (7. Luglio. infraottava della Visitazione di Maria Vergine Santissima. 1824.).

Diminutivi positivati. Sommolo. V. la Crusca . (7. Luglio. 1824.).

Expérimenté (instruit par l’expérience) inexpérimenté (qui n’a point d’expérience). (11. Luglio. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Myrtus, – mortella (se è però la stessa pianta). V. franc. spagn. ec. ec. (11. Luglio. Domenica. 1824.).

Quando noi diciamo che l’anima è spirito, non diciamo altro se non che ella non è materia, e pronunziamo in sostanza una negazione, non un’affermazione. Il che è quanto dire che spirito è una parola senza idea, come tante altre. Ma perocchè noi abbiamo trovato questa parola grammaticalmente positiva, crediamo, come accade, avere anche un’idea positiva della natura dell’anima che con quella voce si esprime. Nel metterci però a definire questo spirito, potremo bene accumulare mille negazioni o visibili o nascoste, tratte dalle idee e proprietà della materia, che si negano nello spirito, ma non potremo aggiungervi niuna vera affermazione, niuna qualità positiva, se non tratta dagli effetti sensibili, e quindi in certa guisa materiali, (il pensiero, il senso ec.) che noi gratis ascriviamo esclusivamente a esso spirito. E quel che dico dell’anima dico degli altri enti immateriali, compreso il Supremo. (11. Luglio. Domenica. 1824.). — Tanto è dire spirituale, quanto immateriale; questa, voce affatto negativa grammaticalmente, quella ideologicamente. (11. Luglio. Domenica. 1824.).

Diminutivi greci positivati. στύπη o στύππη-στυππεῖον o στυπεῖον V. Scapula e Luciano opp. Amsterdam 1687. t. 2. p. 98.99. più volte. (12. Luglio. 1824.).

Sensato per sentito o per sensibile (come invitto per invincibile ec. del che altrove) quasi da un senso as continuativo di sentio sensum, vedilo nella Crusca. Vedi ancora Forcell. Gloss. ec. (14. Luglio. 1824.).

Al detto altrove che i derivativi latini si formano dagli obbliqui e non dal retto dei nomi originali, aggiungi una prova evidente più che mai Jovialis e simili da Juppiter Jovis. (Vi saranno ancora altri simili esempi da simili nomi). Così in greco Διιὸς da Ζεὺς Διὸς. ( Plat. in Phaedro ec.) (14. Luglio. 1824.). Anche in greco i derivativi sono sempre, se non erro, dal genitivo (o noto o ignoto, o di un dialetto o comune ec.) φυσικὸς non è da φύσι-ς (gen. φύσεως) ma o da φύσι-ος (genit.), o piuttosto è come μουσ -ικὸς da μοῦσα ec. ec. (15. Luglio. 1824.).

Diminutivi positivati. γόνυ-γονάτιον. (V. Lucian. opp. 1687. 2. 83.) γουνὶς ίδος. Così ginocchio è diminutivo positivato di genu. (14. Luglio. 1824.).

Descansado, che ha riposato, detto di persona. Cervantes, Novelas exemplares, Milan. p. 580. (15. Luglio. 1824.).

Adultus o venga da adolesco o da adoleo è originariamente participio neutro passato, di un verbo neutro. (15. Luglio. 1824.).

Diminutivi positivati. Muscus–muschio.

Desatentado. Cervantes loc. cit. qui sopra p. 605. (16. Luglio. 1824.).

Entreabrir, entre oscuro ( Cervantes loc. cit. qui dietro, p. 588.) e simili (v. il Diz. spagnuolo in entre...) aggiungasi al detto altrove dell’antico uso d’inter per fere ec., conservato ne volgari moderni. Così in franc. entrevoir ec. ec. (16. Luglio. 1824.).

Apercebido, di cui altrove, notisi che non è participio di verbo neutro, ma attivo, ed è participio passivo. (17. Lugl. 1824.).

Del bello esterno come sia relativo vedi un luogo insigne di Cicerone De Natura Deorum 1. 27-29.(19. Luglio. 1824.).

Diminutivi greci positivati. σάκχαρ-σακχάριον. (20. Luglio 1824.).

Frequentativo. Tâter — tâtonner coi derivati. (20. Lugl. 1824.).

Diminutivi positivati. Capella, capretta coi derivati, metafore ec. Così oveja (ovicula) per ovis. Così ouaille ec. Così vitello per vitulus. Così agnello, agneau per agnus. Così mulet per mulus. Così asellus per asinus. Così femelle per femina di bestie. (v. Forc. in Femella ). Così catellus per catulus. Così uccello, augello ec. oiseau, per avis. Così poulet per pullus. Così noi muletto, muletta. (V. la Crusca.) Così usignuolo, rosignuolo ec. rossignol franc. (v. gli spagnuoli e Forcellini in Lusciniola) per luscinia. Così cardellino, cardelletto, calderugio, caderino, calderello (v. gli spagnuoli e i francesi) per carduelis. Così poisson per piscis. Così taureau per taurus. (v. la Crus. in torello se ha niente a proposito). ec. ec. (22. Luglio. 1824.). Così chiocciola ec. Così allodola, lodola ec. (v. spagnuoli e francesi) per alauda. Così ποίμνιον, προβάτιον ec. Così hirondelle, pecchia, abeille ec. struzzolo, passereau, passerculus, στρουθίον ec. Così forse anche nei nomi di piante, come bietola ec., e d’altri generi di cose naturali, usuali ec. (22. Luglio. 1824.). V. p. 4115.

Diminutivi greci positivati. κάλως-καλώδιον. V. Scap. (22. Luglio 1824.).

Al detto altrove delle porpore ec. in proposito di vermiglio, aggiungi κάλχη che è quel donde si fa il colore, come vermis, e κάλχιον diminutivo che è quel che si tinge, come vermiglio. V. lo Scapula. (22. Luglio. 1824.).

Coltare, coltato da colo-cultum. V. la Crusca, e il Gloss. Forcellini, Dizionari franc. e spagn. (23. Luglio. 1824.).

Immensus, smisurato ec. per immensurabile. (24. Lugl. 1824.).

Amaricare frequentativo alla latina, come fodicare ec. V. Crus. Forcell. ec. ec. (24. Luglio. 1824. Vigilia di S. Giacomo Apost.).

Diminutivi greci positivati. Κὼς o κῶας o κῶος κωΐδιον o κῴδιον, κωδάριον. V. i Lessici, e Luciano opp. 1687. init. Galli, t. 2. p. 158. fine. (24. Luglio. 1824. Vigilia di S. Giacomo Apostolo, mio omonimo.).

Ἐν ἀρχῇ εὐθὺς τοῦ ec. Luciano ib. p. 165. (24. Luglio. 1824. Vigilia di San Giacomo Apostolo.).

Absortar da absorbeo. Cervantes Novelas exemplares. Milan 1615 p. 733. (27. Lugl. 1824.).

Verbo diminutivo. Rado-rasum-raschiare. (27. Luglio. 1824.).

Diminutivi positivati. Chorea, carola, caroletta, quasi choreola. V. il Forc. e gli etimologisti, e nóta che carola è propriamente ballo tondo, com’era quello dei cori, onde χορεία, χορεύειν, e chorea ec. (27. Luglio. 1824.).

Un notabile esempio di verbo continuativo usato in senso affatto continuativo ec. vedilo in Cic. de Nat. Deor. 2. 49. fine, ut in pastu circumspectent. (29. Luglio. 1824.).

Alla p. 4114. principio. Così cornacchia, corneille ec. per cornix; araneola, araneolus (v. gli spagnuoli) per aranea, araneus; ἀράχνιον; ranocchio, grénouille ec. per rana. (29. Luglio. 1824.).

Τοσοῦτον ἄρα ἐδέησάν με - ἀπαλλάξαι, ὥστε καὶ -ἐνέβαλον. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 189. fine. (29. Luglio. 1824.).

Inauditus per qui non audit. V. Forc. Odorus, inodorus per qui odoratur ec. (odorus ec. è lo stesso che odoratus ec.) in senso abituale. V. Forcellini . (2. Agosto, secondo dì del Perdono. 1824.).

Θαρρῶ τι ποιεῖν — mi rincuoro, mi assicuro, ec. di fare una cosa, cioè confido di poterla fare. V. Lucian. opp. 1687. 2. 226. lo Scap. ec. Un altro italianismo vedilo ib. p. 884. fin. dove ἐπὶ κεφαλαίῳ τῶν πόνων credo ben che sia la vera lezione ma falsissima la interpretazione del Grevio, e tengo che significhi al cabo de los trabajos , come noi pur diciamo in capo a o di, cioè in termine, alla fine di. (5. Agos. 1824.).

Percussare. Crusca. (6. Agosto. 1824.).

Alla p. 4089. Clepo-cleptum onde clepso is, ben potrebbe esser esso l’origine del gr. κλέπτω in vece che viceversa, come apo di ἅπτω ec. O se ciò in clepo non si ammette, neppure in apo, sebbene di questo veggiamo anche in latino il continuativo apto, laddove clepto, onde κλέπτω, non sarebbe stato conservato dai latini. Del resto clepso is potrebb’essere un continuativo anomalo di clepo da clepsum per cleptum, come vexo da vexum per vectum ec. del che altrove. (10. Agos. 1824.).

Dell’amor dei vecchi alla vita v. il capo 118. di Stobeo (ed. Gesn.) Laus vitae , e massime il luogo di Licofrone. (10. Agos. Festa di San Lorenzo Martire. 1824.).

Καὶ τὸ δῆγμα λαθραῖον, ὅσῳ (in quanto che, cioè poichè ἐπεὶ) καὶ γελῶν ἅμα ἔδακνε. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 236. (10. Agos. Festa di San Lorenzo Martire. 1824.).

Vinciturus. Forc. in Vinco fin. (12. Agosto. 1824.).

Dissimulatus in senso attivo. Forcell. (12. Agos. 1824.).

Reconocido per riconoscente. Omisso per que omite, trascurato. Nota che il participio di omitir, se vi ha questo verbo in ispagnuolo, è omitido. Idea de un Principe politico Christiano representada en cien empresas por Don Diego de Saavedra Faxardo. Amstelodami. Apud Joh. Janssonium iuniorem 1659. p. 115. lin. 23. Trascurato, straccurato ec. per che suol trascurare, negligente ec. (13. Agosto. 1824.).

Πωγώνιον diminutivo positivato per πώγων. Lucian. opp. 1687. p. 263. t. 2. Anzi è aggiunto all’aggettivo μακρὸν. Forse però è disprezzativo, e così, o come un diminutivo positivato di θώραξ, intendo nella per antecedente verso il fine la parola θωράκιον, piuttosto che nel senso distinto che lo Scap. le attribuisce, il quale non debbe esser proprio se non degli Scrittori militari, se pur nello Scap. lorica sta per arma di uomo, e non per riparo murale ec. Vedilo. Πωγώνιον non è dello Scapula, nè del Tusano, Budeo, Schrevelio. (13. Agosto. 1824.). Σωμάτιον. V. lo Scap. , Longino sect. 9. p. 24. e quivi il Toup. p. 174. ec. (14. Agos. Vigilia dell’Assunta. 1824.).

Ὅμηρος γάρ μοι δοκεῖ... τοὺς μὲν ἐπὶ τῶν Ἰλιακῶν ἀνθρώπους, ὅσον ἐπὶ τῇ δυνάμει, θεοὺς πεποιηκέναι, τοὺς θεοὺς δὲ ἀνθρώπους. Longin. sect. 9. ed. Toup. Oxon. 1778. p. 21. (14. Agos. Vigilia dell’Assunzione di Maria Santiss. 1824.).

S’enquérir (inquirere). Al detto di quaerito. (17. Agos. 1824.).

Vermiglione, vermillon. Al detto di vermiglio.

Verbo diminutivo o frequentativo. Trembloter. (17. Agos. 1824.).

Καταρχὰς εὐθὺς. Lucian. init. lib. De Gymnas. (17. Agos. 1824.). εὐθὺς ἐν ἀρχῇ. t. 2. p. 536.

Scappare-scapolare.

Uomo ben considerato , per savio, prudente ec. Tacit. Davanz. Stor. l. 3. c. 3. (18. Agos. 1824.).

Ἐξαρχῆς εὐθὺς. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 280.

Della pretesa αὐτοχθονία degli ateniesi ed attici, v. Luciano l. c. e quivi la nota. (19. Agosto. 1824.).

Retinere per ricordarsi, del che altrove, è anche dei francesi, e vedi gli spagnuoli. (24. Agos. Vigilia di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.).

Delle idee concomitanti annesse a certe parole, del che dico altrove, v. Thomas, Essai sur les Éloges, chap. 7. fin. p. 78. oeuvres t. 1. Amst. 1774. Dell’influenza della letteratura e filosofia sulla lingua, e della formazione della lingua latina ib. p. 112-6. chap. 10. (25. Agosto. Festa di S. Bartolomeo Apostolo. 1824.). e p. 214-215.

Resabido, spagnuolo, saputo, saputello ec. per saccente, cioè sapiente, che sa, ec. V. la Crus. ec. (25. Agos. 1824.).

Compassione nata dalla bellezza anche verso chi per molti capi non la merita, perpetuata anche nella posterità che si stima esser sempre un giudice giusto. Vedi Thomas loc. cit. qui dietro, chapitre 26. p. 46-47. (26. Agos. 1824.).

Delle vicende della lingua francese, v. Thomas l. c. chap. 28. p. 85-97. (26. Agosto. 1824.).

Ἐκτὸς εἰ μὴ. Lucian. opp. 1687. t. 2. p. 306. principio. (28. Agosto. 1824.) p. 516.

Πλὴν ὅσον se non quanto per se non che ec. V. un luogo di Eliodoro nelle Var. Lez. del Mureto l. 9. c. 4. Il luogo è delle Etiopiche lib.3. (28 Agos. 1824.).

Εὐθὺς ἐξ ἀρχῆς. Senofonte ἀπομνημονευμάτων l. 1. cap. 2. par. 39. (29. Agosto. Domenica. 1824.). Luciano 2. p. 545.

Pendo-penso as, pesare, pesar, peser.

Declamitare. (31. Agosto. 1824.).

Ἐν τούτῳ in questo, in questa (avverbio), en esto. Senof. loc. sup. cit. l. 2. c. 1. par. 27. init. Lucian. t. 2. p. 638. 652. (1. Sett. 1824.).

Εὐθὺς per luego, ib. c. 6. par. 32. luogo notabile, non inteso dal Leunclavio. (1. Sett. 1824.).

Perpétuel, éternel ec. non sono diminutivi positivati, come dico altrove, ma vengono da perpetualis, aeternalis ec. (2. Sett. 1824.).

Ἐθέλειν per δύνασθαι ec. V. Senofonte ἀπομνημονευμάτων l. 3. cap. 12. par. 8. fin. del capo. (3. Settembre. 1824.).

Dispettare, rispettare, respecter ec. da despicio despectum ec. (3. Settembre. 1824.).

Osservato per osservante. V. la Crusca. (5. Sett. 1824. Domenica.).

Observito as. Forcellini. (5. Sett. Domenica. 1824.).

Ὡς γὰρ συνελόντι εἰπεῖν, οὐδὲν ἀξιόλογον ἄνευ πυρὸς οἱ ἄνθρωποι τῶν πρὸς τὸν βίον χρησίμων κατασκευάζονται. Socrates ap. Xenoph. ἀπομν. IV. 3. 7. (7. Sett. Vigilia della Natività di Maria Vergine SS. 1824.).

Αὐτίκα per primum o verbigratia, luogo notabile. Senof. ἀπομν. IV. 7. 2 (7. Sett. Vigilia della Natività di Maria Vergine Santissima. 1824.).

A quello che ho detto altrove sul proposito che tra gli antichi felicità e bontà si stimavano per lo più o sempre congiunte, e per lo contrario infelicità e malvagità, v. fra l’altre cose Senofonte nel fine dei Memorabili e dell’Apologia dove prova che Socrate fu fortunato nella morte, mostrando che il provare la sua felicità anche a’ suoi tempi era parte e forma di apologia e di lode. E mille altri esempi se ne trovano negli antichi, chi ha pratica di loro ed osserva bene. (7. Sett. 1824.).

Cura spagn. per curato. V. un es. simile di Ovid. e altri nel Forcell. in Cura fine. (11. Sett. 1824.).

Curato, curé per qui curat, curator. (11. Sett. 1824.).

Ὀλίγου δεῖν ec. — la lunghezza di lei di poco non aggiugne a cento miglia . Porzio Congiura de’ Baroni ec. Lucca 1816. lib.1. p. 35.

Ἐκτὸς εἰ μὴ Luciano opp. 1687, t. 2. p. 338. mezzo. (15. Sett. 1824.).

Della stolta opinione che negli animali la natura sia stata più larga di bellezza a’ maschi che alle femmine, come è ragione, ma negli uomini per lo contrario, il che è assurdo, e nasce questa opinione dalla idea del bello assoluto, e dal credere che assolutamente sia bellezza maggiore quella che a noi per cagioni relative par tale, onde il donnesco è chiamato il bel sesso, laddove se le sole donne giudicassero, o chi non fosse donna nè uomo, chiamerebbe senza dubbio bello il sesso degli uomini maschi, come negli altri animali, vedi il Tasso Dial. del Padre di famiglia, opp. Venezia 1735. ec. vol. 7. p. 379. che è prima del mezzo del Dialogo. (15. Sett. 1824.).

Ἑλκόμενοι τῆς ῥινός. Luciano opp. 1687. t. 2. p. 342. (16. Sett. 1824.).

Diminutivi greci positivati. Ὀθόνη - ὀθόνιον. V. ib. 350. e notisi che Luciano è solito usare tali positivazioni. (16. Sett. 1824.).

Αὐτίκα per primum. Luciano ib. 363. fine (19. Sett. Festa di Maria Vergine Santissima Addolorata. 1824.) 666. 669. Plato Lugd. 1590. p. 745. B. 744. G.

Sentimenta. (20. Sett. 1824.). Vizia, moggia.

Sedeo es, sido is — sedo as. (21. Sett. 1824.).

Necessitado per bisognoso, que necessita. (22. Sett. 1824.).

Verberito as. (22. Sett. 1824.).

Lucian. 2. 385. παρ' ὅσον — se non quanto, eccetto che. Male l’interprete. Bene p. 559. παρ' ὅσον nisi quod.

Diciamo volgarmente quanto per solo, come un po’ d’acqua quanto per estinguere la sete ec. Così in greco ὅσον, e οὐχ ὅσον non solo. (25. Sett. 1824.).

Τῆς ῥινὸς ἕλκεσθαι. Luciano 2. 389.

Πάντα ἐν βραχεῖ — in breve, brevemente, (cioè in una parola, uno verbo, e non brevi temporis spatio, come l’interprete) ogni cosa. Luciano 2. 390. 361. 567. e ivi not. Di tal frase greco-italiana, altrove. (25. Sett. 1824.).

Turbo–tourbillon, diminutivo positivato. (29. Sett. Festa di S. Michele Arcangelo. 1824.).

Simulato, dissimulato, disimulado ec. per che simula ec. V. Forcell. e i Diz. spagnuoli e francesi. (30. Sett. 1824.).

For, fatum-fator fataris. (1. Ott. 1824.).

Πλὴν παρ' ὅσον se non quanto, eccetto che. Lucian. 2. 455. fine.

Βαστάζω — bastasiare, bastaggiator oris. Voci latino-barbare usitate negli annali antichi e carte antiche pubbliche di Recanati, per facchino ec. Basto sost. viene dalla stessa fonte. V. Forc. Gloss. Crus. ec. (3. Ott. Festa di Maria Vergine Santissima del Rosario. Domenica. 1824.).

Εὐθὺς ἐν τῇ πρώτῃ ἐπιβάσει. Lucian. 2. 496. (4. Ott. 1824. Festa di San Francesco di Assisi.). Εὐθὺς τὸ πρῶτον. ib. 500. fine.

Παρ' ὅσον, ἐς ὅσον — in quanto, poichè. Lucian. 2. 510. 512.

Ἐν τοσούτῳ — intanto. Luciano 2. 507. (6. Ottobre. 1824.). 536.557.640.

Storno-stornello, étourneau — (sturnus). V. gli spagnuoli. (8. Ottobre. 1824.).

Ρυτὶς ίδος probabilmente diminutivo positivato — ride (franc.). (10. Ott. 1824.).

Non solo, come ho detto altrove, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo si credette e si crede essere il non plus ultra dei progressi dello spirito umano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime la sua civilizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superate dai posteri, certo non dai passati. (10. Ott. Domenica. 1824.). V. la p. 4124. Così non v’è nazione nè popoletto così barbaro e selvaggio che non si creda la prima delle nazioni, e il suo stato, il più perfetto, civile, felice, e quel delle altre tanto peggiore quanto più diverso dal proprio. V. Robertson Stor. d’America, Venez. 1794. t. 2. p. 116. 232-33. Così le nazioni mezzo civili, o imperfette, anche in Europa ec. E così sempre fu. (15. Ottobre. Festa di Santa Teresa di Gesù. 1824.).

Sfidato per diffidente. Crusca. (22. Ottobre. 1824.). Provveduto per provvido, provvidente. Pandolfini, Mil. 1811. p. 114. 169. e altrove, sebbene non così formalmente o evidentemente. V. la Crusca. (22. Ott. 1824.). Biasimato per biasimevole. Pandolfini p. 194. (24. Ottobre. Domenica. 1824.).

Τρίβων-τριβώνιον. (25. Ott. 1824.). Μηλέα μηλὶς ίδος

Τὸ μὲν πρῶτον εὐθὺς ἐλθοῦσαν. Luciano, o di chiunque è il Dialogo, in Fugitivis, t. 2. opp. p. 595. (26. Ott. 1824.).

Οὐτωσὶ ridondante, nel significato e modo che noi pur diciamo, massime toscanamente così, del che mi pare aver detto anche altrove; vedi Luciano, o chiunque è l’autore, nei Fuggitivi, t. 2. opp. p. 598.

Presumido per presuntuoso. (28. Ott. 1824.).

Della pretesa αὐτοχθονία degli Ateniesi vedi Goguet Origine ec. ed. di Lucca 1761. p. 52. not. a. tom.1. (7. Novembre. Domenica. 1824.).

Della invenzione dell’uso del fuoco, della quale ho parlato altrove, quanto fosse difficile e tarda ec. v. Goguet loc. cit. qui sopra, p. 58-60. (7. Nov. Domenica. 1824.).

Diminutivi positivati. Succus, succo-succhio. (10. Nov. 1824.).

Risentito, sentito in senso neutro. V. la Crus.

Καὶ μάλιστα ὅσῳ ec. — massime in quanto o in quanto che ec. Luciano 2. 634. (12. Nov. 1824.).

Issuto, essuto, antichi participii italiani per stato del verbo essere. Aggiungansi al detto altrove di suto, sido ec. (14. Nov. Festa della B. Vergine del Patrocinio. 1824. Domenica.).

Diminutivi positivati. Rastrum–rastello ec. (14. Nov. Festa del Patrocinio di Maria Santissima. 1824. Domenica.).

Scossare da scuotere. Poliziano Orfeo atto I, ed. dell’Affò, verso 14.

Esoso in senso attivo. Guicciard. 4. p. 373. V. Forc.ec. (17. Nov. 1824.).

Altro per niuno. Guicciard. 4. 378. 389. Casa Galateo capo 1. fine. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 239.

Deficere–difettare. (19. Nov. 1824.).

Ἐφόδιον–fodero, usato, in senso di provvisione di città o piazza per assedio, anche dal Botta nella Storia d’Italia libro 7. Ital. 1824. tom.1. p. 514. (19. Nov. 1824.).

Abundado, voce antica spagnuola per abbondante. Saavedra Faxardo, Idea de un principe politico Christiano, Amsterdam 1659. in 16.mo p. 655. 663. bis. (20. Nov. 1824.).

Implicitus, implicatus.

Implicito as. (24. Nov. Festa di San Flaviano Protettore di Recanati. 1824.).

Diminutivi positivati. Nepeta lat. — nepitella ec. ital. , aratrum–aratolo.

Altro per nessuno o ridondante. Guicc. 4. 398. Di quella altra (cioè niuna) dichiarazione v. la pag. preced. di esso Guicc.

Privus per privatus, participio. V. Forc. in privus fine. (30. Nov. Festa di S. Andrea. 1824.).

Vilipeso per disprezzabile. Crusca. Contemtus nello stesso senso. V. Forcell.

Liceor-licitor. (5. Dic. Domenica. 1824.). Solito as.

Dell’italianismo ἐκτὸς εἰ μὴ, πλὴν εἰ μὴ ec. dove il μὴ ridonda, vedi Luciano, Soloeicist. opp. 1687. t. 2. p. 748. nota 1. del Grevio. (6. Dic. 1824. ottava dell’anniversario della morte di mia nonna.).

Gli occhi infra ’l mare sospinse (stando sul lido), cioè nel mare. Bocc. Novella di Mad. Beritola e dei cavriuoli. 30. nov. scelte, Ven. 1770. p. 68.

Andava disposto di fargli vituperosamente morire . Bocc. loc. cit. p. 76.

Trasandato per negligente, che trasanda. (8. Dic. Concezione di Maria V. Santiss. 1824.).

Μηρὸς-μηρίον, diminutivo positivato, (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1824.), poetico. Ἴχνος-ἴχνιον. (10. Dic. Festa della Venuta. 1824.).

Pseudo-Luciano nella fine del Philopatris . ἐδυσχέραινον γὰρ τί τοῖς τέκνοις καταλιπεῖν per καταλίποιμι. Italianismo. (13. Dic. 1824.). V. la p. 4163. capoverso 5.

Altro per alcuna cosa o per nulla in senso di aliquid. V. la Crus. in Altro par. 1. e Bocc. 30. nov. scelte Ven. 1770. p. 173. principio. (18. Dic. 1824.).

Diminutivi positivati. Germen-germoglio, germogliare ec. V. gli spagnuoli e il Gloss. ec. Rejet-rejeton ec. (23. Dic. Antivigilia di Natale. 1824.).

Κλείω-κλεΐζω, κληΐζω, κλῄζω

Diminutivi positivati. Βωμίον per βωμὸς in Luciano, Tragopodagr. p. 812. lin.14. se non è sbaglio di βωμίοις per βωμοῖς, come pare in fatti che voglia il metro, (25. Dic. dì di Natale. 1824.), poichè non credo che ivi Βωμίοις sia aggettivo ed ἐμπύροις sostantivo.

Sfondare-sfondolare coi derivati ec. (30. Dic. 1824.).

Conviso is.

Soverchiare, soperchiare, quasi superculare, da supero as che vale lo stesso. V. il Glossario ec. (2. Gen. 1825.).

Pesado per pesante. E v. la Crus. in pesato. (3. Gen. 1825.).

>Honoratus, honorate per onorevole, onorevolmente, come in italiano.

Honorus per honoratus in senso di honorabilis honorificus. (10. Gen. 1825.).

Che gli uomini siano più inclinati al timore che alla speranza, o provino almeno assai più spesso quello che questa, si può anche dedurre dal considerar la grande abbondanza di parole che hanno le lingue (almeno quelle che io conosco, e in particolare il greco, il latino lo spagnuolo l’italiano e l’inglese) per esprimere il timore, il temere, lo intimorire, lo spaventoso, il timoroso, ec. e i suoi diversi gradi qualità ec. laddove esse lingue non hanno che una parola o al più due per esprimere la speranza, lo sperare ec. e queste stesse voci sono originariamente di significato comune anche al timore, perchè significano solo l’aspettazione del futuro, e però anche del male, in latino in greco, in italiano in ispagnuolo (anche nello spagnuolo moderno) e credo anche in francese e forse pure in inglese antico, del che ho detto altrove. (21. Gennaio. 1825.).

Corpusculum per corpus, come σωμάτιον per σῶμα. V. l’indice dei Papiri diplomatici del Marini . (22. Gennaio. 1825.). V. anche Longin. sect. 9. e ivi il Toup.

Diminutivi positivati. Caudillo.

Εὐθὺς ἐν τῇ εἰσβολῇ τῶν νόμων. Longin. sect. 9. 38. (3. Feb. 1825.).

Digiuna (ieiunia), cioè le 4 tempora (v. Crus. in Digiune ). Dino Compagni Cron. ed. Pisa. 1818. p. 98. (6. Feb. Domenica penultima di Carnevale. 1825.).

Ἔξω per eccetto. Longino sect. 34. (8. Feb. 1825.). ἐκτὸς. Plat. Gorg. p. 328. D. opp. ed. Astii.

Αὐτίκα per luego ec. Procopio Gazeo Proem. scholior. in 1. Reg. in Meurs. opp. t. 8. (11. Feb. 1825.). Platone Gorg. p. 322. D. 354. D. opp. ed. Astii.

Corpusculum per corpus, sebbene con qualche significanza diminutiva o dispregiativa. S. Girolamo ap. Menag. ad Laert. VI. 38 (13. Feb. ultima Domenica di Carnevale. 1825.).

A proposito di quello che altrove ho detto (p. 4120-1.) della opinione avuta da tutti i secoli (e così dalle nazioni) anche i più barbari, di essere superiori in civiltà, in perfezione, anche in letteratura (benchè ignorantissimi), a tutti i secoli precedenti, e a ciascun d’essi, anche civilissimo e letteratissimo, vedi un bel luogo del Petrarca, citato e tradotto elegantemente da Perticari nel Trattato degli Scrittori del 300, lib. 1. capit. 16. p. 92. 93. (14. Feb. 1825.).

Ἐξ ἀρχῆς per rursus, appunto come noi da capo (che altrimenti si disse πάλιν ἐξ ἀρχῆς). V. Flegone de Mirabil. c. 1. ap. Meurs. opp. t. 7. col. 81. lin.32-3. 62. Dissero i nostri antichi anche di ricapo. V. anche Arrian. Alexand. l. 5. c. 27. par. 14. Dissero ancora αὖθις ἐξ ἀρχῆς, come ha lo stesso Arriano l. 5. c. 26. par. 6. ovvero ἐξαρχῆς unito, come in Demost. αὖθις ἐξαρχῆς. Tusano. (15. Feb. ultima di Carnevale. 1825.). V. le mie Observationes a Flegone loc. cit.

Altro ridondante. Ricordano Malespini Cronica o Storia Fiorentina ed. Fir. 1816. di Vincenzio Follini, p. 219. nota 2. al capitolo 12. Ora incomincieremo a dire delle divisioni grandi le quali vennono in Roma tra il popolo minuto e gli ALTRI maggiori (cioè i grandi, i potenti, gli ottimati, i reggenti) di Roma . Appunto alla greca. (17. Feb. primo Giovedì di Quaresima 1825.).

Σωμάτιον per σῶμα. Apollon. Dyscol. Histor. commentit. c. 3. due volte, dove anche 2 volte σῶμα indifferentemente e col senso stesso. (17. Feb. 1825.).

Anche i greci dissero (almeno in tempi alquanto bassi) ὠτάριον auricula per οὖς auris. V. Apollon. Dysc. l. c. c. 28. ex Aristot. V. anche lo Scap. in ὠτάριον e ὠτίον. Vedi pure il Gloss. se ha nulla. (17. Feb. 1825.).

Le prime sillabe di chri-stianisme e di cry-pte si pronunziano al modo stessissimo. Perchè dunque sì diversamente scrivonsi? Ciò non accade certo in italiano (dove, eccetto alcuni pochissimi casi in cui si scrive diversamente per distinzione, come ho, — o, quel che è diversamente scritto, diversamente sempre si pronunzia, e viceversa) e non è da credersi che accadesse nè in latino nè in greco. Questo è un altro dei principali difetti che può avere un’ortografia, che le parole o sillabe ugualmente pronunziate, diversamente si scrivano; e viceversa che le ugualmente scritte si pronunzino diversamente. Il che per ambe le parti accade spessissimo in francese in inglese ec. e anche in ispagnuolo. (18. Feb. 1. Venerdì di Quaresima 1825.).

Trovasi nella storia commentizia d’Apollonio Discolo cap. 24. un tratto il quale fa credere che anche gli antichi conoscessero quella razza d’uomini detti mori bianchi, della quale v. Voltaire opere scelte, Londra (Venezia) 1760. in 3. tomi, tom.5, p. 113[a]. e Robertson Stor. d’Amer. Ven. 1794. tom. 2. p. 125. seg. e che questa razza si trovasse anche in Europa. Vi si cita Eudosso rodio. V. anche Plin. Buffon ec. se hanno cosa in proposito. (18. Feb. 1825.).

Σμηνίον diminutivo per σμῆνος Scap. Così in Apollon. loc. sup. cit. c. 44. σμηνιῶνος, dove forse s’ha a leggere σμηνίωνος da σμηνίων diminutivo V. i grammatici i Lessici e Aristotele nel luogo quivi cit. dall’aut. e dal Meurs.

Verbi attivi richiedenti l’accusativo, usati col genitivo al modo italiano, francese ec. (come mangiar del pane, prendere della tersa). V. Antigono Caristio. Hist. mirabil. c. 40. 41. 44. 56. fine.

Nel detto Antigono c. 56. pare che si trovi καινὸν usato avverbialmente per di nuovo. Il luogo è corrotto e bisogna vederlo nelle ult. edizioni. (20. Feb. Domenica. 1825).

Diminutivi positivati ἤρυγγον-ἠρύγγιον. V. Meurs. ad Antig. Caryst. Mirabil. cap. 115. Κώρυκος-κωρυκὶς. Scap. Πετρίδιον. V. Scap. et Antigon. l. c. cap. 174.

Τιθέναι per efficere, reddere, come in ispagnuolo poner, del che altrove, v. Plat. Gorgia, opp. ed. Astii, tom.1. p. 360. lin. 24. (27. Feb. 1825.).

Mille-mila plur. da millia: e così miglio miglia.

Gerere — belli-gerare, fami-gerare ec.

Altro ridondante. Ricordano Malispini Stor. Fior. Firenze 1816. c. 96. fine. Il Villani nel luogo parallelo lib.5. c. 33. omette altri. (3. Marzo. 1825.).

Ἐμβαλοῦσα εἰς κύλικα τοῦ φαρμάκου , il genitivo per l’accusativo. Herodian. Histor. lib.1. ed. Lugd. 1611. p. 50. (5. Marzo. 1825.).

Diminutivi positivati. Ἀτμὸς-ἀτμὶς ίδος. Scap. ed Erodiano l. c. p. 13. fin. ὅρος-ὅριον.

Σωμάτιον per σῶμα (come dice poco dopo). Erodiano Histor. l. 2. init.

Χωρὶς, ἄνευ per oltre, praeter, come il nostro senza, e il franc. sans, e à moins e lo spagn. sin e a men (o amen) de ec. V. Forcell. se ha nulla ec. (8. Mar. 1825.).

Ferramenta, vasellamenta, e simili, da’ nomi in ento. Comandamenta.

Dalla mia teoria del piacere séguita che l’uomo e il vivente anche nel momento del maggior piacere della sua vita, desidera non solo di più, ma infinitamente di più che egli non ha, cioè maggior piacere in infinito, e un infinitamente maggior piacere, perocchè egli sempre desidera una felicità e quindi un piacere infinito. E che l’uomo in ciascuno istante della sua vita pensante e sentita desidera infinitamente di più o di meglio di ciò ch’egli ha. (12. Marzo. 1825.).

Discordato per discordante, discorde.

Cinta plurale di cinto. Ricordano Malespini c. 162.

Circa l’origine, se non della religione (cioè dell’opinione della divinità), almeno del culto, dal timore v. nell’Abrégé de l’origine de tous les cultes, par Dupuis. Parigi 1821. chap. 4. p. 86-93. come quasi tutti i popoli avendo ammesso due principii, due generi di divinità, le une buone e benefiche, le altre cattive e malefiche, i più selvaggi riducevano o riducono del tutto o principalmente il loro culto alle seconde, ed alcuni anche le stimavano più potenti delle prime, laddove i più civilizzati, (come i Greci nella favola dei Giganti) hanno supposto il principio cattivo vinto e sottomesso dal buono. (19. Marzo. 1825. Festa di S. Giuseppe.).

Improvviso per qui non providit, o non providet, sprovvisto (e questo ancora è piuttosto per chi non ha provvisto che per chi non si è o non è provvisto, e così sprovveduto). Ricordano Malespini. Fir. 1816. c. 49. p. 44. fine. c. 168. p. 134. non provveduto nello stesso senso. Ricordano c. 198. G. Vill. l. 7. c. 24. V. Forc. Crusca ec. (21. Marzo. 1825.).

Gioia-gioiello, jewel (ingl.). Vedi Franc. Spagn. ec. Bush (ingl.) — buisson. V. i Diz. franc.

Porfiado per que porfia. Profuso per che profonde. V. Crus. Forc. spagn. franc. ingl.

Obliviscor da un perduto verbo oblivio-obbliare per obbliviare, mangiato il v al solito, e congiunti i due i in uno, come obblio da oblivium. V. Forc. ec.

Sporgere — sportare. (23. Marzo. 1825.). Che porto as venga da porrigo, contratto il suo porrectus in portus (V. Forcell. ec.) come appresso di noi (porgere — pórto, sporgere — spórto), e come perrectus è contratto in pertus nel despierto e despertar spagn. da espergiscor, del che abbiamo detto altrove? (24. Marzo. Vigilia dell’Annunziazione di Maria SS. 1825.).

Bollito per bollente. Fiorito per fiorente: florido spagn. fleuri.

Particolare, particulier ec. (come chose particulière ec.) si dice spesso per singolare, straordinario, non comune ec. V. questo medesimo uso del greco ἴδιος nelle mie osservazioncelle sugli autori greci de mirabilibus meursiani, p. 9. linea 6. di esse osservazioni e la giunta fattavi in un polizzino. (27. Marzo 1825. Domenica delle Palme.).

Detenido per que se detiene, cunctator (otro detenido Fabio), e così ritenuto ec.

Reprimo is — repressar spagn.

Ciascun vizio per se senza altra cagione (cioè senza estrinseca cagione, senza cagione alcuna di fuori di lui). Casa Galat. c. 28. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 298. (29. Marzo. Martedì Santo. 1825.).

Diminutivi positivati. Vallon franc.

Senza altro pane o biada per senza punto di pane o biada. G. Villani l. 7. c. 7.

Arrojado hombre, Uomo avventato. (2. Apr. Sab. Santo. 1825.).

D. Le plaisir est-il l’objet principal et immédiat de notre existence, comme l’ont dit quelques philosophes? R. Non: il ne l’est pas plus que la douleur; le plaisir est un encouragement à vivre, comme la douleur est un repoussement à mourir. D. Comment prouvez-vous cette assertion? R. Par deux faits palpables: l’un, que le plaisir, s’il est pris au-delà du besoin, conduit à la destruction: par exemple, un homme qui abuse du plaisir de manger ou de boire, attaque sa santé, et nuit à sa vie. L’autre, que la douleur conduit quelquefois à la conservation: par exemple un homme qui se fait couper un membre gangrené, souffre de la douleur, et c’est afin de ne pas périr tout entier. Volney, La loi naturelle, ou Catéchisme du citoyen français, chap. 3. à la suite des Ruines (Les Ruines) ou Méditation sur les Révolutions des Empires, par le même auteur, 4.me édition. Paris 1808. p. 359-360. Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell’esistenza universale, e quello della esistenza umana, o per meglio dire, il fine naturale dell’uomo, e quello della sua esistenza. Il fine naturale dell’uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è nè può essere altro che la felicità, e quindi il piacere, suo proprio; e questo è anche il fine unico del vivente in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare l’esistenza degli altri enti, e in somma il fine dell’esistenza generale, e di quell’ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente in niun modo la felicità nè il piacere dei viventi, non solo perchè questa felicità è impossibile (Teoria del piacere), ma anche perchè sebbene la natura nella modificazione di ciascuno animale e delle altre cose per rapporto a loro, ha provveduto e forse avuto la mira ad alcuni piaceri di essi animali, queste cose sono un nulla rispetto a quelle nelle quali il modo di essere di ciascun vivente, e delle altre cose rispetto a loro, risultano necessariamente e costantemente in loro dispiacere; sicchè e la somma e la intensità del dispiacere nella vita intera di ogni animale, passa senza comparazione la somma e intensità del suo piacere. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere nè la felicità degli animali; piuttosto al contrario; ma ciò non toglie che ogni animale abbia di sua natura per necessario, perpetuo e solo suo fine il suo piacere, e la sua felicità, e così ciascuna specie presa insieme, e così la università dei viventi. Contraddizione evidente e innegabile nell’ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole; ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare, se non negando (giusta il mio sistema) ogni verità o falsità assoluta, e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione, non potest idem simul esse et non esse. Un’altra contraddizione, o in altro modo considerata, in questo essere gli animali necessariamente e regolarmente e per natura loro e per natura universale, infelici (essere — infelicità, cose contraddittorie), si è da me dichiarata altrove.

Del resto l’argomento di Volney vale egualmente contro quello che egli dice essere le but immédiat et direct de la nature (intenderà, credo, la natura dell’uomo), cioè la conservation de soimême , (negando espressamente che le bonheur sia le but immédiat et direct de la nature , bensì un objet de luxe, surajouté à l’objet NÉCESSAIRE ET FONDAMENTAL de la conservation ). Poichè, dato ancora, che è falsissimo, che la propria conservazione sia l’oggetto immediato e necessario della natura dell’animale, certo essa non lo è della natura universale, nè di quella degli altri animali rispetto a ciascuno di loro (il che dee servire anche per il detto di sopra). Anzi il fine della natura universale è la vita dell’universo, la quale consiste ugualmente in produzione conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quindi la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta natura almen tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai più che la conservazione, in quanto si vede che sono più assai quelle cose che cospirano alla distruzione di ciascuno animale che non quelle che favoriscono la sua conservazione; in quanto naturalmente nella vita dell’animale occupa maggiore spazio la declinazione e consumazione ossia invecchiamento (il quale incomincia nell’uomo anche prima dei trent’anni) che tutte le altre età insieme (v. Dial. della natura e di un Islandese, e Cantico del Gallo silvestre ), e ciò anche in esso animale medesimo indipendentemente dall’azione delle cose di fuori; in quanto finalmente lo spazio della conservazione cioè durata di un animale è un nulla rispetto all’eternità del suo non essere cioè della conseguenza e quasi durata della sua distruzione. Similmente mille cose e mille animali che non hanno in niun modo per fine la conservazione di un tale animale, hanno bensì una tendenza assoluta a distruggerlo, o per la conservazione propria o per altro. E ciò s’intenda di individui e di specie. E il numero di tali individui o specie animali o no, tendenti naturalmente alla distruzione di una qualsisia specie o individuo di animale (siccome di quelle tendenti al suo dispiacere) è maggiore di quello tendente alla sua conservazione (siccome al suo piacere).

Del resto che il fine naturale dell’animale non sia la propria conservazione direttamente e immediatamente cioè per causa di se medesima, si è dimostrato nel Dial. di un Fisico e un Metafisico. L’uomo ama naturalmente e immediatamente solo il suo bene, e il suo maggior bene, e fugge naturalmente e immediatamente solo il suo male e il suo maggior male: cioè quello che per tale egli giudica. Se gli uomini preferiscono la vita a ogni cosa, e fuggono la morte sopra ogni cosa, ciò avviene solo perchè ed in quanto essi giudicano la vita essere il loro maggior bene (o in se, o in quanto senza la vita niun bene si può godere), e la morte essere il loro maggior male. Così l’amor della vita, lo studio della propria conservazione, l’odio e la fuga della morte, il timore di essa e dei pericoli d’incontrarla, non è nell’uomo l’effetto di una tendenza immediata della natura, ma di un raziocinio, di un giudizio formato da essi preliminarmente, sul quale si fondano questo amore e questa fuga; e quindi l’una e l’altra non hanno altro principio naturale e innato, se non l’amore del proprio bene il che viene a dire della propria felicità, e quindi del piacere, principio dal quale derivano similmente tutti gli altri affetti ed atti dell’uomo. (E quel che dico dell’uomo intendasi di tutti i viventi). Questo principio non è un’idea, esso è una tendenza, esso è innato. Quel giudizio è un’idea, per tanto non può essere innato. Bensì egli è universale, e gli uomini e gli animali lo fanno naturalmente, nel qual senso egli si può chiamar naturale. Ma ciò non prova che egli sia nè innato nè vero. P. e. l’uomo crede e giudica naturalmente che il sole vada da oriente a occidente, e che la terra non si muova: tutti i fanciulli, tutti gli uomini che veggano da prima il fenomeno del giorno e che vi pongano mente, (se non sono già preoccupati dalla istruzione) concepiscono questa idea, formano questo giudizio, ciò immantinente, ciò immancabilmente, ciò con loro piena certezza: questo giudizio è dunque naturale e universale, e pure non è nè innato (perocchè è posteriore alla esperienza dei sensi, e da essa deriva), nè vero, perocchè in fatti la cosa è al contrario. Così di mille altri errori e illusioni, mille falsi giudizi, in cose fisiche, e più in cose morali, naturali, universali, immancabilmente concepiti da tutti, e ciò con piena certezza di persuasione, e la cui naturalità e universalità non per tanto non prova per niente la loro verità nè il loro essere innati. Conchiudo che l’amore e studio della propria conservazione non è nell’uomo una qualità ec. immediata, ma derivante dall’amore della propria felicità (che è veramente immediato), e derivantene per mezzo di un’idea, di un giudizio (e questo falso), il quale mancando o cangiandosi, l’uomo manca dell’amore della propria conservazione, lo converte in odio della medesima, fugge la vita, segue la morte; il che egli non fa nè può fare mai, nè pure un momento, verso la sua propria felicità, ossia piacere, da un lato, e la sua propria infelicità dall’altro; nè anche quando egli sia pazzo e furioso; nel quale stato bene egli talvolta volontariamente si uccide, ma non lascia mai di amare sopra ogni cosa e proccurare altresì quello che egli giudica essere sua felicità, e sua maggiore felicità. (5-6. Aprile. 1825.).

Sa-v-ona. Molti antichi, come G. Villani (per es. l. 7. c. 23.) Sa-ona, come Faenza anche oggi per Faventia, dicendosi però dal Guicc. e altri antichi Faventino per Faentino, del che altrove. (6. Aprile. 1825.).

Diminutivi positivati. Νόννα-νονὶς. V. Du Cange Gloss. graec. e Fabric. B. G. ed. vet. t. 7. p. 682. not. a. Probabilmente corrotto da Domna (siccome il Nonne dei Francesi), come stima il Du Cange, Gloss. lat. in Nonnus, e non venuto dall’egiziano, come dice il Fabricio, se pure anche in Egitto non si usò questa medesima corruzione, o se ella non fu fatta originariamente in Egitto, cioè nella lingua copta, ma sempre però dalla voce latina Domnus e Domna. (6. Aprile. 1825.). I francesi hanno anche Nonnette, ma Nonne e Nonnette sono ambedue burleschi e disprezzativi al presente, sicchè tra l’uno e l’altro vi ha poca o niuna differenza di significato. (6. Apr. 1825.). — Σχοῖνος-σχοινίον. V. l’indice graecitatis di Dione Cassio. (8. Apr. 1825.).

Tutta la natura è insensibile, fuorchè solamente gli animali. E questi soli sono infelici, ed è meglio per essi il non essere che l’essere, o vogliamo dire il non vivere che il vivere. Infelici però tanto meno quanto meno sono sensibili (ciò dico delle specie e degli individui) e viceversa. La natura tutta, e l’ordine eterno delle cose non è in alcun modo diretto alla felicità degli esseri sensibili o degli animali. Esso vi è anzi contrario. Non vi è neppur diretta la natura loro propria e l’ordine eterno del loro essere. Gli enti sensibili sono per natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrante dello universo. Poichè essi esistono e le loro specie si perpetuano, convien dire che essi siano un anello necessario alla gran catena degli esseri, e all’ordine e alla esistenza di questo tale universo, al quale sia utile il loro danno, poichè la loro esistenza è un danno per loro, essendo essenzialmente una souffrance. Quindi questa loro necessità è un’imperfezione della natura, e dell’ordine universale, imperfezione essenziale ed eterna, non accidentale. Se però la souffrance d’una menoma parte della natura, qual è tutto il genere animale preso insieme, merita di esser chiamata un’imperfezione. Almeno ella è piccolissima e quasi un menomo neo nella natura universale nell’ordine ed esistenza del gran tutto. Menomo perchè gli animali rispetto alla somma di tutti gli altri esseri, e alla immensità del gran tutto sono un nulla. E se noi li consideriamo come la parte principale delle cose, gli esseri più considerabili, e perciò come una parte non minima, anzi massima, perchè grande per valore se minima per estensione; questo nostro giudizio viene dal nostro modo di considerar le cose, di pesarne i rapporti, di valutarle comparativamente, di estimare e riguardare il gran sistema del tutto; modo e giudizio naturale a noi che facciamo parte noi stessi del genere animale e sensibile, ma non vero, nè fondato sopra basi indipendenti e assolute, nè conveniente colla realtà delle cose, nè conforme al giudizio e modo (diciamo così) di pensare della natura universale, nè corrispondente all’andamento del mondo, nè al vedere che tutta la natura, fuor di questa sua menoma parte, è insensibile, e che gli esseri sensibili sono per necessità souffrants, e tanto più sempre, quanto più sensibili. Onde anzi si dovrebbe conchiudere, che essi stessi, o la sensibilità astrattamente, sono una imperfezione della natura, o vero gli ultimi, cioè infimi di grado e di nobiltà e dignità nella serie degli esseri e delle proprietà delle cose. (9. Aprile. Sabato in Albis. 1825.). V. p. 4137.

Sentido de la perdita per que siente (senziente, che si duole) la perdida. Penato per penante. Crus. in penato e in penare es. ult.

Halo as-halitans. (10. Apr. Domenica in Albis. 1825.). Alitare.

Σανὶς ίδος, forse in origine diminutivo, poscia positivato.

Più tempo per del tempo, frase frequente presso i nostri (p. e. Ricordano, cap. 178. Villani l. 6. c. 88. principio) sì del 300, sì del 500. — πλείονα χρόνον nello stesso senso. V. le mie osservazioni a Flegonte de mirabil. c. 1. col. 81. lin. 2. (14. Aprile. 1825.).

Calza-calzetta, calzino. Bruzzo-bruzzolo.

Filo-fila. Uova.

Senza altra (cioè niuna) considerazione avere dei suoi meriti . Casa Galateo c. 14. opp. Ven. 1752. t. 3. p. 261. fine.

Φησὶ, φήσει, sottinteso τις, per φασὶ, φήσουσι. V. Toup. ad Longinum sect. 2. init. sect. 9. init. sect. 29. fin. 44. p. 234. fin. dove non approvo le sue emendazioni.

La società contiene ora più che mai facesse, semi di distruzione e qualità incompatibili colla sua conservazione ed esistenza, e di ciò è debitrice principalmente alla cognizione del vero e alla filosofia. Questa veramente non ha fatto quasi altro, massime nella moltitudine, che insegnare e stabilire verità negative e non positive, cioè distruggere pregiudizi, insomma torre e non dare. Con che ella ha purificato gli animi, e ridottigli quanto alle cognizioni in uno stato simile al naturale, nel quale niuno o ben pochi esistevano dei pregiudizi che ella ha distrutto. Come dunque può ella aver nociuto alla società? La verità, vale a dire l’assenza di questo o di quell’errore, come può nuocere? Sia nociva la cognizione di qualche verità che la natura ha nascosto, ma come sarà nocivo l’esser purificato da un errore che gli uomini per natura non avevano, e che il bambino non ha? Rispondo: l’uomo in natura non ha nemmeno società stretta. Quegli errori che non sono necessari all’uomo nello stato naturale, possono ben essergli necessari nello stato sociale; egli non gli aveva per natura; ciò non prova nulla; mille altre cose egli non aveva in natura, che gli sono necessarie per conservar lo stato sociale. Ritornare gli uomini alla condizione naturale in alcune cose, lasciandolo nel tempo stesso nella società, può non esser buono, può esser dannosissimo, perchè quella parte della condizione naturale può essere ripugnante allo stato di stretta società, il quale altresì non è in natura. Non sono naturali molte medicine, ma come non sono in natura quei morbi a cui elle rimediano, può ben essere ch’elle sieno convenienti all’uomo, posti quei morbi. La distruzione delle illusioni, quantunque non naturali, ha distrutto l’amor di patria, di gloria, di virtù ec. Quindi è nato, anzi rinato, uno universale egoismo. L’egoismo è naturale, proprio dell’uomo: tutti i fanciulli, tutti i veri selvaggi sono pretti egoisti. Ma l’egoismo è incompatibile colla società. Questo effettivo ritorno allo stato naturale per questa parte, è distruttivo dello stato sociale. Così dicasi della religione, così di mille altre cose. Conchiudo che la filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce gl’intelletti della moltitudine alla purità naturale, e l’uomo alla maniera naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è, dannosa e distruttiva della società, perchè quegli errori possono essere, ed effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società, la quale per l’addietro gli ha sempre avuti in un modo o nell’altro, e presso tutti i popoli; e perchè quella purità e quello stato naturale, ottimi in se, possono esser pessimi all’uomo, posta la società; e questa può non poter sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in fatti al presente. (18. Aprile 1825.).

Αὐτίκα per luego. V. Toup. ad Longin. sect. 23. init.

Σακκία ἁδρά. V. ib. p. 229. fine. Diminutivo positivato. (27. Apr. 1825.).

Alla p. 4134. Siccome la felicità non pare possa sussistere se non in esseri senzienti se medesimi, cioè viventi; e il sentimento di se medesimo non si può concepire senza amor proprio; e l’amor proprio necessariamente desidera un bene infinito; e questo non pare possa essere al mondo, resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere nè sia felice, che la felicità (la quale di natura sua non potrebb’essere altro che un bene ossia un piacere infinito) sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene a essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se medesimi importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. (3. Maggio. Festa della Invenzione della Santa Croce. 1825.). V. p. 4168.

Una corona d’oro, che, secondo una tradizione degli Ungheri era discesa dal cielo, e che conferiva a chi la portava un diritto incontrastabile al trono. Robertson Stor. del regno dell’Imp. Carlo V. lib.10. traduz. ital. dal franc. Colonia 1788. t. 5. p. 440. Ecco pur finalmente il vero fondamento dei diritti al trono e della legittimità di tutti i Sovrani antichi e moderni. Esso consiste nella corona che portano. E chiunque la toglie loro e se la può mettere in capo, sottentra ipso facto nella pienezza dei loro diritti e legittimità. (3. Mag. 1825.).

Pauso as forse da un antico pauo o pavo (παύω, παύομαι), pausum. (7. Mag. 1825.).

Quanto più l’uomo cresce (massime di esperienza e di senno, perchè molti sono sempre bambini), e crescendo si fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto. Molti in una certa età (dove le sventure sono pur tanto maggiori che nella fanciullezza) hanno quasi assolutamente perduta la facoltà di piangere. Le più terribili disgrazie gli affliggeranno, ma non gli potranno trarre una lagrima. Questa è cosa molto ordinaria. Tanta occasione ha l’uomo di farsi familiare il dolore. (12. Maggio 1825.).

Ad ogni filosofo, ma più di tutto al metafisico è bisogno la solitudine. L’uomo speculativo e riflessivo, vivendo attualmente, o anche solendo vivere nel mondo, si gitta naturalmente a considerare e speculare sopra gli uomini nei loro rapporti scambievoli, e sopra se stesso nei suoi rapporti cogli uomini. Questo è il soggetto che lo interessa sopra ogni altro, e dal quale non sa staccare le sue riflessioni. Così egli viene naturalmente ad avere un campo molto ristretto, e viste in sostanza molto limitate, perchè alla fine che cosa è tutto il genere umano (considerato solo nei suoi rapporti con se stesso) appetto alla natura, e nella università delle cose? Quegli al contrario che ha l’abito della solitudine, pochissimo s’interessa, pochissimo è mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di se cogli uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario moltissimo l’interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono per lui il primo luogo, come per chi vive nel mondo i più interessanti e quasi soli interessanti rapporti sono quelli cogli uomini; l’interessa la speculazione e cognizion di se stesso come se stesso; degli uomini come parte dell’universo; della natura, del mondo, dell’esistenza, cose per lui (ed effettivamente) ben più gravi che i più profondi soggetti relativi alla società. E in somma si può dire che il filosofo e l’uomo riflessivo coll’abito della vita sociale non può quasi a meno di non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.) coll’abito della solitudine riesce necessariamente un metafisico. E se da prima egli era filosofo di società, da poi, contratto l’abito della solitudine, a lungo andare egli si volge insensibilmente alla metafisica e finalmente ne fa il principale oggetto dei suoi pensieri e il più favorito e grato. (12. Maggio. Festa dell’Ascensione. 1825.).

Tetta, tettare ec. — τιτθὴ ec.

Diminutivi positivati. Brachium — βραχίων quasi da un βράχιον o βράχιος o βραχιὸς ec. perduto. (21. Maggio Vigilia della Pentecoste. 1825.).

Παρ' ὀλίγον διαφθαρείην. Joseph. de vita sua par. 59. (27. Mag. 1825.). par. 68. θάνατον αὐτοῦ παρ'ολίγας ψήφους κατέγνωσαν c. Apion. 2.37. p. 493. lin. 7.

Κατὰ νώτου δ' αὐτὸν λαμβάνουσιν οἱ ἐκ τῆς ἐνέδρας. Italianismo. Lo prendono (cioè lo colgono, lo soprapprendono) alle spalle. Joseph. de vita sua par. 72.

Senz’altro (niun) fine . Casa Istruz. al Card. Caraffa. opp. t. 2. p. 4. lin.19. ed. Ven. 1752.

Αὐτίκα per primum, luego ec. Pseudo-Joseph. de Maccabeis par. 1. fin. par. 3. p. 499. lin.4. ante fin. (31. Maggio 1825.).

Grado-gradino. Pisum-pisello. Struffo-strufolo ec. V. Crus.

Monosillabi latini. Flo.

Arrischiato ( Baldi Vita di Federigo di Montefeltro, Roma 1824. tom. 1. p. 89. princ.), arrisicato (Crus.) per che suole arrischiarsi, che si arrischia.

Disonorato, Inonorato, Inhonoratus ec. per disonorevole.

Honorus, inhonorus per honoratus, inhonoratus.

Ἔξω per praeter. Isocr. Paneg. ed. Cantabrig. 1729. p. 175. lin. 1.

Stella quasi astella o astellum da ἀστὴρ o da ἄστρον. (12. Luglio. dì di S. Gio. Gualberto. 1825.).

Tanto è necessaria l’arte nel viver con gli uomini che anche la sincerità e la schiettezza conviene usarla seco loro con artificio. (Milano. 22. Sett. 1825.).

Spasimato per spasimante. Crus. Entendu per intendente. Innamorato per che innamora. Petr. Son. Ma poi che ’l dolce riso. v. penult. e Canz. Poi che per mio destino, stanza 5. v. 9.

Sì ch’io vo già della speranza altiero. Petr. Son. Quando fra l’altre dame. V. anche Sestina A qualunque animale, v. penult. e Canz. Sì è debile il filo, stanza 6. v. 2 e Canz. Lasso me, st. 4. v. 9.

Gaio, gai franc. ec. — γαίων.

Miglio, milium ec. — millet, diminutivo positivato. Entrailles — ἔντερον, interiora ec. Ladrillo spagn. Laterculus ec. — later. Scalino — scala, scaglione ec.

Tra via, per in via. Petr. Son. A piè de’ colli. e altrove spessissimo fra via, e tra via, esso Petrarca, ed altri, prosatori e poeti.

Poi per εἶτα, cioè nondimeno ec. del che altrove. Petr. Son. Perch’io t’abbia guardato.

Εὐθὺ πρῶτον. Eupolis Comicus ap. Stob. λόγ. β'. p. 32. ed. princeps Gesneri, Tiguri 1543.

Ἡσσημένων δὲ ἀνδρῶν οὐκ ἐθέλουσιν αἱ γνῶμαι πρὸς τοὺς αὐτοὺς κινδύνους ὅμοιαι εἶναι. Thucydid. ap. Stob. serm. 6. περὶ δειλίας. (Milano. 22. Sett. 1825.) lib.2. in concione Phormionis. V. Plat. ed. Astii. t. 4. p. 228. lin. 12. p. 236. lin. 30. p. 358. lin. 20. 23.

Se Dio facesse altro di me, vale, facesse alcuna cosa, nulla . Così, Machiavelli, Commedia in prosa senza titolo, opp. Italia 1819. vol. e 6.o at. 2. sc. 1. p. 328. Io guarderei molto ben chi egli fusse, prima ch’io facessi altro, cioè nulla, cioè cosa alcuna. Senza pensare altro, io mi avvierò là . ib. 2. 7. 337-8. E del vecchio eramo come certissimi che prestatomi indubitata fede, ne dovesse andar la senza pensare altro . Cioè nulla. 3. 1. 340. La padrona subito si spoglia, e senza pensare ad altro (a nulla) nel letto si corica . ib. 341. (Milano.).

aggresser, v. a. (verbe actif). Attaquer, être aggresseur. Jean Molinet, Dicts et faits notables, p. 125. Articolo dell’Archéologie française par Charles Pougens, appendice à la suite de la lettre a. Paris 1821-25. tom. I. p. 48. (Bologna. 6. Ottobre. 1825.).

Dissimulato, Simulato, Dissimulé ec. per dissimulatore ec. V. Forcellini .

Nel corso del sesto lustro l’uomo prova tra gli altri un cangiamento sensibile e doloroso nella sua vita, il quale è che laddove egli per lo passato era solito a trattare per lo più con uomini di età o maggiore o almeno uguale alla sua, e di rado con uomini più giovani di se, perchè i più giovani di lui non erano che fanciulli, allora spessissimo si trova a trattare con uomini più giovani, perchè egli ha già molti inferiori di età, che non sono però fanciulli, di modo che egli si trova quasi cangiato il mondo dattorno, e non senza sorpresa, se egli vi pensa, si avvede di essere riguardato da una gran parte dei suoi compagni come più provetto di loro, cosa tanto contraria alla sua abitudine che spesso accade che per un certo tempo egli non si avveda ancora di questa cosa, e séguiti a stimarsi generalmente o più giovane o coetaneo dei suoi compagni, come egli soleva, e con verità, per l’addietro. (Bologna. 8. Ottobre. 1825.).

Chi di noi sarebbe atto a immaginare, non che ad eseguire, il piano dell’universo, l’ordine, la concatenazione, l’artifizio, l’esattezza mirabile delle sue parti ec. ec.? Segno certo che l’universo è opera di un intelletto infinito. — Ma sapete voi che dalla estensione e forza dell’intelletto dell’uomo, a un’estensione e forza infinita ci corre uno spazio infinito? L’intelletto umano non è atto a immaginare un piano come quello dell’universo. Ma un intelletto mille volte più forte ed esteso dell’umano, potrà pure immaginarlo. Non vi pare che possa? Dite dunque un intelletto maggiore dell’umano un millone di volte, un bilione, un trilione, un trilione di trilioni. Non arriverete mai ad un intelletto infinito, e però mai ad un intelletto grande, se non relativamente (giacchè un intelletto anche un trilion di volte maggior del nostro, non sarebbe già un intelletto grande per se, ma solo relativamente al nostro, e sarebbe infinitamente minore di un intelletto infinito), e però mai ad un intelletto divino. Lo stesso dico della potenza. L’uomo non può fare il mondo. Non però il farlo richiede una potenza infinita, ma solo maggiore assai dell’umana. Deducendo dalla esistenza del mondo la infinità e quindi la divinità del suo creatore, voi mostrate supporre che il mondo sia infinito, e d’infinita perfezione, e che manifesti un’arte infinita, il che è falso, e se ciò è falso, niente d’infinito si dee attribuire all’autore della natura. V. p. 4177. Lascio anche stare le innumerabili imperfezioni che si ravvisano, non pur fisicamente, ma metafisicamente e logicamente parlando, nell’universo.

Del resto quello che nella struttura ec. del mondo e delle sue parti, p. e. di un animale, a noi pare ammirabile, e di estrema difficoltà ad essere immaginato, non fu infatti niente difficile. Le cose sono come sono perchè così debbono essere, stante la natura loro assoluta, o quella delle forze e dei principii (qualunque essi sieno) che le hanno prodotte. Se questa natura fosse stata diversa, se le cose dovessero essere altrimenti, altrimenti sarebbero, nè però sarebbero men buone e men bene andrebbero (o vogliamo dir più cattive e camminerebbero peggio) di quel che fanno ora che sono così come noi le veggiamo. Anzi allora questo che noi chiamiamo ordine e che ci pare artifizio mirabile, sarebbe (e se noi lo potessimo concepire, ci parrebbe) disordine e inartifizio totale ed estremo. Niuno artifizio insomma è nella natura, perchè la natura stessa è cagione che le cose vadan bene essendo ordinate in un tal modo piuttosto che in un altro, e questo modo non è necessario assolutamente all’andar bene, ma solo relativamente al tale e non altrimenti essere della natura, la quale se altrimenti fosse, le cose non andrebbero bene, non potrebbero conservarsi ec., se non con altro modo ec. (Bologna. 8. Ottobre. 1825.).

Εὐθὺς per primum. Epictet. Enchirid. cap. 5.

Κτῆσαι οὗν (para, acquire, compara tibi), φησὶν, ἵνα καὶ ἡμεῖς ἔχωμεν. Epictet. Enchirid. cap. 31.

Κᾂν σὺν τούτοις ἐλθεῖν καθήκῃ, φέρε τὰ γινόμενα. E se con queste cose, cioè con tutto questo, ti conviene andare, porta in pace quel che ti accadrà, che te ne accade. Così il Bartoli nel Mogol, con essere, per con tutto l’essere, non ostante l’essere. Italianismo di Epitteto, Enchiridio, cap. 52. (Bologna. 9. Ott. Domenica. 1825.). La stessa frase col senso medesimo si trova anche cap. 39. fin.

Τῷ μὲν σωματίῳ (per σώματι) πάντα ἀδιάφορα. M. Antonin. VI. 2. Del resto amant stoici extenuandarum rerum causa, deminutiva ( Simpson not. in Epictet. c. 12.): e in Arriano et Epicteto diminutiva significant extenuationem et vilitatem ipsius rei, non autem parvitatem (id. ad c. 24.). V. p. 4145.

Museau — muso. Goupil o golpil, e per la femmina goupille, quasi vulpilla, cangiato al solito il v in g; antica voce francese per renard, appresso Pougens, Archéologie française, art. Goupil , con parecchi derivati, cioè goupiller verbo neutro, goupillage e goupilleur, dei quali pur si hanno esempi loc. cit. t. 1. (Bologna. 10. Ott. 1825.).

Si sa quanto poco fossero considerate le donne presso i Greci e i Romani, e come il servirle e trattarle quasi superiori agli uomini, come si fa oggi, non avesse origine, secondo il Thomas ( Essai sur les femmes ), se non nei tempi cavallereschi dai costumi dei settentrionali conquistatori di Europa, i quali avevano un’antica loro superstizione che riguardava le donne come tante deità. Nondimeno pare che a tempo degl’Imperatori romani la condizione delle donne fosse già molto simile alla presente. Lascio le odi di Orazio e i libri di Ovidio, Tibullo, Properzio ec. Epitteto Enchirid. cap. 62. Αἱ γυναῖκες εὐθὺς ἀπὸ τεσσαρεσκαίδεκα ἐτῶν ὑπὸ τῶν ἀνδρῶν κυρίαι καλοῦνται. τοιγαροῦν ὁρῶσαι ὅτι ἄλλο μὲν οὐδὲν αὐταῖς πρόσεστι, μόνον δὲ συγκοιμᾶσθαι τοῖς ἀνδράσιν, ἄρχονται καλλωπίζεσθαι καὶ ἐν τούτῳ πάσας ἔχειν τὰς ἐλπίδας Dove trovo nelle note: V. Serv. ad. Virg. En. 6.397. Suet. in Claud. c. 39. (Bologna. 1825. 10. Ottobre.). V. p. 4246.

Somiglianza di costumi antichi e moderni, ovvero antichità di costumi che si credono moderni. — La lucerna di terra cotta (fittile) di cui si era servito Epitteto, fu venduta per 3000 dramme. V. p. 4166. fin. I ricchi Ateniesi per lusso usavano di tener servi negri. Teofrasto Caratteri cap. 21. Terenz. Eunuch. 1. 2. 85. Auctor ad Herenn. IV. 50. Visconti Museo Pio Clem. t. 3. fig. 35. rappresentante la statua di un Negro servente al bagno. Negli spettacoli antichi si gridava da capo (αὖθις) come da noi. V. le mie noterelle latine sul Simposio di Senofonte. Similmente di tenere in casa una scimmia o più d’una ancora. Ib. c. 5. V. p. 4170.4298.

Alla p. 4144. capoverso 1. In questo senso bisogna intendere quel luogo di Epitteto Enchirid. c. 24. τούτων ἐμοὶ οὐδὲν ἐπισημαίνεται, ἀλλ' ἢ τῷ κτησιδίῳ μου ἢ τῷ δοξαρίῳ ἢ τοῖς τέκνοις ἢ τῇ γυναικί

E comandolle che senza altro (nulla) dire, per sua propria l’allevasse. Caro Gli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista, ragionamento primo, p. 6. ediz. di Crisopoli (Pisa) 1814. nel volume 2.do della Collezione degli Erotici greci tradotti in volgare.

MORDILLER. Mordre légèrement et frequemment; faire un grand nombre de petites morsures . Pougens Archéologie française art. mordiller, Paris 1821-5. tom.2. p. 29. Antica voce francese, adoperata anche da Scarron e dalla Sévigné, e inserita anche nel Dizionario dell’Accademia francese nell’ediz. del 1798.

Ella è cosa forse o poco o nulla o non abbastanza osservata che la speranza è una passione, un modo di essere, così inerente e inseparabile dal sentimento della vita, cioè dalla vita propriamente detta, come il pensiero, e come l’amor di se stesso, e il desiderio del proprio bene. Io vivo, dunque io spero, è un sillogismo giustissimo, eccetto quando la vita non si sente, come nel sonno ec. Disperazione, rigorosamente parlando, non si dà, ed è così impossibile a ogni vivente, come l’odio vero di se medesimo. Chi si uccide da se, non è veramente senza speranza, non più che egli odii veramente se stesso, o che egli sia senz’amor di se stesso. Noi speriamo sempre e in ciascun momento della nostra vita. Ogni momento è un pensiero, e così ogni momento è in certo modo un atto di desiderio, e altresì un atto di speranza, atto che benchè si possa sempre distinguere logicamente, nondimeno in pratica è ordinariamente un tuttuno, quasi, coll’atto di desiderio, e la speranza una quasi stessa, o certo inseparabil, cosa col desiderio. (Bologna. 18. Ottobre. 1825.).

Voleter per volitare. Gill. Durant antico poeta francese, ap. Pougens Archéolog. franç. art. oiselet, tom. 2. p. 63. ed. Ét. Pasquier ap. lo stesso, t. 2. p. 162. art. Pucette. (Bologna. 19. Ott. 1825.).

Diminutivi greci positivati. Τεῦτλον-τεύτλιον, τευτλὶς ίδος; o vero σεῦτλον-σευτλίον, σευτλὶς ίδος.

Il genitivo per l’accusativo. Teofrasto Caratteri, cap. 16. περὶ δεισιδαιμονίας: δάφνης εἰς τὸ στόμα λαβών , preso del lauro in bocca.

Faux-faucille. Clientolo. Truogo-truogolo-trogolo. Grillon. V. i Diz. francesi.

PILLOTER, verbe actif et neutre. Exercer de petits pillages multipliés; piller de côté et d’autre par petites portions . Antico verbo francese, col suo derivato pilloterie, ap. Pougens, Archéologie française, art. pilloter, tom.2. p. 119-120. (21. Ottobre. 1825. Bologna.).

Contemptus, contemptior ec. per contemptibilis ec. Infamato per infame. V. Crus.

Profusus per che profonde. ( Sallust. Catil. 5. alieni appetens, sui profusus ). V. Forcell. Ital. profuso. Spagn. profuso. Franc. antico profus, ap. Pougens, Archéologie française tom. 2. p. 152. art. profus. Inglese, profuse. Tutti nello stesso senso attivo. (Bologna. 23. Ott. Domenica. 1825.).

Vivuola-vivola viola: strumento musico, e fiore. Spagn. viHuela. V. la giunta L. nella Crus. Veron. all’articolo H. e la Crus. V. vivuola e gargagliare.

Κηλὶς ίδος, probabilmente diminutivo positivato.

Réviser, raviser franc. da aggiungersi al detto da me sopra divisare avvisare ec.

Rétentive per faculté de retenir, mémoire, substantif fém. antica voce francese presso Pougens Archéol. franç. tom. 2. p. 203. Appendice à la suite de la lettre R. art. Rétenteur. Retentiva spagn. e retentive ingl. col senso stesso. Da aggiungersi al detto altrove di retinere ec.

Ἄγνωστος per che non conosce, attivo, come in lat. ignotus, del che altrove. Teofrasto, Caratt. cap. 23. mezzo, dove male il Coray cogli altri interpreti lo spiega passivamente, inconnu. La Bruyere des gens qu’il ne connoît point et dont il n’est pas mieux connu. (Bologna. 26. Ottobre. 1825.).

Trafelato per che trafela, trafelante. Scialacquato v. Crus. par. 1. e 2.

Moscolo, muschio-muscus, musco. Lucerta-lucertola, lucertolone ec.

Posidippe, rival de Ménandre, reproche aux Athéniens comme une grande incivilité leur affectation de considérer l’accent et le langage d’Athènes comme le seul qu’il soit permis d’avoir et de parler, et de reprendre ou de tourner en ridicule les étrangers qui y manquoient. L’atticisme, dit-il à cette occasion, dans un fragment cité par ce Dicéarque, ami de Théophraste, dont j’ai parlé plus haut (credo, nei Geografi[a]

V. Creuzer, Meletemata , dov’è il framm. di Dicearco.

[Chiudi] greci minori si trova il pezzo di Dicearco), est le langage d’une des villes de la Grèce; l’hellénisme celui des autres. I. G. Schweighaeuser, note 24. sur le Discours de La Bruyere sur Théophraste. Les Caractères de Théophraste, traduits par La Bruyere, avec des additions et des notes nouvelles par I. G. Schweighaeuser. Paris Renouard. 1856. tome 3.e des oeuvres de La Bruyere, p. LIII-IV. (Bologna. 26. Ottob. 1825.).

Verba plur. Autore del poema La Passione di Cristo N. S. attribuito al Boccaccio, presso il Perticari, opp. Lugo 1823. vol. 3. p. 453. — Calcagna. Lineamenta. Sacca.

Ogli si disse anticamente per occhi (come periglio da periculum) (e quindi forse anche oglio per occhio), benchè manchi ne’ Vocabolari, e ciò con tre esempi provò il Perticari in una sua lettera, opp. Lugo 1823. vol. 3. p. 577. nota. (Bologna. 1825. 27. Ott.).

Ronzino, ronzone, probabilmente diminutivi positivati. Così sillon, sillonner ec.

TROTTINER, trotter à petits pas. Antico verbo francese, portato anche nel Diz. di Richelet e in quello di Trévoux, e usato anche da Piron. Pougens, Archéol. franç. art. trottiner, t. 2. p. 249. — Sautiller.

Tance-tançon. Parole sinonime, francesi antiche, significanti action de tancer, de réprimander; gronderie, dispute, querelle. Id. ib. Appendice à la suite de la lett. T. art. Tanceur, t. 2. p. 251. (Bologna. 1825. 28. Ott.).

Pouvoir — francese antico pooir, sostantivo, come si vede ib. art. Triplication, t. 2. p. 248. Gengia gengiva.

Rado, rasum- raser francese, raschiare frequentativo-diminutivo quasi rasculare, raschiatura ec.

Adulater, antico verbo franc. per adulare, usato da Brantome, Dam. gal., t. 1. p. 322. ap. Pougens, Archéol. franç. Additions et corrections du tome premier, page 8. art. Aduler, tom.2. p. 274. (Bologna. 1825. 29. Ottob.).

Tournoyer frequentativo ec. come flamboyer ec. Numéroter.

Voglioloso, vogliolosamente. Freddoloso.

Nonpareil, o non pareil (v. i Diz. franc.) — Teofr. Caratt. cap. 28. Ἡ δὲ πονηρία οὐδὲν ὅμοιον (il man. Vaticano ha οὐ ὅμοιον). La sua spilorceria, miseria (così va qui spiegato πονηρία) è cosa senza uguale, senza pari.

Enfantiller. Faire des enfantillages, jouer d’une manière enfantine. Antico verbo franc. ap. Pougens Archéol. franç. Appendice à la suite de la lettre E, art. Enfantiller tom.1. p. 194. — Fendiller (se). Se gercer, s’entr’ouvrir par de petites fentes ou crevasses. Antico verbo franc. ap. le même, même ouvrage, art. Fendiller p. 202. tom.1. et dans les Additions et corrections du tome premier, page 202. ligne 16. tom. 2. p. 300. (Bologna. 1825. 30. Ott.).

Strascinare — strascicare, strascico ec. Biasciare biascicare.

Nota il Coray ( Notes sur les Caractères de Théophraste, ch. 26. note 9. à Paris 1799. p. 314.) che παχὺς gros signifie au figuré riche , citando appiè di pagina Schol. Aristoph. Vesp. 287 e però nel 26. capo dei Caratteri di Teofrasto, rende par PAUVRE le mot λεπτὸς qui signifie au propre MINCE ou MAGRE , in quelle parole cioè di Teofrasto sopra il partisan de l’oligarchie ( περὶ ὀλιγαρχίας ), καὶ ὡς αἰσχύνεται ἐν τῇ ἐκκλησίᾳ (dice ὁ ὀλίγαρχος di se memdesimo) ὅτ' ἄν τις παρακάθηται αὐτῷ λεπτὸς καὶ αὐχμῶν ( pauvre, mal mis et sale. Coray). V. i Lessici in παχὺς. Similmente appunto noi diciamo grosso mercante, possidente grosso, famiglia grossa e simili, per ricca. (Bologna. 31. Ottobre. 1825.). V. i francesi e spagnuoli.

Soletto diminutivo positivato aggettivo, e così nell’antico francese, seulet. Timon, cest insigne et beau haysseur d’homme, qui, tant envieusement, mangea son pain seulet. Noël Dufail. Cont. d’Eutrapel (gros débat entre Lupold etc.) fol. 154. vo. ap. Pougens Archéol. franç. Additions et correct. tom. 2. p. 302. à la page 243, ligne 6. du tome 1.r.

Coccola. Rastro-rastrello ec. Fraga-fragola. Cocuzzolo o cucuzzolo. Razzare-razzolare. Curata o corata coratella o curatella o coradella ec. V. la Crusca.

Fiasco-flacon. Pila-pilon. V. i Diz. franc. Radium rayon.

Io sono, si perdoni la metafora, un sepolcro ambulante, che porto dentro di me un uomo morto, un cuore già sensibilissimo che più non sente ec. (Bologna. 3. Nov. 1825.).

Satollo diminutivo positivato aggettivo da satur, quasi saturellus, o satullus, formandosi dalla desinenza in ur la diminutiva in ullus, collo stesso andamento con cui da quella in er si forma la diminutiva in ellus (puer-puellus) e forse da quella in ir quella in illus, del che per ora non mi sovvengono esempi. V. Forc. e Gloss. in satullus se hanno nulla. (Bologna. 3. Novembre. 1825.).

Ὀρθία ἰσχυρῶς fortemente, cioè molto, erta. Senofonte Ἀναβάς 1. 2. 21.

Arrampicare, rampicare, arpicare (forse piuttosto da ἕρπω, come inerpicare ec.) — rampare, ramper ec. Biancicare. Luccicare.

Variato o vaiato, svariato, disvariato, divariato per vario o vaio (Bologna. 4. Nov. 1825.) o svario, agg.

Uva-ugola. Notisi, oltre alla positivazione del diminutivo il cambiamento del v in g. I nostri antichi dissero anche uvola.

Scalprum, scalpro-scarpello coi derivati. V. i francesi e gli spagnuoli.

Rinfocolare. Razzare-Razzolare. Brancolare. Ruzzare ruzzolare.

Anche i verbi desiderativi (o comunque li chiamino) si formano dai supini. Edo-esum-esurio, pario-partum parturio, mingo-mictum-micturio.

Agiato, agiatamente, disagiato ec. aisé, aisément, mal-aisé ec. per agevole cioè agibilis (che corrisponde a facilis, cioè fattibile), non sono altro che participii in luogo di aggettivi, cioè actus in cambio e in senso di agibilis ec. (Bologna. 6. Nov. 1825.). Inexoratus per inexorabilis.

Burchio-burchiello. Marco, marca-marchio; marcare marchiare. Sarda-sardella, e noi volgarmente sardone.

Tratteggiare frequentativo. Atteggiare. Tasteggiare. Aleggiare.

Adombrato neutro, per che adombra. V. la Crus. e anche aombrato. Trasognato per che trasogna.

Ghignare, sghignareghignazzare, sghignazzare. Svolazzare. Ammalazzato. Strombazzare.

Germer, germinare lat. e ital. — germogliare quasi germiculare o germuculare, o germinuculare. Così germoglio, quasi germiculus o germuculus, diminutivo positivato di germen, germe. — Spiccare-spicciolare, spicciolato ec. Abbrustolare, abbrustolire ec. Aggrumolare. Aggroppare aggrovigliare.

Strida, grida, pera, mela plur. V. la Crus. Staia (sextaria).

Scricchio-scricchiolo. Nubes, nube-nuvola, nuvolo, nugolo ec. V. Crus.

Scricchiolare. Suggere-succhiare, succiare ec. Disgocciolare.

Visco, viscoso, vesco, viscus o viscum-vischio, vischioso, veschio. Lens-lenticula; lente-lenticchia, lentille franc. V. gli spagn. Inviscare — invischiare ec. invescare — inveschiare.

Prezzolare. Trombettare e strombettare, coi derivati.

Sacrato per sacro, e così sacré e sagrado per sacer. V. Forc. in sacratus.

Tero is tritum-tritare ital. (V. Forcell. ) — stritolare.

Al detto altrove di dicere-dicare aggiungansi i composti praedicare, dedicare ec. E notisi che sedare sebbene è della stessa famiglia che sedere, nondimeno non appartiene al nostro discorso più che fugarefugere. Gli uni (sedare-fugare) sono attivi, gli altri (sedere-fugere) neutri. (Bologna. 13. Nov. 1825. Domenica.). Così placere-placare.

Sbarbare-sbarbicare, abbarbicare.

καλεῖται δὲ κατὰ μὲν τὸν Ἄρατον Ἠριδανός• οὐδεμίαν δὲ ἀπόδειξιν περὶ αὐτοῦ φέρει (Ἄρατος) non porta di ciò alcuna prova. Eratostene. Catasterismi cap. 37. (Bologna. 14. Nov. 1825.).

Più tempo per del tempo come più anni per parecchi anni (plures anni) frase di classici. — V. le giunte alle mie osservazioni sui taumasiografi greci, cioè al cap. 1. col. 81. lin. 2. di Flegone ; πλείονα χρόνον ec. (Bologna, 14. Nov. 1825.). Similmente i più, le più ec. — οἱ πλέιους per οἱ πλεῖστοι. V. le cit. osservaz. ad Antigono, cap. 127.

Πρώτον μὲν ὦν χρὴ τοῦτο γινώσκειν ὅτι ὁ μὲν ἀγαθὸς ἀνὴρ οὐκ εὐθέως (idcirco, luego, non statim, come rende il Gesnero) εὐδαίμων ἐξ ἀνάγκας ἐστίν. Archytas Pythagoreus, de viro bono et beato ap. Stob. serm. 1. ed. Gesner. Basileae 1549. p. 13.

Ἀγκύριον per ἄγκυρα áncora. Socrate ap. Stob. loc. cit. p. 21. e c. 2. p. 33.

Bozzo volg. — bozzolo; e bozzolo in altri significati, coi derivati. V. Crus.

Una delle maggiori difficoltà ec. consiste nella soppressione delle vocali e nel non essersi scoperta sin ad ora la regola costante per poterle supplire , dice il Ciampi parlando della lingua etrusca in generale nell’ Antologia di Firenze N. 58. Ottobre 1825. p. 55. Quali regole sicure abbiamo, non per la lezione letterale ma per la grammaticale? (della scrittura etrusca). È certo che le vocali spesso son tralasciate; ma ciò facevasi egli a capriccio degli scarpellini, o per seguitare la pronunzia, ovvero per qualche regola stenografica od ortografica, come la scrittura massoretica degli Ebrei? Nulla ne sappiamo; e molto meno sappiamo in qual modo si abbiano da supplire. Ib. p. 57. Ciò serva per il mio discorso sopra la cagione della soppression delle vocali nelle scritture più antiche e più rozze e imperfette. (Bologna. 15. Nov. 1825.).

In questo (in questa) in quello (in quella) ec. avverbi di tempo. — grec. ἐν τούτῳ. Καὶ ἐντούτῳ ἡ ἑτέρα γυνὴ προσελθοῦσα εἶπεν. Senofonte, Memorab. nella favola dell’Ercole di Prodico .

Stobeo, sermone 7. περὶ ἀνδρείας de Fortitudine, ed. Gesner. Basilea 1549. p. 91. In margine: Agatarsidae (sic) Samii in 4. rerum Persicarum. Nel testo: Ξέρξης μετὰ πεντακοσίων μυριάδων Ἀρτεμισίῳ προσορμίσας πόλεμον τοῖς ἐγχωρίοις κατήγγειλεν. Ἀθηναῖοι δὲ συγκεχυμένοι, κατάσκοπον ἔπεμψαν Ἡγησίλαον (in marg. Ἀγησίλαον ) τὸν Θεμιστοκλέους ἀδελφόν• καί περ Νεοκλέους τοὺ πατρὸς αὐτοῦ κατ' ὄναρ ἑωρακότος ἀμφοτέρας ἀποβεβηκέναι (in marg. ἀποβεβληκότα ) τὰς χεῖρας. παραγενόμενος δὲ ὁ ἀνὴρ εἰς πλῆθος τῶν βαρβάρων ἐν σχήματι Περσικῷ, Μαρδώνιον ἕνα τῶν σωματοφυλάκων ἀνεῖλεν, ὑπολαβὼν Ξέρξην ὑπάρχειν. συλληφθεὶς δὲ ὑπὸ τῶν δορυφόρων (Gens. a satellitibus) πρὸς τὸν βασιλέα δέσμιος ἤχθη. βουθυτεῖν δὲ τοῦ προειρημένου μέλλοντος, ἐπὶ τὸν βωμὸν τοῦ ἡλίου τὴν δεξιὰν ἐπέθηκε χεῖρα, καὶ ἀστένακτος ὑπομείνας τὴν ἀνάγκην τῶν βασάνων, ἐλευθερώθη τῶν δεσμῶν εἰπών• Τοιοῦτοι πάντες ἐσμὲν Ἀθηναῖοι• εἰ δ' ἀπιστεῖς, καὶ τὴν ἀριστερὰν ἐπιθήσω. φοβηθεὶς δ' ὁ Ξέρξης, φρουρεῖσθαι τὸν Ἀγησίλαον προσέταξεν. Il fatto di Regolo è stato condannato per favola; quello di Muzio Scevola potrà esserlo parimente, se non altro, col confronto di questo luogo, forse non osservato finora. (Bologna. 19. Nov. 1825.). V. p. 4193.

Μεγάλα γὰρ πρήγματα μεγάλοισι κυνδύνοισιν ἐθέλει καὶ αἱρέεσθαι Herodot. l. 7. c. 50. ap. Stob. serm. 7. περὶ ἀνδρείας In Erodoto si legge ἐθέλει καταιρέεσθαι. (Bologna. 9 Nov. 1825.).

Exhaustare ec. V. Forcell. Coltare da colo. Crus.

Inhonorus — inhonoratus. V. Forcell.

Αὐτίκα per verbigrazia ec. Eschine, Dial. 2. cioè περὶ πλούτου, sect. 24. bis.

Il mezzo più efficace di ottener fama è quello di far creder al mondo di esser già famoso. (Bologna. 21. Nov. 1825.). Analogo e confermativo di questo detto è quello di Labruyère, che più facile è far passare un’opera mediocre in grazia di una riputazione dell’autore già ottenuta e stabilita, che l’ottenere o stabilire una riputazione con un’opera eccellente.

Stefano Bizantino in Ἴτων dice che la città d’Itone fu anche detta Σίτων Sitone.

Eschine, Dialogo 3. Assioco, sezione 8. parlando dei mali della vita nelle diverse età: καὶ τοῖς (rispetto, appetto a) ὕστερον χαλεποῖς ἐφάνη τὰ πρῶτα παιδικὰ, καὶ νηπίων ὡς ἀληθῶς φόβητρα. Il Wolfio stampò χαλεποῖς παραβαλλόμενα ἐφάνη, e disse che in vece di παραβαλλόμενα si poteva anche supplire συγκρινόμενα o ἀντεξεταζόμενα. Il Fischer, not. 52. ed. Lips. (Aeschin. Socrat. Diall. tres) 1766. non approva il Wolfio, e dice nam Dativus ille quidni pendere a verbo ἐφάνη possit ? Fatto è che questo è un italianismo, cioè il dativo solo in vece di rispetto o appetto a. V. Forcell. in ad se ha nulla a proposito. (Bologna. 1825. 22. Nov.).

To look for. — aspettare (ad-spectare).

Rubacchiare. Scrivacchiare. Sforacchiare. Schiamazzare. Mormoracchiare.

Crocire-crocitare. V. Forcellini . Sorbire sorsare. V. Crus. e Forc. e Gloss.

Vagina-gUaina, eVaginare-sgUainare ec. Spagn. vayna ec.

Sopracciglia.

Βρυττὸν-βρύττιον (bevanda d’orzo, birra) diminutivo positivato. Significano ambedue le voci lo stesso. Esichio. (Bologna. 27. Nov. 1825.).

Juxta meam sententiam βρύω et βρύζω idem verbum est, ut βλύω et βλύζω, βύω βύζω, μύω μύζω, φλύω φλύζω et alia. Ignatius Liebel ad Archilochi fragm. 5. p. 70. ed. Vindobon. 1818.

Freno-Frenello. V. Crusca.

Plutarch. de Exil. t. 8. p. 383. ed. Reiske: Ἀρχίλοχος τῆς Θάσου τὰ καρποφόρα καὶ οἰνόπεδα παρορῶν, διὰ τὸ τραχὺ καὶ ἀνώμαλον διέβαλε τὴν νῆσον, εἰπών..

Ἥδε ὡς ὄνου ῥάχις
Ἕστηκεν ὕλης ἀγρίας ἀπιστεφής.

(Taso era nome di un’isola aggiacente alla Tracia.) A questo frammento di Archiloco il Jacobs fa questa osservazione. Ὄνου ῥάχις. Propter montium iuga poeta sic appellasse videtur insulam. Plurimas partium corporis appellationes ad terrarum situm et conditionem significandam translatas diligenter collegit Eustath. ad. Il. p. 233. seqq. quaedam schol. Sophocl. in Oed. Col. 691. conf. Wesseling ad Herod. 1. p. 35. 86. Promontorium Laconiae ὄνου γνάθον appellatum commemorat Pausanias III. 22. p. 431. edit. Facii. Nec hoc ὄνου ῥάχις tam Archilocho proprium fuisse puto, quam potius montosarum regionum appellationem. Jacobs, Animadverss. in Antholog. vol. 1. par. 1. p. 165. seq. ap. Liebel loc. cit. qui dietro, fragm. 9. p. 79. Or notisi il nostro schiena d’asino o a schiena d’asino, detto di strade ec. (Bologna 27. Nov. 1825. Domenica.).

Ἕστηκεν i. e. ἐστὶν Odyss ρ. 439. περὶ κακὰ πάντοθεν ἔστη. Chariton l. 3. c. 5. p. 51. 10. τότε γὰρ ἔτι χειμὼν ἑστήκει, ubi vid. Dorvillium, qui ostendit hoc ve saepe pro εἰμὶ cum emphasi adhiberi, ut stare apud Latinos p. 303. Sic Horat l. 2. od.9. 5. Nec stat glacies iners Menses per omnes. Cfr. ibi Mitscherlich (interprete ossia commentatore di Orazio) Liebel, loc. cit. qui sopra.

Mercari, it. mercare-mercatare, (spagn. se non fallo, mercatar), onde mercatante particip. sostantivato, e quindi mercatantare, mercatanzia ec. e mercadante ec.

Sfallare, sfalsare, sfallire, aggiungansi al mio discorso sopra falsare ec.

Calcagna.

Sorbillo as. V. Forc.

Frega-fregola.

Ἀλλ' ἄνα per ma su, coraggio. Omero Il. ι v. 247. Odyss. σ.. 13. Ἄνα (Su) δυσδαίμων πεδόθεν κεφαλὴν ἐπάειρε. Eurip. in Troasi, v. 98. ( Liebel, l. sup. cit. p. 105. fragm. 32.) — Su, orsu ec.

Ἐπειδὴ Ζεὺς πατὴρ Ὀλυμπίων Ἐκ μεσημβρίας ἔθηκε (fece) νυκτ', ἀποκρύψας φάος Ἡλίου λάμποντος. Archiloch. ap. Stob. serm. CIX. περὶ ἐλπίδος , ap. Liebel. fragm.31. p. 100., loc. sup. cit.

Καρδίης πλέως , dice Archiloco (fragm. 34. p. 110. loc. sup. cit. ap. Galen. Dion. Schol. Theocr. ec.) che dev’essere un Generale, e noi diremmo, pien di cuore. Italianismo. V. i Lessici.

Dolore antico. Era frase usitata per esprimere le sventure ec. il dire che il tale giaceva in terra, cioè si voltolava tra la polvere, e Archiloco (ap. Stob., serm. 20. περὶ ὀργῆς, fragm. 32. p. 103. loc. sup. cit.) dice: καὶ μήτε νικῶν ἀμφάδην (φανερῶς) ἀγάλλεο, Μηδὲ νικηθεὶς ἐν οἴκῳ καταπεσὼν ὀδύρεο. Aristofane, Nub. v. 126. Ἀλλ' οὐδ' ἐγὼ μέντοι πεσών γε κείσομαι i. e. ἀθυμήσω ( Liebel, loc. sup. cit. p. 106. ad fragm. 32.) Archiloco medesimo (fragm. 33. p. 107. ap. Stob. serm. 103.) volendo dire uomini sventurati e calamitosi, dice: Ἄνδρας μελαίνῃ κειμένους ἐπὶ χθονί. Presso Omero ( Il. σ 26.) Achille udita la morte di Patroclo si gitta in terra, e così Priamo per quella di Ettore; ed Ecuba (nell’Ecuba di Sofocle o di Euripide v. 486.496.) sta prostesa in terra piangendo le sventure sue e dei suoi, e Sisigambe madre di Dario, udita la morte di Alessandro, si gittò in terra. Curt. X. 5. p. 4243.

Ἄλλ' ἔνι λόγος (ratio docet) καὶ σὺν τούτοις (con tutto questo, ciò non ostante, con questo) παρίστασθαι τῷ φίλῳ καὶ πατρίδι συγκινδυνεύειν. Epictet. Enchirid. c. 39. Κᾂν σὺν τούτοις (e se contuttociò) ἐλθεῖν καθήκῃ, φέρε τὰ γινόμενα. Ib. cap. 52. (Bologna 3. Dic. Festa di S. F. Saverio. 1825.).

Roma, la prima e più potente città che sia stata al mondo, è stata anche l’unica destinata e quasi condannata a ubbidire a signori stranieri regolarmente, e non per conquista nè per alcuno accidente straordinario. Ciò negli antichi tempi, sotto gl’Impp. (Traiano, Massimino ec. ec.), e ciò di nuovo ne’ moderni sotto i Papi (moltissimi dei quali furono non italiani), e l’una e l’altra volta ciò passò in costumanza ed ordine fondamentale dello Stato, cioè che il Principe di Roma potesse essere non romano e non italiano. Così la prima città del mondo, e così l’Italia, prima provincia del mondo, pare per una strana contraddizione e capriccio della fortuna essere stata (nel tempo medesimo del maggior fiorire del suo impero, sì del temporale e sì dello spirituale) condannata a differenza di tutte le altre ad una legittima e pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista. (Bologna 1. Dec. 1825.).

Onestato per onesto. Crus. Curato, curè ec. per che cura, participio sostantivato.

Causado per que causa. Divertido per que divierte.

Laurus- laurel. (spagn.).

Σκύτος o σκύτη ec. — σκυτὶς. κύρτη-κυρτὶς. κιθάρα κίθαρις.

Eustathius Odyss. ε t. 3. p. 1542. ed. rom. ubi docet τρὶς in compositis multitudinem πολὺ,πολλάκις, ἄγαν significare, ad quod illustrandum Archilochi hunc locum adfert (Θάσον δὲ τὴν τρισοϊζυρὴν πόλιν), et per λίαν ὀϊζυρὰν explicat. Item t. 1. p. 725. Sic et Virgil. O ter quaterque beati. Et poeta Germanus: O dreymal glückliches Land! Liebel, loc. sup. cit. fragm. 92. p. 202. Così τρισιόλβιος, τρισμάκαρ ec. ec. (Bologna, 6. Dic. 1825.). Francesismo.

Perocchè (l’uomo) non era servo se non di Dio, il quale doveva amare con tutto il cuore, senza altro compagno. Cavalca Specchio di croce, capit. 4. verso il fine, ediz. di Brescia, 1822. p. 13.

Uomo pesato cioè considerato ec. Crus. e v. la Crus. veron. in posato. Riposato, posato. V. la Crusca. Riserbato ib. Perversato per perverso.

Spiare-spieggiare. Sortire-sorteggiare. Stormeggiare, stormeggiata.

Divenire-diventare (da ventum sup. di venio). Cupio cupitum-cupitare, covidare, convitare (Crus.), convoiter ec. v. gli spagn. Pervertire-perversare. V. Crus. in perversare e perversato.

Fa v ola-fa o la-fola.

Invaghire-invaghicchiare.

Notasi che gli antichi greci diedero spesso il nome di πόλις a regioni e paesi. Πάρος, νῆσος, ἣν καὶ πόλιν Ἀρχίλοχος αὐτὴν καλεῖ ἐν ἐπῳδοῖς. Steph. Byz. voc. Πάρος. Insulas et regiones etiam πόλεις ab auctoribus dictas esse, observat Strabo l. 8. p. 546. Στησίχορος δὲ καλεῖ πόλιν τὴν χώραν Πίσαν λεγομένην, ὡς ὁ ποιητὴς τὴν Λέσβον Μάκαρος πόλιν. Εὐριπίδης ἐν Ἴωνι Εὔβοι' Ἀθήναις ἐστὶ τις γείτων πόλις. κτλ... quae vid. Cf. ibid. Casaub. not. 2. Sic et insula Cos Il. β, 676. et Lemnus, Od. θ 284. ab Homero nominatur. Ipse Archilochus fragm. 92. (Θάσον δὲ τὴν τρισοϊζυρὴν πόλιν, ap. Eustath. Od. ε t. 3. p. 1542. ed. Rom.) insulam Thasum πόλιν dicit. Lysias contra Andocid. ἔπειτα δὲ καὶ διώχληκε πόλεις πολλὰς ἐν τῇ ἀποδημίᾳ, Σικελίαν, Ἰταλίαν, Πελοπόννησον κ. τ. λ.. Aristides de Neptuno t. 1. p. 20. ed. Jebbii Oxon. 1722. καὶ πόλεις δὲ ἐπολίσατο τοῖς ἀνθρώποις, ἃς καὶ νήσους νυνὶ καλοῦμεν Aeschil. Εὐμεν. 75. insulas περιῥῤύτους πόλεις vocat. Sic Propert. l. 3. el. 9.16. observante Huschke Miscell. philol. P. 1. p. 24. Praxitelem Paria vindicat urbe lapis. — Liebel loc. sup. cit. fragm.76. p. 179-80. Simili cause, simili effetti: tempi simili, costumi simili, e lingua e parole sempre analoghe ai costumi. Questo chiamar città i paesi, probabilmente derivò dal modo in cui vivevano gli uomini prima delle prime città; già bastantemente civili, bastantemente riuniti insieme, ma non però tanto da far città in corpo, bensì borghi, e villette in gran numero, occupanti gran tratto di paese. Tutto questo tratto si dovette da principio chiamar πόλις, onde poi fu trasferita la significazione a città (quando cioè le città vi furono), e non già viceversa. Questi erano i tempi in cui Atene non era altro che quattro ( Plutar. in Thes. Euripid. Heraclid. 81.), o 11. (Steph. Byz. Ἀθῆναι ) o 12. (Theophr. Charact. c. 26. fin. in addition. ex ms. Vat.) borgate sparse per l’Attica, poi riunite da Teseo, (v. Meurs. in Theseo) e chiamate con un solo nome Atene; e Mantinea similmente in Arcadia ec. Ora sappiamo dalla storia che lo stesso modo di abitare a borgate si usò nei bassi tempi; allo stesso modo poi, crescendo la nuova civiltà, le città si formarono (v. Robertson, introduz. alla Stor. di Carlo V), ed appunto allo stesso modo, troviamo negli antichi fino al 500, ec. le città chiamate generalmente con nome di terre, voce significativa propriamente di paesi, nel qual modo si chiamano anche oggi nello scrivere con eleganza, eziandio le città grandi, in volgar comune e favellato, i castelli, e i così detti paesi. Così in francese anche oggi pays per città, benchè proprio nome di regione. (V. del resto i Diz. franc. e spagn. e ingl. ec. in Terra ec. e nei nomi di città, e così Forcell. Gloss. ec. Da terra per città, terrazzano p. cittadino. ec.) Cosa che anche conferma la mia opinione sopra il vero primitivo significato di πόλις. (Bologna. 1825. 9. Dec. Vigilia della Venuta della Santa Casa.).

Tiglio- tilleul.

Selva per albero cioè per lauro. Petr. Sestina 1. stanza 6. E per legno, ib. chiusa.

Sentido per que siente, (così risentito ec.), e quindi sostantivato per sentimento, senso. Esclarecido. V. i Diz. spagn.

Pausar spagn.

Sentimenta.

Aerugo o rubigo o robigo- rouille.

Ἡττημένη τοῖς πρώην ἡ τύχη καθ' ἕνα τῶν ἀγώνων προσφέρουσα, νῦν τι καινὸν ἐτεχνάσατο καθ' ἡμῶν. Severus Sophista Alexandrinus in Ethopoeiis editis a Galeo in libello cui tit. Rhetores selecti nempe cum Demetrio περὶ ἑρμηνείας ec. Oxon. 1676., Ethop. 3. pag. 221. Il genitivo per l’accusativo. (Bologna. 16. Dic. 1825.).

Summittere per mandare in alto; o vero submittere. V. Forcell.

Marceo o marcesco, marcitum; marcire, marcito marchitar spagn.

Siccome ad essere vero e grande filosofo si richiedono i naturali doni di grande immaginativa e gran sensibilità, quindi segue che i grandi filosofi sono di natura la più antifilosofica che dar si possa quanto alla pratica e all’uso della filosofia nella vita loro, e per lo contrario le più goffe o dure, fredde e antifilosofiche teste sono di natura le più disposte all’esercizio pratico della filosofia. Sommo filosofo fu il Tasso pei suoi tempi quanto alla contemplazione. Ma chi meno di lui disposto per natura alla pratica della filosofia? chi più disposto anzi alla pratica delle dottrine più illusorie, di quelle dell’entusiasmo ec.? E infatti chi meno filosofo di lui nella pratica, e nell’effetto che gli accidenti della vita producevano nel suo spirito? Viceversa chi meno filosofo in teoria che certi spensierati e imperturbabili e sempre lieti e tranquilli uomini, che pur nella pratica sono il modello e il tipo del carattere e della vita filosofica? Veramente, siccome la natura trionfa sempre, accade generalmente che i più filosofi per teoria, sono in pratica i meno filosofi, e che i men disposti alla filosofia teorica, sono i più filosofi nell’effetto. E si potrebbe anzi dire che la mira, l’intenzione e la somma della filosofia teorica e de’ suoi precetti ec. non consiste effettivamente in altro che nel proposito di rendere la vita e il carattere di quelli che la posseggono, conforme a quello di coloro che non ne sono capaci per natura. Effetto che ella difficilmente ottiene. (Bologna. 20. Dic. 1825.).

Bebido per que ha bebido. Estar reñidos. Lucido per luciente, spagn.

Providens-prudens.

Νικίας δ' ὁ ζωγράφος καὶ τοῦτο εὐθὺς ἔλεγεν εἶναι τῆς γραφικῆς τέχνης οὐ μικρὸν μέρος, τὸ λαβόντα ὕλην εὐμεγέθη γράφειν. Demetr. de Elocut. sect. 76. ed. Gale p. 53. (Bologna. 22. Dic. 1825). Εὐθὺς οὖν πρώτη ἐστὶ χάρις ἡ ἐκ συντομίας. Ib. sect. 137. p. 85. (24. Dic. 1825.).

Gradito, aggradito ec. per gradevole, grato. (25. Dic. dì del S. Natale. 1825.).

Favorito per favorevole. V. le Giunte Veron. alla Crus. in Favoritissimo, e la Crus. in Favorato per prospero. Scaltrito da scaltrire per scaltro. Scalterito; scalteritamente o scaltritamente per scaltramente ec.

Degnò mostrar del suo lavoro in terra. Petr. Canz. Gentil mia donna, l’veggio, stanza 2. v. 3. (27. Dic. Festa di S. Giovanni Evangelista. 1825. Bologna.).

Comparatus per par, comparabilis. V. Forc. Crus. ec.

Demetrio περὶ ἑρμηνείας , sect. 240. ed. Gale, Oxon. 1676. p. 134. φιλοφρόνησις γάρ τις βούλεται εἶναι (vuol essere, cioè dev’essere) ἡ ἐπιστολὴ σύντομος. Id. sect. 2. p. 2. βούλεται (vogliono cioè debbono) μέντοι διάνοιαν ἀπαρτίζειν τὰ κῶλα ταῦτα (Bologna. 28. Dic. 1825.). V. la per seg. capoverso 8. e qui sotto e p. 4224.

Al detto di θέλειν o ἐθέλειν per potere ha attinenza il nostro malvolentieri per difficilmente (Crus.) e volentieri per facilmente (Giunte Veronesi).

Ἁπλοῦν γὰρ εἶναι βούλεται (vuole cioè dee) καὶ ἀποίητον τὸ πάθος. Demetr. de elocut. sect. 28. p. 22. (Bologna. 31. Dic. 1825.).

Onde per dove, quo. Petr. Son. Occhi piangete, v. 6. (Bologna 1. del 1826.).

Crates, grata, grada-graticcio, graticcia, gradella, graticola, ingraticolato, craticcio (Crus. Veron.) ec. V. Forc. in craticula, i franc. spagn. ec.

Éploré per qui plorat da s’épleurer. Zélé per qui zèle, zelante. Homme réfléchi o irréfléchi.

Così avestu riposti De’ bei vestigi sparsi. Petr. Canz. Se ’l pensier che mi strugge. Stanz. 5. v. 7. 8.

Smoccare (Crus. Veron.) — Smoccolare, coi derivati.

Boves, bovi — buoi.

Che cosa è la vita? Il viaggio di un zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso, e quivi inevitabilmente cadere. (Bologna. 17. Gen. 1826.).

Homme réservé. Riservato. V. gli spagn. Enjoué. Cabalgado per que cabalga o que està a caballo.

Torso-torsolo. Bitorzo-bitorsolo, bitortolato, bitortoluto.

Incrociare-incrocicchiare ec.

Segnalato, señalado, signalé per da segnalarsi o che si segnala o si è segnalato ec. coi derivati. Valido per que vale appresso qualcuno ec. V. i Diz. Desvalido.

Παραφυλακτέον δὲ (cavendum) καὶ τὸ παραλλήλους τιθέναι τὰς πτώσεις (pares casus) ἐπὶ διαφόρων προσώπων ἀμφίβολον (anceps, dubium) γὰρ γίνεται τὸ ἐπὶ τίνα φέρεσθαι , a chi riferire i detti casi. Theo sophist. Progymnasm. 2. hoc est de narrat. ed. Basileae 1541. p. 36. L’infinito usato in modo affatto italiano. (Bologna. 24. Gen. 1826.). V. p. seg. capoverso 3.

Hombre o cosa arriesgada, arrischiato, arrisicato ec. per rischioso o che si arrischia. V. i francesi in hasardé ec. Agiato per pigro, cioè che opera ad agio, che si adagia ec.

Affettato, affecté ec. per che affetta, o che ha affettazione.

Alla p. 4162. capoverso 5. Ἐν μὲν τοῖς ἐγκωμίοις καὶ ψόγοις φροντιστέον καὶ προοιμίων, ἐπὶ δὲ τοῦ τόπου (in loco communi) ἐπίνοια τοιαύτη τὶς εἶναι βούλεται (absolute) ὥστε ἀποκοπὴν εἶναι δοκεῖν, καὶ μέρος λόγου ἑτέρου προειρημένου. In laudando et vituperando, ne exordia quidem negligenda, loci vero huiusmodi quaedam est consideratio, ut amputatum quiddam videatur, atque pars orationis alterius iam habitae. (versio Joachimi Camerarii). Theo sophista, Progymnasm. 5. de loco communi, ed. Basileae 1541. p. 71. (30. Gen. 1826. Bologna.). V. p. 4212. fin.

Gli spagnuoli dicono mas ridondante o vero per niuno come noi altro. Sin mas oro ni mas seda , cioè senza punto d’oro nè di seta. Augustin de Roxas, Viage entretenido. (Bologna. 1. Feb. 1826.).

Il genitivo per l’accusativo Epitteto cap. 70. ἐπίσπασαι ψυχροῦ ὕδατος , piglia una boccata d’acqua fresca.

Avenido, estar avenidos ec. per conveniente, concorde, avvenente ec. V. i Diz. Visto spagn. per avveduto ec. Terencio fuè mas visto en los preceptos (poco sotto dice: Porque en esto Terencio fuè mas CAUTO ). Lope de Vega, Arte nuevo de hacer comedias . Négligé, Desabrido. Consigliato, sconsigliato, bene o mal consigliato.

Spessissimo noi, come un malato, un convalescente, che si cura, un povero che si procaccia il vitto con gran fatica, usando una infinita pazienza per solo conservarci la vita, non facciamo altro che patire infinitamente per conservarci, per non perdere, la facoltà di patire, ed esercitar la pazienza per preservarci il potere di esercitarla, per continuarla ad esercitare. (Bologna. 4. Feb. 1826.).

Alla p. 4163. capoverso 5. Analogo è questo luogo del medesimo Teone, Exempl. progymnasm. chria 1. p. 116. ἐν ταῖς ἀποβολαῖς τῶν παίδων καὶ τῶν ἀναγκαιοτάτων, οὗ (ubi) πολλάκις τὸ πάθος μεῖζον ἢ φέρειν V. p. 4190.4299.

Homme mésuré, misurato, smisurato, mesurado, desmedido ec. V. i Diz.

Affidato, sfidato per che si affida o sconfida ec. Confiado, desconfiado ec. Desasosegado. Resentido.

Coyuntar, descoyuntar da coniunctus, come juntar ec. V. i Diz. Compulser, expulser.

Αὐτῶν δέ γε τῶν ὑποθήκων (monitorum) τὰς μὲν ἐν γράμμασι, τὰς δὲ ἀπὸ στόματος οὑτωσὶ (così ridondante, della qual frase, altrove) πρὸς τοὺς συνόντας εἰπὼν, ἐν μνήμῃ κατέλιπε (Ἰσοκράτης). Theo sophist. Exempl. progymnasm. chria 3. sub init. ed. Basil. 1541. p. 129-30.

Τίς οὐκ ἂν θαυμάσειε πρὸ τῶν ἄλλων εὐθὺς τὴν ἀλήθειαν (primum ante cetera veritatem huius sententiae Isocratis). Theo, loc. sup. cit. p. 130.

Τί δὲ θαυμαστὸν εἰ προσδεῖται πόνων ἐκείνη (ἡ παιδεία), μηδὲ τῶν ἐλαττόνων ἄνευ ταλαιπωρίας ἐθελόντων περιγίνεσθαι. Ib. p. 137.

Dilatado per latus, v. p. 4167. come éloigné per lontano: dénué, assuré, rapproché, reculé, varié, prématuré, approfondi, élevé, prolongé, rembruni, azuré, rafiné, arrondi, infecté, participii in luogo di aggettivi.

Ἐν ἄλλοις τε οὐκ ὀλίγοις, καὶ οὐχ ἥκιστα τοῖς πρώτοις τῆς Ἰλιάδος εὐθὺς. Ib. sentent. 2. p. 151.

Malinteso per male, cioè poco, intendente. V. i franc. ec. Homme etc. recherché.

Ἤκουε γὰρ ἴσως (ὁ Χρύσης) τὴν περὶ τὸ γύναιον (τῆς Βρισήϊδος) τοῦ βασιλέως (Ἀγαμέμνονος) σπουδήν. Theo loc. sup. cit. Destruct. p. 152. V. p. seg. e p. 4166.

Τῶν ἀπολωλότων, τὸ ἐκείνου μέρος , che erano periti, per la sua parte, cioè per quanto era in lui. Ib. Assert. 1. p. 158 V. p. 4166.

Sperimentato, experimentado, expérimenté, inexpérimenté, esperimentato, inesperimentato ec. per che ha o non ha sperimentato. V. anche provato nella Crusca. Circospetto per qui circumspicit. V. Forc. Gloss. i francesi spagnuoli ec.

Risentire-risensare. V. Crusca.

Ὥστε καὶ εἰκότως σιγᾷ τὴν πρώτην, καὶ μετὰ τοῦτο φθέγγεται. Theo, loc. sup. cit. Assert. 2. p. 164. Alla prima. Τὴν πρώτην per da prima, da principio ec. è usato dallo stesso anche Loc. commun. 1 p. 171. V. p. 4211.4226. (Bologna 16. Feb. 1826.).

Οὕτως ἰὼν (andando, procedendo, cioè governandosi, adoperando) σωφρόνως (prudentemente, saviamente) ὁ Βασιλεὺς, ὑπερεῖδε τῆς ἱκετηρίας (ὁ Ἀγαμέμνων τοῦ Χρύσου). Ib. p. 162. Itaque considerate progressus rex, supplicationem illam despexit. (Versio Camerarii.). V. p. 4464.

Alla p. 4164. capoverso penult. Così anche Loc. commun. 1. p. 172. lin. 2.

Sbadato coi derivati per che non bada, non suol badare. Accorto, avveduto, malaccorto, malavveduto, inaccorto ec. disavveduto. Saporito per saporoso.

Mulina plur. V. le Giunte Veronesi alla Crusca. Le fata, le fondamenta, le pera ec. le prestigia. V. Monti Proposta, in questa voce. Le uova.

Κεῖνος φέριστος ὅστις ἀγνοεῖ βροτῶν
Ὡς ἔστιν ἐξαμαρτόντα μὴ δοῦναι δίκην•
Χείριστος δ' ὁ μεγίστην ἐξουσίαν λαβών.

( Νέωντα δ' ὅστις οὐ δοκεῖ βροτῶν. Simonid. ap. Stob. ). (18. Feb. 1826.).

Diminutivi positivati. Chiovo-chiovello coi derivati, chiavo-chiavello coi derivati, chiavare-chiavellare ec. Sommeil, soleil, (somniculus, soliculus), e simili.

Spe-cu-lum — spe-gli-ospe-cchi-o. Ventricolo — ventriglio.

Ratto per rapido è il lat. raptus da rapio (v. questi pensieri p. 2789.), e vale qui rapit in senso att. o neutro, ed è un participio aggettivato.

Idolum aliquandiu retro (qualche tempo addietro) non erat. Tertull. de Idololat. c. 3. V. Forc. ec. (Bologna 19. Feb. Domenica 2. di Quaresima. 1826.).

Vinco-vinciglio. Avvincere — avvinchiare, avvinghiare, avvincigliare.

Alla p. 4164. capoverso ult. Ἐλεεῖσθαι ἀξιοῖς παρὰ τούτων οἵ, τὸ σὸν μέρος, οὐκ εἰσί ; (non esistono più, cioè sono periti). V. p. 4211.

Ἄθλιος vale a un tempo infelice, e malvagio, del che altrove.

Non solo noi (Tanto è lungi che ec.) non possiamo sapere nè anche sufficientemente congetturare tutto quello di cui sia capace, aiutata da circostanze favorevoli, la natura umana in universale, ma eziandio di un solo individuo, o passato o presente o futuro, noi non possiamo sapere esattamente nè congetturare quanta estensione, in circostanze appropriate, avessero potuto o pur potranno acquistare le sue facoltà. (Bologna. 21. Feb. 1826.).

Αὐτίκα in principio di periodo ec. del che altrove. Teone Sofista, loc. sup. cit. Comparat. 2. h. e. Achillis et Diomedis, initio, p. 204. lin.1. (Bologna. 22. Feb. 1826.).

Scempio-scempiato, coi derivati.

Fugio-fugito. V. Forcell.

Diminutivi greci positivati. ἄρνος-ἄρνειον (come in ital. agnello, e agneau ec.).

Alla p. 4164. capoverso penult. Così in Proposito p. 221. lin. 4 a fin. e 225. lin. 3. τὸ γύναιον per moglie semplicemente.

Ventolare att. e neutro. Sventolare. Bezzicare. Bazzicare.

Altro per alcuno, niuno. V. Crus. in Fare contrappunto.

Conto, sincope di cognitus, per conoscente, ammaestrato ec. V. la Crus. ed anche acconto. Sparuto per sparvente poichè in origine non è che il contrario di parvente, appariscente, vistoso ec.

Fondamenta.

Concordato per concorde, o concordante, coi derivati. Accordato, discordato, scordato per che scorda, scordante. V. Crus. Riguardato per che ha riguardo.

Frettoloso. Freddoloso. Meticulosus. Formidolosus. Fraudulentus. Frauduleux. Turbulentus. Truculentus. Succulentus.

Tigna, tinea-tignuola. Aranea-araneola ec.

Alla p. 4145. lin.1. Ciò è riferito da Luciano adversus indoctum plures libros ementem , dove narra anche di un’altra compera simile, che fa anche più al caso di esser paragonata con quelle che fanno i curiosi inglesi di oggidì.

Voveo-votum-votare, ital. V. Forcell. spagn. ec. Transire-transitare.

Senza altrimenti (cioè punto, in niun modo) ordinare sua famiglia. Vit. SS. PP. nelle Giunte Veronesi v. In trasatto.

Cutretta-cutrettola. Costa lat. e ital. costola. Ragnolo, ragnuolo.

Indefessus, indefesso ec. per infaticabile. V. anche Forcell. in indefatigatus, infatigatus ec. (Bologna. 4. Marzo. 1826.). Rilevato, relevé per alto. Inexhaustus ec.

Alla p. 4164. capoverso 9. Così étendu nello stesso senso; disteso, distesamente ec. E v. l’es. di Dante e del Tasso nella Crusca in Dilatato.

Sbevazzare.

Fare con accusativo di tempo, per passare, vedi la Crusca. — Schol. Euripid. ad Hippolyt. v. 35. ἔθος γὰρ τοῖς ἐφ' αἵματι (ob caedem patratam) φεύγουσι (exulantibus) ἐνιαυτὸν ποιεῖν ἐκτὸς τῆς πατρίδος. V. p. 4210. fin.

Serpere lat. e ital. — serpeggiare. Pasteggiare cioè far pasti ec.

Riferisce Cicerone de Divinat. un detto di Catone che egli si maravigliava come l’uno aruspice scontrandosi coll’altro si tenesse dal ridere. Applichisi questo detto ai Principi nei loro congressi, e massimamente in quelli degli ultimi tempi. (Bologna. 6. Marzo. 1826.).

Scappare-scapolare.

Curvatus per curvus. Virgil. nella descrizione del turbo giuoco dei fanciulli. V. Forcell.

Molti divengono insensibili alle lodi, e restano però sensibili al biasimo ed al ridicolo, sensibilità che essi perdono assai più tardi o non mai. E ben più difficilmente si perde questa sensibilità che quella. Certamente poi niuno si trova che essendo sensibile alle lodi, sia insensibile ai biasimi, alle censure, alle male voci o calunnie, ai motteggi; bensì viceversa si trovano molti. Tanto, anche nelle cose puramente sociali, la facoltà di provar piacere è nell’uomo più caduca e più limitata che quella di sentir dispiacere. (Bologna. 9. Marzo. 1826.).

Pece-pegola, impegolare ec.

Maledetto, esecrato, odiato, abbominato, abborrito ec. per degno di maledizione ec., o che suole essere maledetto ec. e V. Forcell. E per contrario amato, desiderato, sospirato ec.

Alla p. 4137. L’uomo tende ad un fine principale e unico. Ogni suo atto volontario o di pensiero o d’opera è indirizzato a questo fine. Questo fine è dunque il suo sommo bene. E questo sommo bene che è? Certamente la felicità. Sin qui tutti i filosofi sono d’accordo, antichi e moderni. Ma che è, ed in che consiste, e di che natura è la felicità conveniente e propria alla natura dell’uomo, desiderata sommamente e supremamente, anzi per verità unicamente, dall’uomo, cercata e procacciata continuamente dall’uomo? Che cosa è per conseguenza il sommo bene dell’uomo, il fine dell’uomo? Qui non v’è setta, non v’è filosofo, nè tra gli antichi nè tra i moderni, che non discordi dagli altri. Sonovi alcuni che si maravigliano di tanta discordia dei filosofi in questo punto, dopo tanta loro concordia nel rimanente. Ma che maraviglia? Come trovare, come determinare, quello che non esiste, che non ha natura nè essenza alcuna, ch’è un ente di ragione? Il fine dell’uomo, il sommo suo bene, la sua felicità, non esistono. Ed egli cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose, ma le cerca senza sapere di che natura sieno, in che consistano, nè mai lo saprà, perchè infatti queste cose non esistono, benchè per natura dell’uomo sieno il necessario fine dell’uomo. Ecco spiegate le famose controversie intorno al sommo bene. Il sommo bene è voluto, desiderato, cercato di necessità, e ciò sempre e sommamente anzi unicamente, dall’uomo; ma egli nel volerlo, cercarlo, desiderarlo, non ha mai saputo nè mai saprà che cosa esso sia (le dette controversie medesime ne sono prova); e ciò perchè il suo sommo bene non esiste in niun modo. Il fine della natura dell’uomo esisterà forse in natura. Ma bisogna ben distinguerlo dal fine cercato dalla natura dell’uomo. Questo fine non esiste in natura, e non può esistere per natura. E questo discorso debbe estendersi al sommo bene di tutti gli animali e viventi. (11. Marzo. Vigil. della Domenica di Passione. 1826. Bologna.).

L’uomo (e così gli altri animali) non nasce per goder della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedano, per conservarla. Nè esso, nè la vita, nè oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui, ma al contrario esso è tutto per la vita. — Spaventevole, ma vera proposizione e conchiusione di tutta la metafisica. L’esistenza non è per l’esistente, non ha per suo fine l’esistente, nè il bene dell’esistente; se anche egli vi prova alcun bene, ciò è un puro caso: l’esistente è per l’esistenza, tutto per l’esistenza, questa è il suo puro fine reale. Gli esistenti esistono perchè si esista, l’individuo esistente nasce ed esiste perchè si continui ad esistere e l’esistenza si conservi in lui e dopo di lui. Tutto ciò è manifesto dal vedere che il vero e solo fine della natura è la conservazione delle specie, e non la conservazione nè la felicità degl’individui; la qual felicità non esiste neppur punto al mondo, nè per gl’individui nè per la specie. Da ciò necessariamente si dee venire in ultimo grado alla generale, sommaria, suprema e terribile conclusione detta di sopra. (Bologna 11. Marzo. 1826.).

Negletto, contemptus (v. Fedro, fab. Calvus et musca ), spregiato, dispregiato o disprezzato ec. ec. per dispregevole. Implacato per implacabile. V. Forc. ec. Provvisto per che provvede o ha provveduto, del che altrove. V. Monti Proposta , in provvisto, dove nel 2.do esempio trovi anche avvisato in senso simile.

Puretto diminutivo positivato, aggettivo per puro, come pretto. V. Crusca.

Inconcusso per inconcutibile. V. Forc. ec. Inaccessus, inaccesso ec. per inaccessibile. Rampare; radice di rampicare, di cui altrove. V. Monti Proposta , v. rampare. Fastello, affastellare ec. diminutivi positivati da fascio per peso. Cespo-cespuglio. Vituperato per vituperoso, ec. o degno di vitupero, di esser vituperato, vituperevole ec. V. la Crus. non solo nel par. 2. ma in tutti gli altri esempi.

Poco restò per poco mancò o manca ec. V. Monti Proposta , in Restare.

Πῖλος-πιλίον, σάνδαλον-σανδάλιον, τρίβων-τριβώνιον, ὅρκος-ὅρκιον.

Corona-corolla, lat. diminut. come da asinus, asellus, ec.

Abbreviato per breve.

Febbricare o febricare per febricitare. V. Crus. in febbricare, febbricante, febricante ec. Sembra esser la radice di febricito. V. Forc. Erpicare per inerpicare o inarpicare. Crus.

Per poco è o fu ec. che non. V. Dante Inf. c. 30.

Rocco-Rocchetto. V. Monti Proposta , v. Rocco. Pelliccia da pellicula per pelle di animali ec. V. i franc. spagn. ec. Bendabandeau. Floccus- flocon. Linon.

Infamato per infame. Crus. Incolpato per incolpabile o per colpevole ec. V. Crus. e Monti Proposta v. Incolpato, e nella Bibliot. ital. Dial. di Matteo, Taddeo ec. Temuto, formidatus, paventato ec. per formidabile, massime in poesia.

σωμάτιον per σῶμα. Ateneo l. 4. p. 178 E. ed. Commelin. 1598.

Praetexo, praetextum- prétexter. Eximo, exemptum exempter.

Alla p. 4145. lin. 4. Quin et factitii canes ad fores collocati; quales illi quos ex auro et argento fabricarat Vulcanus Odyss. 7. 93. Δῶμα φυλασσέμεναι μεγαλήτορος Ἀλκινόοιο Domum ut custodirent magnanimi Alcinoi. Quod Romanis etiam in more fuisse docet Petronius Arbiter, c. 29. p. 104. ed. Burman. Non longe, inquit, ab ostiarii cella canis ingens catena vinctus in pariete erat pictus, superque quadrata litera scriptum: Cave, Cave Canem. Feithius, Antiquitat. Homericar. lib. 3. c. 11. par. 2. Uso conservato dai moderni. V. p. 4364. (20. Marzo. Lunedì Santo. Bologna. 1826.).

Rinegato, renegado ec. per che ha rinegato. Homme déterminé. Pensées, o idées suivies, per qui se suivent, conséquentes, conseguenti le une dalle altre. Raisonnement suivi etc.

La civiltà moderna non deve esser considerata come una semplice continuazione dell’antica, come un progresso della medesima. Questo è il punto di vista sotto cui e gli scrittori e gli uomini generalmente la sogliono riguardare; e da ciò segue che si considera la civiltà degli Ateniesi e dei Romani nei loro più floridi tempi, come incompleta, e per ogni sua parte inferiore alla nostra. Ma qualunque sia la filiazione che, istoricamente parlando, abbia la civiltà moderna verso l’antica, e l’influenza esercitata da questa sopra quella, massime nel suo nascimento e nei suoi primi sviluppi; logicamente parlando però, queste due civiltà, avendo essenziali differenze tra loro, sono, e debbono essere considerate come due civiltà diverse, o vogliamo dire due diverse e distinte specie di civiltà, ambedue realmente complete in se stesse. Sotto questo punto di vista, diviene più che mai utile e interessante il parallelo tra l’una e l’altra. E veramente l’uomo e le nazioni sono capaci, come di stato selvaggio, di barbarie, di civiltà, tutti stati ben distinti tra loro per genere, così di diverse specie di civiltà, distinte non solo per semplici nuances, come quelle che distinguono ora la civiltà presso le diverse nazioni colte, ma per caratteri speciali, essenziali, determinati dalle circostanze, e spesso e in gran parte dal caso. Ed è quasi impossibile, come il trovare due fisonomie perfettamente uguali, benchè tutti sieno generati in uno stesso modo, così il trovare in due popoli qualunque, (o in due tempi) che non abbiano avuto grande ed intima relazione scambievole, una civiltà medesima, e non due distinte di specie. — Intendo per civiltà antica, e per termine di comparazione colla moderna, la civiltà dei Greci e dei Romani, e dei popoli antichi da essi governati e civilizzati, o ridotti ai loro costumi. — Può servir di preliminare ad una Comparazione degli antichi e dei moderni. (Bologna. Martedì Santo. 1826. 21. Marzo.)

Mando, mansum-mansare corrotto in mangiare, manger, manjar. V. Forc. e Gloss. Manducare (che noi dicemmo anche manicare, quasi mandicare) sembra un frequentativo di mandere, come fodicare di fodere ec. Credo però che l’u di manduco sia lungo. Del resto dello scambio dell’u coll’i, ho detto altrove.

Colpire-colpeggiare.

En métaphysique, en morale, les anciens ont tout dit. Nous nous rencontrons avec eux, ou nous les répétons. Tous les livres modernes de ce genre ne sont que des redites. Voltaire, Dict. philosoph. art. Emblème. (Bologna. Giovedì Santo. 1826. 23. Marzo.).

Eruca-ruchetta, roquette ec. Falco- faucon, falcone ec. Nepita o nepeta lat. nepitella, nipitella.

Entortiller. Naziller. Bouillir-bouillonner.

Maereo o moereo — moestus o maestus per maerens.

Attorcereattorcigliare, attortigliare, intorticciato. Squartare- écarteler.

Et qui rit de nos moeurs ne fait que prévenir Ce qu’en doivent penser les siècles à venir. M. de Rulière, Discours en vers sur les Disputes, rapporté par Voltaire Dict. phil. au mot Dispute.

Dieu puissant! permettez que ces tems déplorables Un jour par nos neveux soient mis au rang des fables. Ibidem.

Corata-coratella, curatella, coradella ec.

Grattare-grattugiare. Sciorinare verbo diminut. V. Monti Proposta.

Macinare, macerare, macina-maciullare, maciulla. Spilluzzicare (da spelare).

Sarmata, stando all’etimologia del nome, significa carrettiere da ἅρμα, che in greco vuol dir carro, ed aggiuntavi l’aspirazione sarma. Dal non aver usato que’ popoli (dell’alto ed ultimo settentrione dell’Europa e dell’Asia) abitazioni fisse, per aver avuto case traslocabili come specie di carri, furono da’ Greci chiamati Sarmati. Ciampi, nell’Antolog. di Firenze. Febbraio 1826. num.62. p. 28. not. 6. (30. Marzo. 1826. Bologna.).

Piaggia, spiaggia, diminutivi positivati di plaga, da plagula, come nebbia da nebula, ec. ec.

Elevato, sollevato, per alto. V. Crus. in Elevatissimo e Sollevatissimo.

A voler che uno possa esser buon comico o buon satirico, è di tutta necessità che questo tale sia, o sia stato degno di satira e di commedia, e ciò per non poco tempo, e in quelle cose medesime che egli ha da porre in riso. (Bologna. Domenica in Albis. 2. Aprile. 1826.).

Homme emporté per qui s’emporte, che è solito s’emporter. Empressé.

Accuratus, accurato ec. per qui curat, o qui accurat.

Sappiamo da Plinio che chiamavansi pernae dalla lor forma di presciutto alcune conchiglie frequentissime nelle isole Ponticae, o come altri leggono Pontiae. Da esse traevasi la madre perla: e questo nome italiano di perla non viene certamente da altro che da perna o pernula. (Diminutivo positivato.) Amati, Iscrizioni antiche scoperte da non molto tempo, e meritevoli di esser poste a notizia de’ dotti. ( Articolo del Giornale arcadico, Roma Dicembre 1825. N.84. tom. 28.) num.25. p. 358. (Bologna 7. Aprile. 1826.).

Testis-testiculus, testicolo, testicule ec. Citrus citron. Hirundo-hirondelle.

Magnum videlicet illis (Athenaei) temporibus videbatur, duabus linguis posse loqui: quod in nescio quo habitum loco miraculi refert Galenus: δίγλωττός τις, inquit, ἐλέγετο πάλαι, καὶ θαῦμα τοῦτ' ἦν, ἄνθρωπος εἷς, ἀκριβῶν διαλέκτους δύο. Bilinguis olim quidam dicebatur: eratque res miraculo mortalibus, homo unus duas exacte linguas tenens. Haec Galenus in secundo de Differentiis pulsuum. Casaub. Animadv. in Athenae. lib.1. cap. 2. (Bologna 14. Aprile. 1826.).

Οὐκ ἐθέλειν per non potere, οὐ πεφυκέναι, vedilo nel Casaub. loc. sup. cit. cap. 5. in un verso di Filosseno. (Bologna 17. Aprile. 1826.).

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.

Questo sistema, benchè urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all’ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?

Si potrebbe esporre e sviluppare questo sistema in qualche frammento che si supponesse di un filosofo antico, indiano ec.

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo (e quindi è ben difficile il supporre ch’ella non sia un male anche per l’universo intero, e più ancora difficile si è il comporre, come fanno i filosofi, Des malheurs de chaque être un bonheur général. Voltaire, épître sur le désastre de Lisbonne. Non si comprende come dal male di tutti gl’individui senza eccezione, possa risultare il bene dell’universalità; come dalla riunione e dal complesso di molti mali e non d’altro, possa risultare un bene.) Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al lor modo patiscono necessariamente, e necessariamente non godono, perchè il piacere non esiste esattamente parlando. Or ciò essendo, come non sì dovrà dire che l’esistere è per se un male?

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quest’altro è roso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l’altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile, va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro. (Bologna. 19. Aprile. 1826.). Certamente queste piante vivono; alcune perchè le loro infermità non sono mortali, altre perchè ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. (Bologna. 22. Apr. 1826.).

Avisé per accorto ec. Ëtre osé per oser. Voltaire.

Il piacere delle odi di Anacreonte è tanto fuggitivo, e così ribelle ad ogni analisi, che per gustarlo, bisogna espressamente leggerle con una certa rapidità, e con poca o ben leggera attenzione. Chi le legge posatamente, chi si ferma sulle parti, chi esamina, chi attende, non vede nessuna bellezza, non sente nessun piacere. La bellezza non istà che nel tutto, sì fattamente che ella non è nelle parti per modo alcuno. Il piacere non risulta che dall’insieme, dall’impressione improvvisa e indefinibile dell’intero. (Bologna. 22. Aprile. 1826.).

Poi che s’accorse chiusa dalla spera Dell’amico più bello. Petrar. Son. 79. della I. Parte: In mezzo di duo amanti onesta, altera. Grecismo manifesto. Notisi che il Petrarca non sapeva il greco.

Transgredior, transgressus- transgresser.

Réviser (rivedere): al detto altrove di avvisare ec.

Frango is — nau-fragor aris.

Alla p. 4142. Niente infatti nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia. Noi abbiam veduto delle cose inconcepibilmente maggiori di noi, del nostro mondo ec., delle forze inconcepibilmente maggiori delle nostre, dei mondi maggiori del nostro ec. Ciò non vuol dire che esse sieno grandi, ma che noi siamo minimi a rispetto loro. Or quelle grandezze (sia d’intelligenza, sia di forza, sia d’estensione ec.) che noi non possiamo concepire, noi le abbiam credute infinite; quello che era incomparabilmente maggior di noi e delle cose nostre che sono minime, noi l’abbiam creduto infinito; quasi che al di sopra di noi non vi sia che l’infinito, questo solo non possa esser abbracciato dalla nostra concettiva, questo solo possa essere maggior di noi. Ma l’infinito è un’idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell’esistenza di esso, neppur per analogia, e possiam dire di essere a un’infinita distanza dalla cognizione e dalla dimostrazione di tale esistenza: si potrebbe anche disputare non poco se l’infinito sia possibile (cosa che alcuni moderni hanno ben negato), e se questa idea, figlia della nostra immaginazione, non sia contraddittoria in se stessa, cioè falsa in metafisica. Certo secondo le leggi dell’esistenza che noi possiamo conoscere, cioè quelle dedotte dalle cose esistenti che noi conosciamo, o sappiamo che realmente esistono, l’infinito cioè una cosa senza limiti, non può esistere, non sarebbe cosa ec. (Bologna 1. Maggio. Festa dei SS. Filippo e Giacomo. 1826.). Pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esserlo stesso che il nulla. Pare soprattutto che l’individualità dell’esistenza importi naturalmente una qualsivoglia circoscrizione, di modo che l’infinito non ammetta individualità e questi due termini sieno contraddittorii; quindi non si possa supporre un ente individuo che non abbia limiti. (2. Maggio 1826.). V. p. 4181. e p. 4274. capoverso ult.

Tetta-teton (come da mamma, mammella ec.).

Fammi sentir di quell’aura gentile. Petr. Canz. Amor, se vuo’ ch’i’ torni al giogo antico. v. 31. cioè stanza 3. v. 1. Il genitivo per l’accusativo. V. ancora Canz. Quando il soave, stanza 4. v. 4 e Son. S’io fossi, v. ult. (3. Maggio. Festa della S. Croce. Vigilia dell’Ascensione. Bolog. 1826.).

Scorto per accorto, da scorgere per vedere ec. ovvero da scorgere per guidare, avvisare ec. come avisé ec. V. la Crusca.

Ἀλλὰ τὶ καὶ λέσχης (confabulationis) οἶνος (i.e. potatio) ἔχειν ἐθέλει. Ap. Athenaeum. Vid. Casaub. Animadvers. l. 1. cap. ult. init. Volere per dovere (Bologna. 6. Maggio. 1826.). Non vogliono per non debbono. V. Rucellai, Api v. 621.

Già è gran tempo che nè i principi nominano, nè ai principi si nomina, sia lodandoli, sia consigliandoli, sia in qualsivoglia discorso, la loro patria. È gran tempo che le città e le nazioni hanno cessato di esser le patrie dei principi. Esse sono i loro stati, o nativi o no che i principi sieno. Ciò è tanto vero che anche in Inghilterra, anche in Francia, dove, ed esiste una patria, ed i principi, vogliano o non vogliano, sono per li sudditi, e non i sudditi pel principe, pure nè essi nè altri parlando o scrivendo ad essi (e di raro anche, di essi), chiamano o l’Inghilterra o la Francia, loro patria. Si crederebbe abbassarli, offenderli, se si pronunziasse loro questo nome che mostra di avere una certa superiorità sopra di essi. I principi già da gran tempo si stimano, e da molti sono stimati essere, la patria essi medesimi. Distinguendoli dalla patria, si crederebbe oltraggiarli. Non così gli antichi. I Neroni e i Domiziani con nome falso, e di più superbo, ma che pur conservava l’idea della patria, s’intitolavano P. P. pater patriae (nelle medaglie, iscrizioni ec.). (Bologna 10. Maggio. 1826.).

Del digamma eolico vedi Casaubon. animadv. in Athenae. lib.2. cap. 16.

Picus-picchio, da un piculus, e non dal picchiare come dice la Crusca e stimasi comunemente. V. i franc. spagn. ec.

Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione rassegnata. (Bologna. 3. Giugno. 1826.).

Che guadagno fa l’uomo perfezionandosi? Incorrere ogni giorno in nuovi patimenti (i bisogni non sono per lo più altro che patimenti) che prima non aveva, e poi trovarvi il rimedio, il quale senza il perfezionamento dell’uomo non saria stato necessario nè utile, perchè quei patimenti non avrebbero avuto luogo. Proccurarsi nuovi piaceri, forse più vivi che i naturali, non però altrettanto 1. comuni, 2. durevoli, 3. facili ad acquistarsi, anzi i più, difficilissimi, perchè, se non altro, esigono una studiatissima educazione, e una lunga formazione dell’animo, e per ciò stesso non possono esser comuni a tutti, anzi ristretti a certe classi solamente, ed alcuni a certi individui. Nel tempo stesso distruggere in se la facoltà di provare, almeno durevolmente, i piaceri naturali. Lo stato naturale dell’uomo ha veramente dei piaceri, facili, comuni a tutti, durevoli, che non sono men veri perciò che noi non li possiamo più sentire, e però non concepiamo come sieno piaceri. Il solo stato di quiete e d’inazione sì frequente e lungo nel selvaggio (insopportabile al civile) è certamente un piacere, non vivo, ma atto e sufficiente a riempiere una grande e forse massima parte della vita del selvaggio. Vedesi ciò anche negli altri animali. Vedesi (tra i domestici, e più a portata della nostra osservazione) nei cani, che se non sono turbati o forzati a muoversi, passano volentierissimo le ore intiere, sdraiati con gran placidezza e serenità di atti e di viso, sulle loro zampe. (Bologna. 3. Giugno. 1826.). Moltissimi patimenti poi, massime morali, che senza la civilizzazione non avrebbero luogo, quantunque abbiano il loro rimedio, proccurato dalla stessa civilizzazione, p. e. la filosofia pratica, è ben noto che sono senza comparazione più facili, più frequenti, più comuni essi, che l’applicazione effettiva e l’uso efficace di tali rimedi. (Bologna. 3. Giugno. 1826.).

Alla p. 4178. fine. L’ipotesi dell’eternità della materia non sarebbe un’obbiezione a queste proposizioni. L’eternità, il tempo, cose sulle quali tanto disputarono gli antichi, non sono, come hanno osservato i metafisici moderni, non altrimenti che lo spazio, altro che un’espressione di una nostra idea, relativa al modo di essere delle cose, e non già cose nè enti, come parvero stimare gli antichi, anzi i filosofi fino ai nostri giorni. La materia sarebbe eterna, e nulla perciò vi sarebbe d’infinito. Ciò non vorrebbe dire altro, se non che la materia, cosa finita, non avrebbe mai cominciato ad essere, nè mai lascerebbe di essere; che il finito è sempre stato e sempre sarà. Qui non vi avrebbe d’infinito che il tempo, il quale non è cosa alcuna, è nulla, e però la infinità del tempo non proverebbe nè l’esistenza nè la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del nulla, infinità che non esiste nè può esistere se non nella immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria ed inseparabile dalla idea o dalla parola nulla, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o alla lingua. (Bologna. 4. Giugno. 1826. Domenica.).

ὑ ρίσκος - συ ρίσκος. V. Casaubon. ad Athen. l. 3. c. 4. init.

Litterato per letterario. Petr. Tr. della Fama, cap. 3. v. 102. V. Crusca. Tasso opp. ed. del Mauro, tom.4. p. 304. t. 10. p. 297. t. 9. p. 419.

Oreglia, origliare, origliere, per orecchia, orecchiare, orecchiere.

γραφεὺς (scriba) — greffier (se non viene da grief.).

Fallir la promessa . Petr. Tr. d. Divinità. v. 4-5.

Senz’altra pompa , per senza niuna. ib. V. 120. V. anche Son. Il successor di Carlo, v. 7. e Canz. Una donna più bella, st. 3. v. 12.

Mantua, Genua, Mantuanus ec. — Mantova, Genova, ec.

Vergheggiare. V. Crus. Vagheggiare.

Burchiellesco. Genere burchiellesco, Frottole, in uso anche tra i greci. Demetr. de elocut., sect. 153. Ἔστι δέ τις καὶ ἡ παρὰ τὴν προσδοκίαν χάρις ὡς ἡ τοῦ Κύκλωπος, ὅτι ὕστατον ἔδομαι Οὖτιν. οὐ γὰρ προσεδόκα τοιοῦτο ξένιον οὔτε Ὀδυσσεὺς οὔτε ὁ ἀναγινώσκων. καὶ ὁ Ἀριστοφάνης ἐπὶ τοῦ Σωκράτους, Κάμψας ὀβελίσκον, φησὶν, εἶτα διαβήτην λαβὼν, Ἐκ τῆς παλαίστρας θοιμάτιον ὑφείλετο. sect. 154 Ἤδη μέν τοι ἐκ δύο τόπων ἐνταῦθα ἐγένετο ἡ χάρις. οὐ γὰρ παρὰ προσδοκίαν μόνον ἐπηνέχθη, ἄλλ' οὐδ' ἠκολούθει τοῖς προτέροις. ἡ δὲ τοιαύτη ἀνακολουθία καλεῖται γρῖφος. ὥσπερ ὁ παρὰ Σώφρονι ῥητορεύων Βουλίας (οὐδὲν γὰρ ἀκόλουθον αὑτῷ λέγει) καὶ παρὰ Μενάνδρῳ δὲ ὁ πρόλογος τῆς Μεσσηνίας. I versi di Aristofane sono i 53. 54. della scena 2. atto 1. delle Nubi, edit. Aureliae Allobrogum 1608. Gli Scoli antichi però, dànno loro un senso, e gli spiegano come il resto. Simili ai commentatori della frottola del Petrarca. (Bologna. 5. Luglio. 1826.). Dei grifi V. Casaub. ad Athenae.. indice delle materie.

Esempio curioso di costanza spartana mista di bêtise. Lacone dignum est apophthegma illius Spartani, qui in os iniecto per summam rerum imperitiam, echino (pesce) cum omnibus spinis, ὦ φάγημα, inquit, μιαρὸν, οὔτε μὴ νῦν σε ἀφέω μαλακισθεὶς, οὔτ' αὖθις ἔτι λάβοιμι. O cibe impure, neque nunc ego te prae mollitie animi dimittam, neque iterum posthac sumam. (sono parole riferite da Ateneo.) Putavit homo durus suae constantiae interesse, ne vinci ab echini aculeis videretur. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 13. (Bologna. 6. Luglio. 1826.).V. p. 4206.

Il mangiar soli, τὸ μονοφαγεῖν, era infame presso i greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo di μονοφάγος si dava ad alcuno per vituperio, come quello di τοιχωρύχος, cioè di ladro. V. Casaub. ad Athenae. l. 2. c. 8. e gli Addenda a quel luogo. Io avrei meritata quest’infamia presso gli antichi. (Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione, perchè essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl’inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco di cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più allegria, più brio, più spirito, più buon umore, e più voglia di conversare e di ciarlare[a]

Così appunto la pensavano gli antichi. V. Casaub. ib. l. 8. c. 14. init.

[Chiudi]. Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l’uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell’unica ora del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della favella hanno un’altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perchè dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo, e la digestione non può esser buona se non e ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser quell’ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacchè molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell’ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell’ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare aspettare, e per osservar le bienséances che gli antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a mangiar da me. (Bologna. 6. Luglio. 1826.). V. p. 4245. 4248. 4275.

La barbarie suppone un principio di civiltà, una civiltà incoata, imperfetta; anzi l’include. Lo stato selvaggio puro, non è punto barbaro. Le tribù selvagge d’America che si distruggono scambievolmente con guerre micidiali, e si spengono altresì da se medesime a forza di ebrietà, non fanno questo perchè sono selvagge, ma perchè hanno un principio di civiltà, una civiltà imperfettissima e rozzissima; perchè sono incominciate ad incivilire, insomma perchè sono barbare. Lo stato naturale non insegna questo, e non è il loro. I loro mali provengono da un principio di civiltà. Niente di peggio certamente, che una civiltà o incoata, o più che matura, degenerata, corrotta. L’una e l’altra sono stati barbari, ma nè l’una nè l’altra sono stato selvaggio puro e propriamente detto. (Bologna. 7. Luglio. 1826.).

Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l’inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll’esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l’una che l’altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl’individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell’animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto negl’individui che nei popoli, l’impedirne il progresso. Gl’individui e le nazioni d’Europa e di una gran parte del mondo, hanno da tempo incalcolabile l’animo sviluppato. Ridurli allo stato primitivo e selvaggio è impossibile. Intanto dallo sviluppo e dalla vita del loro animo, segue una maggior sensibilità, quindi un maggior sentimento della suddetta tendenza, quindi maggiore infelicità. Resta un solo rimedio: La distrazione. Questa consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell’animo. Per tal modo il sentimento della detta tendenza sarà o interrotto, o quasi oscurato, confuso, coperta e soffocata la sua voce, ecclissato. Il rimedio è ben lungi dall’equivalere allo stato primitivo, ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile, da che l’uomo è incivilito. — Questo delle nazioni. Degl’individui similmente. P. e. il più felice italiano è quello che per natura e per abito è più stupido, meno sensibile, di animo più morto. Ma un italiano che o per natura o per abito abbia l’animo vivo, non può in modo alcuno acquistare o ricuperare la insensibilità. Per tanto io lo consiglio di occupare quanto può più la sua sensibilità. — Da questo discorso segue che il mio sistema, in vece di esser contrario all’attività, allo spirito di energia che ora domina una gran parte di Europa, agli sforzi diretti a far progredire la civilizzazione in modo da render le nazioni e gli uomini sempre più attivi e più occupati, gli è anzi direttamente e fondamentalmente favorevole (quanto al principio, dico, di attività e quanto alla civilizzazione considerata come aumentatrice di occupazione, di movimento, di vita reale, di azione, e somministratrice dei mezzi analoghi), non ostante e nel tempo stesso che esso sistema considera lo stato selvaggio, l’animo il meno sviluppato, il meno sensibile, il meno attivo, come la miglior condizione possibile per la felicità umana. (Bologna 13. Luglio 1826.).

Tabacco. Sua utilità. Suoi piaceri: più innocenti di tutti gli altri al corpo e all’animo; meno vergognosi a confessarsi, immuni dal lato dell’opinione; più facili a conseguirsi, di poco prezzo e adattati a tutte le fortune; più durevoli, più replicabili. (Bologna 13. Lug. 1826.).

Ser-g-ius — Ser-v-ius.

Smiris — smeriglio.

Lampare-lampeggiare. Volgere-voltare-volteggiare, voltiger.

Avvolticchiare. Smiracchiare. V. Monti Proposta p. XXXIV. v. not.

Malastroso , cioè infelice, per ribaldo. V. Monti Proposta t. 6. p. XLIX. not.

Caro Eneide l. 4. v. 452. E più non disse, Nè più (nè altra, cioè nè alcuna) risposta attese; anzi dicendo, Uscìo d’umana forma e dileguossi. (Bologna. 15. Luglio. 1826.).

Propterea dicebat Bion μὴ δυνατὸν εἶναι τοῖς πολλοῖς ἀρέσκειν, εἰ μὴ πλακοῦντα γενόμενον ἢ Θάσιον: non posse aliquem vulgo omnibus placere, nisi placenta fieret aut vinum Thasium. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 29. (Bologna. 17. Luglio. 1826.).

Ἦτρον-ἤτριον.

V. πλύνειν e suoi composti usati per biasimare, sparlare ec. ap. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 32. modo analogo al nostro lavare il capo ec. (Bologna. 20 Luglio. 1826.).

Tero-tritum-tritare-stritolare, triturare.

Sclamare-schiamazzare.

E ciò che forse potrebbe sorprendere si è che l’insalubrità dell’aria è quasi sempre sicuro indizio di straordinaria fertilità del suolo. Gioia, Filosofia della statistica, Milano 1826. tom.1. ap. l’Antologia di Fir. Giugno 1826. N. 66. p. 84. Narra (il Gioia) dell’Harmattan, vento soffiante sopra una parte della costa d’Affrica fra il capo Verde e il capo Lopez, pestifero a’ vegetabili e saluberrimo agli animali. Quelli che sono travagliati dal flusso di ventre, dalle febbri intermittenti, guariscono al soffio dell’Harmattan. Quelli le cui forze furono esauste da eccessive cavate di sangue, ricuperano le loro forze a dispetto e con grande sorpresa del medico. Questo vento discaccia le epidemie, fa sparire il vaiuolo affatto, e non si riesce a comunicarne il contagio neanche col soccorso dell’arte. Tanto è vero che ciò che nuoce alla vita vegetativa è utilissimo alla vita animale, ed all’opposto. ( Journal des voyages t. 19, p. 111.) Ivi, p. 85. Questa opposizione tra due regni così analoghi, così vicini, anzi prossimi, nell’ordine naturale; e così necessarii reciprocamente; così inevitabilmente, per dir così, conviventi; è una nuova prova della somma provvidenza, bontà, benevolenza della Natura verso i suoi parti. (28. Luglio. 1826. Bologna.).

Nominiamo francamente tutto giorno le leggi della natura (anche per rigettare come impossibile questo o quel fatto) quasi che noi conoscessimo della natura altro che fatti, e pochi fatti. Le pretese leggi della natura non sono altro che i fatti che noi conosciamo. — Oggi, con molta ragione, i veri filosofi, all’udir fatti incredibili, sospendono il loro giudizio, senza osar di pronunziare della loro impossibilità. Così accade p. e. nel Mesmerismo, che tempo addietro, ogni filosofo avrebbe rigettato come assurdo, senz’altro esame, come contrario alle leggi della natura. Oggi si sa abbastanza generalmente che le leggi della natura non si sanno. Tanto è vero che il progresso dello spirito umano consiste, o certo ha consistito finora, non nell’imparare ma nel disimparare principalmente, nel conoscere sempre più di non conoscere, nell’avvedersi di saper sempre meno, nel diminuire il numero delle cognizioni, ristringere l’ampiezza della scienza umana. Questo è veramente lo spirito e la sostanza principale dei nostri progressi dal 1700 in qua, benchè non tutti, anzi non molti, se ne avveggano. (Bologna. 28. Luglio. 1826.).

Insatiatus per insatiabilis. Stazio Thebaid. l. 6. nel luogo cit. alla nota 7. del mio Inno a Nettuno.

Smerletto, diminutivo positivato di smerlo o forse di merlo. Folgore da S. Geminiano, Corona 1. di Sonetti, Sonetto di Settembre, v. 2. nei Poeti del primo secolo della lingua italiana, Firenze 1816. ap. il Monti, Proposta, vol. ult. p. CXCIX. (Bologna 31. Luglio. 1826.).

Concordanza delle antiche filosofie pratiche (anche discordi) nella mia; p. e. della Socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ec. (Bologna 1. Agosto, Giorno del Perdono. 1826.).

Offensus per qui offendit neutro. V. Catullo l. 1. eleg. 3. v. 20.— e Forcell. Similmente inoffensus, come inoffenso pede ec.

Le destina, plur. V. Monti Proposta vol. ult. p. CCXIV. col. 2. lin. 3.

Alla p. 4164. capoverso 3. Luogo notabile di Fazio degli Uberti presso il Monti loc. cit. qui sopra, p. CCXVII. col. 2. lin. 6. Che mi vendrei se fosse chi comprare , cioè chi mi comperasse. Parla Roma, che riferisce il detto di Giugurta sopra di lei: urbem venalem, et mature perituram si emptorem invenerit. (Bologna 13. Agosto. 1826. Domenica; tornato questa mattina or ora da Ravenna.).

Ἐν τοσούτῳ intanto. Vetus argument. Ranarum Aristophanis, circa medium, et Argument. Pacis Aristophan.

Πρότερον per potius, come noi prima, anzi, innanzi ec. Aristophan. Nub. v. 24. (Act. 1. sc. 1.). Dio Chrysost. Orat. 1. de Regno, init. , p. 2. A. ed. Lutet. 1604. Morell.

καὶ τοῦτον ὑπέρχεται τὸν ἀγῶνα ὁ λόγος (Δίωνος τοῦ χρυσοστόμου, πρὸς Νικομηδεῖς περὶ ὁμονοίας πρὸς τοὺς Νικαεῖς), εὐκαίρως διὰ τῆς ἡδονῆς προενηνεγμένος. μᾶλλον γὰρ οὕτω ταῖς ψυχαῖς τὸ πιθανὸν ἐθέλει διαδύειν. Phot. Biblioth. Cod. 209. ed. gr.-lat. 1611. col. 533. (Bologna. 18. Agosto. 1826.).

Tacheté, Marqueté. Déchiqueter.

Immotus, immoto ec. per immobile.

Altro è che una lingua sia pieghevole, adattabile, duttile; altro ch’ella sia molle come una pasta. Quello è un pregio, questo non può essere senza informità, voglio dire, senza che la lingua manchi di una forma e di un carattere determinato, di compimento, di perfezione. Questa informe mollezza pare che si debba necessariamente attribuire alla presente lingua tedesca, se è vero, come per modo di elogio predicano gli alemanni, che ella possa nelle traduzioni prendere tutte le possibili forme delle lingue e degli autori i più disparati tra se, senza ricevere alcuna violenza. Ciò vuol dire ch’ella è una pasta informe e senza consistenza alcuna; per conseguente, priva di tutte le bellezze e di tutti i pregi che risultano dalla determinata proprietà, e dall’indole e forma compiuta, naturale, nativa, caratteristica di una lingua. La pieghevolezza, la duttilità, la elasticità (per così dire), non escludono nè la forma determinata e compiuta nè la consistenza; ma certo non ammettono i vantati miracoli delle traduzioni tedesche. La lingua italiana possiede questa pieghevolezza in sommo grado fra le moderne colte. La greca non possedeva quella vantata facoltà della tedesca. (Bologna 26. Agosto. 1826.).

Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci d’altronde di felicità. Un amor di se stesso che non può cessare e che non ha limiti, è incompatibile colla contentezza, colla soddisfazione. Qualunque sia il bene di cui goda un vivente, egli si desidererà sempre un ben maggiore, perchè il suo amor proprio non cesserà, e perchè quel bene, per grande che sia, sarà sempre limitato, e il suo amor proprio non può aver limite. Per amabile che sia il vostro stato, voi amerete voi stesso più che esso stato, quindi voi desidererete uno stato migliore. Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice, (30. Agosto. 1826. Bologna.) nè in questo mondo, nè in un altro.

Il detto del Bayle, che la ragione è piuttosto uno strumento di distruzione che di costruzione, si applica molto bene, anzi ritorna a quello che mi par di avere osservato altrove, che il progresso dello spirito umano dal risorgimento in poi, e massime in questi ultimi tempi, è consistito, e consiste tutto giorno principalmente, non nella scoperta di verità positive, ma negative in sostanza; ossia, in altri termini, nel conoscere la falsità di quello che per lo passato, da più o men tempo addietro, si era tenuto per fermo, ovvero l’ignoranza di quello che si era creduto conoscere: benchè del resto, faute de bien observer ou raisonner, molte di siffatte scoperte negative, si abbiano per positive. E che gli antichi, in metafisica e in morale principalmente, ed anche in politica (uno de’ cui più veri principii è quello di lasciar fare più che si può, libertà più che si può), erano o al pari, o più avanzati di noi, unicamente perchè ed in quanto anteriori alle pretese scoperte e cognizioni di verità positive, alle quali noi lentamente e a gran fatica, siamo venuti e veniamo di continuo rinunziando, e scoprendone, conoscendone la falsità, e persuadendocene, e promulgando tali nuove scoperte e popolarizzandole. (Bologna 1. Settembre. 1826.).

Ὅτι δὲ αὐτὸς (ὁ Λουκιανὸς) τῶν μηδὲν ἦν ὅλως δοξαζόντων, καὶ τὸ τῆς βίβλου ἐπίγραμμα δίδωσιν ὑπολαμβάνειν ἔχει γὰρ ᾧδεδίδωσιν ὑπολαμβάνειν· ἔχει γὰρ ᾧδε. ec. Photius, Biblioth. cod. 128. — Dare a vedere, dare a conoscere, ad intendere ec. V. p. 4196. fin.

Alla p. 4153. Questo passo di Agatarchide è un nuovo esempio di quello che la critica osserva o deve osservar nella storia, cioè che spessissimo la storia d’una nazione s’è appropriata i fatti, veri o finti, narrati dagli storici di un’altra. Tale è ancor quello di Suetonio, Octav. Caes. Augustus, cap. 94. Auctor est Julius Marathus, ante paucos quam (Augustus) nasceretur menses, prodigium Romae factum publice, quo denuntiabatur regem populo romano naturam parturire; senatum exterritum censuisse ne quis illo anno genitus educaretur; eos qui gravidas uxores haberent, quod ad se quisque spem traheret, curasse ne senatusconsultum ad aerarium referretur (que le décret ne passât et ne fût mis dans les archives. La Harpe). Questa istorietta è visibilmente sorella di quella d’Erode e degl’innocenti, qualunque delle due sia l’ainée. Nè mancano esempi simili nelle più moderne storie, anzi abbondano più che mai. Tra mille, si può citare l’avventura del pomo attribuita dagli storici svizzeri a Guglielmo Tell, benchè già narrata da un Saxo Grammaticus, Danese, morto del 1204, che scrisse in latino una storia della sua nazione, più di un secolo prima della nascita di Tell, e attribuì la detta avventura ad un Danese, ponendola in Danimarca, con altri nomi di persone; e che probabilmente non fu neppur esso l’inventore di tal novella, nè la storia di Danimarca fu la prima ad attribuirsela. La sua storia danica è stampata. (Des dragons et des serpens monstrueux etc. trattatello di Eusebio Salverte nella Rivista Enciclopedica di Parigi, tom. 30. Maggio e Giugno, 1826. degno di esser veduto al nostro proposito). (Bologna. 1826. 3. Settembre. Domenica.). V. p. 4209. 4264. fin.

La condotta di Tiberio nell’impero, da principio non pur affabile, benigna, moderata, ma eziandio umile; insomma più che civilis (v. Sueton. Tiber. c. 24-33), le sue difficoltà di accettar l’impero ec. paragonate colla seguente condotta tirannica, si attribuiscono a profonda politica, dissimulazione e simulazione. Io non vi so veder niente di finto, nè di artifiziale. Tiberio era certamente, a differenza di Cesare, di natura timida. A differenza poi e di Cesare che fin da giovanetto andò continuamente elevandosi, ed abituando successivamente l’animo e il carattere a grandezze sempre maggiori; e di Augusto che pure fin da giovanetto si vide alla testa degli affari; Tiberio, nato privato, vissuto la gioventù e l’età matura in sospetto di Augusto e de’ costui parenti, ed anche in non piccolo pericolo (otto anni passò ritirato in Rodi per fuggirlo o scemarlo), non aveva l’animo nè il carattere formato al potere, quando la fortuna gliel pose in mano. Però nel principio fu modesto, anzi timido ed umile, anche dopo liberato da ogni timore, come dice espressamente Suetonio (c. 26.); v. p. 4197. capoverso 6. nè qui v’era dissimulazione: io non ci veggo altro che un uomo avvezzo a soggiacere, avvezzo a temere ed evitar di offendere, che ridotto a soprastare, conserva ancora l’abito di tal timore e di tale evitamento. Egli lo perdè col tempo, e coll’esperienza continuata del suo potere, e della soggezione, anzi abbiezione, degli altri. Questo non è smascherarsi; questo è mutar carattere e natura, per mutazione di circostanze. Tiberio era certamente cattivo, perchè vile, e debole. V. p. 4197. capoverso 7. Questo fu causa che il potere lo rendesse un tiranno, perchè la sua natura era tale che l’influenza del principato doveva farne un cattivo carattere di principe. Ma qui non ci entra simulazione. Io non sono mai stato nè principe nè cattivo. Pur disprezzato e soggetto sempre fino all’età quasi matura; vedutomi poi per le circostanze, uguale a molti e superiore ad alcuni; da principio benignissimo ed umile cogl’inferiori, sono poi divenuto verso loro un poco esigente, un poco intollerante, φιλόνεικος, μεμψίμοιρος, ed anche cogli uguali un poco chagrin, e più difficile a perdonare un’ingiuria, una piccola mancanza, più risentito, più facile a concepir qualche seme di avversione, più desideroso, se non altro, di vendettucce, ec. Se la mia natura fosse stata cattiva, io sarei divenuto tanto più insopportabile quanto più tardi sono pervenuto alla superiorità, ed in età men facile ad accostumarmici. Noi siamo tutti inclinati a suppor negli uomini antichi o moderni, assenti o presenti, noti o ignoti, e nelle loro azioni e condotta, una politica, un’arte, una simulazione quasi continua, e qualche fine occulto. Ma credete a me che v’è al mondo assai meno politica, assai meno finzione, assai meno tendenze occulte, meno intrighi, meno maneggi, meno arte, e più di sincerità e di vero che non si crede. 1. Gli uomini di talento (indispensabile fondamento a simil condotta) sono assai più rari che non si stima. 2. Anche gli uomini i più persuasi della necessità o utilità dell’arte nel consorzio umano, e i più disposti ad essa per volontà, non hanno la pazienza di usarla troppo spesso, di fingere, di nascondere e dissimulare troppo a lungo. 3. Condotte calcolate e dirette costantemente a qualche fine, sono più immaginarie che reali, perchè è natura di qualunque uomo d’essere incostante, ne’ suoi gusti, desiderii, opinioni, in tutto; di esser contraddittorio ed incoerente nelle sue azioni, massime ec.; di operare contro i proprii principii; di operare contro i proprii interessi. ec. 4. Finalmente la natura per combattuta che sia, per quanto la vogliam credere abbattuta, può ancora, ed opera nel mondo, assai più che non si crede. Ora la natura è l’opposto dell’arte: la finzione tende a nasconder la natura, ma questa trapela ad ogni momento, in dispetto d’ogni massima, d’ogni volontà, d’ogni disciplina. (Bologna. 3. Sett. Domenica. 1826.). Del resto le atrocissime crudeltà usate scopertamente in seguito da Tiberio, e gran parte di queste senza nessuna utilità proposta, ma per solo piacere e soddisfazione del gusto e dell’animo suo, mostrano che l’anima di Tiberio era più vile che doppia per sua natura, e col regno era divenuta più malvagia che politica. (Bologna 4. Sett. 1826.).

Dove parlo di repo, repto, inerpicare ec. osservisi che i Latini hanno anche erepo. Sueton. Tiber. cap. 60. V. Forcellini . Irrepo, subrepo, adrepo ec.

Gerere-belligerare, morigerare, famigeratus ec. Laevo as — laevigo.

κέχρηται δὲ (Ἡρόδοτος) μυθολογίαις καὶ παρεκβάσεσι πολλαῖς, δι' ὧν αὐτῷ ἡ κατὰ διάνοιαν γλυκύτης διαῤῥεῖ (per quae sensus ipsi atque sententiae dulcedo fluit. Schott.), εἰ καὶ πρὸς τὴν τῆς ἱστορίας κατάληψιν καὶ τὸν οἰκεῖον αὐτῆς καὶ κατάλληλον (convenientem ita Photius usurpare solitus hanc vocem, et ita reddit Schott.) τύπον ἐνίοτε ταῦτα ἐπισκοτεῖ, οὐκ ἐθελούσης τῆς ἀληθείας μύθοις αὐτῆς ἀμαυροῦσθαι τὴν ἀκρίβειαν, οὐδὲ πλέον τοῦ προσήκοντος ἀποπλανᾶσθαι ταῖς παρεκβάσεσινἐžελοᾣύσης τῆς ἀληžείας μᾣύžοις αὐτῆς ἀμαυροῦσžαι τὴν ἀκρίβειαν, οὐδὲ πλέον τοῦ προσήκοντος ἀποπλανᾶσžαι ταῖς παρεκβάσεσιν (digressionibus). Phot. Biblioth. cod. 60. (Bologna. 5. Sett. 1826.).

Egesta-Segesta. V. Forcellini .

Alla p. 4193. Ἔστι δὲ ὁ λόγος αὐτῷ (Αἰσχίνῃ τῷ ῥήτορι) ὥσπερ αὐτοφυὴς καὶ αὐτοσχέδιος, οὐ τοσοῦτον διδοὺς ἀποθαυμάζειν τὴν τέχνην τοῦ ἀνδρός, ὅσον τὴν φύσινδιδοὺς ἀποžαυμάζειν τὴν τέχνην τοῦ ἀνδρός, ὶἐἶᾳἲ;;σον τὴν φᾣύσιν. Phot. Biblioth. cod. 61. V. p. 4208.

Subire Tiberim , remonter le Tibre. Sueton. Claud. cap. 38.

Diminutivi positivati aggettivi. Bimulus, trimulus, quadrimulus. V. Forcell.

Conspiratus per qui conspiravit, o conspirat, Sueton. Galba, c. 19. Domitian. c. 17.

Rasitare. Sueton. Otho, c. ult. i. e. 12.

Ἐξ ἀρχῆς da capo, per di nuovo ec. Di ciò altrove. Si dice anche αὖθις ἐξ ὑπαρχῆς. Vedi. per es. Sueton. Vespas. c. 23. Ἐπὰν ἀποθάνῃς, αὖθις ἐξ ἀρχῆς ἔσῃ. Menander ap. Stob. serm. 104. περὶ τῶν παρ' ἀξίαν εὐτυχούντων

Alla p. 4194 — il quale frattanto attribuisce anch’esso a politica e simulazione la sua moderazione nel principio del suo governo (cap. 57.).

Alla p. 4195. Teodoro Gadareno, suo maestro di rettorica in fanciullezza, subinde in obiurgando appellabat eum πηλὸν αἵματι πεφυραμένον. Sueton. cap. 57. E Suetonio stesso chiama la sua indole saeva ac lenta natura. (ib. init.)

Che gli uomini abbiano trovate e pongano in opera delle arti per combattere, soggiogare, recare al loro uso e servigio il resto della natura animata o inanimata, non è cosa strana. Ma che abbiano trovato ed usino arti e regole per combattere e vincere gli uomini stessi, che queste arti sieno esposte a tutti gli uomini, e tutti ugualmente le apprendano ed usino, o le possano apprendere e usare, questo ha dell’assurdo; perchè se due uomini sanno ugualmente di scherma, che giova la loro arte a ciascuno de’ due? che superiorità ne riceve l’uno sopra l’altro? non sarebbe per ambedue lo stesso, che ambedue fossero ignoranti della scherma, o che tutti e due combattessero alla naturale? V. p. 4214. Un libro, una scoperta di Tattica o di strategica o di poliorcetica ec. pubblicata ed esposta all’uso comune, a che giova? se l’amico e il nemico l’apprendono del pari, ambedue con più arte e più fatica di prima, si trovano nella stessissima condizione rispettiva di prima. Il coltivare queste tali arti, o scienze che si vogliano dire, il proccurarne l’incremento, e molto più il diffonderne la coltura e la conoscenza, è la più inutile e strana cosa che si possa fare; è propriamente il metodo di ottener con fatica e spesa quello che si può ottenere senza fatica nè spesa; di eseguire artificialmente e di render necessaria l’arte laddove la natura bastava, e laddove col metodo artificiale non si ottiene il menomo vantaggio sopra il naturale. Insomma è il metodo di moltiplicare e complicar le ruote e le molle di un orologio, e di far con più quel medesimo che si poteva fare e già si faceva con meno. Il simile dico della politica, del macchiavellismo ec. e di tutte le arti inventate per combattere e superchiare i nostri simili. (Bologna. 10. Sett. 1826.).

Se una volta in processo di tempo l’invenzione p. e. dei parafulmini (che ora bisogna convenire esser di molto poca utilità), piglierà più consistenza ed estensione, diverrà di uso più sicuro, più considerabile e più generale; se i palloni aereostatici, e l’aeronautica acquisterà un grado di scienza, e l’uso ne diverrà comune, e la utilità (che ora è nessuna) vi si aggiungerà ec.; se tanti altri trovati moderni, come quei della navigazione a vapore, dei telegrafi ec. riceveranno applicazioni e perfezionamenti tali da cangiare in gran parte la faccia della vita civile, come non è inverisimile; e se in ultimo altri nuovi trovati concorreranno a questo effetto; certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui ed estremi timori e difficoltà, stenteranno a comprendere come si potesse menare e sopportar la vita essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste, dei fulmini ec., navigare con tanto rischio di sommergersi, commerciare e comunicar coi lontani essendo sconosciuta o imperfetta la navigazione aerea, l’uso dei telegrafi ec., considereranno con meraviglia la lentezza dei nostri presenti mezzi di comunicazione, la loro incertezza ec. Eppur noi non sentiamo, non ci accorgiamo di questa tanta impossibilità o difficoltà di vivere che ci verrà attribuita; ci par di fare una vita assai comoda, di comunicare insieme assai facilmente e speditamente, di abbondar di piaceri e di comodità, in fine di essere in un secolo raffinatissimo e lussurioso. Or credete pure a me che altrettanto pensavano quegli uomini che vivevano avanti l’uso del fuoco, della navigazione ec. ec. quegli uomini che noi, specialmente in questo secolo, con magnifiche dicerie rettoriche predichiamo come esposti a continui pericoli, continui ed immensi disagi, bestie feroci, intemperie, fame, sete; come continuamente palpitanti e tremanti dalla paura, e tra perpetui patimenti ec. E credete a me che la considerazione detta di sopra è una perfetta soluzione del ridicolo problema che noi ci facciamo: come potevano mai vivere gli uomini in quello stato; come si poteva mai vivere avanti la tale o la tal altra invenzione. (Bologna. 10. Settembre. Domenica. 1826.).

Paragrandini, parafulmini ec. Fozio, Biblioteca, cod. 72. analizzando Κτησίου τὰ Ἰνδικὰ, e parlando di una fonte che Ctesia diceva esser nell’India, senz’altra indicazione di luogo, dice fra l’altre cose: καὶ (λέγει Κτησίας) περὶ τοῦ ἐν τῷ πυθμένι τῆς κρήνης σιδήρου, ἐξ οὗ καὶ δύο ξίφη Κτησίας φησὶν ἐσχηκέναι, ἓν παρὰ βασιλέως (Ἀρταξέρξου τοῦ Μνήμονος ἐπικληθέντος), καὶ ἓν παρὰ τῆς τοῦ βασιλέως μητρὸς Παρυσάτιδος (ἧς ἰατρὸς γέγονεν ὁ Κτησίας). φησὶ δὲ περὶ αὐτοῦ, ὅτι πηγνύμενος ἐν τῇ γῇ, νέφους καὶ χαλάζης καὶ πρηστήρων ἐστὶν ἀποτρόπαιος. καὶ ἰδεῖν αὐτὸν ταῦτα φησὶ, βασιλέως δὶς ποιήσαντος. De ferro, quod in huius fontis fundo reperitur; ex quo duos se habuisse aliquando gladios ipse Ctesias commemorat; unum a rege, (in marg. Artaxerxe, τῷ Mnemone), alterum a Parysatide regis ipsius matre sibi donatum. Ferri autem huius eam esse vim, ut in terram depactum nebulas, et grandines, turbinesque avertat. Hoc semel se iterumque vidisse, cum rex ipse eius rei periculum faceret. Versio Andreae Schotti. (Bologna. 1826. 12. Settembre.).

Inesorato ec. per inesorabile.

καὶ τροπαῖς μὲν κέχρηται (Εὐνάπιος ἐν χρονικῇ ἱστορίᾳ) παραβόλως, ὅπερ ὁ τῆς ἱστορίας οὐ θέλει νόμος. Tropos ad haec praeter modum adhibet, quod historiae lex vetat (Schott.) Phot. Biblioth. Cod. 77.

Il genitivo per l’accusativo. Petr. Sestina 6. Anzi tre dì, v. 3. Di state vi sono DE’ papaveri, DELLE pere e DI quante mele si trovano (genitivo pel nominativo). Caro, Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, lib. 2. non lungi dal principio, p. 8. ediz. di Pisa 1814. Presentando loro per primizia della vendemmia a ciascuna statua il suo tralcio con DI molti grappoli e con DE’ pampini suvvi . (genitivo per l’ablativo). ib. p. 27. E così assai spesso il medesimo ed altri classici. V. p. 4214.

È stato negli eserciti e provveduto capitano e coraggioso guerriero. ib. p. 41.

Riavere per ricreare, ristorare, fare riavere. Vedi Crus. par. 1. Caro l. c. lib. 2. p. 38. poichè col cibo l’ebbe alquanto confortato, con saporitissimi baci ed altre dolcissime accoglienze tutto lo riebbe. Cioè lo ristorò, non come dice il Monti nella Proposta, lo fece tornare nei sensi, chè Dafni non era punto venuto meno, ma percosso, battuto e malconcio da alcuni giovani. — Similmente dicono i greci ἀνακτᾶσθαι, per ποιεῖν ἀνακτᾶσθαι ἑαυτόν, come molto elegantemente Fozio Bibliot. cod. 83. parlando delle Antichità Romane di Dionigi d’Alicarnasso: κέχρηται δὲ καὶ παρεκβάσει οὐκ ὀλίγῃ (digressionibus utitur non raro), τὸν ἀκροατὴν ἀπὸ τοῦ περὶ τὴν ἱστορίαν κόρου διαλαμβάνων ταύτῃ, καὶ ἀναπαύων καὶ ἀνακτώμενος (reficiens). V. p. 4217.

[4201 - 4400]

Volere per μέλλειν. Anguillara, Metam. l. 4. st. 105. (Bologna. 16. Sett. 1826.).

Incespitare per incespicare di cui altrove. Caro loc. sup. cit. lib. 2. p. 48. fin.

Risicato per che si arrischia, che si suole arrischiare. Caro. ib. l. 3. p. 53. 59.

Arreticato (irretitus, preso nella rete). ib. p. 54. Sanicare, sanicato. V. Crus. Affumicare.

Insertare ghirlande. Caro. ib. l. 1. p. 25.a ed ult. Con le foglie tessute e consertate in modo che facevano come una grotta. ib. l. 3. p. 53. I rami si toccavano e s’inframmettevano insieme insertando le chiome. lib. 4. principio. p. 77.

Grufare, grufolare. Caro l. c. lib. 4. p. 80.

Mele appie — Mele appiole, o appiuole. Diminutivo aggettivo. V. Crus. in Mela, Appio, Appiola. Mele appiole , Caro l. c. lib.1. p. 20. mele appiuole , l. 3. fin. p. 74.

Εὐήθης, εὐήθεια, ec. bonitas, bonus vir ec. bonhomme, bonhomie ec. dabben uomo, dabbenaggine ec. Parole il cui significato ed uso provano in quanta stima dagli antichi e dai moderni sia stato veramente e popolarmente (giacchè il popolo determina il senso delle parole) tenuta la bontà. E in vero io mi ricordo che quando io imparava il greco, incontrandomi in quell’εὐήθης ec., mi trovava sempre imbarazzato, parendomi che siffatte parole suonassero lode, e non potendomi entrare in capo ch’elle si prendessero in mala parte, come pur richiedeva il testo. Avverto che io studiava il greco da fanciullo. (Bologna. 18. Sett. 1826.).

Ὀβελίας- oublie. V. Casaub. ad Athenae. l. 3. c. 25.

Spesse volte in occasioni di miei dispiaceri, anche grandi, io ho dimandato a me stesso: posso io non affliggermi di questa cosa? E l’esperienza avutane già più volte, mi sforzava a risponder di sì, che io poteva. Ma il non affliggersene sarebbe contro ragione: non vedi tu il male come è grave, come è serio e vero? — Lasciamo star che nessun male è vero per se, poichè se uno non lo conosce o non se ne affligge, ei non è più male. Ma l’affliggertene può forse rimediarvi o diminuirlo? — No. — Il non affliggertene può forse nuocerti? — No certo. — E non è meglio assai per te il non pensarne, il non pigliarne dolore, che il pigliarlo? — Meglio assai. — Come dunque sarà contro ragione? Anzi sarà ragionevolissimo. E se egli è ragionevole, se utile, se tu lo puoi, perchè non lo fai? che ti manca se non il volerlo? — Io vi giuro che queste considerazioni mi giovavano veramente, ed avevano reale effetto, sicchè io ricusando di affliggermi di una mia sventura, per notabile ch’ella fosse, non me ne affliggeva in verità, e ne pativa per conseguenza assai poco. (Bologna 25. Sett. 1826.). V. p. 4225.

La ricchezza della lingua greca, e la decisa differenza di stili che ella ammetteva, differenza così grande, che faceva quasi di ciascuno stile una lingua diversa, si può conoscere anche dal veder che gli antichi ebbero dei lessici voluminosi dedicati a un qualche stile in particolare, come noi potremmo far lessici a parte per la nostra lingua poetica o prosaica (due divisioni che la nostra lingua ammette, ma la greca assai più). Eccovi in Fozio Bibliot. i capi o codici 146. 147. Λεξικὸν τῆς καθαρᾶς ἰδέας (cioè styli simplicis o cosa simile). Ἀνεγνώσθη λεξικὸν κατὰ στοιχεῖον καθαρᾶς ἰδέας. μέγα καὶ πολύστιχον τὸ βιβλίον μᾶλλον δὲ πολύβιβλος ἡ πραγματεία. καὶ χρήσιμον, εἴπερ τι ἄλλο, τοῖς τὸν χαρακτῆρα μεταχειριζομένοις τῆς τοιαύτης ἰδέας 147 Λεξικὸν σεμνῆς ιδέας. Ἀνεγνώσθη λεξικὸν σεμνῆς ἰδέας. εἰς μέγεθος ἐξετείνετο τὸ τεῦχος, ὡς ἄμεινον εἶναι δυσὶ μᾶλλον τεύχεσιν ἢ τρισὶ τοῖς ἀναγινώσκουσι τὸ φιλοπόνημα (solemnis Photio vox hoc sensu) περιέχεσθαι. κατὰ στοιχεῖον δὲ ἡ πραγματεία. καὶ δῆλον ὡς χρησίμη τοῖς εἰς μέγεθος καὶ ὄγκον ἐπαίρειν τοὺς λόγους αὐτῶν ἐν τῷ συγγράφειν ἐθέλουσιν. 146. Lexicon Purae Ideae. Lexicon legi Ideae purae litterarum ordine. Magnus est hic liber, ut multi potius, quam unus esse videatur. Utilis autem, si quis alius, iis est, qui hanc Ideam tractant. 147. Lexicon Gravis styli. Legi Ideae gravioris Lexicon, quod ipsum quoque in immensum crevit, ut legentibus aptius fore arbitrer, si in duos opus illud, aut tres tomos distribuatur. Digestum item est litterarum ordine, patetque utile esse iis, qui sublimi tumidoque dicendi genere excellere studio habent. (Schotti versio.) (Bologna. 22. Settembre. 1826.).

Ebbero i Greci, come i moderni, anche delle voluminose storie teatrali e drammatiche (come ne ebbero delle filosofiche, geometriche, pittoriche, statuarie, e d’ogni genere di discipline). Fozio nella Bibliot. cod. 161. dando conto dei libri di Ecloghe o Estratti di Sopatro sofista, dice che il quarto suo libro contiene degli estratti, fra gli altri, ἐκ τοῦ ὀγδόου λόγου τῆς τοῦ ῾Ρούφου δραματικῆς ἱστορίας, οἷς παράδοξά τε καὶ ἀπίανα ἐστὶν εὑρεῖν, καὶ τραγωδῶν καὶ κωμωδῶν πράξεις τε καὶ λόγους καὶ ἐπιτηδεύματα, καὶ τοιαῦθ' ἕτερα. E che il quinto libro σᾣύγκειται αὐτῷ ἔκ τε τῆς ‘Ροᾣύφου μουσικῆς ἱστορίας πρώτου καὶ δευτέρου καὶ τρίτου βιβλίου. ἐν ᾧ τραγικῶν τε καὶ κωμικῶν ποικίλην ἱστορίαν εὑρήσειςσύγκειται αὐτῷ ἔκ τε τῆς ῾Ρούφου μουσικῆς ἱστορίας πρώτου καὶ δευτέρου καὶ τρίτου βιβλίου. ἐν ᾧ τραγικῶν τε καὶ κωμικῶν ποικίλην ἱστορίαν εὑρήσεις. (Tragicor. ac Comicor. Schott.) οὐ μὴν δὲ ἀλλὰ καὶ διθυραμβοποιῶν τε καὶ αὐλητῶν καὶ κιθαρωδῶν• ἐπιθαλαμίων τε ᾠδῶν καὶ ὑμεναίων καὶ ὑπορχημάτων ἀφήγησιν, (epithalamiorumq. carminum et hymenaeorum atq. cantilenarum in chorea enumerationem. Schottus) περί τε ὀρχηστῶν καὶ τῶν ἄλλων τῶν ἐν τοῖς Ἑλληνικοῖς θεάτροις ἀγωνιζομένων ὅθέν τε καὶ ὅπως οἱ τούτων ἐπὶ μέγα κλέος παρ' αὐτοῖς ἀναδραμόντες γεγόνασιν, εἴ τε ἄῤῥενες εἴ τε καὶ τὴν θήλειαν φύσιν διεκληρώσαντο• τίνες τε τίνων ἐπιτηδευμάτων ἀρχὴ διεγνώσθησαν (quinam etiam singulorum auctores ac principes studiorum exstiterint. Schott.), καὶ τούτων δὲ τίνες τυράννων ἢ βασιλέων ἐρασταὶ καὶ φίλοι γεγόνασιν. οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ τίνες τε οἱ ἀγῶνες, καὶ ὅθεν, ἐν οἷς ἕκαστος τὰ τῆς τέχνης ἐπεδείκνυτο. καὶ περὶ ἐορτῶν δὲ ὅσαι πάνδημοι τοῖς Ἀθηναίοις. ταῦτα δὴ πάντα καὶ εἴ τι ὅμοιον, ὁ πέμπτος (τοῦ Σωπάτρου) ἀναγινώσκοντί σοι παραστήσει λόγος. Ὁ δὲ ἕκτος αὐτῷ συνελέγη λόγος ἔκ τε τῆς αὐτῆς ῾Ρούφου μουσικῆς (ἱστορίας) βίβλου πέμπτης καὶ τετάρτης. αὐλητῶν δὴ καὶ αὐλημάτων ἀφήγησιν ἔχει, ἄνδρες τε ὅσα ηὔλησαν καὶ δὴ καὶ γυναῖκες. καὶ Ὅμηρος δὲ αὐτῷ καὶ Ἡσίοδος καὶ Ἀντίμαχος οἱ ποιηταὶ τῆς διηγήσεως μέρος, (huius narrationis partem efficiunt. Schott.) καὶ τῶν ἄλλων πλεῖστοι τῶν εἰς τοῦτο τὸ γένος τῶν ποιητῶν ἀναγομένων. E segue dicendo di altri libri di altri scrittori dai quali era estratto il sesto libro di Sopatro. E l’undecimo dice essere estratto, fra gli altri, ἐκ τῆς τοῦ Ἰώβα (Iubae) τοῦ βασιλέως θεατρικῆς ἱστορίας ἑπτακαιδεκάτου λόγου , della quale opera fa menzone anche Ateneo, lib.4. (Bologna. 1826. 24. Sett. Domenica.). V. p. 4238.

Contraddizioni innumerabili, evidenti e continue si trovano nella natura considerata non solo metafisicamente e razionalmente, ma anche materialmente. La natura ha dato ai tali animali l’istinto, le arti, le armi da perseguitare e assalire i tali altri, a questi le armi da difendersi, l’istinto di preveder l’attacco, di fuggire, di usar mille diverse astuzie per salvarsi. La natura ha dato agli uni la tendenza a distruggere, agli altri la tendenza a conservarsi. La natura ha dato ad alcuni animali l’istinto e il bisogno di pascersi di certe tali piante, frutta ec., ed ha armato queste tali piante di spine per allontanar gli animali, queste tali frutta di gusci, di bucce, d’inviluppi d’ogni genere, artificiosissimi e diligentissimi, o le ha collocate nell’alto delle piante ec. La natura ha creato le pulci e le cimici perchè ci succino il sangue, ed a noi ha dato l’istinto di cercarle e di farne strage. L’enumerazione di tali ed analoghe contrarietà si estenderebbe in infinito, ed abbraccierebbe ciascun regno, ciascuno elemento, e tutto il sistema della natura. Io avrò torto senza dubbio, ma la vista di tali fenomeni mi fa ridere. Qual è il fine, qual è il voler sincero e l’intenzione vera della natura? Vuol ella che il tal frutto sia mangiato dagli animali o non sia mangiato? Se sì, perchè l’ha difeso con sì dura crosta e con tanta cura? se no, perchè ha dato ai tali animali l’istinto e l’appetito e forse anche il bisogno di procacciarlo e mangiarselo? I naturalisti ammirano la immensa sagacità ed arte della natura nelle difese somministrate alla tale o tale specie animale o vegetabile o qualunque, contro le offese esteriori di qualunque sia genere. Ma non pensano essi che era in poter della natura il non crear queste tali offese? che essa medesima è l’autrice unica delle difese e delle offese, del male e del rimedio? E qual delle due sia il male e quale il rimedio nel modo di vedere della natura, non si sa. Si sa ben che le offese non sono meno artificiosamente e diligentemente condotte dalla natura che le difese; che il nibbio o il ragno non è meno sagace di quel che la gallina o la mosca sia amorosa o avveduta. Intanto che i naturalisti e gli ascetici esaminando le anatomie de’ corpi organizzati, andranno in estasi di ammirazione verso la provvidenza per la infinita artificiosità ed accortezza delle difese di cui li troverà forniti, io finchè non mi si spieghi meglio la cosa, paragonerò la condotta della natura a quella di un medico, il quale mi trattava con purganti continui, ed intendendo che lo stomaco ne era molto debilitato, mi ordinava l’uso di decozioni di china e di altri attonanti per fortificarlo e minorare l’azione dei purganti, senza però interromper l’uso di questi. Ma, diceva io umilmente, l’azione dei purganti non sarebbe minorata senz’altro, se io ne prendessi de’ meno efficaci o in minor dose, quando pur debba continuare d’usarli? (Bologna. 25. Sett. 1826.). V. p. seg.

Ἴχνος- ἴχνιον. Phot. Biblioth. cod. 166. col. 360. ὡς Παάπις διώκων μετ' ἴχνια τοὺς περὶ Δερκυλλίδα, ἐπέστη αὐτοῖς ἐν τῇ νήσῳ.

Relativo ai Mori bianchi, dei quali dico altrove, può essere anche quel luogo dell’antico romanziere Antonio Diogene (Fozio lo crede non molto posteriore ad Alessandro), il quale presso Fozio cod. 166. col. 357. introduce la viaggiatrice Dercillide a raccontare ὡς περιπέσοι (αὐτὴ) ἀνžπρώπων πόλει κατὰ τὴν ’Ιβηρίαν, οἵ ἑώρων μὲν ἐν νυκτί, τυφλοὶ δὲ ὑπὶῖἶᾳἲ;; ἡμέραν ἑκάστην ἐτᾣύγχανον. (Bolog. 25. Sett. 1826.).

Alla p. preced. Si ammiri quanto si vuole la provvidenza e la benignità della natura per aver creati gli antidoti, per averli, diciam così, posti allato ai veleni, per aver collocati i rimedi nel paese che produce la malattia. Ma perchè creare i veleni? perchè ordinare le malattie? E se i veleni e i morbi sono necessari o utili all’economia dell’universo, perchè creare gli antidoti? perchè apparecchiare e porre alla mano i rimedi? (Bologna. 1826. 26. Sett.).

Alla p. 4183. Questa novelletta, poichè per tale io la tengo, mi fa ravvisare una nuova somiglianza tra i costumi antichi e i moderni; cioè mi fa credere che i greci antichi inventassero degli esempi di ridicola e bestiale costanza da apporre agli spartani, come noi ne inventiamo di bêtise e di sciocchezza da apporre ai tedeschi e agli svizzeri (addietro tu e muro); come altri ne inventano di scelleraggine vile, feroce, traditrice e coperta, da apporre agl’italiani, ec.: in somma che gli Spartani fossero per gli antichi belli spiriti, ed anche popolarmente nella opinione della Grecia, il soggetto di motteggi e di novelle, al quale si riportassero anche degli esempi veri, ma appartenenti ad altre persone; come noi italiani siamo il tipo della ferocia traditrice per altre nazioni ec. (Bologna. 26. Sett. 1826.). V. p. 4217.

È chiaro e noto che l’idea e la voce spirito non si può in somma e in conclusione definire altrimenti che sostanza che non è materia, giacchè niuna sua qualità positiva possiamo noi nè conoscere, nè nominare, nè anco pure immaginare. Ora il nome e l’idea di materia, idea e nome anch’essa astratta, cioè ch’esprime collettivamente un’infinità di oggetti, tra se differentissimi in verità (e noi poi non sappiamo se la materia sia omogenea, e quindi una sola sostanza identica, o vero distinta in elementi, e quindi in altrettante sostanze, di natura ed essenza differentissimi, com’ella è distinta in diversissime forme), l’idea dico ed il nome di materia abbraccia tutto quello che cade o può cader sotto i nostri sensi, tutto quello che noi conosciamo, e che noi possiamo conoscere e concepire; ed essa idea ed esso nome non si può veramente definire che in questo modo, o almeno questa è la definizione che più gli conviene, in vece dell’altra dedotta dall’enumerazione di certe sue qualità comuni, come divisibilità, larghezza, lunghezza, profondità e simili. Per tanto il definire lo spirito, sostanza che non è materia, è precisamente lo stesso che definirla sostanza che non è di quelle che noi conosciamo o possiamo conoscere o concepire, e questo è quel solo che noi venghiamo a dire e a pensare ogni volta che diciamo spirito, o che pensiamo a questa idea, la quale non si può, come ho detto, definire altrimenti. Frattanto questo spirito, non essendo altro che quello che abbiam veduto, è stato per lunghissimo spazio di secoli creduto contenere in se tutta la realtà delle cose; e la materia, cioè quanto noi conosciamo e concepiamo, e quanto possiamo conoscere e concepire, è stata creduta non essere altro che apparenza, sogno, vanità appetto allo spirito. È impossibile non deplorar la miseria dell’intelletto umano considerando un così fatto delirio. Ma se pensiamo poi che questo delirio si rinnuova oggi completamente; che nel secolo 19.o risorge da tutte le parti e si ristabilisce radicatamente lo spiritualismo, forse anche più spirituale, per dir così, che in addietro; che i filosofi più illuminati della più illuminata nazione moderna, si congratulano di riconoscere per caratteristica di questo secolo, l’essere esso éminemment religieux, cioè spiritualista; che può fare un savio, altro che disperare compiutamente della illuminazione delle menti umane, e gridare: o Verità, tu sei sparita dalla terra per sempre, nel momento che gli uomini incominciarono a cercarti. Giacchè è manifesto che questa e simili innumerabili follie, dalle quali pare ormai impossibile e disperato il guarire gl’intelletti umani, sono puri parti, non mica dell’ignoranza, ma della scienza. L’idea chimerica dello spirito non è nel capo nè di un bambino nè di un puro selvaggio. Questi non sono spiritualisti, perchè sono pienamente ignoranti. E i bambini, e i selvaggi puri, e i pienamente ignoranti sono per conseguenza a mille doppi più savi de’ più dotti uomini di questo secolo de’ lumi; come gli antichi erano più savi a cento doppi per lo meno, perchè più ignoranti de’ moderni; e tanto più savi quanto più antichi, perchè tanto più ignoranti. (Bologna. 26. Sett. 1826.). V. p. 4219.

Ovidio Metam. l. 4. parlando delle anime che sono nell’Eliso: Pars alias artes, antiquae imitamina vitae, Exercent ec. Vedilo. V. p. 4210. capoverso 4.

Alla p. 4196. fin. τὴν δὲ θρησκείαν ὁ ἀνὴρ (Ἰωάννης Λαυρέντιος φιλαδελφεὺς ὁ Λυδὸς) ἔοικε δεισιδαίμων (superstitiotus) εἶναι. σέβεται μὲν τὰ Ἑλλήνων καὶ θειάζει, θειάζει δὲ καὶ τὰ ἡμέτερα μὴ διδοὺς τοῖς ἀναγινώσκουσιν ἐκ τοῦ ῥᾴστου συμβαλεῖν πότερον οὕτω νομίζων θειάζει, ἢ ὡς ἐπὶ σκηνῆς. Phot. cod. 180. fin. v. qui sotto.

περιεῖχε (Apollodori Bibliotheca) τὰ παλαίτατα τῶν Ἑλλήνων, ὅσα τὲ περὶ θεῶν καὶ ἡρώων ὁ χρόνος αὐτοῖς δοξάζειν (i. e. μυθολογεῖν etc.) ἔδωκεν. Ib. cod. 186. fin. V. p. 4210.

Conone appresso Fozio, Bibliot. cod. 186. narrat. 10. chiama Οἴθων (Οἴθωνα) il re del Chersoneso di Tracia padre di Pallene, il quale da Stefano Biz. v. Παλλήνη è chiamato col sigma iniziale Σίθων (Σίθωνα), e così da Partenio, ἐρωτικῶν cap. 6. (Σίθονα). (Bolog. 30. Sett. 1826.).

Plat, sost. e aggettivo, piatto, (ingl. flat.) (v. gli spagn.) — πλάτος, πλατὺς. Phot. Biblioth. cod. 186. ed. gr. lat. col. 444. πλατεῖ τῷ ξίφει οὐκ ἐθέλοντα προιέναι, τύπτων τὰ νῶτα, ἤλαυνεν lo cacciava innanzi per forza, non volendo egli andar oltre, battendogli la schiena colla spada piatta, col piatto della spada, a forza di piattonate, battendolo colla spada di piatto . (Bologna 2. Ott. 1826.). V. p. seg.

Alla p. 4194. Fozio, Bibliot. cod. 186. dando il sommario delle διηγήσεις o Narrazioni di Conone, ed. grec. lat. col. 449-52. alla narrazione 43. dice così: Ἡ μγ.' Οἱ τῆς Αἴτνης τοῦ πυρὸς κρατῆρες ἀνέβλυσάν ποτε (effuderunt), ποταμοῦ δίκην, φλόγα κατὰ τῆς χώρας, καὶ Καταναίοις (πόλις δ' Ἑλλὰς ἐν Σικελίᾳ ἡ Κατάνη), ἔδοξε παντελὴς ἔσεσθαι φθορὰ τῆς πόλεως. καὶ ἀπὸ ταύτης φεύγοντες ὡς εἶχον τάχους, οἱ μὲν χρυσὸν, οἱ δὲ ἄργυρον ἔφερον, οἱ δὲ ὅ τι ἄν τις βούλοιτο ἐπικούρημα τῆς φυγῆς. (subsidium in exsilio allatura). Ἀναπίας δὲ καὶ Ἀμφίνομος ἀντὶ πάντων τοὺς γονεῖς γηραιοὺς ὄντας ἐπὶ τοὺς ὤμους ἀναθέμενοι ἔφευγον. καὶ τοὺς μὲν ἄλλους ἡ φλὸξ ἐπικαταλαβοῦσα, ἔφθειρεν. αὐτοὺς δὲ περιεσχίσθη τὸ πῦρ, καὶ ὥσπερ νῆσος ἐν τῇ φλογὶ πᾶς ὁ περὶ αὐτοὺς χῶρος ἐγένετο. διὰ ταῦτα οἱ Σικελιῶται τόν τε χῶρον ἐκεῖνον, εὐσεβῶν χώραν ἐκάλεσαν, καὶ λιθίνας εἰκόνας ἐν αὐτῷ τῶν ἀνδρῶν τῷ μνημείῳ (in monumento), θείων τε ἅμα καὶ ἀνθρωπίνων ἔργων (Schott. suppl. testes), ἀνέθεσαν ( Strabo lib.6. Sicil. in Catana. Seneca de benefic. lib.3. c. 37. Silius, lib.14. et auctor Aetnae in Catalect. Virgil. [a]. Nota marginale dello Schotto alle parole Anapias et Amphinomus ). Qual è plagio di queste due favole; la presente, o quella di Enea? (Bologna 1826. 2. Ottobre.). Del resto simili plagi, racconti, tradizioni, favole parallele sono frequentissime nelle istorie greche, massime in quel che spetta alle origini o ai fasti delle diverse città della Grecia o greche. V. p. 4213.4224.4225. fin.

Alla p. 4208. fin. ἔχει γὰρ (parla di un’opera di Tolomeo Efestione) δοῦναι βραχεῖ χρόνῳ συνειλεγμένα εἰδέναι, ἃ σποράδην τὶς τῶν βιβλίων ἀναλέγειν πόνον δεδεγμένος, μακρὸν κατατρίψει χρόνον. Brevi enim tempore, collecta simul, cognoscenda suppeditat quae nonnisi longo temporis intervallo quispiam per libros passim dispersa laboriose comportare possit. (Schott.) Ib. cod. 190. init. , col. 472. V. p. seg.

, voce popolare per tieni, prendi. V. Crusca. — Τῆ. Hom. Odyss. 9. 347.

Alla p. qui dietro. Che questo sia il valor della frase πλατεῖ τῷ ξίφει τύπτειν è manifestissimo dal contesto, nel quale essa viene ad essere opposta ad ἀναιρεῖν τῷ ξίφει , ed a πληγὴν (cioè ferita) ἐμβαλεῖν τῷ ξίφει per fine di ammazzare. Lo Schotto traduce gladii lamina verberans: non so se intese bene il senso, non avendo forse posto mente all’italianismo, francesismo ec. della locuzione di Fozio (o di Conone, che Fozio quivi compendia).

Alla p. 4208. capoverso 1. Nè ciò solo; ma credevano anche che le anime s’innamorassero, e usassero insieme e avessero figliuoli. Tolomeo Efestione nel quarto libro περὶ τῆς εἰς πολυμάθειαν καινῆς ἱστορίας (Novae ad variam eruditionem historiae) appresso Fozio, cod. 190. ed. gr. lat. col. 480., dice ὡς Ἑλένης καὶ Ἀχιλλέως ἐν μακάρων νήσοις παῖς πτερωτὸς γεγόνοι (cum alis), ὃν διὰ τὸ τῆς χώρας εὔφορον (fertilitatem), Εὐφορίωνα ὠνόμασαν. καὶ ὡς ἐρᾷ τούτου Ζεὺς, καὶ ἀποτυχών, (minime potiens) κεραυνοῖ ἐν Μήλῳ τῇ νήσῳ καταλαβών διωκόμενον. καὶ τὰς νύμφας, ὅτι θάψειαν αὐτόν, εἰς βατράχους μετέβαλε. (Bologna. 3. Ott. 1826.).

Juillet.

Alla p. 4167. Aristides, Orat. εἰς βασιλέα (M. Aurel.) ed. Canter. t. 1. p. 114-5. ἀπελθούσης τῆς Βρισηΐδος παρ' αὐτοῦ (Αχιλλέως), καὶ χρόνον τινὰ ποιησάσης παρ' Ἀγαμέμνονι (cum Agamem. vixisset. Canter.)

Fare per giovare, servire. Phot. cod. 190. fin. col. 493. ed. gr. lat. ἐν τούτῳ (τῷ ἰχθῦϊ) λίθον εὑρίσκεσθαι (φησὶ Πτολεμαῖος ὁ Ἡφαιστίων) τὸν ἀστερίτην, ὃν εἰς ἥλιον τεθέντα, ἀνάπτεσθαι (incendi) ποιεῖν δὲ καὶ πρὸς φίλτρον (valere etiam ad philtrum. Schottus.) V. p. 4225.

Così ridondante. Καὶ ἡ μεταφορὰ αὐτῷ τῶν λέξεων οὐκ εἰς τὸ χάριεν καὶ γεγοητευμένον περιήνθισται, ἄλλ' οὕτως ἁπλῶς καὶ ἀπεριμερίμνως παραλαμβάνεται. Dove lo Schotto assai male trasporta la voce οὕτως più sotto, per non avere inteso qui il senso di essa, nè quello del periodo seguente, nel quale va letto ὃ δ' ἐγγὺς per ὁ δ'ἐγγὺς, e non come corregge lo Schotto. Phot. Cod. 192. col. 501. ed. graec. lat. V. p. 4224.

Ταῦτα μὲν, εἰ καὶ κατὰ τὸ μᾶλλον καὶ ἧττον ἀλλήλων διαφέροντα, ὅμως εἰς τὴν πρακτικὴν χειραγωγεῖ φιλοσοφίαν τὰ ὀκτὼ τῶν λογίων . Questi otto libricciuoli, o vero sermoncini, (λόγοι ἀσκητικοὶ di un tal Marco Monaco), tutti, sebben colla differenza tra loro del più e del meno, conducono, sono conducenti, all’esercizio della filosofia pratica (intende delle virtù cristiane ed ascetiche). Fozio, cod. 200. verso il fine. col. 522. ed. grec.-lat. Male lo Schotto: Qui quidem octo libri, etsi plus minusve sint inter se diversi; omnes tamen ad operantem sapientiam quasi manu ducunt. (Bologna 4. Ott. Festa di S. Petronio. 1826.). V. p. seg.

Alla p. 4165. capoverso 5. Similmente da Aristide Orat. εἰς βασιλέα cioè in lode di M. Aurelio, ed. Canter. t. 1. p. 106. lin. penult. -ult.

Alla p. 4166. Usasi la stessa locuzione, τὸ αὐτοῦ μέρος , nello stesso senso e modo, da Fozio, Cod. 219. col. 564. ed. gr.-lat. V. Plat. ed. Astii, t. 1. p. 192. lin. 11.

Alla p. qui dietro. Così cod. 240. col. 993. δίδωσιν ἐννοεῖν V. p. 4213.

L’autor greco della Vita di S. Gregorio Papa, detto il Magno, avendo parlato delle opere di questo Santo, e particolarmente de’ suoi Dialoghi, soggiunge (appresso Fozio. cod. 252. col. 1400. ed. grec. lat. Credo però che questa Vita si trovi stampata intera, e sarà in fronte alle opp. di S. Gregorio): Ἀλλὰ γὰρ πέντε καὶ ἑξήχοντα καὶ ἑκατὸν ἔτη οἱ τὴν ῥωμαίαν φωνὴν ἀφιέντες τῆς ἐκ τῶν πόνων αὐτοῦ ὠφελείας μόνοι ἀπήλαυον. Ζαχαρίας δὲ, ὃς τοῦ ἀποστολικοῦ ἀνδρὸς ἐκείνου χρόνοις ὕστερον τοῖς εἰρημένοις κατέστη διάδοχος, τὴν ἐν τῇ ῥωμαϊκῇ μόνῃ συγκλειομένην γνῶσιν καὶ ὠφέλειαν, εἰς τὴν Ἐλλάδα γλῶσσαν ἐξαπλώσας, κοινὸν τὸ κέρδος τῇ οἰκουμένῃ πάσῃ φιλανθρώπως ἐποιήσατο. οὐ τοὺς διαλόγους δὲ καλουμένους μόνους, ἀλλὰ καὶ ἄλλους αὐτοῦ ἀξιολόγους πόνους ἐξελληνίσαι ἔργον ἔθετο. Ma per ispazio di 165 anni, solamente quelli che parlano latino godettero della utilità delle sue opere. Poi Zacaria, che in capo al detto spazio di tempo successe a quell’apostolico uomo (nel papato), trasportati in lingua greca i colui scritti, fece cortesemente comune a tutta la terra la notizia e la utilità di quelli, ristretta fino allora ai soli Latini. E non solo i così detti dialoghi, ma prese anche a voltare in greco altri scritti del medesimo degni di considerazione. — Testimonianza insigne della universalità della lingua greca eziandio ai tempi dello scrittore di questa Vita, cioè, credo, nel sesto secolo, se costui fu contemporaneo o poco posteriore al detto Zaccaria papa. (Bologna. 5. Ott. 1826.).

Alla p. qui dietro. Proclo nella Crestomazia, appresso lo stesso Fozio, cod. 239. init. col. 981., dice ὡς (che) αἱ αὐταί εἰσιν ἀρεταὶ λόγου καὶ ποιήματος (della prosa e del verso), παραλλάσσουσι δὲ (differiscono) ἐν τῷ μᾶλλον καὶ ἦττον nel più e nel meno. Lo Schotto: in eo, quod plus, minusve est. (Bologna. 6. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4163. Phot. cod.279. col. 1588. ex Helladii Besantinoi Chrestomathiis, ed. gr. lat. πᾶσα γὰρ πρόθεσις βραχυκαταληκτεῖν θέλει perocchè ogni preposizione vuole (cioè dee) finire in sillaba breve. V. p. 4226.

Dell’uso del verbo τιθέναι per fare, come in ispagnuolo, poner. Elladio Besantinoo ne’ libri delle Crestomazie, appresso Fozio, cod. 279. col. 1588. ed. gr. lat. ὁ παρ' ἄλλοις μισθοῦ δουλεύων θὴς καλεῖται, ἢ παρὰ τὸ θεῖναι, ὃ δηλοῖ τὸ χερσὶν ἐργάζεσθαι καὶ ποιεῖν (καὶ γὰρ τοῖς παλαιοῖς λέγειν ἔθος τὸ ἔθηκεν ἐπὶ τοῦ τὶ δρᾶν, ὡς καὶ δραστικώτατος ἥρως διὰ τοῦτο κέκληται Θησεύς)• ἢ κατὰ μετάθεσιν κ. τ. λ.. Anche Orazio per grecismo: nunc hominem ponere (cioè facere, fabricare, fabrefacere) nunc deum. (Bologna. 8. Ott. Domenica. 1826.).

Πονηρος che vale ora laborioso, infelice ec. ed ora malvagio, del che altrove, ha diversa accentazione secondo il diverso significato. Veggansi i Lessici.

Ὅρος-ὁρίον, μεθόριον ec.; φῦκος-φυκίον;; ὅρκος ὅρκιον.

Alla p. 4210. Il fatto riferito da Agatarchide presso Stobeo, trovasi anche presso Plutarco nel principio del Parallelo dei fatti greci e romani (operetta da consultarsi al nostro proposito), il qual Plutarco lo paragona a quello di Muzio Scevola, e cita Agatarchide Samio 'εν β' τῶν περσικῶν. (Bolog. 9. Ott. 1826.).

Diluere-diluviare activ. V. Forcell.

Alla p. 4211. E cod. 224. col. 708. ἐδίδου τοῖς ὁρῶσιν ἐννοεῖν.

Οἱ γὰρ πάλαι ῥήτορες ἱκανὸν αὐτοῖς ἐνόμιζον εὑρεῖν τε τὰ ἐνθυμήματα, καὶ τῇ φράσει περιττῶς ἀπαγγεῖλαι (phrasi eximia) ἐσπούδαζον γὰρ τὸ ὅλον περί τε τὴν λέξιν καὶ τὸν ταύτης κόσμον• πρῶτον μὲν ὅπως εἴη σημαντικὴ καὶ εὐπρεπής (significativa et venusta) εἶτα καὶ ἐναρμόνιος ἡ τούτων σύνθεσις (compositio). ἐν τούτῳ γὰρ αὐτοῖς καὶ τὴν πρὸς τοὺς ἰδιώτας διαφορὰν ἐπὶ τὸ κρεῖττον περιγίνεσθαι (ex hoc enim se praestituros vulgo loquentium). Cecilio rettorico siciliano, parlando di Antifonte, uno dei 10. Oratori Greci, ap. Phot. cod. 259. col. 1452. ed. graec. lat.

Alla p. 4197. In inghilterra vi sono da qualche tempo scuole di pugilato (boxing), e vi vanno ad apprender l’arte, non già solo quelli che hanno intenzione di fare il mestier di boxer per guadagno, ma galantuomini d’ogni condizione in gran numero, per servirsene nell’uso della vita, la quale in quel paese offre assai spesso l’occasione di adoperar le pugna; e per difendersi dalle pugna degli altri.

Alla p. 4200. Solevano portar le donne intorno al collo e alle maniche de’ bottoncelli d’ariento indorato. Franc. da Buti ap. la Crus. in Bottoncello.

I francesi non hanno lingua poetica perchè hanno rigettata la lingua antica, perchè non sopportano l’antico nel verso niente più che nella prosa: e senza l’antico non vi può esser lingua poetica. I Latini che ebbero pochissima antichità di lingua, perchè il progresso della loro letteratura fu rapidissimo, e che rigettarono, ad eccezione di pochissime e piccolissime parti conservate nel verso, quella poca antichità che avevano, non ebbero lingua poetica propriamente, nè avrebbero avuto dicitura e stile poetico se non avessero usato nella poesia costruzioni ardite, e nuovi significati e metafore di parole, che i francesi non sopportano nella loro[a]

Notisi quindi che presso i latini ciascun poeta era artefice della sua lingua poetica; la lingua poetica dei latini era opera individuale del poeta, e se il poeta non se la facea, non l’aveva: dove in italiano e in greco ella era cosa universale, e il poeta l’avea già prima di porsi a comporre. E da ciò forse può nascere l’abuso e la soverchia copia del verseggiare e dei verseggiatori ec. ec.

[Chiudi]. Del resto l’avere i latini e i francesi a differenza dei greci e degl’italiani, rigettata ne’ loro buoni e perfetti secoli l’antichità della lingua, venne, fra l’altre cose, dal non aver essi avuto nelle loro lingue antiche scrittori veramente sommi, a differenza dei greci, che ebbero Omero, Esiodo, Archiloco, Ippocrate, Erodoto ec. e degl’italiani, ch’ebbero Dante, Petrarca, Boccaccio, insomma (come i greci) la letteratura già stabilita, fissata e formata prima della lingua e della maturità della civilizzazione. (Bolog. 12. Ott. 1826.).

Istoria naturale. Curioso è l’osservare da quanto piccole, quanto disparate e lontane cause sieno determinate le assuefazioni e le idee degli uomini le più costanti, e le più universali. La così chiamata istoria naturale è una vera scienza, perocch’ella definisce, distingue in classi, ha principii e risultati. Se la si dovesse chiamare storia perch’ella narra le proprietà degli animali, delle piante ec., il medesimo nome si dovrebbe dare alla chimica, alla fisica, all’astronomia, a tutte le scienze non astratte. Tutte queste scienze narrano, cioè insegnano quello che si apprende dall’osservazione, la quale è il loro soggetto, come altresì della istoria naturale. Solo le arti possono dispensarsi dal narrare, bastando loro il dar precetti. Anche l’ideologia narra, benchè scienza astratta. Oltre che il nome di storia, secondo la sua generale accezione, significa racconto di avvenimenti successivi e susseguenti gli uni agli altri, non di quel che sempre accadde ed accade ad un modo. Questo racconto appartiene alle scienze. Esso è insegnamento. Or tale è il raccontar che fa la storia naturale. Perchè dunque si dà a questa scienza il nome di storia? Perocch’essa fu fondata da Aristotele: il quale la chiamò istoria, perchè questo nome in greco viene da istor (conoscente, intendente dotto), verbale fatto dal verbo isémi (scio) e vale conoscenza, notizia, erudizione, sapere, dottrina, scienza, φυσικὴ ἱστορία, notizia della natura. Così la Varia istoria d’Eliano, non è altro che Varia erudizione; così i libri παντοδαπῆς ἱστορίας d’altri scrittori greci, opere filologiche. E istoria equivale in certo modo in greco a filosofia, e spesso si prende per questa, specialmente da’ più antichi, o da’ sofisti-arcaisti. Quindi Aristotele intitolò anche istoria degli animali altra sua opera di zoologia, Teofrasto istoria delle piante opera di fitologia ec. Plinio Istoria naturale opera enciclopedica e non ristretta nei termini della Scienza così nominata. V. p. 4234. Ma noi che annettiamo tutt’altra idea al nome istoria, avremmo dovuto tradurlo , massime trattandosi del nome di una scienza; chè se nelle scienze ogni termine dev’esser preciso e non dar luogo ad equivoco, molto più il nome suo stesso. Nondimeno l’abbiamo adottato tal quale; e per effetto di questa disparatissima causa, il nome di questa scienza, nome che le è stato e sarà sempre e universalmente fisso e inseparabile, produce in tutti un’idea equivoca, che mescola le nozioni di storia a quella di scienza; che fa dare ai cultori e scrittori di questa il nome di storici della natura, il quale niun pensò mai di dare a Lavoisier nè a Volta, nè di chiamar Cassini o Galileo storici degli astri o del cielo. Confusione e imprecisione di idea, da cui niuno si potrà difendere finchè sarà conservato alla detta scienza il detto nome, che non le potrà essere mai tolto presso nazione alcuna sino all’estinzione della presente civiltà, (Bolog. 13. Ott. 1826.) e al sorgimento di un’altra che non derivi da questa.

Rettorica. Citiamo qui un esempio di acutezza e di filosofia de’ rettorici. Demetrio (rettorico de’ più stimati) περὶ ἑρμηνείας della elocuzione, sezione 67. parlando delle figure della dizione ( σχήματα τῆς λέξεως opposte a σχήματα τῆς διανοίας sententiarum o sententiae: λέξεως verborum), le quali non sono altro che costrutti e frasi fuor di regola, di ragione, d’uso ec. sgrammaticature, direbbe l’Alfieri. Bisogna servirsi di tali figure non in troppa abbondanza [a]

Non bisogna tuttavolta usar le figure a man piena: cosa goffa e che ec.

[Chiudi], chè ella è cosa poco elegante, e dà una certa disuguaglianza al discorso, e fa il discorso disuguale. Gli antichi, i quali usano però gran quantità di figure, riescono nel dir loro più familiari e correnti che non fanno i moderni quando sono senza figure. La cagione è che quelli le adoperano con arte . ( χρῆσθαι μέν τοι τοῖς σχήμασι μὴ πυκνοῖς• ἀπειρόκαλον γὰρ καὶ παρεμφαῖνόν τινα τοῦ λόγου ἀνωμαλίαν. Οἱ γοῦν ἀρχαῖοι, πολλὰ σχήματα ἐν τοῖς λόγοις τιθέντες, συνηθέστεποι τῶν ἀσχηματίστων εἰσί, διὰ τὸ ἐντέχνως τιθέναι.) L’osservazione è verissima in tutte le lingue; la causa, proprio il contrario di quel che dice Demetrio. Gli antichi usavano le figure naturalmente, senz’arte, e per non saper bene le regole generali della grammatica: i moderni le pescano negli antichi, le usano a posta, sono irregolari per arte. Perciò paiono, come sono, artifiziati, affettati, stentati, diversi dal dir corrente. Caro Demetrio, non ogni buon effetto o successo è da attribuirsi all’arte. Concedete qualche coserella alla natura, ed anche all’ignoranza, benchè voi siate un maestro di arte rettorica. V. p. 4222.

Alla p. 4206. Quell’altra storiella nota, dello Spartano: quo fugis, anima bis moritura ; sarà parimente inventata ad esaggerazione e derision di goffaggine, e di coraggio materiale e stupido.

Μέδω, μέδομαι, μήδω, μήδομαι, μηδέω ec. (dei quali verbi dico altrove, parlando di medeor, meditor ec.) debbono originariamente essere stati un verbo solo e medesimo, non pur tra di loro, ma eziandio con μέλω, μελέω, μέλομαι, μελέομαι, distinti solamente per la pronunzia, come δ ασύς - λ ασὺς, λάσιος e come in ispagn. dexar (oggi si scrive dejar coll’iota, che risponde al nostro sci e al franc. ch) da Laxare, lasciare, laisser, lâcher. Δ άκρυον — lacrima.

Alla p. 4200. Dicono anche i greci nello stesso senso ἀναλαμβάνειν. Ménnone storico, Istoria della città di Eraclea pontica cioè di Ponto, ap. Foz. cod. 224. col. 724. ed. gr. lat. καὶ ἀπορίας αὐτοὺς καταλαβούσης, ἀνελάμβανον οἱ ἀπὸ τῆς Ἡρακλείας, σῖτον εἰς Ἀμισὸν πέμποντες. Trovandosi in iscarsezza di vittovaglie, quelli di Eraclea li riebbero, mandando del frumento in Amiso. (Bologna 14. Ott. 1826.). Id. ap. eund. l. c. col. 732. καὶ παραυτίκα τὰ πρὸς τὴν χρείαν χορηγοῦντες ἀφθόνως τοῖς Χιώταις, τούτους ἀνελάμβανον. et tunc quidem, large rebus necessariis suppeditatis, reficiunt Chiotas (gli Sciotti). Id. col. 736. Λεύκολλος δὲ ἐπὶ τοῦ Σαγγαρίου ποταμοῦ στρατοπεδεύων, καὶ μαθὼν τὸ πάθος, λόγοις ἀνελάμβανεν ἀθυμήσαντας τοὺς στραριώτας. Lucullo che era accampato in riva al Sangario fiume, inteso il sinistro della rotta, confortò con parole i suoi soldati caduti d’animo. Simile frase usa il med. col. 753. dopo il mezzo.

Nuovamente, novellamente, di novello, di nuovo, per di fresco, di poco, poco innanzi, poco fa — Ὡς δ' ὅτε Πανδαρέου κούρη χλωρηΐς ἀηδὼν Καλὸν ἀείδησιν, ἔαρος νέον ἱσταμένοιο. Odiss. τ v. 518-9 νεῶτα cioè νέον ἔτος — anno nuovo per prossimo venturo. (Bologn. 14. Ott. 1826.).

Spicio o specio, conspicio ec. — conspicor, auspicor ec. suspicor.

Sperno — aspernor, aris.

Non ha molti anni (1823) che si è udito parlare nelle gazzette, di persone che emettevano scintille dal loro corpo, le cui mani o altre membra ardevano senza abbruciarsi, nè potersi estinguere il fuoco coll’acqua ec. E si ricordò a quel proposito il caso della celebre Bandi. Ora, qualunque fede meritassero ed ottenessero quei racconti, eccone dei paralleli presso gli antichi. Damascio, nella vita d’Isidoro filosofo, appresso Fozio, cod. 242. colonna 1040. ediz. graec. lat. scrive: τούτου (Σεβήρου) τοίνυν ὁ ἵππος, ᾧ τὰ πολλὰ ἐχρῆτο, ψηχόμενος (tractatus) σπινθῆρας (scintillas), ἀπὸ τοῦ σώματος πολλούς τε καὶ μεγάλους ἠφίει, ἕως αὐτῷ τὸ τέρας εἰς τὴν ὑπατικὴν ἀρχὴν (alla quale esso Severo fu assunto) ἐν ῾Ρώμῃ κατηνύσθαι. ἀλλὰ καὶ Τιβερίῳ (Imp.) ὄνος, ὡς Πλούταρχος ὁ Χαιρωνεὺς φησὶν (nella Vita di Tiberio, perduta), ἔτι μειρακίῳ ὄντι καὶ ἐν ῾Ρόδῳ ἐπὶ λόγοις ῥητορικοῖς διατρίβοντι , colonna 1041 τὴν βασιλείαν διὰ τοῦ αὐτοῦ παθήματος προεμήνυσεν. ἀλλὰ καὶ τὸν (leggo τῶν) περὶ Ἀτήλλαν ἕνα ὄντα τὸν Βαλέμεριν (Balemerin, unum ex Attilae aulicis. Schott.) ἀπὸ τοῦ οἰκείου σώματος ἀποπάλλειν (iecisse) σπινθῆρας. ὁ δὲ ἦν, ὁ Βαλίμερις (sic) Θευδερίχου πατὴρ, ὃς νῦν τὸ μέγιστον ἕχει κράτος Ἰταλίας ἀπάσης. Λέγει δὲ καὶ περὶ ἑαυτοῦ ὁ συγγραφεὺς (Damascio) ὡς καὶ ἐμοὶ ἐνδυομένῳ τε καὶ ἐκδυομένῳ, εἰ καὶ σπάνιον τοῦτο συμβαίνει, συμβαίνει δ' οὖν σπινθῆρας ἀποπηδᾶν ἐξαισίους (ingentes), ἔσθ' ὅτε καὶ κτύπον παρέχοντας• ἐνίοτε δὲ καὶ φλόγας ὅλας (integras) καταλάμπειν τὸ ἱμάτιον, (vestem), μὴ μέν τοι καιούσας• καὶ τὸ τέρας ἀγνοεῖν εἰς ὅ τελειτήσει. (Il buon Damascio si aspettava forse tra se e se un imperiuccio, o almeno almeno un Consolato, sebbene non ardisca dirlo) ἰδεῖν δὲ λέγει καὶ ἄνθρωπόν τινα ἀπὸ τῆς κεφαλῆς ἀφιέντα σπινθῆρας, ἀλλὰ καὶ φλόγα ἀνάπτοντα, ὅτε βούλοιτο, ἱματίῳ τινὶ τραχεῖ (veste asperiore) παρατριβομένης. (nempe τῆς αὑτοῦ κεφαλῆς)). (Bolog. 16. Ott. 1826.).

Alla p. 4208. Damascio nel luogo citato nel pensiero antecedente, colonna 1033. dice del suo maestro ed eroe Isidoro filosofo: ῾Ρητορικῆς καὶ ποιητικῆς πολυμαθίας μικρὰ ἥψατο, εἰς δὲ τὴν θειοτέραν φιλοσοφίαν ἐξώρμησε τὴν Ἀριστοτέλους. ὁρῶν δὲ ταύτην τῷ ἀναγκαίῳ μάλλον ἢ τῷ οἰκείῳ (proprio, privato, individuale) νῷ πιστεύουσαν, καὶ τεχνικὴν μὲν ἱκανῶς εἶναι σπουδάζουσαν, τὸ δὲ ἔνθεον ἢ νοερὸν οὐ πάνυ προβαλλομένην, ὀλίγον καὶ ταύτης ὁ Ἰσίδωρος ἐποιήσατο λόγον. ὡς δὲ τῶν Πλάτωνος ἐγεύσατο νοημάτων, οὐκέτι παπταίνειν ἠξίου πόρσιον, ὡς ἔφη Πίνδαρος ( Olymp. od. 1. et od. 3. fin. Phyth. od. 3.) ἀλλὰ τέλος ἔχειν ἤλπιζεν εἰ τῆς Πλάτωνος διανοίας εἴσω τῶν ἀδύτων δυνηθείη διαβαλεῖν (sic), καὶ πρὸς τούτῳ (in marg. Corrigitur τοῦτο) ὁ πᾶς αὐτῷ δρόμος ἐτέτατο τῆς σπουδῆς. Rhetoricas, poeticasque artes parum attigit: sed ad sanctiorem Aristotelis philosophiam se convertit, vidensque illam necessariis ratiocinationibus magis quam proprio sensui credere, et ut via ac ratione procedat, divinis autem imaginationibus non adeo uti, parum etiam de hac sollicitus fuit: ubi autem Platonis sententias gustavit, non iam aspicere, ut ait Pindarus, dignatus est ulterius. Sed finem consecuturum speravit (dic, perfectionem, vel quid simile) si in Platonis sententiarum adyta penetrare potuisset, et eo omne suum studium impetumque convertit. Versio Andreae Schotti. Τῶν μὲν παλαίτατα φιλοσοφησάντων, soggiunge Fozio, Πυθαγόραν καὶ Πλάτωνα θειάζει (cioè Damascio)... τῶν νεωστὶ δὲ Πορφύριον καὶ Ἰάμβλιχον καὶ Συριανὸν καὶ Πρόκλον, καὶ ἄλλους δὲ ἐν μέσῳ τοῦ χρόνου πολὺν θησαυρὸν συλλέξαι λέγει ἐπιστήμης θεοπρεποῦς. τοὺς μέν τοι θνητὰ καὶ ανθρώπινα φιλοπονουμένους, , colonna 1036. ἢ συνιέντας ὀξέως ἢ φιλομαθεῖς εἶναι βουλομένους, οὐδὲν μέγα ἀνύττειν εἰς τὴν θεοπρεπῆ καὶ μεγάλην σοφίαν. τῶν γὰρ παλαιῶν Ἀριστοτέλη καὶ Χρύσιππον, εὐφυεστάτους γενομένους, ἀλλὰ καὶ φιλομαθεστάτους γεγονότας, ἔτι δὲ καὶ φιλοπόνους, οὐκ ἀναβῆναι ὅμως τὴν ὅλην ἀνάβασιν. τῶν νεωτέρων Ἱεροκλέα τε καὶ εἴ τις ὅμοιος, οὐδὲν μὲν ἐλλείποντας εἰς τὴν ἀνθρωπίνην παρασκευήν, τῶν δὲ μακαρίων νοημάτων πολλαχῆ πολλῶν ἐνδεεῖς γενομένους φησίν. Θειάζει vuol dire esalta, divinizza, loda a cielo, voce e senso usitato a Fozio. Antiquissimos etc. De recentioribus etc. , et alios mediae aetatis, magnum thesaurum collegisse divinae scientiae dicit. Eos autem qui in caducis, et humanis studiis libenter occupantur, vel qui intelligere acute (cito), ac scire multa volunt, non magnopere conferre ad sublimem ac divinam sapientiam. Antiquorum enim Aristotelem et Chrysippum ingeniosissimos, et discendi cupidissimos, quin etiam laboriosos, nec tamen omnino ad summum ascendisse. Recentium vero Hieroclem, et similes, scientiis humanis nulli quidem fuisse inferiores, sed in divinis notionibus non admodum fuisse versatos tradit. Schott. Più sotto nella stessa colonna 1036. dice Damascio d’Isidoro: εξαίρετον δ' ἦν αὐτῷ παρὰ τοὺς ἄλλους καὶ τοῦτο φιλοσόφους• οὐκ ἠβούλετο συλλογισμοῖς ἀναγκάζειν μόνον, οὔτε ἑαυτὸν οὔτε τοὺς συνόντας, ἐπακολουθεῖν τῇ ἀληθείᾳ, μὴ ὁρωμένην κατὰ μίαν ὁδὸν πορεύεσθαι συνελαυνομένους ὑπὸ τοῦ λόγου, οἷον τυφλοῦ τινὸς ὀφθὴν ἀγομένου (in marg. ἀγομένους) πορείαν• ἀλλὰ πείθειν ἐσπούδαζεν ἀεὶ, καὶ ὄψιν ἐντιθέναι τῇ ψυχῇ, μᾶλλον δὲ ἐνοῦσαν διακαθαίρειν . Luogo corrotto, di cui però s’intende appresso a poco il senso. Hoc etiam a ceteris philosophis distabat Isidorus, quod non sola syllogismorum vi se at suos vellet adhaerere veritati: cumque veritas non una videatur via, nolebat eos ratione, veluti caeca in rectam viam ductrice, impelli. Sed persuadere semper adnisus est, et oculos ad animam referre (dic, visum, speciem intromittere): aut si inessent, repurgare. — Ridete? Or traducete queste che vi paiono stoltizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e voi vedrete accadere quello che dice il Dutens, cioè quante verità (qui però si tratterà di errori) si troverebbero negli antichi, credute moderne, se si sapessero tradurre i loro detti nella lingua modernamente adottata per la filosofia. Queste scempiaggini del filosofo mistico Isidoro, comuni in gran parte agli altri mistici di quello e dei vicini secoli, e dominanti in quei tempi di sogni e di creuseries, che altro sono se non, con solo diverse parole, le misticherie di quei moderni, che quando non ci possono provare con ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confessare che argomenti per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli argomenti in contrario, ricorrono alla gran prova del sentimento, e pretendono che questo debba esser l’unica guida, canone, maestro della verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi passi di Damascio, non ridiamo di queste sentenze moderne, anzi le ripetiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il caso del mutato nomine (propriamente il nome e non altro) de te fabula. Che altro è questo sentimento, questa sensibilità, questo entusiasmo, queste ispirazioni, che non tutti hanno da natura, o chi più chi meno, ma che ci si dà per il principal mezzo di conoscere il vero, ed a cui si debba subordinare ogni altro mezzo, compresa la ragione; che altro è, dico, se non quello che Isidoro chiamava εὐμοιρία in quest’altro luogo (che ci fa ridere) di Damascio ap. lo stesso Fozio, colonna 1033 ἀγχίνοιαν καὶ ὀξύτητα ὁ Ἰσίδωρος, φησίν (Δαμάσκιος), ἔλεγεν οὐ τὴν εὐκίνητον φαντασίαν, οὐδὲ τὴν δοξαστικὴν εὐφυΐαν, οὐδὲ μόνην (ὡς ἄν τις οἰηθείη) διάνοιαν εὔτροχον καὶ γόνιμον ἀληθείας• οὐ γὰρ εἶναι ταύτας αἰτίας, ἀλλὰ τῇ αἰτίᾳ δουλεύειν εἰς νόησιν. Τὴν δὲ εἶναι θείαν κατὰ κωχὴν (in marg. corrig. κατοχὴν), ἠρέμα διανοίγουσαν καὶ ὑποκαθαίρουσέαν τὰ τῆς ψυχῆς ὄμματα, καὶ τῷ νοερῷ φωτὶ καταλάμπουσαν, εἰς θέαν καὶ γνώρισιν τοῦ ἀληθοῦς καὶ τοῦ ψεῦδοῦς. εὐμοιρίαν ταύτην ἐκεῖνος ὠνόμαζε. καὶ ὡς οὐδὲν γένοιτ' ἂν ὄφελος ἄνευ εὐμοιρίας, ὡς οὐδὲ ὀφθαλμῶν ὑγιαινόντων ὄφελος ἄνευ τοῦ οὐρανίου φωτὸς, διετείνετο. Sollertiam et acrimoniam Isidorus dixit esse imaginationem non facile mobilem, neque ingenium facile opiniones comminiscens, neque solam, ut aliquis putarit, intelligentiam volubilem et gignentem veritatem. Neque enim has esse caussas, sed ad intelligendum caussae servire: divinum vero esse instinctum, sedate aperientem et repurgantem animae oculos, et intelligibili lumine illustrantem, ad verum falsumque et videndum et cognoscendum. Bonam constitutionem ipse appellavit, nullumque sine ea esse emolumentum, neque oculorum sanorum commodum sine coelesti lumine asseveravit. — Del resto, ho detto che questi principii erano comuni e dominanti in quei secoli; ma Damascio ha ragion di dire ἐξαίρετον δ' ἦν αὐτῷ ec. e di fare Isidoro singolare dagli altri, perchè pochi filosofi anteriori o contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la ragione, o sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione; disprezzare il senso universale per esaltar l’individuale; deprimere e condannare Aristotele, appunto perchè seguace τοῦ ἀναγκαίου cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare, di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone Pitagora ec. perchè non ragionatori, perchè πιστεύοντας al libero sentimento e all’immaginario, che Isidoro chiama divino. ec. (Bologna. 17. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4217. Lo stesso Demetrio ha nondimeno una bella osservazione sect. 197. Ἐναγώνιος (apta contentionibus. Gale.) μὲν οὖν ἴσως μᾶλλον ἡ διαλελυμένη λέξις (la dicitura senza congiunzioni, σύνδεσμοι) ἡ δ' αὐτὴ καὶ ὑποκριτικὴ (histrionica. Gale) καλεῖται. κινεῖ γὰρ ὐπόκρισιν ἡ λύσιςἃ γραφικὴ (idonea scriptionib. Gale) δὲ λέξις ἡ εὐανάγνωστος•· (quae facile legi potest.) αὕτη δέ ἐστιν ἡ συνηρτημένη καὶ οἷον ἠσφαλισμένη (connexa et tanquam munita) τοῖς συνδέσμοις. διὰ τοῦτο δὲ καὶ Μένανδρον ὑποκρίνονται (in Menandro actorum opera utuntur), λελυμένον ἐν τοῖς πλείστοις. Φιλήμονα δὲ ἀναγινώσκουσιν. Veramente ci sono alcuni scrittori, libri, o passi, che leggendoli, massime ad alta voce, pare che chiamino il gesto, e ci vuol tutta la forza dell’assuefazione e delle regole di civiltà francese per astenersene. E questi tali passi sono appunto, almeno il più delle volte, o forse sempre slegati. Ma però la causa del detto effetto non è mica la slegatura, ma quella che lo stesso Demetrio accenna più sotto, cioè la passione. Perocchè alle riferite parole egli immediatamente soggiunge, sect. 198. Ὅτι δὲ ὑποκριτικὸν (accommodata actori res) ἡ λύσις, παράδειγμα ἐγκείσθω τόδε. E qui recato un esempio che fa poco o nulla al caso ( ἐδεξάμην, ἔτικτον, ἐκτρέφω φίλε ), come sono quasi tutti gli esempi di cui Demetrio si serve (talora ei n’adopra un medesimo per due osservazioni, casi o precetti contrarii), ripiglia: οὕτως γὰρ λελυμένον ἀναγκάσει καὶ τὸν μὲν θέλοντα, ὑποκρίνεσθαι (actu adiuvare), διὰ τὴν λύσιν, εἰ δὲ συνδήσας εἴποις, Ἐδεξάμην καὶ ἔτικτον καὶ ἐκτρέφω, πολλὴν ἀπάθειαν (vacuitatem affectuum) τοῖς συνδέσμοις (insieme delle congiunzioni) συμβαλεῖς. πᾶν δὲ τὸ ἀπαθὲς, ἀνυπόκριτον. Ora, benchè il nostro rettorico abbia appena osservata e accennata di scorcio la vera causa, non si può negare che questa non sia una bella osservazioncella. E questa è forse quanto di buono o di notabile v’ha nel suo libro. (Bolog. 17. Ott. 1826.). V. p. 4224.

Bella proprietà della lingua italiana, massime antica, proprietà in mille casi utilissima al dir breve, anzi all’evitare un lunghissimo circuito di parole, proprietà d’altronde comune anche al francese (nonchalance, nonchaloir, v. Pougens, Archéologie française), all’inglese (nonsense, nonsensical ec.) ec., è quella di certi negativi, sia nomi, sia verbi, avverbi ec. fatti dal positivo, premessavi la non, congiunta o disgiunta da essa voce; come noncuranza, non cale, non calere ec. V. la Crusca in Non... e la Proposta del Monti , se non erro, in Non, o in Non... — Damascio nella Vita d’Isidoro filosofo (Damascio fu molto studioso dell’eleganza della lingua in essa opera e ricercatore di modi antichi e di voci) appresso Fozio, cod. 242. parlando di un certo Asclepiodoto, il quale per moltissimi tentativi che facesse a tal uopo, non potè ritrovare il genere di musica detto enarmonio (τὸ ἐναρμόνιον γένος) l’uso e la conoscenza del quale era perduta, dice, colonna 1054. lin.1. ediz. grec. lat. αἴτιον δὲ τῆς μὴ εὑρέσεως τὸ κ. τ. λ. la causa della non invenzione, cioè del non averlo egli potuto ritrovare, fu ec. (Bologna. 17. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4162. Id. sect. 240. p. 134. fin. φιλιφρόνησις γὰρ βούλεται εἶναι ἡ ἐπιστολὴ σύντομος. Expressio enim quaedam amoris debet esse epistola, concisa. Gale.

Tondeo, tonsum-detonsare, tosare ec.

Alla p. 4223. Demetrio, ib. sect. 285. Καθόλου δὲ τῆς λέξεως τὰ διαλελυμένον. Ad summam (generalmente) autem figurae verborum et actionem et contentionem praebent dicenti: in primisque dissolutum. Gale. (Bolog. 20. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4211. Arato Φαινόμενα v. 108. parlando degli uomini della età d’oro: Οὔπω λευγαλέου τότε νείκεος ἠπίσταντο, Οὐδὲ διακρίσιος περιμεμφέος, οὐδὲ κυδοιμοῦ• Αὕτως,Αὕτως , (così, come si sia, εἰκῆ) δ' ἔζωον. χαλεπὴ δ' ἀπέκειτο θάλασσα, Καὶ βίον οὔπω νῆες ἀπόπροθεν ἠγίνεσκον, κ. τ. λ.. E v. 179 Οὐδ' ἄρα Κηφῆος μογερὸν γένος Ἰασίδαο Αὕτως (ridondante) ἄῤῥητον (taciuto oscuro ignoto, ec.) κατακείσεται· ἀλλ' ἄρα καὶ τῶν Οὐρανὸν εἰς ὄνομ' ἦλθεν, ἐπεὶ Διὸς ἐγγύθεν ἦσαν. E così altrove più volte nello stesso poema usa l’avverbio αὕτως. E così ancora altri poeti; e prima di tutti probabilmente Omero. V. l’indice delle parole omeriche.

Alla p. 4210. lin.1. Questa inclinazione e quest’uso di applicare a luoghi e persone ben note e prossime i racconti (veri o finti) appartenenti a persone e luoghi lontani, ed anche di rimodernarli, cioè applicar de’ racconti vecchi, e talora vecchissimi, a tempi e persone moderne, ha mille esempi, che si possono notare anche giornalmente: ed io ho udito in città d’Italia, molto tra se distanti, raccontare varie novellette, varie pretese origini di proverbi, varie goffaggini insigni ec. come accadute nominatamente ad una tal persona di quella tal città; e così in ciascuna città; e per tutto la stessa novelletta con nome diverso; e molte di tali novellette io le aveva già sin dalla puerizia sentite raccontare nella mia patria e da’ miei, sotto i nomi di persone della mia città stessa o della provincia: ed alcune ne ho anche trovate negli antichi novellieri italiani, sotto altri nomi, le quali ora si raccontano come di poco tempo addietro, e di persone conosciute dagli stessi che le raccontano, o da quelli da cui essi le hanno udite. (Bolog. 23. Ottob. 1826.). Altra conformità degli antichi coi moderni, poichè anche gli antichi ebbero lo stesso vezzo, come si è veduto.

Alla p. 4202. Spesse volte in occasioni di gran travaglio e afflizione d’animo, io mi sono consolato così. Ho dimandato a me stesso: Certo questa è una sventura grande: ma posso io non affliggermi di questa cosa? L’esperienza mia propria, di più altre volte, mi obbligava a risponder di sì, che io poteva: ma il non affliggersene sarebbe cosa irragionevole: la sventura è grande e vera. — Lasciamo star che sia vera: ma affliggendomene la posso io dissipare o scemare? — Nulla. — Non affliggendomene, crescerà ella punto, o me ne verrà punto di danno? — Punto. — Dunque come sarà irragionevole il non affliggermene? E se questo è ragionevole, se mi è utilissimo (il che è manifesto), se io lo posso, perchè non lo vorrò? — Vi giuro che questo discorso era efficace; che la mia volontà si determinava secondo esso, ed otteneva il suo effetto; e che io mi consolava e non pativa. (Bologna. Domenica, 29. Ottob. 1826.).

Alla p. 4211. Nicias de Lapidibus, ap. Stob. serm. 98. περὶ νόσου, dice di una certa pietra della Tracia: ποιεῖ δ' ἄριστα πρὸς ἀμβλυωπίας ποιεῖ δ’ ἄριστα πρὶῖἶᾳἲ;;ς ἀμβλυωπίας fa benissimo. Callisthenes Sybarita libro 13. rerum Galaticarum, ib. εὑρίσκεται δ' ἐν τῇ κεφαλῇ αὐτοῦ (di un certo pesce) λίθος, χόνδρῳ παρόμοιος ἁλὸς (grumo salis), ὃς κάλλιστα ποιεῖ πρὸς τεταρταίας νόσους (ad quartanas. Gesner.). Archelaus lib. 1. de fluviis, ib. γεννᾶται δ' ἐν αὐτῷ (in un fiume dell’Etolia) βοτάνη ζάρισα προσαγορευομένη, λόγχῃ παρόμοιος, ποιοῦσα πρὸς ἀμβλυωπίας ἄριστα. Ctesias Cnidius lib.2. de Montibus, ib. γεννᾶται δ' ἐν αὐτῳ (in un monte della Misia) λίθος ἀντιπαθὴς προσονομαζόμενος, ὃς κάλλιστα ποιεῖ πρὸς ἀλφοὺς (vitiligines) καὶ λέπρας Clitophon Rhodius lib.1. Indicorum, ib. dice di un’erba dell’India: ποιεῖ δ' ἄριστα πρὸς ἰκτέρους (ad morbum regium). (Bologna 30. Ottobre. 1826.).

Alla p. 4210. lin.1. Timica, donna Pitagorica, fatta tormentare da Dionigi tiranno di Siracusa, perchè rivelasse i secreti o misteri della sua setta, si tagliò co’ denti la lingua, e la sputò in faccia al tiranno. Giamblico, Vita di Pitagora, cap. 31. Imitazione della storia di Leena amica di Armodio e Aristogitone, come osserva il Menagio, il quale vedi, Hist. Mulier. philosopharum, segm. 94-98. E molte di siffatte narrazioni parallele si debbono interamente agli scrittori imitanti in altra materia le tradizioni e storie antiche ec. (Recanati 16. Nov. 1826.).

Μία χελιδὼν ἔαρ οὐ ποιεῖ. Fragm. Teletis ex commentario de comparatione divitiarum et paupertatis ap. Stob. serm. 95. σύγκρισις πενίας καὶ πλούτου , ed. Basil. 1549. p. 522. V. Mannuccii Adagia, Venet. 1609. col. 469. — Una rondine non fa Primavera . V. la Crus. Proverbio greco passato nel volgare e popolare italiano.

Alla p. 4212. fin. Perictyones Pythagoricae ex libro de Mulieris concinnitate , ap. Stob. serm. 83. Οἰκονομικός: Σκῆνος (corpus) γὰρ ἐθέλει (requirit) μὴ ῥιγέειν, μηδὲ γυμνὸν εἶναι, χάριν εὐπρεπείης ἄλλου δὲ οὐδενὸς χρήζει. Parla biasimando la sontuosità del vestire.

Alla p. 4165. È usato pur da Hierocles, lib. de Amore fraterno , ap. Stob. serm. 82. ὅτι κάλλιστον ἡ φιλαδελφία , p. 475. verso il fine, ed. Basil. 1549. (Recanati. 15. Nov. 1826.).

Bellissima è l’osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno , ap. Stobeo serm. ὅτι κάλλιστον ἡ φιλαδελφία etc. 84. Grot. 82. Gesner. che essendo la vita umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benchè circondato da persone benevole, e benchè senza inimici, pur mi ricordo di esser vissuto in una specie di timore o timidezza continua, rispetto ai mali indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed abbattuto e afflitto l’animo assai più del solito, non per altro se non perchè io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica natura, senza alleati, per la lontananza de’ miei; (Recanati. 16. Nov. 1826.) e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d’animo, al pensiero, all’aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie ec.

κογχίον diminutivo positivato per κόγχος. V. Casaub. ad Athenae. l. 4. c. 16.

Faquin, facchino ec. — φάκινος. V. Casaub. ad Athenae. l. 4. c. 16.

Indulgeo indultum-indultar spagn.

Senza porvi altro studio (cioè alcuno). Varchi, Ercolano, Venez. Giunti 1570. p. 94. verso la fine.

Io ho veduto delle Commedie più sporche e più disoneste che quelle d’Aristofane; ho veduto de’ Sonetti disonestissimi e sporchissimi; ho veduto delle Stanze che si posson chiamare la sporchezza e disonestà medesima. Id. ib. p. 245. E gran parte della lingua spagnuola ritiene ancora oggi della lingua de’ Mori. Ib. p. 260. (Recanati. 26. Nov. Domenica. 1826.).

I Francesi, per qualificare un uomo che stimino, soglion dire c’est un homme extrêmement aimable , gl’Inglesi he is a very sensible man , gl’Italiani, è un uomo di garbo ; segno manifesto, pare a me, di quanto i primi pongano sopra ogni altra cosa i piaceri della conversazione, e la scienza della urbanità; i secondi la ragionevolezza e il buon senso; gli altri la compostezza delle maniere, e l’accortezza di condursi nella vita. Algarotti, Lettere varie, Lettera al Sig. Barone N. N. a Hertzogenbrück. Berlino 10. Marzo 1752. fine. Opp. ed. Cremona, Manini 1778-84. tomo 9. 1783. p. 69. (28. Nov. 1826.).

Molto impropriamente la questione del sommo bene è stata chiamata la questione dei fini. Il fine dell’uomo è noto e certo a ciascuno che interroghi se medesimo: un piacere perfetto, non dico in se, e però non importa se sommo o non sommo, ma perfetto rispetto ad esso uomo; un piacere che lo contenti del tutto. Questo è il nostro fine, notissimo a tutti, benchè poi non si possa conoscere di qual natura sia o possa essere questo piacere perfetto, niuno avendolo sperimentato mai; e per conseguenza che cosa e di qual natura sia o possa essere la felicità umana. Se la virtù, o la voluttà del corpo, o altre cose tali, possano proccurare all’uomo il piacere perfetto; o qual di loro più; o in somma donde possa o debba l’uomo conseguire il piacer perfetto che egli desidera, e che è il suo fine, questo può ben cadere e cade in questione; ma tal questione è dei mezzi, non già dei fini. Il fine è certo, il mezzo s’ignora, e la cagione di questa ignoranza è in pronto. La cagione, dico, si è che il mezzo o i mezzi di ottener questo fine, che niuno ha mai ottenuto, non esistono al mondo; che per conseguenza il sommo bene, che ci possa o debba dare il piacer perfetto che cerchiamo, non si trova, è un’immaginazione, come lo è questo piacer perfetto esso stesso, quanto alla sua natura; e che infine l’uomo sa e saprà ben sempre che cosa desiderare, ma non mai che cosa cercare, cioè che mezzo che cosa possa soddisfare il suo desiderio, dargli il piacer perfetto, cioè che cosa sia il suo sommo bene, dal quale debba nascere la sua felicità. (Recanati. 28. Nov. 1826.).

Ritorta-ritortola. Primulus a um, e primulum per primus e primum avv. Osservisi che son voci dei Comici, cioè del dir volgare.

Anticato per antico. V. Crusca.

Far le corna a unoκέρατά τινι ποιεῖν , detto della moglie. Artemidoro de somniis cap. 12. che lo chiama τὸ λεγόμενον. V. Tassoni Varietà di pensieri, lib. 9. cap. 30.

Datti de’ polli, latte, capretti, giuncate, e delle altre delizie, che tutto l’anno ti serba. Pandolfini Tratt. del governo della famiglia, ed. Milano 1811. p. 81. (Recanati 30. Nov. Festa di S. Andrea. 1826.). Vi si allegheranno degli altri. Caro Apologia, Parma 1558. p. 26. In Esiodo non sono delle voci che non sono in Omero? Ib. p. 26-27. E così spessissimo.

Senza fargli altra risposta, cioè niuna. Sannazz. Arcadia, prosa 11. fine.

Observe the French people, and mind how easily and naturally civil their address is, and how agreeably they insinuate little civilities in their conversation. They think it so essential, that they call an honest man and a civil man by the same name, of honnête homme; and the Romans called civility humanitas, as thinking it inseparable from humanity. Chesterfield Letters to his son, lett. 95.

È naturale all’uomo, debole, misero, sottoposto a tanti pericoli, infortunii e timori, il supporre, il figurarsi, il fingere anco gratuitamente un senno, una sagacità e prudenza, un intendimento e discernimento, una perspicacia, una esperienza superiore alla propria, in qualche persona, alla quale poi mirando in ogni suo duro partito, si riconforta o si spaventa secondo che vede quella o lieta o trista, o sgomentata o coraggiosa, e sulla sua autorità si riposa senz’altra ragione; spessissimo eziandio, ne’ più gravi pericoli e ne’ più miseri casi, si consola e fa cuore, solo per la buona speranza e opinione, ancorchè manifestamente falsa o senza niuna apparente ragione, che egli vede o s’immagina essere in quella tal persona; o solo anco per una ciera lieta o ferma che egli vede in quella. Tali sono assai sovente i figliuoli, massime nella età tenera, verso i genitori. Tale sono stato io, anche in età ferma e matura, verso mio padre; che in ogni cattivo caso, o timore, sono stato solito per determinare, se non altro, il grado della mia afflizione o del timor mio proprio, di aspettar di vedere o di congetturare il suo, e l’opinione e il giudizio che egli portava della cosa; nè più nè meno come s’io fossi incapace di giudicarne; e vedendolo o veramente o nell’apparenza non turbato, mi sono ordinariamente riconfortato d’animo sopra modo, con una assolutamente cieca sommissione alla sua autorità, o fiducia nella sua provvidenza. E trovandomi lontano da lui, ho sperimentato frequentissime volte un sensibile, benchè non riflettuto, desiderio di tal rifugio. Ed è cosa mille volte osservata e veduta per prova come gli uomini di guerra, anche esperimentatissimi e veterani, sogliano pendere nei pericoli, nei frangenti, nelle calamità della guerra, dalle opinioni, dalle parole, dagli atti, dal volto, di qualche lor capitano, eziandio giovane e immaturo, che si abbia guadagnato la lor confidenza; e secondo che veggono, o credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d’animo, e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov’è sommamente da temere o dolersi. E questa qualità dell’uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell’esito delle cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d’ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza cieca nell’autorità, nel senno, e nel provvedimento altrui. (9. Dic. 1826.).

Dilettare-dileticare, co’ derivati.

Intermittenza morale. Passioni e qualità morali intermittenti. — Aggiungerò che quest’odiosa passione (l’avarizia) provenendo sovente dalla debolezza della nostra costituzione, avviene che le infermità corporali talvolta la sviluppino. Una dama che per sei mesi dell’anno era soggetta ai vapori e alla malinconia, era pur anche durante quel tempo d’una sordida parsimonia; ma come appena le funzioni corporee ripigliavano la loro armonia, ella si faceva adorare per la sua grande generosità. Alibert, Physiologie des passions, nel N. Ricoglitore di Milano, quaderno 23. p. 788. — Questa osservazione si può sommamente estendere. Ciascuno di noi, se bene osserva, troverà in se questa sì fatta intermittenza. Io, inclinato all’egoismo, perchè debole e infermo, sono mille volte più egoista l’inverno che la buona stagione; nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza dell’avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico. — Quante cose poi non si potrebbero dire sopra questa medesima intermittenza, considerata, non nelle qualità, ma nelle facoltà intellettuali e sociali, sia ingenite, sia acquisite! (Recanati. 10. Dic. Festa della Venuta. 1826.).

Assai meglio scrisse (il Boccaccio) quando si lassò guidar solamente dall’ingegno ed instinto suo naturale, senza altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenza e fatica si sforzò d’esser più culto e castigato. Castiglione prefaz. del Cortegiano . Senza altro (cioè alcuno) impedimento. Ib. lib.2. ed. Venez. 1541. carta 79. p. 2. principio, ed. Venez. 1565. p. 198. fin. E così il medesimo autore nella citata opera altre più volte. Senz’altro strepito (cioè niuno). Ib. lib. 3. carta 126. principio. — p. 310.

Pare che la fanciullezza e la gioventù abbia ingenita e naturale una inclinazione a distruggere, e la età matura e avanzata, a conservare. Nè voglio io dedur questo dal vedere che i giovani sogliono scialacquare e mandare a male i patrimoni, dove che i provetti gli accumulano, conservano e accrescono[a]

Inconsideranza e spensieratezza del futuro.

[Chiudi]; la qual cosa facilmente si spiega, e nasce perchè i giovani sono confidenti, e poco riflettono, nè pensano all’avvenire, in vece che i vecchi sono timidi, cauti, e sempre solleciti del futuro. Ma vedesi quel che io ho detto, eziandio in cose dove non ha luogo alcuno nè il timore o la fiducia, nè la provvidenza o la improvvidenza dell’avvenire. Un fanciullo e un giovane spessissime volte si piglierà piacere di uccidere una mosca o altro animaletto, cacciandolo anco con fatica, senza altra ragione o altro fine che di prendersi gusto; rarissime volte si compiacerà, o gli verrà pure in capo, di salvar qualche animale, vedendolo in pericolo, e potendolo salvar senza affaticarsi. Un uomo maturo o un vecchio rare volte si piglierà diletto di uccidere, spesso si compiacerà di salvare tali creature, vedendole in qualche pericolo di perdersi, e potendo massimamente soccorrerle senza suo disagio. E ciò faranno gli uni e gli altri, come per instinto, e senza ragionarvi sopra. È manifesto poi come i giovani tendano alla novità, e non solo sieno vogliosi d’innovar propriamente, ma eziandio semplicemente di spegner l’antico, o di vederlo spento; e i provetti, per lo contrario, gelosi della conservazione delle cose che sono. Onde si potrebbe dire che la natura, sempre intenta e studiosa non meno a distruggere che a conservare o produrre, avesse dato stimolo e incarico a quelli che crescono e vengono innanzi nel mondo, di distruggere, quasi per farsi luogo; e a quelli che declinano, e si avviano alla partenza, di conservare e produrre, quasi per lasciar pieno il luogo loro, per lasciar cose che restino in loro scambio, per supplire il posto che essi son per lasciare. (Recanati. 12. Dic. 1826.).

Fare e dire ciò che lor occorre, così, senza pensarvi. Castiglione Cortegiano lib. 2. ed. Ven. 1541. carta 69. ed. Ven. 1565. p. 174.

Reperito as. V. Forcellini .

Cielo detto di camere, di carrozze ec. — Così in greco οὐρανὸς, οὐρανίσκος per volta ec. V. Casaubon. ad Athenae. l. 5. c. 6. l. 4. c. 5. Aristot. l’usa per palato. Scapula.

Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da oriuolo sono un’ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e non esiste, nè da se medesima, nè nel tempo, come membro di esso, non più di quel che ella esistesse prima dell’invenzione dell’oriuolo. In somma l’esser del tempo non è altro che un modo, un lato, per dir così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, o che possono o si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia o non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una proprietà del nulla l’esser luogo: proprietà negativa, giacchè anche l’esser di luogo è negativo puramente e non altro. Sicchè, come il tempo è un modo o un lato del considerar la esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi è spazio, e il nulla senza spazio non si può dare. Per tanto è manifesto che eziandio fuori degli ultimissimi confini dell’universo esistente, v’è spazio, poichè nulla v’è. E se qualche cosa potesse essere o creata o spinta di là da quegli estremi confini, troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla che la impedisse di andarvi o di starvi. La conclusione si è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi. E quelle innumerabili e immense quistioni agitate dalla origine della metafisica in qua, dai primi metafisici d’ogni secolo, circa il tempo e lo spazio, non sono che logomachie, nate da malintesi, e da poca chiarezza d’idee e poca facoltà di analizzare il nostro intelletto, che è il solo luogo dove il tempo e lo spazio, come tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e per se medesimi, e sian qualche cosa. (Recanati. 14. Dic. 1826.).

Ἑλένη cambiata in Σελήνη nei primi secoli della nostra era. V. Maffei Arte magica annichilata, lib. 3. cap. 5. par. 3 opp. ed. del Rubbi t. 2. p. 205.

Uso di porre il g avanti la n (come in cognosco, agnosco, agnatus, da nosco e natus), del quale in questi pensieri altrove. V. Maffei Appendice all’Arte magica annichilata, opp. ed. del Rubbi, vol. 2. p. 320.

Quanta fosse fin nel principio del secolo addietro la fama della letteratura italiana, e lo studio che vi mettevano gli stranieri si può conoscere anche da questo fatto, poco noto oggidì, che come nel fine di detto secolo si pubblicò in Ginevra il famoso Giornale della Bibliothèque britannique, espressamente per far conoscere e tenere al corrente l’Europa, dei progressi ec. della letteratura inglese, così nel principio di esso secolo, usciva a Ginevra altresì, un Giornale intitolato Bibliothèque italique, ou histoire littéraire de l’Italie, il quale aveva lo stesso scopo, rispetto all’Italia. Di tanto ancora era stimata degna la nostra letteratura. V. le opp. del Maffei ed. del Rubbi vol. 4. p. 7. segg. dove questo Giornale è chiamato un’opera che nacque in Francia con sommo credito, perchè composta da sette sapienti , e se ne citano gli estratti della Verona illustrata presi dal tomo 15. 16. e 17. di esso giornale; e il tomo 21. p. 8. dove si cita l’anno 1728. del medesimo Giornale. V. p. 4264. fin.

Alla p. 4216. marg. Così il Maffei intitolò Storia diplomatica, o piuttosto, come voleva egli, Storia de’ Diplomi (v. le sue opp. ed. del Rubbi, t. 21. p. 7. fin.), la sua opera contenente la scienza o notizia de’ diplomi.

La poesia, quanto a’ generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d’ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d’ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll’armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell’uomo. L’epico nacque dopo questo e da questo; non è in certo modo che un’amplificazione del lirico, o vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha assunta principalmente e scelta la narrazione, poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch’esso sulla lira o con musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno in onor degli eroi o delle nazioni o eserciti; solamente un inno prolungato. Però anch’esso è proprio d’ogni nazione anche incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in gran parte, e quelli ancora de’ bardi, partecipar tanto dell’epico e del lirico, che non si saprebbe a qual de’ due generi attribuirli. Ma essi son veramente dell’uno e dell’altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività dell’epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un’ispirazione, ma un’invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con regola e con misura, anzi n’esclude la misura affatto, n’esclude affatto l’armonia; giacchè il pregio e il diletto di tali imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di modo ch’ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità, che non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze, i difetti. E tali imitazioni naturali poi, non sono mai d’un avvenimento, ma d’un’azione semplicissima, voglio dir d’un atto, senza parti, senza cagioni, mezzo, conseguenze; considerato in se solo, e per suo solo rispetto. Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura, è per essenza, del tutto differente dalla drammatica. Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell’ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e onor sociale o utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l’epica, che è sua vera nepote. — Gli altri che si chiamano generi di poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca. L’elegiaco è nome di metro. Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci lirici, massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto lirici, detti θρῆνοι, quali furon quelli di Simonide, assai celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche μομῳδίαι, come quelle che di Saffo ricorda Suida. Il satirico è in parte lirico, se passionato, come l’archilocheo; in parte comico. Il didascalico, per quel che ha di vera poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che il linguaggio, il modo e i gesti per dir così. ec. (Recanati. 15. Dic. 1826.).

Alla p. 3177. Noterò qui, come cosa solamente poco nota oggidì, e curiosa da sapersi che lo stesso argomento della Gerusalemme, nello stesso tempo del Tasso fu trattato in un poema latino di 12 libri, intitolato la Siriade, da un altro Italiano, cioè da Pietro Angelio, o degli Angeli, da Barga (Castello di Toscana 20. miglia lontano da Lucca), nato del 1517. e morto del 1596. a’ 29. Febbraio (non un intero anno dopo il Tasso, morto a’ 25 Aprile 1595.), versificatore e prosatore italiano e latino, certo non indotto, e a’ suoi tempi, ed anche appresso, molto stimato, il quale aveva viaggiato in Levante, per la Grecia e per l’Asia, andato a Costantinopoli in compagnia d’uno inviato del Re di Francia, ed aveva per zelo ed onore della nazione italiana ucciso un francese chè parlavane con disprezzo, onde incorse poi in gravi pericoli. V. Tiraboschi secolo 16.o libro 3. capo 4. par. 5.o e Dati Prefaz. alle prose fiorent. nella Raccolta di prose a uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753. p. 633. Non saprei dire qual de’ due, il Tasso o l’Angelio, fosse primo a concepire questo bell’argomento, o se l’uno senza saputa dell’altro. Ciò solo interesserebbe in questo particolare. (19. Dic. 1826.). Vedi l’oraz. in lode dell’Angelio, recitata da Francesco Sanleolini fiorentino nell’Accademia della Crusca l’anno 1597. Prose fior. parte 1. vol. 1. oraz. 7. particolarmente verso la fine, ediz. di Venez., Occhi, 1730-1735. p. 105-106. dove l’oratore afferma e vuol provare che il primo a concepire il detto argomento fu il degli Angeli. V. il Tasso Apologia agli Accad. della Crusca, opp. ed. del Mauro. t. 2. p. 309. e le Lettere poetiche, dove si vede che il Tasso veniva facendo comunicare al Barga i pezzi del suo poema in iscriverlo, per avere il suo parere. (20. Dic. 1826. Vigilia di S. Tommaso apost.).

Dice (aiunt) che un certo poeta greco, per nome Simonide diceva di tenere appresso di se due cassette. A. M. Salvini nelle prose fiorentine, parte 3. vol. 1. lettera 99. (lett. al Signore Antonio Montauti) ediz. di Venez., Occhi, 1730-35. tomo 5. parte I. p. 152.

Tenacità dei greci verso la loro lingua, e loro ignoranza delle altre, in ispecie della latina. V. Dati, pref. alle prose fiorentine, nella Raccolta di prose ad uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753. p. 620. segg.

Universalità della lingua greca anticamente. V. Dati, loc. citato qui sopra, p. 627. fin. e segg.

Studio e pregio in cui era la lingua italiana presso gli stranieri nel Secolo 17.o V. Dati, loc. citato qui sopra, p. 630: e nella medesima Raccolta cit. qui sopra, v. le Orazioni del Lollio e del Buommattei e del Salvini in lode della lingua toscana. (Recanati. 20. Dic. 1826.).

Defectus per qui defecit o deficit. V. Forcellini .

Zocco-zoccolo. Fagus-fagulus (V. Forcell. Gloss. ec.) — faggio.

Scultare da sculptum, come in franc. sculpter. V. Crusca.

Sminuzzare-sminuzzolare.

Quell’idiotismo nostro e latino del sibi, o mihi ec. e del si, mi, ti, ci ec. ridondante, in vero o in apparenza, notato da me altrove, nell’uso dei verbi, anche attivi, ha molta corrispondenza coll’uso del verbo greco medio, nei quali verbi spessissimo a prima vista non si scorge ombra di azione reciproca, e paiono usati a puro capriccio, in vece dell’attivo; benchè poi, attentamente guardando, sempre o il più delle volte, massime ne’ buoni autori, vi si scuopra la cagion di usarli piuttosto che gli attivi, e un non so che di reciproco nella significazione. (Vigilia di Natale. Domenica. 1826. Recanati.).

Πάτανον-πατάνιον o βατάνιον, come appunto in latino patina-patella.

Senz’altro fiato (cioè nessuno). Galilei, Saggiatore, opp. ed. di Padova, t. 2. p. 284. luogo molto insigne e notabile al proposito.

Alla p. 4204. Bellissimo, e da vedersi e leggersi attentamente, è il capo 7. del libro VI. di Casaubono ad Athenaeum, dove parla degli antichi libri intitolati Διδασκαλίαι o περὶ διδασκαλιῶν (che potremmo tradurre delle Esposizioni dei drammi), libri che contenevano le istorie o croniche delle opere drammatiche, in quanto alle circostanze dei tempi, occasioni, modi, in cui furono esposte sulla scena. Intorno a tale argomento si affaticarono i primi letterati, incominciando da Aristotele, e massime i Critici. Erano libri, come bene osserva il Casaubono, utilissimi alla cronologia da una parte, e dall’altra alla storia sì delle vicende politiche e sì dei costumi, tanto generali della Grecia o di Atene (dove si esponevano i drammi), quanto individuali delle persone più cospicue e famose di ciascun tempo. Giacchè mille volte le vicende politiche davano occasione, e argomento intero, a questo o quel dramma, e vi erano figurati i caratteri dei principali personaggi dell’attuale repubblica. Tali erano le istorie teatrali dei greci; libri, dove quasi senz’avvedersene, s’imparava la storia politica, la storia più intima delle opinioni e dei costumi nazionali, civili, individuali della Grecia, anno per anno. Che cosa di comune potrebbero avere con queste le nostre istorie teatrali, le istorie, se ne avessimo, delle nostre esposizioni di arti; e simili libri? Quando presso di noi nè drammi, nè opere d’arte, nè cosa alcuna d’ingegno, suol rappresentare le circostanze dei tempi, nè essere occasionata e figlia legittima del tempo? In fatti quale interesse hanno le nostre istorie teatrali, se non forse per le compagnie degl’istrioni? (Recanati. 29. Dic. 1826.). V. p. 4294.

Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime e le ultime, mitologie. Gl’inventori delle prime mitologie (individui o popoli) non cercavano l’oscuro per tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il chiaro nell’oscuro; volevano spiegare e non mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quelle cose che l’uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora. Gl’inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi secoli della nostra era, decisamente cercavano l’oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei misteri e dei secreti. Le prime mitologie non avevano misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove, altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano. Quindi il diverso carattere delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create. Le une gaie, le altre tetre ec. (Recanati 29. Dic. 1826.).

Vi-g-ore coi derivati — vi-v-ore coi derivati. V. Crusca.

Violato per violaceo, violetto, o appartenente a viole. V. Crusca. Lanatus (V. Forcell. ), lanuto per lanosus, lanoso.

Violetto. Diminutivo aggettivo positivato.

Misceo, mixtus, misto-mestare (quasi da mesto per misto, come meschio per mischio, e meschiare, mescolare ec.) rimestare mesticare (noi marchegiani diciamo più alla latina misticare, misticanza ec.); coi derivati.

Per il Manuale di filosofia pratica. Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata da me in quell’assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826. in Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente colla impazienza, e colla inquietezza. Consiste in una non resistenza, una rassegnazione d’animo, una certa quiete dell’animo nel patimento. E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e chiamata vile: ella è pur necessaria all’uomo, nato e destinato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi intervalli. Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente, coll’abitudine del sopportare un travaglio o una noia. La pazienza e la quiete, è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende così tollerabile, p. e. a un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l’uomo fa a quella noia, e l’impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale passata, e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri. E in ciò consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che altrimenti. (30. Dic. 1826. Recanati.). V. p. 4267.

Circa la stima che gli antichi facevano della felicità, e il contarla come una delle principali doti dei loro eroi, e come soggetto principalissimo di lode, è curioso vedere come Giorgio Gemisto Pletone, nella sua breve ed elegantissima orazione in morte della imperatrice Elena, poi fatta monaca e detta Ipomone, pubblicata da Mustoxidi e Scinà nella loro συλλογὴ ἑλληνικῶν ἀνεκδότων, τετράδιον, cioè quaderno, γ', imitando nelle altre cose, e molto felicemente, gli antichi, gl’imiti anche in questo, di lodar principalmente quella donna per li favori della fortuna; sentimento alieno da’ suoi tempi. (Recanati. ultimo del 1826.).

Chi scrivendo oggi, cerca o consegue la perfezion dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni dell’arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettissimi degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico. Tanto è oggi (e sarà forse in futuro) cercare con quanto si sia successo, la perfezion dello stile nelle lingue vive, quanto cercarla ed anco trovarla nelle morte, come facevano molti illustri italiani del cinquecento nella latina. (2. 1827.).

Brancicare. Zoppicare.

Spruzzolare. Avvolticchiare. Svolticchiare. Magalotti Lett. familiari, lett. 8. circa fin. par. 1.

Non so s’io m’inganno, ma certo mi par di scorgere nella maniera sì di pensare e sì di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo esser nobile. Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura, e non forzata, la stessa non disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una fiducia ed estimazion lodevole di se stesso, una generosità d’animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perchè avuta fin dal principio della vita, e nata dalla considerazione altrui riscossa fin da’ primi anni ed abituata. Io credo che questa tale magnanimità e di pensare e di scrivere, dico questa tale, e che non sia nè feroce, nè satirica, o mista dell’uno e dell’altro, non si troverà facilmente in iscrittori o uomini non nati nobili o di buon grado; se egli si guarderà bene. Vi si troverà sempre una differenza. Simili considerazioni si potrebbero fare intorno alla ricchezza, che suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse scialacquo. Simili intorno alla potenza, dignità, fortuna. Simili intorno ai contrarii. Vedi Alfieri Vita sua, capo 1. principio. Messala nitidus et candidus, et quodammodo prae se ferens in dicendo nobilitatem suam. Quintiliano 10.1. (6. 1827. Epifania.). Forse Galileo non riusciva, come fece, il primo riformatore della filosofia e dello spirito umano, o almeno non così libero, se la fortuna non lo facea nascere di famiglia nobile. V. p. 4419.

Dispetto e despetto, cioè disprezzato, per dispregevole.

Egli è pur certo che l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi son più, e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno. Io ho udito dire a mio padre che in sua gioventù a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione ognuno si rivestiva da state. Adesso chi non ha bisogno d’impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima cosa di quelle ch’ei portava nel cuor dell’inverno. Magalotti, Lettere familiari, parte I. lett. 28. Belmonte 9. Febbraio 1683. (cento e quarantaquattr’anni fa!!). (7. 1827. Recanati.). Se i sostenitori del raffreddamento progressivo ed ancor durante del globo, se il bravo Dott. Paoli (nelle sue belle e dottissime Ricerche sul moto molecolare dei solidi) non avessero avuto o avessero da assegnare altre prove di questa loro opinione, che la testimonianza dei nostri vecchi, i quali affermano la stessissima cosa che quello del Magalotti, allegando la stessa pretesa usanza, e fissandola allo stesso tempo dell’anno; si può veder da questo passo, che non farebbero grand’effetto con questo argomento. Il vecchio, laudator temporis acti se puero, non contento delle cose umane, vuol che anche le naturali fossero migliori nella sua fanciullezza e gioventù, che dipoi. La ragione è chiara, cioè che tali gli parevano allora; che il freddo lo noiava e gli si faceva sentire infinitamente meno, ec. ec. Del resto non ha molt’anni che le nostre gazzette, sulla fede dei nostri vecchi, proposero come nuova nuova ai fisici la questione del perchè le stagioni a’ nostri tempi sieno mutate d’ordine ec. e cresciuto il freddo; e ciò da alcuni fu attribuito al taglio de’ boschi del Sempione ec. ec. Quello che tutti noi sappiamo, e che io mi ricordo bene è, che nella mia fanciullezza il mezzogiorno d’Italia non aveva anno senza grosse nevi, e che ora non ha quasi anno con nevi che durino più di poche ore. Così dei ghiacci, e insomma del rigore dell’invernata. E non però che io non senta il freddo adesso assai più che da piccolo.

L’amor della vita e il timor della morte non sono innati per se: altrimenti niuno s’ammazzerebbe. Innato è l’amor di se, e quindi del proprio bene, e l’odio del proprio male: e però niun può non amarsi, nè amare il suo creduto male ec. È però naturale che ogni vivente giudichi la vita il suo maggior bene e la morte il maggior male. E infatti così egli giudica infallibilmente, se non è molto allontanato dallo stato di natura. Ecco dunque che la natura ha veramente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo error di giudizio; benchè non abbia ingenerato un amor della vita. Esso è un ragionamento, non un sentimento: però non può essere innato. Sentimento è l’amor proprio, di cui l’amor della vita è una naturale, benchè falsa conclusione. Ma di esso altresì è conclusione (bensì non naturale) quella di chi risolve uccidersi da se stesso. (8. 1827.).

Senza più oltre o più avanti o innanzi pensare, e simili, vagliono spesse volte semplicemente senza punto pensare. Così senza pensar più là. Così senza più, o solo, o accompagnato con verbi (senza più pensare) o con nomi, equivale spesso a senza nulla o niuno, appunto come in ispagn. mas per niuno, del che altrove. Senza pensar più oltre. V. Firenzuola Ragionam. ed. Classici ital. p. 229. cioè penult. Bembo Asolani p. 10. col. 1. fin., nelle sue opp.

Della diffusione della lingua italiana presso gli stranieri nel 500. v. anche Speroni Oraz. in lode del Bembo. Tasso opp. ed. del Mauro, t. 9. p. 148. lett. 238. Lettere di Principi o a Principi Ven. 1573. carta 226. versa.

Disprezzo e ignoranza dei greci per la letteratura latina. V. Speroni Diall. ed. Ven. 1596. p. 420. — Si potrebbero in ciò i greci assomigliare ai francesi.

Trovasi anco in inglese lo scambio della s coll’aspirazione. Salle franc. — hall ingl.

Altro per niuno o niente. Firenzuola Ragionamenti, ed. dei Classici ital. p. 89. lin.2. p. 230. cioè ult.

Tu profferisti chiunque con due sillabe; la qual parola non mi voglio ricordare che si truovi se non con tre. Firenzuola loc. cit. qui sopra, p. 84. Vuol dire non mi vuol venire alla mente, non mi posso ricordare. Grecismo. Simile alla p. 162. Lucrezia, chè così mi voglio ricordar che fusse il nome della vedova. Cioè così mi vuol dire, così mi dice, la memoria; così mi pare, mi vien fatto, di ricordarmi. (Domenica 14. 1827.).

Mia, tua, sua plurali fiorentini, e antichi.

Alla p. 4156. A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo, le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall’assuefazione. Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità. Quella resistenza che l’animo fa naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le disavventure, è il maggior dolore che prova l’uomo. Quando l’animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile. Questo domar l’animo, questo ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore. Ma lo fa con lunghezza; e quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è dell’animo all’animo. Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono più vive, così ella langue e manca più presto. Ella abbatte il corpo, e però travaglia assai meno l’animo; bensì perchè col corpo anco l’animo è abbattuto, perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l’animo e ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo; onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l’animo accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza esser però coraggiosi. Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte. Sicchè quegli sfoghi sono veramente una medicina quasi un narcotico preparata dalla natura medesima, perchè l’uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente. E noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo esercitare. Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro. V. p. 4283. (Recanati 15. 1827. S. Paolo, primo eremita.).

Alla p. 4184. Molte cose si trovano presso gli antichi, come sarebbe questa opinione sopraddetta, che appartengono e fanno fede ad una squisita umanità, molto superiore ad ogn’idea moderna. Di tal genere era l’uso di quegli ἔρανοι tanto famosi presso i greci, e tanto usitati, fino a nascerne, come di ogni buona e umana istituzione o usanza, abusi che oggi paiono stranissimi. Veggansi nel Casaubono, ad Atenae. libro 7. capo 5. fin. (v. p. 4469.) E veggansi pure nel medesimo, libro 6. capo 19. princip. l’umanità con cui erano trattati i servi, cioè schiavi, dagli Ateniesi, e gli strani diritti che erano loro dati per le leggi di quella repubblica. V. la p. 4280, capoverso 3. (15. 1827.). V. p. 4286.

Melato, mellitus, per melleus o dulcis. Spedito, espedito, expeditus ec. Spigliato. Sforzato, sforzatamente (esforzado). Crusca.

Strascicare.

Attero, attritum-attritare, contritare. Crusca. V. Forcell. Gloss. ec.

Taranta. Speroni Dial. ed. Ven. 1596. p. 135. — Tarantola. Tarantella. Salvini. V. Diz. dell’Alberti. Tarande-tarantule. Tarantolato. V. gli spagn. ec.

Βάτος-βατὶς. v. i Lessici e Casaub. ad Athenae . Nome di pesce. σκίαινα-σκιαινὶς. v. Casaub. ib. lib. 7. c. 10. init. c. 20. fin. ἔγχελυς-ἐγχέλιον ib. c. 12. med.

In proposito del Sassetti, primo notificatore della lingua sascrita, come ho detto altrove, osservo che anche qui si verifica quella osservazione, che agl’italiani par destinato il trovare, e il lasciar poi agli altri l’usare e il perfezionare, e il raccoglier la gloria e l’opinione ancora della scoperta. (19. 1827.).

ὗς- gli antichi σῦς, σύαγρος ec. V. Ateneo, e i Lessici, coi composti e derivati ec.

Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16. secolo del che altrove ec. V. nelle opp. del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spirto, leggiadre rime ec. e la Risposta del Tasso. (ed. del Mauro, t. 6.). V. ancora il Guidiccioni nelle Lett. di div. eccellentiss. uom. Ven. Giolito. 1554. p. 43-48.

Sevum, sevo-sego. Rovo-rogo.

Trasognato per trasognante. Straboccato, traboccato per traboccante, o che suol traboccare.

Τοιαύτην γὰρ ἡ φιλία βούλεται (cioè πέφυκε, debet) ποιεῖν ἑνότητα καὶ σύμπηξιν. (vuole, tende per sua natura a fare) Plutar. περὶ πολυφιλίας de amicorum multitudine, p. 95. A. V. Casaubon. ad Athenae. l. 7. C. 16. Volere assolutamente per dovere, vedilo nelle Giunte Veronesi. (Recanati. 25. 1827.).

Preciado spagn. per prezioso, come noi pregiato. Continuato o continovato per continuo, e così continué ec.

Vittuaglia, vittuaria-vittovaglia, vettovaglia, vettuvaglia. Vettuaglia, Ricordano cap. 125. 133. M. Vill. ap. Crus. in Casale. Capua, Padua, Mantua, coi derivati Capova, Padova, Mantova ec. ec. Balduino e Baldovino. Menovare, cioè menuare. v. Crus.

Auto, riceuto ec. negli antichi, come Ricordano ec. omesso il v, per avuto ec.

Monte Guarchi, in Ricordano spesso, per Montevarchi.

Da mutolo per muto, ammutolare, ammutolire per ammutare, ammutire disusati.

Nutrire per avere (io nutro speranza ec.). V. Crus. franc. spagn. ec. — τρέφω appunto per ἔχω. Casaub. ad Athenae. l. 7. c. 18. fin.

Disguizzolare. Parlottare. Borbottare.

Digiuna plur. per quattro tempora. Dino Comp. lib. 3. princip. La Crus. ha Digiune.

Ragionato per ragionevole, ragionatamente ec. V. Crusca. Minutus, minuto ec. da minuo, per piccolo. Svagato, divagato, distratto, distrait ec. per che suole essere svagato ec. Dissipito cioè non saputo per dissipiente, che non sa, non ha sapore. Dissapito. Dissaporito.

Sfondare-sfondolare, sfondolato. Aratro arato voce antica — aratolo.

Alla p. 4144. Io credo certo ch’Epitteto (il quale viveva in Roma) alluda in questo luogo al costume romano di chiamar le donne dominae, costume che certo ci dovette essere, e passare in consuetudine grandissima poichè nel nostro volgare domina (donna) è restato sinonimo, anzi vicario, di mulier. V. il Ducange in Domina, par. 6. e il Forcell. che dice così chiamate le madri di famiglia e le mogli, e queste, cioè le maritate, sono propriamente in ital. le donne. Questa è però, secondo me, la vera interpretazione del luogo di Epitteto, cioè che le femmine, appena maritate, divengono di nome donne, che val padrone. Del resto noi diciamo similmente le non maritate, donzelle, cioè padroncine. V. Ducange in Domicellus, ed anche vedilo in Domnus. I mariti ancora si chiamavano particolarmente domini. Forcell. (Recanati. 2. Feb. Festa della Purificazione di Maria Vergine Santissima. 1827.).

Magistrato [a]

Ministro, funzionario qualunq.

[Chiudi] da bene. Magistrato malvagio. Qual è il segno da riconoscerlo? Di tutte le altre cose non ne troverete una, dove stabilito ancora e confessato il fatto, non sieno vari e opposti giudizi, o interpretazioni qual buona qual sinistra. Rigoroso, severo: se tu lo lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele, ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati sotto specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione. Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vizi e dei malvagi, complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere. Se vi sono partiti, ed egli ne favorisce uno, l’altro o gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile, almeno un furbo. Così dell’ambizione; ec. ec. Ma quanto all’astinenza o all’appetenza dell’altrui o del pubblico, voi non troverete due persone che concordato il fatto, discordino nel lodarlo o nel biasimarlo, o anche nell’interpretarlo. E questo è quasi il solo capo dal quale in verità suol dipendere il nome che uno acquista nei magistrati di uomo da bene, o di tristo. Da bene è sinonimo di disinteressato, malvagio di cupido; integrità di disinteresse ec. Da ciò parrebbe che gli uomini non fossero d’accordo se non nel concetto della roba, e che l’ufficiale pubblico potesse a suo modo dispor della vita, dell’onore, della libertà, di tutti gli altri beni dei cittadini, purchè rispettasse i danari e le possessioni. (4. Feb. Domenica. 1827.).

Cano is, con-cino is ec. — Vati-cinor aris, ec. buccinare ec. V. Forc.

ἐθέλειν per δύνασθαι. V. Casaub. ad Athenae. l. 8. c. 10. sulla fine. Plat. ed Astii t. 4. p. 104. lin. 23. p. 200. lin. 9.

μοχθηρος ha diverso accento quando si scrive per infelice e quando per malvagio; μόχθηρος o μοχθηρὸς; come ho notato altrove di πονηρος. Puoi vedere Casaub. ad Athenae. l. 8. c. 10. titul. et init.

Del digamma eolico v. Casaub. ad Athenae. l. 8. c. 11. due volte.

Al detto altrove di curtus, cortar, scortare, scorciare, accorciare ec. aggiungi accortare.

Metior iris-metor aris. Ed anche metio (Lattanz. ha metiebantur passiv.) e meto.

Capperi. Origine greca di questa esclamazione. V. Menag. ad Laert. l. 7. segm. 32.

῾Ρακεία -racaille. V. Casaub. ad Athenae. l. 9. c. 5.

Sottosopra, sossopra, sozzopra ec. — ἄνω κάτω

Assegnato per parco ec. V. Crusca, e Caro. Lett. 175. vol. 1.

Certo molte cose nella natura vanno bene, cioè vanno in modo che esse cose si possono conservare e durare, che altrimenti non potrebbero. Ma infinite (e forse in più numero che quelle) vanno male, e sono combinate male, sì morali sì fisiche, con estremo incomodo delle creature; le quali cose di leggieri si sarebbono potute combinar bene. Pure perch’elle non distruggono l’ordine presente delle cose, vanno naturalmente e regolarmente male, e sono mali naturali e regolari. Ma noi da queste non argomentiamo già che la fabbrica dell’universo sia opera di causa non intelligente; benchè da quelle cose che vanno bene crediamo poter con certezza argomentare che l’universo sia fattura di una intelligenza. Noi diciamo che questi mali sono misteri; che paiono mali a noi, ma non sono;, benchè non ci cade in mente di dubitare che anche quei beni sieno misteri, e che ci paiano beni e non siano. Queste considerazioni confermano il sistema di Stratone da Lampsaco, spiegato da me in un’operetta a posta. (18. Febbraio. Domenica di Sessagesima. 1827.).

Ἄλλος ridondante. V. Casaub. ad Athenae. l. 9. c. 10. dopo il mezzo, dove il Casaub. non pare avere atteso a questa proprietà del grecismo, nè compresala bene.

Alla p. 4184. Del resto io posso per la mia inclinazione alla monofagia, esser paragonato all’uccello che i greci chiamavano porfirione, se è vero quel che ne raccontano Ateneo ed Eliano, che quando esso mangia, abbia a male i testimoni. V. Casaub. ad Athenae. 9. c. 10. sotto il principio. V. p. 4422.

Giuoco di mano, giuoco di villano, is a very true saying, among the few true sayings of the Italians. Chesterfield Letters to his son, lett. 259. Il conte di Chesterfield era veramente molto pratico e della lingua, ed anche dei particolari e minuti detti usuali nel nostro parlar familiare. Nè io disapproverei molti de’ suoi giudizi circa la letteratura e le cose nostre, come p. e. quello circa il Petrarca (lett. 217.), simile al parer del Sismondi: Petrarca is, in my mind, a sing-song love-sick Poet; much admired, however, by the Italians: but an Italian, who should think no better of him than I do, would certainly say, that he deserved his Laura better than his Lauro (alludendo alla coronazione del Poeta in Roma); and that wretched quibble would be reckoned an excellent piece of Italian wit. Io, con licenza di Milord, non credo che sia vera quest’ultima cosa, nè che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua opinione in quanto al Petrarca. V. p. 4263. Il qual giudizio troverà pochi approvatori in Italia fuori di me. Ma quello dei nostri detti e proverbi, è certamente falso ec. (Può servire per un articolo sopra i proverbi). (Recanati 27. Feb. ult. di Carnovale. 1827.).

Ultimatamente per ultimamente, Crusca. L’usa anco il Bembo nelle Lettere.

Il Bembo fu un Cesari del 500, il Cesari è un Bembo dell’800. Simili negli effetti che hanno operati, e nelle circostanze dei tempi quanto alla lingua, e nei mezzi usati e nelle opinioni, cioè nella divozione al 300. ec. Ma similissimi anco nell’esser loro naturale (lasciando l’esser vicini di patria, e d’una provincia stessa). Molta lettura e studio: nessuno ingegno da natura; nessuna sembianza di esso, acquistata per l’arte. Mai niun barlume, niuna scintilla di genio, di felice vena, ne’ loro scritti. Aridità, sterilità, nudità e deserto universalmente. Pochi o niuno de’ nostri autori e libri che hanno avuto fama e che si stampano ancora, furono mai così poveri per questa parte, come il Bembo e gli scritti suoi. (27. Feb. 1827.).

Pel Manuale di filosofia pratica. Desiderio naturale, necessario, e perpetuo nell’uomo, di un futuro miglior del presente, per buono che il presente possa essere. Importanza quindi dell’avere una prospettiva e una speranza, per esser felice. Importanza del sapersi fare, comporre e propor da se stesso tal prospettiva. Non sempre le circostanze, l’età ec. permettono una prospettiva di miglioramento e di avanzamento nello stato ec. Oltracciò gli avanzamenti e miglioramenti grandi sono di difficile conseguimento, e non conseguendosi, e ingannata la speranza, restiamo turbati. Utilità somma del sapersi proporre di giorno in giorno un futuro facile, o anche certo, ad ottenere; dei beni che avvengono d’ora in ora; godimenti giornalieri, di cui non v’ha condizione che non sia fornita o capace: il tutto sta sapersene pascere, e formarne la propria espettativa, prospettiva e speranza, ora per ora: questo è ufficio di filosofo, ed è pratica incomparabilmente utile al viver felice. (Recanati. 1.o dì di Quaresima. 28. Feb. 1827.).

Ho detto altrove che nella primavera l’uomo suole sentirsi più scontento del suo stato, che negli altri tempi. Così ancora nella state più che nel verno. La cagione è che allora l’uomo patisce meno. Però desidera più il godimento e il piacere diretto. Nella primavera poi tanto più sensibile è questo desiderio, quanto è più sensibile la privazione del patimento e dell’incomodità che reca il freddo, la qual cessa allora appunto. La infermità, il timore, il patimento di qualunque sorta volgono l’amor del piacere nell’amor del non patire, o del fuggire il pericolo. l’animo in quello stato, è meno esigente. Il non patire è più possibile ad ottenersi che il godere. Però nell’inverno si sente meno la scontentezza del proprio essere, che nella buona stagione. Nella quale l’animo ripiglia la sua avidità del piacere; e, come è naturale, nol ritrova mai. (Recanati 2. Marzo. 1827. I. Venerdì di Marzo.).

A vóto per frustra. — εἰς κενὸν V. Casaubon. ad Athenae. l. 11. c. 6. sul mezzo.

Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose Isocrate circa la collocazione delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l’avesse egli posta, fuorchè a proccurare la più perfetta, la più squisita, la maggior possibile, la più singolare chiarezza. Questa dote non si osserva negli altri autori che l’hanno, se non in quanto nel leggerli non si patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà. In Isocrate ella si osserva, perchè non solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere. Negli altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un sapore proprio. Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità. Par di sentirvi quel gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e volontà di far moto, si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata. Io non credo che si trovi autor così chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è Isocrate (e certo senza compagni) nella greca. Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è pur la più difficile (se non prevale in ciò la tedesca) di tutte le lingue del mondo. Tanto più mirabile in questo, quanto che si sa bene con quanto studio Isocrate cercasse gli altri pregi della dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; (il che egli ha fatto effettivamente e conseguito quasi da per tutto ed interamente) difficoltà certo grandissima, ed inceppamento; come ognun vedrebbe provandovisi; il quale però non ha punto impedito quella maravigliosa facilità. (7. Marzo. Mercordì di quattro tempora. 1827.).

Grispignolo. Lappa-lappula. lat. , lappola. ital.

Parrebbe che secondo ogni ragione, secondo l’andamento naturale dell’intelletto e del discorso, noi avessimo dovuto dire e tenere per indubitato, la materia può pensare, la materia pensa e sente. Se io non conoscessi alcun corpo elastico, forse io direi: la materia non può, in dispetto della sua gravità, muoversi in tale o tal direzione ec. Così se io non conoscessi la elettricità, la proprietà dell’aria di essere instrumento del suono; io direi la materia non è capace di tali e tali azioni e fenomeni, l’aria non può fare i tali effetti. Ma perchè io conosco dei corpi elastici, elettrici ec. io dico, e nessuno me lo contrasta; la materia può far questo e questo, è capace di tali e tali fenomeni. Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi; cioè uomini ed animali; che io non veggo, non sento, non so nè posso sapere che sieno altro che corpi. Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente. — Signor no; anzi voi direte: la materia non può, in nessun modo mai, nè pensare nè sentire. — Oh perchè? — Perchè noi non intendiamo come lo faccia. — Bellissima: intendiamo noi come attiri i corpi, come faccia quei mirabili effetti dell’elettricità, come l’aria faccia il suono? anzi intendiamo forse punto che cosa sia la forza di attrazione, di gravità, di elasticità; che cosa sia elettricità; che cosa sia forza della materia? E se non l’intendiamo, nè potremo intenderlo mai, neghiamo noi per questo che la materia non sia capace di queste cose, quando noi vediamo che lo è? — Provatemi che la materia possa pensare e sentire. — Che ho io da provarlo? Il fatto lo prova. Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono; e voi, che siete un corpo, pensate e sentite. Non ho bisogno di altre prove. — Quei corpi non sono essi che pensano. — E che cos’è? — È un’altra sostanza ch’è in loro. — Chi ve lo dice? — Nessuno: ma è necessario supporla, perchè la materia non può pensare. — Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare. — Oh la cosa è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra di se: la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza più.

In fatti noi non possiamo giustificare altrimenti le nostre tante chimeriche opinioni, sistemi, ragionamenti, fabbriche in aria, sopra lo spirito e l’anima, se non riducendoci a questo: che la impossibilità di pensare e sentire nella materia, sia un assioma, un principio innato di ragione, che non ha bisogno di prove. Noi siamo effettivamente partiti dalla supposizione assoluta e gratuita di questa impossibilità per provare l’esistenza dello spirito. Sarebbe infinito il rilevare tutte le assurdità e i ragionamenti le contraddizioni al nostro medesimo usato metodo e andamento di discorrere che si sono dovuti fare per ragionare sopra questa supposta sostanza, e per arrivare alla conclusione della sua esistenza. Qui davvero che il povero intelletto umano si è portato da fanciullo quanto mai in alcuna cosa. E pur la verità gli era innanzi agli occhi. Il fatto gli diceva: la materia pensa e sente; perchè tu vedi al mondo cose che pensano e sentono, e tu non conosci cose che non sieno materia; non conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire, altro che materia. Ma non conoscendo il come la materia pensasse e sentisse, ha negato alla materia questo potere, e ha spiegato poi chiarissimamente e compreso benissimo il fenomeno, attribuendolo allo spirito: il che è una parola, senza idea possibile; o vogliam dire un’idea meramente negativa e privativa, e però non idea; come non è idea il niente, o un corpo che non sia largo nè profondo nè lungo [a], e simili immaginazioni della lingua piuttosto che del pensiero.

Che se noi abbiamo conchiuso non poter la materia pensare e sentire, perchè le altre cose materiali, fuori dell’uomo e delle bestie, non pensano nè sentono (o almeno così crediamo noi); per simil ragione avremmo dovuto dire che gli effetti della elasticità non possono esser della materia, perchè solo i corpi elastici sono atti a farli, e gli altri no; e così discorretela. (9. Marzo. 1827. 2.o Venerdì di Marzo.).

Il bambino, quasi appena nato, farà dei moti, per li quali si potrebbe intender benissimo che egli conosce l’esistenza della forza di gravità dei corpi, in conseguenza della qual cognizione egli agisce. Così di moltissime altre cognizioni fisiche che tutti gli uomini hanno, e che il bambino manifesta quasi subito. Forse che queste cognizioni e idee sono in lui innate? Non già: ma egli sente in se ben tosto, e nelle cose che lo circondano, che i corpi son gravi. Questa esperienza, in un batter d’occhio, gli dà l’idea della gravità, e gliene forma in testa un principio: del quale di là a pochi momenti gli parrebbe assurdo il dubitare, e il quale ei non si ricorda poi punto come gli sia nato nella testa. Il simile accade appunto nei principii e morali e intellettuali. Ma le idee fisiche ognun concede e afferma non essere innate: le morali, signor sì, sono. Buona pasqua alle signorie vostre. (9. Marzo. 1827. Recanati.).

Pregiudicato, spregiudicato. Volgare ital.

Gratito, as, avi, atum. Mutito. Mutuito. V. Forcell.

Ho notato che i continuativi dai verbi della prima coniugazione si fanno in ito, e possono perciò essere insieme o parimente frequentativi, come mussito ec. Similmente i continuativi formati da’ verbi che hanno i supini in itum (usitati o antichi), come domito, agito ec. Ma non so s’io abbia notato che dai verbi della quarta, supini in itum, si fanno i continuativi in ito (non ito), i quali perciò non si possono confondere coi frequentativi, malgrado la desinenza in ito. Come p. e. dormito as.

I know, by my own experience, that the more one works, the more willing one is to work. We are all, more or less, des animaux d’habitude. I remember very well, that when I was in business, I wrote four or five hours together every day, more willingly than I should now half an hour. Chesterfield, Letters to his son, lett. 318. I have so little to do, that I am surprised how I can find time to write to you so often. Do not stare at the seeming paradox; for it is an undoubted truth, that the less one has to do, the less time one finds to do it in. One yawns, one procrastinates; one can do it when one will, and therefore one seldom does it at all; whereas those who have a great deal of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it; and then they always find time enough to do it in. Lett. 320. It is not without some difficulty that I snatch this moment of leisure from my extreme idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state of affairs here. Lett. 321. (12. Marzo. 1827.). V. p. 4281.

Uomo ordinato e assegnato in ogni cosa. Guicciard. ed. Friburgo, t. 4. p. 67.

Brevetti d’invenzione non ignoti alle antiche repubbliche. V. Casaub. ad Athenae. l. 12. cap. 4.

Ἀριθμὸς, ἀριθμεῖν - ἄμιθρος, ἀμιθρεῖν. Casaub. ad Athenae. l. 12. c. 7.

Androcoto e Sandrocoto (nome proprio) appresso i greci. V. Casaub. ibid.

ἐπείγειν, κατεπείγειν, τὰ κατεπείγοντα ec. per δεῖ, τὰ ἀναγκαῖα ec. — urgentissimo per necessarissimo, Guicciard. ed. Friburgo, p. 238. t. 2. V. Crus. in urgenza, urgente ec. che noi usiamo realmente per necessità necessario ec. V. anche Forcell. in urgeo ec. se ha nulla, e i franc. e spagn. V. Toupio ad Longin. sect. 43. fin.

Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi, Dante e il Tasso. Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue. Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente. E nondimeno non mancava in me, nè manca negli altri, un’altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l’altro. Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie: tanta è la scarsezza e l’oscurità delle notizie che abbiamo in questo particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di scriverne del medesimo Tasso. Ma noi veggiamo in Dante un uomo d’animo forte, d’animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato. Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile. Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all’avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo. Sieno ancora immaginarie e vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale. Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice. (Recanati. 14. Marzo. 1827.). (Si può applicare all’epopea, drammatica ec.).

È molto notabile nella considerazione comparativa delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono tutte quante di situazione meridionali. Dell’Italia non era ben civile che la parte meridionale. Del resto dell’Europa, la Grecia sola. Dell’Asia, solo il mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì l’India, la Persia ec. Dell’Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta. Or questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima differenza, sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle instituzioni pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà moderna. Perchè, secondo quella verissima osservazione già fatta da altri, che la civiltà è andata sempre, e va tuttavia progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello; i popoli civili moderni sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli antichi; o certo risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel settentrione (ciò si vede anche in America), il resto dei popoli più o manco civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor civiltà. E in somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra è una civiltà settentrionale. Proposizione che siccome a prima vista si riconosce per verissima moralmente, così nè più nè meno è vera letteralmente presa, e geograficamente. Differenza del resto grandissima e sostanzialissima, se non principale, e includente in se tutte le altre. L’antichità medesima e la maggior naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo. (14. Marzo. 1827. Recanati.).

Alla p. 4253. Appunto, se noi diciamo un corpo che non sia nè largo nè lungo nè profondo, noi non ci pensiamo punto di avere perciò una menoma idea, nè chiara nè oscura, di tal cosa. Cambiamo la parola; diciamo uno spirito; a noi par di avere un’idea. E pur che altro abbiamo che una parola?

Formica-formicola. Crusca. Segneri, Incred. senza scusa, par. 1. c. 5. par. 5. V. Forcell.

Caprea-capreolus ec. Caprio cavrio (Segneri, ib. c. 13. par. 1.) — cavriuolo, capriuolo, capriatto ec.

Inviolato per inviolabile. V. Forcell. Efferatus, efferato, per fiero.

Undatus — undulatus. Ondato — ondeggiato, ondare — ondeggiare, coi derivati ec. ondazione (Segneri ib. c. 16. par. 2.) ondulazione, undulazione (Alberti). Ondoyer, ondoyé. Ondulation.

Osservate in qualunque letteratura, antica o moderna, quali sieno le opere più insigni e più grandi, e troverete sempre che sono quelle che furono fatte in tempo che la nazione non aveva ancora una letteratura; quelle che furono dagli autori immaginate e composte con tutt’altra mira, con tutt’altro spirito (almen principale) che il desiderio di fama letteraria (non ancora in uso, nè desiderata), o pur di altre ricompense letterarie; il desiderio di fare una bella opera di letteratura, di arte di scrivere. (Recanati. 17. Marzo. 1827.).

Sugo is — sugare. Crus. V. Forcell.

Uomo o cosa aggiustata, aggiustatamente, aggiustatezza ec.

Falco-faucon, falcone ec. V. spagn. Forcell. ec. Mugir meugler, meuglement; o beugler, beuglement. Flocon. Violette.

Uscia, plurale.

Noi diciamo rondinella (o rondinetta) per vezzo, e in verso e in prosa: così i nostri antichi scrittori: e val quanto rondine nè più nè meno. Non è ancor positivato, cioè non ha perduto il suo sentimento vezzeggiativo: ma può esser esempio di come l’hanno perduto gli altri diminutivi di animali e di piante, a forza di usarsi così semplicemente in cambio del positivo, andato a poco a poco, bene spesso, in disuso. (19. Marzo. Festa di S. Giuseppe. 1827.). Così pecorella ec. ec. i francesi dicono già hirondelle positivo, anticamente aronde.

Lodasi senza fine il gran magisterio della natura, l’ordine incomparabile dell’universo. Non si hanno parole sufficienti a commendarlo. Or che ha egli, perch’ei possa dirsi lodevole? Almen tanti mali, quanti beni; almen tanto di cattivo, quanto di buono; tante cose che vanno male, quante che camminan bene. Dico così per non offender le orecchie, e non urtar troppo le opinioni: per altro, io son persuaso, e si potrebbe mostrare, che il male v’è di gran lunga più che il bene. Ora un tal magisterio, sarà poi tanto grande? un tal ordine tanto commendevole? Ma il male par male a noi, non è veramente. E il bene, chi ci ha detto che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare dei fini, nè aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell’universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perchè vorremo noi dire che l’universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo, ch’è almeno altrettanto? Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e ciascuno di noi per questo conto l’avria saputo far meglio, avendo la materia, l’onnipotenza in mano. Cattivo è ancora per tutte le altre creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perchè tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch’è peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo. Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi (o se dal mal essere di tutte le parti, risulti il ben essere del tutto; il qual tutto non esiste altrimenti nè altrove che nelle parti; poichè la sua esistenza, altrimenti presa, è una pura idea o parola); se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest’ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende nè pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle. Ammiriamo dunque quest’ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili. — Quel che ho detto di bontà e di cattività, dicasi eziandio di bellezza e bruttezza di questo ordine ec. (21. Marzo. 1827.). A veder se sia più il bene o il male nell’universo, guardi ciascuno la propria vita; se più il bello o il brutto, guardi il genere umano, guardi una moltitudine di gente adunata. Ognun sa e dice che i belli son rari, e che raro è il bello.

Graziato, aggraziato, disgraziato ec. per grazioso, mal grazioso ec. Purgato, épuré ec. per puro.

Scappare-scapolare. Saltabellare. Scartabellare.

περιστερά - περιστέριον, περιστερίδιον. V. Casaubon. ad Athenae. l. 14. c. 20. init.

Entro a pochi dì, per fra pochi dì. Bartoli, Missione al gran Mogol, ed. Roma 1714. p. 72. Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili.

Pel manuale di filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire una sillaba) tanto meno io era quieto nell’animo. Ogni menomo accidente che turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n’accadevano ogni giorno, perchè tali minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran differenza dalla tranquillità all’ozio. Le persone massimamente di una certa immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito Lord Nelvil); e le quali perciò appunto tendono all’amor del metodo, e alla fuga dell’azione e della società, e alla solitudine; s’ingannano in ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all’amor del metodo, della solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a temperarle co’ lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani. Ma certo un uom d’affari (senz’ombra di filosofia) ha l’animo più tranquillo nella continua folla e nell’affanno delle cure e delle faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di quello che l’abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e nell’ozio estrinseco. (Recanati. 24. Marzo. 1827.).

Quanto più, in questo tal modo, si fuggono le sollecitudini e i dispiaceri, tanto più vi s’incorre: perchè mancandone le cause reali (o vogliamo dir di momento) e che sopravvengono di fuori, noi ce ne fingiamo e facciamo da noi medesimi e, per così dire, del nostro capitale proprio, assai più, ed infinite. E queste sollecitudini e questi dispiaceri così prodotti, non solo sono per noi di ugual momento che sarebbero i reali; ma si sentono, e travagliano molto più, per la mancanza di distrazioni e la monotonia della vita, di quel che fanno i grandissimi e sommi, nella vita agitata e attiva. Che è quanto dir che sono maggiori assai. E si sentono tutti, dove che nella vita attiva, moltissimi non si sentono, e però non sono nè pur dispiaceri. (Recanati 25. Marzo. Domenica. Festa dell’Annunziazione di Maria. 1827.).

Quanto, in quanto, per poichè, perocchè ec. — παρ' ὅσον, ovvero ὅσον ec. V. un esempio di παρ' ὅσον in questo senso, usato da Ateneo, ap. Casaubon. ad Athenae. l. 15. c. 2. verso il fine, e dallo scoliaste di Pindaro, ap. eumd. ib. c. 19. fin.

Dimonia. Demonia. Mulina. plurali.

Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl’inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra quel degli altri fuor di modo e ragione. Questo è natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un’altra sorgente d’orgoglio e di disistima altrui, sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l’assuefazione incominciata sin dall’infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl’Inglesi la stima della propria nazione. Tant’è: il più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo, più o meno, non dimostri esteriormente questa sua opinione di superiorità. Questa è una molla, una fonte ben distinta di orgoglio, e di stima di se, in pregiudizio o abbassamento d’altrui della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl’inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno, l’hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl’italiani forse l’ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15.o e 16.o e parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d’Europa. Degl’italiani d’oggi non parlo; non so ben se ve n’abbia.

Questo sentimento della inferiorità dei forestieri, questo riguardarli e trattarli come d’alto in basso, è ai francesi e agl’inglesi, per l’abitudine, così naturalizzato e immedesimato, come è ad un uomo nato nobile e ricco, il parlare e trattare co’ poveri e co’ plebei, come con gente naturalmente inferiore: che anche l’uomo del più buon cuore del mondo, e il più filosofo, essendo nella detta condizione, li tratterà così, se non attenderà e non si sforzerà di proposito per fare altrimenti: perchè quell’opinione di sua superiorità sopra questi tali, è in lui non dipendente dal raziocinio, nè dalla volontà.

Molto utile può essere ed è senza fallo questa opinione che hanno i francesi e gl’inglesi di se. Sarebbe utile anche a chi l’avesse senza ragione. La stima grande di se stesso è il primo fondamento sì della moralità, sì delle mire ed azioni nobili e onorate. Pure, perchè il conoscere in altri un’opinione della inferiorità propria, e un certo disprezzo di se in qualunque cosa, è sempre dispiacevole; non è dubbio che il veder questo tale orgoglio nazionale nei francesi e inglesi, non riesca assai dispiacevole e odioso ai forestieri. E perchè la civiltà e la creanza comandano, e sopra tutto, che si nasconda il sentimento della superiorità propria, e il disprezzo di quelli con cui trattiamo, per ragionevole e fondato che ei sia; pare che i francesi e gl’inglesi dovrebbero nascondere quel lor sentimento tra forestieri. Gl’inglesi non si piccano di buona creanza; piuttosto di non averla, piuttosto di mala creanza: però di loro non ci maraviglieremo. I francesi non solo se ne piccano, ma vogliono essere, credono essere, e certo sono, la meglio educata gente del mondo. Anzi in questo fondano per gran parte quella loro opinione di superiorità. Perciò pare strano che al più ben creato francese non riesca o non cada in mente di tenersi, parlando o scrivendo a forestieri, dal dar loro ad intendere in qualche modo (ma chiaro), che esso li tiene senza controversia per da meno di se. Molto meno poi negli scritti che pubblicano.

Anco pare strana questa cosa, considerata la gran sensibilità e paura che hanno i francesi del ridicolo. Perchè se quella lor pretensione riesce ridicola a chi la stima giusta, e d’altronde utile e lodevole, come sono io; quanto non dovrà parere a quei che non pensano più che tanto, o che la stimano assolutamente vana, esagerata ec.? Il che dee naturalmente accadere con molti, ma con gl’inglesi accade di necessità. E già ogni pretension che si dimostra, ancorchè giusta, è soggetta a ridicolo, perchè il mostrar pretensione è ridicolo. E manco strano sarebbe che eglino non si guardassero co’ forestieri da questo ridicolo in casa propria; dove essi sono i più forti, perchè l’opinion comune è per loro, la lor superiorità è ricevuta come assioma, e l’uditorio è tutto dalla lor parte. Ma che non se ne guardino (come non se ne guardano punto) in casa dei medesimi forestieri, viaggiando tra loro, co’ loro medesimi ospiti? Questo veramente è strano assai ne’ francesi; ma molto più strano, che alla fin de’ fatti, essi viaggiano tra noi trionfalmente, dimostrandoci il lor disprezzo, mettendoci in ridicolo in faccia nostra propria e parlando a noi (non che tornati che sono a casa); e che da noi non ricevono il menomo colpo, il più piccolo spruzzo, di ridicolo nè in parole, quando noi trattiamo qui con loro, nè in lettere, nè in istampa. Da che vien questo? da bontà degl’Italiani, o da dabbenaggine, o da paura, o da che altro? (25. Marzo. 1827.).

Pennelleggiare. Tratteggiare.

Alla p. 4249. fin. Il medesimo Chesterfield nota più volte come pregi distintivi e dei principali della letteratura nostra, e come di quelli che principalmente la possono far degna della curiosità degli stranieri, l’aver degli eccellenti storici, e delle eccellenti traduzioni dal latino e dal greco, mostrando poi di aver l’occhio particolarmente a quelle della Collana. Va bene il primo capo. Il secondo non può servire ad altro che a mostrar l’ignoranza grande dei forestieri circa le cose nostre. Perchè se la nostra letteratura è povera in alcuno articolo, lo è certamente in quel delle buone traduzioni dal latino e dal greco. Di quelle specialmente della Collana non ve n’è appena una che si possa leggere, quanto alla lingua e allo stile, e per se; e che non dica poi, almeno per la metà, il rovescio di quel che volle dire e disse l’autor greco e latino. Tutte le letterature (eccetto forse la tedesca da poco in qua) sono povere di traduzioni veramente buone: ma l’italiana in questo, se non si distingue dall’altre come più povera, non si distingue in modo alcuno. Solamente è vero che noi cominciammo ad aver traduzioni dal latino e dal greco classico (non buone, ma traduzioni semplicemente), molto prima di tutte le altre nazioni. Il che è naturale perchè anche risorse prima in Italia che altrove, la letteratura classica, e lo studio del vero latino, e del greco. E n’avemmo anche in gran copia. E queste furono forse le cagioni che produssero tra gli stranieri superficialmente acquainted with le cose nostre quella opinione, che ebbe tra gli altri il Chesterfield. Nondimeno in quel medesimo tempo, anzi alquanto innanzi, avveniva al Maffei in Baviera, dov’ei si trovava, quel ch’egli scrive nella prefazione[a]

Scriveva il Chester. quelle cose circa il 1750: i Tradutt. ital. del Maff. furon pubblicati del 1720.

[Chiudi] de’ suoi Traduttori italiani ossia notizia de’ Volgarizzamenti d’antichi scrittori latini e greci, che sono in luce indirizzata a una colta Signora, da lui frequentata colà. Vostro costume era d’antepor la (lingua) francese alle altre, per l’avvantaggio di goder per essa gli antichi autori latini e greci, della lettura de’ quali sommamente vi compiacete, avendogli traslatati i francesi. Qui io avea bel dire, che questo piacere potea conseguirsi ugualmente con l’italiana, e che già fin dal felice secolo del 1500 la maggior parte de’ più ricercati antichi scrittori era stata in ottima volgar lingua presso di noi recata, che suscitandomisi contra tutti gli astanti, e gl’italiani prima degli altri, restava fermato, che solamente in francese queste traduzioni si avessero.

Ed ecco dagli stranieri negato agl’italiani formalmente, e trasferito alla letteratura francese quel medesimo pregio (e circa il medesimo tempo) che altri stranieri come il Chesterfield attribuivano alla italiana. Nella qual prefazione il Maffei afferma aver gl’italiani tradotto prima, più, e meglio delle altre nazioni . Per provar la qual proposizione, assunse di comporre, e compose quel suo catalogo dei nostri volgarizzatori. E quanto a me concedo e credo vere le due prime parti di essa proposizione, almen relativamente al tempo in cui il Maffei la scriveva. Concederò anche la terza, relativamente allo stesso tempo, purchè quel meglio delle altre , non escluda il male e il pessimamente assoluto. (Recanati. 27. Marzo. 1827.). V. p. 4304. fine.

Alla p. 4234. V. ancora la lettera del Manfredi, nelle Considerazioni sopra la Maniera di ben pensare ec. dell’Orsi, Modena 1735. tom.1. p. 686. fin. e l’Orazione di Girolamo Gigli in lode della toscana favella, che sta colle sue Lezioni di lingua toscana, Ven. 1744. 3.a ediz.

Alla p. 4194. A questo genere appartiene, cred’io, quell’aneddoto della femmina spagnuola di Buenos-Ayres in America, per nome Maldonata (avrà voluto dir Maldonada) alimentata lungo tempo, e poi casualmente salvata da una leonessa, da lei già beneficata, nel secolo decimosesto. Benchè questa istorietta sia riferita seriamente e con belle riflessioni filosofiche dal Raynal ( Leçons de littérature et de morale, cioè Antologia francese, par MM. Noël et Delaplace, 4.me édit. Paris 1810. tome 1. p. 16-18.) Ma essa, mutatis mutandis, è la stessissima che quella (ben più antichetta) dello schiavo fuggitivo per nome Androdo, alimentato in Numidia, e poi salvato da morte in Roma, da un leone, da lui beneficato. ( Gell. N. Att. l. 5. c. 14. Aelian. hist. animal. l. 7. c. 48.) Nè ardisco già dire che questa sia stata il primo e original tipo di questa favola. (Anzi ella mi ha sembianza di esser d’origine greca. Vedi altre simili storielle, appunto greche, in Plinio, l. 8. c. 16. che sono come primi abbozzi di questa.) Dico poi favola, sì per il sospetto, troppo fondato, d’imitazione; e sì perchè si sa molto bene che in America non sono e non furono mai leoni: e però, s’io non erro, nè anche leonesse; (Recanati. 29. Marzo. 1827.) dico di quelle nate quivi da se, e viventi nelle foreste e nelle caverne, come era quella; non trasportate d’altronde, e mantenute in gabbie e in serragli.

Noi italiani siamo derisi per le nostre cerimonie e i nostri titoli (che noi abbiamo avuti dagli spagnuoli) specialmente dai francesi, che hanno fama d’essere in ciò i più disinvolti. Frattanto noi non abbiamo il costume che hanno i francesi, che il Monsieur sia, per così dire, inseparabile da tutti i nomi di persone; che gli autori lo aggiungano al lor nome proprio nei frontespizi delle loro opere; che esso vi si conservi perpetuamente, o vi sia posto, anche quando gli autori son morti; e simili. (Recanati. 29. Marzo. 1827.).

λοφνία-λοφνὶς, λοφία o λοφίη-λοφὶς. V. Casaub. ad Athenae. l. 15. c. 18. φρουρὰ-φρούριον. ἴχνος ἴχνιον.

ἑλάνη-σελάνη. V. ibid.

Se era intenzione della natura, facendo l’uomo così debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben essere suo coll’ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè tante centinaia di nazioni selvagge e barbare dell’America, dell’Africa, dell’Asia dell’Oceanica, non vi sono arrivate ancora, non hanno fatto alcun passo per arrivarvi, e certo non vi arriveranno mai, nè saranno mai civili in niun modo (o non sarebbero mai state), se noi non ve li ridurremo (o non ve gli avessimo ridotti)? Le quali nazioni sono pure una buona metà, e più, del genere umano in natura. Perchè dato ancora che le popolazioni civili, nella somma loro, vincano di numero d’uomini la somma delle non civili nè state mai civilizzate, questa moltitudine di quelle è posteriore alla civilizzazione, ed effetto di essa: la quale favorisce la moltiplicazion della specie e l’aumento della popolazione. È stata dunque la natura così sciocca, e così mal provvidente, che ella abbia missed il suo intento per più della metà? (Recanati 30. Mar. ult. Venerdì. 1827.).

In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto. Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso. (Può servire al Manuale di filosofia pratica). (30. Marzo. 1827.). Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura. Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina. Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi. V. p. 4273. E forse per questa ragione gli spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario. Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo. Per questo nel bollore della gioventù, quando l’uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita. E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell’impeto, e cominciata la freddezza, e ridotto l’uomo a curarsi poco e a disperare omai del piacere. (30. Marzo. 1827.). Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale quanto più si cerca e si desidera per se e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro. Il desiderio stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco lei.

Alla p. 4240. La sopraddetta utilità della pazienza, non si ristringe al solo dolore, ma si stende anche ad altre mille occasioni; come se tu hai da aspettare, da fare un’operazione lunga, monotona e fastidiosa; da soffrire una compagnia noiosa, mentre hai altro da fare; ascoltare un discorso lungo di cosa che nulla t’importa, un poeta o scrittore che ti reciti una sua composizione; e così discorrendo: dove l’impazienza, la fretta, l’ansietà di finire, l’inquietudine ti raddoppiano la molestia. In somma si stende a tutte le occasioni e stati dove può aver luogo quello che noi chiamiamo pazienza e impazienza; a tutti i dispiaceri; o sieno dolori o noie. (Recanati. 31. Marzo. 1827.).

Quegli tra gli stranieri che più onorano l’Italia della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra classica, non considerano l’Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci hanno quella stima che si suole avere a questo genere di persone; quella che noi abbiamo in Roma agli usufruttuarii per così dire, delle diverse antichità, luoghi, ruine, musei ec. (31. Marzo. 1827.).

The ancients (to say the least of them) had as much genius as we; they constantly applied themselves not only to that art, but to that single branch of an art, to which their talent was most powerfully bent; and it was the business of their lives to correct and finish their works for posterity. If we can pretend to have used the same industry, let us expect the same immortality: Though, if we took the same care, we should still lie under a farther misfortune: They writ in languages that became universal and everlasting, while ours are extremely limited both in extent and in duration. A mighty foundation for our pride! when the utmost we can hope, is but to be read in one island, and to be thrown aside at the end of an age. Pope Prefazione generale alla Collezione delle sue Opere giovanili (Collezione pubblicata nel 1717.) data Nov. 10. 1716 . Pope era nato del 1688.

The muses are amicae omnium horarum; and, like our gay acquaintance, the best company in the world, as long as one expects no real service from them. Ibid.

We spend our youth in pursuit of riches or fame, in hopes to enjoy them when we are old; and when we are old, we find it is too late to enjoy any thing. Ibid. (31. Marzo. 1827.).

φλύω-φλύζω.

Vespa g u êpe , antic. g u espe .

Serpyllum, serpillo, serpollo-sermollino, serpolet. Tubo, tube-tuyau. Benda, bande-bandeau.

È notabile ancora e caratteristico delle antiche nazioni il modo come essi nominavano l’opposto dell’uomo di garbo, cioè il malvagio. Δειλὸς timido, codardo, vale anche malvagio presso gli antichissimi ( Casaub. ad Athenae. l. 15. c. 15. poco dopo il mezzo). Viceversa κακὸς malvagio è usato continuamente e con proprietà di lingua, per codardo, o da nulla; ignavus. Così ἀγαθὸς ed ἐσθλὸς e simili, per valoroso, utile, prode, strenuus. Similmente bonus e malus presso i latt. Φαῦλος da nulla, da poco, spesso è il medesimo che tristo, cattivo (come vaurien in franc.), tanto di uomo, quanto di cosa. Χρηστὸς è utile e buono (similmente χρηστότης); ἄχρηστος inutile e cattivo.

È osservazione antica che quanto decrescono nelle repubbliche e negli stati le virtù vere, tanto crescono le vantate, e le adulazioni; e similmente, che a misura che decadono le lettere e i buoni studi, si aumentano di magnificenza i titoli di lode che si danno agli scienziati e a’ letterati, o a quelli che in sì fatti tempi sono tenuti per tali. Il somigliante par che avvenga circa il modo della pubblicazione dei libri. Quanto lo stile peggiora, e divien più vile, più incolto, più εὐτελὴς, di meno spesa; tanto cresce l’eleganza, la nitidezza, lo splendore, la magnificenza, il costo e vero pregio e valore delle edizioni. Guardate le stampe francesi d’oggidì, anche quelle delle semplici brochures e fogli volanti ed efimeri. Direste che non si può dar cosa più perfetta in tal genere, se le stampe d’Inghilterra, quelle eziandio de’ più passeggeri pamphlets, non vi mostrassero una perfezione molto maggiore. Guardate poi lo stile di tali opere, così stampate; il quale a prima giunta vi parrebbe che dovesse esser cosa di gran valore, di grande squisitezza, condotta con grand’arte e studio. Disgraziatamente l’arte e lo studio son cose oramai ignote e sbandite dalla professione di scriver libri. Lo stile non è più oggetto di pensiero alcuno. Paragonate ora e le stampe dei secoli passati, e gli stili di quei libri così modestamente, così umilmente, e spesso (vilmente, abbiettamente) poveramente impressi; colle stampe e gli stili moderni. Il risultato di questa comparazione sarà che gli stili antichi e le stampe moderne paion fatte per la posterità e per l’eternità; gli stili moderni e le stampe antiche, per il momento, e quasi per il bisogno.

(Anche le stampe italiane d’oggi, benchè non possano sostenere il paragone delle francesi e inglesi, non temono pero quello di tutte l’altre, anzi sono sicure di uscirne vittoriose; e molte stampe italiane che oggi non paiono più che ordinarie, sarebbono parute splendide nel secolo passato, magnifiche e principesche nei precedenti.)

Noi però abbiamo buonissima ragione di non porre più che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso la brevità della vita che essi in ogni modo (non ostante la bontà della stampa) sono per avere. Se mai fu chimerica la speranza dell’immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori. Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti. Tutti i posti dell’immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli antichi classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero degl’immortali; oh questo io non credo che sia più possibile. La sorte dei libri oggi, è come quella degl’insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi: esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più longevi che la memoria di noi. Oggi si può dire con verità maggiore che mai: Οἵη περ φύλλων γενεὴ, τοιήδε καὶ ἀνδρῶν ( Iliad. 6. v. 146.) Perchè non ai soli letterati, ma ormai a tutte le professioni è fatta impossibile l’immortalità, in tanta infinita moltitudine di fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell’uomo civile, e la ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra. Io non dubito punto che di qua a dugent’anni non sia per esser più noto il nome di Achille, vincitor di Troia, che quello di Napoleone, vincitore e signore del mondo civile. Questo sarà uno dei molti, si perderà tra la folla; quello sovrasterà, per esser montato in alto assai prima; conserverà il piedestallo, il rialto, che ha già occupato da tanti secoli.

Del resto, come la impossibilità di divenire immortali, giustifica la odierna negligenza dello stile nei libri; così questa negligenza dal canto suo, inabilita, e fa impossibile ai libri, il conseguimento della immortalità. Notabili e vere parole di Buffon (Discours de réception à l’Académie française): Les ouvrages bien écrits seront les seuls qui passeront à la postérité; la quantité des connaissances, la singularité des faits, la nouveauté même des découvertes ne sont pas de sûrs garants de l’immortalité. Si les ouvrages qui les contiennent ne roulent que sur de petits objets, s’ils sont écrits sans goût, sans noblesse et sans génie, ils périront, parceque les connaissances, les faits et les découvertes s’enlèvent aisément, se transportent, et gagnent même à être mis en oeuvre par des mains plus habiles. Ces choses sont hors de l’homme, le style est l’homme même. Le style ne peut donc ni s’enlever, ni se transporter, ni s’altérer. S’il est élevé, noble, sublime, l’auteur sera également admiré dans tous les temps. Al che aggiungo io, che quando anche le mani qui enlèvent i pensieri, non sieno più habiles in materia di stile, (come certo oggi e in futuro è difficile che sieno), nondimeno il libro perira egualmente; perchè in esso non si troverà nulla di più che nelle sue copie; probabilmente assai meno (dico per il fondo, non per lo stile); e così i libri nuovi faranno dimenticare e sparire il vecchio: appunto, se non altro, perchè essi nuovi, e vecchio quello: del che abbiamo l’esperienza quotidiana per testimonio. (Anche intorno a libri bene scritti; quando si tratta di verità e di scienze; come sono quelli di Galileo, che da quale scienziato sono letti oggidì?).

E con questa osservazione di Buffon chiudo questo discorso non troppo lieto, e piuttosto malinconico che altrimenti. (Recanati 2. Aprile. 1827.).

(Similmente poi, per altra parte, la negligenza universale intorno allo stile, rende inutile la diligenza individuale, se alcuno sapesse e volesse usarne, intorno al medesimo. Perchè, in sì fatti generi, le cose quanto sono più rare, tanto meno si apprezzano. Il pubblico, appunto perchè in ciò negligente, ed assuefatto a trascurar tale studio, non ha nè gusto nè capacità nè per sentire nè per giudicare le bellezze degli stili, nè per esserne dilettato. Perchè certi diletti, e non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non innato; di una capacità di sentirli acquisita. A chi non l’ha, non sono diletti in niun modo. L’arte più sopraffina non sarebbe conosciuta: l’ottimo stile non sarebbe distinto dal pessimo. Così l’eccellenza medesima dello stile non sarebbe più una via all’immortalità, che senza essa, tuttavia, non si può dai libri conseguire.) (Recanati. 2. Aprile. 1827.).

(Molti libri oggi, anche dei beni accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili agli efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispazio di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi per arrivare a quello d’insetti alati, nel quale non durano più di due, di tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di una sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una, di due o di tre ore). (Encyclopéd. art. éphémères). (2. Apr. 1827.).

Pavot non sembra essere che un diminutivo positivato di papaver; contratte, per corrotta e precipitata pronunzia, le due prime sillabe pa, in una sola.

Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e di forze uguale a lui, p. e. con un grosso cane, difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto. Per vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa superiorità. La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l’uomo riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può. Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza. L’uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi. Egli si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, se non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe. E che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà volontariamente. Il fanciullo, e più il bambino, adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno. E per questo lato io non trovo niente d’inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti. E la crederò vera più facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le sue braccia, come nell’altra battaglia, cioè in quella de’ serpenti. (3. Aprile. 1827.).

Fouiller probabilmente è da fodere, e quindi fratello di fodicare.

Metrodoro epicureo ap. Ateneo l. 12. p. 546. f. ὁ κατὰ φύσιν βαδίζων λόγος che cammina, procede, secondo natura. Il qual luogo è spiegato dal Casaubono negli Addenda Animadversionibus, al capo 12.

Nella version latina di quel passaggio del Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della toilette, fatta dal D. Parnell (versione assai bizzarra, e che parrebbe piuttosto fatta nell’ottavo secolo che nel decimottavo, poichè consiste di versi dei quali ogni mezzo verso rima coll’altro mezzo, p. e. Et nunc dilectum speculum, pro more retectum, Emicat in mensa, quae splendet pyxide densa , che sono i primi), trovo questi due versi, di séguito: Induit arma ergo Veneris pulcherrima virgo: Pulchrior in praesens tempus de tempore crescens , dove, come si vede, ergo fa rima con virgo, e praesens con crescens. Che dicono gl’italiani di questa pronunzia? (Recanati. 5. Aprile. 1827.). V. p. 4497.

Tricae-tracasserie, tracasser, tracassier ec.

Aerugo, o rubigo o robigo, ruggine-rouille, coi derivati.

Alla p. 4266. Io stesso, che pur non ho maggior piacere che il leggere, anzi non ne ho altri, ed in cui il piacer della lettura è tanto più grande, quanto che dalla primissima fanciullezza sono sempre vissuto in questa abitudine (e l’abitudine è quella che fa i piaceri) quando talvolta per ozio, mi son posto a leggere qualche libro per semplice passatempo, ed a fine solo ed espresso di trovar piacere e dilettarmi; non senza maraviglia e rammarico, ho trovato sempre che non solo io non provava diletto alcuno, ma sentiva noia e disgusto fin dalle prime pagine. E però io andava cangiando subito libri, senza però niun frutto; finchè disperato, lasciava la lettura, con timore che ella mi fosse divenuta insipida e dispiacevole per sempre, e di non aver più a trovarci diletto: il quale mi tornava però subito che io la ripigliava per occupazione, e per modo di studio, e con fin d’imparare qualche cosa, o di avanzarmi generalmente nelle cognizioni, senza alcuna mira particolare al diletto. Onde i libri che mi hanno dilettato meno, e che perciò da qualche tempo io non soglio più leggere, sono stati sempre quelli che si chiamano come per proprio nome, dilettevoli e di passatempo. (6. Aprile. 1827.).

Radiatus per radians ec. V. Forcellini .

Pel manuale di filosofia pratica. A me è avvenuto di conservare per lo più ogni amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti. E la cagion, per quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell’amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi coll’amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di non discolpar l’amico, e di non conoscere che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da volontà determinata di offenderli. (7. Apr. 1827.).

Perchè l’esistenza dell’universo fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe provare che l’universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza infinita l’avesse potuto creare. La quale infinità dell’universo, nessuna cosa ce la può nè provare, nè darcela a congetturare probabilmente. E quando poi l’universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell’universo, non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell’essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l’universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinosisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l’universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro. Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe sempre ignoto e nascosto: dove che l’universo è palese e sensibile. (7. Apr. Sabato di Passione. 1827. Recanati.). Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?

Alla p. 4245. Un’altra cagione per la quale io amo la μονοφαγία è per non avere (come necessariamente avrei se mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto, d’ importuns laquais, épiant nos discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d’un oeil avide, s’amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d’un trop long dîner. ( Rousseau, Émile .) Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si compiacciano, di siffatti testimonii, l’occupazione e i pensieri dei quali in quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi a tavola si facevano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non curarsi, e di non temere le loro railleries e disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare tranquillamente, e pienamente senza disturbo alcuno, i piaceri della tavola. L’opinione che gli antichi avevano dei loro schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi dell’incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel luogo dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l’umanità e la cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire, e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n’è capace il corpo e lo spirito, avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò, quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo, non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta ragione, voglio mangiare a grand’agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che si affrettano d’ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile. (7. Apr. 1827.).

To pant inglese — panteler francese.

Allegano in favore della immortalità dell’animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch’io sono per dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un’opinione. Se l’uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l’egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c’inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l’offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl’infelici non s’ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre sarà. Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l’odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore o avversione, nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita e l’essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all’immortalità dell’animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch’è morto, non sia più.

Ma se crediamo questo, perchè lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è più? — Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest’ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell’essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.

In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell’animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c’intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch’io ho notato altrove; che il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l’ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o vero: questo è passato per sempre. V. p. 4282. Di modo che nel dolore che si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla rimembranza e su di essa fondato, il pensiero della caducità umana. Pensiero veramente non troppo simile nè analogo nè concorde a quello della nostra immortalità. Alla quale noi siamo così alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi dicessimo allora a noi stessi: io rivedrò però questo tale dopo la mia morte: io non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di non rivederlo mai più: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener fermo quel mai più; noi non piangeremmo mai per morti. Ma venga pure innanzi chi che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur una sola volta, accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e dall’aspettativa di rivedere una volta il suo caro defonto: che pur ragionevolmente, poste le opinioni che abbiamo della immortalità dell’uomo, e dello stato suo dopo morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si dovrebbe offrire alla mente. Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce, quali si sieno le nostre opinioni, la natura e il sentimento in simili occasioni ci portano senza nostro consenso o sconsenso a giudicare e tenere per dato, che il morto sia spento e passato del tutto e per sempre.

Concludo che per quanto permette la infinita diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla morte; noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura e semplice natura, che essi in sostanza, e nel fondo del loro cuore, piuttosto consentono in credere la estinzione totale dell’uomo, che la immortalità dell’animo: senza che, nella detta diversità ed assurdità, io pretenda che tal consentimento sia di gran peso. (Recanati. 9. Apr. Lunedì Santo. 1827.).

Embrasé per ardente. Ses regards embrasés. Barthélemy, Voyage d’Anacharsis , dove parla di Omero. Raffiné spesso per fin semplicemente.

Ἄβαξ-ἀβάκιον, abbaco. V. Forcell. ec.

Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del 20.o secolo.

Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v’abbia un’altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un dolore estremo. Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827. p. 215-6. Ciò accade anche nei nostri bambini. V. Roberti Lettera di un bambino di 16 mesi. Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!! (Recanati. 13. Apr. Venerdì Santo. 1827.). V. p. 4419.

Badare-badigliare, sbadigliare ec.; badaluccare, badalucco ec. V. N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra, p. 162-3. Rosecchiare, rosicchiare.

Presso gli Spagnuoli, i quali si dicono essere quelli che nelle colonie meglio trattano gli schiavi, i Neri nell’isola di Cuba hanno diritto di forzar per giudizio i loro padroni a venderli ad altri, in caso di mali trattamenti. V. il N. Ricoglitore, loc. cit. qui sopra, p. 175. Così appunto gli schiavi aveano il diritto τοῦ πρᾶσιν αἰτεῖν presso gli Ateniesi, dov’erano meglio trattati che in alcun’altra parte di Grecia. V. Casaubon. ad Athenae. l. 6. c. 19. init. (Recanati. 15. Apr. dì di Pasqua. 1827.).

Dico altrove che la moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l’imitativo che aveva il suono della parola in latino, e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola. Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che la latina, ovvero sue proprie ed originali. Miauler, miaulement parole espressive della voce del gatto, nella lor forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l’italiano miagolare (o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l’uno e l’altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto affatto il franc. miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e non già gnolare). Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau. (16. Aprile. Lunedì di Pasqua. 1827.).

Miauler franc. maullar o mahullar spagn. — mia-g-olare.

Upupa lat. e italiano — bubbola. Hamus-hameau.

Alla p. 4255. principio. Vir gente et fama nobilis , dice il Reimar, Praefat. ad Dion. par. 6, di Giovanni Leunclavio, famoso erudito tedesco del secolo 16.o, quem merito admiratur Marquardus Freherus in epistola dedicatoria ad Leunclavii Jus Graeco-Romanum quod inter varias peregrinationes, in multis principum aulis, legationibus et negotiis occupatus, tot ac tanta opera summa accuratione ediderit, quot et quanta quis otiosus et huic uni rei operatus vix proferret in lucem. Le soprascritte osservazioni del Chesterfield spiegano questo fenomeno, ripetuto del resto assai spesso; e notato colla stessa ammirazione da molti, in molti e molti altri; e certamente non raro. Esse spiegano il simile e maggior fenomeno di Cicerone tra gli antichi, di Federico di Prussia tra i moderni, e di tanti altri tali. A segno che sarà forse più difficile il trovare un letterato, altronde ozioso e disoccupato, che abbia molto scritto e con accuratezza grande, di quello che un letterato che, occupato d’altronde, abbia prodotto molte e studiate opere. Certo di questi non è difficile a trovarne, e ciò conferma le osservazioni del Chesterfield; secondo le quali, le stesse occupazioni di siffatti uomini, debbono servire a render ragione della moltitudine e dell’accuratezza dei loro lavori, e a scemarne la meraviglia, mostrandole occasionate da un abito di attività prodotto o sostenuto da esse occupazioni; attività tanto maggiore e più viva ed acuta, quanto la copia e la folla e l’assiduità di esse occupazioni era più grande. (Recanati. 17. Aprile. Martedì di Pasqua. 1827.). Esempio mio, per lo più ozioso, ed inclinato all’inerzia, o per natura o per abito; pure in mezzo a questa inazione profonda, un giorno che io abbia occasione di adoperarmi, e molte cose da fare, non solo trovo tempo da sbrigar tutto, ma me ne avanza, e in quell’avanzo, io provo (e m’è avvenuto più volte) un vero bisogno, una smania, di far qualche cosa, un orrore del non far nulla, che mi pare incomportabile, come se io non fossi avvezzo a passar le ore, e per così dire i mesi, nella mia stanza colle braccia in croce. (Recanati. 17. Apr. Martedì di Pasqua. 1827.).

Uomo, viso, contegno, stile (ec.) sostenuto. Volg. ital. Onde è sostenutezza, usato dal Salvini, e registrato dalla Crusca.

Consummatus per summus. V. Forcellini .

Anche i francesi nel dir familiare usano autre per aucun, o ridondante. Così sans autre examen senz’altro esame, per sans aucun examen, in certi versi del modernissimo Andrieux, appresso MM. Noël e Delaplace, Leçons de littérature et de morale, 4.me édit. Paris 1810. tome 2. p. 58. Così ancora autrement per guère, o ridondante, pure nello stil familiare. v. Alberti , e Richelet, Dizz. (Recanati. 18. Apr. 1827.).

Homme, esprit, dissipé. Disapplicato.

Ἐν τούτῳ (cioè in questa, in questo, in questo mezzo). Dione Cass. ed. Reimar, p. 65. lin. 98. p. 192. lin. 5. (Recanati. 20. Apr. 1827.).

Nae-v-us — Ne-o. V. franc. spagn. ec.

Amouracher, s’amouracher. Flamboyer.

Culter, cultrum-cultellus, coltello, couteau ec. ec. V. Forcell. , gli Spagnuoli ec.

Alla p. 4278. Il qual dolore si prova anche lasciando uno stato penoso, e il fine del quale sia stato da noi desideratissimo, e ci sia attualmente oltremodo caro. Il carcerato posto in libertà, piangerà nell’uscir della sua prigione, non per altro che pensando alla fine del suo stato passato: Filottete, partendo per l’assedio di Troia, dà un addio doloroso all’isola disabitata e all’antro de’ suoi patimenti.

L’estate, oltrechè liberandoci dai patimenti, produce in noi il desiderio de’ piaceri, ci dà anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell’aria. Dalla qual sicurezza d’animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza che produce il freddo, nasce l’egoismo, l’indifferenza per gli altri ec.

Alla p. 4245. Aggiungi a queste cose la voluttà (ben conosciuta e notata dagli antichi) del piangere, del gemere, dello stridere, dell’ululare nelle disgrazie; della quale noi siamo privati. (Recanati. Domenica in Albis. 22. Aprile. 1827.).

Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi per gli altri, è la stima di se medesimo e l’aversi in pregio; siccome il primo fondamento dell’interessarsi per altrui, è l’aver buona speranza per se medesimo. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

Anticipare, posticipare, participare ec. da capere.

Summittere o submittere per sursum mittere o de subtus mittere. Subiectare, simile.

Bucherare. Spicciolato.

Fra giorno, cioè di giorno, nel giorno, dentro giorno, dentro il corso del giorno.

Innumerato per innumerabile. Palmieri (scrittore del sec. 15.), Della vita civile. V. Crus. Forcell. ec.

Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa esperienza. Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta. L’ho dimandato anco sovente a me stesso. Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti (e così, io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti gli uomini. Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s’ignora quel della vita che ci resta da fare. Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l’ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

È ben trista quella età nella quale l’uomo sente di non ispirar più nulla. Il gran desiderio dell’uomo, il gran mobile de’ suoi atti, delle sue parole, de’ suoi sguardi, de’ suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d’inspirare, di communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori. (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

Una delle cause della imperfezione e confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette all’alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha quell’alfabeto. Ciò si vede specialmente nell’inglese, dove per conseguenza uno stesso segno vocale deve esprimere ora uno ora un altro suono, senza regola fissa, e servire a più suoni. I caratteri dell’alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne. E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue sono più distanti per origine e per proprietà dal latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado di ogni repugnanza, furono architettate.

Le contrazioni greche (sì quelle in uso ne’ vari dialetti, e sì quelle attiche, e passate nel greco comune) non sono che modi di pronunziare certi dittonghi o trittonghi ec.: come appunto in francese au, ai ec. che si pronunziano o, e ec.; in inglese ea, ee ec. che si pronunziano i, e ec. ec. Così in greco εα si contrae, cioè si pronunzia η; εο si pronunzia ου;; οο, ου;; αει, ᾳ;; εω, ω ec. ec. Ma non per questo i greci pronunziando (cioè contraendo) η scrivevano εα ec., benchè questa seconda fosse la pronunzia e la scrittura regolare; ma scrivevano η come pronunziavano. E non solo il greco comune, ma ciascun dialetto con tutte le irregolarità e idiotismi di pronunzia, si scriveva come si pronunziava. Perchè in francese, in inglese ec. (i quali anticamente e regolarmente pronunziarono certo au, ai, ea, ee ec. come ora scrivono) non si scrivono i dittonghi ec. come si pronunziano? (Firenze. 1. luglio. 1827.).

Successus particip. da succedo. V. Cic. Ep. ad. fam. l. 16. ep. 21.

Avvengachè tra gli scrittori che io ho visti, non si trovi in maniera alcuna chi altrimenti (ridondante) costui si fosse. Giambullari, Istoria dell’Europa, lib.7. principio, Pisa, Capurro. 1822. t. 2. p. 173.

Sull’orlo d’un laghetto, ch’era vicino a certe balze sopra le coste di Agnano, stavano una testuggine, e due altri uccelli pur d’acqua. Firenzuola, Discorsi degli animali . (Firenze. 1. Luglio. 1827.).

L’amore e la stima che un letterato porta alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in ragione inversa dell’amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta a se stesso. (Firenze. 5. Luglio. 1827.).

Alla p. 4245. Di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ec. quei diritti d’ospizio ec. affinità d’ospizio ec. Ben diversi in ciò dai moderni. (5. Luglio. 1827.).

Cuna, cunula, culla.

Favonius-Faunus. V. The Monthly Repertory of english literature, Paris, N. 51. June 1811. vol. 13. p. 331.

Vino. Il piacer del vino è misto di corporale e di spirituale. Non è corporale semplicemente. Anzi consiste principalmente nello spirito ec. ec. (Firenze. 17. Luglio. 1827.).

Uno che costretto dai debiti, aveva venduto per cinquantamila scudi il suo patrimonio, non volendo dire di aver venduto, diceva (e certo con altrettanta verità) di aver comperato cinquantamila scudi. (Firenze. 19. Luglio. 1827.).

Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m’avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll’andar del tempo mi trovava sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio. 1827.). Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.

Veramente e perfettamente compassionevoli, non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri, quando sono nel fior dell’età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d’un altro mondo, perchè essi non hanno negli occhi che felicità. Chi patisce non è atto a compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche. Ma non v’ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d’altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell’appassimento del fiore de’ giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù. (Firenze. 23. Lugl. 1827.).

Vagheggiare, bellissimo verbo.

Naufragato, naufragé ec. per che ha naufragato. V. Forcell. ec. Scappato si dice volgarmente, anche in Toscana, di un giovane licenzioso ec. Osé.

Rempli per plein. Foncé per profond.

Béqueter. Nutrire, nodrire-nutricare nodricare. V. Forc. Frigere-fricasser.

Fra, infra, tra, intra tanto; entre tanto, per in tanto, en tanto.

Embraser co’ derivati. Aggiungasi al detto altrove, che le lettere br sogliono entrare nella composizione di voci dinotanti arsione ec.

Come ignotus, o notus per conoscente, così viceversa conoscente spesso per conosciuto; come: il dolor della morte degli amici e de’ conoscenti ec. ec. (Firenze. 17. Sett. 1827.).

La materia pensante si considera come un paradosso. Si parte dalla persuasione della sua impossibilità, e per questo molti grandi spiriti, come Bayle, nella considerazione di questo problema, non hanno saputo determinar la loro mente a quello che si chiama, e che per lo innanzi era lor sempre paruto, un’assurdità enorme. Diversamente andrebbe la cosa, se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia. Or così appunto dovrebbe esser disposto l’animo degli uomini verso questo problema. Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l’animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all’evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi spiritualisti di questo e de’ passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo. (Firenze. 18. Sett. 1827.).

Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de’ greci e de’ romani. Vedesi appunto da quel tanto d’instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l’uso della ginnastica, l’uso dei bagni e simili. Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d’ogni età dell’uomo, in ogni parte dell’igiene pratica, in tutto il fisico della civiltà, v. p. 4291. gli antichi ci sono ancora d’assai superiori: parte, se io non m’inganno, non piccola e non di poco momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto. (18. Sett. 1827.).

Addolcendosi i costumi, diffondendosi le cognizioni e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà, veggiamo che i grandi delitti o spariscono, o si fanno più rari. Se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l’effetto e l’esperienza della civilizzazion presente deciderà per la prima volta. — Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaro o semicivile piuttosto, una quantità di delitti atroci che vincono l’immaginazione, una quantità di azioni eroiche di virtù (spesso occasionate da quei medesimi delitti), che esaltano l’anima la più fredda (come è la mia). Certo niente o ben poco di simile nelle parti men barbare dell’Italia, e nel resto d’Europa, nè per l’una nè per l’altra parte. (Firenze. 18. Sett. 1827.).

C’est en conséquence de ces cruelles opinions, que l’on a vu enseigner publiquement, à la honte du Christianisme, que l’on ne devoit pas garder la foi aux hérétiques; sentiment que Clément VIII, qui d’ailleurs étoit assez honnête homme pour un Pape, approuvoit, ainsi que s’en plaint amèrement le Cardinal d’Ossat. L’inhumaine décision du concile de Constance, sur le mépris des saufs-conduits, est aussi le fruit de cette pernicieuse doctrine. ( Hist. du concile de Constance, préface de Lenfant. P. 47.) Examen critique des Apologistes de la religion chrétienne, par M. Fréret, chap. 10. édit. de 1766. p. 188-9. (Firenze, 19. Sett. 1827.).

Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p. e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l’u vocale. Credo che il vau dell’alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l’avessero nella lingua. Considerato come un’aspirazione (non altrimenti che l’f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il φ greco è una lettera aggiunta all’alfabeto antico, e considerata come doppia o composta, cioè di π e di H, ossia come un π aspirato), esso v, per l’imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec. p. e. amaFi ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all’u, ond’è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l’u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest’u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l’u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il simile dirò dell’f ec. ec. (20. Sett. 1827. Firenze.).

Alla p. 4289 — nella civiltà insomma del corpo, per dir così, o vogliamo dire, che spetta al perfezionamento o alla perfezione del corpo, —

Dice la Staël che la lingua tedesca è una scienza, e lo stesso si può, e con più ragione ancora, dir della greca. Quindi è accaduto che siccome le scienze si perfezionano, e i moderni sono in esse superiori agli antichi, per le più numerose e accurate osservazioni, così e per lo stesso mezzo la notizia del greco, dal rinascimento degli studi, si è accresciuta e si accresce tuttavia, e che i moderni sono in essa d’assai superiori a quelli del 5 o del 4 cento, e forse in alcune parti (come in quella delle etimologie, parte così favolosamente trattata da Platone), agli stessi greci antichi; anzi, che gli scolari di greco oggidì, ne sappiano più de’ maestri de’ passati tempi. E come le scienze non hanno limiti conosciuti nè forse arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, nè si può conoscere se e quando arriverà al non plus ultra, nè basta l’avere spesa tutta la vita in questo studio, per potersi vantare di essere un grecista perfetto. (Firenze. 20. Sett. 1827.).

Il credere l’universo infinito, è un’illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l’analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell’universo non sia che illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di que’ corpi ch’io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là, ed altri più al di là. Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all’ignorante, che guarda intorno da un’alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v’è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito. Ma come poi si è trovato per esperienza che il globo terracqueo, il qual pare infinito, e certamente per lungo tempo fu tenuto tale, ha pure i suoi limiti, così, secondo ogni analogia, si dee credere che la mole intera dell’universo, l’assemblage di tutti i globi, il qual ci pare infinito per la stessa causa, cioè perchè non ne vediamo i confini e perchè siam lontanissimi dal vederli; ma la cui vastità del resto non è assoluta ma relativa; abbia in effetto i suoi termini. — Il fanciullo e il selvaggio giurerebbero, i primitivi avriano giurato, che la terra, che il mare non hanno confini; e si sarebbono ingannati: essi credevano ancora, e credono, che le stelle che noi veggiamo non si potessero contare, cioè fossero infinite di numero. (20. Sett. 1827.).

L’estrema imperfezione dell’ortografia francese è confessata in modo très-éclatant dagli stessi francesi con que’ loro dizionari che contengono la prononciation figurée, cioè rappresentata in modo più conforme all’alfabeto ed alla ragion naturale. Che si dee pensare della scrittura di una nazione, la quale scrittura ha bisogno di essere scritta in un altro modo, di essere rappresentata con un’altra scrittura, e ciò alla stessa nazione, acciò che questa intenda ciò che quella significa? giacchè l’intendere come essa vada pronunziata, non è altro che intendere il suo valore. (Firenze. 21. Sett. 1827.).

Se fosse possibile che io m’innamorassi, ciò potrebbe accadere piuttosto con una straniera che con un’italiana. Quel tanto o di nuovo o d’ignoto che v’ha ne’ costumi, nel modo di pensare, nelle inclinazioni, nei gusti, nelle maniere esteriori, nella lingua di una straniera, è molto a proposito per far nascere o per mantenere in un amante quella immaginazion di mistero, quella opinione di vedere e di conoscere nella persona amata assai meno di quello che essa nasconde in se stessa, di quel ch’ella è, quella idea di profondità, di animo recondito e segreto, ch’è il primo e necessario fondamento dell’amor più che sensuale. Oltre alla grazia che accompagna naturalmente ciò ch’è straniero, come straordinario. (Firenze, 21. Sett. 1827.).

Doucereux.

Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con un’apparenza di vastità ec. ec. è piacevole per il vago dell’idea ec. Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec. il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de’ buoi ec. nelle medesime circostanze. (21. Sett. 1827.).

La differenza tra le voci di origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo, un’altra, tutta differente, e si considera come un altra voce da tutti, salvo solo i pochissimi che s’intendono delle origini della lingua. P. e. causa lat. , corrotta di forma e di significato dall’uso volgare, significa res (cosa: v. la pag. 4089.); usata incorrottamente nella letteratura e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione. Ed è certo che causa ital. è voce, benchè ora volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de’ passati secoli dicevano ch’ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat. occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e senso, come una tutt’altra (occasione), benchè in origine sia la stessa. Franc. chose — cause, Spagn. cosa — causa ec. (Firenze. 21. Sett. 1827.). Leale, loyal, leal (spagn.) legale, légal, legal.

Diluvium — déluge.

Alla p. 4238. Ebbero i Greci ancora, come i moderni, degl’Itinerari, delle Descrizioni di città e di provincie, anche con dettagli appartenenti a storia, arti, monumenti, costumi, prodotti, statistica insomma (come quella di Pausania, e la Descriz. della Grecia di Dicearco, contemporaneo di Teofrasto, della quale son da vedere i frammenti nei Meletemata del Creuzer); delle Relazioni di Viaggi per mare e per terra (come i Peripli, il Viaggio di Nearco, di Arriano nell’Indica, quello di Megastene all’India, ed altri simili sotto titolo di Ἰνδικά, Αἰθιοπιχά, Περσικά ec.): e in fine non v’è quasi ricchezza letteraria fra’ moderni, di cui non si trovi fornita anche la Bibliografia greca. (Firenze. Domenica 14. Ottob. 1827.).

Persone la cui compagnia e conversazione ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di sforzarci e adoperarci d’essere stimate, e stimate ogni giorno più. Perciò la compagnia e conversazione delle donne non può esser durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima. (Firenze. Domenica 14. Ottobre. 1827.).

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Fin qui si stende l’Indice di questo zibaldone di
Pensieri
cominciato agli 11 Luglio, e finito ai 14 Ottobre 1827 in Firenze.

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Peut-être que, si l’on examinait avec impartialité les moeurs de toutes les nations de la terre, on trouverait qu’il n’y a point de peuple si grossier qui n’ait quelques règles de politesse, et point de peuple si poli qui ne conserve quelque reste de barbarie. Franklin. Traduit de l’anglais. ( Mélanges de Morale, d’Économie et de Politique, extraits des ouvrages de Benjamin Franklin. 2.e édition. Paris, chez Jules Renouard. 1826. tom.2. p. 1-2. Observations sur les Sauvages de l’Amérique du Nord. 1784.). (Firenze. 1827. 25. Ottobre.).

Bisogna guardarsi dal giudicare dell’ingegno, dello spirito, e soprattutto delle cognizioni di un forestiere, da’ discorsi che si udranno da lui ne’ primi abboccamenti. Ogni uomo, per comune e mediocre che sia il suo spirito e il suo intendimento, ha qualche cosa di proprio suo, e per conseguenza di originale, ne’ suoi pensieri, nelle sue maniere, nel modo di discorrere e di trattare. Massime poi uno straniere, voglio dire uno d’altra nazione, ne’ cui pensieri, nelle parole, nei modi, è impossibile che non si trovi tanta novità che basti per fermar l’attenzione di chi conversa seco le prime volte. Ogni uomo poi di qualche coltura, ha un sufficiente numero di cognizioni per somministrar lauta materia ad uno o due entretiens; ha i suoi discorsi, le sue materie favorite, nelle quali, se non altro per la lunga assuefazione ed esercizio, è atto a figurare, ed anche brillare; ha qualche suo motto, qualche tratto di spirito, qualche osservazione piccante o notabile ec. familiari e consueti. Per poca di abilità che egli abbia nel conversare, per poca di perizia di società, di arte della parola, facilissimamente egli tira e fa cadere il discorso, ne’ suoi primi abboccamenti, sopra quelle materie dove consiste il suo forte, dov’egli ha qualche bella o buona o passabile cosa da dire; e facilissimamente trova modo di metter fuori e di déployer tutta la ricchezza della sua erudizione e della sua dottrina, di qualunque genere ella sia. Ad un letterato di professione massimamente, è difficile che manchi l’arte necessaria per questo effetto. Quindi è che chi lo sente parlare per la prima volta, resta sorpreso dell’abbondanza delle sue cognizioni, de’ suoi motti, delle sue osservazioni; lo piglia per un’arca di scienza e di erudizione, un mostro di spirito, un ingegno vivacissimo, un pensatore consumato, un intelletto, uno spirito originale. Ciò è ben naturale, perchè si crede che quel che egli mette fuori, sia solamente una mostra, un saggio di se e del suo sapere; non sia già il tutto. Così è avvenuto a me più volte: trovandomi con persone nuove, specialmente con letterati, sono rimasto spaventato del gran numero degli aneddoti, delle novelle, delle cognizioni d’ogni sorta, delle osservazioni, dei tratti, ch’esse mettevano fuori. Paragonandomi a loro, io m’avviliva nel mio animo, mi pareva impossibile di arrivarvi, mi credeva un nulla appetto a loro. Ciò avveniva non già perchè la somma del mio sapere e del mio spirito non mi paresse bastante ad uguagliar quella che tali persone mettevano fuori e spendevano attualmente meco: se io avessi creduto che la loro ricchezza non si stendesse più là, essa mi sarebbe paruta ben piccola cosa, anche a lato alla mia; ma io credeva che quello non fosse che un saggio del capitale, un argent de poche, corrispondente ad una ricchezza proporzionata. Ne’ miei pochi viaggi, spesso ho avuto di tali mortificazioni, specialmente con letterati stranieri. Ma poi qualche volta ha voluto il caso che io m’abbattessi a sentire qualche colloquio di alcuna di tali persone con altre a cui esse erano parimente nuove. Ed ho notato che esse ripetevano puntualmente, o appresso a poco, gli stessi pensieri, motti, aneddoti, novelle, che avevano dette ed usate meco. ec. L’effetto in quegli uditori era lo stesso che era stato in me. Ammirazione, interesse, entusiasmo. Che vastità di sapere, che notizia d’uomini e d’affari, che profondità, che erudizione immensa, che fecondità e vivacità di spirito!

Da queste osservazioni si possono cavar parecchie riflessioni utili, ma fra l’altre, due ben diverse, ed utili a due ben diversi generi di persone. La prima: che i viaggiatori, per quanto sieno intendenti e di buona fede, debbono restar facilmente ingannati nel giudicar dello spirito, ingegno, erudizione e dottrina delle persone che vedono. Questa sarà utile per chi legge le Relazioni di Viaggi fatti in Europa, che ora sono tanto alla moda. L’altra: che un viaggiatore, per poco capitale ch’egli abbia di spirito e di sapere, dev’essere ben povero d’arte conversativa, se dovunque egli passa, non si fa passare per un grand’uomo. E questa sarà utile a chi viaggia. Come anche sarà utile per un altro lato a chi viaggia, l’esempio dell’accaduto a me, come ho detto di sopra ec. (Pisa. 13. Novembre. 1827.).

Cratero (nome di medico, e vuol dire in generale al medico) magnos promittere montes. Persio, Sat. 3. vers. 65. — Prometter mari e monti.

Alla p. 4115. Persio Sat. 1. v. 112-14. Hic, inquis, veto quisquam faxit oletum. Pinge duos angues: pueri, sacer est locus, extra Mejite. Discedo. Traduz. di Monti. Niun qui, dici, a sgravar l’alvo si butti: E tu due serpi vi dipingi, e al piede: Pisciate altrove, è sacro il loco, o putti. Me la batto. Nota del medesimo. Angues. L’antica superstizione aveva consecrato i serpenti come immagine del genio tutelare, e simbolo dell’eternità. Solevano quindi dipingerli al muro ne’ luoghi pubblici che volevansi mondi d’ogni bruttura, onde gli adulti per riverenza, i fanciulli per paura non vi si accostassero a far puzza. — Vedi gli altri commentatori. Paragonisi questa usanza colla nostra di far dipingere, ed anche scolpire in pietra, delle croci ne’ luoghi che si vogliono salvare dalle brutture, e che d’altronde vi sarebbero assai esposti e comodi. Usanza che dà più che mai nell’occhio a Firenze, dove non solo ne’ luoghi tali, ma non v’è canto di edifizio e di strada sì pubblica e frequentata, dove non si veggano, non dico croci, ma lunghe file di croci dipinte nel muro a basso, in modo di siepi. Il che è ben ragionevole in quella sporchissima e fetidissima città, per li cui amabili cittadini ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro bisogni, e soprattutto ogni cominciamento o entrata di viottolo o di via (due cose poco diverse in Firenze): onde nessun luogo è sicuro da tali profanazioni senza tali ripari ed antemurali, e conviene moltiplicarli senza fine. Non entrerei però garante della validità di siffatti ripari per l’effetto desiderato, nè in Firenze nè altrove. (Pisa. 22. Novembre. 1827.). V. la p. seg. e p. 4300. e p. 4305.

Cader dalla padella nella brace ec. V. Crusca. — Platone nel fine del libro 8. πολιτείας (ed. Astii, t. 4. p. ult.) parlando della democrazia cangiata in tirannide, e della eccessiva libertà cangiata in servitù, dice: καὶ, τὸ λεγόμενον, ὁ δῆμος φεύγων ἂν καπνὸν δουλείας ἐλευθέρων (cioè ricusando l’obbedienza de’ magistrati liberi), εἰς πῦρ δούλων δεσποτείας (della dominazione dei servi, cioè de’ satelliti del tiranno ec.) ἂν ἐμπεπτωκὼς εἴη. (Pisa. 2. Dic. 1827.).

Alla p. qui dietro. Del resto, questo scompisciamento generale di Firenze procede da quell’eccessiva libertà individuale che vi regna, per la quale Firenze potrebbe molto bene paragonarsi ad Atene del tempo il più democratico, ed applicarsi a lei quello che, alludendo ad Atene, dice di una città eccessivamente democratica Platone nell’ottavo della Repubblica, opp. ed. Astii, tom. 4. p. 478. (Pisa. 5. Dic. 1827.).

Alla p. 4164. capoverso 3. Epicuro Epist. ad Herodot. , ap. Laert. X. segm. 37. ὅπως ἂν τὰ δοξαζόμενα ἢ ζητούμεναἢ ἀπορούμενα ἔχωμεν εἰς ὃ ἀνάγοντες ἀπικρίνειν. Quest’uso dell’infinito, è proprio, del resto, anche della lingua franc. spagn. ec.

D’Alembert nel Discours préliminaire de l’Encyclopédie, avendo parlato delle cure, delle fatiche prese, e delle grandissime difficoltà incontrate dagli enciclopedisti, e particolarmente da Diderot per acquistare intorno alle arti, mestieri e manifatture i lumi e le notizie necessarie a trattarne nella enciclopedia, soggiunge: C’est ainsi que nous nous sommes convaincus de l’ignorance dans laquelle on est sur la plûpart des objets de la vie, et de la difficulté de sortir de cette ignorance. C’est ainsi que nous nous sommes mis en êtat de démontrer que l’homme de Lettres qui sait le plus sa Langue, ne connoît pas la vingtieme partie des mots; que quoique chaque Art ait la sienne, cette langue est encore bien imparfaite; que c’est par l’extrême habitude de converser les uns avec les autres, que les ouvriers s’entendent, et beaucoup plus par le retour des conjonctures que par l’usage des termes. Dans un attelier, c’est le moment qui parle, et non l’Artiste. (Pisa. 17. Dic. 1827.).

S’andrà schernendo il giovinetto altero Senz’altra (alcuna) pena l’amoroso foco, Chi sarà poi che ’l tuo schernito impero, Voto d’ogni timor non prenda in gioco? Alamanni, Favola di Narcisso, stanza 17. (30. Dic. 1827. Domenica.).

Altronde per altrove. Angelo di Costanzo, Sonetto 44. Mancheran prima ec.

Avale-aguale.

Tallo-θαλλός.

Frugare — Frugolare. Malm. racq. 10.mo cantare, stanza 44. Spruzzo — Spruzzolo. Menzini, Satira 9. verso 48.

Cosa curiosa, e notabile per chi vuol conoscere la storia, e dalla storia inferire il valore, delle opinioni degli uomini intorno ai diritti e ai doveri, si è che ne’ secoli passati, i Negri erano creduti d’una origine e quindi d’una famiglia stessa co’ bianchi, e pur quei medesimi che li tenevano per tali, sostenevano la ineguaglianza naturale di diritti tra i bianchi e loro, la inferiorità dei Negri, e la giustizia della loro servitù, anzi schiavitù ed oppressione: oggi i Negri sono conosciuti di origine, e però di famiglia, onninamente diversa dai bianchi, e quelli che gli hanno per tali, sostengono la loro uguaglianza sociale rispetto a noi, e la parità de’ loro diritti, e la totale ingiustizia del farli schiavi, o maltrattarli, o dominarli, e l’assurdità dell’opinione antica in tal proposito. (Pisa 14. Gen. 1828.).

Alla p. 4298. Oh gente santa, Che non piscia lì dove vede impresso Segno di croce! Menzini, Sat. 9. vers.56-8.

Al detto altrove di non pareil per senza pari, grecismo; e di pareil, parejo, apparecchiare ec. diminutivi positivati ec. aggiungi. Chiabrera Canzonette, canzonetta 8.va al Sig. Luciano Borzone pittore (principio: Se di bella, che in Pindo alberga, musa) stanza 6 ed ult. versi 50-54 ed ultimi. Ah sciocchezza infinita Di qualunque sia core, E follia non parecchia! (senza pari) Pianger perchè si more, E non perchè s’invecchia . (Pisa. 15. Gennaio. 1828.).

Altronde per altrove. Giusto de’ Conti, Bella Mano, Canz. 2. st. 5. Capit. 4. v. 8.

Infamato per infame. Id. ib. Capit. 3. v. 88. Dannata (per dannevole) vista, e di mirarsi indegna . Chiabr. Canz. Cosmo, sì lungo stuol, lieto in sembianza. v. 25. stanz. 4. v. 1. Patito. Viso patito. Uomo, cavallo, panno patito ec. Si dice anche in Toscana.

Memorie della mia vita. La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio, e più speranze che desiderii ec. (Pisa. 19. 1828.).

V’è di quelli ostinati, Che per un blittri (della qual voce, derivata dal greco, dico altrove: vuol dire per un nulla) categorematico Lascerian stare la broda e ’l companatico. Magalotti, Sonetto colla coda; che incomincia: Acciò conosca ognun quanto diverso. vers.27-29. Parla de’ fanatici scolastici e peripatetici del suo tempo. (Pisa. 22. 1828.).

Raperonzo — raperonzolo. Cotogno — cotognolo. V. Crus.

τρίβειν — trebbiare, forse da tribulare, che forse è un frequentativo di un inusitato tribere da τρίβειν. (Pisa. 28. 1828.).

E disse fra suo core: l’ho mal fatto. Pulci Morg. maggiore, XII. 28.

Disse Rinaldo: A te, sanza altre scorte, (nessuna scorta) Venuti siam per l’oscura foresta. Ib. canto 17. st. 35.

E disse fra suo cor: costui fia quello. Ib. c. 22. st. 228.

Sottosopra fu buon sempre l’ardire: Ha la fortuna in odio un uom da poco, Ed è nimica de gli sbigottiti (soliti a sbigottirsi ec.). Berni, Orl. inn. c. 35. st. 3.

Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacchè gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive). Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura. In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a se, ec. (Pisa. 5. Feb. 1828.).

Uno de’ maggiori frutti che io mi propongo e spero da’ miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de’ miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d’altri: (Pisa. 15. Apr. 1828.) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch’io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa. 15. Feb. ult. Venerdì di Carnevale. 1828.).

Pelo matto, pasta matta ec. — μάτην, μάταιος.

Ciascuna stella negli occhi mi piove Della sua luce e della sua vertute. Dante Rime, lib. 2. Ballata 3. Io mi son pargoletta bella e nova. (Pisa. 19. Marzo Festa di S. Giuseppe. 1828.).

Βομβεῖν — bombire. A. di Costanzo, Stor. del R. di Napoli, lib. 6. nella traduzione della lettera del Petrarca sopra il terremoto di Napoli. (Pisa. 12. Apr. Sabato in Albis. 1828.). V. Crusca.

Prolato as.

M. Newton avoit donné la solution de ce problême...; e M. Fatio de Duillier venoit d’en publier une solution très embarassée... M. Bernoulli, effrayé des calculs de M. Fatio, se mit à cercher par une autre voie le solide de la moindre résistance, et ne fut pas long-tems à le trouver. Les grands Géometres connoissent certe éspece de paresse qui préfere la peine de découvrir une vérité à la contrainte peu agréable de la suivre dans l’ouvrage d’autrui; en général ils se lisent peu les uns les autres, (Nota. Nous ne disons point qu’ils ne se lisent pas, mais qu’ils se lisent peu: en ce genre un coup d’oeil jetté sur un ouvrage suffit aux maîtres pour le juger. Il n’en est pas de même en Littérature.) et peut-être perdroient-ils à lire beaucoup: une tête pleine d’idées empruntées n’a plus de place pour les siennes propres, et trop de lecture peut étouffer le génie au lieu de l’aider. Si elle est plus nécessaire dans l’étude des Belles-Lettres que dans celle de la Géométrie, la différence de leurs objets er des qualités qu’elles exigent, en est sans doute la cause. La Géométrie ne veut que découvrir des vérités, souvent difficiles à atteindre, mais faciles à reconnoître dès qu’on les a saisies; et elle ne demande pour cela qu’une justesse et une sagacité qui ne s’acquierent point. Si elle n’arrive pas précisément à son but, elle le manque entièrement; mais tout moyen lui est bon pour y arriver; et chaque esprit a le sien, qu’il est en droit de croire le meilleur: au contraire, le mérite principal de l’éloquence et de la Poësie, consiste à exprimer et à peindre; et les talens naturels absolument nécessaires pour y réussir, ont encore besoin d’être éclairés par l’étude réfléchie des excellens modeles, et, pour ainsi dire, guidés par l’expérience de tous les siècles. Quand on a lu une fois un problême de Newton, on a vu tout, ou l’on n’a rien vu, parce que la vérité s’y montre nue et sans réserve; mais quand on a lu et relu une page de Virgile ou de Bossuet, il y reste encore cent choses à voir. Un bel esprit qui ne lit point, n’a pas moins à craindre de passer pour un écrivain ridicule, qu’un Géometre qui lit trop, de n’être jamais que médiocre. D’Alembert, Éloge de M. Jean Bernoulli . Non si potrebbe dire della metafisica appresso a poco il medesimo che della Geometria, e così scusare chi in metafisica amasse più di pensare che di leggere; chi pretendesse di essere metafisico senz’aver letto o inteso Kant; chi si contentasse talvolta di conoscere i risultati e le conclusioni delle speculazioni e ragionamenti de’ metafisici celebri, per poi trovarne da se stesso la dimostrazione, o convincersi della loro insussistenza? La metafisica ha colle matematiche non poche altre somiglianze: anche in metafisica una proposizione dipende spesso da una serie di proposizioni per modo ch’è impossibile vederne colla mente la dimostrazione tutta in un punto; e spesso chi è salito per questa serie fino a quell’ultima verità, ne acquista la convinzione, e ne vede allora perfettamente le ragioni, che d’indi a poco non saprebbe più rendere nemmeno a se stesso, benchè la convinzione gli duri. Anche in metafisica, come in affari di calcolo, moltissime proposizioni e verità si credono sulla sola fede di chi ha fatto il lavoro necessario per iscoprirle e renderle certe; lavoro troppo lungo e difficile per essere rinnovato e rifatto, o seguito a passo a passo da altri, anche uomini della professione. (Pisa. 17. Aprile. 1828.). — (Il cui genio (di Laplace) è per me come quei Veri che pochi veggono, ma che son creduti da tutti, perchè uno spirito superiore li vede e li mostra. Daru, Risposta al discours de réception di Royer-Collard all’Accad. Franc. nell’Antologia di Firenze, n.86. p. 138.).

Alla p. 4264. De toutes les langues cultivées par les gens de lettres, l’italienne est la plus variée, la plus flexible, la plus susceptible des formes différentes qu’on veut lui donner. Aussi n’est-elle pas moins riche en bonnes traductions, qu’en excellente musique vocale, qui n’est elle-même qu’une éspece de traduction. D’Alembert, Observations sur l’art de traduire, premesse al suo Essai de traduction de quelques morceaux de Tacite.

Les taches qu’on peut faire disparoître en les effaçant, ne méritent presque pas ce nom; ce ne sont pas les fautes, c’est le froid qui tue les ouvrages; ils sont presque toujours plus défectueux par les choses qui n’y sont pas, que par celles que l’auteur y a mises. Id. ib. (Pisa. 8. Maggio. 1828.).

Alla p. 4298. fine. In Pisa, su un canto della piazza dello Stellino, oltre la croce dipinta, v’è la leggenda: Rispetto alla Croce. V. p. 4307.

Nous n’acquérons guere de connoissances nouvelles que pour nous désabuser de quelque illusion agréable, et nos lumieres sont presque toujours aux dépens de nos plaisirs. D’Alembert, Réflexions sur l’usage et sur l’abus de la philosophie dans les matieres de goût, lues à l’Académie Françoise le 14 mars 1757.

E molte forti a Pluto alme d’eroi Spinse anzi tempo, abbandonando i corpi Preda a sbranarsi a’ cani ed agli augelli. Foscolo. Molte anzi tempo all’Orco Generose travolse alme d’eroi, E di cani e d’augelli orrido pasto Lor salme abbandonò. Monti. E così gli altri. Ma Omero dice le anime (ψυχὰς) ed essi (αὐτοὺς), cioè gli eroi, non i loro corpi. Differenza non piccola, e secondo me, non senza grande importanza a chi vuol conoscere veramente Omero, e i suoi tempi, e il loro modo di pensare. Questa infedeltà, non di stile e di voci solo, ma di sostanza e di senso, nata dall’applicare alle parole d’Omero le opinioni contemporanee a’ traduttori; questa infedeltà, dico, commessa nel primo principio del poema, anche da’ traduttori più fedeli, dotti ed accurati, e in un caso in cui le parole son chiare e note, mostra quanto sia ancora imperfetta l’esegesi omerica (e in generale degli antichi), e quanto spesso si debba trovare ingannato, quanto spesso insufficientemente informato, chi per conoscere Omero, e gli antichi, e i loro tempi, costumi, opinioni ec. si vale delle traduzioni sole, e fonda su di esse i suoi discorsi ec. come per lo più i più eruditi francesi d’oggidì ec. ec. (Pisa. 10. Maggio. 1828. Sabato.).

Il est sans doute des lecteurs qui ne sont difficiles ni sur le fond ni sur le style de l’histoire; ce sont ceux dont l’ame froide et sans ressort, plus sujette au désoeuvrement qu’à l’ennui, n’a besoin ni d’être remuée, ni d’être instruite, mais seulement d’être assez occupée pour jouir en paix de son existence, ou plutôt, si on peut parler ainsi, pour la dépenser sans s’en appercevoir. D’Alembert, Réflexions sur l’histoire . I più degli oziosi sono piuttosto disoccupati che annoiati. Si dice male che la noia è un mal comune. La noia non è sentita che da quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Agli altri ogni insipida occupazione basta a tenerli contenti; e quando non hanno occupazione alcuna, non sentono la pena della noia. Anche gli uomini sono, la più parte, come le bestie, che a non far nulla non si annoiano; come i cani, i quali ho ammirati e invidiati più volte, vedendoli passar le ore sdraiati, con un occhio sereno e tranquillo, che annunzia l’assenza della noia non meno che dei desiderii. Quindi è, che se voi parlate della noia inevitabile della vita ec. ec. non siete inteso ec. ec. (Pisa. 15. Maggio. Ascensione. 1828.).

On peut dire en un sens de la Métaphysique que tout le monde la sait ou personne, ou pour parler plus exactement, que tout le monde ignore celle que tout le monde ne peut savoir. Il en est des ouvrages de ce genre comme des pieces de théatre; l’impression est manquée quand elle n’est pas générale. Le vrai en Métaphysique ressemble au vrai en matiere de goût; c’est un vrai dont tous les esprits ont le germe en eux-mêmes, auquel la plûpart ne font point d’attention, mais qu’ils réconnoissent dès qu’on le leur montre. Il semble que tout ce qu’on apprend dans un bon livre de Métaphysique, ne soit qu’une éspece de réminiscence de ce que notre ame a déjà su; l’obscurité, quand il y en a, vient toujours de la faute de l’auteur, parce que la science qu’il se propose d’enseigner n’a point d’autre langue que la langue commune. Aussi peut-on appliquer aux bons auteurs de Métaphysique ce qu’on a dit des bons écrivains, qu’il n’y a personne qui en les lisant, ne croie pouvoir en dire autant qu’eux. D’Alembert, Essai sur les élémens de philosophie, article 6. È facile il vedere che tutti questi periodi sono traduzioni l’uno dell’altro; ma la proposizione ch’essi contengono, è molto vera e notabile. (Pisa. 19. Maggio. 1828.).

Alla p. 4305. Pietro Aretino dice in una delle sue commedie: un cavalier senz’entrata è un muro senza croci, scompisciato da ognuno . Ginguené, t. 6. p. 229. not. (Pisa. 19. Maggio. 1828.).

Corpusculum per corpus. M. Aurelio in Frontone ( ad Marcum Caesarem et invicem , lib.5. ep. 47. 55. ed. Rom. 1823. p. 135-37.). Notisi che M. Aurelio era stoico.

Expergitus per experrectus. Fronto Princip. histor. ed. Rom. p. 319. v. 9.

Arcus intenditus per intentus. Ib. De Feriis alsiensibus, ep. 3. p. 208. v. 15.

Il codice frontoniano ha dilibutus, e 3 volte dilectus per delibutus e delectus. Così noi dilicato, e di preposiz. per de. Al che spettano que’ verbi latini digredior, diverto, diminuo, distillo, distringo, divello (e simili): tutti i quali nel detto codice si trovano scritti per de.

M. Aurelio nelle lett. a Frontone chiama costantemente Faustina sua moglie, domina mea (la mia donna). V. il luogo di Epitteto di cui altrove.

Leggendo la curiosa lettera di Vero a Frontone (ad Ver. imp. ep. 3. ed. Rom.) in cui lo prega di scrivere la storia delle gesta di esso Vero nella guerra partica, mi par proprio di leggere una lettera di qualche moderno scrittore a un giornalista sopra qualche sua opera. Lo stesso amor proprio, esagerazione, noncuranza del vero ec. E in verità quella lettera (v. anche quella di Cic. a Lucceio) ci mostra quanto dobbiamo fidarci di storie, anche contemporanee. Ma che differenza tra gli antichi e i moderni ancor qui! Questi raccomandano 1. delle operucce, 2. a un giornalista, 3. per un articolo; quelli 1. de’ fatti militari o civili, 2. a uomini famosi, 3. per una storia ec. ec. La lett. di Vero è senza niuna diversità nell’ediz. milanese e meriterebbe di esser citata tradotta. (Firenze. 21. Giugno, anniversario del mio primo arrivo a Firenze. 1828.).

Tanto è vero che tra gli antichi la prima lode era quella della felicità, che noi vediamo nelle Orazioni funebri, e in simili casi, gli Oratori dovendo lodare, p. e. de’ soldati morti per la patria, cominciar dal mostrare che essi non sono stati infelici, che la loro morte non è stata una sventura. Oggi al contrario: si cercherebbe d’intenerir gli uditori sopra il loro caso: il muover la compassione in tali circostanze era cosa al tutto ignota, era un vero controsenso presso gli antichi. Le loro Oraz. fun. sono tutte consolatorie.

Dionigi D’Alic. nei giudizi sopra gli scrittori antichi biasima Tucidide per aver preso un argomento di storia che conteneva le sventure della sua patria (Atene), e loda al paragone Erodoto per aver preso a tema le vittorie de’ greci sui barbari. Anche nelle storie questi rispetti, e a’ tempi di Dionigi. (Firenze 29. Giugno, dì di S. Pietro, e mio natalizio. 1828.).

Solone appo Erodoto 1. c. 32. parlando a Creso della costui prosperità chiama la divinità invidiosa τὸ θεῖον πᾶν ἐὸν (cioè ὂν) φθονερόν. (29. Giu. 1828.).

Paul-Louis Courier, Lettre à M. Renouard, libraire, sur une tache faite à un manuscrit de Florence, parlando del Longo di Amyot, da lui corretto nei luoghi dove la traduzione non rispondeva al testo, e supplito colla traduzione nuova del frammento fiorentino: Mais ce n’est pas seulement le grec et le français qui m’ont servi à terminer cette belle copie (la traduzione d’Amyot), après avoir si heureusement rétabli l’original (cioè completato il testo colla scoperta del supplemento fiorentino); ce sont encore plus les bons auteurs italiens, d’où j’ai tiré (per questo lavoro) plus que des nôtres, et qui sont la vraie source des beautés d’Amyot; car il fallait, pour retoucher et finir le travail d’Amyot, la réunion assez rare des trois langues qu’il possédait et qui ont formé son style. (Fir. 30. Giug. 1828.).

Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d’attraits, più d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione. Così almeno è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventù: così anche ad altri che se ne intendono (M. Merle). Ma veramente una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità. Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell’oggetto. La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in quelle altre donne troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi più inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare una corrispondenza seco. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi. (Fir. 30. Giu. 1828.).

danske folkeeventyr. Contes populaires des Danois; recueillis per M. Winther. 1.re part. ; Copenhague; 1823. Récemment M. Thiele a publié 2 volumes de traditions et croyances populaires des Danois. Le recueil de M. Winther est à peu près du même genre. L’auteur a recueilli les contes qui amusent le paysan pendant les longues soirées d’hiver; il est assez remarquable que les Danois se soient appropriés de bonne heure les contes et fables des anciens, en transportant la scène sur leur territoire; c’est ainsi que le héros du conte d’Apulée, l’Âne d’or, est devenu un bondekard, ou jeune paysan danois, sous le nom de Hans: le principal personnage de la fable d’Amour et Psyché s’est transformé en prince Hvidbjaern (ae) dans lequel les Grecs auraient de la peine à reconnaître leur Amour. Les contes des Fées qui, dans l’ouvrage de Perrault, ont presque tous un caractère français, deviennent également danois sur les bords de la Baltique: Cendrillon est transformée en Kokketoes (oe), etc. D-G. (Depping). Bulletin Universel des sciences et de l’industrie, publié sous la direction de M. le B. de Férussac. 7.me Section. Bulletin des sciences historiques, antiquités, philologie. 1.re année; 1824; Avril. tome 1.r article 241. p. 209-10. (Firenze. 23. Luglio. 1828.).

M. Bredsdorff (Om Rune skriften oprindelse. i.e. Sur l’origine des caractères runiques; par Jacq. Hornemann Bredsdorff. In-4. 19 pag. Copenhague 1822.) pense que l’alphabet runique est dérivé de l’alphabet moesogothique (oe), dont on attribue l’invention à l’evêque Ulphilas, qui s’en servit pour écrire sa traduction du Nouveau-Testament, au 4.e siècle. Bulletin de Férussac, lieu cité ci-dessus, art. 243. 244. p. 211. (23. Luglio. 1828.). V. p. 4362.

De invidia, diis ab Herodoto et aequalibus attributa, pauca commentatus est P. Möller. 31. p. In-4. Copenhague. Bulletin de Férussac, l. c. art. 279. p. 240. (24. Luglio. 1828.).

Da applicarsi alle mie riflessioni sopra Omero e l’epopea. Avant de passer aux ouvrages d’Homère, l’auteur (Ideen über Homer, etc. Idées sur Homère et sur son époque; par C. E. Schubarth. In-8.o de 364 pag. ; Breslau; 1821.) dépeint (p. 108-134.) le caractère et les moeurs des deux nations qui combattent devant Troie. Il résulte de ce parallèle que les Grecs ont tous les vices des peuples sauvages; ils cédent a toutes les impulsions; la violence, l’indiscipline, les terreurs superstitieuses règnent dans leur camp. Ce n’est pas parmi eux, c’est chez les Troyens, que l’on trouve l’ordre, l’union, l’amour de la patrie, et ces sentimens généreux, qui font croire à une civilisation naissante, ou même déjà avancée. C’est sous ce point de vue, qui est conforme à ce que nous lisons dans Homère, que M. Schubarth envisage l’Odyssée et l’Iliade. Dans l’Iliade, Homère a chanté une guerre qui doit se terminer par la destruction de Troie, mais dont l’auteur laisse à peine entrevoir l’issue funeste placée avec art dans une perspective vague et lointaine. L’Odyssée retrace les suites malheureuses de cetre lutte. Les Troyens sont pour le lecteur l’objet d’une tendre pitié et de ce sentiment d’admiration, que font naître les actions nobles et généreuses, le patriotisme et le dévouement; toutefois ils doivent succomber après dix ans d’une défense héroïque, car ils sont inférieurs en nombre, et le Destin leur est contraire. Par opposition à certe peinture, Homère nous montre les Grecs animés d’un esprit de vengeance, vains, présomptueux, en proie à la discorde, toujours prêts à abuser de leur force. Le sort veut la ruine de Troie, et les Troyens supportent avec résignation ce malheur, qu’ils n’ont pas mérité, mais que les dieux leur envoient; tandis que les Grecs ne doivent qu’à eux-mêmes, à leur propres fautes, aux vices grossiers auxquels ils s’abandonnent, les justes punitions que ces mêmes dieux leur infligent.

C’est par des inductions semblable que M. Schubarth (p. 139-238.), s’ecartant de l’opinion reçue, essaie de démontrer que l’auteur des deux épopées grecques est né sur le sol de Troie (cioè dov’era stata Troia). Il faut convenir, en effet, que le poëte (car M. Schubarth n’admet pas avec Wolf que l’Iliade et l’Odyssée soient des productions dues à plusieurs rhapsodes), s’il eût été Ionien, aurait choisi pour la première de ses épopées un sujet bien étrange, bien peu propre à flatter les Grecs, auxquels il n’accorde d’autres avantages que ceux qui naissent de la supériorité des forces physiques. Tant que dure la guerre, la discorde les divise, et ils ne déploient d’autre vertu que leur courage; mais ce courage est sauvage et vindicatif. Sortis enfin victorieux de la lutte, c’est par de nouveaux désordres et de sanglantes querelles qu’ils signalent ce retour à la paix.

Il est très-remarquable que le poëte ait interrompu son chant au moment même où il n’aurait pu éviter de parler de la prise de la ville, et de tracer le tableau de sa destruction. Est-il vraisemblable qu’il se fût arrêté si brusquement, et eût négligé de célébrer un événement favorable aux Grecs, s’il s’avait eu à coeur de faire oublier aux Troyens, ses compatriotes, l’instant malheureux de leur chute[a]

(M. Schubarth n’a donc pas remarqué qu’Homère ne chante que la colère d’Achille et non la guerre entière de Troie? N. du R .).

[Chiudi]? On voit partout, dans l’Odyssée comme dans l’Iliade, que le poëte porte de l’affection aux Troyens. Énée, roi futur de Troie, ce héros favorisé des dieux, est sauvé par Neptune, le plus puissant dieu des Grecs. Leur plus dangereux ennemi, Hector, est peint sous des couleurs toujours favorables. Hector a le sentiment de la justice de sa cause; il n’est pas même soutenu par l’espoir du succès; mais il est pénétré de ses devoirs envers la patrie; il s’arrache aux affections les plus tendres, et s’immole sans hésiter. Sa mort est une expiation volontaire d’un seul instant d’oubli, d’une faute qui n’est pas la sienne. Mais les dieux, qui l’ont mal récompensé pendant sa vie, viennent eux-mêmes assister à ses funérailles, tandis qu’Achille vainqueur est tourmenté du pressentiment et des angoisses d’une mort prochaine.

Les bornes de ce journal ne nous permettent pas de donner plus d’étendue à cette analyse. Nous ne pouvons qu’engager nos lecteurs à lire dans l’ouvrage même ce que dit M. Schubarth pour appuyer une hypothèse qui nous paraît admissible, et qu’il développe avec un talent remarquable. (Cavato e tradotto dall’Jena. allg. Lit. Zeit. Gazzetta letteraria di Iena, Settemb. 1823.). Bulletin de Férussac, ec. loc. sup. cit. Juillet. tome 2. art. 54. p. 45-47.

Dalle mie riflessioni sopra Omero ec. si vede quanto male dai costumi fieri e selvaggi, dallo spirito di vendetta, dai vantaggi puramente fisici attribuiti da Omero ai Greci, e dalla compassione attaccata alla sorte dei Troiani, si arguisca che l’Iliade e l’Odissea furono composti in ispirito troiano e non greco, e quindi apparentemente per li Troiani, o nati sul suolo troiano, e non per li Greci di Jonia. Anzi si vede che appunto da queste cose medesime si dee concludere il contrario. (24 6. Lug. 1828.). V. p. 4447.

Da applicarsi pure alle mie riflessioni sopra Omero e l’epopea. Homerische Vorschule, etc. Introduction à l’étude de l’Iliade et de l’Odyssée; par W. Müller. 192. p. in 8. Leipzig; 1824. Élève du philologue Wolf, M. Müller annonce dans la préface qu’il est intimement persuadé de la vérité et de la solidité des opinions développées par son maître dans ses fameux Prolégomènes de l’Iliade, et qu’ayant médité sur ce sujet après avoir suivi les cours de Wolf, il croit devoir présenter une suite de considérations que cette matière lui a suggérées. Il avertit, en passant, le public de se mettre en garde contre les hypothèses trop hasardées que quelques savans cherchent à faire accréditer; il rappelle notamment les opinions de Payne Knight, savant anglais, mort récemment, et de Bernard Thiersch, qui n’est pas l’auteur de la Grammaire grecque publiée par M. Thiersch à Munich. M. Müller s’étonne que la nouvelle société littéraire de Londres ait couronné récemment un mémoire dans lequel on fait d’Homère le copiste de Moïse. ( Dissertation on the age of Homer, his writings and bis genius. Londres; 1823.).

Pour bien comprendre la manière dont l’Iliade et l’Odyssée ont été composées, il faut se pénétrer de l’esprit et des moeurs du peuple ionien. Ces colons grecs, amis des arts et de la poésie, avaient l’esprit vif et mobile, et s’interessaient avec la candeur de l’enfance aux événemens. Un poëte était chez eux le compagnon constant de tous les plaisirs. Partout où l’on se rassemblait, dans les banquets comme dans les assemblées publiques, la lyre du poëte faisait partie des réjouissances. Le poëte, ainsi que le ménestrel au moyen âge, exerçait un état généralement honoré, et était accueilli avec hospitalité partout où il faisait résonner sa lyre. Il ne chantait sans doute que ses inspirations particulières, qui souvent étaient des improvisations . (I menestrelli cantavano ben cose d’altri, e non solo d’altri, ma scritte espressamente dai dotti del tempo, in versi, per esser cantati o recitati da quelli. V. l’articolo del Perticari sopra il poemetto della Passione di Cristo attribuito al Boccaccio.) Ces morceaux n’étaient probablement pas très-longs, car dans les usages anciens nous ne voyons jamais les chants du poëte que comme des intermèdes. (Quando il poeta o il cantore cantava nelle piazze ec. in mezzo al popolo, come s’usa anche oggi, come a Napoli un del volgo legge alla plebe il Furioso o il Ricciardetto ec. e lo spiega in napoletano; allora i canti non erano intermezzi, erano come furon poi gli spettacoli ed acroamata.[a]

V. p. 4388.

[Chiudi]) La guerre de Troie, qui, sous tous les rapports, était un sujet propre à la poésie, était à peine finie, que dans les villes d’Ionie la lyre accompagnait déjà les vers composés sur cet événement national. Homère se distinguait parmi eux; mais il est évident qu’avant ce poëte l’usage des chants lyriques sur les événements publiques existait, et qu’il n’a point été le premier chantre national. (Femio, Demodoco ec.) Le rhythme de sa poésie prouve que ses vers étaient chantés et accompagnés de la lyre, peut-être aussi de la danse, du moins de mouvemens rhythmiques. (Il nome di ἔπη, di epico, di epopea, di ἐποποιὸς applicato con particolarità ai versi, poemi, e poeti narrativi, prova, secondo me, sì per la sua etimologia, o senso primitivo, di parola (ἔπος), dire (ἔπω, εἴπω) ec., sì per la distinzione da μέλη, μελικὸς, μελοποιὸς ec. che le poesie narrative non avevano alcuna melodia, non erano cantate ma recitate, o al più cantate a recitativo, come poi i versi non lirici de’ drammi, e come si canterebbero i nostri endecasillabi sciolti. Il verso epico (quasi parlativo) era la prosa di que’ tempi, ne’ quali non si componeva se non in versi. Omero, dice assai bene il Courier, nella pref. al Saggio di traduz. di Erodoto, fu uno storico, a que’ tempi che le storie non si solevano nè sapevano ancora narrare in prosa. Non credo dunque ben dette liriche le sue poesie, sebben forse accompagnate da qualche strumento, come i recitativi de’ drammi. V. p. 4328. capoverso 1. e p. 4390. fin.).

Il est ridicule de chercher dans les poësies homériques de savantes allégories et un sens profond: les poëtes ioniens rendaient naturellement les impressions faites sur leur imagination par les actions des héros, et ne se livraient point à des combinaisons étudiées; c’est la vie publique et particulière de leur temps qu’ils nous retracent et rien de plus. Ils n’écrivaient point, ils chantaient, et leurs inspirations se transmettaient par la tradition comme chez des peuples modernes à moitié barbares. (Le conseiller aulique Thiersch a lu ensuite (à la séance publique de la classe de philologie et d’histoire, de l’Académie des sciences de Munich, le 14 août, 1824.) un mémoire sur les poésies épiques transmises de bouche en bouche par le peuple. Ce qui a donné lieu à ce mémoire, c’est un écrit du professeur Vater à Halle, sur les longues poésies héroïques serviennes récemment publiées, et comparées à celles d’Homère et d’Ossian. Bull. de Férussac etc. Novemb. 1824. t. 2. art. 302. p. 321.) (V. p. 4336. fine.)

On a voulu voir un art savant dans les divers dialectes qui se trouvent dans Homère. Ce prétendu mélange des dialectes n’est point l’ouvrage du chantre: de son temps les Ioniens parlaient ainsi, et ce n’est que plus tard que la langue grecque se modifia, et que diverses provinces telles que l’Éolie, l’Ionie et la Doride conservèrent des restes de l’ancien idiome, restes qui alors furent considérés comme autant de dialectes divers.

Il paraît qu’ Homère a vécu au 2.e siècle après la destruction de Troie. L’éclat de son génie a fait oublier les noms des autres poëtes qui chantaient comme lui les hauts-faits des Grecs. Mais sans doute il a chanté comme eux des chants lyriques détachés, et il n’a probablement jamais songé à composer un poëme épique, et encore moins à en écrire un. De là ce qu’on dit de sa cécité et de son indigence, il aura passé dans la suite pour aveugle parce qu’il n’avait rien écrit; il aura passé pour indigent parce qu’il allait d’une ville a l’autre. Après sa mort, la réputation de ses chants alla toujours en croissant; les poëtes, perdant d’ailleurs le génie inventif, chantèrent les poésies d’Homère; il y eut alors des homérides. Pour flatter la vanité des villes dans lesquelles ils chantaient, ils intercalaient dans ces vers de leur prédécesseur, des éloges de villes et de peuples. On prétend que Lycurgue fut le premier qui fit rassembler et rédiger les poésies d’Homère. Mais ce législateur qui ne fit pas écrire ses propres lois, comment se serait-il occupé à faire écrire des vers dans Sparte ville pauvre et grossière? Solon régla l’ordre dans lequel les chantres dans les fêtes publiques (in queste, tali poésie non erano, apparemment, intermezzi, tanto più se si cantavano in ordine) devaient chanter les diverses poésies homériques, et Pisistrate les fit diviser ensuite en deux grands poëmes, l’Iliade et l’Odyssée. Aristarque les subdivisa en 24 livres d’après le nombre des lettres de l’alphabet grec. Alors se présenta une classe d’hommes, les diaskeuastes, espèce de censeurs ou de critiques qui cherchèrent à mettre de l’harmonie et de l’accord dans ces chants ainsi réunis et coordonnés; ils lièrent des parties détachées, levèrent des contradictions, supprimèrent des vers, des passages interpolés, etc. Mais ce travail ne fut pas fait avec assez d’art pour qu’on ne découvre des traces de leurs soudures; et leur jugement ne fut pas toujours assez sain pour qu’ils sussent distinguer ce qui appartenait à Homère d’avec les interpolations de ses successeurs. À l’exemple de Wolf, M. Müller signale plusieurs passages qui paraissent prouver que l’Iliade et l’Odyssée n’avaient point cette unité que ces poëmes presentent aujourd’hui, et qu’ils n’étaient dans l’origine que des chants lyriques détachés. Cependant Aristote ne les considéra que sous la forme qu’on leur avait donnée à Athènes, et célébra Homère comme poëte épique. Depuis, on ne vit plus dans l’Iliade et l’Odyssée que deux poëmes épiques. Assurément il règne une sorte d’unité dans chacun de ces deux poëmes; mais c’est la même qu’on trouve, par exemple, dans les romances espagnoles sur le Cid, lorsqu’on les lit de suite. Dans l’Odyssée on pourrait enlever les 4 premiers chants et la moitié du 15.e sans nullement faire tort à la marche de l’action; c’est que le poëte ne les vivait jamais reunis et n’avait jamais pensé faire un grand poëme. D’un autre côté l’Iliade et l’Odyssée ont des lacunes que les diaskeuastes n’ont pas été capables de cacher. Dans l’Iliade le i.er et le 5.e chants commencent par les mêmes récits: dans le 5.e les événemens sont racontés comme si le poëte n’en avait jamais parlé. Les débuts des deux poëmes paraissent avoir été ajoutés par les diaskeuastes. Suivant l’usage de l’ancien temps, les homérides faisaient précéder leurs chants d’une invocation religieuse. Ce sont-là les prétendus hymnes homériques qui n’ont de commun avec le grand poëte que d’avoir été chantés pour le début de ses morceaux liriques. D. G. (Depping.) Bulletin de Férussac, loc. cit. alla p. 4312. Octobre, 1824. tome 2. art. 239. p. 231-234.

In questa ipotesi, che è quasi una transazione coll’opinion comune, poichè riconosce l’esistenza di Omero, ed ammette in qualche modo l’unità di autore dell’Iliade e dell’Odissea, a differenza di Wolf che attribuisce quei poemi a vari autori, e di B. Constant, che li attribuisce a due; io ammetto assai volentieri che Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, nè anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno, cioè di fare una lunga poesia che avesse un principio, mezzo e fine corrispondenti, che formasse un tutto rispondente ad un certo disegno, che avesse una qualunque circoscritta e determinata unità. Credo che incominciasse le sue narrazioni dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta, le terminasse quando fu sazio di cantare, senza immaginarsi di esser giunto a uno scopo, senza intender di dare una conclusione al suo canto, nè di aver esaurita la materia o de’ fatti, o del suo piano, che nessuno egli n’ebbe.

Aggiungo che credo ancora che i suoi versi fossero ritmici, non metrici, fatti cioè ad un certo suono, non ad una regolata e costante misura; alla quale (mediante però l’ammissione di quelle loro infinite irregolarità ed anomalie, che furono chiamate e si chiamano eccezioni, licenze, ed ancora regole) fossero ridotti in séguito dai diascheuasti ec. Così è probabile che originalmente e nell’intenzione dell’autore fossero ritmici i versi di Dante, ridotti poi per lo più metrici nello stesso secolo, 14.o. E così, come ha provato un loro dotto editore, il Dott. Nott, che mi ha eruditamente parlato di questa materia, furono puramente ritmici i versi dell’inglese Chaucer. Lo furono ancora certamente quelli de’ più antichi verseggiatori nostri, provenzali, spagnuoli, francesi. V. p. 4334.4362.

Ma quello in cui la mia ragione non può trovare una probabilità, non solo nel caso di Omero, ma nè anche in quelli di Ossian e di qualunque altro si possa addurre in proposito, è che dei canti, certo in ogni modo assai lunghi, improvvisati p. e. a un convito o ad una festa pubblica, in mezzo a gente ubbriaca o dal vino o dalla gioia ec., da un poeta, forse ancor esso οὐ νήφοντος in quel momento, e ciò in un secolo privo di stenografi e di tachigrafi; dei canti che, secondo ogni verisimiglianza, dovevano esser dimenticati dal poeta stesso un momento dopo, anzi di mano in mano che li proferiva; si sieno, non solo quanto al soggetto, ma quanto alle parole, conservati nella memoria semplice degli ascoltanti in maniera, che trasmessi poi fedelmente di bocca in bocca per più secoli, distinti ben bene ne’ loro versi (ritmici o metrici poco vale), ora dopo 30 secoli si leggano begli e stampati in milioni d’esemplari, che li conserveranno ai futuri secoli in perpetuo. Apparentemente il Müller, che pone Omero nel secondo secolo dalla guerra troiana, (v. p. 4330. capoverso 3.) non riconosce nelle cose e nelle parole dell’Iliade e dell’Odissea, quei segni di avanzatissima civiltà e letteratura ionica o greca, che a tanti altri (come ultimamente a G. Capponi) sono sembrati così evidentissimi, certissimi ed innumerabili. Altrimenti come si potrebbe credere che quei poemi, da Omero o da altri, non fossero scritti subito? che l’uso della scrittura fosse ignoto o sì scarso in una letteratura e civiltà innoltratissima? come supporre sopra tutto una fiorente letteratura non scritta?

Ma se il Müller vuol persuadermi che i poemi d’Omero non fossero scritti (al che non farò resistenza, tanto più che è conforme alla tradizione ricevuta fra gli antichi stessi, a quel che si dice di Licurgo ec.), mi trovi qualche altro mezzo probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli d’inspirazioni e d’improvvisazioni; mi dica almeno che Omero prima di cantare i suoi versi, li componeva; che li cantava poi più e più volte (a diversi uditorii, o in varie occasioni), colle stesse parole, e quali gli aveva composti e cantati; che gl’insegnava ad altre persone, fossero del volgo, o fossero cantori e genti del mestiere, che solessero impararne da altri, non sapendo farne del loro, e col cantarli si guadagnassero il vitto. Allora, considerata anche la superiorità della memoria avanti l’uso della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e confermata dall’esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la conservazione di canti non scritti, sieno d’Omero o de’ Bardi ec.

Ma posto che Omero componesse veramente e meditatamente i suoi canti, in modo da ricordarsene esso poi sempre, e da insegnarli altrui, allora, esclusa anche ogn’idea di piano, non sarà poi fuor di luogo il supporre tra questi canti una certa tal qual relazione; il pensare che Omero nel compor gli uni, si ricordasse degli altri che aveva composti, e intendesse di continuarli, o vogliamo dire, di continuare la narrazione, senza (torno a dire) tendere perciò ad una meta. Anzi questa supposizione è più che naturale, trattandosi di canti che hanno un argomento comune: è certo che Omero nel compor gli uni di mano in mano, si ricordava de’ precedenti. E non è egli verisimile che li cantasse sovente tutti ad uno stesso uditorio, oggi un canto, domani un altro? che l’uditorio s’invogliasse di ascoltar domani la continuazione della storia d’oggi? (ricordiamoci che allora non v’erano altre storie che in versi) che Omero nel cantare i suoi diversi componimenti seguisse un ordine, quello de’ fatti? (sia il medesimo o altro da quello che si trova oggi ne’ suoi poemi) che seguisse anche quest’ordine nel comporli, cioè, che dopo aver cominciato dove il caso volle, andasse avanti immaginando e narrando, soggiungendo oggi al racconto di ieri, senza (ripeto ancora) mirar mai ad altro, che a tirare innanzi la narrazione?

Così sarà spiegata plausibilmente quella tal quale unità, quanto si voglia larga, ma sempre unità, che si trova ne’ suoi poemi, e massime nell’Odissea, nella quale bisogna pur convenire che è ben difficile il non riconoscere un legame qualunque tra le parti, una continuità nel racconto, un insieme, ed anche un principio e fine, nelle avventure romanzesche di quell’eroe. Ed osservo di più, che nell’uno e nell’altro poema, ma più nell’Iliade, moltissimi sono quei tratti di considerabile lunghezza, ai quali non si potrebbe mai dare un titolo a parte, che non fosse frivolo; staccati dal rimanente, non hanno nessuna ragionevole importanza, e riuscirebbero noiosissimi; essi non possono interessare che dipendentemente dalla relazione e connessione che hanno col resto del racconto, come accade ne’ poemi scritti con piano determinato; e in se stessi non offrono un argomento che potesse mai parer degno d’esser cantato isolatamente. Questi tratti sono troppo numerosi, troppo lunghi, e formano troppo gran parte de’ due poemi, perchè si possano credere interpolati appostatamente da’ diascheuasti per mettere de la liaison tra i canti di Omero.

Le ripetizioni, le cose inutili, le contraddizioni, oltre che a niuno potrebbero far meraviglia in poemi fatti, com’io dico, senza intenzione e senza piano, non annunziano che l’infanzia dell’arte, e non possono parere obbiezioni valevoli, anzi appena obbiezioni, a chi ha pratica e familiarità cogli scrittori antichi; dico assai meno antichi, assai più artifiziosi e dotti che non fu Omero; dico non solo poeti, ma prosatori. Quanto, e come spesso, debbono sudar gli eruditi commentatori per conciliare e por d’accordo seco stesso p. e. qualche antico storico, la cui opera fu certamente scritta, e con piano, e con materiali di fatti scritti da altri, o conservati da tradizione! V. p. 4330.

L’infanzia dell’arte in Omero, è annunziata ancora p. e. dalla sterile soprabbondanza degli epiteti, usati fuor di luogo, senza causa o proposito, e spessissimo, com’è noto, a sproposito. Lo stesso per l’appunto fanno i fanciulli quando scrivono i loro esercizi di rettorica: essi non sono mai semplici, anzi più lontani che alcun altro dalla semplicità. Così la maniera di Omero ha una certa naturalezza, ma non semplicità. Quella era effetto del tempo, non dell’autore: i fanciulli non l’hanno, perchè hanno letto, hanno che imitare, ed imitano. Ma la semplicità, come ho detto e sviluppato altrove, è sempre effetto dell’arte; sempre opera dell’autore e non del tempo. Chi scrive senz’arte, non è semplice. Omero anzi cercava tutt’altro che il semplice, cercava l’ornato, e quella sua naturalezza che noi sentiamo, fu contro sua voglia. I poeti greci posteriori hanno abbondanza di epiteti per imitazione di Omero: i più antichi però ne hanno meno, e più a proposito. V. p. 4328. capoverso 2., e la pag. 4350. fin.

Questa mia ipotesi, come si vede, sarebbe una nuova transazione fra l’opinione di Wolf e di Müller, e la comune. Secondo ambe le ipotesi, la mia e quella de’ due tedeschi, Omero sarebbe stato poeta epico senza volerlo; e sarebbe interessante e curioso il notare il modo della nascita del genere epico, nascita che verrebbe ad essere immaginaria, e pur questa semplice immaginazione avrebbe dato luogo ai lavori epici in che hanno speso la vita eccellentissimi ingegni, come Virgilio e il Tasso: non sarebbe questo il solo caso ridicolo che sarebbe stato originato dalla inclinazione dell’uomo a imitare, ed a sottomettere a regole e a forme il proprio genio. Del resto, ammessa la mia ipotesi, riman sempre luogo a qualche degna lode dell’arte di Omero per l’effetto dell’insieme dell’Iliade, benchè composta senza piano preliminare; l’effetto, dico, osservato nelle mie riflessioni sul poema epico. Ammessa però, in vece, l’ipotesi di Wolf o di Müller, tutta la lode sarà dovuta al solo caso, e risulterà dalle predette mie riflessioni che il caso è molto meglio riuscito nel formare e ordinare un corpo di poema epico, che l’arte de’ successori. E al caso si attribuiranno quelle lodi che io ho date all’arte di Omero per l’insieme del suo poema. Altra circostanza umiliante per lo spirito umano. (Firenze. 26 31. Luglio. 1828.). V. p. 4354. fine.

C’est par Aristote que commencent les écrivains qui emploient ce qu’on appelle le dialecte commun (διάλεκτος κοινή), et Démosthène lui-même n’est plus aussi pur (così puro scrittore attico) que Xénophon et Platon. Bull. de Féruss. loco cit. alla p. 4312. Juillet, 1824. t. 2. art. 13. p. 12. Sui pretesi dialetti d’Omero, v. la p. 4319. capoverso 1. (Fir. 31. Lugl. 1828.).

Alla p. 4318. Infatti Femio e Demodoco nell’Odissea cantano i loro versi narrativi accompagnandosi colla lira. Del resto queste mie osservazioni tendono a rivendicar come antica la differenza ora e da gran tempo riconosciuta fra le poesie lodative, passionate ec. dette liriche, meliche ec. e le narrative, dette epiche. (31. Lug. 1828.).

Alla p. 4326. La mancanza dell’arte necessaria per ottenere il semplice, fu una delle cause che ritardarono nella letteratura greca, già ricca di versi, la produzione di buone prose. Chi non voleva scriver plebeo, chi non era affatto ignorante, sapeva scrivere ornatamente (come sta bene in poesia), ma non (come vuolsi alla prosa) pianamente. La lingua de’ numi, dice il Courier (pref. al Sag. dell’Erodoto), era benissimo posseduta, mentre la lingua degli uomini non si sapeva ancora usare. I primi saggi di prosa greca, come quelli di Ecateo Milesio e di Ferecide, peccano principalmente, come osserva esso Courier, per il poetico che hanno, anche nella dizione. Lo stile riusciva gonfio, non se ne sapevano guardare: in poesia si trovavan più a loro agio, perchè quivi non era gonfiezza quel che lo era nella prosa. Anche Erodoto, a ben guardarlo, ha del poetico e del gonfio in mezzo alla naturalezza propria del tempo. Così noi avevamo Dante, e nessuna prosa di conto fino al Boccaccio. Le migliori erano le più plebee, scritte da’ più ignoranti, senza pretensione, senza neppure intenzione (per dir così), di scrivere. Ma i prosatori che volevano scrivere, riuscivano stranamente gonfi (in mezzo alla naturalezza effetto del tempo e della pochissima lettura), come Dino Compagni, similissimi per la meschina gonfiezza e declamazione, ai fanciulli di rettorica. (31. Lug. 1828.).

Se un buon libro non fa fortuna, il vero mezzo è di dire che l’ha fatta; parlarne come di un libro famoso, noto all’Italia ec. Queste cose diventano vere a forza di affermarle. Molti che l’affermino e lo ripetano, lo rendono vero senz’alcun dubbio. Se, per qualunque ragione, questo mezzo non si può usare, il miglior partito è di tacere, dissimulare, e aspettare se il tempo facesse qualche cosa. Ma niente di peggio che de se fâcher avec le public, gridare all’ingiustizia, al cattivo gusto de’ contemporanei, perchè non fanno caso del libro. Siano giustissime queste querele, sia classico il libro; dal momento che il suo cattivo esito è confessato e pubblicato, la miglior sorte che gli possa toccare è di essere riguardato come quei pretendenti che, privi di baionette, non hanno per se che i diritti e la legittimità. (Firenze. 10. Agosto. 1828. S. Lorenzo.).

Alfabeti. Ortografia. Difficoltà ed imperfezioni della scrittura de’ dialetti p. es. italiani, abbondanti di suoni mancanti all’alfabeto nazionale scritto ec. Arbitrario dell’applicazione dei segni di questo alfabeto ai detti suoni: due persone che si ponessero a scrivere uno stesso dialetto senza saper l’uno dell’altro, nè seguire un metodo già ricevuto, si può scommettere che non iscriverebbero una parola sola nello stesso modo. La più parte dei nostri dialetti hanno un alfabeto di suoni più ricco assai del comune. (Fir. 10. Agos. 1828.).

In letteratura, tutto quello che porta scritto in fronte bellezza, è bellezza falsa, è bruttezza. Verità fecondissima, e ricchissima di applicazioni, che occorrono ad ogni ora. (Fir. 10. Agos. 1828.).

Alla p. 4326. e il cui soggetto fu il vero, e non in gran parte il finto, come in Omero e ne’ poeti. (10. Agos. 1828.).

Dalle mie osservazioni su quel passo di Agatarchide comparato alla storiella di Muzio Scevola, si può dedurre che una delle principali fonti del favoloso trovato, massimamente dal Niebuhr, nella storia romana de’ primi tempi, sia l’avere i primi storici romani (seguiti poi dagli altri) copiato nella narrazione delle origini e de’ tempi oscuri di Roma, le storie o le favole de’ Greci, mutando i nomi. Così hanno fatto i primi storici di quasi tutte le nazioni, anche più recentemente, e ne’ bassi tempi ec. fra’ quali è insigne esempio quel Saxo nella Historia Danica. (10. Agos.).

Alla p. 4323. La presa di Troia, secondo i marmi di Paro, la cui cronologia è ora la più, anzi la generalmente seguìta, si pone nell’anno 108 avanti l’era Cristiana. Bull. de Féruss. ec. loc. cit. alla p. 4312. tom.3. art. 235. p. 275. fin. (10. Agos. 1828.). V. p. 4378.

Tutti dicono che la buona gente è rara assai. Questo in generale. Ma quando si viene al particolare, niente di più comune che il sentirsi dire di una famiglia: è buona gente, di un individuo: è un buon uomo, un buonissim’uomo. Rare volte il contrario: non sarà appena come uno a dieci. E nella pratica, io ho trovato buona gente da per tutto, anche per convivere: tanto che ora, di niente sono meno in pena che di trovar buona gente quella con cui debbo o dovrò avere a fare. Io credo che la bontà negli uomini sia men rara assai che non si crede: anzi, che abitualmente quasi tutti sieno buona gente. E credo che per trovar buona gente da per tutto, e senz’altri esami, non bisogni altro che esser buon uomo esso, ed aver buone maniere. (10. Agos. 1828. dì di S. Lorenzo. Firenze.). V. p. 4333.

Esse erano ancora in età ben giovanile, ma l’amore era scancellato dal loro volto; si vedeva che la gioventù n’era sparita per sempre. (M.lles Busdraghi). (10. Agos. 1828.).

Sur l’idiome moldave; extrait d’un manuscrit de M. le C. te d’Hauterive ( Wilkinson, Tableau de la Moldavie et de la Valachie; traduit par M. de La Roquette, 2.e édit., appendix, n. 9.) Cette langue, rude et grossière, est évidemment d’origine romaine; mais à ce sujet l’auteur établit une hypothèse particulière. Il suppose qu’il existait d’abord à Rome une langue populaire qui avait des articles, des verbes auxiliaires et toutes les formes embarrassantes qui, selon l’auteur, annoncent l’enfance de la civilisation. Pendant que les orateurs et les écrivains créèrent la langue classique, remarquable par sa précision et son élégance, la langue du peuple se propagea dans les provinces de l’empire et s’y modifia dans la suite d’après le génie, ou les relations des habitans. Ainsi, selon le comte d’Hauterive, le français, l’italien, l’espagnol, le moldave, ne sont pas dérivés de la langue de Cicéron et d’Auguste: ces idiomes ont une origine plus ancienne; ils viennent d’une langue antérieure, celle des premiers habitans de Rome. Le moldave surtout lui paraît être un reste de ce langage grossier. À l’appui de cette hypothèse l’auteur donne 6 tableaux, dont les deux premiers font connaître les temps des verbes auxiliaires être et avoir, en français et en moldave. On y voit que le moldave a des temps composés comme le français. Le troisième tableau comprend le verbe moldave iou laud, je loue. Le quatrième tableau tend à prouver que les 4 langues romaines vivantes, c’est-à dire le français, l’italien, l’espagnol et le moldave ont plus de rapport l’une avec l’autre qu’avec le latin. Il semble pourtant que ces exemples ne sont pas tous bien choisis; par exemple, le mot moldave zoon est aussi éloigné du mot français jour que du latin, et le mot moldave pugn ressemble encore plus au latin pugnus qu’au français poing. Dans le cinquième tableau l’auteur a rassemblé des mots communs aux quatre langues modernes, et qui, bien que romains, ne s’accordent pas avec le latin classique: par exemple ignis, se rend dans les quatre langues par feu , fuoco, fuego et fuoc; ensis par sabre (il fallait dire epée), sciabla, espada, sabbia; humerus par épaule, spale (sic), espala (sic), espal. Ces exemples ne prouvent pourtant pas que les 4 langues aient puisé dans un idiome plus ancien que le latin classique, car les mots cités par l’auteur peuvent tout aussi bien dater du temps de la décadence de l’empire et de la langue latine; ainsi feu , fuoco, fuego et fuoc sont du temps de la basse latinité, lorsque les mots anciens étaient déjà détournés en partie de leur véritable acception, et lorsque le mot de foyer (focus), qui désignait d’abord le lieu du feu, fut employé par les barbares pour exprimer le feu même. Enfin, dans le dernier tableau, l’auteur a voulu rassembler des mots communs au latin et moldave, et manquant aux trois autres langues, afin de prouver que le moldave ne dérive pas des langues modernes. Parmi ces exemples se trouvent verbum, verbe; magis, moi (sic). Cependant verbe et mais (autrefois dans le sens de magis) sont aussi français. Ces exemples ne peuvent donc servir de preuve. D-G. (Depping.) Bull. de Féruss. loc. cit. alla p. 4312. Févr. 1825. t. 3. art. 152. p. 118-9. (10-11. Agos. 1828.).

Alla p. 4331. E credo che i cattivi sieno assai più rari che i buoni uomini, purchè non si chiamino cattivi (come si fa sempre) quelli che trattano male noi perchè noi trattiamo male o indiscretamente loro; perchè non vogliamo, o non sappiamo (cosa frequentissima), trattarli bene.

La salute è considerata generalmente dalla società come il minimo de’ beni umani, se pur ne è fatto conto in modo veruno. Fra le mille prove (e non parlo qui d’individui, ma di corporazioni), osservate che non troverete mai un luogo, una città che sia cominciata ad abitarsi, che cresca giornalmente di popolazione, per rispetto della salubrità del sito, e neanche della clemenza dell’aria. Opportunità di commercio, vicinanza di mare, centralità, presenza della corte, mille cose fanno e che si scelga a principio un luogo per popolarlo, per fondarvi una città, e che una città cresca via via d’abitanti: ma la salubrità non mai. Non v’è città che debba la sua nascita a questa causa, nessuna che le debba il suo accrescimento. Troverete spesso un sito saluberrimo, con aria comodissima, affatto deserto, in vicinanza d’una o di più città, pessimamente situate e popolatissime. Tra Livorno e Firenze (di scellerata situazione) vedete un sito che par quasi miracolosamente favorito dalla natura; ci trovate anche una città, che è Pisa; una città che fu anche popolatissima. Livorno pel suo mare, Firenze per cento altri vantaggi, si accrescono ogni giorno prodigiosamente di popolo; e sulle loro porte, Pisa, da che ha perduto la sua potenza, il commercio, i vantaggi estranei alla salubrità, si spopola, divien sensibilmente deserta ogni giorno più. (Firenze. 11. Agos. 1828.).

Alla p. 4322. fin. Io per me sono persuaso che questo sia il vero e solo modo di render ragione delle irregolarità di misura che malgrado tutte le regole e sopraregole ed eccezioni arbitrariamente stabilite dagli antichi e dai moderni grammatici, malgrado tutti i sistemi, come quello del digamma eolico ec., si trovano sempre ne’ versi omerici. — Richard Bentley est le premier qui, s’étant aperçu de quelques irrégularités dans la mesure des vers d’Homère, supposa que ces irrégularités ne provenaient que de ce qu’on avait négligé le Digamma, dont sans doute la prononciation était tombée en désuétude quand on copia pour la première fois l’Iliade et l’Odyssée. Du Digamma dans les Poésies homériques. (Extrait d’un Nouveau Commentaire sur Homère );par M. Dugas-Montbel. Bull. de Féruss. loc. cit. Janv. 1825. art. 7. p. 9. — Le fait est que, malgré l’adoption du Digamma, on ne résout pas toutes les difficultés, et que M. Knight lui-même (Payne Knight, il quale nel 1820 pubblicò in Inghilterra un’edizione intera dell’Iliade e dell’Odissea col digamma, et avec une orthographe particulière qu’il suppose avoir été dans le principe celle d’Homère ; dopo che Upton e Salter avevano dato degli specimen di edizioni d’Omero col digamma, e che Heyne già nel suo Omero del 1802, au bas de son texte, où il suit l’orthographe ordinaire , aveva placé les mots avec le Digamma , in cui favore egli si è dichiarato) a laissé subsister des passages qui blessent son système (cioè, come si spiega in una nota, de’ passi dove una sillaba che dovrebb’esser breve, diventa lunga pel digamma; κρηγυον Ϝειπας ec.), tant il est difficile de rétablir la véritable orthographe sur de simples conjectures, et dans la privation absolue de tout monument écrit. Certainement quelque système qu’on adopte, il n’en est point qui ne présente des objections, parce que dans ces premiers âges de la poésie, où les lois de la prononciation n’étaient point encore soumises au frein de l’écriture qui les rend plus invariables, il devait y avoir une foule d’anomalies qu’on ne pouvait expliquer que par l’usage, plus fort que le raisonnement, et même que les règles de l’analogie; parce qu’enfin sous Pisistrate, quand on transcrivit pour la première fois les vers d’Homère, la prononciation avait déjà subi des altérations notables qu’il est impossible de déterminer précisément aujourd’hui. Ibidem, p. 13. — Ora con una pronunzia varia, incerta, e non ancora fissata, come supporre, come trovar possibile una misura di versi esatta e costante? — Payne Knight era morto già prima del 1824, o in quell’anno. (12. Agos. 1828.).

Sopra il digamma eolico, si trovano delle curiose e non inutili notizie nella breve Memoria di Dugas-Montbel citata nel pensiero precedente. Egli crede che le Digamma devait tenir de la prononciation du V consonne et de l’U voyelle des latins que nous prononçons ou... Si l’on observe que dans le midi de la France il n’est pas rare qu’on prononce le monosyllabe oui en faisant légèrement sentir le son du V (voui), peut-être aurait-on quelque chose d’analogue à la prononciation du Digamma . (Viceversa in Toscana spessissimo si sopprime il v, o si cambia in un’aspirazione: pióe o piohe per piove, doe per dove, ec. ec., e questo lo trovo anche scritto ne’ rusticali ec. V. p. 4365.) M. Dawes (gran partigiano del digamma ap. Omero; erudito inglese) veut que le Digamma se prononce et s’écrive comme le W anglais (Dawesii Miscellan. par. 4. p. 190. et seqq. édit. de 1817.) Je ne crois pas que certe forme ait jamais été connue de l’antiquité, cette lettre est toute du nord. Quant à la prononciation elle rentre à peu près dans celle que j’ai indiquée. p. 13-14. (12. Agos.).

Altra difficoltà enorme dell’invenzione della scrittura alfabetica: l’infinita varietà ed incertezza della pronunzia orale di qualunque lingua e parola: infinita sempre, ma più che mai avanti l’invenzione della scrittura alfabetica. La pronunzia non riceve qualche fissità se non dalla scrittura alfabetica, e viceversa l’invenzione di questa non par possibile senza una pronunzia già fissata. V. la p. qui dietro. (12. Agos.).

Alla p. 4319. Chants populaires des peuples grecs. À l’occasion de l’annonce des chants populaires de la Grèce moderne, par M. Fauriel, les Annales littéraires de Vienne, t. 26, font observer que ce recueil peut faire suite à un recueil semblable de chants serviens, publié récemment par Wuk Stephanowitsch; mais qu’il reste encore à recueillir les chants populaires de trois peuples, pour que l’on possède toute la poésie populaire de la nation grecque. Ces trois peuples sont: les Albanais, les Valaques et les Bulgares. Les Albanais, qui paraissent descendre des anciens Illyriens, doivent avoir beaucoup de chants. Il doit en être de même des Valaques de Macédoine. Quant aux Bulgares, Wuk assure positivement qu’ils ne cédent aux Serviens ni en poésies lyriques, ni en chants épiques. D’après le même auteur la langue bulgare forme une sorte de langue romane parmi les langues des 5 peuples grecs: ce que le latin a été pour les peuples d’Italie et de France, le Slave l’est encore pour les Bulgares. D-G. (Depping.) Bull. de Féruss. l. c. Janvier 1825. t. 3. art. II. p. 16-17. — Kleine serbische Grammatik. Petite grammaire servienne par Wuk Stephanowitsch, trad. en allem. avec une préface de J. Grimm, et des observations sur les chants héroïques des Serviens; par J. S. Varer (allora professore a Halla, morto a Halla 1826, linguista tedesco, famoso per aver continuato il Mithridates di Adelung, oltre ad altre opp.) Berlin; 1824. La langue servienne, trop prodigue de consonnes, est parlée par environ 4 millions d’individus, en Servie, en Croatie, en Esclavonie et en Monténégro. Elle a une quantité de poésies intéressantes dont il sera question dans un autre article. Cette langue mérite donc l’attention des savans. Wuk, auteur de la petite grammaire qui vient de paraître, a, de plus, fair imprimer à Vienne, en 1817-18, un dictionnaire servien, 36. f. in 4.o. L’auteur, nè dans le pays, était d’abord inspecteur des douanes serviennes, et, sous la domination de Czerni Georges, il occupait le poste de secrétaire du Sénat de son pays. Aucun Servien n’a peut-être étudié davantage son idiome national. On doit imprimer à Pétersbourg une trad. qu’il a fait en servien du N. Testament. Ib. Juin 1825. t. 3. art. 548. p. 439-40. — Narodne srpske pjesme skupio, ii na swijet izdao, etc. Chansons nationales serviennes, recueillies et publiées par Wuk Stephanowitsch Karadshitch. 3 vol. Leipzig; 1824. Les serviens ont une foule de chansons nationales qui n’avaient jamais été recueillies, et dont un grand nombre n’avait peut-être jamais été mis par écrit, lorsque le savant servien Wuk eut l’heureuse idée d’en faire un recueil, qu’il a porté en Allemagne, et qui y a été publié. C’est une nouveauté intéressante, qui nous fait connaître la poésie d’un peuple dont la littérature, à la vérité peu riche, existait à l’insu de l’Europe. La première partie du recueil contient une centaine de petites pièces de vers, que l’auteur appelle chansons féminines, parce que les femmes en composent et chantent beaucoup dans leur ménage. Ces pièces sont faites sans art, la plupart en vers blancs, et peut-ètre improvisées; elles sont généralement médiocres sous le rapport de la poésie. Il y en a sur toutes sortes de sujets, sur l’amour, sur la moisson, sur les fêtes du pays; on y trouve même des chansons magiques pour obtenir de la pluie, que chantent les jeunes filles en parcourant les villages. Par-ci, par-là on trouve des pensées d’un naturel agréable ou des comparaisons originales ou singulières. Les deux autres parties contiennent les chansons héroïques qui abondent chez ce peuple belliqueux. Ce sont des vers monotones, où les mêmes épithètes et les mêmes formules reviennent sans cesse. Quelquefois les aventures qu’elles chantent ont de l’intérêt. Le héros favori des Serviens, Marko, fils d’un roi, y joue un grand rôle. Les batailles y sont peintes avec une sorte de prédilection, surtout celle de 1389 qui ôta l’indépendance à la Servie. D-G. Ib. Juillet 1825. t. 4. art. 22. p. 17.

Faeroeiscke quaeder om Sigurd Fofnersbane og hans aet. Chansons des îles Foeroeer (oe, oe) sur Sigurd Fofnersbane, et sur sa race; recueillies et traduites en danois par H. C. Lyngbye, avec une introduction du prof. P. E. Müller; 592 pag. in-8.o. 1822. Dans les îles Foeroeer (oe, oe) s’est conservé un dialecte particulier de l’ancien scandinave, et dans ce dialecte le peuple conserve plus de 150 chansons qui se chantent pour la plupart sur des airs de danse, et servent en effet à accompagner celles des paysans. M. Lyngbye a recueilli onze de ces chansons; elles ont un caractère épique, et chantent Sigurd, héros célèbre dans tout le nord, et dans les romans allemands du moyen âge. Les insulaires des îles Foeroeer (ae, oe) chantent ces poésies dans leurs réunions, et se les transmettent oralement de père en fils; il est probable qu’elles sont fort anciennes. Quoique le sujet ressemble à celui de divers passages de l’Edda, il ne paraît pourtant pas qu’elles soient imitées de l’islandais; du moins l’Edda n’a point cette forme de chanson sous laquelle le roman de Sigurd est presenté dans les chants foeroeériens; en Islande, en Norvège et en Danemark, on n’a pas d’ailleurs la coutume d’accompagner la danse de vieilles chansons en petits vers tels que ceux de Foeroeer (oe, oe). Le style de ces poésies est simple et naïf; les images y sont moins hardies que dans les poésie islandaises; quelquefois on y trouve des comparaisons relatives à la nature locale de cet archipel; des yeux bleus y sont comparés avec le plumage des pigeons sauvages, qui sont de cette couleur aux Foeroeer (ae, oe). M. Lyngbye a fait de ces poésies épiques une traduction en vers, et il a expliqué dans les notes les termes qui pourraient être difficiles pour les Danois. Dans le supplément l’éditeur a inséré d’autres chansons qui n’ont pas de rapport à Sigurd, et un vieil air noté de ces îles. Il resterait maintenant à publier les autres chansons des Foeroeer (ae, oe), et peut-être aussi le vocabulaire foeroeérien (oe, oe) faisant partie d’une description de cet archipel, composée vers 1782 par M. Svaloe, et conservée en 7. vol. in-4.o. parmi les manuscrits de la bibliothèque royale de Copenhague. Ib. art. 21. p. 16-17. (12-13. Agos. 1828.). V. p. 4352.4361.

Wertheidigung des Wilhelm Tell. Defense de Guillaume Teli, par X. Zuraggen; nouv. édit. in-8.o. Fluelen, dans le canton d’Uri; 1824. La vérité de l’histoire de Guill. Tell ayant souvent été mise en doute, et notamment dans une brochure qui a paru en 1760, intitulée, Guillaume Tell, conte danois; l’auteur cherche à venger la mémoire du héros, et à démontrer son existence par des documens authéntiques. ( Journ. gén. de la littérat. étrang., septembre 1824, p. 264.) Bull. de Féruss. Mai, 1825. l. c. t. 3. art. 526. p. 422-3. (13. Agos.). V. p. 4362.

On attribue l’invention de l’alphabet mongol à Bogdo-Khotokhtou-Tchoidja-Bandida, appelé du Thibet en Mongolie par le Khan Khoubilaï-Tsétsèn-Khan, petit-fils de Gengiskhan; et sa correction au lama Tchoïdja-Ostyr, qui vivait du temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan, mort au commencement du 14 siècle, et sous le règne duquel cet alphabet fut introduit parmi les peuples mongols. Selon les écrivains mongols on n’employa jusqu’au temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan, à la cour des souverains de ce pays, que les lettres thibétaines, alors appelées Oïgoures (étrangères). Les Chinois prétendent dans l’histoire que, jusques à l’introduction d’un alphabet particulier, les Mongols s’étaient servis des caractères chinois ou ouvouitsk .

(Così moltissimi libri giapponesi sono scritti in caratteri cinesi, e questi sono anco della letteratura giapponese, i più noti, anzi quasi i soli noti agli Europei. Bulletin ec. t. 4. art. 197. Al qual proposito il Bull. di Féruss. ib. p. 175, osserva: L’emploi d’une écriture syllabique (la scrittura propria giapponese, composta di 47 sillabe primitive) dérivée de l’écriture figurative des Chinois, et l’usage qu’on fait de cette dernière en l’appliquant à une langue pour laquelle elle n’avait pas été formée (alla lingua giapponese), sont deux phénomènes capables d’intéresser les hommes qui font de l’étude des langues, un sujet de méditations philosophiques.)

Les Mongols écrivent de gauche à droite comme nous, mais perpendiculairement du haut en bas, comme on pourra le voir par l’alphabet comparé Mongol et Kalmouk. Malgré les traits qui changent souvent la forme des lettres, il est impossible de ne pas remarquer qu’elles viennent presque toutes des caractères grecs et syriaques, et par conséquent elles sont peut-être un des monumens les plus anciens qui servent à prouver la liaison des peuples qui les ont adoptées avec les peuples de l’Occident. Outre l’alphabet élète ou Kalmouk, celui des Mongols a encore donné naissance aux lettres mantchouriennes qui n’en diffèrent que par quelques légers changemens. Les Mongols avaient encore un autre alphabet inventé du temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan par un certain Lama-Pakba, dont les lettres ont été nommées carrées en raison de leur forme; mais on n’a rien pu découvrir d’écrit en ce genre. Au contraire nombre d’anciens livres mongols sont écrits en lettres de Tchoïdja-Bandida. Bull. de Féruss. ec. l. c. t. 4. art. 238. p. 242-3. septembre 1825. (13. Agos. 1828.).

Quibus actus uterque Europae atque Asiae fatis concurrerit orbis. Virg. Aen. 7. 223. Il pieno senso di questo luogo e di quell’uterque non credo sia stato mai bene inteso nè si possa intendere senza ricordarsi dell’antica divisione del mondo in due sole parti, Europa ed Asia; divisione di cui è da vedersi una dotta nota di Letronne al v. 3. dell’Iscrizione greca metrica scoperta nell’isola di Philae da Hamilton (nel Bull. de Féruss. l. c. t. 3. p. 403-2. art. 499. intitolato: Explication d’une inscription grecque en vers, découverte dans l’île de Philae par M. Hamilton. Extraite de la suite des Recherches pour servir à l’histoire de l’Égypte pendant la domination des Grecs et des Romains; par M. Letronne, de l’Institut.): il qual Letronne dice ch’ella tiene evidentemente alla geografia omerica, e mostra come fosse propria della geografia poetica greca e latina. Fu anche seguita da vari scrittori dell’una e dell’altra lingua, in prosa; e fino da Procopio, il quale comprende l’Affrica nell’Asia, laddove gli antichi la mettevano nell’Europa. V. anche Berkel. ad Steph. Byz. p. 383., ed Uckert, Geograph. der Griechen und Roemer, t. 1, parte 2. p. 280. richiamati in nota dal Letronne. (Fir. 13. Agos. 1828.).

Dalle bellissime ed acutissime osservazioni del Wolf ( Prolegom. ad Homer. par. 17. Halis Saxonum 1795, vol. I. p. LXX-LXXIII.) dalle quali risulta che, secondo ogni verisimiglianza, il principio della cultura della prosa e le prime opere di prosatori appresso i greci, furono contemporanee all’epoca in cui la scrittura appresso i medesimi divenne di comune uso, e tale da poterne far de’ volumi; anzi che scripturam tentare et communi usui aptare plane idem videtur fuisse, atque prosam tentare et in ea excolenda se ponere (p. LXXII.), il che accadde sul principio del 6. sec. av. G. C. (p. LXX.); da queste osservazioni, dico, si raccoglie la vera causa del fenomeno, in apparenza singolare, che presso tutte le nazioni, nel loro primo ingresso alla civiltà, la letteratura poetica ha preceduto la prosaica: fenomeno osservato da moltissimi, da nessuno, nè prima nè dopo Wolf, bene spiegato, e tuttavia naturalissimo, ovvio e semplicissimo. Chi potea mai pensare a comporre in prosa prima dell’uso (facile, comune, in carta o simili materie portabili, non in bronzo o marmo o legno) della scrittura? come conservare tali composizioni? Parlare in prosa, anche a lungo, si poteva, e parlavasi, raccontavasi in prosa, arringavasi, e simili, ancora in pubblico; ma nè i parlatori nè gli altri pensavano a desiderare non che a proccurar durazione a tali prose, stantechè nessuno neppur sospettava la possibilità che tali prose si conservassero, perchè la memoria non le potea ritenere. Da altra parte, gli uomini inclinati naturalmente alla poesia ed al canto, come apparisce dal vedere che quasi tutte le nazioni selvagge hanno delle poesie, poetavano e componevano in versi: da prima senza speranza nè disegno che questi si conservassero, non più che i discorsi in prosa; poi, visto che la memoria potea ritenerli, si pensò, si provvide alla loro conservazione: quando il conservarli e l’impararli fu divenuto cosa comune, quando vi furono degli uomini che ne fecero un mestiere (i rapsodi appo i greci), allora naturalmente anche la composizione de’ versi divenne una specie d’arte; fu più accurata, più colta; infine v’ebbe una letteratura poetica; e ciò senza scrittura, e mentre che la prosa, non ancora coltivata in niun modo perchè non conservabile, era affatto lontana dal poter far parte di letteratura. Quindi è naturale che quando la scrittura fu divenuta comune e però si potè comporre in prosa, questa fosse infante, mancasse l’arte, mentre la poesia era già molto avanzata; e la lingua poetica fosse già formata da più secc. mentre la prosaica era anco informe. Vedi la p. 4238. capoverso 2. V’ebbe una letteratura assai prima della scrittura, cioè del comune uso di essa ma tal letteratura non fu e non poteva essere che poetica. V. p. 4354.

Tutto ciò accadde naturalmente e non già per disegno. Ridicolo è l’attribuire a popoli bambini nella civiltà, l’acutezza di conoscere, e il desiderio di provvedere che la cognizion delle cose si trasmettesse alla posterità pel solo mezzo che allora ci aveva; versi consegnati alla memoria; e di compor versi apposta per questo fine. V. p. 4351. princip.

In quella letteratura antiscritturale, il solo modo di pubblicare i propri componimenti, era il cantarli esso, o insegnarli ad altri che li cantassero. Fuitque diu haec (ars rhapsodorum) unica via publice prodendi ingenii ( Wolf par. 23. p. XCVIII) Queste furono per più secoli le edizioni de’ greci. Tanto che anche dopo reso comune l’uso della scrittura, etiam Xenophanem poëmata sua ipsum ῥαψῳδῆσαι legamus , osserva il Wolf (ib.) citando il Laerzio, IX. 18. male inteso da altri. E forse ancora di qui venne che Erodoto, un de’ primi scrittori di prosa, anche la sua prosa (se è vero quel che si racconta; e forse questa osservazione potrebbe farlo più probabile) volle recitare in pubblico. (V. p. 4375.) Stante l’uso delle passate età, e l’assuefazione, non pareva pubblicato, edito, quello che non fosse comunicato veramente e di viva voce al popolo. Lascio che per lungo tempo dopo il detto uso della scrittura, si continuò appresso i greci la recitazione pubblica o canto de’ versi d’Omero e degli altri poeti antichi. Ac primo quidem tempore et paene ad Periclis usq. aetatem Graecia Homerum et ceteros ἀοιδοὺς suos adhuc auditione magis quam lectione cognoscebat. Paucorum etiam tum erat cura scribendi, lectio operosa et difficilis; itaque rhapsodis maxime operam dabant captique mira dulcedine cantus ab illorum ore pendebant. In clarissimis huius saeculi (secolo di Pericle) rhapsodis memoratur circa Olymp. 69. Cynaethus, Pindaro aequalis, qui Chio commigravit Syracusas, vel ibi maxime artem factitavit. ( Wolf par. 36. p. CIX.) Noti sono i rapsodi del tempo di Socrate, di Platone, (ib. p. CLXI. not. 22.) e di Senofonte, par. 23. p. XCVI. e l’autore dell’Ipparco, dialogo che va tra le opere di quest’ultimo, dice che anche al suo tempo si recitavano da’ rapsodi alle feste de’ Panatenei quinquennali, i versi di Omero, con quell’ordine che, secondo lui, da Ipparco figlio di Pisistrato era stato ingiunto ai rapsodi da osservarsi nel recitarli. E durò fino agli ultimi tempi della Grecia l’uso di recitare a memoria ne’ conviti e nelle conversazioni colte, degli squarci di poesia, or d’uno or d’altro autore; il che si chiamava ῥῆσιν εἰπεῖν e simili; v. p. 4438. e vedine il Comento del Coray a’ Caratteri di Teofr. e del Casaubono ad Ateneo. Possono considerarsi come una continuazione dell’ antica usanza rapsodica quei tanti componimenti di genere letterario ed epidittico che i sofisti e retori a’ tempi romani, e massime nel 2.o secolo, andavano declamando pubblicamente per le città della Grecia, dell’Asia, della Gallia, ora in lode di esse città, ora degl’imperatori ora degli Dei o eroi ec. del paese, or sopra argomenti di morale, di filologia nazionale ec. V. p. 4351.

Noi ridiamo di quell’antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro. Certo non potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale), e vera pubblicazione. Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla. Pubblicare allora, era dare ed esporre al popolo, che oggi è straniero alle nostre edizioni. Come già Plato ( Phaedr. p. 274. E) atque alii veteres philosophi iudicaverunt inventas litteras profuisse disciplinis, sed obfuisse discentibus, adeo ut quae inventio medicamen memoriae dicta esset, eadem non immerito noxa ejus et pernicies diceretur ( Wolf, par. 24. p. CI-CII), così non sarebbe men paradosso e forse più vero il dire che la scrittura, celebrata per aver popolarizzata l’istruzione, è stata al contrario per una parte la causa di depopolarizzar la letteratura, la quale una volta non poteva vivere che presso il popolo, e di separar dal popolo i letterati, i quali già ne fecero necessariamente parte. La scrittura sola ha reso possibile una letteratura più colta, polita e perfetta, la quale di sua natura non può essere, e non sarà mai, popolare. (Oggi siamo a un punto, che per farla tale, bisogna sperfezionarla, tornarla a una specie d’infanzia, a una rozzezza, sacrificando il bello all’utile.) V. p. 4367. Nè solo la prosa, e le scritture dottrinali, ma la poesia, che da prima, come si è veduto, ebbe per suoi propri uditori il popolo; che costituì tutta la letteratura quando la letteratura fu popolare; che anche oggi si grida, e per tutti i secoli antichi e moderni, si è gridato, dover esser popolare, esserlo già essa di sua natura; la poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura; anzi esso è il genere più lontano dal popolare, e il più difficile ad esser tornato tale; anzi impossibile, se non quando la poesia di qualunque nazione e letteratura moderna, non si riformi, ma si sbandisca affatto, e se ne crei una in tutto e per tutto nuova. V. p. 4352.

Componendo senza scrivere, non fidando i propri componimenti che alla memoria ( ex eo Musarum, memorum dearum, diligens et in Iliade enixe repetita invocatio: Wolf. par. 20. p. LXXXIX.), Omero e i poeti di que’ tempi erano ben lungi dall’ aspirare all’immortalità. Quid? quod ne nominis quidem immortalitas tum quenquam impellere potuit ut ei duraturis monumentis prospiceret; idque de Hom. credere, optare est, non fidem facere. Nam ubi is tali studio se teneri significat? ubi professionem eiusmodi, ceteris poëtis tam frequentem, edit, aut callide dissimulat? (par. 22. p. XCIV.) Non si era ancora concepita l’idea dell’immortalità, molto meno il desiderio. Ben desideravasi la gloria, cioè l’onore e la lode de’ contemporanei, cioè de’ conoscenti e de’ cittadini o compatrioti, in vita e ne’ primi dì dopo la morte: stimolo ben sufficiente alle più grandi azioni. Omnino autem satis habuit illa aetas, quasi sub nutrice ludendo et divini ingenii impetum sequendo, res pulcherrimas experiri et ad aliorum oblectationem prodere: mercedem si quam petiit, plausus fuit et laus aequalium auditorum , dice il Wolf (par. 22. p. XCIV-V. e cita Oraz. Ep. II. I. 93.). E quel ch’ei dice de’ poeti di que’ tempi dee dirsi parimente de’ guerrieri, magistrati, uomini forti, giusti, virtuosi. V. p. 4352. Altro vantaggio anche questo de’ tempi Omerici, ignorare l’immortalità del nome: 1.o non erano tormentati da un desiderio sì difficile ad adempire, 2.o molto più filosoficamente e ragionevolmente di noi (come sono sempre più filosofi di noi i primitivi) limitavano i lor desiderii a quel che è sensibile, e naturale a desiderarsi, la lode dei presenti; non estendevano le loro viste al di là di quel che è concesso all’individuo, al di là dello spazio assegnatogli dalla natura, cioè della vita; in fine non si curavano di quello che nulla ci può veramente nè giovare nè nuocere, nè piacere, nè dispiacere, di quel che si penserà di noi dopo la nostra morte.

E qui è curioso e filosofico, egualmente che tristo, il riflettere che Omero senza desiderare nè aspirare all’immortalità, l’ha ottenuta; e noi che la desideriamo, noi per effetto appunto della scrittura che ci ha ispirato tal desiderio, non l’otterremo. I versi e gli eroi di Omero, fidati alla sola memoria, han varcati quasi 30 secoli, e dureranno quanto, per dir così, la presente stirpe umana, quanto la presente cronologia; i nostri componimenti ed i nostri eroi, fidati alla scrittura, che avrebbe oramai de’ milioni di componimenti e di eroi da conservare, non giungeranno appena alla generazione futura. Altro paradosso verissimo: la scrittura che sola o principalmente ha prodotto l’idea e ’l desiderio della immortalità, la scrittura considerata come istrumento di essa immortalità, la medesima moltiplicando a dismisura gli oggetti consegnati alla tradizione, sola o principalmente, ha reso a quest’ora impossibile il conseguirla. Anche i sommi uomini, scrittori e fatti si pérdono ora necessariamente nella folla: consegnati alla sola memoria, non si confondevano in gran moltitudine, e quell’istrumento in apparenza sì debole, dico la memoria semplice, sapeva ben conservarli a perpetuità. Il che non può più la scrittura. Essa nuoce alla fama, di cui è creduta il fonte e l’organo principalissimo e necessario. V. p. 4354.

Quanto alle letterature moderne in cui la poesia precedè la prosa, come l’italiana e l’inglese, la ragione di ciò è d’un altro genere. E prima bisogna distinguere. Se si tratta di versi e di prose qualunque, il fatto non è vero. Noi abbiamo prose, anche di quelle destinate e fatte perchè durassero, e che compongono una qualunque letteratura; abbiamo croniche (Ricordano, Dino ec.), leggende ec., tanto antiche quanto i nostri più antichi versi; o sarà ben difficile il provare ne’ versi un’anteriorità. Se si tratta di classici, certo Dante p. e. precedette ogni nostro classico prosatore. La ragione è che le lingue moderne in principio furono credute inette alla letteratura. E ciò è naturale: prima ch’esse fossero colte, la letteratura era considerata risiedere nella lingua colta, in quella lingua semimorta e semiviva, in cui sola si avevano buoni libri e dottrine. V. p. 4372. Quindi i prosatori che aspiravano ad esser colti, scrivevano nella lingua colta, benchè diversa da quella ch’essi parlavano. Ma il poeta ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti nella lingua nella quale egli pensa, e trova ogni altra lingua incapace di renderli. Si dice che Dante per compor la D. Commedia tentasse prima il latino, ma dovè poi naturalmente ridursi al volgare. Del Petrarca è noto. Ma essendo allora comune l’uso della scrittura, la prosa colta non poteva star troppo a tener dietro alla colta poesia. Il Boccaccio fu pochi anni dopo Dante, e solo più giovane del Petrarca; dove che le prime prose culte che si vedessero in Grecia, non si videro che 400 anni dopo l’epoca omerica. Nè questa era stata forse la prima che producesse alla Grecia delle poesie culte. Anzi tutto persuade il contrario. Quum Homerica dictio longe longeque reducta sit ab eo sono, quem in infantia gentium horror troporum et imaginum inflat, atq. in verbis et locutionib. castigata admodum, aequabili verecundoque tenore suo quasi praenunciet pedestrem dictionem proxime secuturam, quam tamen amplius tria saecula a nemine tentatam reperimus (il Wolf pone Om. 950 an. av. G. C. V. p. 4352. capoverso 2.); ita mea fert opinio, ut non cultum ingeniorum, sed alia quaedam maximeq. difficultatem scribendi arbitrer in mora fuisse, quo minus poëticam prosa eloquentia tam celeri, quam natura ferret gradu sequeretur ( Wolf, par. 17. p. LXXXI-II.) (21-22. Agos. 1828.). V. p. 4352. princ.

Alla p. 4344. fin. Quanto pensasse Omero alla conservazione della memoria de’ fatti, e a far le veci di storico, come lo chiama il Courier (v. la pag. 4318.), vedesi dalle favole di divinità, che egli senza necessità alcuna di superstizione, ma per bellezza, e manifestamente di sua invenzione, mescola a’ suoi racconti, sino a comporli di favole per buona parte. V. p. 4367.

Alla p. 4346. Sempre, o certo maggiormente e più a lungo d’ogni altra, la letteratura e i letterati greci ricercarono il popolo, lo ebbero in vista nel comporre, mirarono al suo utile e piacere, e si nutrirono all’aura del suo favore; a differenza soprattutto di quel che fece, anche nel suo più bel fiore, la letteratura di una nazione il cui stato politico pur non fu niente men popolare che quel della Grecia. Dico la letteratura romana, la quale in punto di perfezione d’arte superò la stessa greca, e forse supera tutte le letterature conosciute; ma del resto non divenne ma fu sempre essenzialmente impopolarissima. Effetto della sua stessa arte e perfezione e dell’esser essa non nata nel Lazio, ma importata. Siccome per lo contrario non è dubbio che la perpetua popolarità della letteratura greca non derivasse in gran parte da una quasi memoria della sua origine, da un’influenza esercitata da questa continuamente, dall’impulso primitivo, dallo spirito originario e non mai spento, dall’andatura presa in principio. V. p. 4354. La letteratura greca, dice il Courier (préf. du Prospectus d’une nouv. traduct. d’Hérodote) è la sola che sia nata da se nel proprio terreno, dagl’ingegni stessi de’ nazionali, non da altra letteratura. Il che non è vero parlando in universale, perchè molti altri popoli ebbero o hanno letterature autoctone, e queste appunto, come la primitiva greca, consistenti in sole poesie, e poesie non mai scritte, o scritte più secoli dopo composte (v. la p. 4319 e le ivi richiamate.). È vero però il detto del Courier rispetto alle letterature a noi più note, cioè la latina e le più colte delle moderne.

Alla p. 4350. fin. Vedi la p. 4326, capoverso 2. — Quanto ad altre nazioni, come quelle accennate nella fine della p. qui dietro, di esse non è esatto il dire che la poesia ha preceduto la prosa, ma che non hanno altra letteratura che poetica. (22. Agos. 1828.).

Alla medesima margine. Primam aetatem (Carminum Homeric.) ponimus ab origine ipsorum, h.e. tempore cultioris poësis Ionum, (circiter ante Chr. 950.) ad Pisistratum , etc. Wolf. par. 7. p. XXII. (22. Agos. 1828.).

Alla p. 4348. Nè credo io ancora che Milziade a Maratona, nè che i 300 alle Termopoli, aspirassero alla immortalità del nome, come poi, divulgato l’uso delle storie e de’ libri, vi aspirarono Filippo ed Alessandro.

Alla p. 4347. Quegli antichi potrebbero dire con gran ragione, che i loro versi, semplicemente cantati, erano pubblicati, e che i nostri libri, stampati, sono sempre inediti. V. la p. 4317, e la p. 4388. capoverso ultimo.

Alla p. 4340. Atqui tales fere ordines hominum (per totam vitam huic uni arti vacantium, ut vel pangerent Carmina, quae mox canendo divulgarent, vel divulgata ab aliis discerent) in aliis quoque populis reperimus (oltre i greci), apud Hebraeos scholas, quas dicunt, Prophetarum, tum cognatiores nobis Bardos, Scaldros (sic), Druidas. De his quidem postremis Caesar et Mela referunt (Ille B. G. VI, 14. hic III, 2. — not.), propriam eorum fuisse disciplinam, in qua nonnulli ad vicenos annos permanserint, ut magnum numerum versuum ediscerent, litteris non mandatorum. (Simile quiddam et alias saepe et nuperrime de natione Ossiani narratum est a G. Thorntono in Transactt. of the Americ. philos. Society at Philadelphia vol. III. p. 314. sqq. In illa natione etiam nunc senes esse qui tantam copiam antiquorum Carminum memoria custodirent, ut velocissimum scribam per plures menses dictando fatigaturi essent. — not.) Quam vellem tantillum nobis Graeci tradidissent de vatibus et rhapsodis suis! Nam et horum propriam quandam disciplinam et singulare studium artis fuisse, pro comperto habendum arbitror. ( Frid. Aug. Wolf. loc. cit. alla p. 4343. par. 24. p. CII-CIII.) — Haec quum ita sint, sub imperio Pisistratidarum Graecia primum vetera Carmina vatum mansuris monumentis consignari vidit. Talemque aetatem sub incunabula litterarum et maioris cultus civilis apud se viderunt plures nationes, quarum comparatio accurate instituta iis, quae hic disputamus, multum lucis afferre possit. Nam, ut duas obiter tangam, et inter se et Graecis omni parte dissimillimas, constat inter doctos, in Germania nostra, quae domestica bella et principum ducumque suorum gesta iam ante Tacitum Carminibus celebraverat[a] has primitias rudis ingenii a Carolo M. tandem collectas esse et libris mandatas; itemque Arabes non ante VII. saec. inconditam poësin priorum aetatum memoria propagatam collectionibus (Divanis) comprehendere coepisse, ipsumque Coranum diversitate primorum textuum similem Homero fortunam fateri. Praeter hos et alios populos comparandi erunt Hebraei, apud quos litterarum et scribendorum librorum usus mihi quidem haud paullo recentior videtur, quam vulgo putatur, et minus adeo genuinum corpus scriptorum, praesertim antiquiorum. Sed de his et Arabicis illis collectionibus viderint homines eruditi litteris Orientis. (par. 35. p. CLVI.)

Alla p. 4351. Per quanto le cose col progresso si alterino, corrompano, sformino e travisino, sempre conservano qualche segno della loro origine, e qualche poco dello spirito e stato loro primitivo. In Roma dove la letteratura fu impopolare in origine, anche le orazioni al popolo, che certo si pronunziavano in istile e lingua popolare, erano scritte (a differenza delle attiche) in maniera impopolarissima, perchè quando si scrivevano, entravano nel dominio della letteratura, e si scrivevano non pel popolo ma pei letterati. (23. Agos.).

Sinizesi. Dittonghi. — Dittonghi greci e vocali lunghe, avanti a vocali brevi, spesso divengono brevi perchè si suppone elisa la 2a vocale del dittongo, e l’una delle due vocali componenti la lunga. Così presso Virg. Te, Corydon, O Alexi. Pelio Ossam. Ilio alto. Ne’ quali due ultimi esempi l’o non resta eliso interamente in forza della sua duplicità, come vocale lunga. Dugas-Montbel, loc. cit. alla p. 4334. in nota. V. p. 4467.

Alla p. 4344. Divulgato l’uso della scrittura, è ben naturale che si pensasse a comporre e a scrivere nel modo il più naturale, cioè in prosa. Forse però non subito, perchè è anche naturale che le cose e i modi più semplici ed ovvi non si trovino al più presto: massime essendo inveterata, come nel nostro caso, un’usanza diversa. Del resto, riman fermo che le prime composizioni del mondo, e per gran tempo le sole, furono in versi, non per altro, se non perchè si compose assai prima che si scrivesse. V. p. 4390.

Alla p. 4349. Oggi più che mai bisogna che gli uomini si contentino della stima de’ contemporanei, o per dir meglio, de’ conoscenti; e i libri, della vita di pochi anni al più. (Oggi veramente ciascuno scrive solo pe’ suoi conoscenti.)

Alla p. 4327. Sarebbe questo il caso del Gialiso di Protogene (o di Apelle), dove l’azzardo fece meglio, anzi fece quello, che l’arte non aveva potuto. Del resto, o che Pisistrato, o che alcun altro per suo ordine, o che il suo figlio Ipparco, o che parecchi letterati di quel tempo, amici e aiutatori di questi due o dell’un d’essi (Wolf. p. CLIII-V.), fossero quei che raccolsero i versi omerici, li disposero in quell’ordine che ora hanno, e li dividessero ne’ due corpi dell’Iliade e dell’Odissea, ad essi forse si apparterrebbe tutta la lode dell’effetto che risulta dall’insieme di questi due corpi, e la creazione del poema epico, se non fosse manifesto che anch’essi crearono il poema epico senza saperlo, e non ebbero altra intenzione che di porre quei canti in ordine, di classarli e dividerli secondo i loro argomenti. I διασκευασταὶ d’Omero furono politori e limatori, che emendarono probabilmente il metro e la dizione in assai luoghi, aggiunsero, tolsero, mutarono quello che parve lor necessario, per dare unità, insieme, liaison scambievole, e continuità a quei canti. Diversi dai Critici, il cui officio fu cercare quel che il poeta avesse scritto in fatti, non quello che stesse meglio; emendare i testi, non limarli. ( Wolf. CLI-II.) Onde è diversa cosa διασκευὴ e recensio, sì in queste e sì nelle altre opere antiche. (p. CCLVI. not.) Il Wolf crede (p. CLII.) che i διασκευασταὶ, ch’egli interpreta exactores seu politores , travagliassero alla riduzione de’ canti omerici una cum Pisistrato vel paulo post. Non ne ha però alcuna prova; non si trovano menzionati che negli scoliasti; io li credo molto più recenti (perchè così mi par naturale), benchè molto anteriori, com’ei pur dice, ai critici alessandrini. Ad essi un poco più propriamente si dee dunque parte dell’effetto dell’insieme di que’ due corpi, atteso ch’in essi v’ebbe l’intenzione. V. p. 4388.

In somma il poema epico nelle nostre letterature, non è nato che da un falso presupposto. Omero, e i poeti greci di quello e de’ seguenti secoli non conobbero in tal genere che degl’inni. Quippe vocabulum ὕμνος latius patet, et saepe omne genus ἐπῶν complectitur. Unde illud in fine trium Hymnorum (homericor.), manifestum istius moris vestigium: Σεῦ δ' ἐγὼ ἀρξάμενος μεταβήσομαι ἄλλον ἐς ὕμνον ( Wolf. par. 25. p. CVII. not.) Cioè passerò a qualcuno de’ canti omerici, a cui gl’inni sacri servivano di proemii, perciò dagli antichi sovente chiamati προοίμια προοίμιον Διός, προοίμιον Ἀπόλλωνος etc. I rapsodi componevano o cantavano or l’uno or l’altro di tali proemii secondo il luogo e l’occasione del recitare gli squarci omerici, il nume protettor del paese, la solennità ec. Vedi le mie osservazioni sui 3. generi di poesia, lirico, epico, drammatico; le quali riceveranno luce altresì dalle presenti. V. p. 4460.

E in fatti il poema epico è contro la natura della poesia. 1.o Domanda un piano concepito e ordinato con tutta freddezza: 2.o Che può aver a fare colla poesia un lavoro che domanda più e più anni d’esecuzione? la poesia sta essenzialmente in un impeto. È anche contro natura assolutamente impossibile che l’immaginazione, la vena, gli spiriti poetici, durino, bastino, non vengano meno in sì lungo lavoro sopra un medesimo argomento V. p. 4372. È famosa, non meno che manifesta, la stanchezza e lo sforzo di Virgilio negli ultimi 6. libri dell’Eneide scritti veramente per proposito, e non per impulso dell’animo, nè con voglia. V. p. 4460. — Il Furioso è una successione di argomenti diversi, e quasi di diverse poesie; non è fatto sopra un piano concepito e coordinato in principio; il poeta si sentiva libero di terminare quando voleva; continuava di spontanea volontà, e con una elezione, impulso, ὁρμὴ primitiva ad ogni canto; e certo in principio non ebbe punto d’intenzione a quella lunghezza. — I lavori di poesia vogliono per natura esser corti. E tali furono e sono tutte le poesie primitive (cioè le più poetiche e vere), di qualunque genere, presso tutti i popoli.

Si obbietterà la drammatica. Direi che la drammatica spetta alla poesia meno ancora che l’epica. Essa è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, nè le danno natura poetica. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un carattere ch’ei non ha (cosa necessaria al drammatico) è cosa alienissima dal poeta; non meno che l’osservazione esatta e paziente de’ caratteri e passioni altrui. Il sentimento che l’anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta, il solo che egli provi inclinazione ad esprimere. Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico. In fatti i maggiori geni e poeti che hanno coltivata la drammatica, (coltivata perchè l’hanno creduta poesia, ingannati dal verso, come Virgilio fece un poema epico perchè credè che Omero ne avesse fatto), peccano sempre in questo, di dar se stessi più che altrui. V. p. 4367. L’estro del drammatico è finto, perch’ei dee fingere: un che si sente mosso a poetare, non si sente mosso che dal bisogno d’esprimere de’ sentimenti ch’egli prova veramente V. p. 4398. Noi ridiamo delle Esercitazioni de’ sofisti: che avrà detto Medea ec. che direbbe uno il quale ec. Così delle Orazioni di finta occasione, come tante nostre del 500, cominciando dal Casa. Or che altro è la drammatica? meno ridicola perchè in versi? Anzi l’imitazione è cosa prosaica: in prosa, come ne’ romanzi, è più ragionevole: così nella nostra commedia, dramma in prosa, ec.

L’imitazione tien sempre molto del servile. Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa, metterla colla pittura ec. Il poeta immagina: l’immaginazione vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta. Quum philosophus ille (Plato), primus, ut nobis videtur, ex aliquot generibus, maxime scenico,poëticae arti naturam affingeret μίμησιν etc. Primariam illius sententiam de arte poëtica suscepit Aristoteles in celebratiss. libello, correctam quidem passim a se, verum ne sic quidem explicatam, ut cuique generi Carminum satis conveniret; adeo didascalicum genus ab eo prorsus excluditur. Neque post Aristot. quisquam philosophor. veram vim illius artis aut historicam interpretationem recte assecutus videtur. ( Wolf. 36. p. CLXIV-V.). Questa definizione di Platone, definizione di quel genere dialettico, esercitativo, anzi ludicro, secondo cui egli metteva p. e. la rettorica colla μαγειρική ec. (v. il Gorgia, e il Sofista, specialmente in fine.), è la sola origine di questa sì inveterata opinione che la poesia sia un’arte imitativa. V. p. 4372. fine.

Ma, lasciando questo discorso ad altra occasione, basta ora rispondere che in origine e presso i greci (come tutte le cose in origine sono più ragionevoli), i drammi furono assai più brevi componimenti che ora, e quasi senza piano, cioè con intreccio semplicissimo. Omnino vero utilissimum esset, undecumque collecta unum in locum habere, quae in libris veterum vel praecepta de arte poëtica, vel iudicia de poëtis suis sparsim leguntur. Docerent ea, ni fallor, cum optimis, quae exstant, Carminibus comparata, quam sero Graeci in poeti didicerint totum ponere, ac ne Horatium quidem, qui illud praecipit, eius praecepti eosdem fines ac nostros philosophos constituisse. Erunt ei praecipue haec disquirenda, qui dramata Graecorum ad antiquae artis leges exigere volet. Quodsi in his saepius ab historica ratione deflexit Aristoteles, tanto magis admiranda est viri perspicacitas, qua saeculum suum praecucurrit. V. p. 4458. ( Wolf par. 29. p. CXXV. not.)

Del resto, vedesi insomma che l’epica, da cui apparentemente derivò la drammatica[a] (anzi piuttosto da’ canti, non ancora epici, ma lirici, de’ rapsodi: Wolf.), si riduce per origine alla lirica, solo primitivo e solo vero genere di poesia: solo, ma tanto vario, quanto è varia la natura dei sentimenti che il poeta e l’uomo può provare, e desiderar di esprimere. (29. Agos. 1828.). V. p. 4412. fine.

Quanti errori, assurdi, contraddizioni per aver voluto giudicare Omero secondo i costumi, le opinioni, le instituzioni moderne o più note, ed applicarle a’ suoi poemi! Si è supposta in lui una mostruosa mescolanza di dialetti, perchè il dialetto o lingua ch’egli usò, si divise poi in più dialetti diversi. V. p. 4405. Si è creduto ch’egli fosse esattissimo pittore de’ costumi eroici, greci e troiani, quando in fatti egli non ha dipinto che i costumi de’ suoi propri tempi, ed ai troiani ha dato nomi e costumi greci. V. p. 4408. fin. ( Necesse haberem longam disputationem ingredi de omni ratione qua Homerus in descriptione heroicae vitae versari solet. Non enim apud illum nisi bis terve hoc genus reperio eruditae artis, quod poëtae cultiorum aetatum affectant, quum superiorum fabulosa gesta scenae reddentes cavent sedulo, ne priscam sinceritatem novis moribus infucent, quo facilius lectorib. vel spectator., propter antiquitatis peritiam incredulis, imponant, eosque rebus ac personis, quibus cummaxime volunt, interesse et tota mente quasi cum illis vivere cogant. Wolf. loc. cit. alla p. 4343. par. 1. p. XCII. arte non posseduta neanche dai drammatici greci. Scilicet, ut nihil dicam de more Tragicorum (graec.), novas consuetudines in heroicum aevum transferendi , ec. par. 19. p. LXXXIII. not.): e poi nel tempo stesso, come se Omero avesse avuto e descritto opinioni caratteri e costumi moderni, egli è stato ripreso per le assurdità, le inumanità ec. che a giudicare i suoi poemi secondo queste opinioni e costumi, vi si ritrovano. (V. le mie osservazioni sopra il dritto delle genti a que’ tempi, la compassione, il patriotismo ec. ec.) Altro di questi errori vedilo p. 4383-4. Finalmente gli si è attribuita un’intenzione e un’arte di poema epico, ch’egli non ha mai avuta, e che gli è d’assai posteriore; e poi egli è stato straziato, deriso ec. perchè i suoi poemi in mille cose si son trovati lontanissimi dal rispondere alle regole di quest’arte, che noi dicevamo aver cavate da essi; a quel piano, che noi abbiamo formato ed attribuito loro; a quell’unità che noi abbiam fatto l’onore di prestar loro ec. (31. Agos. 1828.). Ma ben in cose più gravi di queste, ad errori ed assurdi ben più dannosi, ci ha tratti e trae di continuo la nostra frenesia di volere accomodare ogni cosa al nostro modo di vedere, e spiegare ogni cosa secondo le nostre idee. (30. Agosto. 1828.).

M. Bilderdijk, poeta il più riputato degli Olandesi viventi, ed anche famoso erudito e scienziato (viveva 1826.), in una memoria van het Letterschrift (sur les caractères d’écriture), in-8.o. Rotterdam 1820., adhère à l’opinion que les anciens alphabets ne contenaient que des consonnes. ( Bull. de Féruss. loc. cit. alla p. 4312. t. 6. 1826. art. 152. p. 183.) Questo però per ragioni e spiegazioni diverse da quelle da me addotte altrove. (31. Agosto 1828.).

Alla p. 4340. Il a paru cette année (1824.) à Leipzig un livre qui doit attirer l’attent. des amat. de la littér. slavonne. C’est un recueil de chansons serviennes en 3. vol. publié par Vouk Stéphanovitch littérateur servien très connu et auteur d’une grammaire et d’un lexique servien. Voici le compte qu’en a rendu le journal des savans de Goettingue (1823. n. 177. et 178.) «Ces chants serviens n’ont point été émpruntés aux vieilles chroniques; ils ont été recueillis de la bouche même du peuple. Comme ils ne furent jamais écrits, jamais non plus ils n’ont ni vieilli ni ne sauraient vieillir». Ib. t. 5. Janv. 1826. art. 24. p. 26. (31. Agos. 1828.). V. p. 4372.

Vouk Stéphanovitch et quelques autres littérateurs serviens modernes ont cru bien faire d’introduire de nouvelles lettres ainsi qu’une orthographe étrangère tout-à-fait barbare chez les Slaves. Pourquoi ne pas s’en tenir à l’ancien alphabet cyrillien? (V. il pensiero precedente e quelli a cui si riferisce). Ib. extrait du Fils de la patrie (Giorn. russo), n.26, p. 241, 1824. (31. Agos. 1828.).

Commentatio historico-critica de Rhapsodis. in 4.o. de 22 pag. Vienne 1824. Cet opuscule contient, en premier lieu, l’étymologie du mot ῥαψῳδὸς. ἀπὸ τοῦ ῥάπτειν τὴν ᾠδὴν, ou ἀπὸ τοῦ ἐπὶ ῥάβδῳ ᾀδειν. L’Auteur expose ensuite les raisons qui lui font adopter cette étymologie. ῾Ράπτειν ᾠδὴν est expliqué d’après Wolf (par. 23. p. XCVI. not. dei Prolegom. ec.): Carmina modo et ordine publicae recitationi apto connectere . V. p. 4366. Ὁμηρισταὶ et Ὁμηρίδαι sont désignés comme synonymes dans le sens de ῥαψῳδοὶ. Viennent ensuite des obss. historiques sur l’art des rhapsodes grecs, divisées en 4 périodes. La 1. va jusqu’à Homère; la 2. comprend l’âge d’or des rhapsodes, jusqu’à Pisistrate; la 3, l’âge d’argent, jusqu’à Socrate; la 4, l’âge d’airain, s’occupe de la dégradation de l’art des rhapsodes. L’énumération des rhapsodes distingués termine cet opuscule. Ib. Mars, art. 231. p. 170. (Agos. 1828.).

Alla p. 4312. Plusieurs peuplades de l’Afrique, de l’Amérique ou de la Polynésie, chez lesquelles une écriture tout-à-fait étrangère s’est introduite avec la prédication du christianisme, lorsque leur langage avait été élaboré, dans l’absence de toute écriture, pendant une longue suite de siècles, pouvaient etc. Ib. 1826. t. 5. p. 338-9. art. 485.

Alla p. 4340 fin. Dissertatio, histor. inaug. de Guilielmo Tellio, libertatis Helveticae vindice, quam examini submittet J.7J. Hisely. In 8.o VIII et 69. pag. Groningen, 1824. ( Bek’s Allg. Repertor., 1825., 1.r vol., p. 213.)... Dans le chap. 2. l’aut. examine les faits historiques attaqués par Freudenberger. Il résulte de cet examen que G. Tell est injustement accusé d’homicide. Ib. 1826. t. 6. art. 138. p. 162. V. p. 4372.

Alla p. 4322. fin —. M. Granville Penn donne lecture (à la séance du 21 juin 1826, de la Société royale de Littérature de Londres) d’une notice intéressante sur le mètre du premier vers de l’Iliade. Des éditeurs et commentat. modernes se sont efforcés de démontrer que ce vers pouvait être rendu métrique (chi ne dubita, alterandolo a piacere?); cependant une grande autorité classique ( Plutarque, de Profect. virtut. sentiend. c. 9,) le déclare non-métrique (ἄμετρον). (E così chiamano gli antichi molti altri de’ versi d’Omero. V. p. 4414.) Pour le rendre métrique, dans leur sens, suivant la construction ordinaire du vers, ils ont contracté δεϊω, du mot πηλήίαδεϊω, (sic) en δω. Dans un autre passage Plutarque, expliquant dans quel sens il appelle ce vers non-métrique, avance que le 1.r. vers de l’Il. contient le même nombre de syllabes que le 1.r. vers de l’Odyssée, et qu’il en est de même du dernier vers de Il. à l’égard du dernier vers de l’Od. ( Sympos., l. 9., c. 3.) Or, le 1.r vers de l’Odys. se compose de 17 syllabes; savoir de 5 dactyles et d’un spondée, nombre exact contenu dans le vers, Μῆ-νιν ἄ-ει-δε, Θε-ὰ, Πη-λη ί-α-δε-ω Α-χι-λῆ-ος. C’est pourquoi M. Penn pense que le poëte, en articulant le vers, fit une pause au pentamètre, qui se termine par Θεὰ, et renouvela l’arsis sur la syllabe suivante: Μηνιν α ἣ ειδε, Θε ἣ ὰ, Πηλη ἣ ιαδε ἣ ϊω Αχι ἣ ληος. L’auteur soutient qu’il y a, malgré la transgression des lois du mètre, dans la réplétion et la volubilité du vers exordial, une magnificence d’images semblable à la première irruption des eaux d’une rivière, au moment où l’on ouvre l’écluse qui les retient, et avant que ces eaux, reprenant leur pente naturelle, coulent d’un cours uniforme et régulier; ce qui paraît beaucoup plus analogue au début de ce poëme majestueux, que le mètre rigoureusement mesuré qu’on lui a imposé. Bull. etc. 1826. t. 6. art. 207. p. 239. Il principio dell’Iliade, secondo Müller (v. la p. 4321. lin.16.) non è di Omero, ma aggiunto da’ διασκευασταὶ. Se ciò è vero, che dir de’ versi dell’eta omerici, se si trovano ametri anche quelli di tempi posteriori a Pisistrato?

Alla p. 4170. fin. La casa delle pitture, c’est ainsi qu’on nomme une maison découverte à Pompéi à cause des fresques quelle offre, les plus belles et les mieux conservées de toutes celles qu’on a trouvées jusqu’en ce moment. Le 12 février 1825, on commença à débarrasser l’entrée de cette maison. On trouva sous la porte un fragment de mosaïque d’un travail médiocre. Il représente un grand chien, la chaîne au cou, dans la position de défendre l’entrée de la maison. Au bas se trouvent les mots suivans: cave canem. Bull. de Féruss. loc. cit. alla p. 4312. janv. 1826. t. 5. art. 4.o. p. 45. (2. Sett. 1828.).

M. Letronne (Nouvel examen de l’inscription grecque déposée dans le temple de Talmis en Nubie par le roi nubien Silco [a]. (iscrizione illustrata già innanzi da Niebuhr Inscription. Nubiens. Romae 1820.) Journal des Savans, 1825.) examine ensuite pourquoi la langue grecque est employée dans l’inscription; ce qu’il explique par l’introduction (parmi les Nubiens) des livres saints et des liturgies écrites en cette langue. En effet, le style même de l’inscription, ces tournures bibliques, byzantines et d’une moderne grécité, prouvent assez clairement que l’usage de la lang. gr. n’a eu lieu dans ces contrées qu’après, ou plutôt à cause de l’introduct. de la rel. chrétienne. ... De toutes les inscriptions grecques païennes examinées par M. Letronne, il ne s’en est trouvé aucune au delà des limites de l’empire romain; une fois cette ligne franchie, tout ce qui est écrit en grec exprime des idées chrétiennes. Ainsi M. Letronne, après avoir prouvé (contro l’opin. di Niebuhr) par une foule de rapprochemens philologiques sur le style de l’inscript. , qu’elle appartenait à un roi chrétien, prouve ensuite que... ce n’est qu’au christianisme qu’on doit la connaissance de la lang. grecq. dans ces contrées. Bull. de Féruss. l. c. alla p. 4312. janv. 1826. t. 5. art. 36. p. 40-41. Altro mezzo di universalità per la lingua greca a quei tempi. L’iscrizione secondo Letronne non è più antica della metà circa del 6.o. sec. Niebuhr, che la fa pagana, la mette alla fine del sec. 3.o. (2. Sett. 1828.). V. p. 4471.

Alla p. 4336. marg. Trovo anche ne’ Rusticali caallo, portaa per portava, e infiniti simili, sempre. Di qui viene ancora l’imperf. dicea, sentia ec. per diceva ec. adottato nella lingua scritta, ma che non si ode mai se non in Toscana. Va’hia per vai via, cioè va via (imperativo,): volgo toscano. (2. Sett. 1828.).

Chi suppone allegorie in un poema, romanzo ec.; come sì è tanto fatto anticamente e modernamente nell’Iliade e Odissea; come fece il Tasso medesimo nella sua Gerusalemme; come ora il Rossetti nel comento alla Divina Commedia che si stampa in Londra, la vuol tutta allegorica, allegorico il personaggio di Francesca da Rimini, allegorico Ugolino ec.; distrugge tutto l’interesse del poema ec. Noi possiamo interessarci per una persona che sappiamo interamente finta dal poeta, drammatico, novelliere ec.; non possiamo per una che supponghiamo allegorica. Perchè allora la falsità è, e si vede da noi, nell’intenzione stessa dello scrittore. (2. Sett. 1828.). V. p. 4477.

Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de’ pregi e de’ piaceri di essi ec. ec., non si torrà dagli studi ogni diletto, perchè anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli. Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno; si scemerà di moltissimo la facoltà di dilettare che ha questo bellissimo trattenimento della vita: quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (e non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile.

Alla p. 4362. Alterum errorem iam sublatum puto (cioè già riconosciuto generalmente dagli eruditi), quo ex falsa notatione nominis ῥαψῳδοῦ collegerunt quidam, versatam esse operam eorum in versib. passim excerpendis et consarcinandis ad modum Centonum, quales ex Hom. a sanctis animis facti extant ridiculae ineptiae in summa gravitate rerum. Wolf. par. 23. p. XCVI-II. Tolto questo errore (che per altro è ancora comune nel volgo degli studiosi), il solo nome di rapsodi e di rapsodie sarebbe dovuto bastare ad avvertirci che le poesie omeriche non furono che canti staccati; siccome la tradizione costante dell’antichità che da Pisistrato, o per suo ordine, fossero primieramente raccolti e ordinati come ora sono i versi d’Omero, ( Wolf. par. 33.), doveva bastare a mostrarci sì la suddetta cosa, e sì che Omero e gli altri non lasciarono scritte quelle poesie. Pure per iscoprir queste verità ci è voluto acume grande, per avanzarle ardire, e fino a Wolf è avvenuto in questa ciò che avviene ancora in mille altre cose, e talune più gravi assai, che gli uomini non hanno alcuna difficoltà di conciliare, o piuttosto di congiungere ciecamente insieme credenze e nozioni incompatibili.

Alla p. 4347. È cosa dimostrata che il piacer fino, intimo e squisito delle arti, o vogliamo dire il piacere delle arti perfezionate (e fra le arti comprendo la letteratura e la poesia), non può esser sentito se non dagl’intendenti, perch’esso è uno di que’ tanti di cui la natura non ci dà il sensorio; ce lo dà l’assuefazione, che qui consiste in istudio ed esercizio. Perchè il popolo, che non potrà mai aver tale studio ed esercizio, gusti il piacer delle lettere, bisogna che queste sieno meno perfette. Tal piacere sarà sempre minore assai di quello che gl’intendenti riceverebbero dalle lettere perfezionate (altrimenti non sarebbe in verità un perfezionamento quello che le mette a portata de’ soli intendenti); e quindi ci sarà perdita reale; ma a fine che la moltitudine riacquisti il piacere perduto, e del qual solo ella è capace. V. p. 4388.

Alla p. 4357. Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è il più alieno di tutti i generi di letteratura, perchè è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro.

Alla p. 4351. È anche insufficiente il dire che la lingua dell’immaginazione precede sempre quella della ragione. Nel nostro caso, cioè nella Grecia a’ tempi di Solone, ed anche a’ tempi stessi d’Omero, già molto colti, (e similmente in tutti i casi dove trattasi di poesia e di prosa colta e letteraria), l’immaginazione avea già dato alla ragione tutto il luogo che bisognava perchè questa potesse avere una sua lingua. (5. Sett. 1828.).

Col perfezionamento della società, col progresso dell’incivilimento, le masse guadagnano, ma l’individualità perde: perde di forza, di valore, di perfezione, e quindi di felicità: e questo è il caso de’ moderni considerati rispetto agli antichi. Tale è il parere di tutti i veri e profondi savi moderni, anche i più partigiani della civiltà. Or dunque il perfezionamento dell’uomo è quello de’ cappuccini, la via della penitenza. (5. Sett. 1828.).

I detti, risposte ec. che Machiavelli attribuisce a Castruccio Castracani (nella Vita di questo), sono tutti o quasi tutti gli stessissimi che il Laerzio ec. riferiscono di filosofi antichi, mutati solo i nomi, i luoghi ec. Machiavelli del resto non sapeva il greco, poco o nulla il latino, ed era poco letterato. Non sarebbe maraviglia ch’egli avesse seguito una tradizione popolare che avesse conservati que’ motti mutando i nomi, e attribuendoli al personaggio nazionale di Castruccio, noto per singolare acutezza e prontezza d’ingegno. Il popolo fiorentino racconta ancora di Dante e dello stesso Machiavello vari tratti che si leggono negli antichi greci e latini, come quello di Esopo che diede un asse a chi gli tirò una sassata ec., il qual tratto (con modificazioni accidentali e non di sostanza) si racconta dal volgo in Firenze di Machiavelli. (Tengo queste cose da Forti e da Capei). Così non solo le nazioni, ma le città, tirano alla storia ed a’ personaggi propri, e in somma alle cose ed alle persone a se più cognite, i fatti delle storie altrui, noti al volgo per antiche tradizioni orali. A Napoli resta ancora in proverbio la sapienza e dottrina di Abelardo: ne sa più di Pietro Abailardo (Capei). In ogni modo quel libro di Machiavelli farebbe sempre al mio proposito molto bene. V. p. 4430.

Ed allo stesso proposito spetta quell’uso antichissimo e continuato perpetuamente, di attribuire agli autori più celebri le opere di autori anonimi, o sconosciuti, o di nome poco famoso; le opere, dico, appartenenti a quel tal genere in cui quegli autori hanno primeggiato; e ciò specialmente quando quegli autori sono i modelli e i capi d’opera nel genere loro. Quindi i tanti poemi attribuiti falsamente ad Omero, dialoghi morali ec. a Platone, opere filosofiche ad Aristotele, orazioni a Demostene, omelie, comenti scritturali ec. a S. Crisostomo S. Agostino ec. V. p. 4414. 4416. Quanto un autore è più celebre e primo nel suo genere, tanto è più copiosa la lista de’ suoi libri apocrifi. Raro fra gli antichi o ne’ bassi tempi quell’autore celebre, o riconosciuto per primo nel suo genere o nel suo secolo, che non abbia oppure spurie apocrife, esistenti o perdute. I detti Padri ne hanno quasi altrettante quante sono le genuine. Così Platone ec. Di molte di queste la critica non può scoprire i veri autori; altre si trovano o citate, o anche in alcuni loro esemplari, coi veri nomi, e nondimeno comunemente vanno sotto i nomi falsi, perchè i veri son di persone poco note.

Dans le ms. de Paris, qui, suivant les critiques, est le plus ancien et le meilleur, l’ouvrage a pour titre Διονυσίου Λογγίνου περὶ ὕψους; mais dans l’index, qui est écrit de la même main, comme le reste du ms. (qui contient en outre les problèmes d’Aristote), on le qualifie de Διονυσίου ἢ Λογγίνου περὶ ὕψους. Le cod. vaticanus que Amati appelle praestantissimus, donne dans cette dernière forme le nom de l’auteur; et dans le ms. de la bibl. laurentiane, l’inscript. Porte Ἀνωνύμου περὶ ὕψους. Bull. de Férus. l. c. alla p. 4312. tom.8. p. 11. art. 12. 1827. juill. — Essendo incerto ἀνώνυμος l’autore di quel trattato, fu detto: egli è di Dionisio d’Alicarnasso o di Longino: non per altro se non perchè nella media grecità questi furono i retori tecnici più conosciuti, i capi del genere rettorico. Esempio insigne del modo con cui si procedeva in simili attribuzioni: di Dionisio o di Longino: quasi vi fosse alcuna analogia fra lo scrivere di Dionisio, autore del 1. secolo, e quel di Longino ch’è del 3. Intanto la Critica riconosce manifestamente e senza molta fatica che quel trattato non può essere nè dell’uno nè dell’altro. (Bull. ec. ibidem.) — Weiske e l’autore di un libro pubblicato a Londra 1826. intitolato Remarks on the supposed Dionysius Longinus, riportano quel trattato al secolo d’Augusto. Amati l’attribuisce veramente a Dionisio d’Alicarnasso, non avendo osservata (come non l’ha nessun altro) la vera ragione per cui i mss. parig. e vatic. hanno il nome di Dionisio; e che, oltre la totale differenza dello stile, quel trattato è contro Cecilio Calattino, il quale fu amico di Dionisio Alicarnasseo, cosa parimente non osservata da altri. V. p. 4440.

Les amours de Cydippe et d’Acontius nous sont connues, surtout par les lettres qu’Ovide leur attribue dans ses Héroïdes. Callimaque fut la source où puisa Ovide: M. Buttmann (Ueber, die Fabel der Kydippe. Sur la fable de Cydippe, par Philippe Buttmann. Mémoir. de l’Acad. de Munich; to. 9. ann. 1823-1824., partie philologiq., p. 199-216.) rassemble et discute les fragmens de ce dernier poëte, où il est question de Cydippe. Cette fable, si nous en croyons le savant professeur, est identique avec l’histoire de Ctesylla (sic) et d’ Hermochares, rapportée par Antoninus Liberalis et Nicander Bull. etc. juill. 1827. t. 8. art. 34. p. 35. — E quante altre favole, o racconti appartenenti a tempi mitici o eroici, si trovano ripetuti con diversi nomi e luoghi in diversi scrittori, non solo greci e latini, ma anche greci solamente! — Codro, Eretteo ec. I Deci ec.

Le combat de trente Bretons contre trente Anglais, publié d’après les manuscrits de la Bibliothèque du roi, par M. Crapelet, imprimeur. Paris, 1827. Long-temps l’authenticité de ce combat fut contestée, et on n’avait pu produire jusqu’ici qu’un seul ms. de 1470, conservé dans la bibl. de Rennes. L’heureuse découverte du récit en vers du Combat des Trente, faite dans un recueil de pièces mss. de la Bibl. du Roi, par le chev. de Fréminville, donna lieu, en 1819, à une première publication d’un nouveau document; mais il était important que le texte fût reproduit avec la plus scrupuleuse exactitude. M. Crapelet a complété tout ce que laissait désirer à cet égard la 1. édit. Il a fait suivre cette publication d’une traduct. littérale du poëme et d’une autre relation du combat, extraite des chroniques de Froissart. L’ouvrage est orné d’une planche représentant le monument élevé en mémoire de ce combat, et les armoiries des 30 chevv. bretons, dessinées d’après les armoriaux de la Bibl. du Roi, et d’autres armoriaux particuliers et inédits. (Ib. t. 8. p. 389-90. art. 407. octob. 1827.) — V. nel Guicciardini ec. il famoso combattimento dei 10 italiani e 10 francesi all’assedio di Barletta sotto il Gran Capitano; e quello di un Bavaro e di un italiano nel Giambullari, riferito nella mia Crestomazia, p. 23. — Orazi e Curiazi ec. (9. Sett. 1828.).

Hordeum — fordeum. V. Forcellini .

Alla p. 4350. marg. I sonetti, canzoni ec. ed anche lunghi poemi in istile e forma puerile, di cui abbondavano prima di Dante le lingue volgari, non solo italiana ma francese spagnuola ec., non costituivano e non erano considerati costituire una letteratura. V. p. 4413.

Alla p. 4356. L’entusiasmo l’ispirazione, essenziali alla poesia, non sono cose durevoli. Nè si possono troppo a lungo mantenere in chi legge.

Alla p. 4361. Di queste poesie serviane sono state fatte, dopo la pubblicazione di Wuk, delle traduzioni ed imitazioni in tedesco. Ib. févr. 1827. art. 156. p. 124. t. 7. V. p. 4399.

Alla p. 4362. Guillaume-Tell et la Révolution de 1303; ou Histoire des 3 premiers cantons jusqu’au traité de Brunnen, 1315, et réfutation de la fameuse brochure Guillaume-Tell, fable danoise (répétée dans cet ouvrage); par J.7J. Hisely, D.r en philosophie et belles-lettres. In 8.o Delft 1826. (Ib. févr. 1827. t. 7. art. 210. p. 182.)

Alla p. 4358. Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca. I’ mi son un che quando Natura parla , ec. vera definizione del poeta. Così il poeta non è imitatore se non di se stesso. (10. Sett. 1828.). Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è più poesia, facoltà divina; quella è un’arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio. Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla. (10. Sett. 1828.).

L’auteur ( M. Faber. Synglosse, oder Grundsaetze der Sprachforschung. Synglose, ou Principes des recherches sur les langues, par Junius Faber. 213. p. in-12.o. Carlsruhe, 1826.) a été amené par tous ces rapprochemens à conclure qu’il n’y a qu’une seule langue, et que ce que l’on nomme ordinairement langues, ne sont que les dialectes de cet idiome unique, dans lequel la forme, et non pas le fond ou l’essence des mots s’est modifiée; enfin, que cette essence des mots est contenue dans les racines qui ont existé dès le commencement, et dont on peut prouver l’origine par des raisonnemens physiologiques. Depping. Bull. etc. l. cit. alla p. 4312. Mars, 1827. t. 7. art. 231. p. 202.

M. Kärcher ne doute pas que les langues connues ne proviennent toutes d’une langue primitive; il se propose etc. encouragé par le suffrage de M. Goulianof, qui se propose, dit-il, de démontrer la certitude de cette dérivation universelle des idiomes d’un seul qui fut la souche de tous. Il se pourrait que des critiques d’une autorité au moins égale à celle de M. Goulianof, fussent d’un avis tout opposé. Quoi qu’il en soit, et M. Kärcher est bien le maître de préférer son opinion à celle des autres, etc. Champollion-Figeac. Ib. Décem. 1827. t. 8. art. 430. p. 410. (10. Sett. 1828.).

M. Lindemann ( Novus thesaurus latinae linguae prosodiacus. in 8.o Zittaviae et Lipsiae, 1827.) s’est aussi attaché à la vieille prosodie (latine), à celle qui précéda Ennius, et qui est bien différente de celle que l’on nous enseigne aujourd’hui, ainsi que l’ont démontré des critiques modernes, et surtout M. Hermann. Bull. de Féruss. l. cit. alla p. 4312. mars, 1827. t. 7. art. 253. p. 221. È dunque ragionevole quel ch’io dico altrove della mutata pronunzia prosodiaca greca a’ tempi romani, de’ sofisti ec. e della sua influenza sulla struttura de’ periodi ec. (11. Sett. 1828.).

Observations sur le meilleur système d’orthographe portugaise; par Rodr. Ferreira da Costa. ( Memor. da Acad. real das scienc. de Lisboa, tom. 8, part. 1, p. 102.) En 1820 l’Académie de Lisbonne résolut de rédiger un vocabulaire orthographique pour son usage. À ce sujet un de ses membres a cru devoir poser les principes d’après lesquels il faudrait procéder. Il rappelle d’abord les divers systèmes auxquels on a ordinairement recours; les uns veulent écrire comme on prononce, d’autres veulent qu’on reste fidèle à l’étymologie, d’autres encore préfèrent l’usage général, d’autres encore combinent ces 3. systèmes, ce qui en fait un 4.e L’auteur en examine les avantages et les inconvéniens: ec. Ib. septem. 1827. t. 8. art. 216. p. 217. Risulta dalle sue osservazioni che l’ortografia portoghese non è ancora fissata. (11. Sett. 1828.).

Alla p. 4345. Quaestiones Herodoteae; par le docteur C. 7G.7L. Heyse. Part. 1. De vitâ et itineribus Herodoti; in 8.o de 141. p.; Berlin, 1827. — sect. 2. De recitatione, quam Olympiae habuisse fertur Herodotus ol. 81. sect. 3. Vitae decursus usque ad ol. 84, de recitatione Athenis habitâ, deque ec. Bull. etc. Déc. 1827. t. 8. art. 425. p. 408. (11. Sett. 1828.). V. p. 4400.

Lingua universalis communi omnium nationum usui accommodata; per A. Rethy. In 8.o. de 144. pag. Vienne, 1821. ( Leipzig. Liter. Zeitung; avr. 1827, p. 758.) Bien que ce projet, de créer une langue universelle, contienne plusieurs bonnes idées, il n’offre cependant qu’une nouvelle preuve en faveur de l’opinion que la solution de ce grand problème restera inexécutable, tant que les sciences philosophiques ne seront point portées à un plus haut degré de perfection. L’auteur s’étant attaché à reporter la construction de sa langue à celle de la langue qu’il affirme primitive, a fait violence à l’histoire des langues afin d’appuyer son système. D’après lui, la langue primitive n’a été composée que de mots monosyllabiques, destinés à désigner les idées les plus générales, et qui, au moyen de leurs diverses combinaisons, suffisaient, dit-il, pour faire entendre toutes les idées combinées. D’après la nature de cet aperçu fondamental, on peut se dispenser de suivre l’auteur dans ses applications. Ib. juillet, 1827. t. 8. art. 2. p. 3. (11. Sett. 1828.).

Alphabet phonométrique; découverte de huit lettres nouvelles; par Virard. In 8.o. Grenoble, 1827. M. Virard s’occupe, depuis plus de 20 ans, de tout ce qui se rapporte à la grammaire. Par une heureuse combinaison dégageant la langue de toutes les lettres qui tiennent dans les mots une place oisive, arbitraire, et tout-à-fait inutile à la prononciation, il a atteint plus qu’aucun autre le moyen d’écrire comme on parle. Les lettres et leur assemblage, dont il fait usage, ne répresentent que le son de la voix, et par les exemples qu’il donne, il ajoute à la démonstration de sa méthode qu’il ne croit point encore perfectionnée, appelant, sur ce sujet, les méditations des grammairiens les plus érudits. Lorsque la prononciation sera notée d’une manière sûre et invariable, ce sera le moyen d’en conserver la pureté, de détruire le mauvais accent des provinces, de faire entendre à l’étranger le véritable son du mot et de transmettre en tout temps, d’âge en âge, un accent pur, inaltérable, et de perpétuer l’harmonie du discours, quand la langue sera devenue morte. A. Métral. ib. févr. 1828. t. 9. p. 131-2. art. 109. Le 8 nuove lettere saranno per i suoni francesi che non corrispondono veramente a nessun de’ segni dell’alfabeto latino. Credo che lo scopo di M. Virard non sia d’introdurre nell’uso una nuova ortografia, ma solo di perfezionare il metodo rappresentativo usato p. e. in quei dizionari che hanno la prononciation figurée. Sicchè la lingua francese (e simili) avrebbe bisogno di due scritture ec. (13. Sett.).

— Journal grammatical et didactique de la langue française. rédigé par M. Marle. In 8., n.11 à 22. Paris, 1827 et 1828... L’esprit d’innovation gagne aussi la Société grammaticale (i compilatori di quel Giornale). Voilà qu’on veut réformer l’orthographe de la langue française pour la soumettre plus directement à l’influence de la prononciation. Nous répéterons ici ce que nous avons dit ailleurs, que l’orthog. et la prononc. sont réciproquement représentatives l’une de l’autre, mais à droits inégaux, c. à d. que l’orth. a des titres primitifs inviolables, qui sa compagne doit d’abord respecter, et devenir ensuite belle et euphonique, si elle le peut, tout en rendant hommage aus droits de son aînée. Ces droits primitifs de l’orth. procèdent de l’origine même des mots, ou de l’étymologie: corrompre l’orth. de ces mots aux dépens de l’étymologie et au bénéfice d’une manière d’écrire plus commode, pour l’ignorance surtout, c’est introduire la barbarie dans la langue, lui ouvrir une voie sans fin de corruption (l’es. dell’italiano dimostra il contrario), et faire de tous les mots de la langue ce qu’une femme célèbre disait d’un peuple qui reniait ses notabilités historiques, une famille d’enfans trouvés. La Société grammaticale doit renoncer à une entreprise que rien ne peut justifier. (Voir le n.21. du journal)... Champollion — Figeac. Ib. Mars, 1828. t. 9 p. 231 art. 206. (14. Sett. Domenica. 1828. Firenze.).

Alla p. 4330. La 2.e partie du travail de M. Petit-Radel (Examen analytique et tableau comparatif des synchronismes de l’histoire des temps héroïques de la Grèce, par L. C. F. Petit-Radel, de l’Institut royal de France. 1 vol. in-4.o de 296 pages. Paris 1827.) est précédée d’une note de M. Saint-Martin, dans laquelle ce savant académicien fournit un extrait des raisons qui ont engagé son confrère à adopter, pour époque de la prise de Troie, l’an 1199 avant J. C. , et à faire partir de cette base tous les calculs ascendans des dates portées sur le tableau. Ib. Avril. 1828. t. 9. art. 301. p. 329. (16. Sett. 1828.).

I SS. Cirillo e Metodio, fratelli, monaci greci, chiamati Apostoli degli Schiavoni, nel nono secolo, introducendo nella Moravia e nella Pannonia la liturgia schiavona, ( la lithurgie slavonne ), cioè gli uffici divini in lingua schiavona ( le service divin en langue slavonne ), inventarono per iscriverla l’alfabeto schiavone ( l’alphabet slavon ), che è ancora in uso comune, e che porta il nome di alfabeto cirilliano. Bull. de Féruss. ec. passim, e specialmente février, 1828. t. 9. p. 163-7. art. 141. (17. Sett. 1828.).

Ἕλλα (cioè καθέδρα. Hesych.) — sella. ἕζω, ἕδω ec. — sedeo. ἕδρα, ἕδος ec. — sedes. (17. Sett. 1828.).

Foscolo, Discorso sul testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante. — Prospetto (cioè sommario) del Discorso. L’abuso delle minime date d’anni, (cioè de’ minimi indizi di tempo ne’ libri antichi), rannuvola più che non illustra la storia letteraria; e il rigettarle tutte, o fondare sistemi sopra le incerte, ha diviso novellamente i tre critici maggiori della età nostra, in Epicurei, Pirronisti, e Stoici. Payne Knight, critico stoico. — Discorso, § 15. Un verso del libro sesto dell’Iliade basta a Wolfio, non solo a dare corpo, forza ed armi alla ipotesi del Vico, che Omero non abbia scritto poemi, ma inoltre a desumere in che epoca della civiltà del genere umano fosse incominciata la Iliade, e in quanti secoli, e per quali accidenti fosse continuata e finita, forse per confederazione del caso e degli atomi d’Epicuro. (apparentemente Foscolo non avea letto Wolfio). Heyne disponendo fatti, tempi e argomenti a cozzar fra di loro, forse per investire la filologia del diritto di asserire e negare ogni cosa, indusse il pirronismo nell’arte critica; e chi lo consulta,

mussat rex ipse Latinus
Quos generos vocet aut quae sese ad foedera flectat.
(Vuol dir che Heyne intorno alle questioni sopra Omero, non si decide, e tiene il metodo dell’Accademia, in utramque partem disputandi.) Al caso e agli atomi di Wolfio e al pirronismo di Heyne si aggiunse con alleanza stranissima lo stoicismo affermativo di Payne Knight illustratore recente di Omero; e incomincia: Octogesimo post Trojam captam anno, Mycenarum regnum tenente Tisameno Orestis filio jam sene, magna et infausta mutatio rerum toti Graeciae oborta est ex irruptione Dorum (Carmina Homerica a Rhapsodorum interpolationibus repurgata et in pristinam formam, quatenus recuperanda esset, tam e veterum monumentorum fide et auctoritate, quam ex antiqui sermonis indole ac ratione, redacta. Nota. È il titolo dell’Om. di Knight col digamma, Lond. 1820.) — e dalla irruzione de’ Doriesi, i quali costrinsero molto popolo Greco a rifuggirsi nell’Asia minore, la storia critica della lingua e della poesia omerica, e l’epoca e l’indole e la fortuna finor ignotissime del poeta, sono dedotte con arte e dottrina e perseveranza, e affermate con la dignità d’uomo che sente di avere trovato il vero. Onde taluni che non possono persuadersi mai della probabilità di que’ fatti, si sentono convinti alle volte dagli argomenti, e ascoltano con riverenza lo storico (sic) al quale non possono prestar fede. (questo è il sistema esposto e seguito da Capponi, Lez. 2.a sulla lingua, Antologia, maggio 1828.) par. 16. Questo Payne Knight era uomo di forte intelletto; di non vaste letture, ma che parevano immedesimate ne’ suoi pensieri e raccolte non tanto per nudrire i suoi studi, quanto per essere nudrite dalla sua mente. Era nuovo e luminosissimo in molte idee; e quantunque ei potesse dimostrarne alcune e ridurle a principj sicuri, intendeva che tutte fossero assiomi ai quali non occorrono prove; e dalle conseguenze ch’ei ne traeva escludeva inflessibile qualunque eccezione, ond’erano inapplicabili, e sembravano assurde: ma quantunque ei parlasse energicamente ad esporle, non pareva o non voleva essere eloquente a difenderle; e quando s’accorse d’avere errato, lo confessò. ( Ob multos errores in libro de hac re Anglice scripto piacularem esse profiteor. Prolegom. in Homerum, sect. CLI. Nota.) Aveva signorili costumi, e animo libero e sdegnoso d’applausi; nè fra molti avversarj gli mancarono nobili lodatori: ed Heyne non lo cita che non lo esalti. E certo se molti seppero notomizzare la poesia e la lingua Greca meglio di lui, pochi hanno potuto conoscerne l’indole al pari di lui; e nessuno lo ha mai preceduto, e pochi potranno seguirlo a investigarle nelle loro remotissime fonti. Studiando le reliquie dell’antichità ad illustrare i tempi omerici ne radunò molte a grandissimo prezzo, e sono da vedersi nel Museo Britannico ov’ei per amore di letteratura e di patria, e con giusta ambizione di nome le lasciò per legato. Venne, pochi mesi addietro, a visitarmi; e discorrendo egli intorno agli eroi più o meno giovani dell’Iliade, io notai che stando a’ suoi computi, Achille sarebbe stato guerriero imberbe. Risposemi, ch’ei non si dava per vinto; ma ch’ei cominciava a sentire la vanità della vita, e non gl’importava oggimai di vittorie. Nè la poesia nè la realtà delle cose giovavano più a liberarlo dal tedio che addormentava in lui tutti i sentimenti dell’anima; e dopo non molti giorni, morì: ed io ne parlo perchè i suoi concittadini ne tacciono. par. 17. Or quando scrittori di tanta mente per via di date congetturali prestano forme e certezza a nozioni vaghe e oscurissime, e le fanno risplendere come vere, ei costringono l’uomo, o alla credulità ed al silenzio, o a meschine fatiche e al pericolo di controversie, e per cose di poco momento al più de’ lettori. (Firenze. 19. Sett. 1828.).

Ivi, par. 150. Senza ritoccare la questione (e ne discorro altrove (forse nell’articolo sull’Odissea di Pindemonte), e la tengo oggimai definita) se i due poemi sgorgavano da un solo ingegno nella medesima età, ( Payne Knight, Carmina Homerica, Prolegomena, sect. LVIII. — e il volumetto, "A History of the text of the Iliad." Nota.) chi non vede che sono dissimili in tutto fra loro, e che tendevano a mire diverse? Perciò nell’Iliade la realtà sta sempre immedesimata alla grandezza ideale, sì che l’una può raramente scevrarsi dall’altra, nè sai ben discernere quale delle due vi predomini; e chi volesse disgiungerle, le annienterebbe. Bensì nell’Odissea la natura reale fu ritratta dalla vita domestica e giornaliera degli uomini, e la descrizione piace per l’esattezza; mentre gli incanti di Circe, e i buoi del Sole, e i Ciclopi,

Cetera quae vacuas tenuissent carmine mentes,
compiacciono all’amore delle meraviglie: ma l’incredibile vi sta da sè; e il vero da sè. (19. Sett. 1828.).

Ivi, par. 201. Ma quale si fosse il tenore della lingua e della verseggiatura di Dante, non è da trovarlo in codice veruno; e in ciò la Volgata con la dottrina e la pratica dell’Accademia predomina sempre in qualunque edizione ed emendazione. Avvedendosi "Che per difetto comune di quell’età" — e chi mai non se ne avvedrebbe quand’è più o meno difetto delle altre? — "l’ortografia era dura, manchevole, soverchia, confusa, varia, incostante, e finalmente senza molta ragione" ( Salviati, Avvertim. vol. 1. lib.3. cap. 4. Nota) — anzi vedendola migliore di poco nel miracoloso fra’ testi del Decamerone ricopiato dal Mannelli ( Discorso sul Testo del Decam. p. XI. seg. pag. CVI. Nota) — parve agli Accademici di recare tutte le regole in una, ed è: — "che la scrittura segua la pronunzia, e che da essa non s’allontani un minimo che". ( Prefazione al Vocabolario, sez. VIII. Nota). Guardando ora agli avanzi della Volgata Omerica di Aristarco, parrebbe che gli Accademici de’ Tolomei fossero di poco più savj, o meno boriosi de’ nostri. La prosodia d’Omero, per l’amore di tutte le lingue primitive alla melodia, gode di protrarre le modulazioni delle vocali. L’orecchio Ateniese, come avviene ne’ progressi d’ogni poesia, faceva più conto dell’armonia, e la congegnava nelle articolazioni delle consonanti; e tanto era il fastidio delle troppe modulazioni, chiamate iati dagli intendenti, che ne vennero intarsiate fra parole e parole le particelle che hanno suoni senza pensiero. Quindi gli Alessandrini alle strette fra Omero e gli Attici, e non s’attentando di svilupparsene, emendarono l’Iliade così che ne nasceva lingua e verseggiatura la quale non è di poesia nè primitiva, nè raffinata. I Greci ad ogni modo s’ajutavano tanto quanto come i Francesi e gl’Inglesi; ed elidendo uno o più segni alfabetici nel pronunziare, non li sottraevano dalla scrittura; così le apparenze rimanevano quasi le stesse. Ma che non pronunziassero come scrivevano, n’è prova evidentissima che ogni metro ne’ poeti più tardi, e peggio negli Ateniesi, ridonderebbe; nè sarebbero versi, a chi recitandoli dividesse le vocali quanto il metro desidera ne’ libri Omerici: e l’esametro dell’Iliade s’accorcerebbe di più d’uno de’ suoi tempi musicali, se avesse da leggersi al modo de’ Bisantini, snaturando vocali, o costringendole a far da dittonghi. Però i Greci d’oggi a’ quali la pronunzia letteraria venne da Costantinopoli, e serbasi nel canto della loro Chiesa, porgono le consonanti armoniosissime; ma non versi, poichè secondano accenti semplici e circonflessi, e spiriti aspri, e soavi — come che non ne aspirino mai veruno — ed apostrofi ed espedienti parecchi moltiplicatisi da que’ semidigammi ideati in Alessandria, talor utili in quanto provvedono alla etimologia e alle altre faccende della grammatica. Non però è da tenerne conto in poesia, dove la guida vera alla prosodia deriva dal metro; e il metro dipendeva egli fuorchè dalla pronunzia nell’età de’ poeti? Ad ogni modo i grammatici Greci sottosopra lasciarono stare i vocaboli come ve gli avevano trovati, sì che ogni lettore li proferisse o peggio o meglio a sua posta. Ma i Fiorentini non ricordevoli di passati o di posteri, uscirono fuor delle strette medesime con la regola universale — Che la scrittura non s’allontani dalla pronunzia un minimo che; e non trapelando lume, nè cenno di pronunzia certa dalle scritture, pigliarono quella che udivano. Però mozzando vocali, e raddoppiando consonanti, e ajutandosi d’accenti e d’apostrofi, stabilirono un’ortografia, la quale facesse suonare all’orecchio non Io, nè lo Imperio, o lo Inferno; ma I’, lo ’Mpero, lo ’Nferno: e con mille altre delle sconciature del dialetto Fiorentino de’ loro giorni, acconciarono versi scritti tre secoli addietro.

par. 202. Queste loro squisitezze erano favorite dalla dottrina, che la lingua letteraria d’Italia fioriva tutta quanta nella loro città. Lasciamo che ove fosse vera s’oppone di tanto alle dottrine di Dante, che non sarebbe mai da applicarla ad alcuna delle opere sue. Ma avrebb’essa potuto applicarsi se non da critici ch’avessero udito recitare i versi di Dante a’ suoi giorni? L’occhio umano, paziente, fedelissimo organo, è agente più libero e più intelligente degli altri, perchè vive più aderente alla memoria; ma non per tanto non può fare che passino cent’anni e che le penne tutte quante non si divezzino dalle forme correnti dell’alfabeto. Così ogni età n’usa di distinte e sue proprie; onde per chiunque ne faccia pratica bastano ad accertarlo del secolo d’ogni scrittura. Ma sono divarj permanenti nelle carte; arrivano a’ posteri; e si lasciano raffrontare dall’occhio. Non così l’orecchio; capricciosissimo, perchè raccoglie involontario, istantaneo e di necessità tutti i suoni; e gli organi della voce gli sono connessi, cooperanti passivi, e meccanici imitatori; e però niun uomo cresce muto se non perchè nasce sordissimo. Di quanto dunque più preste e più varie e più impercettibili che la scrittura non saranno le alterazioni della pronunzia? Ma si rimutano senza che mai lascino, non pure le forme delineate, come ne’ vocaboli scritti, ma nè una lontana reminiscenza. Or chi mai fra’ posteri potrà rintracciarle se non con l’orecchio? e dove le troverà egli? Ridomandandole all’aria, che se le porta? o al tempo che torna a ingombrare l’orecchio di nuovi suoni? Allagheri, com’ei scrivevalo, e poscia Aligieri, Alleghieri, Allighieri, era lungo o breve nella penultima? or è Alighieri; ma in Verona s’è fatto sdrucciolo, Aligeri. Certo se gli arcavoli risuscitassero in qualunque città penerebbero ad intendere i loro nepoti.

par. 203. ed ult. Ma perciò che i Fiorentini di padre in figlio continuarono a ingoiare vocali o rincalzarle raddoppiando consonanti, l’Accademia ideò che quel vezzo fosse nato a un parto co’ loro vocaboli. ( Avvertim. della Lingua, Vol. 2. p. 129-160. ed. Mil. de’ Classici. Nota.) Pur è sempre accidente più tardo; anzi comune ed inevitabile a ogni lingua parlata: e tutti i popoli con l’andare degli anni per affrettare e battere la pronunzia scemano modulazioni, perchè sono molli e più lunghe; e le articolazioni riescono vibrate insieme e spedite. De’ Greci è detto; e più numero tuttavia di vocali scrivono gli Inglesi, e pare che parlino quasi non avessero che alfabeto di consonanti: ma chi ne’ loro poeti antichi leggesse all’uso moderno, non troverebbe versi nè rime. Nè credo che altri possa additare poesia di gente veruna ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati di melodia; e che non vi dominassero le vocali; e che poi non si diminuissero digradando. Anche nella prosodia latina, che era meno primitiva e tolta di pianta da’ Greci, e in idioma più forte di consonanti finali, regge l’osservazione; ed anche nelle reliquie di Ennio pochissime, pur le battute de’ ventiquattro tempi dell’esametro su le vocali per via d’iato sono moltissime; e spesse in Lucilio; e parecchie in Lucrezio; non rare in Catullo; non più di sette, che io me ne ricordi, in Virgilio; e una sola in Orazio, nè forse una in Ovidio. Or quante, se pur taluna è da trovarne in Lucano e gli altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo strepitosissimo Claudiano? Ben diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de’ versi, avveniva più presto in Italia che altrove; perchè il Petrarca aveva temprato l’orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche più che la Siciliana che a Dante veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que’ suoi fondatori fu scritta, nè mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all’occhio. Il danno della parola dissonante dalla scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un tempo (cioè la francese l’inglese ec.), è minore della sciagura che toccò alla Italiana, destinata anzi all’arte degli scrittori, che alla mente della nazione (vuol dire, scritta e non parlata, nè scritta pel popolo). A questo i tempi, quando mai la facciano parlata da un popolo, provvederanno. Per ora il potersi scrivere così che ogni segno alfabetico sia elemento essenziale del senso e del suono in ogni vocabolo, rimane pur quasi vantaggio su le altre sino da’ giorni di Dante. Onde mi proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie primitive, e alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non parlate, si rimane letteraria, permanente nelle apparenze, e svincolata de’ suoni accidentali e mutabili d’età in età nelle lingue popolari (francese inglese ec.), e ne’ dialetti municipali. Forse così la lezione della divina commedia, perdendo i vezzi di Fiorentina ritornerà schietta e Italiana. Fine del Discorso. (Firenze. Domenica. 21. Sett. 1828.). V. p. 4487.

Nel principio, e nel risorgimento degli studi, si credeva impossibile un’ortografia volgare, un’ortografia che non fosse latina, nel modo stesso che una letteratura volgare e non latina; e le lingue moderne si credevano incapaci di ortografia propria, così appunto come di letteratura. (21. Sett. Domenica. 1828.).

Alla p. 4367. Ci sarebbe ancora un altro partito, e ragionevolissimo. Avere due poesie e letterature, l’una per gl’intendenti, l’altra pel popolo. Così quelli non perderebbero, mentre questo ricupererebbe; non isparirebbero dal mondo i piaceri squisiti e divini (per chi gli può gustare) delle leterature perfezionate; ci potrebbe ancora essere chi provasse de’ trasporti di piacere leggendo Virgilio, come ci sono e saranno intendenti che ne provino mirando un quadro di Raffaello ec. ec. (21. Sett. 1828.).

Alla p. 4355. Sorte simile ad Omero ebbe anche in ciò il nostro Dante, il quale fino nello stesso sec. 14. ebbe forse tanti diascheuasti, cioè limatori del suo poema, più o meno arditi, quanti copiatori: onde quelle enormi e continue discrepanze de’ suoi codici e stampe anteriori alla edizione della Crusca. V. p. 4412.

Alla p. 4317. marg. Si legge così a Napoli anche l’Orlando innamorato del Berni e soprattutto la Gerusalemme del Tasso, e il popolo prende partito chi per l’uno di quegli eroi, chi per l’altro, e con tanto ardore, che dopo la lettura, discorrendo tra loro sopra quei racconti, e quistionando, talora vengono alle mani, e fino si uccidono. Una notte al tardi, due del volgo di Napoli che disputavano caldamente fra loro, andarono a svegliare il famoso Genovesi per saper da lui chi avesse ragione, se Rinaldo o Gernando (Gerusalemme del Tasso). Tengo tutto ciò dall’Imbriani padre, il quale mi dice che il popolo napoletano non ha bisogno che il lettore gli traduca quei poemi, ma che gl’intende da se. In questo modo quei poemi si possono dir veramente pubblicati. (22. Sett. 1828.). V. p. 4408.

Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriamente poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica. (22. Sett. 1828.). Però, chi dice che la letteratura greca fiorì principalmente in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec. (22. Sett. 1828.).

Chi presentandomi o raccomandandomi o parlando di me a qualcuno, uomo o donna, ha detto: mio grandissimo amico, grande ingegno, dotto ec. ec., non ha fatto nulla. Ci mancava la gran parola. Chi ha detto: uomo celebre, mi ha proccurato accoglienze e distinzioni e ricerche. Fama ci vuole, e non merito. Anche qui si verifica quello che ho detto altrove, la sola fortuna fa fortuna. Celebre equivale a ricco, nobile, potente, dignitario, ed altre fortune simili. (22. 7.bre 1828.).

L’eroismo ci strascina non solo all’ammirazione, all’amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della nostra, c’innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l’amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado quello che aveano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l’amato, infiammano l’amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c’innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste. (22. Sett. 1828.).

Alla p. 4354. marg. Potrebbe anco essere che i primi libri fossero in prosa, la prima applicazione della scrittura alla letteratura fosse alla prosa, continuando forse intanto a comporsi in versi senza scriverli, e consegnandoli solamente alla memoria, sì per l’inveterata abitudine, e sì per considerarsi la scrittura come non necessaria, anzi inutile, alla conservazione dei versi, e solo utile e necessaria a quella della prosa. In tal modo potrebbe esser passato molto tempo dopo che si scriveva in prosa, prima che si avessero versi scritti, nel qual tempo non si sarebbero avuti libri che in prosa. In tal caso, che mi par naturale, la prosa à son tour avria preceduto la poesia, come scritta, come opera di letteratura consegnata in libri. (22. Sett. 1828.). V. p. seg.

Alla p. 4318. marg. Ciclo epico, che comprendeva in varie poesie, incluse quelle d’Omero, la storia tutta del mondo, dalle Origini delle cose, cioè dalla teogonia ec. fino ad Ulisse; ciclo raccolto, secondo un critico tedesco, forse vivente (Bull. de Féruss. ec.) che ha fatto sopra di esso ciclo una dissertazione particolare, poco dopo il tempo de’ Pisistratidi. Le poesie comprese in questo ciclo, e i loro argomenti, non erano certamente epici nel senso che noi diamo a questa parola: nondimeno il ciclo si chiamava epico, cioè storico o narrativo. La poesia epica fu distinta dalla lirica, benchè anche τὰ ἔπη si cantassero sulla lira. ec. (23. Sett. 1828.).

Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire. (23. Sett. 1828.).

Alla p. qui dietro. Tutto ciò in quanto a possibilità o verisimiglianza. Ma in quanto a tradizione, par ch’ella provi che i libri in prosa o non precedettero, o solo di poco tempo, quegli in versi; poichè essa tradizione mette le prime prose greche nel principio del sec. 6. av. G. C. , tempo di Pisistrato che raccolse i versi Omerici, e tempo abbondante di altri poeti, i quali non pare al Wolf che potessero mancar di scrittura. Certo che di essi la tradizione non porta, come di Omero, che i loro versi fossero raccolti e scritti posteriormente. Nondimeno, benchè la tradizione non porti ciò neppur di Esiodo (V. p. 4397) (onde il Vico, lib.3. p. 400. Talchè Esiodo, che lasciò opere di sè scritte, poichè non abbiamo autorità che da’ Rapsodi fusse stato, com’Omero, conservato a memoria, si dee porre dopo de’ Pisistratidi), pure il Wolf pone anche Esiodo fra que’ poeti che non iscrissero, e le poesie esiodee (che egli reputa di vari autori) fra quelle che furono conservate lungamente per sola memoria. — Certior quidem historia adhuc saeculo VI. et V. ante Chr. Simonidi Ceo atque Epicharmo Siculo, antiquae Comoediae principi, satis insignes partes tribuit in litteris complendis et inveniendis novis, quas deinde cum prioribus in aptam seriem collectas a Callistrato quodam, ante alios Jonica Samos publice usurpavisse fertur. Atq. hoc Jonicum alphabetum 24 litterarum a populo Atheniensi tandem Euclide archonte, Olymp. 94, 2. ante Chr. 403 receptum, nec ibi ante hoc tempus usum duarum longar. vocalium publicatum tradunt plures et ex probatis auctoribus. Adeo sero litteratura Graecorum absoluta est et redacta in ordinem, primum, ut multis de causis coniicio, in iis civitatibus quae Sicil. et Magn. Graeciam tenebant, tum in illa posthac litterarum conficientissima urbe, Athenis. Sed cavendum est rursus ne tam serum usum scribendi credamus, aut in omni Graecia eodem tempore institutum. Jones quidem quum tot aliis rebus Europae cognatae exemplum nitidioris cultus darent et humani et civilis, matureque variis artibus et commerciis florerent, vel tacente historia verisimile esset, eos huius quoque praeclarae rei utilitatem primos animadvertisse et ad eam studium et ingenium contulisse suum. Quippe illis expectandus non fuit Callistratus Samius, ut aliquid scripto consignare tentarent: iam ante hunc papyro usi sunt; immo ante Simonidem et Epicharmum fuerunt lyrici poëtae, et Ionici et Aeolici, qui illo adminiculo faciendorum carminum carere vix possent. Deniq. in ea civitate (Athen.) quae antiq. alphabetum diutissime retinuit, Olymp. 39. minor numerus litterarum suffecit Draconis legibus ponendis. Quidni idem numerus suffecerit maximis voluminibus, si modo ea tum usitata fuerunt, sive ex pellibus, sive ex papyro Aegyptia? Wolf. par. 16. p. LXII-V. Certe Atticorum scriptorum non ante Persica tempora mentio fit aut signicatio cui non fidem deroget illius aevi et rei publicae facies et gravissimor. auctorum silentium. Sed non persequar quod tenere sine longis ambagibus non possum; ultro etiam concesserim, aliquanto ante Solonem Athenis hanc artem paullatim privato studio (del pubblico, in bronzo, marmo ec., non si dubita) usurpari coeptam: neque adeo dubito, quin id saeculis 8. et 7. in ceteris civitatibus, nominatim Joniae et Magnae Greciae, fecerint sollertiores quidam homines eorumq. exemplum vel secuti vel ipsi rem auspicati sint poëtae nonnulli, si non Asius, Eumelus, Arctinus, alii, sub primis Olympp. clari epicis Carminibus, at certe Archilochus, Alcman, Pisander, Arion et horum aequales: tamen si de universa Graecia et paullo tritiore usu artis institutoque conscribendorum librorum quaeris, iliud removendum non esse a Thaletis, Solonis, Pisistrati et eorum, qui Sapientes appellantur, aetate, i.e. ea qua oratio metro solvi coepit, ita significat nobis historia artium Graecarum omnium, ut infantiam suam obliti populi testimonium minime desiderandum videatur. De cultura prosae orationis ineunte saeculo ante Chr. VI. a pluribus et ipso Solone inchoata, deque causis novi incepti nihil hic habeo dicere: et quae ex veterum locis hauriri possunt, dicta sunt omnia. etc. Wolf. par. 17. p. LXIX-LXXI. — De cultura prosae, cioè della prosa colta in qualche modo e letteraria. Ma di una prosa rozza e mal culta, e simile a quella de’ nostri ducentisti, niente impedisce di credere ch’ella fosse scritta in libri e privatamente (poichè in monumenti pubblici non è dubbio) innanzi che si scrivessero versi: anzi la verisimiglianza mi pare che vi conduca, ed io sono di questa opinione, a differenza di ciò che sembra credere il Wolf. Però se per letteratura s’intendano libri scritti, io stimo, contro quello che si crede generalmente, che la letteratura prosaica precedesse in Grecia la poetica, cioè la scrittura della poesia. (25. Sett. 1828.).

Il Wolf conosce e cita per averlo preceduto nell’opinione che le poesie omeriche non fossero scritte, se non dopo, oltre Giuseppe ebreo, il Wood (inglese), il Rousseau e il Mairan; per l’opinione che esse da principio non costituissero poemi epici, ma non fossero che canti separati, raccolti poi da altri e ridotti nella presente forma, conosce e cita il Casaubono, il Bentley e l’abate Hedelin d’Aubignac, il cui libro, Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade , Paris 1715. 8.o. egli disprezza altamente. Ma non nomina punto mai il nostro Vico, il quale de’ cinque libri de’ suoi Principj di Scienza nuova, 3.a ediz. Napoli 1744. ne ha uno, cioè il 3.o intitolato Della discoverta del vero Omero, tutto dedicato alle quistioni Wolfiane. Nel qual libro, con minore abbondanza e sviluppamento di prove che il Wolf, ma pure con buone e forti ragioni, alcune delle quali non toccate da esso Wolf, asserisce e dimostra che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi (p. 399.), poichè infin’a’ tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui non si era ritrovata ancora la Scrittura Volgare (p. 394.); "che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria, e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perchè essi popoli greci furono quest’Omero (p. 404.);" "che perciò varjno cotanto l’oppenioni d’intorno alla di lui età, perchè un tal’Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla Guerra Trojana fin’a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocentosessant’anni (p. 404.)" (cioè che gli autori de’ versi omerici vivessero e componessero successivamente dalla guerra troiana fino a Numa) che "la cecità, e la povertà d’Omero furono de’ Rapsodi; i quali essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse Omero (ὅμηρος in lingua ionica), prevalevano nella memoria; ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d’Omero per le città della Grecia; de’ quali essi eran’Autori; perch’erano parte di que’ popoli, che vi avevano composte le loro Istorie;" (p. 404.) "che quest’Omero sia egli stato un’Idea, ovvero un Carattere Eroico d’uomini greci, in quanto essi narravano cantando le loro storie;" (p. 403.) "l’Omero Autor dell’Iliade avere di molt’età preceduto l’Omero Autore dell’Odissea;" (p. 405.) "che quello fu dell’Oriente di Grecia verso Settentrione, che cantò la Guerra Trojana fatta nel suo paese: e che questo fu dell’Occidente di Grecia verso mezzodì, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suo Regno;" (p. 405.) e, dicendo l’autor περὶ ὕψους che Omero compose giovane l’Iliade e vecchio l’Odissea, che "Omero compose giovine l’Iliade, quando era giovinetta la Grecia; e ’n conseguenza ardente di sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta; le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità; onde ammirò Achille Eroe della Forza: ma vecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione: la qual’è madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse Eroe della Sapienza. Talchè a’ tempi d’Omero giovine a’ popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l’atrocità: a’ tempi d’Omero vecchio già gli dilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle Sirene, i passatempi de’ Proci, e di, nonchè tentare, assediar’e combattere le caste Penelopi i quali costumi tutti ad un tempo sopra ci sembrarono incompossibili" (p. 404-5.) Finalmente "che i Pisistratidi Tiranni d’Atene eglino divisero, e disposero, o fecero dividere, e disponere i Poemi d’Omero nell’Iliade, e nell’Odissea: onde s’intenda quanto, innanzi, dovevan’essere stati una confusa congerie di cose; quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell’uno, e dell’altro Poema Omerico." (p. 399.) (26. Sett. 1828.).

Ecco l’Eroe (Achille), che Omero con l’aggiunto perpetuo d’irreprensibile canta a’ Greci popoli in esempio dell’Eroica Virtù! il qual’aggiunto, acciocchè Omero faccia profitto con l’insegnar dilettando, lo che debbon far’i Poeti, non si può altrimente intendere, che per un’huomo orgoglioso, il qual’or direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e sì predica la Virtù puntigliosa; nella quale a’ tempi barbari ritornati tutta la loro Morale riponevano i Duellisti: dalla quale uscirono le leggi superbe, gli ufizj altieri, e le soddisfazioni vendicative de’ cavalieri erranti, che cantano i Romanzieri. Ib. lib.2. p. 322-3. dopo aver descritto l’eroismo dell’Achille omerico, quanto sia lontano dalle idee nostre, ed anche antiche civili, circa il carattere eroico. (26. Sett. 1828.).

Alla p. 4392. marg. Dice per altro il Wolf p. XCVII-III. par. 23: Neque enim unius Homeri, sed et Hesiodi et aliorum Carmina, omneque epicum genus, mox lyricum quoque et iambicum, complexa est ars rhapsodorum. E in nota, p. XCVIII: Vide Plat. de Legg. II. p. 658. D., in Jone p. 530. B. (ed. Steph.) Athen. XIV. p. 620. C. Quanto ad Esiodo, ecco le sue parole. Sed Hesiodum quum dico, omne illud tempus intelligo, in quod Hesiodeorum quae nunc feruntur operum confectio incidit. Non uni enim illa tribuenda esse patet; et multo plura nomine eius ferebantur apud veteres. In Ἔργοις loci sunt multi πίνῳ venerandae vetustatis signati. Theogonia autem et Scutum Herc. et maxima pars eorum, quorum brevia fragmenta supersunt, Homerum toto certe saeculo subsequuntur. Huius rei argumento est, quod in iis plures notiones novae exstant et imitationes locorum Homericorum, in primis terrarum et populorum auctior et explicatior notitia. par. 12. not. p. XLII-III.

Alla p. 4357. L’imitazione drammatica non può essere spontanea e veramente secondo natura, se non in quanto a un solo personaggio, o 2 al più, e solo in alcune scene, cioè in quelle che corrispondano alla situazione attuale dell’animo del poeta. Ma qui è sempre il poeta egli stesso che si dipinge, o piuttosto parla, sotto altro nome; e quella non è veramente imitazione, ma quasi un travestimento. In tutti gli altri personaggi ed altre scene, la poesia è necessariamente sofistica. Del resto, tali scene, dove il poeta esprimesse i suoi sentimenti, passioni ec. attuali sotto nome di qualche personaggio storico, se si componessero staccate, potrebbero esser buona poesia: il poeta può aver buone ragioni per nascondersi sotto nome altrui; può trovarvisi, se non altro, più a suo agio; ed è anche poetico in qualche modo quel rapporto trovato ed espresso fra la propria situazione attuale, e quella d’alcun personaggio storico ec. (28. Sett. 1828.).

Alla p. 4372. Servian Popular Poetry. Poésies populaires des Serviens, traduites en vers anglais par M. Bowring. Londr. 1827. in— 12. Ces poésies, dont il doit paroître bientôt une traduction française, sont extraites d’un recueil publié à Vienne en 1824 par Stephanovich Vuk, auteur d’une grammaire servienne. Journ. des savans, 1827. p. 445. Juillet. (29. Sett. 1828.).

La Civilisation considérée sous le rapport du feu et relativement à la supériorité de l’homme sur le reste des animaux. Paris, Baudouin frères, in 8.o de 63 pages. Prix 1. fr. 50 cent. Ib. p. 445. 1826. Juillet, Livres nouveaux. (2. Ottob. 1828.).

Il reconnoît (M. Poirson, autore di un compendio di storia romana stampato a Parigi, 1825 e segg., e difensore per altro della verità della storia de’ primi secoli di Roma) qu’il y a de fortes présomptions contre la vérité des aventures d’Horatius Coclès, de Mucius Scaevola et de Clélie. Ib. 1826, août, p. 466. (3. Ott. 1828.).

Les Kirkis (nazione nomade, al Nord dell’Asia centrale) ont aussi des chants historiques (non scritti) qui rappellent les hauts faits de leurs héros; mais ceux-là ne sont récités que par des chanteurs de profession, et M. de Meyendorff (barone, viaggiatore russo, autore d’un Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820. Paris 1826; dal quale sono estratte queste notizie) eut le regret de ne pouvoir en entendre un seul. Ib. septemb. p. 518. Plusieurs d’entre eux (d’entre les Kirkis) , dice M. de Meyendorff, ib., passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. (3. Ottobre. 1828.).

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Grammatica Daco-romana, sive Valachica, latinitate donata et in hunc ordinem redacta a J. Alexi. Vindobonae 1826. in— 8.o Ib. Septemb. 1826. p. 573.

Alla p. 4375. Il Wesselingio nella Pref. all’Erodoto, in quella parte che riguarda la vita e gli scritti di questo, riportata dallo Schweighaeuser, con sue noterelle, appiè della propria sua pref. all’Erodoto, Argentorati 1816, t. 1., dice, a pag. XXII-III. di questa edizione: Tum patriam reliquit, inque Graeciam tetendit. Huc pertinent Luciani ista (In Herodoto cap. 1. p. 832. [T. IV. ed. Bipont. p. 116.]), difficilia quibusdam intellectu visa, πλεύσας γὰρ οἴκοθεν Herodotus ἐκ τῆς Καρίας εὐθὺ τῆς Ἑλλάδος, ἐσκοπεῖτο, videlicet, qua tandem ratione et minimo labore insignis ac celebris evaderet. Instabat per illi conmodum, Olympiorum tempus sollemne: properavit ad illud certamen, atque in magno Graecorum consessu recitavit Historias suas. Namque ea non docent, absolvisse Herodotum historiarum libros Halicarnassi, sed compositos in Samo insula, quod ex Suida adsciscendum, ex Caria ad Olympicum conventum secum portasse, et Graecis, ut illis innotesceret, praelegisse. Eligunt ad eam recitationem Olympiadem LXXXI. viri docti, quippe aetati Herodoti egregie congruam: neque mihi refragari animus est, eoque minus, quod pueriles Thucydidis anni Elidensem hanc Olympiadem sibi postulent. Aderat Thucydides una cum patre Oloro admodum adolescens ( Suidas in Θουκυδίδης), ἔτι παῖς ὢν, in summo Graecorum plausu recitanti, illacrymavitque, aemulatione quadam iam tum ad consimile laudis studium accensus; quo Herodotus animadverso, ad Olorum ( Marcellinus, Vit. Thucydid. p. 9.), οργᾷ ἡ φύσις τοῦ υἱοῦ σοῦ πρὸς τὰ μαθήματα, optime de puero XV. annorum, et gloriae desiderio lacrymante. Atque hic non obliviscor secundae recitationis, Athenis Olymp. LXXXIII. anno tertio institutae; quam Thucydidem auscultare potuisse, certum quidem est, sed iam virili aetate, non puerum. Erudite hoc H. Dodwellus exsecutus (Apparat. ad Annales Thucydid. p. 23.), adprobavit Ed. Corsino (Fast. Attic. T. III. p. 203. et p. 213.), sihi tamen non constanti, et eandem praelectionem in Olymp. LXXXIV. coniicienti. ... Certius habetur, Athenis suos eum libros legisse in consilio, uti Hieronymus scribit, et honoratum fuisse, idque festo Panathenaeorum die anni tertii Olympiadis LXXXIII., quae elegans ill. Scaligeri (Ad Eusebii Chronic. p. 104.) doctrina. Lo Schweighaeuser non ha a tutto questo passo alcuna sua nota. — Questa tradizione intorno ad Erodoto sembra provare almeno l’usanza che le prime prose fossero lette al popolo, e così edite, al modo de’ versi; o, se non altro, dee derivare dall’antico uso di recitare o cantare in pubblico i componimenti poetici. (7. Ottob. 1828.).

Il Wesselingio l. c. p. XXVI. In more ipsi (Herodoto) fuit (vid. lib.5, 36, l. 7. 93. et 213, l. 1. 75.) τὸν πρῶτον λόγον, τοὺς πρώτους λόγους primores libros, et sequentes τοὺς ὄπισθε λόγους, τοὺς ὀπίσω λόγους... adpellare. — Lo Schweighaeuser ivi in nota. Nec vero in hisce locis, aut horum similibus, vocabulum λόγος ita intelligi debet, quasi singulos e novem Historiarum suarum libris singulos λόγους diceret: sed λόγος in huiusmodi locis nihil aliud nisi narrationem, vel historiam, ut nos vulgo vocamus, significat: qua ratione etiam Hecataeus, ut hoc utar, λογοποιὸς Nostro dicitur, II. 143. v. 36. et 125. id est, Historiarum scriptor; de eodemque Hecataeo loquens idem Noster VI. 137. ait, Ἑκαταῖος ἐν τοῖσι λόγοισι, Hecataeus in suis Historiis; denique VII. 152. ubi πάντα τὸν λόγον ait, universam suam Historiam intelligit. Itaque, ubi se ait, de re quadam ἐν ἄλλῳ λόγῳ esse dicturum, non semper alium ex novem Historiarum suarum Libris intelligit, verum subinde etiam aliam eiusdem Libri partem; veluti, quae Lib. VI. c. 39. profitetur se ἐν ἄλλῳ λόγῳ expositurum, ea cap. 103. eiusdem sexti Libri exposita leguntur. Eodem modo Pausanias lib. III. cap. 2. quum ait Ἡρόδοτος ἐν τῷ λόγῳ τῷ ἐς Κροῖσον, non hoc dicit, Herodotus in Libro de Croeso, sed Herodotus in ea narratione (sive, in ea Historiarum suarum parte) quae ad Croesum spectat. Similiterque idem Pausanias, lib. V. cap. 26. p. 447. ait, Ἡρόδοτος ἐν τοῖς λόγοις, Herodotus in suis Historiis. Sed de hoc usu vocabuli λόγος vide mox ipsum Wesselingium verissime monentem. — Ciò è p. XXIX. Possum adfirmare veterum neminem Λόγους Herodoti Λιβυκοὺς (citati da lui medesimo. II. 161., e da alcuni creduti diversi dalle Istorie) ad testimonium excitasse, contra ex libro quarto (delle Istor.) res Afras depromsisse plures: immo solere illum partem libri λόγον et λόγους adpellare: de nece Cimonis, patris Miltiadae, τὸν μὲν ἐγὼ ἐν ἄλλῳ λόγῳ σημανέω (lib. VI. 39.): dixit autem eiusdem Musae, cap. 103. Geminum illi Libri primi cap. 75. — Scilicet (nota lo Schweigh. ib.), quam rem lib. I. cap. 75. ait se ἐν τοῖσι ὀπίσω λόγοισι declaraturum, eam non in sequentium librorum aliquo, sed in eodem lib. I. cap. 124. declaratam videmus. — V. p. 4467. Propriamente però λόγος in tali casi non vuol dir narrazionestoria, ma prosa, a differenza di ἔπη o μέλη (carmina-oratio); καταλογάδην in prosa; λογοποιὸς prosatore, a differenza di ἐποποιὸς ec. Ma o perchè le prime prose scritte fra’ greci fossero istorie, o perchè la più parte di esse fossero istoriche a que’ primi tempi, o finalmente perchè il genere storico non avesse alcun nome particolare a principio, e forse (com’e naturalissimo) non esistesse veramente distinto dagli altri generi, cioè non si avessero opere di pura storia, o narrative, ma materie e qualità miste e confuse ec. (11. Ottob. 1828.) fu appropriato alle storie il nome generale di prosa λόγος, ed Erodoto chiamò λογοποιὸν prosatore lo storico Ecateo. E quando poi le opere in prosa furono cominciate a dividere in libri, questi libri ancora furono chiamati prose λόγοι, prosa 1., prosa 2. ec. prose 9 (Ἡροδότου λόγοι ἐννέα è appunto il tit. dell’ediz. Aldina di Erod., I.a ediz. greca, Venez. 1502.): quasi per confermare che la confezion di libri, secondo l’opinione del Wolf, ebbe origine dai prosatori. E per luminosa conferma dell’opinione del medesimo che da principio scrittura e prosa fossero la cosa medesima, troviamo (cosa da lui nè da altri a questo proposito non osservata) συγγραφεὺς esser sinonimo di storico. V. Scapula etc. in σύγγραμμα, συγγραφὴ, λογοποιὸς. V. p. 4406.

Dialetti greci. Nec vero putandum est, cunctis eis in locis, ubi etiam nunc formae verborum communes praeeuntibus libris omnibus supersunt (nell’Erodoto), quum alibi in eisdem verbis formâ jonibus propriâ usum esse videamus Scriptorem, per librariorum aut temeritatem aut socordiam esse illas invectas. Licitum fuit ionico scriptori communibus verborum formis promiscue atq. illis uti quae Jonibus propriae erant: et haud dubiis document. intellexisse mihi videor, ut olim Homerum, sic etiam Herodotum, si quis alius, hanc sibi veniam sumsisse et ... variationem consulto esse secutum. Quo minus caussae esse equid. iudicavi, cur perspicua in hanc partem Hermogenis verba (de formis orationis l. 2. p. 513. coll. p. 406.), non pura sed mixta dialecto scripsisse Herod. docentis, cum doctis. Wesselingio nostro ( Diss. Herodotea, p. 147. seq.) aliam in partem interpretaremur. Schweighaeuser, praef. ad Herodot. p. VIII-IX. E ib. p. IX. in nota: Schaeferum, virum de Script. nostro praeclare merit. , postquam in edendis Musis coepisset, expulsis ubiq. formis verbor. communib., jonic. substituere formas, mox meliora edoctum abiecisse novimus istud consilium. (11. Ott. 1828.).

Alla p. 4359. Il luogo riportato nel pensiero qui anteced., mostra che tale opinione (oggi però rigettata comunemente dagli eruditi) fu tenuta fino nel 1816. (epoca dell’ed. Argentoraten. d’Erodoto) da un uomo come lo Schweighaeuser. (11. Ott. 1828.).

Enfin, l’objet de notre sympathie la plus habituelle (dans l’Iliade), c’est Hector: et si d’un côté nous sommes entraînés par le talent du poète à désirer la prise de Troie, nous éprouvons de l’autre une sensation constamment pénible, en voyant dans le défenseur de cette cité malheureuse, le seul caractère auquel tous nos sentimens délicats et généreux se puissent allier sans mélange. Ce défaut, car c’en serait un, si le poète avait eu pour but de former un tout consacré seulement à célébrer la gloire d’Achille; ce défaut, disons-nous, a tellement frappé des critiques, qu’ils ont attribué à Homère l’intention d’élever les Troyens fort au-dessus des Grecs; et la pitié qu’il cherche à exciter pour le malheur des premiers leur a paru confirmer cette opinion. B. Constant, de la Religion, liv. 8. ch. 1. t. 3. Paris 1827. p. 430-1. Notisi che anche il Constant (il quale assolve del resto la Iliade da questo difetto, sostenendo ch’essa non è in origine un poema unico), riconosce però in questo passo che l’eccitare la compassione ec. per Ettore ec. e le lodi che sembrano darsi ai Troiani ec., sieno tali anche nel senso del poeta, e sarebbero state contrarie all’unità dell’interesse per Achille ec.: benchè in quel medesimo lib. e nel precedente egli osservi e dimostri la differenza grande dai costumi e dalle idee de’ tempi civili a quelle de’ tempi dell’Iliade. (12. Ottob. 1828.). V. p. 4413.

Alla p. 4404. Ecco dunque storico, prosatore, e scrittore o compositore in iscritto (συγγραφεὺς); storia, prosa, libro, e scrittura o composizione in iscritto (σύγγραμμα, συγγραφὴ: v. l’indice greco dell’Anabasi di Arriano, in συγγραφὴ ), usati spesso in un medesimo senso. Qual maggior conferma dell’osservazione acutissima del Wolf? (12. Ottob.). V. p. 4431.

Les Sagas, ou traditions des Scandinaves, qui, de père en fils, avaient conservé dans leur mémoire des récits assez étendus pour qu’on en ait rempli des bibliothèques lorsque l’art d’écrire est devenu commun en Scandinavie, servent à nous faire concevoir la possibilité d’une conservation orale des poèmes homériques. L’histoire entière du Nord, dit Botin ( Histoire de Suède, ch. 8.), était rédigée en poèmes non écrits. (Il y a encore de nos jours, dans la Finlande, des paysans dont la mémoire égale celle des rhapsodes grecs. Ces paysans composent presque tous des vers, et quelques-uns récitent de très-longs poèmes, qu’ils conservent dans leur souvenir, en les corrigeant, sans jamais les écrire. ( Rühs, Finnland und seine Bewohner ). (Ed è ben naturale che de’ rozzi paesani per cui la scrittura non è ancora in uso o in possesso, coincidano co’ Greci di que’ tempi in cui la scrittura non era usata neppure dalle classi più colte). Bergmann ( Streifereyen unter den Calmucken, II, 213. V. p. 4412.), parle d’un poème Calmouk, de 360 chants, à ce qu’on assure, et qui se conserve depuis des siècles dans la mémoire de ce peuple. Les rhapsodes, qu’on nomme Dschangarti, savent quelquefois vingt de ces chants par coeur, c’est-à-dire un poème à peu près aussi étendu que l’Odyssée; car par la traduction que Bergmann nous donne d’un de ces chants, nous voyons qu’il n’est guère moins long qu’une rhapsodie homérique. [Ora sarebbe egli credibile che tutto questo poema fosse stato composto da un solo, quando anche i Calmucchi lo affermino per tradizione?]) Notre vie sociale, observe M. de Bonstetten ( Voy. en Ital. p. 12.), disperse tellement nos facultés, que nous n’avons aucune idée juste de la mémoire de ces hommes demi-sauvages, qui, n’étant distraits par rien, mettaient leur gloire à réciter en vers les exploits de leurs ancêtres. B. Constant, de la Relig. liv. 8. consacrato a provare che l’Iliade e l’Odissea sono d’autori e d’epoche differenti, e che questa è posteriore a quella, chap. 3. t. 3. Paris 1827. p. 443-4. (12. Ottobre. 1828.).

Alla p. 4389. Simile entusiasmo, del resto, producevano nel popolo greco, anche a’ tempi colti e dopo l’uso della scrittura, e quindi in condizione similissima a quella del popolo napoletano, le poesie recitate da’ rapsodi. V. il dialogo platonico Ione. (13. Ott.)

A. W. Schlegel pense que l’Iliade est composée de 3 poèmes, dont le 1.r finit avec le 9.e livre, le second avec le dix-huitième, et dont le 3.e comprend la mort de Patrocle, celle d’Hector. Il regarde comme des composit. à part la Dolonéide et le 24.e livre. Les derniers chants, dit-il, sauf les 30. vers qui terminent le tout, se rapprochent déjà de la pompe et de la majesté préméditée de la tragédie. Constant, l. c. ci-dessus, p. 462. not. (13. Ott. 1828.).

On ne peut lire les chants d’Ossian sans être frappé de leur uniformité, et néanmoins Ossian n’a certainement pas été un seul et même barde. Ib. 457-8. (13. Ott.).

Alla p. 4359. Mais toutes ces différences entre les deux races (dorienne et ionienne) sont bien postérieures aux âges homériques: ceux même qui les ont le mieux observées ont reconnu cette vérité. Les Grecs d’Homère, remarque M. Heeren, se ressemblent tous, quelle que soit leur origine. Il n’y a nulle distinction à faire entre les Béotiens, les Athéniens, les Doriens, les Achéens que nous rencontrons dans ses poèmes. Les héros de ces diverses peuplades n’ont rien de local. Les contrastes qui les séparent, proviennent de leur caractère individuel et de leurs qualités personnelles. ( Heeren, Ideen. Grecs, (sic) pag. 117.). Il en est de même des dieux. Bien que Junon soit la divinité spéciale de l’Argolide, Jupiter de l’Arcadie, de la Messénie et de l’Élide, Neptune de la Béotie et de l’Égialée, Minerve de l’Attique, toutes ces spécialités disparaissent dans la mythologie homérique. Ib. l. 7. ch. 3. p. 286-7. Questa mancanza di località ne’ caratteri ec. de’ Greci omerici, non verrebbe ella da difetto d’arte nel poeta, piuttosto che da reale uniformità di tutti i Greci di quel tempo (uniformità affatto inverisimile, trattandosi di tanti popoli, divisi di governo, e formanti in certa maniera tante diverse nazioni), come l’hanno creduto questi scrittori? (14. Ott. 1828.). In tal caso però i poemi omerici sarebbero o di un solo autore, o di autori tutti d’un medesimo paese, cosa non improbabile. Infatti essi non erano appena conosciuti nel Peloponneso al tempo di Licurgo, che li portò a Sparta, cioè portò seco rapsodi che li cantavano, dalla Ionia. (14. Ott. 1828.).

Les dieux sont jaloux, dit Homère ( Il. 7.455.), non seulement du succès, mais de l’adresse et du talent. Toute prospérité mortelle fait ombrage à l’orgueil divin. On trouve chez les Grecs mod. un vestige assez curieux de cette anc. idée, que les dieux sont jaloux de tout ce qui est distingué. Ils considèrent la louange comme pouvant attirer les plus grands malh. sur la pers. qui en est l’objet, ou qui est propriétaire de la chose qu’on admire; et ils demand. avec instance au panégyriste indiscret de détourner l’effet de ses éloges par quelque signe de mépris qui désarme le corroux céleste. ( Pouqueville, Voy. en Morée ). Ib. ch. 6. p. 344-5. testo e note. L’origine di ciò potrebbe però essere anco il timore delle concussioni turche, e la schiavitù. (14. Ott. 1828.).

La morte consideravasi dagli antichi come il maggior de’ mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d’imitar la vita perduta; il soggiorno dell’anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec. ec. Sopra tutte queste cose da me osservate altrove, v. Constant, ib. liv. 7. ch. 9. t. 3. (14. Ott. 1828.).

Gli antichi déi della Grecia ec. erano nell’immaginazione de’ greci, ec. e ne’ loro simulacri, ec. di figura mostruosa e spaventevole; abbellita a poco a poco col progresso della civiltà: segno che l’origine della religione fu il timore ec., come dico altrove. V. ib. ch. 5 (14. Ott. 1828.).

Il y a chez tous les peuples, comme le remarque un érudit célèbre ( Wolff (sic), Prolegom., p. 69.), un fait qui constate l’époque à laquelle l’usage de l’écriture devient général; c’est la composition d’ouvrages en prose. Aussi longtemps qu’il n’en existe point, c’est une preuve que l’écriture est encore peu usitée. Dans le dénûment de matériaux pour écrire, les vers sont plus faciles à retenir que la prose, et ils sont aussi plus faciles à graver. La prose naît immédiatement de la possibilité que les hommes se procurent de se confier, pour la durée de leurs compositions, à un autre instrument que leur mémoire. Ib. l. 8. ch. 3. p. 441-2. (15. Ott. 1828.).

Dans la Grammaire comparée des langues de l’Europe latine avec celle des troubadours, page 302, j’ai prouvé que le présent de l’infinitif, précédé de la négation, tenoit parfois lieu de l’impératif; que cette forme se retrouvoit dans l’ancien français ainsi que dans l’italien: mais il faut nécessairement que le verbe soit précédé de la négation, comme le verbe l’est ici, ne t’accompagner mie À home de malvese vie . Raynouard. — J. des Savans, 1825. p. 184. Mars. (15. Ott. 1828.).

Sopra l’uso di ἀκμὴν (greco mod. ἀκόμη) p. ἔτι, è da vedersi M. Letronne nel Nouvel Examen critique et historique de l’Inscription grecque du roi nubien Silco, articolo 1. alla linea 12. dell’Iscriz., nel J. des Savans, 1825. p. 108. Février. (15. Ott. 1828.).

Alla p. 4364. Il vero modo di citare questa Memoria di M. Letronne, è: Nouvel Examen critique et historique de l’Inscription grecque du roi nubien Silco. Partie historique. Sect. II. — Journ. des Savans, 1825, Mai (3.me article, et dernier.) (15. Ott. 1828.).

Alla p. 4407. Il vero titolo è: Nomadische Streifereien unter den Kalmüken: (cioè Promenades nomades chez les Kalmuks.) Riga 1804. 4. vol. in 8.o. op. tradotta da M. Moris in francese: Voyage de Benjamin Bergmann chez les Kalmuks (fatto nel 1802 e 1803); Châtillon-sur-Seine, 1825. I. vol. in 8.o. (esso non comprende i 2. ult. vol. dell’op. tedesca, che contengono delle traduzioni dal mongolico ec.) ( Journ. des Savans, 1825. p. 363. sqq. Juin.)

Utilità della pazienza ec. Una faccenda noiosa o penosa, un viaggio ec., quando è sulla fine, riesce più molesto che mai, le ultime miglia paiono le più lunghe ec., non già perchè l’uomo allora è più stanco, ma perchè l’impazienza si accresce per quella smania di arrivare, che nasce dal vedere il termine da vicino. (17. Ottob. 1828. Firenze.).

Alla p. 4388. Questo es. potrebbe far credere vero che i diascheuasti omerici fossero di poco posteriori a Pisistrato, del che a p. 4355. (17. Ottob. 1828 .).

Alla p. 4359. L’epica, non solo per origine, ma totalmente, in quanto essa può esser conforme alla natura, e vera poesia, cioè consistente in brevi canti, come gli omerici, ossianici ec., ed in inni ec., rientra nella lirica. V. p. 4461.

Alla p. 4372. Infatti la lingua italiana tra le moderne è considerata per aver la più antica letteratura, perchè ha i più antichi libri veramente letterarii, e che abbiano esercitata ed esercitino ancora un’influenza perpetua sulla lingua e letteratura nazionale; mentre quanto all’antichità semplicemente di scrittura, cioè di versi e prose scritte in lingua volgare (anche lunghi poemi, lunghe Cronache ec.), la lingua italiana cede di gran lunga alla francese e spagnuola ec., per non parlare della tedesca ec. (anzi in ciò la lingua italiana è delle più moderne, se non la più.) Nondimeno è sempre vero che la letteratura italiana è la più antica delle viventi, perchè Dante, Petrarca Boccaccio sono i più antichi classici fra’ moderni, i più antichi che si leggano e nominino, non solo fra gli eruditi nazionali, ma fra tutti i colti d’Europa.

Quando io dico: la natura ha voluto, non ha voluto, ha avuto intenzione ec., intendo per natura quella qualunque sia intelligenza o forza o necessità o fortuna, che ha conformato l’occhio a vedere, l’orecchio a udire; che ha coordinati gli effetti alle cause finali parziali che nel mondo sono evidenti. (20. Ott. 1828.).

Alla p. 4406. Chi dicesse che i Persiani d’Eschilo sono di un persiano, o composti nel senso e spirito persiano, perchè l’interesse e la compassione quivi è tutta per i Persiani, direbbe bene nel senso de’ moderni, e pure avrebbe torto nel fatto. Essi sono di un greco, nazionale degli autori di quelle disgrazie, ec. (anzi se non erro, Eschilo militò contro i Persiani), e fatti per essere rappresentati ai greci. I Persiani, considerati in questo aspetto, sono propriamente il pendant dell’Iliade (e il comento), e il rovescio della Μιλήτου ἅλωσις di Frinico.

Umbra, ombra — sombra (spagn.), sombre (franc.)

Alla p. 4363. marg. Perocchè i grammatici, diascheuasti ec. non sono giunti di gran lunga a render metrici tutti i versi omerici.

Alla p. 4369. Così ad Ossian si attribuirono tutte le poesie caledonie: ad Omero tutte quelle che compongono oggi l’Iliade e l’Odissea; tra le quali, supposta per vera la persona di quest’Omero, è però ben difficile, come appunto nelle ossianiche, il determinare quali sieno sue, quali d’altri; ed anche se ve ne sia alcuna di sue; anzi è veramente impossibile. Taccio poi delle tante altre poesie epiche attribuite ad Omero (e ad Esiodo), compresa la Batracomiomachia, sì manifesta parodia dell’Iliade: e ciò fin dal tempo di Erodoto, che nomina τὰ Κύπρια ἔπεα come opera attribuita ad Omero, a cui egli però la nega (l. I. c. 117. Schweigh.), e gli Ἐπίγονοι parimente, de’ quali pure egli dubita se sieno d’Omero (l. 4. c. 32. Schweigh.) (21. Ott.).

Il vedere che Omero (per usare, come dice Constant, questo nome collettivo) parlando della sua poesia, non dice mai di scrivere, ma sempre cantare o dire, è prova assai maggiore che non si crede, che i suoi versi in fatto non furono scritti. Noi, quantunque i nostri versi si scrivano, diciamo di cantarli, perchè la lingua antica, cioè la lingua di Omero, ha usata questa espressione per il poetare. Ma nella lingua di Omero, non vi poteva essere altra ragione per usarla e per non parlar mai di scrittura, se non, che le poesie in fatti si cantavano senza scriverle. Ho dimostrato altrove che dovunque esiste una lingua poetica formata, questa lingua non è altro che lingua antica. Ma i tempi d’Omero non potevano avere una lingua poetica (se non per lo stile, come i francesi), perchè non avevano antichità di lingua. E in fatti non avevano lingua poetica a parte: e Omero nomina tutti gli usi di que’ tempi, nomina le città, i popoli, i magistrati ec. co’ loro nomi propri e prosaici. Così accade in tutte le poesie primitive, e così Dante è pieno di nomi propri e prosaici, spettanti a geografia (Montereggione ec. ec.), costumi de’ suoi tempi, dignità ec., nomi che ora o sono sbanditi dalla lingua poetica, o non vi sono ammessi se non come usati da Dante. V. p. 4426. Se dunque l’uso del tempo omerico fosse stato che le poesie si scrivessero, Omero avrebbe detto francamente di scriverle. Il veder che nol dice mai, nemmen per perifrasi o metafora (come fa l’autore della Batracomiomachia subito nel bel principio, nell’invocazione; il quale dice il Wolf come cosa provata, essere stato verisimilmente circa i tempi d’Eschilo[a]), è prova quasi parlante che non le scriveva. (21. Ott. 1828. Firenze.).

Perchè il moderno, il nuovo, non è mai, o ben difficilmente romantico; e l’antico, il vecchio, al contrario? Perchè quasi tutti i piaceri dell’immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza. Che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente. (22. Ottobre. 1828. Firenze.).

Qu’on jette une poultre entre ces deux tours de Notre-Dame de Paris, d’une grosseur telle qu’il nous la fault à nous promener dessus, il n’y a sagesse philosophique de si grande fermeté qui puisse nous donner courage d’y marcher comme si elle estoit à terre. Montaigne, Essais, livre 2. chap. 12. Pascal ( Pensées ) si è appropriato questo pensiero. Le plus grand philosophe du monde, sur une planche plus large qu’il ne faut pour marcher à son ordinaire, s’il y avoit au-dessous un précipice, quoique sa raison le convainque de sa sûreté, son imagination prévaudra. I funamboli fanno più ancora; ma ciò non distrugge la convenienza dell’osservazione soprascritta. (Firenze. 23. Ottobre. 1828.).

La grazia in somma per lo più non è altro che il brutto nel bello. Il brutto nel brutto, e il bello puro, sono medesimamente alieni dalla grazia. (Firenze. 25. Ott. 1828.).

Alla p. 4369. Le nom d’Ésope étoit d’ailleurs devenu dans la Grèce une espèce de sceau banal, qu’on attachoit à tous les apologues utiles et ingénieux, comme ceux de Pilpay, de Lockman, de Salomon, dans l’Orient. (Così tutti i Salmi attribuiti a David, ec.). Charles Nodier, Questions de littérature légale, 2.de édit. Paris 1828. par. 8.p. 68-9. C’est le propre de l’érudition populaire de rattacher toutes ses connoissances à quelque nom vulgaire. Il y a peu de grandes actions de mer qu’on n’attribue à Jean Bart, peu d’espiègleries grivoises qu’on ne mette sur le compte de Roquelaure. Il en est de même, pour la foule, des auteurs à la portée desquels son intelligence peut s’élever. Il y a cent cinquante ans qu’un bon mot ne pouvoit éclore que sous le nom de Bruscambille ou de Tabarin. Ib. note, p. 68-9. (Firenze. 26. Ottob. 1828.).

Ho preso un poco di vino, quanto per dormire ὅσον καθεύδειν, o πρὸς τὸ καθεύδειν ec. (3. Nov. 1828.).

Οἶκος — vicus.

De’ diascheuasti italiani e latini v. Perticari (Scritt. del 300) dove parla della pessima ortografia autografa del Petrarca Tasso ec., e dove prova che i latini del buon secolo, copiando o citando Ennio e gli altri antichi, li riducevano in gran parte alla moderna. (3. Nov. 1828.).

La Divina Commedia non è che una lunga Lirica, dov’è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti. (Firenze. 3. Novembre. 1828.).

Ὡς ἔρχομαι φράσων, ὡς ἔρχομαι λέξως, περὶ οὗ ἔρχομαι λέξων e simili; frasi frequentissime di Erodoto, nel semplicissimo senso del francese comme je vais dire ec. (Firenze. 8. Nov. 1828. Sabato.).

Fratta — φράττω, καταφρακτὸς ec. (Recanati. 30. Nov. 1828. Domenica.).

Non saprei come esprimere l’amore che io ho sempre portato a mio fratello Carlo, se non chiamandolo amor di sogno. (30. Nov.).

Memorie della mia vita. — Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’io vivo. Passar le giornate senza accorgermene; parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle. V. p. 4477. — Piacere, entusiasmo ed emulazione che mi cagionavano nella mia prima gioventù i giuochi e gli spassi ch’io pigliava co’ miei fratelli, dov’entrasse uso e paragone di forze corporali. Quella specie di piccola gloria ecclissava per qualche tempo a’ miei occhi quella di cui io andava continuamente e sì cupidamente in cerca co’ miei abituali studi. (30. Nov.).

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione. (30. Nov. I.a Domenica dell’Avvento.). V. p. 4502.

È cosa notata che il gran dolore (come ogni grande passione) non ha linguaggio esterno. Io aggiungo che non ne ha neppure interno. Vale a dire che l’uomo nel grande dolore non è capace di circoscrivere, di determinare a se stesso nessuna idea, nessun sentimento relativo al suggetto della sua passione, la quale idea o sentimento egli possa esprimere a se medesimo, e intorno ad essa volgere ed esercitare, per dir così, il pensiero nè dolor suo. Egli sente mille sentimenti, vede mille idee confuse insieme, o piuttosto non sente, non vede, che un sentimento, un’idea vastissima, dove la sua facoltà di sentire e di pensare resta assorta, senza potere, nè abbracciarla tutta, nè dividerla in parti, e determinar qualcuna di queste. Quindi egli allora non ha propriamente pensieri, non sa neppur bene la causa del suo dolore; egli è in una specie di letargo; se piange (e l’ho osservato in me stesso), piange come a caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di che. Quei drammatici, e simili, che in circostanze di grandi passioni introducono de’ soliloqui, fondandosi sulla convenzione che permette a’ suoi personaggi di dire alto quello che essi direbbero tra se medesimi se fossero reali, sappiano che in tali circostanze l’uomo tra se non dice nulla, non parla punto neppur seco stesso. E fra tali drammatici ve n’ha de’ sommi (Shakespeare medesimo), se non son tali tutti. (30. Nov. 1828. Recanati.).

Alla p. 4280. Ho veduto io stesso un canarino domestico e mansuetissimo, appena presentato a uno specchio, stizzirsi colla propria immagine, ed andarle contro colle ali inarcate e col becco alto.

Alla p. 4241. Vedesi l’uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudicata ed originale, ed anche nella ragionevole e spregiudicata morale teologica del marchese Maffei; nello stile originale, nel modo individuale di pensare e di poetare, nel tuono ardito e sicuro, nella stessa fermezza e forza d’opinion religiosa e superstiziosa del Varano. (1. Dicembre. 1828. Recanati.).

Memorie della mia vita. — Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna. Io era allora incapace di conciliar l’una vita coll’altra; tanto incapace, che io giudicava questa riunione impossibile, e mi credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti a vivere esternamente, non provassero più vita interna di quella ch’io provava allora, e che i più non l’avessero mai conosciuta. La sola esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su questo articolo. Ma quello stato fu forse il più penoso e il più mortificante che io abbia passato nella mia vita; perch’io, divenuto così inetto all’interno come all’esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita. (1. Dic. 1828.).

Il giovane, per la stessa veemenza del desiderio che ne sente è inabile a figurare nella società. Non diviene abile se non dopo sedato e pressochè spento il desiderio, e il rimovimento di quest’ostacolo ha non piccola parte nell’acquisto di tale abilità. Così la natura delle cose porta che i successi sociali, anche i più frivoli, sieno impossibili ad ottenere quando essi cagionerebbero un piacere ineffabile; non si ottengano se non quando il piacere che danno è scarso o nessuno. Ciò si verifica esattamente: perchè se anco una persona arriva ad ottener de’ successi nella prima gioventù, non vi arriva se non perchè il suo animo percorrendo rapidamente lo stadio della vita, è giunto assai tosto (come spesso accade) a quello stato nel quale i successi sociali si desiderano leggermente, e poco o niun piacere cagionano. (1. Dic. 1828.).

Nelle mie passeggiate solitarie per le città, suol destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la vista dell’interno delle stanze che io guardo di sotto dalla strada per le loro finestre aperte. Le quali stanze nulla mi desterebbero se io le guardassi stando dentro. Non è questa un’immagine della vita umana, de’ suoi stati, de’ beni e diletti suoi? (1. Dicembre. 1828. Recanati.).

La Natura è come un fanciullo: con grandissima cura ella si affatica a produrre, e a condurre il prodotto alla sua perfezione; ma non appena ve l’ha condotto, ch’ella pensa e comincia a distruggerlo, a travagliare alla sua dissoluzione. Così nell’uomo, così negli altri animali, ne’ vegetabili, in ogni genere di cose. E l’uomo la tratta appunto com’egli tratta un fanciullo: i mezzi di preservazione impiegati da lui per prolungar la durata dell’esistenza o di un tale stato, o suo proprio o delle cose che gli servono nella vita, non sono altro che quasi un levar di mano al fanciullo il suo lavoro, tosto ch’ei l’ha compiuto, acciò ch’egli non prenda immantinente a disfarlo. (2. Dic. 1828.).

Memorie della mia vita. — Sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole. Credo però nondimeno che non vi sia giovane, qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo quelle stesse parole. (2. Dicembre. 1828. Recanati.).

La lingua spagnuola pare e parrà sempre ridicola agl’Italiani per la stessa ragione per cui la scimmia riesce un animale ridicolo all’uomo: estrema similitudine con gravi differenze. Ma questo ridere dello spagnuolo, assolutamente parlando, è per lo meno così irragionevole come il ridere della scimmia; e di più, è soggetto a reciprocità; giacchè è naturale che l’italiano riesca, e con altrettanta ragione, altrettanto ridicolo agli Spagnuoli. Lo spagnuolo ci riesce ridicolo nel modo e per la ragione che ci riesce tale un dialetto dell’italiano. Similmente l’italiano dee riuscire ridicolo agli spagnuoli come un dialetto della lingua spagnuola. Egli è dunque un vero pregiudizio negl’Italiani il considerar lo spagnuolo come lingua o pronunzia che abbia qualcosa di ridicolo in se, argomentando dall’effetto che essa fa in noi. (2. Dic. 1828.). (Vedi la pag. 4506.).

Alla p. 4248. fine. I greci molto ragionevolmente, checchè ne dica Cicerone, che preferisce la voce latina convivio, chiamavano il convito simposio, cioè compotazione, perchè in esso non era veramente comune, e fatto in compagnia, se non solo il bere, cosa ragionevolissima, e non il mangiare, come forse tra’ Romani ec. (V. il luogo di Cic. nel Forcell. in Convivium, o Sympos. o Compotat. ec.) (2. Dic. 1828.).

Guadagnoli recitante in mia presenza all’Accademia de’ Lunatici in Pisa, presso Mad. Mason, le sue Sestine burlesche sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del soggetto con quello dei gesti e della recitazione. Sentimento doloroso che io provo in casi simili, vedendo un uomo giovane, ponendo in burla se stesso, la propria gioventù, le proprie sventure, e dandosi come in ispettacolo e in oggetto di riso, rinunziare ad ogni cara speranza, al pensiero d’ispirar qualche cosa nell’animo delle donne, pensiero sì naturale ai giovani, e abbracciare e quasi scegliere in sua parte la vecchiezza spontaneamente e in sul fiore degli anni: genere di disperazione de’ più tristi a vedersi, e tanto più tristo quanto è congiunto ad un riso sincero, e ad una perfetta gaieté de coeur. (Recanati. 3. Dic. festa di S. Fr. Saverio. 1828.).

Io abito nel bel mezzo d’Italia, nel clima il più temperato del mondo; esco ogni giorno a passeggiare nelle ore più temperate della giornata; scelgo i luoghi più riparati, più acconci ed opportuni; e dopo tutto questo, appena avverrà due o tre volte l’anno, che io possa dire di passeggiare con tutto il mio comodo per rispetto al caldo, al freddo, al vento, all’umido, al tempo e simili cose. E vedete infatti, che la perfetta comodità dell’aria e del tempo è cosa tanto rara, che quando si trova, anche nelle migliori stagioni, tutti, come naturalmente, sono portati a dire: che bel tempo! che buon’aria dolce! che bel passeggiare! quasi esclamando, e maravigliandosi come di una strana eccezione, di quello che, secondo il mio corto vedere, dovrebbe pur esser la regola, se non altro, nei nostri paesi. Gran benignità e provvidenza della natura verso i viventi! (3. Dic. 1828.).

L’esclusione dello straniero e del suddito dai diritti (quantunque naturali e primitivi) del cittadino e della nazion dominante, esclusione caratteristica di tutte le legislazioni antiche, di tutte le legislazioni appartenenti ad una mezza civiltà; esclusione fondata implicitamente in una opinione d’inferiorità di natura delle altre razze d’uomini alla dominante o cittadina, ed esplicitamente basata sopra questo principio, e ridotta a teoria e dottrina scientifica e filosofica per la prima volta che si sappia (come tante altre opinioni e cognizioni del suo tempo) da Aristotele nella Politica (opera citata spesso da Niebuhr nella Storia Romana come genuina d’Aristotele); questa esclusione, dico, è manifestissima in tutte le legislazioni de’ bassi tempi, nelle quali il favor della legge in difesa delle proprietà o delle persone, ed ogni altro diritto, era quasi esclusivamente per li soli nobili. In Francia un nobile che uccidesse un ignobile, non aveva altra pena che di gettare cinque soldi sulla sepoltura dell’ucciso: tale era la legge. (Courier.) Così di tutti gli altri diritti. Ed è ben noto che le legislazioni moderne non sono ancora ben purgate di questo lor vizio originale di distinguere due razze d’uomini, nobili e ignobili ec. Ora i nobili, com’è osservato da’ giurisconsulti e storici, sono per lo più e quasi totalmente, in quelle semibarbare legislazioni, sinonimo di liberi, d’ingenui, di cittadini, di burghers in Germania, ( Niebuhr, Stor. rom. p. 283.) nazionali, appartenenti alla nazion dominante, e per la quale son fatte le leggi; e gl’ignobili non sono in origine che stranieri, sudditi, servi, membri della nazione vinta e conquistata. Tutte le deplorate perversità delle legislazioni de’ bassi tempi e moderne, relative alla nobiltà (sinonimo d’ingenuità, nazionalità) provengono da quel principio di distinzione tra cittadino e straniero relativamente ai diritti dell’uomo, che abbiamo spesso considerata ne’ più antichi popoli. Qua pure appartiene la legislazione turca relativamente ai raja, cioè schiavi, cioè greci, vinti e conquistati, uomini considerati diversi da’ turchi. (4. Dic. 1828.).

Conservare la purità della lingua è un’immaginazione, un sogno, un’ipotesi astratta, un’idea, non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso di una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alle dottrine, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto nulla da alcuna nazione straniera. La greca, per una stranissima combinazione di circostanze, si trovò, dopo la formazione della sua lingua e letteratura, per lunghissimo spazio di tempo, nel detto caso. Essa nazione greca (se non vogliamo associarvi la chinese) è fra le nazioni civili la cui storia sia conosciuta, il solo esempio reale di un caso siffatto, e la lingua greca è altresì la sola lingua colta che abbia per lungo spazio conservata una vera ed effettiva purità. La lingua latina fu impura tosto che divenne colta e letteraria. L’italiana fu impurissima nel suo stesso nascere come lingua scritta, piena di provenzalismi e di francesismi: poi, per la rara circostanza che l’Italia, divenuta maestra e lume e fonte alle altre nazioni, si trovò, come la Grecia, nel caso di non ricever nulla di fuori, essa lingua conservò una certa purità; finchè mutata (anzi ridotta all’opposto) la circostanza, essa divenne nuovamente, e rimane, impurissima. Alle nazioni presenti e future (e all’italiana soprattutto) durando il presente stato reciproco delle nazioni e delle letterature, la purità della lingua, presupposto che di questa lingua le nazioni vogliano far uso, è cosa immaginaria e impossibile. (5. Dic. 1828.).

Novem — (noundinae) nundinae: quasi novendiales, mercati o fiere che si tenevano ogni nono giorno, cioè ogni otto giorni (ch’era l’antica settimana degli Etruschi) una volta. (Niebuhr, Stor. rom.) (11. Dic. 1828.).

Alla p. 4415. Dante, dal quale egli (il Monti) tolse l’arte di ben fissare la fantasia del lettore sul luogo della scena, verseggiando la Geografia spesse volte assai più maestrevolmente che Dante stesso non faccia; e l’arte più notabile ancora, che in Dante stimava Rousseau, di chiamare le cose coi nomi lor propri. Antolog. di Fir. Ottob. 1828. vol. 32. num. 94. p. 177. (Recanati 13. Dic. 1828.).

Un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo. La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch’egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago. (Recanati. 14. Dic. Domenica. 1828.). V. p. seg. e p. 4471.

I o visI u ppiter , cioè Iovis pater (Iouppiter). L’etimologia data da qualche antico, juvans pater (v. Forcellini), mostra che già anticamente era poco nota o dimenticata la contrazione dell’ov, o ou, in u, propria dell’antico latino siccome di molte altre lingue. (21. Dic. Domen. festa di S. Tommaso. 1828.).

Il fut reçu ( M. Charles le Beau, auteur de l’Hist. du Bas Empire ) à l’académie des belles lettres, en 1759 ayant cette même année remporté le prix, dont le sujet étoit cette question importante et vraiment philosophique: Pourquoi la langue grecque s’est-elle conservée si long-temps dans sa pureté, tandis que la langue latine s’est altérée de si bonne heure . Encyclop. méthodique . Histoire: art. Beau (Charles le). (24. Dic. Vigil. di Natale. 1828.).

Alla p. preced. Il piacere che ci danno un certo stile semplice e naturale (come l’omerico), le immagini fanciullesche, e quindi popolari, circa i fenomeni, la cosmografia ec.; in somma il piacere che ci dà la poesia, dico la poesia antica e d’immagini; tra le sue cagioni, ha per una delle principali, se non la principale assolutamente, la rimembranza confusa della nostra fanciullezza che ci è destata da tal poesia. La qual rimembranza è, fra tutte, la più grata e la più poetica; e ciò, principalmente forse, perchè essa è più rimembranza che le altre, cioè a dire, perchè è la più lontana e più vaga. (1. del 1829.).

L’uso, comune a tante antiche (e moderne) nazioni e religioni, di conservare con grandissima gelosia il fuoco ne’ templi, e con tanta cura che non si spegnesse mai; non avrebb’egli per sua origine (come tante altre pratiche religiose dell’antichità, derivate, quali evidentemente, e quali in modo che oggi la loro origine appena si può indovinare, da bisogni o utilità sociali, da tradizioni scientifiche ec.) la rimembranza e la tradizione della difficoltà provata primitivamente per accender fuoco al bisogno, per conservarlo o rinnovarlo a piacere; e la tema di non perdere il fuoco affatto, cioè non poterlo riavere, se si fosse lasciato spegnere? (1. del 1829.).

Usarono gli antichi latini di aggiungere un d alla fine delle voci per evitare l’iato, o ne’ versi l’elisione ec. Anche nel mezzo delle voci composte; come in prosum: pro-d-es, pro-d-esse ec. — prodire, prodigere, redire, redigere ec. ec. (V. Forcell. in D littera ). Così i nostri, specialmente antichi, od, ned, ad, sed, ched ec., uso certamente non derivato da’ libri di quegli antichi latini. Segno che quest’uso conservossi per via del latino volgare ec. (1. del 1829.).

La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè creduti misantropi, portano però cordialmente a’ loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini. La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi. ec. ec. (Recanati. 2. Gennaio. 1829.). V. pag. 4513.

Quanto male, dal vedere che le radici di certe lingue non hanno somiglianza alcuna con quelle di certe altre, si concluda (come fa il Niebuhr, Stor. rom. p. 44. ediz. ingl.) e contro l’affinità istorica di esse lingue, e contro l’unità di origine dei linguaggi umani; si può raccogliere dal considerare le radici di quelle lingue le cui relazioni ci sono note. Figuriamoci che la lingua latina e la francese ci fossero quasi sconosciute; che si sapesse però che nell’una di quelle il giorno si chiamava dies, nell’altra jour: vi sarebbe egli alcuno che, non dico scoprisse, ma immaginasse, sospettasse solamente, la menoma analogia fra queste due voci? le quali non hanno comune neppure una lettera? E pur la francese deriva immediatamente dalla latina, essendo una semplice corruzione di diurnus o diurnum (sottinteso tempus), che nel latino basso o rustico si usò in vece della voce originale dies. V. p. 4442. E malgrado che il latino e il francese e la derivazione dell’una dall’altra sieno conosciutissimi, pure è probabile che neppure i dotti avrebbero indovinato l’etimologia della parola jour se non si fosse anche conosciuta la corrispondente e identica parola italiana giorno, che quantunque niente abbia anch’essa di comune con dies, serba però più somiglianza a diurnum (giorno per diorno, come viceversa i toscani diaccio, diacere ec. coi derivati, per ghiaccio, giacere ec.). Dimando io: se del francese e del latino non si conoscessero se non queste due voci (che son pure istoricamente quasi identiche), verrebbe egli in mente ad alcuno che quelle due lingue fossero analoghe? che l’una fosse figlia genuina dell’altra? Non si affermerebbe anzi confidentemente che esse lingue fossero di diversissime famiglie ec.? (3. Gen. 1829.). Ora se questo ci accade in lingue di cui abbiamo cognizione intera, viventi, derivate immediatamente l’una dall’altra, con milioni di mezzi per iscoprire l’etimologia delle loro radici; che ci accadrà in lingue remotissime, quasi ignote, antichissime, non figlie, non sorelle, ma bisnipoti, parenti lontanissime ec. ec.? chi ardirà di dire con sicurezza che una tal voce, perchè non ha somiglianza alcuna con un’altra di altra lingua, non abbia con essa niuna affinità istorica? E notate che la voce jour, dies ec. esprime un’idea quasi delle primitive, e delle più usuali nel discorso ec. V. p. 4485. Così, è provato che equus è la stessa voce che ἵππος ( Niebuhr, Stor. rom. p. 65. not. 223. t. 1.), ὕπνος che somnus, ec. ec.

Quanto presto e facilmente arrivi il fanciullo a cavar conclusioni dal confronto de’ particolari, a generalizzare, ad astrarre, e ad acquistar da se stesso la cognizione di principii e di astrazioni che paiono di acquisto difficilissimo (e certo è mirabile il conseguirlo), si può vedere, fra l’altre, da questa considerazione. Io ho notato, e tutti possono notare, bambini di due anni, profferire i verbi irregolari della lingua colle inflessioni che essi avrebbero dovuto avere se fossero stati regolari: p. e. dire io teno, io veno, io poto, per tengo, vengo, posso. Certamente, da nessuno sentivano essi dire io teno ec.; non dicevano dunque così per imitazione, ma per riflessione, per ragionamento; concludevano essi che se da sentire p. e. si fa io sento, da vedere, io vedo, la prima persona di tenere, potere, doveva essere io teno, io poto; di venire, io veno. E sbagliavano per esattezza di raziocinio e di generalizzazione. Avevano dunque già trovate da se le regole generali delle inflessioni de’ verbi, e formatosi già in mente il tipo, il paradigma, delle loro diverse coniugazioni: ritrovamento che esige tanta infinità di confronti, tanto acume di mente, e che pare uno sforzo dello spirito metafisico de’ primi grammatici: ai quali non è punto inferiore un tal bambino. ec. ec. Quest’osservazione merita grand’attenzione dagli psicologi e ideologi. V. p. 4519. (4. del 1829.).

Alla p. 4369. Socrate ancora appartiene a questo discorso. Dico ciò, avendo riguardo, non tanto ai Dialoghi di Platone, o platonici, ed ai Memorabili di Senofonte, quanto alla gran moltitudine di sentenze, similitudini o comparazioni, apoftegmi e detti morali, che sotto nome di Socrate, tratti da diversi autori e compilatori che li riferivano, si leggono nelle collezioni o florilegii di Stobeo, d’Antonio, di Massimo. (4. del 1829.). V. p. 4469. fin.

Al nostro da capo è anche analogo il greco ἄνωθεν per di nuovo, (quasi da cima, che noi diremmo anche appunto da capo). Socrate, ap. Stobeo, cap. 123. παρηγορικά: ed. Gesner., Tigur. 1559. πεττείᾳ τινὶ ἔοικεν ὁ βίος• καὶ δεῖ ὥσπερ ψῆφόν τινα τίθεσθαι τὸ συμβαῖνον· οὐ γάρ ἐστιν ἄνωθεν βαλεῖν οὐδὲ ἀναθέσθαι τὴν ψῆφον. Aleae ludo similis est vita: et quicquid evenit, veluti quandam tesseram disponere oportet. Non enim denuo jacere licet, neque tesseram aliter ponere (versio Gesneri.) Al qual luogo Io. Conradus Orellius, Opusc. Graecorum veterum sententiosa et moral. t. 1. p. 455-6. Lips. 1819., fa questa annotazione. Ἄνωθεν βαλεῖν) ἄνωθεν, denuo, iterum, wieder von vorne an. Sic et Paulus Apostolus Gal. IV. 9. οἷς πάλιν (questa voce è forse una glossa) ἄνωθεν δουλεύειν ἐθέλετε. et Josephus Antiquitt. Lib. I. Cap. XVIII. par. 3. φιλίαν ἄνωθεν ποιεῖται πρὸς αὐτόν. quem locum apposite citat Schleusner. in Lex . N. Test. h.v. (5. del 1829.).

Pitagora ap. Jamblich. de vit. Pyth. cap. 18. p. 183. ed. Kiesslingii (editio novissima, la chiama l’Orelli nel 1819): Ἀγαθὸν οἱ πόνοι• αἱ δὲ ἡδοναὶ ἐκ παντὸς τρόπου κανόν. Benissimo: ma che dire di quella o intelligenza o cieca necessità che ha ordinate così le cose? e a che pro le fatiche, se il piacere, che è il solo fine possibile, è sempre male? (6, 1829.).

Alla p. 4406. Giuliano, ep. 22. p. 389. B. Spanhem. Ὁ λογοποιὸς ὁ Θούριος (Erodoto). Strab. l. XIV. p. 656. e Diodoro, l. II p. 262 (Fabricius) chiamano Erodoto συγγραφέα. — Anche nelle lingue moderne, le prime prose scritte, voglio dire, i primi libri in prosa, sono ordinariamente storici, cioè cronache e simili. (6, 1829.). V. p. 4464.

Alla p. 4353. poemata etc. duntaxat decantata voce, perinde ut: apud veteres Germ. ac Getas carmina antiqua, quae Tac. in lib. de morib. etc. et Jornandes cap. 4 et 5 de reb. Geticis, celebrat. Fabric. B. G. I. I. p. 3-4. (6. 1829.).

Digamma. The history of Rome by B. G. Niebuhr, translated by Julius Charles Hare, M. A. and Connop Thirlwall, M. A. fellows of Trinity college, Cambridge. the first volume. Cambridge, 1828. sezione intitolata: Ancient Italy; p. 17. not. 33. Micali with great plausibility explains the Oscan Viteliu on the Samnite denary of the same age (the age of the Marsic war) to be the Sabellian form of Italia. T. I. p. 52. The analogy of Latium, Samnium, gives Italium, or with the digamma Vitalium, Vitellium; and Vitellio is like Samnio. Vitalia is mentioned by Servius among the various names of the country: on Aen. VIII. 328. — p. 18. In the Tyrrhenian or the ancient Greek (not. 36. In the former, according to Apollodorus Bibl. II. 5. 10.; in the latter, according to Timaeus quoted by Gellius XI. 1. Hellanicus of Lesbos cited by Dionysius, I. 35, does not determine the language. Tyrrhenian however here does not mean Etruscan, but Pelasgic, as in the Tyrrhenian glosses in Hesychius.) italos or itulos meant an ox. The mythologers connected this with the story of Hercules driving the Geryon’s herd (not. 37. Hellanicus and Apollodorus in the passages just referred to) through the country: Timaeus, in whose days such things were no longer thought satisfactory, saw an allusion to the abundance of cattle in Italy. (not. 38. Gellius XI. 1. Piso, in Varro de re r. II. 1, borrowed the explanation from the Greeks.)... In the Oscan name of the country (dell’antica Italia), which, as we have seen, was Vitellium, there is an evident reference to Vitellius, the son of Faunus and of Vitellia, a goddess worshipt in many parts of Italy. (not. 39. Suetonius Vitell. I.) — Altrove l’autore nota che Vitulus, cognome di una famiglia romana, non è che Italus; preso, come tanti altri, dal paese originario della famiglia. (7. 1829.).

Ib. sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p. 38-9. l’autore nota e dimostra that, according to manifold analogy, Sikelus and Italus are the same name (not. 122. as Σελλος and Ελλην. Aristot. Meteorol. I. 14. p. 33. Sylb. (vedi Cellar. t. 1. p. 886.) T and K are interchanged as in Latinus and Lakinius ); e che però ugualmente Sicilia ed Italia sono un nome solo e medesimo I Siceli, secondo l’autore, furono Pelasghi, di quelli chiamati Tirreni, che dall’Italia, cioè da quella parte della penisola che allora si chiamava propriamente Italia, cacciati dagli Aborigini, emigrarono in Sicilia, così detta d’allora in poi, dal nome di questi emigranti, Siceli, cioè Itali. (9. 1829.).

Ib. p. 40. not. 127. Salmasius saw that Maleventum or Maloentum, in the heart of what was afterward Samnium would in pure Greek have been Maloeis or Malus. E l’autore lo dimostra con altri esempi di nomi latini neutri in entum derivati da nomi greci mascolini in ας o ους, genitivo εντος. Vedi nel Cellar. e nel Forc. le sciocche etimologie di Maleventum date dagli antichi latini, le quali dimostrano la loro ignoranza o inavvertenza circa il digamma. (9. 1829.). Anzi da tale ignoranza sembra nato il nome di Beneventum dato a quel che prima fu Maleventum.

Ib. p. 50-1. We may observe a magical power exercised by the Greek language and national character over foreign races that came in contact with them. The inhabitants of Asia Minor hellenized themselves from the time of the Macedonian conquest, almost without any settlements among them of genuine Greeks: Antioch, though the common people spoke a barbarous language, became altogether a Greek city; and the entire transformation of the Syrians was averted only by their Oriental inflexibility. Even the Albanians, who have settled as colonies in modern Greece, have adopted the Romaic by the side of their own language, and in several places have forgotten the latter: it was in this way only that the immortal Suli was Greek; and the noble Hydra itself, the destructions of which we shall perhaps have to deplore before the publication of this volume, is an Albanian settlement. .. Calabria, like Sicily, continued a Grecian land, though Roman colonies were planted in the coasts: the Greek language only began to give way there in the 14th century; and it is not three hundred years since it prevailed (dominava) at Rossano, and no doubt much more extensively; for our knowledge of the fact as to that little town is merely accidental: indeed even at this day there is remaining in the district of Locri a population that speaks Greek. (not. 163. For the assurance of this fact, which is stated in several books of travels in a questionable manner, I am indebted to the Minister Count Zurlo; whose learning precludes the possibility of his having confounded the natives with the Albanian colonies.) (10. 1829.).

Ib. sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p. 57. Olsi, as it stands in the Periplus of Scylax (not. 190. Ὀλσοὶ. Peripl. 3.), is no errour of the transcriber; it is Volsi dropping the Digamma; hence Volsici was derived, and then contracted into Volsci... I have no doubt that the Elisyci or Helisyci, mentioned by Herodotus (VII. 165.) among the tribes from which the Carthaginians levied their army to attack Sicily in the time of Gelon, are no other people than the Volsci. — (10. 1829.).

Dispersar spagn. ( Quintana ).

Discorso sopra Omero, ec. Ateneo, l. 14. p. 619. E. F. 620. A. ricorda certe canzoni ( ᾠδαὶ ) popolari lamentevoli, solite cantarsi da’ villani ( οἱ ἀπὸ τῆς χώρας ) fra’ Mariandini, popolo dell’Asia, che abitò fra la Bitinia e la Paflagonia, sopra un loro antico; canzoni mentovate anche da Esichio v. Βῶρμον. — Ib. 620. b. c. parlando dei rapsodi, dice Χαμαιλέων δ' ἐν τῷ περὶ Στησιχόρου καὶ μελῳδηθῆναι φησίν (essere state cantate da’ rapsodi) οὐ μόνον τὰ Ὁμήρου, ἀλλὰ καὶ τὰ Ἡσιόδου καὶ Ἀρχιλόχου, ἔτι δὲ Μιμνέρμου καὶ Φωκυλίδου Ib. d. Ἰάσων δ' ἐν τρίτῳ περὶ τῶν Ἀλεξάνδρου ἱερῶν (sacrificiis. Dalechamp.), ἐν Ἀλεξανθδρείᾳ φησίν, ἐν τῷ μεγάλῳ θεάτρῳ, ὑποκρίνασθαι Ἡγησίαν τὸν κωμῳδὸν τὰ Ἡροδότου, Ἑρμόφαντον δὲ τὰ Ὁμήρου. Non so poi il come. Dalech. traduce historiam Herodoti egisse: Fabric. in Erodoto, dice in theatro decantata fuisse , citando semplicemente questo luogo, dove però ὑποκρίνασθαι è ben più che decantasse. Casaub. qui non ha nulla. (11. 1829. Domenica.).

Orelli, loc. cit. p. 4431. princip.; p. 519. Αὐτίκα. Exempli gratia, verbi causa, ut saepius. V. Ernesti ad Xenoph. Mem. IV. c. 7, 2. Ruhnken. ad Timaei Lex Plat. p. 56. ed. 2. et Fischer in Indice ad Aeschin. Socr. hac voce. (11. 1829.).

Considerazioni sopra Omero ec. Non solo le poesie omeriche, ma molti altri scritti, e forse tutti quelli della più alta antichità, non solo poesie ma prose ancora, esistenti in oggi o perdute, ebbero probabilmente i loro diascheuasti, che ridussero la loro ortografia e dicitura a forma più moderna e meno rozza ed irregolare: e in tal forma soltanto, cioè diascheuasmenoi più o meno, passarono essi scritti alla posterità. Ed io non posso tenermi dal credere che anche Erodoto, e anche quel che abbiamo di genuino d’Ippocrate, non ci sia pervenuto alterato e riformato da’ diascheuasti (che possiamo tradurre riformatori). Essi hanno ancora nella sintassi, e nella maniera, molta di quella irregolarità e di quella mancanza d’arte che si può aspettare dal loro tempo, ma non tanta: Senofonte ed altri del buon tempo ne hanno forse non meno: e in genere io trovo la costruzione e la dicitura loro molto più formata ed artifiziale di quel che mi paia verisimile in quell’età. Non vi è abbastanza visibile l’infanzia della prosa, sì manifesta nei nostri, non dico Ricordano o suoi coetanei, ma i Villani ec. (Così negli spagnuoli del 13. sec., ne’ francesi ec.) L’infanzia della prosa si vede bensì manifestissima in alcuni dei frammenti che restano di Democrito, contemporaneo all’incirca di Erodoto (morì di più di 100 anni nell’Ol. 94. Erod. fiorì Ol. 84. 440 anni circa av. G. C. Ippocrate morì circa l’Ol. 100: ne’ suoi scritti è citato Democrito). Veggansi specialmente nella collezione (manchevole però ed imperfetta) datane dietro Enrico Stefano dall’Orelli (loc. cit. p. 4431. princip.) p. 91-131. i frammenti morali 43. 50. 70. 73. 121. fisici 1. Una stessa cosa si ripete in uno stesso periodo, non vi è quasi sintassi, parole necessarie, ed intere frasi o periodi, si omettono e sottintendono, l’un membro del periodo non ha corrispondenza coll’altro, il discorso procede per via di quelle forme che i greci chiamano anacoluti (o anacolutie), cioè inconseguenti, che è quanto dire senza forme. Tali frammenti, cioè luoghi échappés (come di molti è naturale che accadesse) alla diascheuasi, possono servir di saggio della vera prosa di quell’età; sono similissimi al fare p. e. del nostro Gio. Villani; e paragonati col dir di Erodoto, possono servir di prova della mia opinione. Dico échappés ec. perchè certo, se Erodoto, anche Democrito subì la diascheuasi, e διεσκευασμένος corse fra gli antichi; negli altri suoi frammenti per la più parte, non si trova niente di simile; e Democrito passò fra gli antichi per egregio anche nello stile. ( Cic. in Oratore c. 20. (67.) Itaq. video visum esse nonnullis, Platonis et Democriti locutionem, etsi absit a versu, tamen, quod incitatius feratur, et clarissimis verbor. luminibus utatur, potius poema putandum quam comicorum poetar.; ap. quos, nisi quod versiculi sunt, nihil est aliud quotidiani dissimile sermonis. De Orat. I. 11. (49.) Si ornate locutus est, sicut fertur, et mihi videtur, physicus ille Democr.; materies illa fuit physici, de qua dixit; ornatus vero ipse verbor., oratoris putandus est.) Cicerone lo loda anche di chiarezza. ( de Divin. II. 64. (133.) valde Heraclitus obscurus; minime Democritus ). I frammenti sopra notati s’intendono solamente per discrezione. È ben vero che questa discrezione tutti l’hanno, e malgrado la forma perplessa e intricata, tutti gl’intendono alla prima. E in verità son chiari. Così i nostri antichi, così quasi tutti i libri di siffatti tempi e stili, primitivi, ingenui, con poca arte, quasi come natura détta: natura parla al lettore, come ha dettato allo scrittore; essa serve d’interprete. Del resto quei costrutti e quella maniera di dire, poichè l’uso dello scrivere in prosa fu divenuto comune, sparirono quasi affatto; non si trovano nè anche nelle scritture greche che si leggono su’ papiri venuti d’Egitto, tutte, benchè oscure, intricate, rozze, senz’arte, pure più logiche, più grammaticali, più regolari e formate, benchè fatte da persone ignoranti e prive dell’arte: come tra noi, anche un ignorante notaio, benchè scriva assai male, schiva le sgrammaticature de’ nostri storici e filosofi del 200, e 300. V. pag. 4466. Nella letteratura (greca) non saprei citarne altri esempi: se non che si trovano in buona parte de’ libri de’ primi Cristiani, sì de’ libri canonici, e sì di quelli detti apocrifi [a] e nei frammenti ercolanesi di Filodemo, monumenti d’ignoranza singolare in tal genere, e di negligenza. V. p. 4470. — Ma in vero non ci son giunti διεσκευασμένοι in qualche modo tutti, si può dire, i libri antichi? non è provato che Cicerone, p. e., non iscrisse con quella ortografia colla quale i suoi libri sono stampati? nè con quella de’ mss. che ne abbiamo? la quale è anche diversa da quella usata, e introdotta ne’ libri antichi, da’ grammatici latini del 4. secolo? ( Niebuhr, Conspectus Orthographiae codicis vaticani Cic. de repub., in fine) V. p. 4480. (12. Gen. 1829. Recanati.).

Cleobulo (un de’ 7. sapienti) ap. Stobeo, c. 3. Περὶ φρονήσεως ed. Gesn. Tigur. 1559. Μὴ ἐπιμαίνεσθαι τῷ σκώπτοντι· ἀπεχθὴς γὰρ ἔσῃ τοῖς σκωπτομένοις: Sed ἐπιμαίνεσθαι multo est exquisitius: amore alicujus quasi deperire . Vid. Hemsterhus. ad Lucian. Dial. Marin. I. t. 2. p. 346. ed. Bipont. ( Orell. loc. sup. cit. , p. 529.) (15. Gennaio. 1829.). alios subsannanti ne subrideas, invisus enim fies quibus illuditur. Id. ap. Laert. I. 93. μὴ ἐπιγελᾷν τοῖς σκωπτομένοις· ἀπεχθήσεσθαι γὰρ τούτοις. Per il Galateo morale. (14. 1829.).

Alla p. 4346. Παρὰ πόσιν, τοῦ ἀδελφιδοῦ (fratris filio) αὐτοῦ (Σόλωνος) μέλος τὶ Σαπφοῦς ᾀσαντος, ἤσθη τῷ μέλει (ὁ Σόλων), καὶ προσέταξε τῷ μειρακίῳ διδάξαι αὐτόν (volle che quel ragazzo, cioè il nipote, glielo insegnasse.) Stobeo, c. 29. Περὶ φιλοπονίας. ediz. Gesn. Tigur. 1559. (15. 1829.).

È più penoso il distrarre per forza la mente da un pensiero acerbo o terribile che si presenti, di quello che sia il trattenervisi. (17. 1829.).

Vivere senza se stesso al mondo, goder cosa alcuna senza se stesso, è impossibile. Però chi si trova senza speranza, chi si vede disprezzato da’ conoscenti e da tutti coloro che lo circondano, e quindi necessariamente è privo della stima di se medesimo, non può provar godimento alcuno, non può vivere, a dir proprio: perchè questo tale veramente manca di se medesimo nella vita. (17. 1829.). V. p. 4488.

N. N. legge di rado libri moderni; perchè, dice, io veggo che gli antichi a fare un libro mettevano dieci, venti, trent’anni; e i moderni, un mese o due. Ma per leggere, tanto tempo ci vuole a quel libro ch’è opera di trent’anni, quanto a quello ch’è opera di trenta giorni. E la vita, da altra parte, è cortissima alla quantità de’ libri che si trovano. Onde ec. (17. 1829.).

I forti, i fortunati, sentono e s’interessano per altrui ἐκ τοῦ περισσοῦ delle loro facoltà e forze: i deboli ed infelici non ne hanno abbastanza per se medesimi. Il sentimento per altrui non è veramente altro che un superfluo, un eccesso delle proprie facoltà misurate coi bisogni e colle occorrenze proprie. (17. 1829.).

In questo secolo sì legislativo, nessuno ha pensato ancora a fare un codice di leggi, civile e criminale, utopico, ma in tutte forme, e tale da servir di tipo di perfezione, al quale si dovessero paragonare tutti gli altri codici, per giudicare della loro bontà, secondo il più o meno che se gli assomigliassero; tale ancora, da potere, con poche modificazioni o aggiunte richieste puramente dalle circostanze di luogo e di tempo, essere adottato da qualunque nazione, almeno sotto una data forma di governo, almeno nel secolo presente, e dalle nazioni civili ec. (17. Gennaio. 1829.).

Tomber, tumbar (spagn.) — tombolare. Tumbo (spagn.) tombolo ec.

Muggine-mugella.

Machiavellismo di società. Chi si crede un coglione al mondo, lo è, e lo comparisce. — Le leggi ec. contenute in questo trattato, non sono già passeggere ec.; sono eterne, almeno quanto le leggi fisiche ec. (18. 1829.).

Alla p. 4370. Dionysio Halicarnass. (Caecilius) usus est familiarissime. V. Dionys. Hal. in Epist. ad Cn. Pompeium. Toup. ad Longin. sect. 1. p. 153. Aequalis et amicus (Caecil.) Dionysio Halicarnasseo. Casaub. ad Athen. VI. 21. init. — Del resto, è falso però quel che crede l’Amati, che un nome greco unito e preposto ad un cognome romano, come sarebbe in questo caso, Dionisio Longino, sia cosa senza esempio. Ella non è sì frequente come un nome greco unito e posposto a un nome romano gentile, p. e. Claudio Tolomeo, Claudio Galeno, Pedanio Dioscoride, Elio Aristide, Cassio Dione ec.; ma nondimeno esempi non ne mancano; e ne abbiamo, fra gli altri, uno famoso, Musonio Rufo, filosofo stoico del tempo di Nerone, del quale v. Reimar. ad Dion. l. 62. c. 27. p. 1023. sq. par. (cioè nota) 143. (18. Gennaio. 1829. Domenica.). E il Lambecio, Commentar. de Biblioth. Vindob. lib.8., congetturava che la traduzione greca che abbiamo del Breviarium d’Eutropio, e che porta nome di Peanio o Peania, fosse chiamato Peania Capitone: il primo nome greco, e l’altro romano. (19. 1829.). V. p. 4442.

Come in moltissime altre cose, il nostro tempo si riavvicina al primitivo anche in questo: che esso ha in poco pregio la poesia di stile [a], la poesia virgiliana, oraziana ec., anzi non questa sola, ma anche quella p. e. del Petrarca, ed ogni poesia che ἁπλῶς abbia stile, e richiede poesia di cose, d’invenzione, d’immaginazione; non ostante che ad un secolo sì eminentemente civile, questa paia del tutto aliena, quella del tutto propria. (19. 1829.).

Al discorso della eccellente umanità degli antichi paragonati ai moderni, (del che altrove), appartiene ancora il gius d’asilo che avevano presso loro non pure i templi o altri luoghi pubblici, ma eziandio il focolare d’ogni casa privata; e ch’era tanto più venerato che non è da noi. Orelli, loc. sup. cit. , p. 542. Ἑστίαν τίμα (precetto d’alcuno de’ 7. sapienti ap. Stob. c. 3.). Sensus est: Jus foci sanctum haheas, vel: Supplicem honorato qui foco assidet . (Ἱκέτας ἐλέει supra in Periandro Ald.) De supplicum more assidendi foco vel arulae illi aut larario, quod ad focum excitari solitum erat, ubi jus erat ἀσυλίας , v. Casaub. ad Dionys. Hal. Ant. Rom. l. 8. p. 1504. Reisk. et intpp. ad Thucyd. l. 1. c. 136. p. 227. ed. Bauer. — Così la misericordia verso i supplichevoli, anche nemici, offensori ec., protetti da Nemesi ec. e v. la nota favola delle Preghiere ec. ap. Omero. — Così l’onore singolare che si aveva ai vecchi ec. — Così il rispetto ai morti, anche nel parlare. Τὸν τεθνηκότα μηδεὶς κακῶς ἀγορευέτω. Legge di Solone, ap. Plut. in Solon. p. 89. ed. Francof. — Chi vuol vedere quasi compendiata, e ammirare, l’umanità degli antichi (anche antichissimi), vegga le sentenze e i precetti che correvano sotto nome dei 7. sapienti, (e sono di grande antichità certamente) e che, raccolti già in antico (ap. Stob. si nominano per autori di quelle due collezioni ch’esso riporta, dell’una Demetrio Falereo, dell’altra Sosiade) (19. 1829.) si trovano riportati da Stob. c. 3. περὶ φρονήσεως, ed. Gesn. Tigur. 1559. (vedili nell’Orelli l. c. , p. 138-156.). (19. Gen. 1829.).

Alonso, spagn. moderno — Al-f-ons, spagn. antico (in una scrittura del 13o sec. ec.). Ὕλη — sil-v-a. (20. 1829.).

Cerebrum — cervello.

Alla 4440. Non parlo dei Disticha de moribus assai noti e certamente antichi, che corrono sotto nome di Dionisio Catone; nome che non è fondato in alcuna probabile autorità. (22. Gen. 1829.).

Consulere-consilium ec. Exsul, exsulium-exsilium ec.

Alla p. 4428. fine. Così matutinum (tempus), il mattino, le matin, per mane; matutina (hora), la mattina, la mañana. Vespertinum, serum (le soir), sera (la sera), spagn. la tarde, per vespera. V. il Gloss. E ciò anche presso gli antichi: v. Forc. in queste voci. Così nelle Ore canoniche Matutinum, Prima, Tertia, Sexta, Nona. Hibernum, l’inverno, l’invierno (spagn.), l’hiver, per hiems. Aestivum (spagn. estío), per aestas. V. Gloss. e Forcell. anche in diurnus. Similmente Infernus (locus) negli scrittori Cristiani, e forse anche in Varrone. E tali altri aggettivi sostantivati. (24. 1829.). V. p. 4465.4474.

Ἄορνος — Avernus.

Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fine), sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p. 55. Apulus and Opicus are according to all appearance the same name, only with different terminations. That in ulus acquired the meaning of a diminutive only in the language of later times; in earlier such a sense must be entirely separated from it; as is evident from Siculus and Romulus, as well as from the words uniting the two terminations (quella in icus e quella in ulus), which is the commoner case, Volsculus (contratto da Volsiculus), Aequiculus, Saticulus; and even Graeculus. — Ib. sez. intit. Iapygia, p. 126. The Poediculians (such was the Italian name of the Peucetians) were etc. (not. 419. The simpler forms, Poedi and Poedici, have not been preserved in books.) — Ib. sez. intit. Various traditions about the Origin of the City p. 174. It was natural for them (the inhabitants of Rome) to call the founder of their nation Romus, or, with the inflexion so usual in their language, Romulus. — Ib. sez. intit. The Beginning of Rome and its Earliest Tribes, p. 251. Romus and Romulus are only two forms of the same name (not. 698. Like Poenus and Poenulus and others mentioned above p. 55); the Greeks on hearing a rumour of the legend about the twins (Romolo e Remo), chose the former (cioè ῾Ρῶμος) instead of the less sonorous name Remus [a]

Fausto e Faustolo, il pastore che salvò Romolo e Remo bambini.

[Chiudi]. — L’uso di questa terminazione in ulus senza alcuna forza diminutiva, uso proprio del latino sì antico, si è conservato perfettamente (e non men frequentemente) nell’italiano; specialmente in Toscana, e specialmente appresso quel volgo, il quale continuamente, per mero vezzo di linguaggio, aggiunge un lo appiè delle voci italiane, dicendo, p. e. ricciolo invece di riccio [a], e così mille altre, che con tal desinenza non son registrate nel Vocabolario; oltre le tante registrate. E che questo medesimo uso (unita anche sovente, come nell’antico, la terminazione in icus a quella in ulus) si conservasse perpetuamente nel latino volgare, apparisce dai tanti e tanti, non solo nomi, ma verbi, della bassa latinità, o derivati evidentemente da essa, da me notati passim, che la portano, senz’ombra di significazione diminutiva; come pariculus (parecchi, pareil ec.), appariculare (apparecchiare, aparejar ec.), superculus (v. la p. 4514. fin.) ec. ec.; nomi anche aggettivi ec. Non ardirei però di affermare col Niebuhr che questa inflessione in origine non fosse punto diminutiva. Il vederla senza questa significanza, non prova; apparendo da tanti, quasi infiniti, esempi (sì del greco, sì del latino basso sì dell’antico, sì delle lingue figlie della latina; e in queste, sì in forme venute dal latino, e sì in altre forme diminutive proprie loro e non latine) che sempre fu ed è vezzo di linguaggio, specialmente popolare, il profferire le voci con inflessione diminutiva, quasi per grazia, quantunque il caso sia alieno dal richieder diminuzione, e la significanza diminutiva sia affatto lontana da tal pronunzia. (25. Gennaio. 1829. Domenica quarta.). Del resto ho notato altrove quando l’ul. .. è semplice desinenza di voci derivative, come in speculum, iaculum ec. e così ne’ verbi, come fabulor ec. V. p. 4516.

Non solo le storie o storielle d’una nazione furono spessissimo, come ho detto altrove in più luoghi, trasportate ed applicate ad un’altra; ma quelle eziandio d’una nazione medesima, cambiati i nomi delle persone, e le circostanze di luogo, tempo, e simili, furono sovente trasportate e applicate da un’epoca della sua storia ad un’altra. Questa cosa è notata negli annali di Roma dal Niebuhr in più e più casi; ed egli ripete tale osservazione in più e più luoghi della sua storia. Fra gli altri, sezione intitolata The War with Porsenna, p. 484 seg., dice: It is a peculiarity of the Roman annals, owing to the barren invention of their authors, to repeat the same incidents on different occasions, and that too more than once. Thus the history of Porsenna’s war reflects the image of that with Veii in the year (di Roma) 277, which after the misfortune on the Cremera brought Rome to the brink of destruction. In this again the Veientines made themselves masters of the Janiculum; and in a more intelligible manner, after a victory in the field: here again the city was saved by a Horatius (come dal Coclite nella guerra con Porsenna); the consul who arrived with his army at the critical moment by forced marches from the land of the Volscians: the victors, encamping on the Janiculum, sent out foraging parties across the river and laid waste the country; until some skirmishes, which again took place by the temple of Hope and at the Colline gate, checked their depredations: yet a severe famine arose within the city. (26. Gen. 1829.).

Niebuhr, ib. sez. intit. The Patrician Houses and the Curies, p. 268. Each house (ciascuno dei γένη gentes nei quali era anticamente distribuito il popolo ateniese) bore a peculiar name resembling a patronymic in form; as the Codrids, the Eumolpids, the Butads: which produces an appearance, but a fallacious one, of a family affinity (perchè quelle gentes, come ap. i Romani, erano una mera divisione politica; ciascuna gens o casa era composta di più famiglie senz’alcun riguardo ad affinità scambievole). These names may have been transferred from the most distinguished among the associated families to the rest: it is more probable that they were adopted from the name of a hero, who was their eponymus. Such a house was that of the Homerids in Chios; whose descent from the poet was only an inference drawn from their name, whereas others pronounced that they were no way related io him (not. 747. Harpocration v. Ὁμηρίδαι. It may be warrantably assumed that a hero named Homer was revered by the Ionians at the time when Chios received its laws. See the Rhenish Museum (Museo Renano) I. 257.) In Greek history what appears to be a family, may probably often have been a house of this kind; and this system of subdivision is not to be confined to the Ionian tribes alone. (27. 1829.).

Ib. sez. intit. Aeneas and the Trojans in Latium, p. 166-7. These wars Virgil describes, effacing discrepancies and altering and accelerating the succession of events, in the latter half of the Aeneid. Its contents were certainly national; yet it is scarcely credible that even Romans, if impartial, should have received sincere delight from these tales. We feel but too unpleasantly how little the poet succeeded in raising these shadowy names (degli eroi di quelle guerre), for which he was forced to invent a character, into living beings, like the heroes of Homer. Perhaps it is a problem that cannot be solved, to form an epic poem out of an argument which has not lived for centuries in popular songs and tales as common national property, so that the cycle of stories which comprises it, and all the persons who act a part in it, are familiar to every one. V. p. 4475 — Assuredly the problem was not to be solved by Virgil, whose genius was barren for creating, great as was his talent for embellishing. That he felt this himself, and did not disdain to be great in the way adapted to his endowments, is proved by his very practice of imitating and borrowing, by the touches he introduces of his exquisite and extensive erudition, so much admired by the Romans, now so little appreciated. He who puts together elaborately and by piecemeal, is aware of the chinks and crevices, which varnishing and polishing conceal only from the unpractised eye, and from which the work of the master, issuing at once from the mould, is free. Accordingly Virgil, we may be sure, felt a misgiving, that all the foreign ornament with which he was decking his work, though it might enrich the poem, was not his own wealth, and that this would at last be perceived by posterity. That notwithstanding this fretting consciousness, he strove, in the way which lay open to him, to give to a poem, which he did not write of his own free choice, the highest degree of beauty it could receive from his hands; that he did not, like Lucan, vainly and blindly affect an inspiration which nature had denied to him; that he did not allow himself to be infatuated, when he was idolized by all around him, and when Propertius sang:

Yield, Roman poets, bards of Greece, give way,
The Iliad soon shall own a greater lay;

that, when death was releasing him from the fetiers of civil observances, he wished to destroy what in those solemn moments he could not but view with melancholy, as the groundwork of a false reputation; this is what renders him estimable, and makes us indulgent to all the weaknesses of his poem. The merit of a first attempt is not always decisive: yet Virgil’s first youthful poem shews that he cultivated his powers with incredible industry, and that no faculty expired in him through neglect. But how amiable and generous he was, is evident where he speaks from the heart: not only in the Georgics, and in all his pictures of pure still life; in the epigram on Syron’s (così, in vece di Sciron’s) Villa: it is no less visible in his way of introducing those great spirits that beam in Roman story. (29-30. 1829.).

Alla p. 4316. Ben d’altra qualità e d’altro peso è la congettura del Niebuhr fondata in profondissima dottrina, e scienza dell’antichità, that the Teucrians and Dardanians, Troy and Hector, ought perhaps to be considered as Pelasgian:... that they were not Phrygians was clearly perceived by the Greek philologers, who had even a suspicion that they were no barbarians at all. (loc. cit. p. 4431. fin., sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p. 28.) Egli reca i fondamenti di questa sua propria e particolare opinione, ib. Nella sez. intit. Conclusion di quella parte della sua storia che concerne gli antichi popoli d’Italia, p. 148, ripete questa sua congettura: In the very earliest traditions they (the Pelasgians) are standing at the summit of their greatness. The legends that tell of their fortunes, exhibit only their decline and fall: Jupiter had weighed their destiny and that of the Hellens; and the scale of the Pelasgians had risen. The fall of Troy was the symbol of their story. (L’autore riguarda la guerra di Troia come un mito. Sez. intit. Aeneas and the Trojans in Latium, p. 151. Let none treat this inquiry with scorn, because Ilion too was a fable... Mythical the Trojan war certainly is...: yet it has an undeniable historical foundation; and this does not lie hid so far below the surface as in many other poetical legends. That the Atridae were Kings of the Peloponnesus, is not to be questioned.) Altrove (sez. cit. nella parentesi qui sopra, p. 160-61.) egli reca di nuovo i fondamenti di questa opinione, e mette anco innanzi un’altra sua congettura, che la tradizione della venuta d’Enea nel Lazio, dell’avervi egli fondata una colonia donde Roma derivasse, e dell’essere i romani di origine troiana, non fosse altro che un effetto ed un’espressione della national affinity esistente fra i Troiani e i Romani, in quanto questi erano, secondo l’autore, di origine in parte Pelasgica. — I Pelasghi, secondo il Niebuhr (ed una delle parti più insigni ed eminenti e più originali della sua Storia consiste nelle nuove vedute e nei nuovi lumi ch’ei reca sopra questa misteriosa razza, com’ei la chiama; e nella nuova luce in che egli l’ha posta), furono una nazione distinta, e di origine e di costumi diversa, da quella degli Elleni, che noi co’ Latini chiamiamo Greci; e nel tempo medesimo grandemente affine: e parlarono una lingua peculiar and not Greek , e nondimeno grandemente affine alla greca; più affine della Latina, il cui elemento affine al linguaggio greco, quello elemento which is half Greek sembra, dice il Niebuhr, unquestionable che sia d’origine pelasgica. Tuttavia Pelasghi e Greci non s’intendevano insieme, come non s’intendono italiani e francesi ec. (p. 23, e passim). (31. Gen. 1. Feb. 1829.). V. p. 4519.

A viver tranquilli nella società degli uomini, bisogna astenersi non solo dall’offendere chi non ci offende, cosa ordinaria; ma eziandio, cosa rarissima, dal proccurare (dal cercare) che altri ci offenda. — Desiderio sincero di viver tranquilli nella società degli uomini, rarissimi sono che l’hanno veramente: avendolo, il conseguire l’effetto è cosa molto più facile che non si crede. (1. Feb. 1829.).

Tutti, cominciando dal Pindemonte nella sua Epistola, hanno biasimato l’introduzione di Ettore e delle cose troiane nel Carme dei Sepolcri; e tutti leggono quell’episodio con grande interesse, e segretamente vi provano un vero piacere. Certo, quell’argomento è rancido; ma appunto perch’egli è rancido, perchè la nostra acquaintance con quei personaggi dàta dalla nostra fanciullezza, essi c’interessano sommamente, c’interessano in modo, che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, produrre altrettanto effetto. (1. Feb. 1829.).

Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de’ versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta. (1. Feb. 1829.). Nessuno del Monti è tale.

ἀκμὴν per ἔτι. V. Orelli (loc. cit. p. 4431.) tom. 2. Lips. 1821. p. 529-30.

Grus (grue) — spagn. grulla, quasi grucula o gruicula. — Sol — soleil, quasi soliculus. — Legnaiuolo, armaiuolo ec. quasi lignariolus e simili. (2. Feb. 1829.).

Mirado (ammirato) per maravigliato; en la noche callada per tacente. Francisco de Rioja, Cancion á (cioè sobre) las ruinas de Itálica, strofa ultima.

Chi non sa circoscrivere, non può produrre. La facoltà della produzione è scarsa o nulla in quell’ingegno dove le altre facoltà sono troppo vaste e soprabbondano. (3. Feb. 1829.). (Vedi la pag. 4484.)

Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fine) sezione intitolata Beginning and Nature of the Earliest History, p. 216. segg. The greater is the antiquity of the legends: (dei miti ec. intorno ai fatti dei re di Roma, e ai primi tempi della città): their origin goes back far beyond the time when the annals (gli annali pontificali di Roma) were restored (furono rinnovati, dopo che gli antichi annali erano periti nell’incendio di Roma al tempo della presa della città fatta dai Galli). That they were transmitted from generation to generation in lays, that their contents cannot be more authentic than those of any other poem on the deeds of ancient times which is preserved by song, is not a new notion. A century and a half will soon have elapsed, since Perizonius (not. 627. In his Animadversiones Historicae, c. 6.) expressed it, and shewed that among the ancient Romans it had been the custom at banquets to sing the praises of great men to the flute ; (not. 628. The leading passage in Tusc. Quaest. IV. 2. Gravissimus auctor in Originibus dixit Cato, morem apud majores hunc epularum fuisse, ut deinceps, qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes. Cicero laments the loss of these songs; Brut. 18. 19. Yet, like the sayings of Appius the blind, they seem to have disappeared only for such as cared not for them. Dionysius knew of songs on Romulus [ ὡς ἐν τοῖς πατρίοις ὕμνοις ὑπὸ ῾Ρωμαίων ἔτι καὶ νῦν ᾀδεται , dice Dionisio 1. 79. della nota favola circa la nascita di Romolo e Remo, e la vendetta da loro presa di Amulio]) a fact Cicero only knew from Cato, who seems to have spoken of it as an usage no longer subsisting. The guests themselves sang in turn; so it was expected that the lays, being the common property of the nation, should be known to every free citizen. According to Varro, who calls them old, they were sung by modest boys, sometimes to the flute, sometimes without music. (not. 629. In Nonius II. 70. stessa voce: (aderant) in conviviis pueri modesti ut cantarent carmina antiqua, in quibus laudes erant majorum, assa voce, ei cum tibicine.) The peculiar function of the Camenae was to sing the praise of the ancients ; (not. 630. Fest. Epit. v. Camenae, musae, quod canunt antiquorum laudes.) and among the rest those of the kings. For never did republican Rome strip herself of the recollection of them, any more than she removed their statues from the Capitol: in the best times of liberty their memory was revered and celebrated. (not. 631. Ennius sang of them, and Lucretius mentions them with the highest honour.)

We are so thoroughly dependent on the age to which we belong, we subsist so much in and through it as parts of a whole, that the same thought is at one time sufficient to give us a measure for the acuteness, depth, and strength of the intellect which conceives it, while at another it suggests itself to all, and nothing but accident leads one to give it utterance before others. Perizonius knew of heroic lays only from books; that he should ever have heard of any then still current, or written down from the mouth of the common people, is not conceivable of his days: he lived long enough to hear, perhaps he heard, but not until a quarter of a century had passed since the appearance of his researches, how Addison (sic) roused the stupefied senses of his literary contemporaries, to join with the common people in recognizing the pure gold of poetry in Chevychase (v. The Spectator’s n. 70. 74.) For us the heroic lays of Spain, Scotland, and Scandinavia, had long been a common stock: the lay of the Niebelungen had already returned and taken its place in literature: (l’autore, p. 196. the German national epic poem, the Niebelungen lay.) and now that we listen to the Servian lays, and to those of Greece , (raccolti da Fauriel, che l’autore cita più volte), the swanlike strains of a slaughtered nation; now that every one knows that poetry lives in every people, until metrical forms, foreign models, the various and multiplying interests of every-day life, general dejection or luxury, stifle it so, that of the poetical spirits, still more than of all others, very few find vent: while on the contrary spirits without poetical genius, but with talents so analogous to it that they may serve as a substitute, frequently usurp the art; now the empty objections that have been raised no longer need any answer. Whoever does not discern such lays in the epical part of Roman story, may continue blind to them: he will be left more and more alone every day: there can be no going backward on this point for generations.

One among the various forms of Roman popular poetry was the nenia, the praise of the deceased, which was sung to the flute at funeral processions, (not. 632. Cicero de legib. II. 24.) as it was related in the funeral orations. We must not think here of the Greek threnes and elegies: in the old times of Rome the fashion was not to be melted into a tender mood, and to bewail the dead; but to pay him honour. We must therefore imagine the nenia to have been a memorial lay, such as was sung at banquets: indeed the latter was perhaps no other than what had been first heard at the funeral. And thus it is possible that, without being aware of it, we may possess some of these lays, which Cicero supposed to be totally lost: for surely a doubt will scarcely be moved against the thought, that the inscriptions in verse (not. 633. On the coffin of L. Barbatus the verses are marked and made apparent by lines to separate them: in the inscription on his son they form an equal number of lines, and may be recognized with as much certainty as in the former from the great difference in the length of them) on the oldest coffins in the sepulcre of the Scipios are nothing else than either the whole nenia, or the beginning of it (not. 634. The two following inscriptions are of this kind: I transcribe them, because it is probable many of my readers never saw them.
Cornélius Lúcius Scípio Barbátus,
Gnáivo (patre) prognátus, fortis vír sapiénsque,
Quoius fórma vírtuti paríssuma fuit,
Consúl, Censor, Aédilis, qúi fuit apúd vos:
Taurásiam, Cesáunam, Sámnio cépit,
Subícit omnem Lúcánaam, (cioè Lucaniam)
Obsidésque abdúcit.
The second is:
Hunc únum plúrimi conséntiunt Románi
Duonórum optumum fúisse virúm,
Lúcium Scipiónem, fílium Barbáti.
Consúl, Censor, Aédilis, híc fuit apúd vos.
Hic cépit Córsicam, Alériamque úrbem
Dédit tempestátibus aédem mérito.
I have softened the rude spelling, and have even abstained from marking that the final s in prognatus, quoius, and the final m in Taurasiam, Cesaunam, Aleriam, optumum, and omnem, was not pronounced. The short i in Scipio, consentiunt, fuit, fuisse, is suppressed, so that Scipio for instance is a disyllable; a kind of suppression of which we find still more remarkable instances in Plautus. In the inscription of Barbatus, v. 2, patre after Gnaivo is beyond doubt an interpolation: and in that on his son, v. 6, it is to be observed that the last syllable of Corsicam is not cut off.) These epitaphs present a peculiarity which characterizes all popular poetry, and is strikingly conspicuous above all in that of modern Greece. Whole lines and thoughts become elements of the poetical language, just like single words: they pass from older pieces in general circulation into new compositions; and, even where the poet is not equal to a great subject, give them a poetical colouring and keeping. So Cicero read on the tomb of Calatinus: hunc plurimae consentiunt gentes populi primarium fuisse virum: (not. 635. Cicero de Senectute 17.) we read on that of L. Scipio the son of Barbatus: hunc unum plurimi consentiunt Romani bonorum optumum fuisse virum. The poems out of which what we call the history of the Roman Kings was resolved into a prose narrative, were different from the nenia in form, and of great extent; consisting partly of lays united into a uniform whole, partly of such as were detached and without any necessary connexion. The history of Romulus is an epopee by itself: on Numa there can only have been short lays. Tullus, the story of the Horatii, and of the destruction of Alba, form an epic whole, like the poem on Romulus: indeed here Livy has preserved a fragment of the poem entire, in the lyrical numbers of the old Roman verse. (not. 636. The verses of the horrendum carmen I. 26.
Duúmviri pérduelliónem júdicent.
Si a duúmviris provocárit,
Provocátióne certáto:
Si víncent, caput óbnúbito:
Infélici árbore réste suspéndito:
Vérberato íntra vel éxtra pomoérium.

The description of the nature of the old Roman versification, and of the great variety of its lyrical metres, which continued in use down to the middle of the seventh century of the city, and were carried to a high degree of perfection, I reserve, until I shall publish a chapter of an ancient grammarian on the Saturnian Verse, which decides the question.) On the other hand what is related of Ancus has not a touch of poetical colouring. But afterward with L. Tarquinius Priscus begins a great poem, which ends with the battle of Regillus; and this lay of the Tarquins even in its prose shape is still inexpressibly poetical; nor is it less unlike real history. The arrival of Tarquinius the Lucumo at Rome: his deeds and victories; his death; then the marvellous story of Servius; Tullia’s impious nuptials; the murder of the just king; the whole story of the last Tarquinius; the warning presages of his fall; Lucretia; the feint of Brutus; his death; the war of Porsenna; in fine the truly Homeric battle of Regillus; all this forms an epopee, which in depth and brilliance of imagination leaves every thing produced by Romans in later times far behind it. Knowing nothing of the unity which characterizes the most perfect of Greek poems, it divides itself into sections, answering to the adventures in the lay of the Niebelungen: and should any one ever have the boldness to think of restoring it in a poetical form, he would commit a great mistake in selecting any other than that of this noble work (del poema of the Niebelungen).

These lays are much older than Ennius, (not. 637.
– Scripsere alii rem
Versibu’ quos olim Fauni vatesque canebant:
Quom neque Musarum scopulos quisquam superarat,
Nec dicti studiosus erat.

Horace’s annosa volumina vatum may have been old poems of this sort: though perhaps they are also to be understood of prophetical books, like those of the Marcii; which, contemptuously as they are glanced at, were extremely poetical. Of this we may judge even from the passages preserved by Livy (XXV. 12.): Horace can no more determine our opinion of them than of Plautus.) who moulded them into hexameters, and found matter in them for three books of his poem; Ennius, who seriously believed himself to be the first poet of Rome, because he shut his eyes against the old native poetry, despised it, and tried successfully to suppress it. Of that poetry and of its destruction I shall speak elsewhere: here only one further remark is needful. Ancient as the original materials of the epic lays unquestionably were, the form in which they were handed down, and a great pary of their contents, seem to have been comparatively recent. If the pontifical annals adulterated history in favour of the patricians, the whole of this poetry is pervaded by a plebeian spirit, by hatred toward the oppressors, and by visible traces that at the time when it was sung there were already great and powerful plebeian houses. The assignments of land by Numa, Tullus, Ancus, and Servius, are in this spirit: all the favorite Kings befriend freedom: the patricians appear in a horrible and detestable light, as accomplices in the murder of Servius: next to the holy Numa the plebeian Servius is the most excellent King: Gaia Cecilia, the Roman wife of the elder Tarquinius, is a plebeian, a Kinswoman of the Metelli: the founder of the republic and Mucius Scaevola are plebeians: among the other party the only noble characters are the Valerii and Horatii; houses friendly to the commons. Hence I should be inclined not to date these poems, in the form under which we know their contents, before the restoration of the city after the Gallic disaster at the earliest. This is also indicated by the consulting the Pythian oracle. The story of the symbolical instruction sent by the last King to his son to get rid of the principal men of Gabii, is a Greek tale in Herodotus: so likewise we find the stratagem of Zopyrus repeated (dal figlio di Tarquinio a Gabii): (anche la storia di Muz. Scev. è greca, cosa non notata dall’autore neppure a suo luogo, e da me osservata altrove; e greche sono quelle tante raccolte da Plutarco nel libro da me citato altrove in tal proposito) we must therefore suppose some knowledge of Greek legends, though not necessarily of Herodotus himself. (5-8. Feb. 1829.).

Alla p. 4359. Niebuhr (loc. cit. p. 4431. fin.) sezione intitolata The Beginning of the Republic and the Treaty with Carthage, not. 1078. p. 456-7. This play (the Brutus of L. Attius) was a praetextata, the noblest among the three kinds of the Roman national drama; all which assuredly, and not merely the Atellana, might be represented by well-born Romans without risking their franchise. The praetextata merely bore an analogy to a tragedy: it exhibited the deeds of Roman Kings and generals (Diomedes III. p. 487. Putsch.); and hence it is self-evident, that at least it wanted the unity of time of the Greek tragedy; that it was a history, like Shakspeare’s. I have referred above (p. 431.) to a dialogue between the King (Tarquinio superbo) and his dream-interpreters in the Brutus (dialogo citato da Cic. de Divinat. I. 22.), the scene of which must have lain before Ardea: the establishment of the new government (del governo repubblicano a Roma), which must have been the occasion of the speech, qui recte consulat, consul siet (nel Brutus: parlata citata da Varrone de L. L. IV. 14. p. 24.), occurs at Rome: so that the unity of place is just as little observed. The Destruction of Miletus by Phrynichus and the Persians of Aeschylus were plays that drew forth all the manly feelings of bleeding or exulting hearts, and not tragedies: for the latter the Greeks, before the Alexandrian age, took their plots solely out of mythical story. It was essential that their contents should be known beforehand: the stories of Hamlet and Macbeth were unknown to the spectators: at present parts of them might be moulded into tragedies like the Greek; if a Sophocles were to rise up. (8. Feb. Domenica. 1829.).

Albino, antico autore, ap. Macrob. II. 16. Stultum sese brutumque faciebat . (Bruto l’antico). Si faceva, cioè si fingeva. Vecchissimo italianismo del latino. V. Forcell. ec. (8. Feb. Domenica. 1829.).

Storie o storielle trasportate da una nazione a un’altra. Vedi la pag. precedente, lin.10-17. (8. Feb. Domenica. 1829.).

Affatto greco è l’uso che noi abbiamo di parecchi aggettivi neutri in significato di sostantivi astratti: lo scarso (τὸ σπάνιον) per la scarsità, il caro per la carestia o la carezza, e simili. Uso tutto italiano, cioè non comune, che io mi ricordi, alle lingue sorelle; nè potuto derivare dal latino, al quale, pel difetto che ha di articoli, sarebbe mal conveniente. (11. Feb. 1829.).

Svariato per vario.

Gnaivus per Gnaeus. Vedi la pag. 4454. lin.4. — Achivus p. Achaeus (ἀχαῖος) è certamente da un Ἀχεῖος, come Argivus da Ἀργεῖος.

Sinizesi. Dittonghi ec. Elisione dell’m finale in latino. Vedi la pag. 4454. lin.17. segg. V. p. 4465.

Gli antichissimi scrivevano fut, fusse per fuit, fuisse. Vedi la pag. 4454. lin.20. Quindi anche fussem ec. per fuissem. E certamente così anco pronunziavano. Or questa antichissima pronunzia si è conservata nell’italiano: fu (fut. Anche in franc. fut) fusti, fuste, fummo (fumus per fuimus: franc. fûtes, fûmes), fussi ec. pronunzia de’ nostri antichi scrittori, ed oggi del popolo di più parti d’Italia, e del toscano costantemente. (15. Febb. Domenica. 1829.).

Alla p. 4356. Dionisio d’Alicarnasso (vedi la p. 4451. lin.9.), chiama inni gli antichi canti epici de’ Romani in lode de’ loro eroi.

Alla stessa pag. lin. ult. Gli antichi poemi epici de’ Romani non consistevano che in pezzi, in canti, di argomenti diversi, benchè coincidenti in un solo fino ad un certo segno. Così il poema epico antico nazionale tedesco, the lay of the Niebelungen. Vedi di sopra il pensiero che comincia p. 4450. capoverso ult. e specialmente le pagg.4455.4456.

Alla p. 4413. E vedi, a tal proposito, particolarmente la pag. 4356. capoverso 1. Gli antichi canti nazionali e poemi epici de’ Romani, epici per l’argomento e la forma, erano in metri lirici. Vedi il pensiero citato nella pag. preced. capoverso ult. , e specialmente la p. 4455. e la seguente. Anche il poema della guerra punica di Nevio (libri o carmen belli punici) era in versi lirici di diverse misure, come può vedersi ne’ frammenti di esso poema appresso Hermann, Elementa doctrinae metricae, III. 9. 31. p. 629. sqq. ( Niebuhr, Stor. rom. p. 162. not. 507. p. 176., not. 535.) (16. Febbraio. 1829.).

Nelle razionali speculazioni circa la natura delle cose, è da aver sempre avanti gli occhi questo assioma importantissimo: che dal vedere che da certe disposizioni poste dalla natura in certi esseri, facilmente e frequentemente (o anche sempre) nascono certe qualità; che certe qualità, pur date dalla natura, facilmente e frequentemente ricevono certe modificazioni; che certe cause facilmente e spesso producono certi effetti; dal vedere, dico, queste cose, non si può dedurre che ciò segua naturalmente; che quelle qualità, quelle modificazioni, quegli effetti sieno voluti dalla natura; che la intenzione della natura sia stata che essi avessero luogo, allorchè ella pose in quegli esseri quelle disposizioni, qualità o cause. Se uno fa una spada e un altro se ne serve a fettare il pane, non segue che l’intenzione del fabbricatore fosse che quello strumento fettasse il pane, benchè quella spada possa servire, e benchè serva attualmente, a quest’uso. Infiniti sono i disordini nel corso delle cose, non solo possibili, ma facilissimi ad accadere; moltissimi tanto facili, che quasi sono certi ed inevitabili: nondimeno son disordini manifesti, nè si possono attribuire ad intenzione della natura. Per un esempio fra mille: niente è più facile nè più frequente in certe specie di animali, che il veder le madri o i padri mangiarsi i propri figliuoli, bersi le proprie uova o quelle della compagna. Questo disordine orribile, che fa fremere, tende dirittamente e più efficacemente d’ogni altro alla distruzione della specie: è impossibile attribuire ad intenzione della natura, la cui tendenza continua alla conservazione delle specie esistenti, è una delle cose più certe che di lei si possono affermare, e che in lei sembrino manifestarci un’intenzione; attribuirle dico un disordine per cui il produttore stesso distrugge il prodotto, il generante il generato. Se la natura procedesse intenzionalmente in tal modo, già da gran tempo sarebbe finito il mondo. Da queste considerazioni segue, che per quanto il fenomeno dell’incivilimento dell’uomo sia possibile ad accadere; per quanto, considerate le disposizioni e le qualità poste in noi dalla natura e costituenti l’esser nostro, esso fenomeno possa parer facile, inevitabile; per quanto sia comune; noi non abbiamo il diritto di giudicarlo naturale, voluto intenzionalmente dalla natura. Grandissimi e vastissimi avvenimenti, fecondi di conseguenze sommamente moltiplici, importantissime, possono aver luogo a mal grado, per così dire, della natura. (16. Febb. 1829.) V. p. 4467. 4491.

L’autore anonimo della vita d’Isocrate pubblicata dal Mustoxidi nella Συλλογὴ ἑλληνιχῶν ἀνεκδότων, Venez. 1816. τετράδιον (quaderno 3); e ristampata dall’Orelli loc. cit. p. 4431., t. 2. Lips. 1821. — p. 10. del τετράδιον, ed. Mustox.; p. 5. ed. Orell. — λέγομεν δὲ ἡμεῖς ἀπολογούμενοι, ὅτι μάλιστα μὲν οὐδὲν τοῦτο ποιεῖ (e’ non fa nulla, il ne fait rien) εἰ εἶχε μετὰ τὴν τελευτὴν τῆς γυναικὸς ταύτην παλλακίδα (Ἰσοκράτης). ἔπειτα λέγομεν, ὅτι κ. τ. λ.. L’ Orelli, l. c., p. 523. fa questa nota. ὅτι μάλιστα μὲν οὐδὲν τοῦτο ποιεῖ i.e. hoc nullius fere vel perquam exigui momenti est. ut nos dicimus: es macht nichts pro es hat nichts zu sagen, es hat nicht viel auf sich. (17. Feb. 1829.).

Meride nell’ Ἀττικιστὴς.. Γέλοιον, βαρυτόνως, ἀττικῶς. γελοῖον, περισπωμένως, ἑλληνικῶς. E così sogliono i grammatici antichi, non solo in generale, ma anche ne’ casi particolari, distinguere costantemente dall’attico al greco comune, e riconoscere l’esistenza del secondo. (17. Feb. 1829.).

Rufino nella version latina dell’Enchiridion o Annulus aureus che porta il nome di Sesto o Sisto, num. 372. ed. Orell., loc. cit. p. 4431., t. I. p. 266. Quod fieri necesse est, voluntarie sacrificato . Nè il Forcell. nè il Du Cange non hanno esempio di sacrificare, sacrificium ec. in questo senso metaforico, sì comune nelle lingue figlie, specialmente nel francese. (17. Feb. 1829.).

S. Nilo vesc. e mart. Κεφάλαια ἢ παραινέσεις Capita seu praeceptiones sententiosae , num.199., ed. Orell. ib. p. 346. Λύχνῳ πρὸς τὰς πράξεις τῷ συνειδότι (conscientia) κέχρησο· τοῦτο γὰρ σοι ποίας (per τινὰς quali-quali: italianismo) μὲν ἐν βίῳ ἀγαθὰς (scil. πράξεις), ποίας δὲ πονηρὰς ὑποδείχνυσιν. (17. Feb. 1829.).

Il medesimo ap. Io. Damasc. Parallel. Sacr., Opp. ed. Lequien. t. 2. p. 419. et ap. Orell. ib. p. 362. lin.6. σαρκίον per σάρκα, carne, cioè corpo (σωμάτιον, all’uso stoico.) (17. Feb. 1829.).

Lysis in Epistola ad Hipparchum p. 52. edit. Epistolarum Socratis et Socraticorum, Pythagorae et Pythagoreorum, Io. Conr. Orellii, Lips. 1815. Ὅσιον κἀμὲ μνᾶσθαι τοῦ τήνου (Πυθαγόρου) θείων καὶ σεμνῶν παραγγελμάτων, μηδὲ κοινὰ ποιῆσθαι τὰ σοφίας ἀγαθὰ τοῖς οὐδ' ὄναρ (nemmen per sogno per in niun modo, niente affatto) τὰν ψυχὰν κεκαθαρμένοις ( Orell. ib. p. 600.) (18. Febbr. 1829.). V. p. 4470.

Alla p. 4165. Così Callimaco, οὕτω καὶ σύ γ' ἰών , nel noto epigramma sopra il tor moglie di condizione pari, verso ult. Vedilo nell’ Orelli ib. p. 176. e le note a quel luogo, ib. p. 555., e del Menag. ad Laert. ec., e nelle opp. di Callimaco. Il luogo di Teone citato nel pensiero a cui questo si riferisce, conferma la lezione σύ γ' ἰών per σύ Δίων, ed è qui assai notabile e prezioso. — Così noi diciamo anche andamenti, procedimenti, per azioni, o per modi di operare, di governarsi. ec. (18. Febbr. 1829.).

Gratari — gratulari. Trembler (tremulare).

Alla p. 4431. Tucidide, nel proemio, chiama gli storici λογογράφους.. Λογογραφέω è usato per iscrivere istoria, narrare, raccontare; λογογραφία per historiae scriptio; ἡ λογογραφικὴ da Eustazio per prosa, soluta oratio; ed anche λογογράφος si dice semplicemente per prosatore. Λογοποιὸς per istorico da Senofonte. Συγγράφω pur si dice particolarmente per διηγεῖσθαι, cioè ne’ significati qui sopra detti di λογογραφέω. Isocrate nell’epilogo del πρὸς Νικοκλέα , distingue espressamente τὰ ποιήματα e τὰ συγγράμματα ( τὰ συμβουλεύοντα καὶ τῶν ποιημάτων καὶ τῶν συγγραμμάτων ec.); ed Ammonio de Diff. Vocab. definisce il σύγγραμμα così: ὁ δίχα μέτρου λόγος, ὁ προσαγορευόμενος πεζός. Appunto come se τὰ ποιήματα non fossero συγγεγραμμένα, cioè scritti; o come se συγγράφειν non valesse anche, come vale, semplicemente scrivere, conscribere. Συγγραφεὺς per istorico passim: ποιηταὶ καὶ συγγραφεῖς poeti e scrittori, cioè prosatori, passim, e in Laerz. VI. 30. συγγραφὴ per istoria, narrazione, opera o composizione istorica, ap. Pausan. ( μέγα οὐδὲν ἐς συγγραφὴν παρεχομένη (πόλις) ) e specialmente Arriano ( Alexand. praef. 5. συγγραφὴ: 12. 7. IV. 10. 2. V. 4. 4. V. 6. 12. VI. 16. 7. VII. 30. 7. Indic. 19. 8. ξυγγραφὴ ). Καταλογάδην prosa oratione, prosaice. Plutar. Καὶ τῶν ἐμμέτρων ποιημάτων, καὶ τῶν καταλογάδην συγγραμμάτων Isocr. nell’esord. o προοίμιον dell’ad Nicocl.. (Scapula, Tusano, Budeo: i quali non citano Arriano; e il solo Tusano Ammonio, ad altro oggetto, e non riporta le parole.) (19. Febbr. 1829.).

Alla p. 4440. (la quale, del resto, è anch’essa d’imaginazione, come ho detto altrove, ec.) (19. Feb. 1829.).

φόρτος-φορτίον

Tardivo (ital.) — tardío (spagnuolo.).

Segnalato, señalado, signalé, per degno di essere segnalato, cioè notato; notevole.

Alla p. 4460. In the epitaph of L. Cornelius Scipio Barbatus, Lucanaa — The doubling the vowel belongs to the Oscan and old Latin: in the Julian inscription of Bovillae we find leege . Niebuhr, sezione intitolata The Sabines and Sabellians, not. 248. p. 72-3. (24. Feb. 1829.).

Alla p. 4442. Verano spagn. non è altro che vernum: verno per verno tempore o vere è assai frequente anche nel buon latino (Forcell.). Secondo l’ Amati, nel Giornale arcad. tom. 39., 3.zo del 1828, p. 240. l’appellazione di preivernum o privernum (oggi Piperno, antica città de’ Volsci), tiensi per gli uomini più istruiti di fabbrica latina; da preimum, o primum, e vernum, sottinteso tempus: essendo la posizione del paese, in monti aprici e non molto elevati, attissima ad anticipata primavera . (24. Feb. 1829.).

Primavera, cioè primum ver o vernum, pel semplice ver. Anche questo è d’antichissimo uso latino. Vedi il pensiero precedente, e il Forcell. in Ver. (24. Feb. 1829.).

Alla p. 4437. Ben sono frequentissimi gli esempi di tal genere, non solo quanto a voci, inflessioni e simili, non proprie della lingua scritta, e solamente volgari, ma quanto a sintassi e dicitura affatto sgrammaticata, anzi strana, nelle iscrizioni di gente popolare, sì greche, e sì massimamente latine; come è fra le mille, quella ritrovata in Ostia, e pubblicata ultimamente dall’ Amati. Giorn. arcad. t. 39., 3.zo del 1828., p. 234.

Hic iam nunc situs est quondam praestantius ille
Omnibus in terris fama vitaque probatus
Hic fuit ad superos felix quo non felicior alter
Aut fuit aut vixit simplex bonus atque beatus
Nunquam tristis erat laetus gaudebat ubique
Nec senibus similis mortem cupiebat obire
Set timuit mortem nec se mori posse putabat
Hunc coniunx posuit terrae et sua tristia flevit
Volnera quae sic sit caro biduata marito.
Vivo specchio del dir di Democrito, e di quel che, secondo ogni verisimiglianza, furono le prime prose greche. E quell’altra, edita dal med. ib. p. 236-7. Dis manibus Meviae Sophes C. Maenius (sic) Cimber coniugi sanctissimae et conservatrici desiderio spiritus mei quae vixit mecum an. XIX. menses III. dies XIII. quod vixi cum ea sine querella nam nunc queror aput manes eius et flagito Ditem aut et me reddite coniugi meae quae mecum vixit tan concorde ad fatalem diem. Mevia Sophe impetra si quae sunt manes ni (cioè ne) tam scelestum discidium experiscar diutius. Hospes ita post obitum sit tibe terra levis ut tu hic nihil laeseris aut si quis laeserit nec superis comprobetur nec inferi recipiant et sit ei terra gravis. (24. Feb. 1829.).

Alla p. 4354. Probabilissimamente nella primitiva e vera scrittura, nella quale le vocali oggi dette lunghe, erano veramente doppie, cioè 2 vocali brevi, in tali casi si scriveva omettendo la 2.da breve: p. es. in vece d’ἐγὼ ἀρξάμενος si scriveva ἐγο ἀρξ ovvero ἐγο' ἀρξ, giacchè la scrittura ordinaria di ἐγὼ era ἐγοὸ di ἤδη ἐέδεε ec. In somma le vocali ora dette lunghe, eran veri dittonghi, due suoni brevi; l’uno de’ quali si poteva elidere ec. (25. Febbr. 1829.). V. p. 4469.

Alla p. 4403. Senofonte nell’Anabasi, al principio dei libri 2. 3. 4. 5. 7., riepiloga brevissimamente tutto il narrato prima, e dice: queste cose ἐν τῷ πρόσθεν (lib.2 ἔμπροσθεν) λόγῳ δεδήλωται , cioè, non già nel libro precedente, il quale non contiene tutta quella narrazione ch’egli dice ed epiloga (e la divisione dell’Anabasi in libri forse è più recente di Senofonte), ma nella parte precedente di questa istoria, appunto come è usato λόγος da Erodoto. Il Leunclavio male traduce, lib. 2. e 3. superiore libro , men male lib. 4. superioribus commentariis , bene lib. 5. hactenus hoc commentario , e lib. 7. superiore commentario . Il lib. 6. comincia ex abrupto come il primo, e senza epilogo, nè proemio di sorta. (25. Feb. 1829.).

Alla p. 4462. E già le destinazioni, le cause finali della natura, in molte anco di quelle cose in cui è manifesta la volontà intenzionale di essa natura come loro autrice, o non si possono indovinare, o sono (se pur veramente vi sono) affatto diverse e lontane da quelle che parrebbono dover essere. Per un esempio a che servono in tante specie d’animali quegli organi che i naturalisti chiamano rudimenti, organi imperfetti, incoati solamente, ed insufficienti all’uso dell’animale; in certe specie di serpenti due, in altri quattro piedicelli, che non servono a camminare, anzi non toccano nè pur terra, benchè sieno accompagnati da tutto l’apparato per camminare, cioè pelvi, scapule, clavicole, e simili cose? in certe specie di uccelli, ale che non servono per volare? e così discorrendo. Il sig. Hauch, professore di storia naturale in Danimarca, in una sua dissertazione "Degli organi imperfetti che si osservano in alcuni animali, della loro destinazione nella natura, e della loro utilità riguardo la storia naturale", composta in italiano, e pubblicata in Napoli 1827. ( Giorn. arcad. t. 38., 2.do del 1828. p. 76-81.), crede che siffatti organi servano di nesso tra i diversi ordini di animali (p. e. quei piedicelli, tra i serpenti e le lucerte), di scalino o grado intermedio, per evitare il salto; e che essi sieno quasi abbozzi con cui la natura si provi e si eserciti per poi fare simili organi più sviluppati e perfetti di mano in mano in altri ordini vicini di animali. Non so quanto quest’oggetto, questa causa finale, possa parere utile, e degna della natura e della cosa. V. p. 4472. Ma ricevuta tale ipotesi (ch’è l’argomento e lo scopo di quel libro), vedesi quanto le cause finali della natura sarebbero in tali casi lontane da ogni apparenza, e da tutto il nostro modo di pensare. Giacchè chi di noi non tiene per evidente che i piedi sono fatti per camminare? (come l’occhio per vedere). E pure quei piedicelli con tutto il loro apparato da camminare, non sarebbero fatti per camminare, nè poco nè punto; ma per un tutt’altro fine. E in fatti non camminano; perchè vi sono insufficienti. E quelle ali non volano, benchè per altro perfettamente organizzate (Hauch: il quale nota ancora che in alcuni di quegli uccelli esse non bastano nè anche nè servono punto a bilanciarli ed aiutare il corso, come si dice di quelle dello struzzo): and so on. (26. Feb. giovedì grasso. 1829.).

Per un Discorso sopra lo stato attuale della letteratura ec. — Togliere dagli studi, togliere dal mondo civile la letteratura amena, è come toglier dall’anno la primavera, dalla vita la gioventù. (6. Marzo. 1829.).

Τῷ Βίωνι (Boristenita, filosofo) δοκεῖ μὴ δυνατὸν εἶναι τοῖς πολλοῖς ἀρέσκειν, εἰ μὴ πλακοῦντα γενόμενον ἢ Θάσιον. Dio Chrys. Orat. 66. de gloria. p. 612. ed. Reisk. Bione diceva: non è possibile piacere ai più, se tu non divieni un pasticcio o un vin dolce. (8. Marzo. Domenica. 1829.). Può servire al Galateo morale, o al Macchiavellismo.

Alla p. 4245. Di questi ἔρανοι discorre (mi pare) di proposito, e può vedersi, il Coray, Notes sur les Caractères de Théophraste . (8. Marzo. 1829.).

Sinizesi. V. Forcell. ec. in Suavis e simili voci.

Sperno is — aspernor aris .

Contemtus, despectus, neglectus ec. per contemnendus, contemnibilis ec. E così in italiano francese e spagnuolo. — Scitus, scite, scitulus, scitule ec. saputo, saputello ec.

Alla p. 4467. E così i dittonghi. I quali altresì, quando eran fatti brevi, si doveano scrivere senza l’ultima vocale: οὔ το' ἀπόβλητ' ἐστὶ, per οὔ τοι, come oggi si scrive. E similmente nel mezzo delle parole, i dittonghi e le vocali dette lunghe, quando eran fatte brevi, doveano scriversi semplici: ο per ω, οι ec.; ε per η, ει ec. ec. (8. Marzo. 1829.).

Alla p. 4430. Similmente quei tanti motti che sotto nome di Diogene cinico si trovano nel Laerzio, e nello Stobeo, Antonio e Massimo, ed altri, raccolti dall’ Orelli, loc. cit. p. 4431., t. 2. Lips. 1821.; moltissimi de’ quali si trovano attribuiti in altri luoghi ad altri diversissimi personaggi; mostrano che a Diogene si riferivano popolarmente tutti i detti mordaci, arguti ec. non solo morali o filosofici, ma qualunque. (8. Marzo. 1829.).

Il luogo del Laerz. ap. l’Orelli, loc. cit. nel pensiero preced., p. 84. num.111. da nessuno inteso, e peggio dal Kuhnio (la cui spiegazione è data per ottima dall’ Orelli, ib. p. 585-6. dove chiama questo luogo difficilissimo ), secondo il quale (v. l’Orelli p. 586.) avremmo dei galli πίπτοντας ἐπὶ στόμα caduti boccone, cioè sul becco, cosa finora non mai veduta; a me par chiarissimo, e contiene una satira contro i medici (dei quali Esculapio è il dio), che finiscono di ammazzare chi cade malato. Quel πλήκτης non era gallo, ma uomo, un lottatore, non reale, ma figurato, probabilmente in cera, secondo l’uso degli antichi, specialmente poveri, in tali ἀναθήμασι. V. un luogo analogo, e confermante questa spiegazione, ib. p. 102. n.216.; e la nota, p. 595.: anche questo luogo spetta a Diogene. Il gallo promesso da Socrate ad Esculapio, è venuto in mente al Kuhnio in questo proposito assai male a proposito, e l’ha indotto nell’errore. (9. Marzo. 1829.).

Alla p. 4464. Filone giudeo ha un luogo simile (οὐδ' ὄναρ) ap. Orell. ib. t. 2. p. 116. num. 269. Del resto, v. il Forcell. ec. (9. Marzo. 1829.).

Alla p. 4437. fin. Non per ignoranza nè per negligenza, ma volutamente e a bello studio, si accostò a quel dir perplesso ec. a quella maniera democritea, anzi senz’ordine o regola alcuna di frase, e ciò esageratamente e fuor di misura, l’autore di quelle cinque Διαλέξεις ( Orell. Dissertationes, Fabric. Disputationes ) in dialetto dorico, d’argomento morale, che si trovano appiè di parecchi mss. delle opp. di Sesto Empirico, e che furon pubblicate da E. Stefano, dal Gale, dal Fabricio, e ultimamente da Gio. Corrado Orelli (loc. cit. nella pag. qui dietro, fin.): il quale autore, certo non molto antico, ma che intese di farsi creder tale, volle usare quel modo per contraffare anche in questo l’antichità. (10. Marzo. 1829.). V. p. 4479.

Se gli scrittori conoscessero personalmente a uno a uno i lor futuri lettori, è credibile che non si prenderebbero troppa pena di proccurarsi la loro stima scrivendo accuratamente, nè forse pure scriverebbero. Il considerarli coll’immaginazione confusamente e tutti insieme, è quello che, presentandoli loro sotto il collettivo e indefinito nome e idea di pubblico, rende desiderabile o valutabile la loro lode o stima ec. (10. Marzo. 1829.).

Alla p. 4426. Notano quelli che hanno molto viaggiato (Vieusseux parlando meco), che per loro una causa di piacere viaggiando, è questa: che, avendo veduto molti luoghi, facilmente quelli per cui si abbattono a passare di mano in mano, ne richiamano loro alla mente degli altri già veduti innanzi, e questa reminiscenza per se e semplicemente li diletta. (E così li diletta poi, per la stessa causa, l’osservare i luoghi, passeggiando ec., dove fissano il loro soggiorno.) Così accade: un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per se, che non ha nulla di ciò, ma perchè ci desta la memoria di un altro luogo da noi conosciuto, nel quale poi se noi ci troveremo attualmente, non ci riescirà (nè mai ci riuscì) punto romantico nè sentimentale. (10. Marzo. 1829.).

Alla p. 4365. Certo, siccome la letteratura e le scienze greche, la filosofia ec., passando in Italia, furono causa che moltissime parole greche, appartenenti a tali rami, acquistassero cittadinanza latina, e di là sien divenute proprietà delle lingue moderne, non solo scritte, ma eziandio parlate; così anche la religione cristiana: e non dico delle voci tecniche della teologia, ma di tante altre voci proprie del cristianesimo traspiantate nel latino, e di là passate nelle lingue moderne (anche non figlie della latina), e in esse volgarissime d’uso, tanto che molte di loro sono sfiguratissime (o di forma o di significato) e appena lasciano scorgere la loro etimologia: come (in italiano) chiesa, clero, chierico, prete, canonico, vescovo, papa, battesimo, battezzare, cresima, eucaristia, catechismo, parroco, parrocchia, epifania, pentecoste, elemosina (limosina, limosinare ec.), accidia ec. (10. Marzo. 1829.), angelo, arcangelo, demonio, diavolo, patriarca, profeta, profezia, apostolo, martire, martirio, martìre, martoro, martoriare ec., cattolico, eretico, eresia (resia ec.), evangelo (vangelo), monaco, monastico, monasterio, eremo (ermo ec. eremita, romito, romitorio, ec.) anacoreta, mistero (trasportato anche ad ogni sorta di cose ignote, e fuor della religione), ec. Molte anche tradotte, come κατανύσσω, κατάνυξις, compungo, compunctio, prese nel senso morale; πειρασμὸς tentatio; ed altre tali infinite, non pur voci, ma frasi e frasario della scrittura (gran fonte di grecismo al basso latino e alle lingue moderne) o de’ padri greci, passate nelle nostre lingue, e coll’andar del tempo applicate anco a sensi ed usi affatto profani[a]

Prossimo (ὁ πλησίον, ὁ πέλας) p. simile ec., viene anche dal greco p. mezzo del Cristianes., quantunq. il Forc. abbia qualcosa di simile in autori pagani.

[Chiudi]. (12. Marzo. 1829.).

Alla p. 4468. Tale osservazione potrà parere soddisfacente come spiegazione del fenomeno, non del fine di esso. (12. Marzo.).

ἐς ἴσον τῷ frammento di Archita, o sotto nome di Archita, ap. Orelli, l. c. p. 4469. fine, p. 248. lin. 13. — à l’égal de. La Bruyère, e contemporanei — locuzione avverbiale, in senso di aeque ac. (12. Marzo. 1829.).

Galateo morale. Il y a des ménagements que l’esprit même et l’usage du monde n’apprennent pas, et, sans manquer à la plus parfaite politesse, on blesse souvent le coeur. Corinne, liv. 3. ch. I. 5.me éd. Paris 1812. t. I. p. 92. Les Anglais sont les hommes du monde qui ont le plus de discrétion et de ménagement dans tout ce qui tient aux affections véritables. liv. 6. chap. 4. t. I. p. 281. (13. Marzo. 2.do Venerdì. 1829.).

Mille piacer non vagliono un tormento. Or come può un piacere valer mille tormenti? e pure così è la vita. (14. Marzo. 1829.). Questo verso racchiude una sentenza capitale contro la vita umana, e contro chi consente a vivere, cioè tutti i viventi.

Monosillabi latini. Nix.

κέραμος-κεράμιον. V. Orelli, loc. cit. qui sopra, p. 279. fine, il qual luogo, come si dice nelle note, è copiato da Aristotele.

εὐθέως o εὐθὺς, come luego, per dunque, però, iccirco, conseguentemente, necessariamente V. Orelli ib. p. 312. lin.8-9., e la nota p. 697. Luogo notabile. Così, spesso, colla negazione: p. e. οὐ γὰρ εἰ ec. διὰ τοῦτο εὐθὺς καὶ ec., ovvero omesso il διὰ τοῦτο però. (23. Marzo. 1829.).

μωκάομαι, coi derivati e composti (v. Scapula in μῶκος , e Orell. ib. p. 752. fin.) — se moquer coi derivati ec. E notisi la forma neutra passiva, ossia reciproca, dell’uno e dell’altro verbo ec. (25. Marzo. 1829.).

σκίμπους οδος-σκιμπόδιον

cauneas-cave ne eas.

tenebrosus-tenebricosus. Nel dialetto popolare di Viterbo (Patrimon. di S. Pietro), menicare e trenicare, frequentativi di menare e tremare. ( Orioli nell’Antologia di Firenze.)

ἁρμάτιον per ἅρμα. Procop. Hist. arcan. p. 31. ed. Alemanni. (I Lessici e Gloss. nulla.)

Ἔπος da εἰπεῖν sembra essere stato considerato, e chiamato così, come un grado, un genere medio tra λόγος, da λέγειν, orazione, prosa; e μέλος. (27. Marzo. 1829.).

Ἁφὴ, ἐπαφὴ , usati in proposito d’istrumenti musici, ap. Orell. ib. p. 292. lin. 3., p. 302, lin. 13. 18. 23., p. 336. lin. 19. — tocco, toccare, toucher ec. nello stesso senso.

In generale la forma diminutiva (o disprezzativa o vezzeggiativa ec.) spagnuola in illo, e ico, ecillo, ecico, cillo, cico, e l’italiana in glio e chio (icchio, ecchio, acchio ec.), e la francese in il, ill; ail, aill; eil, eill ec.; sì de’ nomi, che de’ verbi (ne’ quali suol esser chiamata frequentativa), non è altro (anche nelle voci di origine non latina) che la mera latina in aculus, iculus, culus, iculare, culare, uscul. ec. contratta prima in clus, clum, iclus, clare ec. (27. Marzo. 1829.). V. p. 4486.

Fama rerum. Tac. Vit. Agric. in fine. Frase che desta un’idea vastissima, o una moltitudine di idee, e nel modo il più indefinito. Di tali frasi, e, in generale, della facoltà di esprimersi in siffatta guisa, abbondano le lingue antiche; la latina specialmente, anche più della greca: e quindi è che la prosa latina, per l’espressione e il linguaggio (non per le idee, e lo stile, come la francese) è sovente più poetica del verso, non pur moderno, ma greco; benchè il latino non abbia lingua poetica a parte. (28. Marzo. 1829.).

Monosillabi lat. , opposti alle voci greche corrispondenti. Do — δί-δω-μι, dal disusato δόω.

Sufficiente detto di uomo, sufficienza ec. — ἱκανὸς, ἱκανότης ec.

Alla p. 4442. Eremo sostant. da ἔρημος agg., sottint. τόπος. Deserto. V. Forcell. Nulla (res) per nihil. E per via di tali sottintendimenti, infiniti altri aggettivi, non sol di tempo o luogo, ma d’ogni genere, son passati, in ogni lingua, ad essere sostantivi, in vece de’ sostantivi originali loro corrispondenti. Del resto anche il greco abbonda di tali ellissi negli aggettivi di tempo o luogo. (28. Marzo. 1829.).

Error grande, non meno che frequentissimo nella vita, credere gli uomini più astuti e più cattivi, e le azioni e gli andamenti loro più doppi, di quel che sono. Quasi non minore nè meno comune che il suo contrario. (28. Marzo. 1829.).

Tanto, inquit, melius. Fedro. — tant mieux, tant pis.

Ce que les intérêts particuliers ont de commun (nella società) est si peu de chose, qu’il ne balancera jamais ce qu’ils ont d’opposé. Rousseau, Pensées, Amsterdam 1786. 1.re part. p. 23. (28. Marzo. 1829.).

On n’a de prise sur les passions, que par les passions; c’est par leur empire qu’il faut combattre leur tyrannie, et c’est toujours de la nature elle-même qu’il faut tirer les instrumens propres à la régler . ib. p. 46.

Strascicare e strascinare, sono certamente frequentativi corrotti da trahere.

Alla p. 4446. Verissima osservazione, siccome l’altra analoga, p. 4459., sopra i drammi. Ma tali memorie, leggende e canti, non possono trovarsi se non in popoli che abbiano attualmente una vita e un interesse nazionale; dico vita e interesse che risieda veramente nel popolo: e però non possono trovarsi se non che in istati democratici, o in istati di monarchie popolari o semipopolari, (come le antiche e del medio evo), o in istati di lotta nazionale con gente forestiera odiata popolarmente (come, al tempo del Cid, degli spagnuoli cogli arabi), o finalmente in istati di tirannie combattute al di dentro (come nella Grecia moderna, e in più provincie ed epoche della Grecia antica e sue colonie). Ma nello stato in cui le nazioni d’Europa sono ridotte dalla fine del 18.o secolo, stato di tranquilla monarchia assoluta, i popoli (fuorchè il greco) non hanno potuto nè possono avere di tali tradizioni e poesie. Le nazioni non hanno eroi; se ne avessero, questi non interesserebbero il popolo; e gli antichi che si avevano, sono stati dimenticati da’ popoli, da che questi, divenendo stranieri alla cosa pubblica, sono anche divenuti stranieri alla propria storia. Se però si può chiamare lor propria una storia che non è di popolo ma di principi. In fatti nessuna rimembranza eroica, nessuna affezione, perfetta ignoranza della storia nazionale, sì antica, sì ancora recentissima, ne’ popoli della moderna Europa. In siffatti stati, gli eroi delle leggende popolari non sono altri che Santi o innamorati: argomenti, al più, di novelle, non di poemi o canti eroici, nè di tragedie eroiche.

Quindi apparisce che il poema epico, anzi ancora il dramma nazionale eroico, di qualunque sorta, e sia classico o romantico, è quasi impossibile alle letterature moderne. Il vizio notato da Niebuhr nell’Eneide, è comune alle moderne epopee, al Goffredo particolarmente. Meglio, per questo capo, i Lusiadi; i cui fatti anco, benchè recentissimi, abbondavano di poetico popolare, per la gran lontananza, ch’equivale all’antichità, massime trattandosi di regioni oscure, e diversisime dalle nostrali. Meglio ancora l’Enriade, il cui protagonista vivea nella memoria del popolo, non veramente come eroe, ma come principe popolare.

Oltracciò quelle tradizioni di cui parla Niebuhr, dubito che possano aver luogo se non in tempi di civiltà men che mezzana (come gli omerici, quei de’ romani sotto i re, de’ bardi, il medio evo); nei quali hanno credito i racconti maravigliosi che corrono dell’antichità, e il moderno diviene antico in poco tempo. Ma in giorni di civiltà provetta, come quei di Virgilio e i nostri, l’antico, per lo contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non corrono altre leggende che quelle che narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno più, non pur dell’eroiche, ma di sorta alcuna; e non v’hanno luogo altre poesie fondate in narrative popolari, se non del genere del Malmantile. (29. Mar. 1829.).

Da queste osservazioni risulterebbe che dei 3 generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e l’esperienza de’ poeti moderni lo proverebbe); genere, siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè proprio dell’uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche. (29. Marzo 1829.). — Ed anco in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l’età nostra si riavvicina alla primitiva. — Del resto quel che della poesia epica e drammatica, è anche della storia. Che importerebbe, che impressione, che effetto farebbe al popolo di Milano, di Firenze o di Roma, se oggi un nuovo Erodoto venisse a leggergli la storia d’Italia? (30. Mar.).

Alla p. 4418. Anche qui, come in tante altre cose della nostra vita, i mezzi vagliono più che i fini. (29. Mar. 1829.).

La felicità si può onninamente definire e far consistere nella contentezza del proprio stato: perchè qualunque massimo grado di ben essere, del quale il vivente non fosse soddisfatto, non sarebbe felicità, nè vero ben essere; e viceversa qualunque minimo grado di bene, del quale il vivente fosse pago, sarebbe uno stato perfettamente conveniente alla sua natura, e felice. Ora la contentezza del proprio modo di essere è incompatibile coll’amor proprio, come ho dimostrato; perchè il vivente si desidera sempre per necessità un esser migliore, un maggior grado di bene. Ecco come la felicità è impossibile in natura, e per natura sua. (30. Marzo. 1829.).

Alla p. 4366. Quindi l’aridità, il nessun interesse, la noia delle novelle, narrazioni, poesie allegoriche, come il Mondo morale del Gozzi, la Tavola di Cebete ec. Non parlo delle personificazioni ed enti allegorici introdotti come macchine in poemi, come nell’Enriade: perchè a quelli il poeta mostra di credere veramente, come farebbe ad altri enti favolosi e fittizi, umani o soprumani ec. (30. Marzo. 1829.).

Piombato, plombé (del color del piombo), per plumbeo.

Dépiter, se dépiter.

Vouloir per potere e per dovere. v. Alberti in vouloir fine.

Errori popolari degli antichi. — Parlerò di quegli errori che furono, o si può creder che fossero, propri de’ volgari, e di quella sorta di persone che in tutte le nazioni vanno considerate come appartenenti al volgo; non già di quegli errori che il popolo ebbe comuni coi saggi; molto meno di quelli che furono proprii de’ saggi; materia che sarebbe infinita. Gli errori de’ saggi, antichi e moderni, sono innumerabili. Il popolo ha pochi errori, perchè poche cognizioni, con poca presunzion di conoscere. Oltre che la natura, voglio dir la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte più rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata. E però non è raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di molte cose opinioni migliori o più ragionevoli che i sapienti; e non è temerario il dire che, generalmente, nelle materie speculative e in tutte le cose il conoscimento delle quali non dipende da osservazione e da esperienza materiale, i filosofi antichi errassero dalla verità, o dalla somiglianza del vero, meno che i filosofi moderni: se non in quanto i moderni, quando scientemente e quando senza avvedersene, sono tornati in queste cose all’antico. (31. Marzo. 1829.).

On ne s’égare point parce qu’on ne sait pas, mais parce qu’on croit savoir. Rousseau, pensées, II. 219. V. p. 4502.

Il dogma dell’invidia degli Dei verso gli uomini, celebrato in Omero, e soprattutto in Erodoto e suoi contemporanei, sembra essere di origine orientale, o divulgato principalmente in oriente. Poichè esso tiene alla dottrina del principio cattivo, ed a quelle idee che rappresentavano le divinità come malefiche e terribili; dottrina e idee aliene dalla religione della Grecia a’ tempi omerici ed erodotei, come ho osservato altrove. Ed esso è l’origine de’ sacrifizi, e delle penitenze, sì comuni in oriente, quasi ignote in Grecia. L’atto di Policrate samio (ap. Erodoto) che getta in mare il suo anello per proccurare a se medesimo una sventura, non è che una penitenza. (31. Marzo. 1829.).

Scherzava sul poetar suo in questa forma: diceva ch’egli seguia Cristofaro Colombo, suo cittadino; ch’egli volea trovar nuovo mondo, o affogare. Chiabrera, Vita sua. Questo motto pare oggi una smargiassata, e ci fa ridere. Che grande ardire, che gran novità nel poetar del Chiabrera. Un poco d’imitazione di Pindaro, in luogo dell’imitazione del Petrarca seguita allora da tutti i così detti lirici. E pur tant’è: a que’ tempi questa novità pareva somma, arditissima, facea grand’effetto. Oggi par poco, e basta appena a far impressione poetica tutta la novità e l’ardire che è nel Fausto o nel Manfredo. — Può servire a un Discorso sul romanticismo. (1. Aprile. 1829.).

L’imaginazione ha un tal potere sull’uomo (dice Villemain, Cours de littérature française, Paris 1828. nell’Antolog. N.97. p. 125. in proposito del generale entusiasmo destato dai canti ossianici al lor comparire, ed anco al presente), i suoi piaceri gli sono così necessari, che, anche in mezzo allo scetticismo di una società invecchiata, egli è pronto ad abbandonarvisi ogni volta che gli sono offerti con qualche aria di novità. — Verissimo. Il successo delle poesie di Lord Byron, del Werther, del Genio del Cristianesimo, di Paolo e Virginia, Ossian ec., ne sono altri esempi. E quindi si vede che quello che si suol dire, che la poesia non è fatta per questo secolo, è vero piuttosto in quanto agli autori che ai lettori. (1. Aprile. 1829.).

Alla p. 4470. Pur quelle διαλέξεις, così imposture come sono, le quali quantunque non antichissime, pur sono certamente antiche (l’Orelli, al quale però io non consento, nelle note, p. 633, le crede anteriori a Pirrone e agli Scettici; e nella pref. del vol. , scritta dopo le note, p. X. le stima poco posteriori al filosofo Crisippo, anzi, p. XI. sospetta che sieno più antiche di Crisippo e dello stesso Platone; benchè le riconosca indubitatamente per imposture nelle note, e per opera di un sofista nella pref.: e il Visconti, Mus. Pio-Clem. t. 3. p. 97. ed. Mil., nelle note all’imagine di Sesto Cheronese filosofo del tempo degli Antonini, le fa pluribus seculis antiquiores ( Orell. ), di esso Sesto), possono ben servire a darci un’idea dell’antichissima prosa greca, a noi necessariamente sì poco nota; poichè quell’impostore, per mentir l’antichità, giudicò servirsi di un linguaggio di quella forma. Nei frammenti, sì morali e politici, e sì matematici e fisici, che portano il nome di Archita pitagorico (i quali io non so se sieno di Archita ( Orell. pref. p. XI.), nè di quale Archita (ib. p. 672.); ma in parecchi di loro credo veder caratteri e segni certi di molta antichità), l’arte dello esprimere i pensieri in prosa, si vede non più bambina; non però adulta; ma quasi ancora fanciulla: un aggirarsi, un confondersi spesso, uno stentare (un sudare in) a darsi ad intendere, a disporre e congiungere insieme gl’incisi e i periodi. (2. Aprile. 1829.).

Stentato, stentatamente ec.

Alla p. 4438. E che altro che una diascheuasi era quella onde o libri interi, o passi e frammenti d’autori greci, dal dialetto in che erano scritti originalmente, venivano ridotti al parlar greco comune, e talora anche a qualche altro dialetto? ( Orelli, ib. t. 2. p. 720. fin.) cosa frequentissima. Così il moderno editore del libro περὶ τῆς τοῦ παντὸς φύσεως che porta il nome di Ocello lucano, Rudolph (Rudolphus), crede quel libro e dorica dialecto in communem conversum ( Orell. ib. p. 670. fin. p. 671. lin. 9.): e in fatti, che che sia dell’autenticità, certo assai sospetta, di quel libro ( Orell. ib. Niebuhr Stor. roman. ec.), la quale il Rudolph si sforza di sostenere contro il Meiners (che la combatte in Geschichte der Wissenschaften in Griechenland und Rom), certo è che, mentre il libro si legge ora in lingua comune, se ne trovano ap. Stob. (colla citazione del titolo di esso libro) alcuni passi in dialetto dorico. ( Libellus περὶ τοῦ παντὸς φύσιος etiamnum exstat integer: quanquam non Dorica dialecto qualis primum scriptus ab Ocello fuerat, ut ex fragmentis a Stob. servatis perspicue apparet: sed a Grammatico aliquo ut facilius a lectoribus intelligeretur, in κοινὴν dialectum transfusus... Loca ex hoc Ocelli libro ap. Stob. Eclog. phys. p. 44.45. (lib. I c. 24., ed. Canter.). Vide et p. 59. — Fabric. B. G. t. 1. p. 510. seq.) (2. Aprile. 1829.). Così nei florilegi di Stobeo, d’Antonio e di Massimo, e in questi ultimi due specialmente, molti frammenti di diversi autori, sono mutati dall’ionico, o da altro de’ dialetti greci, nel dir comune. ( Orell. ib. p. 729. num. 6., e t. 1. p. 114. lin. 26., p. 515. lin. 14-16., ec.) (2. Aprile. 1829. Recanati.).

Odio verso i nostri simili. Galateo morale. Umanità degli antichi. — Da che viene quel fenomeno sì incontrastabile, sì universale senza eccezione; che è impossibile essere spettatori di un piacer vivo, provato da altri (non solo uomini, anche animali), massime non partecipandone, senza sperimentare un irresistibile senso di pena, di rabbia, di disgusto, di stomaco? — piaceri sì morali, sì fisici. — piaceri venerei, insoffribili a vedere in altri, sì uomini, sì anche animali: insoffribili anche agli animali, sì in quei della propria specie, sì in altri. — Perchè sì spiacevole in natura la vista del piacer d’altri? — Il Casa nel Galateo prescrive che non si mangi o beva in compagnia o presenza altrui con dimostrazione di troppo gran piacere: Cleobulo ap. Laerz., notato da me altrove, che non si faccia carezze alla moglie in presenza d’altri. V. p. seg. — In fatto di donne generalmente, in fatto di galanteria, la cosa è notissima; insoffribile non solo la vista, ma i discorsi, i vanti, di fortune altrui. Il y a toujours dans les succès d’un homme auprès d’une femme quelque chose qui déplaît, même aux meilleurs amis de cet homme. Corinne, liv. 10. ch. 6., t. 2. p. 161. 5.me édit. Paris 1812. — Può servire anco al Galateo morale — e al Trattato de’ sentimenti umani (3. Apr. 1829.) — e al pensiero sulla monofagia, massime in proposito de’ servitori ec.

Alla p. preced. (V. Orell. Opusc. graec. moral. t. 1. p. 138, e le note) e ciò è anche oggi di creanza universale, e quasi naturale. (3. Apr. 1829.).

Dal pensiero precedente apparisce (e l’esperienza lo prova) che vera amicizia difficilmente può essere o durare tra giovani, malgrado il candore, l’entusiasmo ec. proprio dell’età. E ve ne sono anche altre ragioni. Più facile assai l’amicizia tra un giovane e un vecchio o un provetto. — L’odio verso i simili, che essendo di ogni vivente verso ogni vivente, è maggiore verso quei della specie, ancor nella specie stessa è tanto maggiore, quanto un ti è più simile. — Hanno gli Ebrei in un loro libro di sentenze e detti varii (che si dice tradotto di lingua arabica, ma verisimilmente è pur di fattura ebraica) ( Orell. Opusc. graec. moral. t. 2. Lips. 1821., praef. p. XV.), che non so qual sapiente, dicendogli uno: io ti sono amico, rispose: che potria fare che non mi fossi amico? che non sei nè della mia religione, nè vicino mio, nè parente, nè uno che mi mantenga? (sentent. 269. Apophthegm. Ebraeor. et Arabum ed. a Io. Drusio: Franequerae 1651.) — Quodam dicente, Amo te, Cur, inquit, me non amares? Non enim es ejusdem mecum religionis, nec propinquus meus, nec vicinus, nec ex iis, qui me alunt. Orell. ib. p. 506-7. (4. Apr. 1829.).

Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non passarli mai. (4. Apr. 1829.).

Moestus da moereo (moeritus, moesitus, moestus, come torreo — tostus, questus, quaestus ec.) 1. participio in us con senso neutro e presente. 2. participio aggettivato. 3. non più riconosciuto per participio. Vedi Forcell. ec. (4. Apr.). Se non è da maereor.

Alla p. 4437. (dove la sgrammaticatura continua e il balbettare, viene dall’esser gli autori forestieri, grecizzanti non greci, o dall’affettare il dir non greco, l’imitazione del linguaggio scritturale dei 70 ec.).

L’imperfetto indicativo pel congiuntivo. Se io sapeva (avessi saputo) questo, non andava (non sarei andato) ec. Ch’ogni altra sua voglia Era (sarebbe stata) a me morte, ed a lei infamia rea. Petr. Canz. Vergine bella . Anche il più che perfetto. S’io era ito ec., non mi succedeva ec. E in francese si j’étais (s’io fossi) ec. ec. — Pretto grecismo. (4. Apr. 1829.).

Ebbero anche i greci de’ libri di Mémoires secrets. Tali sono gli Aneddoti o Storia Arcana di Procopio, e gli altri mentovati dal Fabric. a questo proposito. Vedilo, B. Gr. t. 6. p. 253. sqq. e specialmente p. 255. not. (n.) (4. Apr. 1829.).

Sinizesi. Dittonghi ec. Deesse dissillabo. Cesare ap. Donat. Vit. Terent.

Alla p. 4415. εἵνεκ' ἀοιδῆς Ἣν νέον ἐν δέλτοισιν ἐμοῖς ἐπὶ γούνασι θῆκα. gratia carminis Quod nuper in libellis meis (meglio mea, cioè genua) super genua posui. Batracom. v. 2. 3. E la Batracomiomachia è pure una parodia omerica. Eschilo fu nel 5.to sec. av. G. C. , nato circa il 525. (4 Aprile. 1829.). Δέλτοι pugillares qui forma litterae Δ plicabantur: postea quivis liber. Scap.

L’interesse nell’epopea, nel dramma, non nasce dal nazionale, ma dal noto, dal familiare. Se le cose e le persone antiche e straniere ci sono (come sono in fatti) tuttavia più note, più familiari, più ricche di rimembranze che le nazionali e le moderne, anzi se le nazionali non ci sono nè familiari nè cognite; la conseguenza è chiara, quanto alla scelta dei soggetti, volendo cercare il piacere. I nazionali nostri sono i Greci, i Romani, gli Ebrei ec. coi quali siamo convissuti fin da fanciulli. (5. Aprile. Domen. di Passione. 1829.). Volendo poi mirare all’utile, è un altro affare; ma in tal caso non bisogna dimenticare quel detto della Staël ( Corinne, liv. 7. ch. 2): Il (Alfieri) a voulu marcher par la littérature à un but politique: ce but était le plus noble de tous sans doute; mais n’importe, rien ne dénature les ouvrages d’imagination comme d’en avoir un. (5.me édit. Paris 1812. t. I. p. 317.).

Errori popolari degli antichi. Parlerò di questi errori leggermente, come storico, senza entrare a filosofare sopra ciascuno di essi e sopra la materia a cui appartengono; cosa che mi menerebbe in infinito, e vorrebbe non un Trattatello, ma un gran Trattato. In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto facilissimamente diviene vastissimo. Tanto più è necessario, volendo pur fare un libro, che uno sappia limitarsi, che attenda diligentemente a circoscrivere il proprio argomento, sì nell’idea de’ lettori, e sì massimamente nella propria intenzione; e che si faccia un dovere di non trapassare i termini stabilitisi. (Chi non sa circoscrivere, non sa fare: il circoscrivere è parte dell’abilità negl’ingegni, e più difficile che non pare. Vedi p. 4450. capoverso 6.) Altrimenti seguirà o che ogni libro sopra ogni tenuissimo argomento divenga un’enciclopedia, o più facilmente e più spesso, che un autore, spaventato e confuso dalla vastità di ogni soggetto che gli si presenti, dalla moltitudine delle idee che gli occorrano sopra ciascuno, si perda d’animo, e non ardisca più mettersi a niuna impresa. Il che tanto più facilmente accadrà, quanto la persona avrà più cognizioni e più ingegno, cioè quanto più sarà atto a far libri. (6. Aprile. 1829.). — Io non presumo con questo libro istruire, solo vorrei dilettare.

Alla p. 4429. Però io per me, se uno mi chiedesse p. e.: credi tu che ἡμέρα abbia a far nulla con dies? risponderei: non so... Oh come? che nè pure una lettera hanno comune? — Così dies e giorno, replicherei, non han comune una lettera, e pur questa voce nasce da quella. (6. Apr. 1829.).

Sinizesi, Dittonghi ec. Le contrazioni e circonflessioni de’ greci, che altro sono che sinizesi ec. ec.? (6. Apr. 1829.)

Penato per penante. Crus. volg. marchegiano.

ἴλλος — ὗσΨ ίλλος, coi derivati ec. V. Scapula ec.

Seccare, seccatore ec. V. Scapula in Σικχός, coi derivati.

Merlo. merlotto. Scricchiolare, scricchiolata.

Rattenuto per cauto ec. Affermi, mal affermi per fermo, mal fermo.

Del Saggio sopra l’origine unica delle cifre e lettere di tutti i popoli, per M. De Paravey, Paris, 1826., Dissertazioni tre del P. Giacomo Bossi. Torino 1828. St. Reale (sic) 8.o di p. 103. (11. Apr.).

Chi ha viaggiato, gode questo vantaggio, che le rimembranze che le sue sensazioni gli destano, sono spessissimo di cose lontane, e però tanto più vaghe, suscettibili di fare illusione, e poetiche. Chi non si è mai mosso, avrà rimembranze di cose lontane di tempo, ma non mai di luogo. Quanto al luogo (che monta pur tanto, che è più assai che nel teatro la scena), le sue rimembranze saranno sempre di cose, per così dir, presenti; però tanto men vaghe, men capaci d’illusione, men soggette all’immaginazione e men dilettevoli. (11. Apr. 1829. Recanati.).

La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni genere e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseguenza dell’ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine. (11. Aprile.).

Delle cognizioni enciclopediche degli antichi (massimamente greci), e del loro scrivere sopra ogni ramo dello scibile, del che altrove, possono dare un’idea, e sono un esempio, anche gli scritti di Cicerone (fra superstiti e perduti) imitatore in ciò, come in tante altre cose, de’ greci: il quale a molte delle sue opere (filosofiche, rettoriche ec.) fu mosso, non da alcuna ispirazione ὁρμὴ particolare, da impulso, da affezione verso quegli argomenti, da trovarsi aver pensato con particolarità su di essi, ma dalla sola voglia, dal desiderio (che però la morte o gli affari gl’impedirono di soddisfare) di compire il ciclo (come Niebuhr chiama quello delle opere di Aristotele) de’ suoi scritti sopra ogni dottrina enciclopedica ec. V. la pref. de Officiis. (12. Apr. 1829.).

Alla p. 4473. Così i nostri diminutivi o disprezzativi o frequentativi ec. in accio acciare [a]

Pare che i lat., almeno de’ bassi tempi, usassero come disprezzativa la forma in Acul.

[Chiudi]uccio, ucciare (succiare — succhiare, per suggere); azzo, azzareuzzo, uzzare; aglio agliare — uglio ugliare (plebaglia, plebacula, germoglio, germogliare ec.). Tutti dal lat. acu — ucu — lus — a — um — lare; ulus, ulare. Gli spagn. in illo, illar ec. (se non forse pochi) non vengono già dal latino in illus (quantillus, tantillus, pusillus, tigillum, pulvillus, catilla, cioè cagnuola), illare (cantillare ec.), nè ci hanno punto che fare. Anche i greci hanno in ιλλος, η, ον. Anche i franc. in ache, acher (s’amouracher, amoraculari) ec. V. p. 4496. E in âche ec.

Frequentativi o diminutivi italiani, verbi e nomi [a]

I verbi, tutti della 1a.

[Chiudi]. V. il pensiero precedente e suoi annessi prima e poi.

Coccolone, penzolone ec. ec. (13. Apr.).

Oscillo as. freq. — Serva ancora per i miei pensieri sui verbi latini comincianti in sus, essendo da cillo e ob, interposta la s. Così oscillum ec. V. anche Forc. in obscenus; e in Obs... Os... Sus... Subs...

Alla p. 4388. E pure veggiamo che da 3 secoli che la presente ortografia italiana fu a un di presso introdotta, la pronunzia de’ parlanti è ancora la stessa: dico in chi parla bene, e la cui pronunzia fu voluta con siffatta ortografia rappresentare. Vale a dir che un Toscano parla oggidì e legge la nostra lingua com’ella sta nelle buone stampe del sec. 16., e come la scrivevano allora i corretti scrittori; eccetto gli h inutili, e non mai pronunziati, ed altre tali particolarità, che non rappresentavano la pronunzia neppur d’allora. Del resto, se quel che dice il Foscolo fosse vero, e d’altronde l’ortografia dovesse sempre star ferma, e lasciare andar la pronunzia, ne seguirebbe che prestissimo la lingua parlata e la scritta sarebbero 2. lingue affatto distinte; e la difficoltà dell’imparare a leggere sarebbe enormissima, come è già grande ai francesi inglesi ec., e maggiore senza comparazione che agl’italiani e spagnuoli. Non so che popolarità saria questa: la popolarità di quando la lingua scritta era latina, e la parlata volgare. Fatto sta che non fu ragione, non fu un principio di conservazione di stabilità, di etimologia, quel che produsse e mantenne la pessima e falsissima ortografia francese inglese ec., ma fu solo l’ignoranza e la mala abilità de’ primi che posero in iscrittura i volgari, i quali scrissero la lingua più, per così dire, in latino che in inglese ec.; e il non essersi rimediato poi a questo errore in Inghilterra in Francia ec., come si è fatto in Italia Spagna ec., anzi averlo seguitato. Le discrepanze delle nostre prime ortografie che Foscolo cita, non provano che l’inabilità di que’ primi a rappresentar la parola e la pronunzia stessa d’allora. (13. Apr.).

La vera (e naturale) perfezione dell’ortografia è che 1. ogni segno, come si pronunzia nell’alfabeto, così nella lettura sempre; 2. e nell’alfabeto esprima un suono solo. 3. non si scriva mai carattere da non pronunziarsi, nè si ometta lettera da pronunziarsi. (13. Apr.).

Alla p. 4439. Quando io mi sono trovato abitualmente disprezzato e vilipeso dalle persone, sempre che mi si dava occasione di qualche sentimento o slancio di entusiasmo, di fantasia, o di compassione, appena cominciato in me qualche moto, restava spento. Analizzando quel ch’io provava in tali occorrenze, ho trovato, che quel che spegneva in me immancabilmente ogni moto, era un’inevitabile occhiata che io allora, confusamente e senza neppure accorgermene, dava a me stesso. E che, pur confusamente, io diceva: che fa, che importa a me questo (la bella natura, una poesia ch’io leggessi, i mali altrui), che non sono nulla, che non esisto al mondo? V. p. 4492. E ciò terminava tutto, e mi rendeva così orribilmente apatico com’io sono stato per tanto tempo. Quindi si vede chiaramente che il fondamento essenziale e necessario della compassione, anche in apparenza la più pura, la più rimota da ogni relazione al proprio stato, passato o presente, e da ogni confronto con esso, è sempre il se stesso. E certamente senza il sentimento e la coscienza di un suo proprio essere e valere qualche cosa al mondo, è impossibile provar mai compassione; anche escluso affatto ogni pensiero o senso di alcuna propria disgrazia speciale, nel qual caso la cosa è notata, ma è ben distinta da ciò ch’io dico. E al detto sentimento e coscienza, come a suo fondamento essenziale, la compassione si riferisce dirittamente sempre; quantunque il compassionante non se n’accorga, e sia necessaria un’intima e difficile osservazione per iscoprirlo. Quel che si dice dei deboli, che non sono compassionevoli, cade sotto questa mia osservazione, ma essa è più generale, e spiega la cosa diversamente Ciò che dico del sentimento di se stesso, e della considerazione e stima propria, vale ancora per la speranza: chi nulla spera, non sente, e non compatisce; anch’egli dice: che importa a me la vita? Fate qualche atto di considerazione a chi si trova spregiato, dategli una speranza; una notizia lieta; poi porgetegli un’occasione di sentire, di compatire: ecco ch’egli sentirà e compatirà. Io ho provato, e provo queste alternative, e di cause e di effetti, sempre rispondenti questi a quelle: alternative attuali, o momentanee; ed alternative abituali e di più mesi, come, da città grande passando a stare in questa infelice patria, e viceversa. Il mio carattere, e la mia potenza immaginativa e sensitiva, si cangiano affatto l’uno e l’altra in tali trasmigrazioni. (Recanati. 14. Aprile. Martedì santo. 1829.).

Possibilis da possitum, secondo che ho mostrato altrove della formazione in bilis dai supini: nuova prova del sup. situm di esse. (14. Aprile.).

Lattato per latteo. E simili altri aggettivi di colori.

Lacteolus per lacteus. aggett. V. Forc. in aureolus, argenteolus ec. e negli altri aggettivi di colori.

Che l’antico bito sia un continuativo di vio as? onde viator, viaticus ec.

Vinciglio (vinculum), avvincigliare (avvinculare, altrimenti avvinchiare, avvinghiare.).

Romoreggiare. Pavoneggiare. Atteggiare. Veleggiare.

Il nostro favorare par dimostrato nel latino da favorabilis, favorabiliter, giusta il detto da me altrove della formazione in bilis dai supini de’ verbi. E così, da simili prove d’ogni genere, note generalmente o non note, altre infinite voci. E certo, che infinite voci volgari, anche radici ec., non superstiti nel latino noto, e che noi non sappiamo donde derivare, e cerchiamo forse nel settentrione ec., sieno pure e prette latine (latino scritto o solamente parlato, voglio dire non letterario), si conferma coll’osservazione d’ogni giorno. Borghesi ha trovato nelle lapidi (e dee stare nella nuova edizione del Forcell.) la voce drudus i, (17. Aprile. Venerdì Santo. 1829.) la cui origine, non che essa medesima, nessuno avrebbe cercato nell’ant. latino (18. Apr.).

Babil, babiller, babillard ec. Gaspiller, gaspillage ec. Gazouiller ec. Plumasserie, plumassier.

Observito as.

Beccare — bezzicare. Piccare — pizzicare. Piovizzicare (marchigiano), e pioviccicare (id.). Piluccare — spilluzzicare. Appiccare — appicciare, appiccicare.

Scioperato, désoeuvré. Homme répandu. ( Rousseau, pensées I. 202.). Dissipé.

Erto (erectus), participio aggettivato.

Perdonare, pardonner, perdonar, voce di forma ed apparenza affatto latina e antica: per, omnino, penitus, ad extremum, come in pereo, perdo, perimo, perdomo, perduro, ec. ec. e donare cioè condonare.

I participii in us de’ verbi neutri ec. sono comprovati da quelli di forma e senso corrispondente, che hanno i medesimi verbi in italiano francese spagnuolo.

Ci paiono poetichissime, ed amiamo a ripetere, moltissime frasi scritturali, che non sappiamo che significhino, anzi che rapporto abbiano quelle voci tra loro, (come l’abominazione della desolazione, ec. ec.): e ciò per quel vago, e perchè appunto non sappiamo precisare a noi stessi, e non intendiamo se non confusissimamente e in generalissimo, che cosa si voglian dire. (19. Aprile. Pasqua.).

Amitié, amistà, amistad — amicitas, nell’ignoto latino. V. Forc. Gloss. ec. Così nimistà ec.

Altra circostanza che muta alternamente il carattere, è il passare da città grande a piccola, da città forestiera alla patria, e viceversa. In quelle il carattere è più franco, aperto, benevolo; in queste al contrario, per la collisione degl’interessi, invidie de’ conoscenti, amor proprio continuamente punto ec. Esperienza mia propria ec. Quindi, come per tante altre cagioni (v. il mio Discorso sui costumi presenti degl’Italiani) più dabbene generalmente i privati nelle città grandi che ne’ luoghi piccoli ec. ec. Pensiero da molto stendersi e spiegarsi. (19. Apr. Pasqua. 1829.). V. p. 4520.

Alla p. 4462. Neanche per rapporto allo stato sociale sarebbe possibile di credere che tutte le qualità degli uomini sieno destinate dalla natura a svilupparsi. Lascio le cattive (come noi diciamo) e visibilmente dannose alia società (che sono infinite): neppur le buone ed utili. Vedi circa i talenti, Rousseau, Pensées, part. I. p. 197. fin. ep. 198. Amsterd. 1786. (19. Apr. 1829.).

Continuo — continovo, coi derivati e gli altri simili. Manuale — manovale, Mantua — Mantova.

Altro ostacolo alla durata della fama de’ grandi scrittori, sono gl’imitatori, che sembrano favorirla. A forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que’ suoi tanti pensierini pieni di grazia o d’affetto, quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perchè sono in fatti comunissimi. Interviene agl’inventori in letteratura e in cose d’immaginazione, come agl’inventori in iscienze e in filosofia: i loro trovati divengono volgari tanto più facilmente e presto, quanto hanno più merito. (20. Apr. 1829.).

L’on n’est heureux qu’avant d’être heureux. Rousseau, Pensées, I. 204. Cioè per la speranza.

La seule raison n’est point active; elle retient quelquefois, rarement elle excite, et jamais elle n’a rien fait de grand. Ib. 207.

Famulus ec. — familia ec.

Follico as.

Foetus a um, evidente participio senza verbo noto. V. Forc. Da foetus foeto as, evidente continuativo del verbo originale. Effoetus ec.

Fabula, fabulor ec. — favella, favellare: diminutivi ec. Prezzolare.

Il nostro antico fante per parlante, e di qui per uomo, co’ suoi diminutivi, come fanciullo (cioè uomicciuolo) che ancor s’usa, senza conoscerne la forza e l’etimologia, fantoccio ec. ec. non è egli evidentemente l’antico, e negli scritti perduto o disusato, fans, da for; di cui anche in-fans fa fede, e quasi nello stesso senso? Vedi Forcell. Gloss. ec. e Foscolo sopra l’Odissea di Pindemonte (21. Apr.). I marchegiani (gran conservatori del latino) ancor oggi: un lesto fante ec. in parlar burlesco.

Tympanus — timballo, diminut. V. franc. , spagn.

La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato, è dolorosa, quando esso è considerato come passato, finito, che non è, non sarà più, fait. Così o detto altrove del licenziarsi da persone anco indifferenti ec. (21. Apr. 1829.).

Specio-speculor.

Alla p. 4488. Ancora: che ardisco io formar de’ pensieri nobili, che da tutti son tenuto per uom da nulla. Il primo fondamento di qualunque o immaginazione o sentimento nobile, grande, sublime (e tali sono i poetici e sentimentali di qualunque natura: anche i dolci, teneri, patetici ec.: tutti inalzano l’anima), è il concetto di una propria nobiltà e dignità. Anzi la facoltà e l’efficacia di esse immaginazione e sentimento, sì abitualmente e sì attualmente sono in proporzione sempre del detto concetto, sì abituale, e sì attuale. Ogni sentimento o pensiero poetico qualunque è, in qualche modo, sublime. Poetico non sublime non si dà. Il bello, e il sentimento morale di esso, è sempre sublime. Ora il concetto di una propria nobiltà, sembra ridicolo, è respinto con dolore, come una illusione perduta, quando uno si trova disprezzato, abitualmente o attualmente, da quei che lo circondano. Però in questi casi, il provar quella quasi tentazione a sentire ec., è penoso, perchè vi rinnuova il pensiero della vostra abiezione. Certo, egli è proprietà ed effetto essenziale d’ogni immaginazione e sentimento di natura poetica, l’inalzar l’anima: al che si oppone direttamente quello stato di spregio ec., quel concetto, quel sentimento di se stessa, che la deprime. (22. Aprile. 1829, Recanati.). V. p. 4499.4515.

Indulgenza nelle città grandi verso le persone mediocri in qualunque genere, e verso i difetti e ridicoli (pur d’ogni genere) di queste e delle insigni (difetti che si perdonano in grazia de’ pregi, ed anche della semplice compagnia che quelle persone fanno) maggiore assai che ne’ luoghi piccoli; appunto al contrario di ciò che in questi si crede. ec. ec. (23. Aprile).

Affumare, affummare — affumicare. Arsiccio, arsicciare, abbruciacchiare ec.

Pallare-palleggiare. Che pallare per quassare, venga da πάλλω?

Pigna, dialetto marchegiano — pignatta, pignatto, pignattino ec. V. la p. 4498. Il diminut. pignatta dimostra il suo positivo pigna.

Homme ec. distingué. Arrondi per rond.

Agli uomini paghi in buona fede e pieni di se, gli altri uomini sono quasi tutti amabili; li veggono volentieri, ed amano la lor compagnia. Perocchè si credono stimati, ammirati, μακαριζομένους generalmente dagli altri; chè senza ciò non sarebbero nè pieni nè paghi di se. Ora è naturale che chi è creduto ammiratore, sia amabile agli occhi di chi si crede ammirato. Perciò questi tali (che parrebbe dovessero essere sommi egoisti) bene spesso sono benevoli, compagnevoli, servizievoli molto, buoni amici. Talvolta anche modesti, per la piena e tranquilla certezza (la certa e riposata credenza) che hanno del loro merito (o di loro vantaggi qualunque, come nobiltà, ricchezza, potenza e simili.) (Rosini). (26. Aprile.).

Coraggio propriamente detto non si dà in natura, è una qualità immaginaria e di speculazione. Chi nel pericolo non teme, non pensa al pericolo, o abituato a non riflettere, o avvezzo a quei tali casi, o distratto da faccende o da altri pensieri in quel punto. Chi pensa al pericolo, teme; eccetto se la morte, o quel qualunque danno imminente, nell’opinion sua non è male. In tal caso, quel pericolo non è pericolo a’ suoi occhi. Ma creder male una cosa, conoscersi in pericolo d’incorrervi, aver presente al pensiero il pericolo, e non temere; questo è il vero coraggio; e questo è impossibile alla natura. I così detti coraggiosi, rimangono maravigliati quando ne’ pericoli veggono altri che temono; e dimandano perchè. Essi non si erano accorti del rischio, o vi avevano fatto piccolissima attenzione. V. un tratto di Carlo 12 re di Svezia, assediato in Stralsund, ap. Voltaire, liv. 8. ed. Londr. 1735. t. 2. p. 160-1. (26. Aprile. 1829.).

Μακαρίζω, εὐδαμονίζω, μακαριστέος ec. Noi non abbiamo che invidiare invidiabile ec. (e così i francesi porter envie, digne d’envie, ec.), voci assai dure e incivili. Più umana, o per dir meglio, più civile in ciò, come in tante altre cose, anche la lingua dei Greci. (26. Apr.). Féliciter franc. si accosta talvolta a μακαρίζειν, per metafora, specialmente nel senso reciproco.

Ventare, sventare — ventolare, sventolare, ventilare (lat. ventilo), venteggiare.

Pargoleggiare ec. Vanare — vaneggiare. Per esser vano v. vaneggiare anche nel Petr. Tr. del Tempo: E vedrai ’l vaneggiar di questi illustri. (26. Apr.).

Tinea (noi tigna), teigne, intignare ec. — tignuola. V. Forcell.

Gringotter. Parlottare. Cantacchiare. Vezzeggiare. Bamboleggiare. Boursiller.

Acutus da acuo, participio aggettivato, e non più riconosciuto per participio. Argutus, cioè qui arguit. ; e participio aggettivato. Desolato per solo (uomo o luogo). V. Crus., Forcell.

Parvulus, parvolo. pargolo. Pluvia, piova — pioggia.

Pargolo è diminutivo. Pur è già antiquato, e nella prosa non si usa più che il sopraddiminutivo pargoletto. Tanta è la tendenza del popolo a diminuire. Così in Toscana oggi non odi più piccolo, ma piccino. (27. Apr.). In lat. pusillus per l’antiquato pusus.

Pina — pinocchio. V. Crus. Innamoracchiare, innamorazzare, amoreggiare.

Gravato per grave. Petr. L’aere gravato e l’importuna nebbia.

Ci piace e par bella una pittura di paese, perchè ci richiama una veduta reale; un paese reale, perchè ci par da dipingerci, perchè ci richiama le pitture. Il simile di tutte le imitazioni (pensiero notabile). Così sempre nel presente ci piace e par bello solamente il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezion di somiglianze e di rapporti, e in rimembranze. (Recanati. 27. Aprile. 1829.).

Life. to live. E simili innumerabili.

Folâtre, folâtrer. Folleggiare, pazzeggiare ec. V. Crus.

Dives, divitis, divititae ec. — dis, ditis, Dis Ditis, ditare ec.

Recupero — recipero. V. Forc.

Recisamentum par che indichi un recisare. V. Gloss.

Trouble, troubler (turbula, turbulare).

Fustigo, remigo, navigo, laevigo, fatigo, litigo.

Remotus, secretus, occultus, riposto ec. participii aggettivati.

Covaccio — covacciolo (accovacciare ec.). E simili altri in accio-acciolo, acciare — acciolare. Così in acchio acchiolo ec. Vedi la p. 4473. capoverso 9, coi pensieri annessi, anteriori o posteriori al presente. Notisi che la desinenza in ulus a um, ulare ec. già era compresa nella forma in accio, acchio, aglio ec. (come qui in covaccio, che è un cubaculum) acciare ec.; sicchè nella forma in acciolo, acchiolo, acciolare ec. viene ad essere ripetuta.

Alla p. 4486. Anche la forma in as asse (crevasse crevasser ec.[a]

Crever, se crever, — crevasser.

[Chiudi]) asser (frigo, fricasser [a]) ace acer spesse volte, non è altro che la latina in acul. .., la nostra in accio acciare, azzo azzare ec. Così la spagnuola in azo aza azar. Minae, minor, minaccia, minacciare, menace ec., amenaza ec. Così fors’anco in êche, eche, ec. ec. esse, isse, ec. oisse, ousse ec. isser ec.; e in ezo, izo (granizo) ec. izar ec. acho, echo ec. achar ec. Così talvolta la nostra in asso, assare, esso ec. Similmente le nostre in olo, olare, olo (gragnòla) ec. uolo uolare, icciuolo, o a-ucciuolo (filiolus, figliuolo) ec. tutte dal latino ul. .., o talvolta ol. .. V. p. 4498. — Così la francese analoga in eul, euil ec. ec. (linceul). Tutte queste forme vengono, dico, dall’unica latina, o che questa abbia forza diminut. ec., o che sia semplice desinenza, del che vedi la pag. 4442-4. — V. ancora il pensiero qui precedente. (30. Apr.). Anche sovente la spagnuola allo allarullo ullar; e forse la francese al alle, alleruller. Così forse spesso anche la nostra in allo (timballo per timpano) allareullo ullare (culla da cunula, cullare, colla, collare, da chordula, fanciullo (v. la p. 4492. capoverso 7.), maciulla, maciullare). Notandum però che anco i latini hanno la forma diminutiva ec. in ill. .., ell. .. oll. .. (corolla, v. p. 4505.), ull. .., fors’anche all. .., sì in verbi sì in nomi. — Mirabil cosa in quante maniere diverse si è corrotta la pronunzia latina, anche dentro una stessa nazione; cosa notabile assai nella scienza delle etimologie. E da ciò in gran parte deriva la tanta superiorità dell’italiano sul latino in abbondanza e varietà di forme frequentative, diminutive ec., superiorità notata da me altrove, parlando de’ frequentativi latini. — Vedi anche la p. 4490. capoverso 5. (1. Mag.). V. p. 4500.

Piovegginare. Piovigginare. Gergo — jargon. Frego — fregacciolo, sfregacciolo, fregacciolare. Impiastrare — impiastricciare. Ram-mentare — di-menticare, s-menticare ec.

Masticare: da un mansitum — mastum (pinsitus — pistus) di mandere, come da mixtum misticare.

Dello stesso secolo è mancare di poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l’utile, il linguaggio del popolo; bandirne l’eleganza; privarla della maggior parte del bello, ch’è la sua essenza; o, contro la propria natura di essa, subordinare il bello (e quindi il sublime, il grande ec. V. la p. 4492. fin. e sq.) al vero, o al così detto vero. È naturale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o men poetica ch’ei può; anzi una poesia non poesia. (2. Mag.).

Alla p. 4273. Così gli stranieri, dopo avere snaturata la loro scrittura per voler esprimer con essa piuttosto la pronunzia latina che la volgare, abituati poi a questo snaturamento, anzi dimenticatolo, e pigliando per naturale e per logico il loro modo di scrivere, vengono a snaturare la pronunzia latina, facendo dal latino scritto al pronunziato quella differenza che sono usati e necessitati a fare dalla pronunzia alla scrittura de’ loro volgari. (2. Mag. 1829. Recanati.). È naturale e conseguente, che chi scrive male la propria lingua, legga male le altre. Massime quelle che non gli sono note se non per iscrittura. (2. Mag.).

Alla p. 4496. Come parvolus per parvulus: e regolarmente dopo vocale, come lacteolus, flammeolus, bracteola, lanceola, Tulliola, filiolus ec., e così ne’ verbi. — Fors’anche la nostra forma in atto attare (attolo attolare), probabilmente da acchio ec. piuttosto che da asso. E quindi anche la diminuzione ec. in etto ettare, otto, utto ec. ec. E quindi anco la francese in et ette etter eter, ot ote (barbote) otte otter oter ec. (becqueter, piquer — picoter.): e la spagnuola in ito ecito ec. oto ec. Certo poi la spagnuola in ico ecico ec. ec. (3. Maggio. 1829.).

Che libertar sia un liberatare o liberitare (meritare — mertare), è provato anche da libertus, participio aggettivato, mera contrazione di liberatus.

L’assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch’è lo stato più ordinario della vita, non è nè indifferente, nè bene, nè piacere, ma dolore e male. Ciò solo, quando d’altronde i mali non fossero più che i beni, nè maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità. Quando l’uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l’infelicità nativa dell’uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia. (4. Maggio. 1829.).

Al detto altrove delle bestie e de’ pazzi, che metton fuori tutte le loro forze per ottenere i loro fini, a differenza degli uomini, aggiungi i fanciulli, i quali perciò alle volte vincono di vera e viva forza gli uomini fatti ec. (4. Maggio. 1829. Recanati.).

Alla p. 4493. Nessuna dolce e nobile ed alta e forte illusione può stare senza la grande illusione dell’amor proprio, l’illusione della stima di se stesso e della speranza. Togliete via questa, tutte le altre verranno meno immantinente, e potrete conoscere allora che questa era il fondamento e la nutrice, per non dir la radice e la madre di tutte l’altre. — Supponete uno nella più profonda estasi di sentimento o di entusiasmo: fategli un motto, un gesto solo di spregio, o ch’egli interpreti come tale; o ponete che qualche cosa gli richiami alla mente alcun dispregio sofferto altra volta: tutte le illusioni di quel punto spariscono come un lampo, l’entusiasmo si spegne, la persona resta di ghiaccio. (5. Mag. 1829.).

Scheda. schedola. V. Crus. Forcell. Viola, lat. ital. ec. — violette, franc.

Vos — os, spagn. Pluvia — pluie. Esca — vescor, vescus ec. Vedi Forcell.

Homme outré, soumis. Sommesso. Rimesso. Rassegnato ec.

Talus — talon, tallone. Cipolla, cebolla, forse da cepucula o cepulla (v. la p. 4497. princip.), diminutivo come tanti altri nomi d’erbe, piante, animali ec. del che altrove. Anche in francese ha forma diminutiva oignon: anche ciboule, ciboulette, cive (cepe), civette. V. Forcell. ec. Ceniza spagn. [a], cinigia (v. Alberti )[a], e noi marchigiani ciniscia, o ceniscia: forse da ciniscula o cinisculus, come pulvisculus. (6. Maggio.). V. Forc. ec.

Alla p. 4497. Fors’anche talvolta le nostre forme in a-u-gio, ggio, cio-are. Corrottamente scio ec. Forse talvolta dal lat. ascul. ... — uscul. .. Cinigia. V. la p. qui dietro, fin. V. p. 4504.

Si la tristesse attendrit l’ame, une profonde affliction l’endurcit. Rousseau, pensées, II. 205.

Le pays des chimeres est en ce monde le seul digne d’être habité, et tel est le néant des choses humaines, que hors l’être existant par lui-même, il n’y a rien de beau que ce qui n’est pas. ib. 206-7.

La stupenda conformità radicale tra i nomi della più parte de’ 10 primi numeri nelle lingue le più disparate, sembra provare unità d’invenzione e d’origine de’ nomi numerali, e conseguentemente della numerazione. (7. Maggio.).

La formazione incoativa de’ verbi, sì bella, e di tanto uso in latino, manca essa pure alla lingua greca. (7. Mag.).

Aisé, agiato, agiatamente ec. per agevole, agibilis. Falcato, quadrato, carré, quadratus ec., e simili altri participii aggettivati o aggettivi di forma participale, senza verbo; come saranno forse altri dei notati da me in tal proposito esprimenti figura.

Uomo ec. ordinato. (7. Mag.). Prolongé.

Bacherozzo-bacherozzolo. E simili infiniti in azzo-uzzo.

Les anciens politiques parloient sans cesse de moeurs et de vertus; les nôtres ne parlent que de commerce et d’argent. Rousseau, pensées, II. 230.

Plus le corps est foible, plus il commande; plus il est fort, plus il obéit. Rousseau, ib. 223.

Il n’y a point de vrai progrès de raison dans l’éspece humaine, parce que tout ce qu’on gagne d’un côté, on le perd de l’autre; que tous les esprits partent toujours du même point, et que le temps qu’on emploie à savoir ce que d’autres ont pensé, étant perdu pour apprendre à penser soi même, on a plus de lumieres acquises, et moins de vigueur d’esprit. Nos esprits sont comme nos bras exercés à tout faire avec des outils, et rien par eux-mêmes. ib. 221. V. p. 4507.

Machiavellismo di società. La véritable politesse consiste à marquer de la bienveillance aux hommes. (ib.222.) Ma con questa non fate che evitare di procurarvi la malvolenza loro. Per affezionarveli bisogna la falsa e finta politezza, che consiste in mostrare a tutti della stima. Un uso ordinario e mediocre di questa politezza vi fa gli altri benevoli, un uso eccellente e più che ordinario ve li fa amanti. Gli uomini si curano assai meno di essere benvoluti che stimati, ed hanno più gratitudine e più amore a chi gli stima, che, non solamente a chi gli ama, ma a chi li benefica. On peut résister à tout hors à la bienveillance, et il n’y a pas de moyen plus sûr d’acquérir l’affection des autres que de leur donner la sienne. (ib. 224.) Questo detto è molto più vero, applicato alle dimostrazioni di stima. La benevolenza, l’affetto, l’amore stesso, non che sieno sempre corrisposti, spessissimo generano noia, nausea, avversione verso l’amante. Gli esempi ne sono frequentissimi, non solo tra’ due sessi, ma tra padri e figliuoli, e tra altri parenti, massime di età e di generazioni diverse: tra’ quali non è raro trovare amore da una parte, vero odio costante, invincibile, dall’altra. Ma non è possibile conservare avversione nè indifferenza, resistere, non riconciliarsi, non voler bene a chi mostra di stimarci; massime se costui (cosa facilisima) ce lo persuade. (8. Maggio.).

Alla p. 4478. marg. Pour ne rien donner à l’opinion il ne faut rien donner à l’autorité, et la plupart de nos erreurs nous viennent bien moins de nous que des autres. ib. 228.

Machiavellismo sociale. Tout est plein de ces poltrons adroits qui cherchent, comme un dit, à tâter leur homme; c’est-à-dire à découvrir quelq’un qui suit encore plus poltron qu’eux et aux dépens duquel il puissent se faire valoir. ib. 227. (Condulmari. Galamini.) Oggi, e in Italia, che tutti sono poltroni, qui consiste tutta la società, e la vita sociale, e il mio Machiavellismo. (8. Mag.).

Je n’ai jamais vu d’homme ayant de la fierté dans l’ame en montrer dans son maintien. Cette affectation est bien plus propre aux ames viles et vaines. ib. 232.

Manuale di filosofia pratica. Par-tout où l’un substitue l’utile à l’agréable, l’agréable y gagne presque toujours. ib. 231. Serva a que’ miei pensieri ove dico che le occupazioni ec. il cui fine è il solo piacere, non danno mai piacere ec. (9. Mag.).

Alla p. 4418. L’existence des êtres finis est si pauvre et si bornée, que quand nous ne voyons que ce qui est, nous ne sommes jamais émus. Ce sont les chimeres qui ornent les objets réels, et si l’imagination n’ajoute un charme à ce qui nous frappe, le stérile plaisir qu’on y prend se borne à l’organe, et laisse toujours le coeur froid. ib. 242

Guardare per aspettare ec. del che altrove. Aguato, agguato, aguatare, agguatare ec. per insidiare, vagliono propriamente aspettare al passo, e in proprio senso equivalgono all’aguardar spagnuolo.

Navita — nauta; navis — naufragium ec.; e simili.

Forma diminutiva italiana in astro. Pollastro, vincastro ec. Disprezzativa. Giovinastro, medicastro, poetastro. ec. Fors’anche frequentativa, e in astrare. Così in francese: folâtre, folâtrer ec. (9. Maggio.). Verdastro, verdâtre per verdigno; e simili. Padrastro ec.

Torreo-tostum-tostar, spagn. Elixus, assus, forse participii; e quindi assare, elixare, forse continuativi. Livio VII. 10. linguam exserere , laddove l’antico annalista Quadrigario, ap. Gell. IX. 13., al quale allude lo stesso Livio, linguam exsertare: benissimo Quadrigario: e non è frequentativo, ma continuativo, perchè, come ho detto altrove, il frequentativo indica il soler fare (a non certi intervalli e tempi) una cosa, e il non farla continuamente di séguito e ripetutamente in un dato e piccolo spazio di tempo. Così considerati, anche i verbi in ico, e gli altri che si chiamano frequentativi, oltre quelli in ito, si vedranno essere più propriamente continuativi. (10. Maggio. 1829.).

Dal detto altrove sulla poesia di stile, quanta immaginazione richieda ec., apparisce che i veramente poeti di stile, sarebbero stati poeti d’invenzione, o per meglio dire, d’invenzion di cose, in altri tempi; e ch’essi sono i veri poeti de’ loro secoli. ec. (10. Mag.).

Per molto che uno abbia letto, è ben difficile che al concepire un pensiero, lo creda suo, essendo d’altri; lo attribuisca all’intelletto, all’immaginazione propria, non appartenendo che alla memoria. Tali concezioni sono accompagnate da certa sensazione che distingue le originali dalle altre; e quel pensiero che porta seco la sensazione, per così dire, dell’originalità, verisimilissimamente non sarà stato mai concepito ugualmente da alcun altro, e sarà proprio e nuovo; dico, non quanto alla sostanza, ma quanto alla forma, che è tutto quel che si può pretendere. Giacchè è noto che la novità della più parte de’ pensieri degli autori più originali e pensatori, consiste nella forma. (10. Mag.).

Similis — simulare, ec. ec.

Carduus, cardo ital. — chardon franc. , cardone ec. Juillet.

Debolezza amabile al più forte (come la forza al debole, il maschio alla femmina). Su ciò è fondata in gran parte la tenerezza naturale de’ genitori verso i figliuoli, la quale negli animali finisce affatto colla debolezza di questi. Anche l’amabilità de’ fanciulli agli uomini, delle femine ai maschi, degli animaletti piccini e teneri, (uccelli ec.), di tutto ciò (anche piante ec.) dove il senso o l’immaginazione percepisce un’idea di tenerezza, debolezza, inferiorità di forze ec. Anche la malattia, il pallore; e poi l’infelicità ec. ec. e tutto quel ch’è oggetto di compassione, si può ridurre a questo capo. La compassione è fonte d’amore ec. ec. V. p. 4519. fine. (11. Mag.).

Nel secolo passato le scienze si collegarono alle lettere; il secolo ebbe una letteratura filosofica (vera letteratura, e veramente propria di esso): nel nostro le hanno ingoiate; letteratura del secolo 19.o, a parlar propriamente, non v’è. Non è l’Italia sola che patisca oggi questo difetto di letteratura contemporanea; esso è comune a tutte le nazioni colte. Solo la Grecia, ed altri tali paesi ancor mezzo civili, avranno forse una letteratura del secolo 19.o: se l’influenza inevitabile delle nazioni convicine non uccide le lettere ancor presso quelli, e prima che si maturino. (11. Mag.).

Alla p. 4500. Calderugio per calderino, diminutivo di carduelis (chardonneret), del che altrove. — Raperugiolo — raperino. Fors’anco in cco-are. Piluccare, éplucher. Badalucco. Balocco. E simili disprezzativi o frequentativi — E in onzo-are, dal lat. unculus-are (avunculus, homunculus, latrunculus). V. p. 4513. Mediconzo-lo (quasi medicunculus), ballonzare, (ballonzìo, volg. tosc.) ec. E similmente in oncio-are. Baroncio ec. E in agno-ugno are, dal lat. nulus, o ngulus, o unculus, o simili. Verdognolo, (viridunculus), verdigno, rossigno, vecchigno ec. V. Crus. Ugna — ungula. E così in ñ... spagnuolo . E così le forme francesi e spagnuole analoghe a ciascuna di queste italiane. — Senza poi contare le desinenze in cui l’ul. .. lat. si trasforma nei volgari, e che in questi non hanno nessun valore diminutivo disprezzativo ec. ec. Come (oltre alcune forse delle sunnotate) la nostra in io, iare (unghia, nebbia, bacchio ec. ec.), e in lo, lare (isola, manipolo, accumulare, tumulo ec. ec.) la francese in ...le ...ler (combler, comble, accumuler, île, disciple, ridicule, oncle, ongle, fable ec.); la spagn. in lo, lar (habla, hablar, isla ec. ec.). Dico l’ul. .. lat. , o che questo sia diminutivo o no, o che il diminutivo latino sia noto o no; come piaggia, spiaggia, dall’ignoto plagula per plaga, trembler da un tremulare ec. Del resto, tutte queste desinenze sono notabili per l’osservazione etimologica fatta a p. 4497. lin.5. 7. (11. Mag.). V. p. seg.

Ala, mala, velum, palus — axilla, maxilla, vexillum, paxillus. Di questi forse diminutivi positivati, e loro simili, V. Forcell. in dette voci, e in X littera. Similmente paucus — paulus, o paullus-pauxillus.

Alla p. 4497. Contrazione di coronula, come patena — patella, catena — catella, catinum, catinus — catillum, catillus; e come appunto il nostro culla per cunula. Anche paullus o paulus a um, per pauculus-pauclus, se non è contrazione di pauxillus. V. il pensiero precedente.

Audeo ausum — osare, oser ec. Pulso as, detto di porte, strumenti ec., è ancora continuativo, al modo spiegato p. 4503. capoverso 2: pello sarebbe affatto improprio.

La facoltà di sentire è ugualmente e indifferentemente disposta a sentir piaceri e dolori. Or le cose che producono le sensazioni del dolore, sono incomparabilmente più che quelle del piacere. Dunque la facoltà di sentire è un male, per lo stato esistente delle cose, quando pur nol fosse per se. E quanto essa è maggiore, nella specie o nell’individuo, tanto quella o quello è più infelice: e viceversa. Dunque l’uomo è l’ultimo nella scala degli esseri, se i gradi si calcolano dall’infelicità ec. ec.

Becqueter. Picoter. Pulta, lat. polta, ital. — poltiglia. V. Forc. ec. Pungere — punzecchiare, marcheg. puncicare. Sputacchio, sputacchiare.

Alla p. 4505. Fors’anco in co-are, e que quer franc. (claquer ec.). Anche in ico icare, se lungo (perchè nelle nostre pronunzia l’icul. .. lat. è lungo nell’i); massime contratto in icl. .. ec., come sarebbe in questi casi se breve, è dal lat. ico as ec. V. p. 4509.

Parole greche possono esser venute in italiano ne’ bassi tempi, pel commercio e le conquiste de’ Veneziani, le Crociate, i Greci del Regno di Napoli e di Sicilia, e simili altri mezzi (esse sono, del resto, anteriori molto alla presa di Costantinopoli); ma non già le frasi, i costrutti, gl’idiotismi, vere proprietà di lingua, comuni all’italiano e al greco, da me spesso notate. (13. Mag.).

Una cosa, fra l’altre, che rende impossibile agli stranieri il gustar la poesia delle lingue sorelle alla loro propria, o affini (come sarebbe l’inglese alle nostre che vengono dal latino), si è che il linguaggio poetico di tali idiomi essendo, come il prosaico, composto di voci e modi che si ritrovano ancora nelle lingue sorelle, moltisime di tali voci e maniere che lo compongono, e che sono poetiche in quel tale idioma, cioè nobili, eleganti, pellegrine, e così discorrendo; nell’idioma dello straniero che legge, sono o basse, o familiari, o triviali, o prosaiche almeno, spesso ridicole e da beffe; hanno significati analoghi ma diversi; richiamano idee alienissime dalla poesia generalmente, o dal soggetto in particolare. Ciò è soprattutto notabile fra italiani e spagnuoli (v. la p. 4422.). (Un qualunque pezzo di poesia spagnuola potria servirmi di esempio chiarissimo). Ed è applicabile anco alla prosa elevata, oratoria, storica e simili. (13. Mag.).

Alla p. 4501. Non solo della ragione, ma anche del sapere, della dottrina, della erudizione, delle cognizioni umane, si può dubitare se facciano progressi reali. Pel moderno si dimentica e si abbandona l’antico. Non voglio già dir l’archeologia, ma la storia civile e politica, la letteraria, la notizia degli uomini insigni, la bibliologia, la letteratura, le scoperte, le scienze stesse degli antichi. Si apprende, si sa quel che sanno i moderni; quel che seppero gli antichi (che forse equivaleva), si trascura e s’ignora. Nè voglio dir solo i greci o i latini, ma i nostri de’ secoli precedenti, non escluso pure il 18.o. Guardate i più dotti ed eruditi moderni: eccetto alcuni pochi mostri di sapere (come qualche Tedesco) che conoscono egualmente l’antico e il moderno, la scienza degli altri enciclopedica, immensa, non si stende, per così dire, che nel presente: del passato hanno una notizia sì superficiale, che non può servire a nulla. In vece di aumentare il nostro sapere, non facciamo che sostituire un sapere a un altro, anco in uno stesso genere (senza che poi uno studio prevale in una età a spese degli altri). Ed è cosa naturalissima; il tempo manca: cresce lo scibile, lo spazio della vita non cresce, ed esso non ammette più che tanto di cognizioni. Anche le scienze materiali non so quanto progrediscano, a ben considerare la cosa. Bastando appena il tempo a conoscere le innumerabili osservazioni che si fanno da’ contemporanei, quanto si può profittare di quelle d’un tempo addietro? I materiali non crescono, si cambiano. E quante cose si scuoprono giornalmente, che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensava più. Ripeto che non parlo solo degli antichissimi; anco de’ recenti. Un’occhiata a’ Dizionarii biografici, agli scritti, alle osservazioni, alle scoperte, alle istituzioni di uomini ignoti o appena noti, e pur vissuti pochi lustri o poche diecine d’anni sono: si avrà il comento e la prova di queste mie considerazioni Gli uomini imparano ogni giorno, ma il genere umano dimentica, e non so se altrettanto. (13. Mag.).

Ciondoli, ciondolare ec., dondolare, cinguettare, linguettare, bredouiller, barbouiller, barboter, imbrodolare ec.

Trebbiare (tribulare. V. Forc. Gloss. ec.) — τρίβειν.

Un mio fratellino, quando la Mamma ricusava di fare a suo modo, diceva: ah, capito, capito; cattiva Mamà. Gli uomini discorrono e giudicano degli altri nella stessa guisa, ma non esprimono il loro discorso così nettamente (ἁπλῶς). (14. Mag.).

Quanto può l’autorità (come in ogni altra passione, p. e. la tristezza, la speranza, il timore, così) nel piacere! Dico ne’ piaceri realistici ec. In galanteria: donne amate da qualcun altro, famose per bellezza, spirito ec., quantunque a voi d’altronde non piacerebbero. In letteratura: se leggete un libro che il pubblico vi dica esser bello, classico ec., ci provate incomparabilmente maggior piacere, che se da voi stesso dovete avvedervi de’ suoi pregi. Il piacer dell’inaspettato, che si può provare in questo secondo caso, non ha nulla di comparabile a quello che nel primo caso ci deriva dall’autorità degli altri. Nè trattasi qui di rimembranze, lontananza, antichità venerabile, voto di secoli ec.; anche un libro nuovo, uscito pur ora ec. Il credito poi dell’autore, benchè vivente, quanto importa al piacere! È classico il detto di La Bruyere: è molto più facile il far passare un libro mediocre al favor di una riputazione già fatta, che acquistarsi una riputazione con un libro eccellente. Ed io ardisco dire che piace veramente più a leggere un libro mediocre (nuovo o antico) d’autor famoso, che un libro eccellente di scrittore non rinomato. (14. Mag.).

Barbio, barbo (Alberti) — barbeau. Tâtonner, ec., bourdonner. Brontolare ec.

βροντὴ ec. — brontolare.

Alla p. 4506. Nutricare però è da nutrico. Mendicare da mendico as ec. Del resto, anche le forme in chio chiare, co care, cio-zo-are, precedute da consonante (mischiare, bufonchiare, ballonchio anche questi, e simili, dal lat. uncul. .. ec. ec.). E così dicasi delle altre sunnotate forme italiane, ed anche francesi e spagnuole, ed anche latine: non solamente precedendo vocale. La forma in onzo, di cui sopra, è veramente in onzo (onzare ec.), e non solamente in onzolo (v. la Crusca in Romitonzolo), ed è corrotta da quella in oncio, e però, come questa, racchiude tutta intera la forma lat. in unculus. (Vedi la pag. 4496. capoverso 8. e la p. 4443.) Rapulum (cioè piccola rapa, parvum rapum) — raperonzo, raperonzolo — raiponce. V. spagn. ec. Raponzolo o ramponzolo; volg. marcheg. e Fr. Sacchetti nella Caccia. — E la forma franc. in ce cer, je jer, ye yer (côtoyer, guerroyer antico, ec.), in ie ier ec. ge, ger (bagage-bagaglio), precedendo consonante o vocale. Raiponce. V. qui sopra. (15. Maggio.). Sucer (succiare), della 1.a coniug., mentre sugo is è della 3.a. E in bro, brare, e simili, cangiata la l lat. in r. Sembrare da simulare o similare. Assembrare (assembler) assimulare, da simul. Così anche in ispagnuolo ec. — E in a-u-io-iare. (16. Mag.). V. p. 4511.

Odio verso i nostri simili. È proprio ancora, ed essenziale a tutti gli animali. Non si può tenerne due d’una stessa specie (se non sono di sesso diverso) in una medesima gabbia ec., che non si azzuffino continuamente insieme, e che il più forte non ammazzi l’altro, o non lo strazi. Uccelli, grilli ec. E v. il detto altrove, degli animali che si specchiano. (15. Mag.).

Ballonzare ballonzolare (Alberti.). Buffoneggiare. Bucacchiare. Bucherare. Fo-sfo-racchiare. Lampeggiare. Torreggiare. Criailler. Rimailler. Rioter.

Aguzzo — auzzo ec., sciaura, reina, reine franc. ec. magister-maestro ec.

Manco-mancino, diminut. aggett. Pisello. Fagiuolo. V. lat. franc. spagn. Asio, lat. — assiuolo.

Quel che si dice degli stupendi ordini dell’universo, e come tutto è mirabilmente congegnato per conservarsi ec., è come quel che si dice che i semi non si depongono, gli animali non nascono, se non in luogo dove si trovi il nutrimento che lor conviene, in luogo che loro convenga per vivere. Milioni di semi (animali o vegetabili) si posano, milioni di piante o d’animali nascono in luoghi dove non hanno di che nutrirsi, non posson vivere. Ma questi periscono ignorati; gli altri, e non so se sieno i più, giungono a perfezione, sussistono, e vengono a cognizione nostra. Sicchè quel che vi è di vero si è, che i soli animali ec. che si conservino, si maturino, e che noi conosciamo, sono quelli che capitano in luoghi dove possan vivere ec. Ovvero, che gli animali che non capitano, ec. non vivono ec. Questo è il vero, ma questo non vale la pena di esser detto. Or così discorrete del sistema della natura, del mondo ec. ap. a poco secondo le idee di Stratone da Lampsaco. (16. Mag.).

Trève-tregua.

Continuato, continuatamente ec. per continuo ec. V. franc. spagn. lat. ec.

Homme, ne cherche plus l’auteur du mal; cet auteur c’est toi-même. Il n’existe point d’autre mal que celui que tu fais ou que tu souffres, et l’un et l’autre te vient de toi. Le mal général ne peut être que dans le désordre, et je vois dans le système du monde un ordre qui ne se dément point. Le mal particulier n’est que dans le sentiment de l’être qui souffre; et ce sentiment, l’homme ne l’a pas reçu de la Nature, il se l’est donné. La douleur a peu de prise sur quiconque, ayant peu réfléchi, n’a ni souvenir ni prévoyance. Ötez nos funestes progrès, ôtez nos erreurs et nos vices, ôtez l’ouvrage de l’homme, et tout est bien. Rousseau, pensées, II. 200. — Anzi appunto l’ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell’ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l’esistenza di questo inconcepibile. Animali destinati per nutrimento d’altre specie. Invidia ed odio ingenito de’ viventi verso i loro simili: v. la p. 4509. capoverso 4. Altri mali anche più gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ec. Noi concepiamo più facilmente de’ mali accidentali, che regolari e ordinarii. Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l’opera della natura è imperfetta, come son quelle dell’uomo; non diremmo: è cattiva. L’autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poichè il mondo stesso (dal qual solo, che è l’effetto, noi argomentiamo l’esistenza della causa) è limitato in ogni senso. Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell’ordine, che fonda l’ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v’è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene. Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale? (17. Mag.).

Amaricare, ital. V. Forc. Amareggiare. Armeggiare. Pareggiare. Corteggiare.

Cumbo is, conservato ne’ suoi composti — cubo as, coi composti ec. Posticipare.

Alla p. 4509. fin. Alla forma in olo, olare ec. aggiungi in giolo, ggiolo, ccolo, colo, e specialmente in ucolo (carrucola ec.). Anche occo ec. di cui sopra, è per lo più dal lat. ucul. .. (anitrocco, anitroccolo, bernoccolo, bernoccoluto ec.) siccome occhio (ranocchio, ginocchio ec.). V. p. 4513. In franc. cle, cler, gle, gler ec. E in ispagnuolo ec. — Aggiungi pure in giuolo, ggiuolo, zuolo ec. — La forma in ezzo ezzare può essere non solo da ecci..., ma da eggi... Careggiare carezzare. V. Crus. in amarezzare, marezzare ec. E così l’altre in zo ec. Libycus — libyculus — libeccio (Lebesche franc.); corticula — corteccia, scortecciare ec.; cangiato l’i lat. in e al solito, e come in tante altre diminuzioni (orecchia, pecchia ec., oveja ec. abeille ec. ec.), frequentazioni ec., nominatamente quella in ecchi... (e le corrispondenti franc. e spagn.) sì abbondante. Così, e secondo il detto a p. 4500. princ. , la nostra forma frequentativa ec., sì usitata, in eggio eggiare sarebbe pur dalla forma latina. — In tutte tali forme, se esse comprendono intera la forma latina, il lo lare, se vi si trova, è una giunta toscana. — Del resto, per forme ed esempi ec. v. l’indice di questi pensieri in Frequentativi, Diminutivi ec. (17. Magg.).

In una lingua assai ricca, non solo è povera, o limitata, quella di ciascuno scrittore, come dico altrove, ma anche quella del popolo, e generalmente la parlata. P. e. l’italiano parlato, ancora in Toscana, non è punto più ricco del francese, nominatamente in fatto di sinonimi ec. (18. Mag.).

A rivederla: solito saluto de’ Toscani, anche passando, senza punto fermarvi, o da lungi. Assurdità di queste nostre adulazioni dette complimenti. (18. Maggio.).

Troppe cure assidue insistenti, troppe dimostrazioni di sollecitudine, di premura, di affetto, (come sogliono essere quelle di donne), noiosissime e odiose a chi n’è l’oggetto, anche venendo da persone amorosissime. μία νόννα, ἀδ. μαέστρι, λὰ ζία Ἰσαβέλλα κὸν κάρλῳ. — Galateo morale. (18. Mag.).

Pullus — pollone; rejet — rejeton; surgeon (surculus). Poulet. Poitrine. Vagolare, svagolare (v. Alberti ). Guerreggiare, gareggiare, serpeggiare, tratteggiare (v. Alberti ), pennelleggiare, parteggiare, costeggiare, pompeggiare, pavoneggiare, patteggiare, osteggiare, campeggiare, aspreggiare, mareggiare.

Recondito. Uomo onorato, disonorato; azione disonorata ec.

Verbi in to da nomi femin. in tas. Nobilitas — nobilito. Debilito, mobilito.

Morve — morveau. Spia — espion, spione (la Crus. lo crede accrescitivo: male: e così d’altri tali, ec. ec.)

Misceo — mixtum — mestare, coi composti ec. Aggiungasi al detto altrove di meschiare ec.

Canto as, nel Forc., potrà somministrare esempi di uso continuativo.

Il detto intorno ai verbali in bilis, dicasi ancora circa quelli in ivus (nativus ec.), e gli altri tali.

Alla p. 4511. marg. — e in occio: figlioccio (filiuculus, non filiolus), moccio (muculus), bamboccio, femminoccia, fantoccio, santoccio, casoccia, ec. — Filleul (filiolus, in altro senso.).

Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perchè ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie. E i poeti che più hanno di tali concetti (supremamente poetici) ci sono più cari. V. p. 4515. Analizzate bene le vostre sensazioni ed immaginazioni più poetiche, quelle che più vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che esse, e il piacer che ne nasce, (almen dopo la fanciullezza), consistono totalmente o principalmente in rimembranza. (21. Mag.).

Alla p. 4428. Chi pratica poco cogli uomini, difficilmente è misantropo. I veri misantropi non si trovano nella solitudine, si trovano nel mondo. Lodan quella, sì bene; ma vivono in questo. E se un che sia tale si ritira dal mondo, perde la misantropia nella solitudine. (21. Mag.).

Alla p. 4504. Furunculus, carbunculus (carbonchio, carbunco, carboncolo, carbuncolo, carbunculo: in una sola terminazione d’una sola voce, quanta varietà di pronunzie! escarboucle) ec.: per lo più da voci che abbiano la n, nel nominativo o nel genitivo, se sono nomi. (21. Mag.). — Del resto, la contrazione di cul. .. in cl. .., deve estendersi a tutte l’altre desinenze in ul. .., specialmente in gul. .. ec. Dico, quanto alla corruzione subìta da tali desinenze nelle forme volgari. (22. Maggio. 1829. Recanati.). — Vannozzo, Vannoccio. Cerviatto, o cerbiatto. — Le voci in cul. .., specialmente precedendo consonante, sono contratte da icul. .., come tuberculum da tubericulum, laterculus da latericulus, onde lo spagn. ladrillo; mangiata la i come in tanti altri casi. — Che la desinenza acul. .. particolarmente, nel latino basso, o volgare ec., avesse forza disprezzativa, come accio acciare, as asse asser franc., azo azar spagn., rilevasi non solo dal consenso di queste 3 lingue figlie circa cotal forma e significato, ma anche dai nostri collettivi disprezzativi in aglia (marmaglia, plebaglia, canaglia, ciurmaglia, giovanaglia ec.), e così, mi pare, spagnuoli; e dalle voci francesi pur disprezzative in ail aille ailler (canaille, rimailler, rimailleur ec.). Non a caso queste 2 forme in aglio ed accio (e lor corrispondenti), che d’altronde nei nostri idiomi considerati da se non hanno niente di comune, si abbattono ad essere ugualmente disprezzative: esse derivano da una stessa forma latina la loro origine grammaticale: è naturale che da questo principio comune derivino anche la loro significazione disprezzativa. (23. Mag.). — Vittuaglia ec. Foraggio-are, fourrage-er: v. spagn. Bitorzo (bitorcio, quasi bitorculus), bitorzolo ec. Santocchieria. Foeniculum — (foenuculum) — finocchio — fenouil. — La desinenza in gn... ñ ec. è per lo più da neus ec.; p. e. castanea castagna. — Aveugle, aveugler — aboculus. Muraglia. Pagliuca (Alberti). Molliccio, molliccico. v. p. 4515.

Minuto, participio aggettivato, coi derivati ec. V. lat. franc. spagn.

Soperchio soperchiare, superculus superculare: dello stesso genere che parecchio apparecchiare, pariculus appariculare, di cui altrove; dove la desinenza in cul. . . è semplice desinenza e non diminuzione. Puoi vedere la p. 4443. ec.

Ruina-rovina ec.

Alla p. 4513. Similmente molte immagini, letture ec. ci fanno un’impressione ed un piacer sommo, non per se, ma perchè ci rinnuovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse o da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimamente nella fanciullezza o nella prima gioventù. Questa cosa è frequentissima: ardisco dire che quasi tutte le impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono di questo genere, benchè noi non ce ne accorgiamo, perchè non vi riflettiamo, e le prendiamo per impressioni primitive, dirette e non riflesse. Quindi ancora è manifesto che una poesia ec. dee parere ad un tale assai più bella che un’altra, indipendentemente dal merito intrinseco. ec. ec.

Zoppicare. Medeor — medico as.

Alla p. 4493. Com’è notato, una gran parte del piacere che i sentimenti poetici ci danno e ci lasciano, consiste in ciò, ch’essi c’ingrandiscono il concetto, e ci lasciano più soddisfatti, di noi medesimi. Appunto come i sentimenti, come le azioni, nobili, magnanime, pietose; come i sacrifizi ec. (e come la conversazione di chi ha la vera arte di esser amabile). E appunto come questi non cadono se non in chi sia felice, contento di se, in chi si stimi ec., così nè più nè meno i sentimenti poetici. (24. Mag.).

Alla p. 4514. Lucigno-lo. — In uomicci-uolo, omici-atto, omici-attolo, e simili, la solita moltiplicazione della forma latina in ulus. — Coraggio, per cuore (corazon, coraje, courage): v. Crus., quasi coraculum. Incorare-incoraggiare. Visage, envisager, ombrage, ombrager, language, usage, ouvrage ec. ec. Questa forma in age ager, è tutta francese, provenzale ec. Di là la nostra, sì abbondante anch’essa, in aggio, aggia, aggiare; e grandissima parte almeno delle voci che hanno questa desinenza (viaggio-are ec. Piaggia non è, come dico altrove, da plagula, ma da plage; e così spiaggia.) Però in ispagnolo tali nomi finiscono per lo più in e (viaje, mensaje ec. ec.). — V. ancora il pensiero seg. — V. p. 4518.4521.

Alla p. 4444. Vedi nella p. 4473. capoverso penult. e suoi annessi, l’immenso e svariatissimo uso fatto nel latino volgare o de’ bassi tempi, di questa medesima forma in icul. . . cul. . . ul. . . or con forza diminutiva frequentativa ec., or positivata, or come semplice desinenza. (25. Mag.). V. qui al fine della p. uso manifesto per le quasi infinite forme che ne derivarono nei nostri volgari. Dal che si vede che l’uso antichissimo di quella forma, non cessò mai, nè fu men frequente negli ultimi tempi del latino che nei primitivi.

Il detto altrove dell’incontrastabilmente maggior numero di suoni nelle lingue settentrionali che nelle nostre, causa, in parte della lor mala ortografia, per la scarsezza dell’alfabeto latino da loro adottato; è applicabile ai dialetti dell’Italia superiore, perciò difficilissimo ancora a bene scriversi. Mezzofanti diceva che al bolognese bisognerebbe un alfabeto di 40 o 50 o più segni. Non è questa la sola conformità che hanno que’ dialetti colle lingue settentrionali. Del resto, i dialetti generalmente sono più ricchi che l’alfabeto comune. Il toscano parlato ha anch’esso un po’ più suoni che le lettere, ma pochi più. Il marchigiano e il romano quasi nessuno: esse sono veramente (in ciò come in mille altre cose) l’italiano comune e scritto, o il volgare più simile a questo, che sia possibile. (25. Mag.).

Gracchiare (da gra gra: v. Forc. in graculus), scorbacchiare, scornacchiare, spennacchiare. Gorgheggiare.

Al capoverso 1. Anche qui i toscani abbondano più che gli altri, e spesso dove questi usano il positivo (nome o verbo), essi il diminutivo o frequentativo ec., benchè senza differenza di senso. Noi amiamo p. e. spennare, i toscani spennacchiare ec. ec. (26. Mag.).

La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi. Perchè chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame. Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo. Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno. (27. Mag.).

Bollito per bollente. Patito. Indigesto per non digeribile, e per che non ha digerito.

Umanità degli antichi ec. Vecchi. Cosa lacrimevole, infame, pur naturalissimo, il disprezzo de’ vecchi, anche nella società più polita. Un vecchio (oggi, in Italia, almeno) in una compagnia, è lo spasso, il soggetto de’ motteggi di tutta la brigata. Nè solo disprezzo: trascuranza, non assisterli, non prestar loro quegli uffizi, quegli aiuti, il cui commercio è il fine e la causa della società umana, de’ quali i vecchi hanno tanto più necessità che gli altri. I giovani sono serviti, i vecchi conviene che si servan da se. In una medesima stanza, se ad una giovane cadrà di mano il fuso, il ventaglio, sarà pronto chi lo raccolga per lei; se ad una vecchia, a cui il levarsi in piedi, l’incurvarsi, sarà penoso veramente, la vecchia dovrà raccorselo essa. E così ancora in casi di malattie ec. ec. Spesso i vecchi, anco in uguaglianza di condizione, hanno ad aiutare e servire i giovani. E parlo d’aiuti e di servigi corporali. Ci scandalizziamo di quei Barbari che si fanno servir dalle donne: ma il fatto nostro è lo stesso, se non peggiore. E viene dallo stesso spietato e brutale, ma naturale principio, che il forte sia servito, il debole serva. (27. Mag.).

Alla p. 4516. La forma aiuolo e aiólo in legnaiuolo, erbaiuolo, vignaiuolo, stufaiuolo o stufaiolo, fruttaiuolo o fruttaiolo, calzaiuolo, pesciaiuolo, armaiuolo e simili, è altresì originariamente diminutiva da ariolus (lignariolus ec.). Così in aruolo, arólo (che è di noi marchegiani), eruolo: pizzicaruolo, pizzicarolo, (Alberti), pizzicheruolo. — Inguina — (inguinacula plural.). anguinaglia, anguinaia. V. franc. spagn. Ventraia.

Tombereau. Doucereux. Fiocco — flocon.

Manuale di filosofia pratica. Memorie della mia vita. Come i piaceri non dilettano se non hanno un fine fuori di essi, secondo dico altrove, così neanche la vita, per piena che sia di piaceri, se non ha un fine in totale ec. Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice. O gloria letteraria, o fortune, o dignità, una carriera in somma. Io non ho potuto mai concepire che cosa possano godere, come possano viver quegli scioperati e spensierati che (anche maturi o vecchi) passano di godimento in godimento, di trastullo in trastullo, senza aversi mai posto uno scopo a cui mirare abitualmente, senza aver mai detto, fissato, tra se medesimi: a che mi servirà la mia vita? Non ho saputo immaginare che vita sia quella che costoro menano, che morte quella che aspettano. Del resto, tali fini vaglion poco in se, ma molto vagliono i mezzi, le occupazioni, la speranza, l’immaginarseli come gran beni a forza di assuefazione, di pensare ad essi e di procurarli. L’uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de’ beni in tal modo. (31. Mag.).

Sfilare — sfilacciare — sfilaccicare (v. Crus. in Spicciare): filaccica (plural.).

Anche i verbi lat. in urio si formano da’ supini.

Alla p. 4449. Per altro, la conformità di costumi, governo, religione, riti, lingua ec. fra troiani e greci, che apparisce nelle poesie omeriche, nelle tradizioni ec. (e che par favorire la congettura del Niebuhr, la quale ha però altri fondamenti), può essa ancora essere ingannevole, e non significare che la poca arte e istruzione di que’ vecchi poeti, come dico altrove. Simili a quei pittori o artefici de’ tempi bassi, e ad alcuni anche de’ buoni secoli, che rappresentavano personaggi antichi e stranieri vestiti all’uso moderno e nazionale. Fra’ moderni, il Pontedera ( Julii Pontederae Antiquitatum lat. graecarumque enarrationes atq. emendatt. praecipue ad veteris anni rationem attinentes ; Patav. 1740.; praefat. libro che mi pare non conosciuto dal Niebuhr), fondandosi parte in detta conformità, parte in altri argomenti, congetturò Trojanos Graecorum quondam fuisse coloniam. (2. Giugno.).

Pésolo, pesolone. (pensulus per penzolo, pendulo ec.)

Sentito per sensibile, vivo; o per sensato. V. Crus.

Lego is — lego as, coi composti.

Spigolare, ruzzolare. Mugolare, mugghiare.

Alla p. 4430. Di tal genere è anco una grandissima parte degli errori e sgrammaticature (sien d’uso generale o individuale) del parlar plebeo, rustico, de’ dialetti ec.

Monofagia. Convivium, συμπόσιον, coena (se è vera l’etimologia da κοινή), tutti nomi significativi di comunanza. ec.

Alla p. 4504. marg. Anche il nemico, l’offensore, ridotto all’inferiorità all’impotenza, è, non pur compassionevole, ma amabile, allo stesso offeso. Par che la natura abbia dato alla debolezza l’amabilità come una sorta di difesa e d’aiuto. (17. Giugno.).

Beatus, participio aggettivato. Trambasciato, trangosciato ec. Trasognato. Moderato ec., smoderato, immoderato ec. Invisus per odioso.

Σχολὴ ozio chiamavano gli antichi i luoghi, i tempi ec. degli studi, e gli studi medesimi (onde ancora diciamo, senza intendere all’origine, scuola, e scolare per istudente, e gl’inglesi scholar per letterato, che dall’etimologia sonerebbe ozioso) che per gran parte di noi sono il solo o il maggior negozio. (7. Luglio.).

Succhio (succulus) per succo.

Δῖος, dius-divus.

Ieiunus 1. participio contratto, a quanto pare, da ieiunatus (così fors’anche festinus); 2. in senso di qui ieiunavit o ieiunat. Delirus.

Mordeo, morsum — morsicare, (corrottamente mozzicare, smozzicare), morsecchiare.

Simus costantemente per sumus. Augusto ap. Sveton. in Aug. c. 87.; Messala, Bruto ed Agrippa ap. Mario Vittorino de Orthographia p. 2456. Manibiae per manubiae pur costantemente nelle iscrizioni Ancirane composte pur da Augusto. Contibernali in un antico monumento ap. Achille Stazio ad Sveton. de Cl. Rhetoribus.

Bubulcitare.

Alla p. 4491. In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v’è. Vale a dire, che delle persone, per trovarsi ciò convenire ai loro interessi, saranno unite e collegate insieme per certo tempo (per lo più contro altre); ma non mai amiche. Amicizia non può essere che in città grandi, o pur fra persone lontane. (8. Luglio.). V. p. 4523.

. Alla p. 4512. La forma in accio acciare, azzo azzare, e le corrispondenti francesi e spagnuole (e così in eccio, iccio ec.), vengono veramente, almeno per lo più, dalla latina in aceus, iceus ec. Gallinaceus, gallinaccio.

Che fosse proprio del volgare latino il dar questa desinenza ai positivi, nomi o verbi, e ciò senz’alterazione di significato, e che da ciò venga il tanto uso della forma in accio ec. nelle lingue figlie, massime dove essa non altera la significazione (come in minae minacce, minari minacciare), può congetturarsi, fra l’altro, dal riferito da Svetonio (Aug. c. 87.) che Augusto soleva scrivere pulleiaceus in vece del positivo pullus. Augusto nelle singolarità delle sue voci ed ortografia riferite da Svetonio (ib. et c. 88.), si accostava al dir volgare: il suo baceolus è il nostro baggeo. Quest’osservazione dunque serva particolarmente pel Tratt. del Volg. lat. — La forma in ezzare, onde (e non viceversa) eggiare, e le corrispondenti francesi e spagnuole, sono dalla greca frequentativa in ίζειν, e dalla lat. issare, che di là viene. Il betissare di Augusto ap. Sveton. (87.), da noi si direbbe bietoleggiare. Cambiato, al solito l’i in e. (9. Luglio.). — Se però ezzare è per ecciare, allora apparterrà al detto qui sopra. E viceversa se azzo, izzo ec. è per aggio ec., allora non cadrà sotto il qui sopra detto. (10. Luglio.). — Incumulare — encumbrar — ingomberare.

Molti avverbi e preposizioni delle lingue nostre sono fatte coll’aggiunta di un de affatto pleonastico alle corrispondenti latine. De retro: diretro, dirietro, dreto, dietro (il volgo marchegiano appunto latinamente: de retro); e poi, raddoppiato ancora il di, di dietro; derrière, detras. De ubi: dove. De unde: donde. De ante: delante, dianzi, dinanzi, davanti, devant. De post: di poi, dopo, da poi, depuis, despues. De mane: dimani ec. demain. (11. Lugl.). Così di sopra, di sotto, da presso, da lungi, da vicino, da o di lontano. Quest’uso par fosse proprio del volgar latino 1.o perchè comune a tutte 3 le lingue figlie, 2.o perchè si trova già in parte nel latino scritto. Desuper, desubito, derepente; dove il de ridonda: dehinc, deinde; dove il de (come in donde) è ripetuto; perchè già il semplice hinc vale de hic, inde è de in (dein).

Iuvi per iuvavi , ad-iutum ec. per ad-iuvatum.

La prosa in verità, parlando assolutamente, precedette da per tutto il verso, come è naturale; ma il verso conservato precedette quasi da per tutto la prosa conservata. (11. Luglio.).

L’uso degli antichi filosofi greci, di abbracciar col circolo dei loro Trattati tutte le parti dello scibile (uso notato da me altrove), onde esso circolo veniva ad essere un’enciclopedia, fu seguito anche, ne’ bassi tempi, da’ latini: dico da quelli che scrissero, o in più opere separate o in una sola, de 4.r o de 7.m disciplinis (come Boezio, Cassiodoro, Marziano Capella, Beda, Alcuino) ec.; piccole enciclopedie, dove però si copiavano per lo più tra loro. E dico tra loro: i più antichi o non conoscevano, o non avevano, o non leggevano, o non potevano intendere. (11. Lugl.).

Alla p. 4520. fin. Chi non è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi vizi, così le vere e solide virtù sociali. E nel particolare dell’amicizia, la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee proprie della poesia o della storia, che nella vita reale e giornaliera non s’incontrano mai (e certo egli non si aspetta d’incontrarne mai nella sua). E s’inganna. Non dico Piladi e Piritoi, ma amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara.

Del resto, i servigi che si possono attendere dagli amici, sono, o di parole (che spesso ti sono utilissime), o di fatti qualche volta; ma di roba non mai, e l’uomo avvertito e prudente non ne dee richiedere di sì fatti (di tal fatta). (21. Luglio.).

Insatiatus per insatiabilis. Citus, particip. aggettivato.

Naevus-neo.

Frigus — frio (spagn.). Ragunare — raunare. Nego — nier. Raggi — rai.

Il vescovo Ulfila, se non fu il primo introduttore dell’alfabeto presso la sua nazione (i Goti), gli diede almeno quella forma che noi conosciamo. Castiglioni ap. la B. Ital. Maggio 1829. t. 54 p. 201.

Non solo noi diveniamo insensibili alla lode, e non mai al biasimo, come dico altrove, ma in qualunque tempo, le lodi di mille persone stimabilissime, non ci consolano, non fanno contrappeso al dolore che ci dà il biasimo, un motteggio, un disprezzo di persona disprezzatissima, di un facchino. (29. Lug.).

In un trattenimento, chi si vuol divertire, propongasi di passare il tempo. Chi vi cerca e vi aspetta il divertimento, non vi trova che noia, e passa quel tempo assai male. (29. Lug.).

Est Dicaearchi liber de interitu hominum, Peripatetici magni et copiosi, qui collectis ceteris causis, eluvionis, pestilentiae, vastitatis, beluarum etiam repentinae multitudinis, quarum impetu docet quaedam hominum genera esse consumta; deinde comparat quanto plures deleti sint homines hominum impetu, id est bellis aut seditionihus, quam omni reliqua calamitate. Cic. de Off. II. 5. (16.) (5. Sett. 1829.).

Luccicare. Albico as.

Rue — ruga (ital. antico).

Despicere — despicari: e simili.

Burrone, burrato, borro, botro — βόθρος. (12. Aprile. 1830. Lunedì di Pasqua.).

È curioso a vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito. (Firenze 31. Maggio 1831.).

Eccellente umanità degli antichi. Quid enim est aliud, erranti viam non monstrare, quod Athenis exsecrationibus publicis sancitum est, si hoc non est? etc. Cic. de off. l. 3. alquanto innanzi il mezzo. (Roma 14. Dic. 1831.).

Βρίαχος l’ubbriaco , appellativo di un Sileno in un vaso antico. Muséum étrusque du prince de Canino, n.1005 (Roma 14. Dic. 1831.).

ὅμως δὲ τοῦτο μὲν ἴτω (vada, cioè eveniat) ὅπῃ τῷ θεῷ φίλον. Plat. Apolog. Socr. haud procul ab init. ed. Ast. opp. t. 8. p. 102. (in marg. 19. A.) nel Critone (init. p. 164. in marg. 43. D.) dice pur Socrate: εἰ ταύτῃ τοῖς θεοῖς φίλον, ταύτῃ ἔστω.

τούτου πᾶν τοὐναντίον εὑρήσετε (tutto il contrario). ib. 138. (34. A.) e così altrove nella medesima Apologia.

οὐκ ἔσθ' ὅτι μᾶλλον, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, πρέπει οὕτως ὡς ec. (in vece di μᾶλλον...ἢ.) ib. 144. (36. D.) — nessuna cosa più... quanto ec. idiotismo nostro, usato anche da’ buoni e antichi.

ὄνομα ἕξετε καὶ αἰτίαν ὡς Σωκπάτη ἀπεκτόνατε. ib. 148. (38. C.) avrete nome di avere ucciso Socrate. (Roma 6. Gennaio 1832.).

Uomini originali men rari che non si crede.

Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle fedeli benchè sappiano il contrario. Così chi dee vivere in un paese, ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di credere la vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco, e tenero della sua moglie. (Firenze 23. Maggio. 1832.).

Cosa rarissima nella società, un uomo veramente sopportabile.

Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte.

Grande studio (ambizione) degli uomini mentre sono immaturi, è di parere uomini fatti, e quando sono uomini fatti, di parere immaturi. (16. Settem. 1832.).

La cosa più inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessisimo a chi v’è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria. L’uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola generale. (Firenze. 4. Dic. 1832.).







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