Giovanni Boccaccio - Opera Omnia >>  Amorosa visione




 

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Nelli tre infrascritti sonetti si contengono per ordine tutte le lettere principali de' rittimi della infrascritta Amorosa Visione. E però che in quelli il nome dell'autore si contiene, altrimenti non si cura di porlo. I sonetti sono questi.


    Mirabil cosa forse la presente
vision vi parrà, donna gentile,
a riguardar, sì per lo nuovo stile,
sì per la fantasia ch'è nella mente.
    Rimirandovi un dì, subitamente,
bella, leggiadra et in abit'umile,
in volontà mi venne con sottile
rima tractar parlando brievemente.
    Adunque a voi, cui tengho donna mia
et chui senpre disio di servire,
la raccomando, madama Maria;
    e prieghovi, se fosse nel mio dire
difecto alcun, per vostra cortesia
correggiate amendando il mio fallire.
    Cara Fiamma, per cui 'l core ò caldo,
que' che vi manda questa Visione
Giovanni è di Boccaccio da Certaldo.


    Il dolce inmaginar che 'l mio chor face
della vostra biltà, donna pietosa,
recam'una soavità sì dilectosa
che mette lui con mecho in dolcie pace.
    Poi quando altro pensiero questo disface,
piangemi dentro l'anima 'ngosciosa,
cercando come trovar possa posa,
et sola voi disiar le piace.
    Et però volend'i' perseverare
pur nello 'nmaginar vostra biltate,
cerco con rime nuove farvi i' onore.
    Questo mi mosse, donna, a compilare
la Visione in parole rimate,
che io vi mando qui per mio amore.
    Fatele onor secondo il su' valore,
avendo a tempo poi di me pietate.


    O chi che voi vi siate, o gratiosi
animi virtuosi,
in cui amor come 'n beato loco
celato tene il suo giocondo focho,
i' vi priego c'un poco
prestiate lo 'ntellecto agli amorosi
    versi, li quali sospinto conposi
forse da disiosi
voler troppo 'nfiammato; o se 'l mio fioco
cantar s'imvischa nel proferer broco,
o troppo è chiaro o roco,
amendatel acciò che ben riposi.
    Se in sé fructo o forse alcun dilecto
porgesse a vo' lector, ringratiate
colei la cui biltate
questo mi mosse a ffar come subgiecto.
    E perché voi costei me' conosciate,
ella somigli' Amor nel su' aspecto,
tanto c'alcun difecto
non v'à a chi già 'l vide altre fiate;
    e l'un dell'altro si gode di loro,
ond'io lieto dimoro.
Rendete a llei 'l meritato alloro!
E più non dico 'mai,
perché decto mi par aver assai.



CANTO I

    Move nuovo disio la nostra mente,
donna gentile, a volervi narrare
quel che Cupido graziosamente
    in vision li piacque di mostrare
all'alma mia, per voi, bella, ferita
con quel piacer che ne' vostri occhi appare.
    Recando adunque la mente, smarrita
per la vostra virtù, pensieri al core,
che già temea della sua poca vita,
    accese lui di sì fervente ardore,
che uscita di sé la fantasia
subito entrò in non usato errore.
    Ben ritenne però il pensier di pria
con fermo freno, ed oltre a ciò ritenne
quel che più caro di nuovo sentia.
    In ciò vegghiando, in le membra mi venne
non usato sopor tanto soave,
ch'alcun di loro in sé non si sostenne.
    Lì mi posai, e ciascun occhio grave
al sonno diedi, per lo qual gli agguati
conobbi chiusi sotto dolce chiave.
    Così dormendo, in su liti salati
mi vidi correr, non so che temendo,
pavido e solo in quelli abbandonati
    or qua or là, null'ordine tenendo;
quando donna gentil, piacente e bella,
m'apparve, umil pianamente dicendo:
    -- Se questo luogo solo a gire a quella
somma felicità, che alcun dire
non poté mai con intera favella,
    abbandonar ti piace, il me seguire
ti poserà in sì piacente festa,
ch'avrai sicuro e pieno ogni disire --.
    Fiso pareva a me rimirar questa
ed ascoltare intento sue parole,
quando s'alzò alla sua bionda testa,
    ornata di corona più che 'l sole
fulgida, l'occhio mio, e mi parea
il suo vestire in color di viole.
    Ridente era in aspetto e 'n man tenea
reale scettro, ed un bel pomo d'oro
la sua sinistra vidi sostenea.
    Sopra 'l piè grave, non sanza dimoro,
moveva i passi; e lei tacendo ed io
pensato di volere suo aiutoro:
    -- Ecco --, risposi, -- donna, il mio disio
è di cercar quel ben che tu prometti,
se a' tuoi passi di dietro m'invio.
    -- Lascia --, diss'ella, -- adunque i van diletti
e seguitami verso quell'altura
ch'opposta vedi qui a' nostri petti.
    Allor lasciar pareami ogni paura
e darmi tutto a seguitar costei,
abbandonando la strana pianura.
    Poi che salito fui dietro a costei
non già per molto spazio, il viso alzai
istato basso infin lì verso i piei:
    rimirandomi avanti, i' mi trovai
venuto a piè d'un nobile castello,
sopra al sogliar del quale io mi fermai.
    Egli era grande ed altissimo e bello
e spazioso, avvegna che alquanto
tenebroso paresse entrando in quello.
    -- Siam noi ancora là dove cotanto
ben mi prometti, donna graziosa,
di dovermi mostrar? --, diss'io intanto.
    Ed ella allora: -- Più mirabil cosa
veder vuoi prima che giunghi lassuso,
dove l'anima tua fia gloriosa.
    Noi cominciammo pur testé quaggiuso
ad entrar a quel ben: quest'è la porta:
entra sicuro omai nel cammin chiuso.
    Tosto ti mostrerò la via scorta,
per la qual fia ad andarvi diletto
se non ti volta coscienza torta.
    Ed io: -- Adunque andiam, ché già m'affretto,
già mi cresce il disio, sì ch'io non posso
tenerlo ascoso più dentro nel petto.
    Vedi com'io mi son sicuro mosso,
vedi ch'io vegno e trascorro di voglia,
d'ogni altra cura nella mente scosso.
    -- Ir si conviene qui di soglia in soglia
con voler temperato, ché chi corre
talor tornando convien che si doglia --.
    Sì era il suo dir vero, che apporre
né contro andarvi io non arei potuto,
né dal piacer di lei potuto torre
    in ciò, ancor ch'io avessi saputo.



CANTO II

    « O somma e graziosa intelligenzia
che muovi il terzo cielo, o santa dea,
metti nel petto mio la tua potenzia:
    non sofferir che fugga, o Citerea,
a me lo 'ngegno all'opera presente,
ma più sottile e più in me ne crea.
    Venga il tuo valor nella mia mente,
tal che 'l mio dir d'Orfeo risembri il suono,
che mosse a racquistar la sua parente.
    Infiamma me tanto più ch'io non sono,
che 'l tuo ardor, di ch'io tutto m'invoglio,
faccia piacere quel di ch'io ragiono.
    Poi che condotto m'ha a questo soglio
costei, che cara seguir mi si face,
menami tu colà ov'io ir voglio,
    acciò che' passi miei, che van per pace
seguendo il raggio della tua stella,
vengano a quello effetto che ti piace ».
    Ragionando con tacita favella
così m'andava nel nuovo sentiero
seguendo i passi della donna bella.
    Ruppemi tal parlar nuovo pensiero
ch'un muro antico nella mente mise,
apparitoci avanti tutto intero.
    Allor la bella donna un poco rise,
me stupefatto e d'ammirazion pieno
veggendo, e disse: -- Forse tu divise
    del camin nostro che qui venga meno:
o se più è, non vedi da qual loco
li passi nostri su salir porrieno.
    Oltre convien che venghi ancora un poco,
ed io mostrandol, vederai la via
che ci merrà al grazioso gioco --.
    Non fummo guari andati che la pia
donna mi disse: -- Vedi qui la porta
che la tua alma cotanto disia --.
    Nel suo parlar mi volsi, e poi che scorta
l'ebbi, la vidi piccioletta assai,
istretta ed alta, in nulla parte torta.
    A man sinistra allora mi voltai
volendo dir: « Chi ci potrà salire
o passar dentro, ché par che giammai
    gente non ci salisse? » e nel mio dire
vidi una porta grande aperta stare,
e festa dentro mi vi parve udire.
    E dissi allor: -- Di qua fia meglio andare,
al mio parere, e credo troveremo
quel che cerchiam, ché già udir mel pare --.
    Non è così rispuose, -- ma andremo
su per la scala che tu vedi stretta
e 'n su la sommità ci poseremo.
    Tu guardi là, e forse ti diletta
il cantar che tu odi, il qual piuttosto
pianto si dovria dire in lingua retta.
    Il corto termine alla vita posto
non è da consumare in quelle cose
che 'l bene etterno vi fanno nascosto.
    Levarsi ad alto, alle gloriose,
utilemente s'acquista virtute,
che lascia le memorie poi famose.
    E s' tu non credi forse che a salute
questa via stretta meni, alza la testa:
ve' che dicon le lettere scolpute
    Alzai allora il viso, e vidi: « Questa
piccola porta mena a via di vita;
posto che paia nel salir molesta,
    riposo etterno dà cotal salita;
dunque salite su sanza esser lenti,
l'animo vinca la carne impigrita ».
    Io dissi: -- Donna, molto mi contenti
col ver parlar che tua bocca produce,
e più m'accertan le cose parventi,
    guardando quelle; ma dimmi, che luce
è quella ch'io veggio là entr'ora?
perché in questa così non riluce? --
    -- Voi che nel mondo state, vostra mora
fate in loco tenebroso e vano:
e però gli occhi alla dolce aurora
    alzare non potete, a mano a mano
che voi di quella uscite, a veder quanta
sia la chiarezza del Fattor sovrano.
    Rompesi poi la nebbia che v'ammanta
quando ad entrar nel vero incominciate,
e conoscete poi la luce santa.
    Dirizza i piedi alle scale levate;
su non sarai che vie maggior chiarezza
vedrai che là non è mille fiate:
    adunque che fia in capo dell'altezza? --.



CANTO III

    Ristata era la donna di parlare
e rimirava ch'io entrassi dentro
di rietro a lei, che già volea montare.
    -- Sed e' vi piace, prima andiam là entro --,
diss'io a lei. E quella: -- Tu disii
di rovinar con doglia al tristo centro.
    Io dico insino a qui: se là t'invii,
in cose vane l'anima disposta
a bene oprar convien che si disvii.
    Pon l'intelletto alla scritta ch'è posta
sopra l'alto arco della porta, e vedi
come 'l suo dar val poco e motto costa --.
    Ed io allora a riguardar mi diedi
la scritta in alto che pareva d'oro,
tenendo ancora in là voltati i piedi.
    « Ricchezze, dignità, ogni tesoro,
gloria mondana copiosamente
do a color che passan nel mio coro.
    Lieti li fo nel mondo, e similmente
do quella gioia che Amor promette
a' cor che senton suo dardo pugnente ».
    -- Or hai vedute ed amendune lette
le scritte, e vedi chi maggior promessa
e più utile fa: dunque che aspette?
    Non istian più omai, ché 'l tempo cessa
e 'l perder quello spiace a' più saputi;
adunque omai saliam --, mi dicev'essa.
    -- Ver è, donna gentil, ch'i' ho veduti --,
risposi, -- scritti i don, però vedere
vorrei provando qua' son posseduti.
    Ogni cosa del mondo a sapere
non è peccato, ma la iniquitate
si dee lasciare e quel ch'è ben tenere.
    Venite adunque qua, ché pria provate
deono esser le cose leggieri
ch'entrare in quelle c'han più gravitate.
    Ora che siamo quasi nel sentieri,
andiam, vediamo questi ben fallaci:
più caro fia poi l'affannar pe' veri --.
    -- Se tu sapessi quanto e' son tenaci
e quanto traggon l'uom di via diritta,
non parleresti sì come tu faci.
    Toglianci quinci --, disse, -- ché già fitta
veggo la mente tua, se più ci stai,
a quel che dice la seconda scritta.
    Il che lasciar, a chi il prende, mai
impossibile par fin che si more,
e per que' va poi agli etterni guai --.
    La donna giva già. Ed ecco fore
della gran porta due giovini uscire;
l'uno era corto e bianco in suo colore
    e l'altro rosso; e incominciaro a dire:
-- Dove cercando vai gravoso affanno?
Vien dietro a noi, se vuoi il tuo disire.
    Sollazzo e festa, come molti fanno,
qua non ti falla, e poi il salir suso
potrai ancor nell'ultimo tuo anno.
    Il luogo è chiaro e di tenebre schiuso:
vien, vedi almeno, e satira' ten poi,
se ti parrà noioso esser quaggiuso --.
    Piacevami il dir loro, e già: « Con voi »,
dir voleva, « io verrò »; ma mi diceva
colei: -- Lascia costoro, andian su noi --.
    E per la destra man preso m'aveva
seco tirando me in su; e l'uno
la mia sinistra e l'altro ancor teneva,
    ridendosene insieme, e ciascheduno
tirandomi diceva: -- Vienne, vienne,
cerchi sola costei il cammin bruno --.
    Lì d'una parte e d'altra mi ritenne
l'esser tirato; dond'io: -- Ben sapete --,
volto alla donna, -- che io non ho penne
    a poter su volar, come credete,
né potrei sostener questi travagli
a' quai dispormi subito volete --.
    Fermata allor mi disse: -- Tu t'abbagli
nel falso immaginar, e credi a questi
ch'a dritta via son pessimi serragli.
    A trarti fuor d'errore e di molesti
disii discesi, e per voler mostrarti
le vere cose che prima chiedesti;
    né mai avrei lasciato d'aiutarti
col mio veder nelle battaglie avverse.
Ma poi che ad altro t'è piaciuto darti,
    truova il cammino dell'opere perse,
ch'io non ti lascerò, mentre che io
vedrò non darti tra quelle diverse
    a voler seguitar bestial disio --.



CANTO IV

    Seguendomi la donna, com'io lei
pria seguitava, co' due giovinetti
a man sinistra volsi i passi miei.
    Intra lor due avean noi due ristretti,
e con più spesso passo n'andavamo
a riguardare i men cari diletti.
    Andando in tal maniera, noi entramo
per la gran porta insieme con costoro,
ed in una gran sala ci trovamo.
    Chiara era e bella e risplendente d'oro,
d'azzurro e di color tutta dipinta
maestrevolmente in suo lavoro.
    Humana man non credo che sospinta
mai fosse a tanto ingegno quanto in quella
mostrava ogni figura lì distinta,
    eccetto se da Giotto, al qual la bella
Natura parte di sé somigliante
non occultò nell'atto in che suggella.
    Noi ci traemmo nella sala avante,
quasi nel mezzo d'essa, e quivi stando
vedevam le figure tutte quante.
    Ell'era quadra: ond'io che riguardando
giva per tutto, dirizzai il viso
ver l'una delle facce, in piede stando.
    Là vid'io pinta con sottil diviso
una donna piacente nell'aspetto,
soave sguardo avea e dolce riso.
    La man sinistra teneva un libretto,
verga real la destra, e' vestimenti
porpora gli estimai nell'intelletto.
    A piè di lei sedevan molte genti
sopra un fiorito e pien d'erbette prato,
alcuni più e alcun meno eccellenti.
    Ma dal sinistro e dal suo destro lato
sette donne vid'io, dissimiglianti
l'una dall'altra in atto ed in parato.
    Elle eran liete e lor letizia in canti
pareami dimostrassero, ma io
con l'occhio alquanto più mi trassi avanti,
    Nel verde prato a man destra vid'io
di questa donna, in più notabil sito,
Aristotile star con atto pio:
    tacito riguardando, in sé unito,
pensoso mi pareva; e poi appresso
Socrate sedea quasi smarrito.
    Eravi quivi ancor Platon con esso,
Melisso, Alessandro v'era e Tale,
Speseusippo lei mirando spesso;
    Raclito ancora e Ipocràs, il quale
in abito mostrava d'aver cura
ancora di sanare il mondan male.
    Ivi sedeva con sembianza pura
Galieno, e con lui era Zenone
e 'l geometra ch'a dritta misura
    mosse lo 'ngegno, sì che con ragione
oggi s'adovra seguendo suo stile;
e dopo lui Democrito e Solone.
    Insieme con costoro in atto umile
si sedea Tolomeo, e speculava
i ciel con intelletto assai sottile,
    riguardando una spera che li stava
ferma davanti; e Tebìth con lui
ed Abracìs ancora in ciò mirava.
    Averroìs e Fedron dopo lui
sedevan rimirando la bellezza
di quella donna che onora altrui.
    Nassagora ancor quella chiarezza
mirava fiso insieme con Timeo,
mostrando in atto di sentir dolcezza.
    Diascoride ancor v'era ed Orfeo,
Ambepece e Temistio, e poi un poco
Essiodo almo e Timoteo.
    Oh quanto quivi in grazioso gioco
Pitagora onorato si vedea
e Diogene in sì beato loco!
    Vie dopo questi ancora mi parea
Seneca riguardando ragionare
con Tulio insieme, che con lui sedea.
    Innanzi a loro un poco, ciò mi pare,
Parmenide sedea e Teofrasto,
lieto ciascun della donna mirare.
    Vestito d'umiltà, pudico e casto,
Boezio si sedeva ed Avicena,
ed altri molti, i qua' s'a dir m'adasto,
    non fosse troppo rincrescevol pena
dubbio a' lettor; però mi taccio omai
e dirò di color che seco mena
    dalla man manca, ov'io mi rivoltai.



CANTO V

    Io dico che dalla sinistra mano
di quella donna vidi un'altra gente,
l'abito della qual non guari strano
    sembrava da color che primamente
contati abbiam, ben che la vista loro
si stenda ver le donne più fervente.
    Vergilio mantovano infra costoro
conobb'i' quivi più ch'altro esaltato,
sì come degno, per lo suo lavoro.
    Ben mostrava nell'atto che a grato
gli eran le sette donne per le quali
sì altamente avea già poetato:
    il ruinar di Troia ed i suoi mali,
di Dido, di Cartagine e d'Enea,
lavorar terre e pascere animali
    trattar negli atti suoi ancor parea.
Omero e Orazio quivi dopo lui,
ciascun mirando quelle, si sedea.
    A' quai Lucan seguitava, ne' cui
atti parea ch'ancora la battaglia
di Cesare narrasse e di colui,
    Magno Pompeo chiamato, che 'n Tesaglia
perdé il campo; e quasi lagrimando
mostra che di Pompeo ancor li caglia.
    Eravi Ovidio, lo qual poetando
iscrisse tanti versi per amore,
com' acquistar si potesse mostrando.
    Non guari dopo lui fatt'era onore
a Giovenal, che ne' su' atti ardito
a' mondan falli ancor facea romore.
    Terenzio dopo lui aveva sito
non men crucciato, e Panfilo e Pindaro,
ciascun per sé sopra 'l prato fiorito.
    E Stazio di Tolosa ancora caro
quivi pareva avesse l'aver detto
del teban male e del suo pianto amaro.
    Bell'uom tornato d'asino, soletto
si sedea Apolegio, cui seguiva
Varro e Cicilio lieti nell'aspetto.
    Euripide mi par che poi veniva;
Antifonte, Simonide ed Archita
parea dicesser ciò ch'ognun sentiva
    lì di diletto e di gioconda vita,
insieme ragionando; e dopo questi
Sallustio, quasi in sembianza smarrita,
    là parea che narrasse de' molesti
congiuramenti che fé Catellina
contra' Roman, ch'a lui cacciar fur presti.
    Al qual Vegezio quivi s'avvicina,
Claudiano, Persio e Catone,
e Marziale in vista non meschina.
    L'antico e valoroso e buon Catone
quivi era nel sembiante assai pensoso,
tenendo con Antigono sermone.
    E, vago ne' suoi atti di riposo,
da una parte mi parve vedere
quel Livio che fu sì copioso,
    guardando que' che 'nanzi a sé sedere
tanti vedea, nell'aspetto contento
d'avere scritte tante storie vere.
    Goloso di cotal contentamento
Valerio appresso parea che dicesse:
« Brieve mostrai il mio intendimento ».
    Ivi con lor mi parve ch'io vedesse
Paolo Orosio stare ed altri assai,
de' qua' non v'era alcun ch'io conoscesse.
    Allora gli occhi alla donna tornai
a cui le sette davanti e dintorno
stavano tutte in atti lieti e gai.
    Dentro dal coro delle donne adorno,
in mezzo di quel loco ove facieno
li savi antichi contento soggiorno,
    riguardando, vid'io di gioia pieno
onorar festeggiando un gran poeta,
tanto che 'l dire alla vista vien meno.
    Aveali la gran donna mansueta
d'alloro una corona in su la testa
posta, e di ciò ciascun'altra era lieta.
    E vedend'io così mirabil festa,
per lui raffigurar mi fé vicino,
fra me dicendo: « Gran cosa fia questa ».
    Trattomi così innanzi un pocolino,
non conoscendol, la donna mi disse:
-- Costui è Dante Alighier fiorentino,
    il qual con eccellente stil vi scrisse
il sommo ben, le pene e la gran morte:
gloria fu delle Muse mentre visse,
    né qui rifiutan d'esser sue consorte --.



CANTO VI

    Al suon di quella voce graziosa
che nominò il maestro dal qual io
tengo ogni ben, se nullo in me sen posa:
    -- Benedetto sia tu, etterno Iddio,
c'hai conceduto ch'io possa vedere
in onor degno ciò ch'avea in disio --,
    incominciai allora; né potere
aveva di partir gli occhi dal loco
dove parea il signor d'ogni savere,
    tra me dicendo: « Deh, perché il foco
di Lachesis per Antropos si stuta
in uomo sì eccellente e dura poco?
    Viva la fama tua, e ben saputa,
gloria de' Fiorentin, da' quali ingrati
fu la tua vita assai mal conosciuta!
    Molto si posson riputar beati
color che già ti seppero e colei
che 'n te si 'ncinse, onde siamo avvisati ».
    I' 'l riguardava, e mai non mi sarei
saziato di mirarlo, se non fosse
che quella donna, che i passi miei
    là entro con que' due insieme mosse,
mi disse: -- Che pur miri? forse credi
renderli col mirar le morte posse?
    E' c'è altro a veder che tu non vedi!
Tu hai costì veduto, volgi omai
gli occhi a que' del mondan romore eredi;
    i quali quando riguardati avrai,
di quinci andrenci, ché lo star mi sgrata --.
A cui io dissi: -- Donna, tu non sai
    neente perché tal mirar m'aggrata
costui cui miro, ché se tu il sapessi
non parleresti forse sì turbata --.
    -- Veramente se tu il mi dicessi
nol saprei me'–, rispose quella allora,
-- ma perder tempo è pur mirare ad essi --.
    Oltre passai, sanza più far dimora,
con gli occhi a riguardar, lasciando stare
quel ch'io disio di rivedere ancora,
    là dove a colei piacque che voltare
io mi dovessi; e vidi in quella parte
cosa ch'ancor mirabile mi pare.
    Odi, ché mai Natura con sua arte
forma non diede a sì bella figura:
non Citarea, allor ch'ell'amò Marte.
    né quando Adon le piacque, con sua cura
si fé sì bella, quanto infra gran gente
donna pareva lì leggiadra e pura.
    Tutti li soprastava veramente,
di ricche pietre coronata e d'oro,
nell'aspetto magnanima e possente.
    Ardita sopra un carro tra costoro
grande e triunfal lieta sedea,
ornato tutto di frondi d'alloro.
    Mirando questa gente in man tenea
una spada tagliente, con la quale
che 'l mondo minacciasse mi parea.
    Il suo vestire a guisa imperiale
era, e teneva nella man sinestra
un pomo d'oro, e 'n trono alla reale,
    vidi, sedeva; e dalla sua man destra
due cavalli eran che col petto forte
traeano il carro fra la gente alpestra.
    Ed intra l'altre cose che iscorte
quivi furon da me intorno a questa
sovrana donna, nimica di morte
    nel magnanimo aspetto, fu ch'a sesta
un cerchio si movea grande e ritondo,
da' piè passando a lei sopra la testa.
    Né credo che sia cosa in tutto 'l mondo,
villa, paese, dimestico o strano,
che non paresse dentro da quel tondo.
    Era sopra costei, e non invano,
scritto un verso che dicea leggendo:
« Io son la Gloria del popol mondano ».
    Così mirando questa e provedendo
ciò che di sopra, dintorno e di sotto
le dimorava e chi la gia seguendo
    o lei mirava, sanza parlar motto
per lungo spazio inver di lei sospeso
tanto stett'io, che d'altra cura rotto
    nella mente sentimmi: il viso steso
diedi a mirar il popolo che andava
dietro a costei, chi lieto e chi offeso,
    sì come nel mio credere estimava.
E quivi più e più ne vidi, i quali
conobbi, se 'l parer non m'ingannava;
    onde al disio di mirar crebbe l'ali.



CANTO VII

    Tra gli altri che io vidi presso a questa
fu Giano, ch'esser stato abitatore
dell'italici regni facea festa.
    Turbato nell'aspetto e di furore
pien seguiva Saturno, cui il figlio
mandò mendico per esser signore.
    Il superbo Nembròt, che il gran fé impiglio
in Senaàr per voler gire a Dio,
stordito v'era sanza alcun consiglio.
    Lunghesso Fauno e Pico lor vid'io
seguire, ed il gran Belo dopo loro,
mirando ognun la donna con disio.
    Elettra ed Atalante con costoro
givano insieme, e dopo lor seguire
Italo vidi sanza alcun dimoro.
    Robusto si mostrava e pien d'ardire
Dardano quivi con un freno in mano,
e nell'atto parea volesse dire:
    « Io fui colui, nel mondo primerano,
il qual col freno in Tessaglia domai
il caval primo, in uso ancora strano,
    mirabilmente, e sì edificai
primo quella città, che poscia Troia
chiamaro i successor ch'io vi lasciai ».
    Appresso il qual, mostrando in atto gioia,
seguia Sicul, che l'isola del foco
prima abitò in pace e sanza noia.
    Troiolo ancora in quel medesmo loco
coverto d'oro tutto risplendea,
faccendosi alla donna a poco a poco.
    Rigido e fiero quivi si vedea
Nino, che prima il suo natural sito
per battaglia maggior fé, che parea
    ancor che minacciasse insuperbito.
E dopo lui seguiva la sua sposa
con sembiante non men che 'l suo ardito:
    così rubesta e così furiosa
vi si mostrava, come quando a lui
succedette nel regno valorosa.
    Tamiris poi seguitava, nel cui
viso superbia saria figurata,
con gli occhi ardenti spaventando altrui.
    Anfion poi con labbia consolata
vi conobb'io, al suon del cui liuto
fu Tebe pria di muri circumdata.
    Retro a lui Niobè, il cui arguto
parlar fu prima cagion del suo male
e del danno de' figli ricevuto.
    Poi seguitava Danao, dal quale
l'antico popol greco veramente
trasse il suo principio originale.
    A cui di dietro quel Serse possente,
che fé sopra Ellesponto il lungo ponte,
venia, freno all'orgoglio della gente.
    Riguardando la donna, con la fronte
alzata venia Ciro poco appresso,
di cui l'opere furo altiere e conte.
    Laumedon sen veniva dopo esso,
con molti successor dietro alle spalle,
de' qua' giva Priamo oltre con esso.
    Anchise seguitava nel lor calle;
appresso il qual colui venia correndo
che le dee vide nella scura valle.
    Nello aspetto parea ch'ancor ridendo
andasse di ciò ch'elli aveva fatto,
quando di Grecia si partì fuggendo.
    Dopo costui Enea seguia con atto
pietoso molto, e non molto distante
Giulio Ascanio il seguitava ratto.
    Oh quanto ardito e fiero nel sembiante
quivi parea Ettòr sopra un destriere
tra tutti i suoi, di molto oro micante!
    Bello e gentil nell'aspetto a vedere
era, con una lancia in mano andando
ver quella donna lieto, al mio parere.
    Risplendea quivi ancora cavalcando
Alessandro, che 'l mondo assalì tutto
con forza lui a sé sotto recando;
    il qual con fretta voleva al postutto
toccare il cerchio ove colei posava,
cui questi disiavan per lor frutto.
    E 'l re Filippo e Nettabòr, gli andava
ciascuno appresso rimirando quello,
e nello aspetto se ne gloriava.
    Veniva in su un caval corrente e snello
Dario crucciato nello aspetto
e con sembiante dispettoso e fello,
    e sanza aver di tale andar diletto.



CANTO VIII

    Mirando avanti con ferma intenzione,
veder mi parve quel re eccellente
che fu sì savio, io dico Salamone.
    Eravi ancora Sanson, che possente
di forza corporal più ch'altro mai
fu che nascesse fra l'umana gente.
    Nel riguardar più innanzi affigurai
il viso d'Ansalon, che più bellezza
ebbe che altro nel mondo giammai.
    Tra questi pien d'orgoglio e di fierezza
seguendo cavalcava Campaneo,
che ne' suoi atti ancora Iddio sprezza.
    Etiocle era quivi con Tideo,
Adastro re pensante e doloroso
del perder che dintorno a Tebe feo.
    Ancora si mostrava il valoroso
Pollinice; broccando il seguitava
el re Ligurgo e Giansone animoso.
    Di rietro al quale Pelleo cavalcava,
con quella lancia in man che prima morte
poi medicina a sua ferita dava.
    Veniva appresso vigoroso e forte
Achille col figliuol, che sì spietata
vendetta fé quando l'antiche porte
    non serraron più Troia, che l'entrata
aveva data al gran caval ripieno
della nimica gente tutta armata.
    Questo crudel sanza mezzo seguieno
Diomede ed Ulisse, e ad agguati
andare ancor pensando mi parieno.
    Vigoroso di dietro a loro armati
Patrocolo veniva ed Antenore,
ciascun con gli occhi ver la donna alzati.
    Ercule v'era, il cui sommo valore
lungo saria a voler recitare,
per ch'ebbe già d'assai battaglie onore.
    Anteo dopo lui vi vidi stare,
ch'ancor parea che 'n atto si dolesse
di ciò che già li fé Ercule provare.
    Veniva poi Minòs, come se stesse
ancor davanti Atene tutto armato,
né d'Androgeo parea più li dolesse.
    Oh quanto d'ira pareva infiammato,
d'ira e di mal talento Menelao
seguendo Agamenòn dal destro lato!
    Il qual seguiva poi Protesselao,
bello e grazioso nello aspetto;
e dopo lui cavalcava Anfirao,
    che' suoi lasciò ad oste nel conspetto
di Tebe, ruvinando a' dolorosi
c'hanno perduto il ben dello 'ntelletto.
    Venian dopo costui, molto animosi,
insieme con Teseo Demofonte,
di toccar quella donna disiosi.
    I qua' seguia con dolorosa fronte
Egeo, che per veder le vele nere
si gittò in mar dell'alta torre sponte.
    Turno pareva quivi che di vere
lagrime avesse tutto molle il viso,
dogliendose del troian forestiere.
    Eurialo ancora v'era e Niso,
mostrandosi piagati come foro
ciascun di lor, l'un per l'altro conquiso.
    Non molto spazio poi dietro a costoro
Latino sen veniva a piccol passo,
Pallante e Creso poi, e dopo loro
    Giarba veniva nello aspetto lasso,
andandosi di Dido ancor dolendo
perché ad altro om di lui fece trapasso.
    Helena dopo lui portava ardendo
di foco un gran tizzone, e pur costei
miravan molti se stessi offendendo.
    Oreste niquitoso dopo lei
con un coltello in man seguiva fello,
nell'atto minacciando ancor colei
    del corpo a cui uscì; e poi dop'ello
venia broccando la Pantasilea,
lieta nel viso grazioso e bello.
    Oh quanto ardita e fiera mi parea,
armata tutta, con un arco in mano,
con più compagne ch'ella seco avea!
    Non era lì alcun che del sovrano
ed altier portamento maraviglia
non si facesse, tenendolo strano.
    Non molto dopo lei venia la figlia
del re Latino lieta, e dopo Iole;
poi Deianira con bassate ciglia
    ancora quivi d'Ercule si dole.



CANTO IX

    Moveasi dopo queste quella Dido
cartaginese, che credendo avere
in braccio Giulio vi tenne Cupido.
    Isconsolata giva, al mio parere,
chiamando in boci ancora: « Pio Enea,
di me, ti priego, deggiati dolere ».
    Ancora, com'io vidi, in man tenea
tutta smarrita quella spada aguta
che 'l petto le passò, che mi facea,
    essendole lontan, nella veduta
ancor paura, non ch'a lei ch'ardita
fu dar di quella a sé mortal feruta.
    Trista piangendo, in abito smarrita
e come can nella voce latrare,
Ecuba vidi con poca di vita.
    Con lei la mesta Pulisena stare
quivi parea, in aspetto ancor sì bella
che me ne fé in me maravigliare.
    Hoeta poi seguitava dop'ella,
piangendo a' Greci aver piaciuto mai,
quand'elli andar per le dorate vella.
    Vedevasi colei che sentì guai
Ercule partorendo, e dopo lei
Isifile dolente affigurai.
    In abito crucciato con costei
seguia Medea crudele e dispietata;
con voce ancor parea dicere: « Omei,
    se io più savia alquanto fossi stata
né sì avessi tosto preso amore,
forse ancor non sarei suta ingannata ».
    Eravi ancor Camilla che 'l dolore
della morte sentì, per Turno fiera,
mostrando ne' sembianti il suo vigore.
    Non molto dopo lei ancora v'era,
col capo basso ed umil nel sembiante,
Ilia vestale vestita di nera,
    portando in ciascun braccio un piccol fante,
Romolo e Remolo amendue nomati,
traendo lor quanto potea avante.
    Ratto tra gli altri di sopra contati
si facea Foroneo, che prima diede
legge civile, acciò che ordinati
    e suoi vivesser, sì come si crede;
e dopo lui venia Numa Pompilio
che lieta ne fé Roma, com si vede.
    Dop'esso cavalcava Tulio Ostilio
ed Anco Marco ed il Prisco Tarquino,
e dopo lui seguia Tulio Servilio.
    Ivi Tarquin Superbo e Collatino
pareano, e 'l re Porsenna che andando
ferocemente seguia lor camino.
    Seguivali Cornelio ancor mostrando
l'inarsicciata man ch'uccise altrui,
che 'l core non volea, nescio fallando.
    Il valoroso Bruto, per lo cui
ardir fu Roma da giogo reale
diliberata, seguiva; e con lui
    Orazio Cocle v'era, per lo quale,
tagliato il ponte a lui dietro alle spalle,
libera Roma fu dal truscian male.
    Dietro veniva quel Curzio ch'a valle
armato si gittò per la fessura,
in forse di sua vita o di suo calle,
    intendendo a voler render sicura
piuttosto Roma e i suoi abitatori,
che di se stesso aver debita cura.
    Seguia Fabrizio che gli eccelsi onori
più disiò che posseder ricchezza,
avendo que' per più cari e maggiori.
    Eravi quel Metel ch'alla fierezza
di Giulio Tarpea tanto difese,
mostrando non curar la sua grandezza.
    Riguardando oltre mi si fé palese
Curio, che diede per consiglio
ch'al presto sempre lo 'ndugiare offese.
    Vedevavisi Mario che lo 'mpiglio
con Lucio Silla fé nella cittate,
mettendo a' colpi il padre contro al figlio.
    Iuba ed Amilcare e Mitridate,
Manastabil e Codro v'era ancora,
e poi Giugurta voto di pietate.
    Rigido nello aspetto vi dimora
Catellina, e pensando par che vada
allo essilio, che 'n vista ancor l'accora.
    Evvi Cloelia appresso, che la strada
fece a' Roman quand'ella si fuggio
per lo Tevero in parte u' non si guada,
    lo cui tornar Roma rinvigorio.



CANTO X

    Ahi quivi fiero ed orgoglioso quanto
vi vid'io Annibal sopra un destriere,
ch'alli Roman levò riposo tanto!
    Rubesto lì parea ancor tenere
Cartagine sub sé, col viso alzato
inver la donna andando a suo potere.
    Asdrubal gli era dal sinistro lato
con non men di fierezza nello aspetto,
con una lancia cavalcando armato.
    Coriolan, che lo 'nfiammato petto
ebbe contra' Romani, e giustamente,
quando leal cacciar lui per sospetto,
    come vedendo quella umilemente,
che 'l generò, piegando la sua ira
a' preghi suoi, era quivi presente.
    Oltre con gli altri andava ver la mira
bellezza della donna; dopo il quale,
come colui che tristo ancor sospira,
    Massinissa seguiva, del suo male,
a freno abandonato cavalcando,
se stesso avendo poco a capitale.
    Allegro Cincinnato seguitando
l'andava, e Persio poi, come potea,
giocondo sé nel sembiante mostrando.
    Nobile nello aspetto si vedea
possente oltre venir intra costoro
Cesare, che in vista ancor ridea
    d'avere a forza avuto da coloro
nome d'impero, che real dignitate
per istatuto avean cassa fra loro.
    Ornato di bell'arme e coronate
le tempie avea di quelle fronde care,
che fur da Febo già cotanto amate.
    Mirabilmente bell'a campeggiare
in uno scudo lo divino uccello
nero nell'or li vidi, ciò mi pare;
    ancora in una lancia un pennoncello
che 'n man portava vidi, e simigliante
vi vidi quella ventilarsi in quello.
    Di quanti a lui ve n'andasser davante
nullo ne fu che tanto mi piacesse
né tanto valoroso nel sembiante.
    Appresso poi parea che li corresse
volonteroso e sì forte Ottaviano,
che dentro al cerchio già parea ch'avesse
    messa più che nessun la destra mano:
bello era e nello aspetto grazioso
quanto alcun altro fosse mai mondano.
    A lui seguiva poi molto pensoso,
palido nello aspetto, il gran Pompeo,
tal che di lui mi fé tornar pietoso,
    mirando dietro a sé a Tolomeo
che il seguiva, cui fé re d'Egitto,
che poi uccider là vilmente il feo.
    A loro Marco Antonio quiviritto
seguiva e Cleopatra ancor con esso,
che, in Cicilia, fuggì sanza rispitto,
    ridottando Ottavian, perché commesso
le parea forse aver sì fatta offesa,
che non sperava mai perdon da esso.
    Ivi non potend'ella far difesa
al fuoco che l'ardeva forse il core
di libidine e d'ira, ond'era accesa,
    a fuggir quello oltraggioso furore
con due serpenti in una sepoltura
sofferse sostener mortal dolore;
    ed ancor quivi nella sua figura
palida, si vedeano i due serpenti
alle sue zizze dar crudel morsura.
    Prima che questi, credo più di venti,
era 'l primo Africano Scipione,
ch'a Roma fé con sua forza ubbidenti
    ritornar già, con degna punizione,
que' di Cartago che insuperbiti
eran per Annibal lor campione.
    Ivi Cornelia in sembianti smarriti
seguia dietro a color, cui dissi suso
ch'avanti a Scipion non erano iti.
    E poi che dopo ad essa, gli occhi in giuso,
Traian vidi venir e dopo lui
Marzia col viso di lagrime infuso,
    Giulia veniva poi dietro; con cui,
in atti riposati e mansueta,
quasi alle spalle a Cesare, di cui
    honesta sposa fu, Calpurnia lieta
venia, sanza parer che disiasse
altro veder che lui, e in lui quieta
    ogni altra voglia che la stimolasse.



CANTO XI

    Venian dopo costor gente gioconda
ne' loro aspetti, tutti cavalieri
chiamati della Tavola ritonda.
    Il re Artù quivi era de' primieri,
a tutti armato avanti cavalcando
ardito e fiero sopra un gran destrieri.
    Seguialo appresso Bordo spronando
e con lui Prezivalle e Galeotto
a picciol passo insieme ragionando.
    E dietro ad essi venia Lancillotto,
armato e nello aspetto grazioso,
con una lancia in man, sanza far motto,
    ferendo spesso il caval poderoso
per appressarsi alla donna piacente,
di cui toccar pareva disioso.
    Oh quanto adorna quivi ed eccellente
allato a lui Ginevra seguitava,
in su un palafreno orrevolmente!
    Stella mattutina somigliava
la luce del suo viso, ove biltate
quanto fu mai tututta si mostrava.
    Sorridendo negli atti, di pietate
piena e parlando a consiglio segreto
con tacite parole ed ordinate,
    era con que' che già ne visse lieto
lunga fiata, lei sanza misura
amando, ben che poi n'avesse fleto.
    Non molto dietro ad esso con gran cura
seguiva Galeotto, il cui valore
più ch'altro de' compagni si figura.
    E lui seguiva Chedino ed Astore
di Mare insieme con messer Ivano,
disiosi ciascuno di più onore.
    L'Amoroldo d'Irlanda ed Agravano,
Palamidès seguiva e Lionello,
e Polinoro con messer Calvano.
    Mordretto appresso e con lui Dodinello,
e 'l buon Tristan seguiva poi appresso
sopra un cavallo poderoso e isnello.
    Isotta bionda allato allato ad esso
venia, la man di lui con la sua presa
e rimirandol nella faccia spesso.
    Oh quanto ella parea nel viso offesa
dalla forza d'amor, di che parea
ch'avesse l'alma dentro tutta accesa,
    di che negli atti fuor tutta lucea!
« Tu se' colui cui io sola disio »,
timida nello aspetto li dicea;
    « in qua ti priego ch'alquanto, amor mio,
tu ti rivolghi, acciò ch'io vegga il viso
per cui vedere in tal camin m'invio ».
    Retro a costor sopra un cavallo assiso
rubesto e fiero Brunoro venia,
ed altri molti, i qua' qui non diviso,
    eran con lui; ma io, la vista mia
dopo la lunga schiera discendendo,
conobbi più mirabil baronia.
    Di porpore vestito, oltre correndo,
quel Carlo Magno sen veniva avante
ch'al mondo fu cotanto reverendo,
    in su un forte e gran destrier ferrante,
ancora de' triunfi coronato
ch'egli acquistò sopra le terre sante,
    fiero ed ardito e tutto quanto armato,
co' gigli d'oro nel campo cilestro
e 'l nero uccel davanti nel dorato.
    Eravi Orlando dal lato sinestro
con una spada in man fiero ed ardito,
ed Ulivier lo seguiva dal destro.
    Cavalcando tra questi oltre pulito,
da Montalban Rinaldo giva avanti
intra due suoi fratelli reverito.
    Tra loro era Dusnamo con sembianti
lieti, e molti altri ancor v'eran li quali
io non pote' conoscer tutti quanti.
    Oltre venia, che parea ch'avesse ali,
il duca Gottifré dopo costoro
per volere esser pur de' principali.
    Appresso lui seguiva con coloro
umilemente Ruberto Guiscardo,
che fu signor già in Terra di Lavoro.
    Lui seguitava frontiero e gagliardo
Federigo secondo; e 'l Barbarossa
sopr'un forte roncion di pel leardo,
    cavalleroso e di persona grossa,
dritto sovra le strieve in atto altiero,
nel sembiante avitendo ogni altra possa,
    via se ne giva per esser primiero.



CANTO XII

    Non sanza molta ammirazion mirando
m'andava riguardando quella gente,
fra me di lor pensier nuovi recando.
    Parevami, nel creder, veramente
che loro eccelsa fama gloriosi
far li dovesse sempiternamente.
    E fra gli altri che molto disiosi
negli atti si mostravan di venire
a quella donna per esser famosi,
    robustamente in aspetto seguire,
armato tutto sopra un gran destriere,
vid'io quivi un grandissimo sire ,
    vestito di cilestro, al mio parere,
lucente tutto di be' gigli d'oro
ch'ogni altra luce facean trasparere.
    Ognun, qualunque fosse di coloro
che gian davanti, rimirava lui,
sì fiero andava fuggendo dimoro.
    Se ben ricordo, e' mi parve costui
quel Carlo ardito ch'ebbe il maschio naso
insieme con virtù molta, da cui
    tutto il pugliese regno fu invaso
e conquistato, e fanne coronato;
del qual signore il suo seme è rimaso.
    Rimirandosi innanzi quasi irato,
con una spada che in man tenea
da ogni parte si facea far lato.
    Appresso a lui, al mio parer, vedea
il Saladin risplender tutto quanto
entro ad un drappo ad or che 'ndosso avea.
    Costui seguiva dal sinistro canto
tututto armato Ruggier di Loria,
che in arme ebbe già valor cotanto.
    Ontoso tutto appresso li venia
il re Manfredi e con dolente aspetto,
e con lui Curradino in compagnia.
    Rietro a costoro assai che io non metto
qui ne seguien, però che troppo avrei
a fare a dirti tutti ed il mio detto
    tireria lungo più ch'io non vorrei,
posto ch'alla man manca ed alla dritta,
ch'io non ne conto, più ne conoscei.
    E la mia mente dal disio trafitta
di vedere oltre pur mi stimolava,
per che la vista non teneva fitta.
    Similemente quella con cui andava,
con le parole sue faccendo fretta,
sovente all'altre cose mi chiamava.
    Il dir ch'io le faceva: -- Un poco aspetta --
non mi valeva, per ch'io mi voltai
verso la terza faccia a man diretta.
    Aveavi certo da mirare assai
più ch'io dir non potrò, tal che 'n me stesso
assai fiate men maravigliai.
    Con gli occhi alzati mi feci più presso
al detto luogo, acciò ch'io conoscessi
chi e che cose vi stessero in esso.
    Oro ed argento, un gran monte, e con essi
zaffiri ed ismeraldi con rubini
ed altre pietre assai credo vedessi.
    Riguardando più basso, con uncini,
chi con picconi e chi avea martello
e chi con pale e chi con gran bacini,
    ronconi alcuni ed altri intorno ad ello
con l'unghie e chi coi dente, uno infinito
popol vi vidi per pigliar di quello.
    E ciaschedun parea pronto ed ardito,
non onorando il piccolo il maggiore,
a suo poter fornia suo appetito.
    Gente v'avea di molto gran valore
in vista, avvegna che la lor viltate
pur si scopria, veggendo con romore
    gli altri, che quivi per cupiditate
givan, cacciarli con duoli e con morte
per prendern'essi maggior quantitate,
    iniqua tirannia rubesta e forte
usando, chi con fatti e chi con detti,
prendendo più che la dovuta sorte.
    Alcun v'avea che i loro mantelletti
se n'avean pieni, e per volerne ancora
abbandonavan tutti altri diletti.
    Tra quella gente che quivi dimora
conobb'io molti, e vidivene alcuno
ch'aver preso di quello ora ne plora
    e forse ne vorrebbe esser digiuno;
ma, cosa fatta, penter non vi vale,
né puolla adietro ritornar nessuno:
    adunque ogni uom si guardi di far male.



CANTO XIII

    Mirand'io quella turba sì gulosa
di quel per che s'affanna la più gente,
per esserne nel mondo copiosa,
    entrato infra 'l tesoro più fervente
vi vid'io Mida, in vista che sazia
saria di tutto appena possedente,
    non bastandoli avere avuta grazia
dall'iddii che ciò che e' toccasse
ritornasse oro ver sanza fallazia.
    Di rietro a lui parea che ne tirasse
giù Marco Crasso assai, avvegnadio
che della bocca ancor li traboccasse.
    Allato a lui con isciolto disio
quell'Attila, che 'n terra fu flagello
s'affaticava forte, al parer mio,
    nelle sue man tenendo uno scarpello
con un martel, fierendo sopra 'l monte,
gran pezzi e grossi levando di quello.
    Dall'altra parte con superba fronte
era Epasto, con un piccone in mano
con punte agute bene ad entrar pronte.
    Ognor che su vi dava non invano
tirava il colpo a sé, ma gran cantoni
giù ne faceva ruvinare al piano,
    impiendo di quel sé e' suoi predoni
ed ogni sciolta voglia adoperando,
dannando le giustizie e le ragioni.
    Là vi vid'io ancora furiando
Nerone imperadore, ed avea tesa
sopra 'l monte una rete e già tirando
    molta gran quantità n'aveva presa
di quel tesoro, e qual gittava via
e qual mettea in disordinata spesa.
    Ivi di dietro un poco a lui seguia
con una scure in man Polinestore,
e quanto più potea quivi feria,
    ora col colpo faccendo romore,
ora mettendo biette alla fessura
quando la scure sua tirava fore,
    forse temendo che non l'apritura
si richiudesse; e molto ne levava
continovando pur con la sua cura.
    Appresso lui tutto 'l monte graffiava
Pignaleon con uno uncino aguto,
e molto giuso a sé ne ritirava.
    L'acerbo Dionisio conosciuto
v'ebbi mirando fra la gente folta,
ch'a tor dell'oro non voleva aiuto.
    Là si ficcava tra la turba molta
con un roncone in man tagliando, e presto
di quello a piè si faceva raccolta,
    impiendo con affanno il suo molesto
voler, cacciando misura e piatate
in modo sconcio assai e disonesto.
    Rubesto appresso la sua crudeltate
Fallarìs dimostrava, ricidendo
con una accetta una gran quantitate
    e via di quindi di quel trasferendo;
poi, arrotata la 'ngrossata accetta,
ancora quivi tornava correndo.
    Con furiosa e minaccevol fretta
quivi si vedea Pirro accompagnato
con mal disposta e dispiacevol setta.
    A molti lì per forza avean levato
a cui cesta di collo, a cui di seno
avean rubato l'or ch'avean cavato.
    Ridendo poi fra lor se ne facieno
beffe ed istrazio di que' cattivelli,
ch'a cavar quel fatica avuta avieno.
    Ancora vid'io star presso di quelli
il dispietato ed iniquo Tereo,
di quel tesoro prender nel quale elli
    fatica non durò mai come feo
quelli a cui toglieva; e dopo lui
pien d'oro dimorava Tolomeo.
    Ivi era Fisistrato, per la cui
cura più scrigni ripieni e calcati
quivi ne vidi tirati da lui.
    Avea in un lembo de' panni piegati
Siragusan Geronimo tesoro:
egli e molti altri ne gian caricati.
    Ma di Novara Azzolin con costoro
con molto se ne giva, per tornare
con maggior forza a sì fatto lavoro.
    Molti altri ancora vi vidi cavare
ed isforzarsi per volerne avere,
ma niente era il loro adoperare,
    anzi oziosi stavano a vedere.



CANTO XIV

    Più altra gente ancor v'avea, fra' quali
gran quantità di nuovi Farisei
ad aver del tesoro battean l'ali,
    e sconfortando gli altri e come rei
erano a posseder nel lor parlare
mostrando; e s'io nel rimirar potei
    riguardar vero il loro adoperare,
per possederne maggior quantitate
li vi vedeva forte affaticare.
    Correndo sen portavan caricate
le some, e con iscrigni e piene ceste
si ritornavan quivi molte fiate.
    Ver è che ben ch'avesser lunghe veste
non gli ingombrava però, ma parea
che più che gli altri avesser le man preste.
    Infra lor riguardando, assai v'avea
di quelli cui altra volta avea veduti
e ch'io per nome ben riconoscea.
    Li quali, però che son conosciuti,
non bisogna ch'io nomi, ben che pari
potrebbono esser tututti tenuti.
    Con questi avanti, al mio parer non guari,
quasi tra quei ch'erano più eccellenti
e che parean de' su detti vicari,
    ornato di be' drappi e rilucenti
il nipote vid'io di quel Nasuto,
che gloriarsi va co' precedenti,
    recarsi in mano un forte biccicuto,
dando ta' colpi sopra 'l monte d'oro,
che di ciascun saria un mur caduto;
    e d'esso assai levava, e quel tesoro
in parte oscura tutto si serbava,
e quasi più n'avea ch'altro di loro.
    Oltre grattando il monte dimorava
con aguta unghia un, ch'al mio parere
in molte volte poco ne levava.
    Con questo tanto forte quel tenere
in borsa li vedea, ch'a pena esso,
non ch'altro alcun, ne potea bene avere.
    Al qual faccendom'io un poco appresso
per conoscer chi fosse apertamente,
vidi che era colui che me stesso
    libero e lieto avea benignamente
nudrito come figlio, ed io chiamato
aveva lui e chiamo mio parente.
    Davanti e poi e d'uno e d'altro lato
tanti su per lo monte e giù scendieno
a prender del tesoro disiato:
    ogni lingua verrebbe a dirlo meno,
però qui m'aggia lo lettore alquanto
scusato s'io non gli ritraggo a pieno.
    Quand'io ebbi costor mirati tanto
ch'a me stesso increscea, io mi voltai,
com'altri volle, verso il destro canto.
    Ver è che disiato avrei assai
d'essere stato della loro schiera,
se con onor potesse esser giammai.
    E s'io vi fossi stato, come v'era
alcun ch'io vi conobbi, io avrei fatto
sì che veduta fora la mia cera
    credo più volentier da tal che matto
or mi riputa, però che i' ho poco,
e più caro m'avrebbe in ciascun atto.
    Hai lasso, quanto nelli orecchi fioco
risuona altrui il senno del mendico!
né par che luce o caldo abbia 'l suo foco,
    e 'l più caro parente gli è nimico;
ciascun lo schifa, e se non ha moneta
alcun non è che 'l voglia per amico.
    Unque s'ogni uomo pur di quello asseta,
mirabile non è, poiché virtute
sanza danari nel mondo si vieta;
    il cui valor se fosse alla salute
di quel pensato che uom pensar dee,
non le ricchezze sarian sì volute.
    Ma io mi credo che parole ebree
parrebbono a ciascun chiaro intelletto
il dir che le ricchezze fosser ree,
    avvegna che in me questo difetto
piuttosto che in altro caderia,
tanto disio d'averne con effetto.
    Né da tal disiderio mi trarria
alcun, tanto il pregar mi par noioso
che di danar sovvenuto mi sia.
    Dopo molto pensar, disideroso
di veder tutto, dirizzai il viso:
e vidi figurato poderoso
    Amor, sì come qui sotto diviso.



CANTO XV

    Quella parte dov'io or mi voltai
con gli occhi riguardando e con la mente,
di storie piena la vidi e d'assai.
    Volendo adunque d'esse pienamente,
almen delle notabili, parlare,
rallungar sì convien l'opra presente.
    E però dico che, nel riguardare
ch'io feci, a guisa d'un giovane prato
tutta la parte vidi verdeggiare,
    similemente fiorito e adornato
d'alberi molti e di nuove maniere,
e l'esservi parea gioioso e grato.
    Tra' quali, in mezzo d'esso, al mio parere,
un gran signor di mirabile aspetto
vid'io sopra due aquile sedere;
    al qual mentre io mirava con effetto,
sopra due lioncelli i piè tenea
ch'avean del verde prato fatto letto.
    Una bella corona in capo avea
e li biondi cape' sparti sott'essa,
che un fil d'oro ciaschedun parea.
    Il viso suo come neve mo' messa
parea, nel qual mescolata rossezza
aveva convenevolmente ad essa.
    Sanza comparazion la sua bellezza
era, ed aveva due grandi ali d'oro
alle sue spalle, stese inver l'altezza.
    In man tenea una saetta d'oro
ed un'altra di piombo, alla reale
vestito, al mio parer, d'un drappo ad oro.
    Orrevolmente là il vedea cotale,
tenendo un arco nella man sinestra,
la cui virtù sentir già molti male.
    Né però era sua sembianza alpestra
ma giovinetta e di mezzana etate,
dimestica e piatosa e non silvestra.
    E 'ntorno avea sanza fine adunate
genti, le qua' parea che ciascheduno
mirasse pure a sua benignitate.
    Gai e giocondi ve ne vidi alcuno,
tristi e dolenti sospirando gire
altri vi vidi, in isperanza ognuno.
    Io che mirava il grazioso sire,
immaginando molto il suo valore
per molti ch' io vidi a lui servire,
    ornata come lui, con grande onore
li vidi allato una donna gentile,
la qual pareva sì com'elli Amore,
    vaga nelli occhi, piatosa ed umile;
ver è ch'era d'alloro coronata,
ed in tanto era ad Amor dissimile.
    Angiola mi pareva nel ciel nata,
e in me più volte pensai ch'ella fosse
quella che in Cipri già fu adorata.
    Non so quel che il cor mi si percosse
mirando lei, se non che l'alma mia
pavida dentro tutta si riscosse,
    né sanza a lei pensar fu poi né fia:
sì eccellente e tanto graziosa
quivi allato ad Amor vidi lucia.
    In fronte a lei, più ch'a altra valorosa,
due belli occhi lucean sì che fiammetta
parea ciascuno d'amor luminosa;
    e la sua bocca bella e piccioletta
vermiglia rosa e fresca simigliava,
e parea si movesse sanza fretta.
    Dintorno a sé tutto il prato allegrava,
come se stata fosse primavera,
col raggio chiar che 'l suo bel viso dava.
    Io non credo ch'al mondo mai pantera
col suo odor già anima' tirasse,
faccendoli venir dovunque s'era
    blandi e quieti, ch'a lei simigliasse;
e sì parean mirabili i suoi atti,
ch'Amor pareva lì s'innamorasse.
    Oh come nello aspetto, in detti e 'n fatti,
savia parea, con alto intendimento,
pensando a' suo' sembianti ed a' suoi tratti!
    Contemplando ad Amore il suo talento
parea fermasse en la sua chiara luce:
com'aquila a' figliuo' nel nascimento
    con amor mostra ond'ella li produce
a seguir sua natura, così questa
credo che faccia a chi la si fa duce.
    A rimirar contento questa onesta
donna mi stava, che in atti dicesse
parea parole assai piene di festa,
    come lo 'mmaginar par che intendesse.



CANTO XVI

    Costei pareva dir negli atti soi:
« Io son discesa della somma altezza
e son venuta per mostrarmi a voi.
    Il viso mio, chi vuol somma bellezza
veder, riguardi, là dove si vede
accompagnata lei e gentilezza.
    Ò pietà per sorella e di merzede
fontana sono: Iddio mi v'ha mandata
per darvi parte del ben che possiede.
    Donna più ch'altra sono innamorata
e ma' isdegno in me non ebbe loco,
però Amor m'ha cotanto onorata.
    Ancor risplende in me tanto il suo foco,
che molti credon talor ch'io sia ello,
avvegna che da lui a me sia poco.
    Cortese e lieta son di lui vasello,
né mai mi parran duri i suoi martiri
pensando al dolce fin che vien da quello.
    E bene è cieco quei che' suoi disiri
si crede sanza affanno aver compiuti
e sanza copia di dolci sospiri.
    Riceva in pace dunque i dardi aguti,
ch'alcun piacer di belli occhi saetta
que' che attendon d'esser proveduti.
    Tal, qual vedete, giovane angioletta
qui accompagno Amor che mi disia:
poi tornerò al cielo a chi m'aspetta ».
    Ancor più intesi, ma la fantasia
nol mi ridice, sì gran parte presi
di gioia dentro nella mente mia
    lei rimirando e' suoi atti cortesi,
il chiaro aspetto e la mira biltate,
della qual mai a pien dir non porriesi.
    Dallato Amor con tanta volontate
vidi mirarla, che nel bello aspetto
tutto si dipingeva di pietate.
    Ognora a sé con la sua mano il petto
tastando, quasi non si avesse offeso
perché a guardarla avea tanto diletto.
    Io stetti molto a lei mirar sospeso
per guardar s'io l'udissi nominare
o i' 'l vedessi scritto brieve o steso.
    Lì nol vidi né 'l seppi immaginare,
avvegna che, com'io dirò appresso,
in altra parte poi la vidi stare
    dond'io il seppi, e lì il dico espresso:
però chi quello ha voglia di sapere
fantasiando giù cerchi per esso.
    Omè, che lei mirando il mio volere
non avrei sazio mai! ma stretta cura
di mirare altro mi mise in calere.
    Levando adunque gli occhi inver l'altura
vidi quel Giove che 'n forma di toro
non già rubesto mutò sua figura,
    che quivi avendo per umil dimoro
Europa sottratta a cavalcarsi,
per me' compier l'avvisato lavoro,
    e' parea quindi correndo levarsi
e gir su per lo mar, come cacciato
fosse, e poi pianamente posarsi
    in quel paese che poi fu nomato
da quella che da dosso si dispose,
ripigliando sua forma innamorato.
    Nel loco poi con parole pietose
pareva a me che la riconfortasse
narrando ancor le sue piaghe amorose;
    ma con disio parea poi l'abracciasse,
e con diletto l'avuto disio
sanza contasto parea terminasse.
    Alquanto appresso ancora questo iddio
com'una gotta d'oro risplendente
trasformato e cadendo, lui vid'io
    gittarsi in una torre prestamente
ad una giovinetta ch'entro v'era,
per ben guardarla, chiusa strettamente;
    il qual forse l'amava oltra maniera
dovuta, ed infra le bianche tette
e belle in piova gir lasciato s'era.
    Né dello inganno già saper cevette
quella, ma lui ritenne nascoso
e guadagnato forse aver credette.
    Alla vera statura luminoso
quivi vedeasi tornato e costei
abracciando e basciando, disioso
    riguardando essa, né giammai da lei
partir sanza il disiato giugnimento;
di che parea ch'ella dicesse: « Omei,
    ch'io son gabbata dal tuo argomento ».



CANTO XVII

    Hai! come bella seguiva una storia
della figliuola d'Inaco, mi pare,
se ben mi rappresenta la memoria.
    Era lì Giove, e vedendo tornare
sola dal padre quella giovinetta,
il suo disio le vedeva narrare.
    Lungo un boschetto con essa soletta,
sotto piacevoli ombre con costei
star lo vedea sopra la verde erbetta.
    Ma così dimorandosi con lei,
Giuno vi sopravenne furiosa
temendo dello inganno fatto a lei.
    Intanto la persona graziosa
Giove di quella in una vacca bella
mutò, e lei donò alla sua sposa.
    Or poi che Giuno aveali presa quella,
per tema forse di simile offesa,
Argo pien d'occhi guardian fece d'ella.
    Colui appresso, che l'aveva presa
a guardia, in atto un pastor chiamava,
ch'una sampogna sonar gli avea intesa.
    Hatlanciade, quel pastor, v'andava,
sotto alberi sonando dolcemente
con colui quivi riposando stava.
    Onde sonando, vedea chetamente
con tutti e cento gli occhi ch'Argo avea
addormentarsi e non sentir niente.
    Rigido poi l'altro pastor vedea
trarsi di sotto un ritorto coltello,
col qual colui prestamente uccidea.
    Fu lì da Giuno mutato in suo uccello
la quale irata poi parea seguire
la vacca per cui era morto quello.
    A lei davanti vedeasi fuggire
e già tenea il Nil, quando lo dio
Giuno rattemperò e le sue ire.
    Così tornò ogni bellezza ad Io,
ch'ell'ebbe mai, e lasciò la pigliata
forma bestial che Giove le diè pio.
    E poi la vidi lì deificata,
e dalla gente lì divota assai
con molti incensi la vidi onorata.
    Dopo essa alquanto avanti riguardai
e 'l detto iddio in forma feminile
in un fronzuto bosco affigurai;
    e riguardando lui, che nel gentile
aspetto e bello Diana mi pareva,
negli atti suoi mansueto ed umile,
    là affannato forse si sedeva
ed un forte arco con molte saette
dal suo sinistro lato posto aveva.
    Lui mirando una delle giovinette
che per lo bosco con Diana gia,
che questi dessa fosse si credette;
    a lui venendo in atto onesta e pia
per lei basciar, ché forse consueto
era, sicura prese la sua via.
    Ver lei si fece Giove, e tutto lieto
prendendola la trasse seco appresso
entro in un luogo del bosco segreto;
    ove basciando lei, essa con esso
si stava cheta, che semplice e pura
aveva rotto il boto già commesso.
    Sola lì mi parea che con paura
gravida rimanesse di colui
che la 'ngannò sotto l'altrui figura.
    Tacquesi un tempo la donna nel cui
ventre piacevol peso era nascoso,
ma pur convenne poi paresse altrui,
    ricevend'ella allora dal grazioso
coro di Diana l'esserne divisa:
di che poi Giove, essendone piatoso,
    a lei diè forma d'Orsa e fella assisa
essere intorno al pol piena di stelle,
per guiderdon della colpa commisa.
    Bianco, al mio parer, di dietro a quelle
istorie il vidi in cigno figurato,
con bianche penne rilucenti e belle.
    In dentro andando se l'avea pigliato
nelle sue braccia disiosa Leda,
e 'n camera di lei l'avea portato.
    Là come tosto la infinta preda
si vide inchiuso, lieto ritornossi
nella sua vera e consueta sceda.
    Tutta negli atti Leda marvigliossi,
ma concedendo sé alla sua voglia,
quivi mostrava come racchetossi
    acciò che luogo avesse en l'alta soglia.



CANTO XVIII

    Dopo costei si vedea seguitare
come di Semelè già gli arse il core,
e come l'ebbe ancora vi si pare.
    Ornata come vecchia e di dolore
piena era quivi Giuno, invidiosa
perché Giove portava a quella amore;
    nascosa in forma tale, la graziosa
giovine domandava s'ella fosse
ben dell'amor di Giove copiosa.
    Nel viso a riso a quel parlar si mosse
non conoscendo lei, e le rispose:
« Altro che me non disian sue posse ».
    Allor si turbò Giuno, ma l'ascose
con falso aspetto, e disse: « Ora ti guarda
ch'e' non ti inganni con viste frodose.
    Più furon quelle già cui la bugiarda
vista ingannò, ed io ne so alcuno;
ma se tu vuo' saper se per te arda,
    istea con teco dì come con Giuno.
Se elli il fa, ben ti dico ch'allora
dirò che non ci sia 'nganno nessuno;
    e fa che 'l facci ». E sanza far dimora
da lei si dipartia; questa aspettando
rimase con disio la sua malora.
    Tacita e sola così dimorando,
parve che Giove nella casa entrasse,
a cui ella così dicea pregando:
    « Or neghera'mi tu, s'io domandasse,
un caro dono? » a cui e' rispondea,
e rispondendo parea che giurasse
    sé a ciò non mancar ch'ella volea.
« Come con Giuno ti congiugni », disse,
« così con meco ti priego che stea ».
    Ahi come a Giove dolfe! ma non sdisse
quel che 'mpromise, ma invito quello
fé, perché 'l saramento non perisse.
    Rilucer lì d'un foco grande e bello
Semelè si vedeva e in cener trita
ritornar tosto giacendo con ello.
    E così trista finì la sua vita
per lo disio che 'l consiglio dolente
le porse, e Giuno rimase gioita.
    Conforme poi si vedea similmente
Asterien ad aquile seguire,
cui elli amava molto coralmente.
    Allato a lei ed or di sopra gire
per alti boschi quivi si vedeva,
e poi con l'ali lei presa covrire.
    Molto dubbiosa lì quella pareva,
per che rivolta contra il grande iddio
con fievol possa cacciar lo voleva.
    Valeale poco, però che 'l disio
suo ne prendeva que', come che a lei
ne' suoi sembianti le paresse rio.
    Nel luogo appresso si vedea colei
che partorì i due occhi del cielo,
secondo che apparve agli occhi miei.
    Assai timida, l'isola di Delo
la riteneva quasi fuggitiva,
umile e piana sotto bianco velo.
    Soletta appresso Antiopa seguiva,
con la qual quivi Giove in forma quale
un satiro, alla mia stimativa.
    Ove allato sedeale e quanto male
amor per lei li facesse narrava,
né come alcun rimedio ve li vale.
    Assai negli atti suoi la lusingava,
tanto che 'nfine alla sua volontate
con impromesse e prieghi la recava.
    Vedeasi appresso quivi la biltate,
in una storia che venia, d'Almena
piena di grazia e di tutta onestate,
    in suoi sembianti gioconda e serena;
a cui Giove, in forma del marito
che dallo studio tornava d'Atena,
    tutto il suo disio avea compito.
Vedevavisi Geta doloroso
perché un altro n'avea 'n casa sentito.
    Appresso v'era Birria nighittoso
caricato di libri; al picciol passo
parea venisse tutto dispettoso,
    sanza alcun ben, dicendo: « Oimè lasso,
quando sarà ch'i' posi questo peso
che sì m'affolla, ponendolo abbasso? ».
    Inver lo ciel ne gia, poi ch'ebbe preso
Giove il diletto che di lei li piacque,
pregna lasciandola, al salire inteso:
    di cui appresso il forte Ercule nacque.



CANTO XIX

    Ivi più non seguia, perché finiva
quella facciata con gli antichi autori
che stanno innanzi a quella donna diva.
    Laond'io torna'mi inver li predatori,
ricominciando a quel canto primiero
a rimirar gli antichissimi amori.
    Ed umile tornato v'era il fiero
Marte, prencipe d'arme fatto amante,
per la qual cosa più non era altiero.
    Con tal disio il piacevol sembiante
mirava della bella Citerea,
che non parea che più curasse avante.
    Tra que' luoghi medesmi mi parea
con essa lui veder dentro ad un letto,
dintorno al quale, al mio parere, avea
    ordinata di ferro tutto eletto
una rete sottil che gli avea presi,
come per coglier loro in quel diletto.
    Sovra la sua vergogna i lacci tesi
avea Vulcano, il qual veder venia
ridendosi d'averli sì offesi.
    Aveva quivi ciascun dio e dia,
che nel ciel fosse, tututti chiamati
Vulcan, per mostrar lor cotal follia.
    Commosso a' prieghi di Nettunno grati
fatti a Vulcan per Marte umilemente,
di quella fuor da lui eran cacciati.
    Hai! come poi ciascuno apertamente
faceva il suo piacer, però che avieno
vergogna ricevuta interamente!
    E sì avviene a que' che non vorrieno
trovar le cose e vannole cercando,
che molto meglio cheti si starieno.
    Molto consiglio ciaschedun, che quando
pur divenisse che cosa vedesse
che li spiacesse, con gli occhi bassando
    e' se ne passi, perché molto spesse
son quelle volte che tai vendicare
tal vuol, che saria me' che se ne stesse.
    Tutto focoso vidi seguitare
quivi Febo Pennea graziosa,
e lei con dolci voci lusingare.
    Temendo fuggiva ella impetuosa
quivi da lui e di sopra le spalle
con li capelli sparti: più focosa
    entrava in Febo, che 'l dolente calle
seguiva, infin che stanca fé dimoro,
più non potendo, in una bella valle.
    Là ritornata in grazioso alloro
sopr'essa il sol la sua luce fermava,
faccendole col raggio chiaro coro.
    Veder pareami, secondo mostrava,
che si dolesse di tal mutazione
e ne' sembianti sen ramaricava.
    Ivi era appresso poi come Sitone,
maschio da lui sanza fine amato,
mutava in feminil sua condizione.
    Con esso lui si stava quivi allato,
e lei tenendo in braccio con amore
mostrava ch'altro non li fosse a grato.
    Or, con costei finito il suo ardore,
rinchiuso vidi in una vecchia scura,
più là un poco, tutto il suo splendore.
    Nell'aspetto pareva la figura
della madre di quella, per cui questo
a far ciò il sospignea con tanta cura.
    Mirabilmente là si vedea presto
chiuso tornare in sé, onde colei
dicea maravigliando: « Or che è questo? ».
    E poi il vedeva starsi con costei;
ma morta quella, per la sua potenza
in albero d'incenso mutò lei.
    Così appresso in forma; e l'accoglienza
che Issèn li fé quando con essa giacque,
tutto vi si vedea sanza fallenza.
    Habituato, v'era com lì piacque
a Climenès, del cui congiungimento
Feton che guidò il carro poi ne nacque.
    Oltre tra questi poi, molto contento,
era Nettunno in forma d'Euristeo,
Esimena abbracciando al suo talento.
    Innanzi riguardando discerneo
la vista mia costui in braccio tenere
Cerere, cui amò quanto poteo.
    Non sanza molti basci, al mio parere,
la stimolava; ma io mi voltai,
non potend'io più quivi vedere,
    dond'io a riguardar pria cominciai.



CANTO XX

    Ove io vidi in ordine dipinto
sì come Bacco. per forza d'amore,
in forma d'uva ad amar fu sospinto
    la figlia di Ligurgo; il cui ardore
quivi con lei in braccio si vedea
temperar, non in forma né in colore
    che si sdicesse, e 'l simil mi parea
d'Erigonèn; e del suo gran disio
così sé quivi si sodisfacea.
    Ivi seguiva poi, al parer mio,
Pan che Siringa gia perseguitando,
ch'avanti li fuggia in atto pio;
    e lei fuggente l'andava pregando,
ma 'l pregar non valeva, anzi tornata
in canna poi la vidi in forma stando.
    Poi di quella i bucciuoli spessa fiata
sonati fur, però che primamente
da esso fu la sampogna trovata.
    Appresso lui vi vid'io il dolente
Saturno in forma di cavallo stare,
a Fillara accostarsi dolcemente.
    Così appresso vidi, ciò mi pare,
Pluto li tristi regni abbandonati
avere e quivi intendere ad amare.
    Ed a lui presso con atti sfrenati
prender vedea Proserpina e con essa
fuggirsi a' regni di luce privati,
    pur con istudio e con noiosa pressa,
come se stato fosse seguitato
da Giove per volerlo privar d'essa.
    Oltre nel loco vidi figurato
Mercurio con Ersèn: molto stretto,
amando lei, dimorava abracciato,
    insieme avendo piacevol diletto.
Dopo 'l quale io vedeva tutto bianco
Borea quivi, con un freddo aspetto.
    Questi, li regni abbandonati, stanco
in Etiopia giugneva a vedere
Ortigia, ch'a sé dal lato manco,
    vedeva, quivi la facea sedere;
ed abracciata lei tenendo stretta
a pena seco gliel pareva avere.
    A lui seguiva poi la giovinetta
Tisbe, che fuor di Bambillonia uscia
e verso un bosco sen giva soletta.
    Né lì guari lontano, la sua via
fornita, un velo lasciava fuggendo
per una leona che a ber venia
    della fontana, dov'ella attendendo
Piramo si posava nell'oscura
notte; così se n'entrava correndo
    ove già fu la vecchia sepultura
di Nino. E poi si vedeva venire
Piramo là con sollecita cura,
    a sé intorno mirando se udire
o veder vi potesse se venuta
vi fosse Tisbe, secondo il suo dire.
    Lui ciò mirando, in terra ebbe veduta,
perché la luna risplendeva molto,
la vesta che a Tisbe era caduta,
    tutto stracciato e per terra rivolto
con un mantello il bel vel sanguinoso,
per che tututto si cambiò nel volto.
    Ricogliendo essi parea che doglioso
dicesse: « Oimè, Tisbe, chi ti uccise?
chi mi ti tolse, dolce mio riposo? ».
    Ontoso tutto lagrimando mise
la mano ad uno stocco ch'avea seco,
col qual dal corpo l'anima divise.
    Parea dicesse piangendo: « Con teco,
Tisbe, morrò, acciò ch'all'ombre spesse
di Dite, lassa, ti ritruovi meco »;
    e sbigottito parea che cadesse
quivi sopra 'l mantello, a piè d'un moro,
e del suo sangue i suoi frutti tignesse.
    Non dilettava a Tisbe il gran dimoro;
colà dond'era uscì, e disse: « Forse
quella bestia è pasciuta, e già non loro
    suol uso a noi far male »: ed oltre corse
alla fontana, e non credea che fosse
essa quando le more rosse scorse.
    In ciò mirando, tutta si percosse
quando Piramo vide ancor tremante,
e dal suo petto il ferro aguto mosse
    e 'n su quel si gittò, dicendo: « Amante,
io son la Tisbe tua! mirami un poco
anzi ch'io muoia », e più non disse avante:
    rimirandola, cadde morta loco.



CANTO XXI

    Or miri adunque il presente accidente
qualunque è que' che vuol legge ad amore
impor, forse per forza, strettamente.
    Quivi credo vedrà che 'l suo furore
è da temprar con consiglio discreto,
a chi ne vuole aver fine migliore.
    Vivean di questi i padri, ciascun lieto
di bel figliuolo: e perché contro a voglia
gli strinser, n'ebbe doloroso fleto.
    E così spesse volte altri si spoglia
di ciò che e' si crede rivestire,
e poi convien che sanza pro si doglia.
    Sì riguardando poi vidi seguire
Giansone in mezzo di tre giovinette,
le quai ciascuna fu al suo disire.
    Tutte e tre furon già a lui dilette
e nominate Isifile e Medea,
al mio parer, con Creusa sospette.
    « O sanza fede alcuna », mi parea
che Isifile dicesse, « o dispietato,
o più crudel ch'alcuna anima rea,
    deh, or hai tu ancor dimenticato
a quanto onor tu fosti ricevuto
nel regno ond'ogni maschio era cacciato?
    Io non credo che mai fosse veduto
uom volentier in nulla parte strana
né cotal dono a lui mai conceduto,
    simile a quel che io benigna e piana
a te concessi, portando fidanza
alla tua fede come 'l vento vana.
    Faccendo saramenti a me, speranza
nel tuo partir mi desti che giammai
non cambieresti me per altra amanza.
    Andastitene e me, come tu sai,
pregna lasciasti di doppio figliuolo,
ed a tornar ancor verso me hai.
    Con sospiri e con pianti e con gran duolo
gran tempo stetti, dicendo: « Omai tosto
verrà Giansone qui col suo stuolo »,
    ed appena credetti quel che sposto
mi fu di te, ch'avevi nuova amica
presa in Colcòs e mutato proposto.
    Più avanti non so ch'io mi ti dica,
se non ch'io ardo e tu in giuoco e festa
ora ti stai con la mia nimica.
    In tanto questa doglia mi molesta
che dir nol posso, ma tu stesso pensa
chente parriati averla tal qual questa.
    Assai ti priego dunque, se offensa
non ho commessa, non mi abandonare,
ma con pietà al mio dolor dispensa ».
    Non rispondea Giansone; ma poi stare
vidi negli atti molto dispettosa
Medea, inverso lui così parlare:
    « Giansone, in tutto 'l mondo non fu cosa
ch'io tanto amassi né per cui facessi
quanto feci per te, sì come sposa;
    e non mi credo ancor che tu sconfessi
com'io ti diè mirabile argomento,
per cui sicur co' tori combattessi.
    Mostra'ti ancora, per farti contento,
come 'l drago ingannassi, acciò ch'appresso
fornito avessi tuo intendimento.
    Insieme me ne venni teco stesso,
e sai che io il mio picciol fratello
uccisi, acciò che 'l mio padre sopr'esso
    dimorasse piangendo, e quindi snello
e sanza noia passasse il nostro legno
già cominciato a seguitar da ello.
    E sai ancora ch'io col mio ingegno
il tuo antico padre e vecchio Ensone
di giovinetta età il feci degno;
    né riguardai ancora a riprensione
ch'io non facessi morire il tuo zio,
per signor farti della regione.
    Tu il ti conosci e sai per certo ch'io
ogni cosa avre' fatta per piacerti,
non credendo che mai il tuo disio
    rivoltassi da me per più doverti
dare ad altrui. Deh, se altro diletto,
se non di me, due be' figli vederti
    ognor davanti non t'avesse stretto,
non dovei tu giammai donna nessuna
più abracciar nel mio debito letto,
    lo qual tu ora possiedi con una:
che s'io non fossi stata alla tua vita,
né lei né me avevi, né altra alcuna.
    Adunque a me, per Dio, ti rimarita ».



CANTO XXII

    Non rispondeva a nulla di costoro
quivi Gianson, ma Creusa abracciando
con lei traeva ditettevol dimoro.
    Io, che andava avanti riguardando,
vidi quivi Teseo nel Laberinto
al Minutauro pauroso andando.
    Ma poi che quel con ingegno ebbe vinto
che li diede Adriana, quindi uscire
lui vedev'io di gioia dipinto;
    al quale appresso Adriana venire
e con lei Fedra, e salir nel suo legno
e quindi forte a suo poter fuggire.
    Nel quale, avendo già l'animo pregno
del piacer di Adriana, lei lasciare
vedea dormendo e girsene al suo regno.
    Gridando desta la vedeva stare,
e lui chiamava piangendo e soletta
sopr'un diserto scoglio in mezzo mare:
    « Omè », dicendo, « deh, perché s'affretta
sì di fuggir tua nave? Aggi pietate
di me ingannata, lassa, giovinetta! »
    Segando se ne gia l'onde salate
con Fedra quelli, e Fedra si tenea
per vera sposa, per la sua biltate.
    Costei più innanzi un poco si vedea
accesa tutta di focoso amore
d'Ippolito, cui per figliastro avea.
    Ivi vedeasi lo sfacciato ardore
di Pasifè, che 'l toro seguitava
di sé chiamandol conforto e signore:
    ove con le man propie ella segava
le fresche erbette nel fogliuto prato
e con quelle medesme gliele dava.
    Spesso li suo' cape' con ordinato
stile acconciava e, della sua bellezza
prima l'occhio allo specchio consigliato,
    adorna venia innanzi alla mattezza
bestiale, e quivi parea che dicesse:
« Agraditi la mia piacevolezza?
    Certo se io solamente vedesse
che più ch'un'altra vacca mi gradissi,
non so che più avanti mi volesse ».
    Era di dietro a lei con gli occhi fissi
sopra 'l suo padre, Mirra scellerata,
né da lui punto li teneva scissi.
    Riguardando io costei lunga fiata,
quivi la vidi poi di notte oscura
esser con lui in un letto colcata.
    Correndo poi fuggir l'aspra figura
del padre la vedea, che conosciuta
avea l'abominevole mistura.
    Albero la vedeva divenuta
che 'l suo nome ritien, sempre piangendo
o 'l fallo o forse la gioia compiuta.
    Narcisso vidi quivi ancor sedendo
sopra la nitida acqua a riguardarsi,
di sé oltre 'l dovuto modo ardendo.
    Deh, quanto quivi nel ramaricarsi
nel suo aspetto mi parea piatoso,
e talor seco se stesso crucciarsi:
    « Omè », dicendo, « tristo doloroso,
la molta copia, ch'i' ho di me stesso,
di me m'ha fatto, lasso, bisognoso ».
    Cefalo poi, alquanto dietro ad esso,
vid'io posato aver l'arco e li strali
e riposarsi, per lo caldo fesso.
    « O aura, deh, vien con le fresche ali,
entra nel petto nostro! » tutto steso
stava dicendo parole cotali.
    Ma questo avendo già Pocris inteso,
cui ascosa vedea tra l'erbe e' fiori
in quella valle, con l'udire inteso,
    essendo in sospezion de' nuovi amori,
credendo forse che l'Aura venisse,
volle, e nol fece, intanto farsi fori.
    Tutta l'erba si mosse e Cefal fisse
gli occhi colà, credendo alcuna fiera,
e preso l'arco su lo stral vi misse,
    rizzando quel fra l'erba u' Pocris era,
e lei ferì nello amoroso petto.
Ella, sentendo il colpo, in voce vera:
    « Omè », gridò, « perché ebb'io sospetto
di quel ch'i' non dovea? » così diria
chi la vedesse ch'ella avesse detto.
    Venuto Cefalo: « L'anima mia,
or che face' tu qui? oimè lasso »,
dicea, « dogliosa omai mia vita fia,
    avendo te recato a mortal passo ».



CANTO XXIII

    Ristrinsemi pietà l'anima alquanto
ad aver compassion di quel dolente,
cui io vedeva far così gran pianto.
    Poi rimirando ad altro ivi presente,
vidi colui che il dolente regno
sonando visitò sì dolcemente:
    Orfeo dico, che col suo ingegno
fece le misere ombre riposare
con la dolcezza del cavato legno.
    Sonando ancora quivi il vidi stare
con Erudice sua, e mi parea
che il vedessi sonando cantare,
    sollazandosi, versi, e sì dicea:
« Amore, a questa gioia mi conduce
la fiamma tua che nel cor mi si crea.
    Amor, de' savi graziosa luce,
tu se' colui che 'ngentilisci i cori,
tu se' colui che 'n noi valore induce.
    Per te si fugano angosce e dolori,
per te ogni allegrezza ed ogni festa
surge e riposa dove tu dimori.
    O spegnitor d'ogni cosa molesta,
o dolce luce mia, questa Erudice
lunga stagion con gioia la mi presta!
    Sempre mi chiamerò per te felice,
per te giocondo, per te amadore
starò come fa pianta per radice ».
    A veder quel mi s'allegrava il core,
e 'mmaginando quelle parolette
a me, non che a lui, crescea valore.
    E poi, appresso a queste cose dette,
Diomede ed Ulisse si vedeano
divenuti merciai vender gioiette
    tra suore quivi, che queste voleano
in vista comperar, ma dall'un lato
spade ed archi forti posti aveano,
    saette ancor: de' quali avea pigliato
uno una suora ch'ivi stava presso,
e infino al ferro l'arco avea tirato.
    Onde parea dicesser: « Questi è desso,
questi è Acchille, cui andian cercando »,
e gir se ne volean quindi con esso.
    La qual cosa vedendo, sospirando
una sorella quivi contastava
a que' che lui andavan lusingando.
    Acchille gir con essi disiava,
e spogliandosi l'abito iveritta
come buon cavalier presto s'armava.
    Vedendo ciò Deidamia, trafitta
da grieve doglia, tutta scolorita
parea dicesse a lui allato ritta:
    « Omè, anima mia, o dolce vita
del cor dolente che tu abandoni,
di cui fia tosto, credo, la finita,
    in qua' parti vai tu? qua' regioni
cerchi tu più graziose che la mia?
deh, credi tu a questi due ladroni?
    deh, non t'incresce di Deidamia?
I' son colei che più che altra t'amo
e che più ch'altra cosa ti disia.
    In quant'io posso più mercé ti chiamo:
non mi ti torre, deh, non te ne gire,
non privar me di quel che io più bramo!
    sola mia gioia, solo mio disire,
sola speranza mia, se tu ten vai,
subitamente mi credo morire.
    In continova doglia e tristi guai
istarò sempre: deh, aggi pietate
di me, se grazia merita' giammai!
    Ahi lassa, or son così guiderdonate
tutte le giovinette ch'aman voi,
che di subito sieno abandonate?
    Ricordar certo credo che ti puoi
quanto onor abbi da me ricevuto,
e ancora puoi ricever, se tu vuoi.
    L'abito che t'ha fatto sconosciuto
sì lungo tempo per me 'l ricevesti,
per me segreto se' stato tenuto.
    E quando prima vergine m'avesti,
di mai partirti né d'altra pigliarne
sopra la fede tua mi promettesti.
    Perché altrove vuogli adunque andarne?
Di me t'incresca e del comun figliuolo
ch'abbian, se non ti duol la propia carne.
    Io so che tu vuogli ire al tristo stuolo
ch'è 'ntorno a Troia, ov'io dubito forte
che morto non vi sia e per gran duolo
    a me medesma non ne segua morte ».



CANTO XXIV

    Così pareva che costei dicesse
ed altro assai, a' prieghi della quale
non mi pareva ch'Acchille intendesse;
    e seguitava quelli al troian male,
contento più che d'esser lì rimaso,
dove quella era, a cui tanto ne cale.
    E 'nnanzi a lui, incerto del suo caso,
Briscida era trista, inginocchiata,
col viso basso e di baldanza raso.
    Tra l'altre cose quella sconsolata
piangendo mi parea che li dicesse:
« Deh, perché m'hai, Acchille, abandonata?
    Per te convenne ch'io mi dolesse
de' miei fratelli, i quali io più amava
che altra cosa ch'io nel mondo avesse;
    e, per l'amore che io ti portava
e porto, quella morte che tu desti
a lor dolenti non mi ricordava.
    Rapita me per forza ancor m'avesti,
come tu sai, e mia verginitate
a forza e contro a voglia mi togliesti.
    Omè, che allora la tua crudeltate
non conobb'io, ché l'animo sdegnoso
non t'avre' mai l'offese perdonate.
    Veduta sempre in abito cruccioso
m'avresti certamente, e così forse
non avrei dentro amor per te nascoso.
    Omè, quanto soperchio ve ne corse
quando con atti falsi mi mostrasti
ch'io ti piacessi, e questo il cor mi morse.
    Levastimi da te, poi mi mandasti
a Agamenòn come schiava puttana:
in quello il falso amor ben dimostrasti
    Eimè lassa, misera profana,
Briseida cattiva, che farai
abandonata in parte sì lontana?
    Non mi lasciar morire in tanti guai,
Acchille, aggi piatà di me dolente
che t'amo più che donna uom giammai!
    Deh, guardami con l'occhio della mente,
e prendati pietà di me alquanto »,
dicea colei, ma non valea niente.
    Ivi appresso costui vid'io che tanto
ardeva dell'amor di Pulisena,
ch'ogni miseria ed angoscioso pianto,
    periglio, affanno, guai o grave pena
delle su dette vendicava amore,
il qual fervente gli era in ogni vena;
    e per lei spesso mutava colore,
prieghi porgendo, e non erano intesi,
onde lui costringea grieve dolore.
    Rimirando ivi ancora vediesi
Sesto ed Abido, picciole isolette,
e 'l mar che le divide ancor pariesi.
    Sovvennemi ivi quando vi cadette
Ellès, andando di dietro al fratello
all'isola de' Colchi, ove ristette.
    Era notando ignudo nato in quello
mare Leandro, andando ver colei
cui più amava, vigoroso e snello.
    Venuta là alla riva costei
vedea con panni e ricever costui,
tutto asciugando lui dal capo a' piei;
    e poi vedeva quivi lei e lui
con tanta gioia standosi abracciati,
che simil non si vide mai in altrui.
    Ritornar poi il vedea per li usati
mari alla casa, e di far quel camino
suoi membri non parien mai affannati.
    A questo mare alquanto era vicino
Minòs, Alcatoè tenendo stretta
per forte assedio, volendo il destino
    romper di quel capel che nella vetta
del capo a Niso stava, che per esso
l'oste di fuor non avea sospetta.
    E quivi quella torre, ove fu messo
già lo strumento d'Appollo sonante,
vi si vedea rilucere appresso.
    Pareva in quella Silla fiammeggiante
dell'amor di Minòs, che a vedere
stava l'oste a sua terra davante.
    Venir la mi parea poscia vedere
avendo il porporin capel cavato
al padre, e a Minòs darlo, che 'l volere
    robusto suo facea del disarmato
Niso, privando lui della sua gloria:
Silla gittata poi nel mar salato,
    n'andava lieto della sua vittoria.



CANTO XXV

    Era più là Alfeo, con le sue onde
piegate intorno e dietro ad Aretusa,
con quelle terre che correndo infonde.
    Là era Egisto ancor, che per iscusa
del sacerdozio non andò a Troia
ma Clitemestra si tenea inchiusa,
    lei imbracciata e prendendone gioia
a suo piacere, ben che poco appresso
le ne seguisse sconsolata noia.
    Oh, come quivi, alquanto dop'esso,
seguian Cannace e Macarco dolenti,
divisi per lo lor fallo commesso!
    Non molto dopo lor così scontenti
Biblide vidi lì, che seguitava
il suo fratel con atti motto ardenti.
    Molto pietosamente a lui andava
dietro parlando, sì come parea
negli atti suoi che quivi dimostrava.
    « Ahi dolce signor mio », ver lui dicea,
« deh, non fuggir, deh, prendati pietate
di me che per te vivo in vita rea!
    Guarda con l'occhio alquanto mia biltate,
pensi l'animo tuo il mio valore,
lo qual perisce per tua crudeltate.
    Io non t'ho per fratel ma per signore:
vedi ch'io muoio per la tua bellezza,
per te piango, per te si strugge il core.
    Non tener più ver me questa fierezza,
e 'l superfluo nome di fratello
lascialo andar, ch'a tenerlo è mattezza.
    Aiutami, che puoi, e farai quello
che più aspetta quella che si sface
considerando il tuo aspetto bello.
    Riso, conforto ed allegrezza e pace
render mi puoi, se vuoi: dunque che fai?
Deh, contentami alquanto, se ti piace!
    Vedi ch'io mi consumo in tanti guai,
ch'altra neuna mai ne sentì tanti
per te, cui io disio, e tu tel sai.
    Omè, fortuna trista delli amanti!
come coloro che non sono amati
amando altrui, da tua rota son franti!
    Se tu riguardi però che chiamati
sorella e frate sian, non è niente,
com dissi, e minor fieno i tuoi peccati
    togliendomi dolor, che se dolente
morir mi fai per non aconsentire
a quel che sol disia la mia mente.
    Rivolgiti, per Dio, deh, non fuggire!
pensa ch'ogni animal tal legge tene
quale a te chiede il mio forte disire.
    A te molto più tosto si conviene
in questo atto fallir, che dispietato
farmi morir nelle noiose pene ».
    Biblide trista, quanto t'è in disgrato
veder colui, che ti dovria atare
da chi noia ti desse in alcun lato,
    il tuo dolore in te forte aggregare!
e non che voglia fare il tuo disio,
ma tue parole non vuole ascoltare.
    Là poi appresso, al mio parer, vid'io
Fillis allato star a Demofonte
e pianger sé di lui in atto pio.
    Tutta turbata sue parole conte
li profferia, ricordandoli ancora
quant'ella e le sue cose tutte pronte
    al suo servigio furono, e com'ora,
a lei fallita la promessa fede,
per troppo amor dolor grieve l'acora.
    Tra questi, oltre nel prato, vi si vede
Meleagro e Atalanta che ciascuno
segue un cinghial con solecito piede,
    e quanto ad esso sforzandosi ognuno
offende, accesi d'amoroso foco,
non lasciandoli affar danno nessuno.
    Costor preiva, più avanti un poco,
Aconzio in man con la palla dell'oro
ch'a Cidipe gittò nel santo loco,
    e quella quivi ancor facea dimoro:
dicendo a lei Aconzio che sua era,
ella negandol, parlavan fra loro;
    riguardando l'un l'altro, in tal maniera
Cidipe a lui dicendo: « Se ingannata
fu' i' da te, la mia voglia non v'era;
    ché, s'io mi fossi della palla addata,
non l'avria mai rimirata né letta,
anzi l'avrei tosto indietro gittata:
    onde mai non m'avrai e questo aspetta ».



CANTO XXVI

    Com'io mirando andava quel giardino,
vi vidi in una parte effigiato
Ercule grande a Cidipe vicino;
    ove con lui sedeva dall'un lato
Iole piacente e bella nello aspetto,
cui presa avea nel paese acquistato.
    Non mirava Ercule altro che 'l conspetto
di lei, e quindi tanta gioia prendea
che duol li fora stato altro diletto.
    Ramaricando dopo lui vedea
istar tutta turbata Deianira,
perch'a sé ritornarlo non potea.
    Il molle petto acceso in foco d'ira
mostrava ch'ell'avesse, ognor soffiando
forse per rabbia che in lei si gira.
    Ma, poco spazio, parea che parlando
dicesse a lui: « O signor valoroso,
volgiti a me, come tu suoli, amando,
    e lascia cotestei, cui poderoso
guadagnasti per serva e 'l suo paese
insieme, con vittoria glorioso.
    Non senti tu ch'a ogni uomo è palese
quel che la fama ora in contrario sona,
di te, alle passate tue imprese?
    Veramente di te ogni uom ragiona,
ché tu col forte dito quella lana
fili che Iole pesando ti dona.
    Ogni uomo ancora, ch'abbia mente sana,
crede che tu il canestro con le fusa
porti di dietro alla giovane strana.
    Vogliono ancora dire ch'ella t'usa
in ciascuno atto come servidore,
né ti giova donare alcuna scusa.
    È così ismarrito il tuo valore
che tu non pensi alle cose passate,
ogni virtute obliando ed onore?
    forse t'ha ella le forze levate
con alcun suo ingegno falsamente,
come le donne fanno alle fiate?
    Almen non dovria mai della tua mente
trar quel che tu in culla ancor facesti,
l'uno uccidendo e poi l'altro serpente.
    Ricordar de' ti ancor che uccidesti
Busiri, ed in Libia il grande Anteo
della Terra figliuolo ancor vincesti.
    Vinto traesti quel Cerbero reo
ch'avea tre teste, e tu con tre catene
legasti lui poi ch'a te si rendeo.
    Il drago ancora con sudanti pene,
ch'ognor sanza dormir i pomi d'oro
guardando stava, fu morto da tene.
    I forti corni al furioso toro
rompesti, ed i Centauri domasti
quando di pria combattesti con loro.
    Or non fostù colui che consumasti
l'Idra, che doppi capi in suo aiuto
rimettea quando gliele avevi guasti?
    non fu da te il guastator feruto
d'Arcadia? sì fu, e fu colui
ch'avea di carne umana riempiuto
    ogni suo armento, togliendo l'altrui,
da te ucciso; e quel Cacco rubesto
tu uccidesti, rubato da lui,
    reggendo ancora dopo tutto questo
il ciel gravante sopra le tue spalle,
ch'a ogni altr'uom saria stato molesto.
    E s'io volessi andar per dritto calle
ogni vittoria a tua mente rendendo,
io avrei troppo a fare a racontalle.
    Queste so c'hai a mente: or dunque, essendo
sanza pazzia, talora fra te stesso
non ti vergogni tu Iole seguendo?
    Volesse Iddio che tu giammai a Nesso
non m'avessi levata, che mi amava,
e forse in gioia or mi sarei con esso!
    E non per tanto io non imaginava
che mai per altra donna mi lasciassi,
poiché te per altrui io non lasciava.
    Se quella con cui tu ora ti passi
ismemorato in festa ed allegrezza,
tanta virtù in lei forse trovassi,
    tanto piacere e tanto di bellezza
quanto in me, io non riputerei
l'aver lasciata me fosse mattezza.
    Ognora più di ciò ti loderei:
ma s'io ho ben la sua bellezza intesa,
certo io son molto più bella di lei.
    Molto mi tengo in questa parte offesa;
ma torna a me e tutto ti perdono,
e la tua forza in bene ovrar palesa:
    io cheggo a te di grazia questo dono ».



CANTO XXVII

    Mostravasi ivi ancora effigiata
la valle d'Ida profonda ed oscura,
d'alberi molti e di frondi occupata,
    ove io discernetti la figura
di quel Parìs, piacevole Troiano,
per cui Troia sentì la sua arsura.
    Sol si sedeva là nel loco strano,
davanti al qual Pallade, Giuno e Venere
eran con una palla d'oro in mano.
    Sanza alcun vestimento ignude, tenere,
bianche e vermiglie quivi e dilicate
le mi pareva nel sembiante scernere;
    e diceano a Parìs: « In cui biltate
di noi più vedi, questo pomo d'oro
donalo a lei, quando ci avrai avisate ».
    Dal capo al piè rimirava costoro
Parìs: ciascuna bella lì parea,
onde fra sé dicea: « Deh, quale onoro? ».
    Ognuna d'esse ad esso promettea
e chi senno e chi ricchezze e chi amore
di bella donna, pur ch'a lei la dea.
    Non si sapea esaminar nel core
Parìs qual d'esse più biltate avesse,
né qual ben si pigliar per lo migliore.
    Nel lungo esaminare infine elesse
Venus per la più bella, e diella a lei,
sub condizion che ella gli attenesse
    a farli avere in sua balia colei,
cui ella avea lodata per sì bella,
che nulla v'era simile di lei.
    A cui pareva che rispondesse ella:
« Va tu per essa, ché col mio aiuto
io farò sì che tua si sarà quella ».
    Costui vid'io, poco appresso, saluto
sur una nave e dar le vele al vento
e tosto in Ispartèn esser venuto;
    ove disceso, sanza tardamento,
andando Menelao inverso Creti,
a fornir cominciò suo intendimento.
    Ma dopo molte cose, quivi lieti
egli ed Elena bella e graziosa
saliti in nave, pe' salati freti
    poste le vele, sanza alcuna posa
tornava a Troia, e quivi si mostrava
la vita lor quanto fosse gioiosa.
    Ivi Oenone ancora lagrimava
il perduto marito e con pietose
parole a sé invano il richiamava.
    Là si vedea Ifi e Iante amorose
far festa pria che maschio ritornasse
que' che 'l suo sesso tanto tempo ascose.
    Appresso mi parea che seguitasse
Laudomia bella sospirando,
come se del suo mal s'indovinasse.
    Raviluppata tutta e non curando
di sé, Protessilao di bella cera
s'aveva fatto, lui raffigurando;
    e poi a quella innanzi posta s'era
in ginocchion, dicendo: « Signor mio,
se io ti sono amanza e donna vera,
    leal come dicesti, fa che io
ti veggia ritornar con quella gloria,
ch'io l'arme tue presenti al forte iddio.
    A que' c'hanno mestier della vittoria,
lasciali pria combatter, e il periglio
propio fuggi: ch'ognor ch'a memoria
    viemmi quel ch'io già in alcun pispiglio
udii d'Ettòr, che tanti cavalieri
contasta combattendo, ogni consiglio
    in me fugge di me, e volentieri
nel tuo andare ti vorrei aver detto
ch'alla battaglia tu fossi il derrieri.
    Sola mia gioia, solo mio diletto,
fa sì ch'io sia di tua tornata lieta,
ché sanza te mai gioia non aspetto ».
    In tal maniera quivi mansueta
si stava Laudomia, tal volta
d'angosciosi sospir tutta repleta.
    Or era ancora verso lei rivolta
Penelopè, che aspettando Ulisse
giammai non fu dal suo amor disciolta.
    Nella qual tenend'io le luci fisse,
fra me volvea quanto fosse il disire
di que' che mai non cre' ch'a lei reddisse,
    e quanto volle del mondo sentire,
ché per voler veder trapassò il segno
dal qual nessun poté mai in qua reddire,
    io dico forza usando né suo ingegno.



CANTO XXVIII

    Non so chi sì crudel si fosse stato
che, quel ch'io vidi appresso rimirando,
di pietà non avesse lagrimato.
    Pareva quivi apertamente quando
Dido partissi in fuga dal fratello,
e similmente come, edificando
    a più poter, Cartagine nel bello
e util sito faceva avanzare,
e come a 'ngegno l'abitava quello.
    Ricever quivi Enea ed onorare
lui e' suoi ancor vi si vedea
liberamente; e sanza dimorare
    oltre mirando, ancora mi parea
vederle in braccio molto stretto Amore,
ben che Ascanio aver vi si credea;
    lo qual basciando spesso, del suo ardore
prendea gran quantità occultamente,
tuttor tenendol nel segreto core.
    Eravi poi come insiememente
costei con Enea ed altri assai
a caval giva onorevolmente,
    ripetend'ella in sé quel che giammai
più non pareva a lei aver sentito,
fuor per Sicceo, sì com'io avisai.
    Il chiaro viso bello e colorito,
mirando Enea con benigno aspetto,
tornava bianco spesso e scolorito.
    Ma pervenuti quivi ad un boschetto,
lasciando i cani a' cerbi paurosi
di dietro, incominciaro il lor diletto.
    Altri cornavano ed altri animosi
correvan dietro, e gridando faceano
i can più per lo grido valorosi.
    Tutto un gran monte già compreso aveano
i cacciatori, e 'n una valle oscura
Dido ed Enea rimasi pareano.
    E sì faccendo, fuor d'ogni misura
un vento quivi pareva levato,
che di nuvoli avea già la pianura
    chiuso ed il monte ancora: onde tornato
pareva il sole indietro e divenuto
oscura notte il dì in ogni lato.
    Horribili e gran tuon ciascun sentuto
aveva, e lampi venivano ardenti
con piover tal che mai non fu veduto.
    Enea e Dido là fuggian correnti
in una grotta, e la lor compagnia
perduta avean, di ciò forse contenti.
    Ivi parea che Dido ad Enea pria
parlasse molte parole amorose,
dopo le quali suo disio scopria:
    ove Enea ascoltar quelle cose
vedeasi, lei, abracciata tenere,
e quel fornir che ella li propose.
    Venuti poi al lor reale ostiere
ed in tal gioia lungo tempo stati,
l'uno adempiendo dell'altro il piacere,
    in quel luogo medesimo cambiati
vi si vedea dell'uno i sembianti
e dell'altro i voleri esser mutati.
    Molto affrettando li suoi navicanti
Enea vi si vedea per mar fuggire,
le vele date all'aure soffianti.
    A cui Dido parea di dietro dire:
« Omè, Enea, or che t'aveva io fatto
che fuggendo disii il mio morire?
    Non è questo servar tra noi quel patto
che tu mi promettesti: or m'è palese
lo 'nganno c'hai coperto con falso atto.
    Deh, non fuggir! Se l'essermi cortese
forse non vuogli, vincati pietate
almen de' tuoi, che vedi quante offese
    ognora ti minaccian le salate
onde del mar, per lo verno noioso
ch'ora 'ncomincia; e già hanno lasciate
    qualunque leggi nel tempo amoroso
sogliono avere i venti, e ciascheduno
esce a sua posta e torna furioso.
    Vedi ch'ad ora ad or ritorna bruno
l'acre e nebuloso e molti tuoni
e lampi lui percuotono, e nessuno
    impeto è che or non s'abandoni
e faccia danno; e tu col tuo figliuolo
ora cercate nuove regioni!
    Posati adunque tu ed il tuo stuolo,
lasciami almeno apparare a biasmarmi
immaginando il mio etterno duolo:
    e poi, se tu vorrai, potrai lasciarmi ».



CANTO XXIX

    Riversata piangendo quivi appresso
si stava Dido in sul misero letto,
dov'era già dormitasi con esso,
    maladicendo sé e 'l tristo petto
pien d'aspre cure aspramente battendo,
ripetendo ivi il perduto diletto.
    In atto mi parea così dicendo:
« O doloroso luogo nel qual fui
già con Enea, tanta gioia sentendo,
    omè, perché come ci avesti dui,
due non ci tieni? perché consentisti
che te giammai vedessi sanza lui?
    A' miei sconsolati membri e tristi
porgi con falsa immagine letizia,
quando per te li spando, ove copristi
    molte fiate già quel che 'n tristizia
ora mi fa sanza cagione stare
per lo suo inganno e coperta malizia ».
    Oh come trista lì ramaricare
la vi vedea con quella spada in mano
che fé poi la sua vita terminare!
    Rompendosi le nere veste, invano
chiamando il nome d'Enea che l'atasse,
si pose quella al suo petto non sano:
    e poi sopr'essa parve si lasciasse
cader piangendo e sospirando forte,
perché la spada di sopra passasse.
    Forata quivi, dolorosa morte
l'occupò sopra 'l letto ove sedea
prima piangendo sua misera sorte.
    Appresso questo, al mio parer,
vedea tanto contenti Florio e Biancifiore,
quantunque più ciascuno esser potea:
    tututto il lor trapassato dolore
v'era dipinto, degno di memoria.
pensando al lor perfettissimo amore.
    E dopo questa piacevole storia,
vi vidi Lancilotto effigiato
con quella che sì lunga fu sua gloria.
    Lì dopo lui, dal suo destro lato,
era Tristano e quella di cui elli
fu più che d'altra mai innamorato;
    e più assai ancora dopo a quelli
n'avea ch'io non conobbi, o che la mente
non mi ridice bene i nomi d'elli.
    Ond'io, che 'n maggior parte la presente
faccia compresa avea, ritornai 'l viso
a quella donna più ch'altra piacente.
    Nol so, ma credol che di Paradiso
ella venisse, come io già dissi,
tant'ha biltà, valore e dolce riso.
    -- Oh felice colui --, con gli occhi fissi
a lei allora a dire incominciai,
-- cui tu del tuo piacer degno coprissi!
    Ringraziato possa esser sempre mai
il tuo Fattore, sì com'elli è degno,
veggendo le bellezze che tu hai.
    Se un'altra volta il suo beato ingegno
ponesse a far sì bella creatura,
credo che lieto il doloroso regno
    E' metterebbe in gioia fuor di misura,
che' santi scenderieno alla tua luce
e que' d'abisso verrieno in altura --,
    -- Con quanta gioia, credo, si conduce
ciascun di questi ch'è pien della grazia
di quel --, ricominciai, -- che qui è duce.
    Oh quanto è glorioso chi si spazia
ne' suoi disii mediante questo,
se con vile atto tosto non si sazia!
    Non è occulto ciò, poscia che presto
chi più ha pena più oltre s'invia
a volerne sentir, ben che molesto,
    dolendo sé, altrui dica che sia:
dunque se questo martire è soave,
la pace che ne segue chente fia?
    Oh quanti e quali già il tenner grave
ch'avrieno il collo a via maggior gravezza
posto, sappiendo il dolce che 'n sé have!
    Invidiosi alcuni dicon mattezza
esser seguir con ragion quello stile
che dà questo signor di gentilezza,
    lo qual discaccia via ogni atto vile:
piacevole, cortese e valoroso
fa chi lui segue e più ch'altro gentile.
    Superbia abatte, onde ciascun ritroso
o di vil condizione esser non puote
di sua schiera, e quinci invidioso
    va ischernendo que' cui e' percuote --.



CANTO XXX

    Volendo porre fine al recitare,
ch'a tutto dir troppo lungo saria,
tanto più ch'io non dico ancor vi pare,
    a quella donna graziosa e pia
che dentro alla gran porta principale
col suo dolce parlar mi mise pria,
    lei mirando, volta'mi: -- Oh quanto vale --,
dicendo, -- aver vedute queste cose
che diciavate ch'eran tanto male!
    Or come si porria più valorose,
che queste sien, giammai per nullo avere
o pensare o udir più maravigliose? --.
    Rispose allor colei: Parte vedere
quel ben che tu cercavi qui dipinto,
ché son cose fallaci e fuor di vere?
    E' mi par pur che tal vista sospinto
t'abbia in falsa oppinion la mente,
ed ogni altro dovuto ne sia stinto.
    Adunque torna in te debitamente:
ricorditi che morte col dubioso
colpo già vinse tutta questa gente.
    Ver è ch'alcun più ch'altro valoroso
meritò fama, ma se 'l mondo dura
e' perirà il suo nome glorioso.
    È questa simigliante alla verdura
che vi porge Ariete, che vegnendo
poi Libra appresso seccando l'oscura.
    Nullo altro ben si dee andar caendo
che quello ove ci mena la via stretta,
dove entrar non volesti qua correndo.
    Deh, quanto quello a' più savi diletta,
grazioso ed etterno! ed io il ti dissi
quando d'entrar pur qui avesti fretta.
    Or dunque fa che più non stieno fissi
gli occhi a cotal piacer: ché se tu bene
quel ch'egli è con dritto occhio scoprissi,
    aperto ti saria che 'n gravi pene
vive e dimora chiunque ha speranza
non saviamente, e a cotai cose tene.
    Tu t'abagli te stesso in falsa erranza
con falso immaginar, per le presenti
cose che son di famosa mostranza.
    Ed io, acciò che' vani avedimenti
cacci da te, vo' che mi segui alquanto;
e mosterrotti contro a quel ch'or senti,
    mostrandoti la gioia e 'l lieto canto
de' tristi, che 'n ta' cose ebber già fede,
mutarsi in brieve in doloroso pianto.
    Potrai veder colei, in cui si crede
essere ogni poter ne' ben mondani,
quanto arrogante a suo mestier provede,
    or dando a questo, or ritornando vani
ciò che diede a quell'altro, molestando
in cotal guisa l'intelletti umani.
    Per quel potrai veder vero, pensando
quanto sia van quel ben che' vostri petti
va sanza ragion nulla stimolando;
    onde, seguendo que' beni imperfetti
con cieca mente, morendo perdete
il potere acquistare poi i perfetti.
    In tal disio mai non si sazia sete:
dunque a quel ben, che sempre altrui tien sazio
e per cui acquistar nati ci sete,
    dovrebbe ognuno, mentre ch'egli ha spazio,
affannarsi ad avere. Omai andiamo,
ché già il luminoso e gran topazio
    in sulla seconda ora esser veggiamo
già sopra l'orizonte, ed il cammino
è lungo al poco spazio che abbiamo.
    Ma io spero che 'l voler divino
ne farà grazia, ed io così li cheggio,
ched e' non ci fallisca punto infino
    entrati sarem là, ove quel seggio
del perfetto riposo è stabilito
per que' che non disian d'aver peggio --.
    Poi ch'io ebbi sì parlare udito
a quella donna, io le rispuosi: -- Andate,
nullo mio passo fia da voi partito.
    In questo sol vi priego che m'atiate,
che là dove 'l disio mi trasportasse
contra vostro piacer, mi correggiate --.
    Ella mostrò negli atti ch'accettasse
la mia domanda, e mossesi e rivolta
mi disse allora ch'io la seguitasse.
    Tutti e tre insieme, avvegna che con molta
fatica, la seguimmo, e la cagione
fu perché quistionammo alcuna volta
    a non voler seguir sua mostrazione.



CANTO XXXI

    Tosto finì il suo cammin costei,
che di quel loco per una portella
in altra sala ci menò con lei.
    Ell'era grande, spaziosa e bella,
ornata tutta di belle pinture,
sì come l'altra ch'è davanti ad ella.
    Oh quanto quivi in atto le figure
si mostravan tututte variate
dall'altre prime e non così sicure!
    Color con festa e con gioconditate
parevan tutte con be' vestimenti,
costor con doglia e con avversitate.
    Hai, quanto quivi parevan dolenti
e spaventati, qualunque vi s'era,
con vili e poverissimi ornamenti!
    Ivi vid'io dipinta, in forma vera,
colei che muta ogni mondano stato,
tal volta lieta e tal con trista cera,
    col viso tutto d'un panno fasciato,
e leggermente con le man volvea
una gran rota verso il manco lato.
    Horribile negli atti mi parea,
e quasi sorda a niun priego fatto
da nullo lo 'ntelletto vi porgea;
    e legge non avea né fermo patto
negli atti suoi volubili e incostanti,
ma come posto talor l'avea fratto:
    volvendo sempre ora 'n dietro ora avanti
la rota sua sanza alcun riposo,
con essa dando gioia e talor pianti.
    « Ogni uom che vuol montarci su sia oso
di farlo, ma quand'io 'l gitto a basso
inverso me non torni allor cruccioso.
    Io non negai mai ad alcuno il passo
né per alcun mia maniera mutai,
né muterò, né 'l mio girar fia lasso,
    venga chi vuol ». Così immaginai
ch'ella dicesse, perché riguardando
dintorno ad essa vi vid'io assai,
    i qua' su per la rota aderpicando
s'andavan con le man con tutto ingegno,
fino alla sommità d'essa montando.
    Saliti su parea dicesser: « Regno »;
altri cadendo en l'infima cornice
parea dicessero: « Io son sanza regno ».
    In cotal guisa un tristo, altro felice
facea costei, secondo che la mente,
la qual non erra, ancora mi ridice.
    Allor rivolto alla donna piacente
dissi: -- Costei, ch'io veggio qui voltare,
conosco io per nimica veramente.
    Tra l'altre creature a cui mi pare
dover portar più odio, questa è dessa,
però ch'ogni sua forza ed operare
    ell'ha contra di me opposta e messa:
né prieghi, né saper, né forza alcuna
pacificar mi può giammai con essa.
    Ognora nella faccia persa e bruna
mi si mostra crucciata e sempre a fondo
della sua rota mi trae dalla cuna,
    gravandomi di sì noioso pondo
che levar non mi posso a risalire,
onde giammai non posso esser giocondo --.
    Ridendo allor mi cominciò a dire
la donna: -- Allora e' tu se' di coloro
ch'alle mondane cose hanno 'l disire?
    ai quali se ella desse tutto l'oro
che è sotto la luna, pure aversa
riputerebber lei a' voler loro.
    Torrotti adunque di cotal traversa
oppinione, e mostrerotti come
più son beati que' che l'han perversa.
    Il dir Fortuna è un semplice nome,
il posseder quel ch'ella dà è vano,
o sanza frutto affanno se ne prome.
    Odirai come: e se 'l mio dire estrano
è dalla verità, conceder puossi
che seguir vizio sia al salvar sano.
    Solamente da te vo' che rimossi
sieno i pensier fallaci, se procede
il mio parlar con ver, sì che tu possi
    inter vedere come si concede
che quel che più al vostro intendimento
agrada, piú con gravezza vi lede --.
    Allora rispos'io: -- Io son contento,
donna, d'udire, acciò che 'l mio errore
io riconosca, però che io sento
    non aver nulla esser grave dolore --.



CANTO XXXII

    Incominciò allor costei a dire:
-- Voi, terreni animal, disiderate
i voler vostri tututti seguire
    mediante costei, cui voi chiamate
Fortuna buona e rea, secondo ch'essa
vi dà e to' mondana facultate.
    In prima alcuni domandon ad essa
molta ricchezza, credendosi stare
sanza bisogno alcun possedendo essa.
    Vaghi sono altri sol di poter fare
sii che avuti sieno in reverenza
da tutti, e 'n ciò s'ingegnan d'avanzare.
    In alcuni altri aver somma potenza
par sommo bene, e questo van cercando,
tanto gli abaglia la falsa credenza.
    Risplendere altri si vanno ingegnando
di nobil sangue ed il nome famoso
o per guerra o per pace van cercando.
    Tai son che credon ch'esser copioso
di volontà carnal, ch'è van diletto,
faccia chi ciò possiede glorioso.
    Vogliono alcuni, acciò che il difetto
del non poter si rivolga in potere,
ricchezza, e per poter porre in effetto
    ogni libidinoso lor piacere;
così figliuoli alcuni, altri altre cose,
e questo interamente hanno in calere.
    Se forse una di queste hanno ritrose
al lor volere, qualunque s'è quello
ch'alcuna aver nell'animo propose,
    incontanente con animo fello
contra questa si turba ed essa dice
nimica, e forse fu difetto d'ello.
    Intendi adunque e vedi che felice
costei non puote giammai fare alcuno,
posto che del mondan sia donatrice.
    Non vedi tu che e' non è nessuno,
che abondi in ricchezze, che non sia
d'ogni riposo e diletto digiuno?
    Continovo nell'animo li fia
pensiero e cura di poter guardarle,
temendo di nascosa tirannia.
    Vedi dunque che bene ha d'ammassarle,
poiché insidie tutto tempo teme
ed in più quantità voler recarle.
    Il povero uom di tal cosa non geme,
né perde sonno, né lascia sentiero,
sol di sua vita trar pensiero il preme:
    alla quale, a voler narrare il vero,
poco li basta, ma il ricco avaro
di molto aver non ha suo disio intero.
    Me' puote ancora il ricco dar riparo
alle fami ed a' freddi, ben che puro
le sente alcuna volta, o spesso o raro.
    Or quinci segue al pover che sicuro
vive di non cader, né spera mai
che caso fortunal li paia duro.
    Ricchezza adunque, quand'ella è assai,
più fa indigente il suo posseditore,
con più pensier, con più cura e più guai.
    Colui che vuol per dignitate onore,
veggian, se la Fortuna gliel concede,
s'egli avrà quel che e' disia nel core.
    Or non agli occhi di qualunque vede
è manifesto che tornan viziosi
tantosto che neuna ne possiede?
    Ma se per quelle forse virtuosi
ne ritornassero, io consentirei
che tutti voi ne fosti disiosi.
    E d'altra parte dignità i rei
fa manifesti, ed ogni lor mancanza
è conosciuta più ch'io non potrei
    né parlar, né mostrar: dunque v'avanza
questa se vi si mostra allor turbata,
quando chiedendo state in tale erranza.
    Beati alcun si diceria se data
fosse lor forse potenza reale,
non conoscendo il mal di ch'è vallata.
    E questa podestà niente vale,
ch'ella non può fuggire il duro morso
della sollecitudine, che male
    a lei non faccia, né può dar soccorso
a quel noioso e rigido tormento
che di paura dà l'amaro sorso.
    Togliendo questa cotal reggimento,
pace vi dona dove guerra avreste,
e voi nol conoscete; onde, scontento
    ogni uom, pur quel, che dar non vuol, vorreste --.



CANTO XXXIII

    La nobiltà del sangue altri a costei,
domanda, come se veracemente
sì fatto don procedesse da lei.
    Oh quanto a domandare stoltamente
si muovon questi, se l'operazioni
non seguono il disio della lor mente!
    Colui che con perpetue ragioni
governa il mondo, come sol fattore
d'esse, crea nelle sue regioni
    ogni anima che nasce, con amore
iguale; e quella si muove da Lui
vegnendo lieta al generato core.
    Considerando dunque che Costui
sia solo e falle egual, conosceremo
così gentil costui come colui,
    e però manifesto vederemo
che chi seguisse la diritta via
delle virtù, come da Lui avemo,
    l'un come l'altro così gentil fia;
e chi da questa torce si può dire
non che villano ma una bestia sia.
    A questi puo' tu dir che in disire
vien d'esser forse tenuti gentili,
e cercan ciò per lor vizii coprire.
    Tieni or ben mente e vedi quanto vili
sien lor domande, ché, s'ella concede,
superbi tornan dov'erano umili:
    onde da questo poi spesso procede
ched elli scoppian niente tornando,
per che, s'ella nol fa, vie men li lede.
    Tratti ciascun, con virtute operando,
d'aver ta' lode, ché questa giammai
non gliel torrà la sua rota voltando.
    E chi la vuole in altro modo guai
va dimandando, e 'l come gli è coperto;
e se ben guardi tu te n'avedrai.
    Né ciò è lungamente lor sofferto,
ché degno guiderdon dalla giustizia
etterna è lor di ciò in brieve offerto.
    Ed alcuni altri son che gran letizia
fanno, quando costei concede loro
lussuriando poter lor malizia
    in operazion porre; e di costoro
è il numero grande, i qua' beati
tengonsi quanto più a tal lavoro
    lusingando ne recano i malnati;
e se questo costei forse lor niega,
incontanente ver lei son turbati.
    Se ella forse copiosa spiega
tal grazia a' domandanti, in aspra pena,
non conoscendolo essi, i tristi lega.
    Vorrieno alcuni aver la borsa piena
per poter comandare: oh quanto senno
poco costor per via malvagia mena!
    Or credono e' che minaccevol cenno
faccian le lor ricchezze: anzi il faranno
quelli a cui per guardarle subbietti enno.
    Già puoi veder che gli uomin poco sanno,
ché per aver delle cose mondane
consuman sé con non utile affanno.
    In brieve adunque queste cose vane
si consumano e passano, e dovreste
in ciò tututti aver le menti sane,
    ognor veggendo ciò ch'avien di queste,
come partendo e tornando tal volta
le menti vostre fanno liete e meste.
    Costei, di cui parliam, s'a voi rivolta
con tristo viso vi si mostra spesso,
(se ben hai tutta mia ragion raccolta,
    ov'io ho quasi tutto quanto messo
il suo poter) vi dovria rallegrare,
e non porger dolor negandovi esso.
    Nostro verace ed util ragionare
troppo si stenderia volendo intero,
ciò che dir si porria, d'essa parlare.
    Di ciò ch'è detto basti, e con sincero
parere fa che il prendi, sì che forse
non tragghi error del mio lucido vero.
    Ogni parer che 'l rimirar ti porse,
di là vedendo, caccia e quel disio
massimamente che di lor ti morse:
    fiso mirando quello per che io
qua entro ti menai, fa che col viso
segui com'io col mio parlar m'invio.
    Ogni mondan valor vedrai conquiso
in termine assai brieve: fa ch'ascolti
e che non sia dal tuo intender diviso
    ciò ch'io dirò qui appresso di molti --.



CANTO XXXIV

    -- Horribilmente percuote costei --,
cominciò ella a dir, -- chiunque sale
su la sua rota fidandosi a lei;
    onde ciascun, ch'è qui, per cotal male
piangendo si ramarca, ed essa vedi
che di tal pianto niente le cale.
    Il suo officio fa, e vo' che credi
che rade volte aspetta il suo girare
che lo stato di uno a' terzi eredi
    venga, ma con mirabile voltare
dà a costui a quell'altro levando,
come vedi un salire, altro abassare.
    Intento dunque quivi riguardando
puo' tu veder quella città caduta
che Cadmo fece, lo bue seguitando.
    Potente e grande, più ch'altra tenuta
ch'al mondo fosse, allora fu, ed ora
di pruni e d'erbe la vedi vestuta,
    ruvinati gli ostier, né vi dimora
altro che bestie salvatiche e fiere,
e quanto fosse grande parsi ancora.
    Iocasta trista vi puo' tu vedere
ch'al figlio moglie misera divenne,
ben ch'avenisse sanza suo sapere;
    e vedi que' che questa tutta tenne
contra 'l voler del frate, per cui questo
distruggimento misero n'avenne.
    Giace con lui in quel fuoco molesto,
che quivi vedi, il frate, che amendui
fu l'uno all'altro uccider così presto.
    Oltre un poco poi vedi colui
che sopra 'l mur da Giove fulminato
fu, dispregiando ancor negli atti lui.
    Con questi vedi Adastro allato allato,
con gli altri regi che l'accompagnaro
a quel distrugimento dispiatato.
    Vedi Tideo, vedi il pianto amaro
che fer le triste che a compimento,
in ristoro del duol, la consumaro.
    Non t'è occulto or quanto mutamento
dal bene al mal fosse quel di costoro,
e quasi fu in un picciol momento.
    Pon mente poi un poco dietro a loro:
Troia vedrai e 'l superbo Ilione,
ch'a pena alcuna parte par di loro.
    Ora non v'ha né tetto né magione,
ma qual caduto e qual arso si mostra,
come tu vedi, e sai ben la cagione.
    Così costei con cui le piace giostra,
sempre abattendo chi s'oppone ad essa;
ma perseguiamo alla materia nostra.
    Or mira a piè della città depressa,
e vedi que' che già ne fu signore
quando da' Greci fu con forza aggressa:
    Priamo dico, il cui sommo valore,
la sua ricchezza, la fama e l'ardire,
i molti figli, il potere e l'onore
    raccontar non porriasi mai né dire;
questa arsa e' figli morti innanzi ad esso
tututti vide avanti il suo morire.
    Ecuba trista puoi vedere appresso
per doglia andar latrando come cane,
morte chiamando, che l'uccida, spesso.
    Similemente ancor delle troiane
genti vi vedi assai in sanguinoso
lago star morte e d'ogni possa vane.
    Tra gli altri puoi vedere il valoroso
Ettor giacer, e non li valse niente
contra costei il suo esser famoso.
    Ivi Parìs ancora, insiememente
Troiolo, Polidoro e Pulisena
veder puoi tu giacere assai vilmente.
    Agamenòn insieme e la sua pena:
poi ch'ebbe Marte e Nettunno avanzato,
vedi ch'Egisto a lui l'ultima cena,
    togliendoli la vita, dà, ingannato
lui col vestir malizioso e fallace,
nel quale e' tristo s'è raviluppato.
    E vedi ancor Senacherìb che giace
morto dentro a quel tempio, e vedi Enea
che Turno, il qual si credea stare in pace,
    lui caccia via. -- E appresso parea
Serse dolente e tristo nello aspetto,
del passare Ellesponto ancor piangea.
    Oh quanto pien di furia e di sospetto
Atamante teban, che uccise i figli,
quivi parea, nel sembiante dispetto,
    nelle lor carni ancor con tristi artigli!



CANTO XXXV

    -- Tu puoi --, rincominciò la donna a dire,
veder qui Alessandro, ch'assalio
il mondo tutto, per velen morire;
    e non esser però il suo disio
pien, ma più che giammai esser ardente,
e 'n tale ardor, come vedi, morio.
    Lo qual fu quanto alcun altro possente,
né però averia questa lasciato,
che se fosse vivuto, che vilmente
    lui non avesse in infimo voltato
della sua rota; ma quel che costei
non fé, morte adempié nel nominato.
    E poi appresso puoi veder colei
che pugnò con Pallade come stolta,
ch'ancor del fallo suo par dica omei.
    Come la vedi ancor quivi ravolta
ne' suo' istracci, in ragnol trasmutata
fu dalla dea e dal laccio disciolta.
    Tu puoi appresso vedere effigiata
la sembianza di Dario, la quale
di leto aspetto in tristo par mutata.
    Oh come poco al presente li vale
essere stato grande! anzi gli è noia
or che si vede in disperato male.
    Aver puoi già udito quanta gioia
avesse Niobè de' suoi figliuoli,
e agual qui pare di dolor si muoia.
    Guarda un poco innanzi, se tu vuoli:
superba lei potrai quivi vedere
ancora incerta de' suoi tristi duoli;
    lor poi appresso ad uno ad un cadere
morti dintorno a lei ancor vedrai,
per la superbia e suo poco sapere.
    In trista angoscia ed in amari guai
la vedi quivi ritornata umile,
sanza suo pro di sé piangendo assai.
    Appresso vedi que' che con sottile
maestero del padre usci volando
del Laberinto, che tenendo vile
    miseramente ciò ch'amaestrando
il padre gli avea detto, per volare
troppo alto, in giù, le sue reni spennando,
    ora si cala, e appresso affogare
più là il vedi ne' salati liti:
questo avien de' non savi seguitare.
    Riguarda poi più là: vedi smarriti
il fiero Ciro e Persio; ne' sembianti,
l'ardir perduto, paiono inviliti.
    Or vedi ancora a mano a man da quanti
uccelli il corpo di Nabùch è roso,
temendo il figlio che per tempo avanti,
    surgendo del sepolcro, poderoso
non ritornasse e lui cacciasse fore
del regno, dove vivea glorioso.
    Ivi ve' tu ancora il gran romore
che fanno le figliuole di Piero
voltate in piche per greve dolore.
    Veggon sanza lor pro ora quel vero
ch'a lor superbamente s'ocultava
nel lor parer fallace e non intero --.
    E quivi appresso costei mi mostrava
Cartagine in ruvina, tutta accesa
d'ardente fuoco che la divampava.
    Riguardar quella con sembianza offesa
mi mostrò quella donna Scipione,
al cui valor non potè far difesa.
    Seguiva con non poca ammirazione
Anibale, turbato nello aspetto
o di quella o di sua distruzione.
    In abito dolente e con sospetto
quivi Asdrubale ancora si vedea,
col capo basso mirandosi il petto.
    Là similmente veder mi parea
la struzione della antica cittate
di Fiesole, la qual tutta cadea.
    Ivi pareva la gran crudeltate
che 'l pistolese pian sostenne pieno
di Catellino, le cui opre spiatate
    quasi narrando non verrian mai meno,
avvegna ch'a ragion posto li fosse
nella sfrenata bocca cotal freno.
    Vedevanvisi ancora le percosse
che Mario da Lucio sostenne,
quando la briga cittadina mosse.
    A' quei così, come a colui n'avenne,
possa avenir, che nelle città loro
a suscitar battaglia metton penne,
    lasciando il comun ben per suo lavoro.



CANTO XXXVI

    -- Intento ora ti volgi a riguardare
la vendetta di Dio, che non oblia
mai fallo alcun che si debbia purgare.
    Se 'n parer posto forse ad alcun sia
ch'ella si muova con un lento passo,
non è così, ma que' troppo disia;
    o se va forse adagio al tristo lasso
ch'aspetta quella per la fatta offesa,
non giova già, che più grave fracasso
    segue per quello indugio: sì compesa
al fatto fallo, sì che igualmente
da ogni parte la bilancia pesa.
    Pon mente là: colui che sì vilmente
veste e si tien la mano alla mascella,
mostrando sé nel sembiante dolente --,
    incominciò colei, -- oh quanto fella
fu l'aspra signoria che 'n Siragusa
tenne, mentre per lui si guardò quella!
    Nel tempo avanti che li fosse chiusa,
tiranneggiando fieramente in essa
sanza ricevere o priego o iscusa,
    tenea la gente sì vilmente oppressa,
ch'ognun piangeva e dicer non osava
la doglia sua, per tema d'altra ressa.
    Oh come fiero li tiranneggiava!
e Dionisio fero fu chiamato
per la fierezza la quale elli usava.
    Così avenne che ne fu cacciato
con tanta noia e con tanto furore,
ch'a lui parve aver vinto esser campato.
    Onde fuggendo ad Atena, il dolore
mitigato, pensò, per non morire
di fame, farsi in lettera dottore.
    Nol vedi tu ched e' fa là aprire
i libri a' garzonetti e mostra loro
com'una lettera altra dee seguire?
    Poi guarda avanti nel dolente coro,
e vederai Tesaglia sanguinosa
del roman sangue mischiato e di ploro.
    Or guarda quivi, e vedi sconcia cosa
tanti grandi uomin, tanti valorosi
esser sommessi a rovina angosciosa.
    Simile guarda quanto ponderosi
son gli alberi del sangue che portati
v'hanno li piè delli uccellon golosi,
    i qua' prima si son ben satollati
de' corpi morti, che sanza alcun foco
o sepoltura stan quivi gelati.
    Fra folti boschi o tane o altro loco
leon né lupo né can par rimaso
che non si pasca quivi o molto o poco.
    Ondeggiar vedi del dolente caso
i tristi fiumi, ed ispumanti, rossi
del tristo sangue non isparto in vaso.
    Riguarda là Pompeo con volti dossi
che fuggendo abandona il campo tristo,
ed ancor ve' come a Lesbòs posossi.
    Se là rimiri, con sembiante misto
di lagrime Cornelia accoglier lui
vedrai, poi che sconfitto l'ebbe visto;
    e vedi ancor come quindi con lui
si parte e vanne per mare in Egitto,
in sé immaginando che colui
    dovesse lui ricevere, respitto
avendo al regno che avuto avea
da lui: ma 'l suo pensier non venne dritto --.
    Avanti mi mostrò, dov'io vedea
come scendea del suo legno Pompeo,
perché carico troppo li parea,
    di quello entrando in un che Tolomeo
per Achillàs insieme con Futino,
sotto spezie d'onor, menar li feo.
    In quel già assettato lui meschino,
i traditori, alquanto indi lontani,
pigliaron lui, quasi al suo mal divino,
    sì com parea: il capo l'aspre mani
a lui tagliaro, il tronco in mar gittaro,
e quello al sir portaron di lor cani.
    Ivi pareasi ancora il duolo amaro
che Codro fece quando vide il busto
del capo, ch'a' Roman fu tanto caro.
    Onde dolente, povero e vetusto
prendea di notte quello, al mio parere,
e poi che 'n picciol fuoco lui combusto
    sotterrato ebbe secondo il potere
in piccioletta fossa, ricoprendo
lui del sabbione, con lagrime vere
    il suo infortunio ripetea piangendo.



CANTO XXXVII

    Vedevavisi appresso quanto e quale
già fosse stato Cesare, tenendo
in prima in Roma offizio imperiale.
    Oh quanto poco questo possedendo
il vedea gloriar! che quivi allato
tra' sanatori il vedeva morendo,
    lui avendo essi tutto pertugiato
co' loro stili, e quegli era piggiore
cui elli aveva già più onorato.
    E simile la rabbia e 'l gran furore
di Neron si vedeva terminare
in brieve tempo con molto dolore.
    Risplendevavi ancora, ciò mi pare,
ciò che fé Giuba mai, ed ivi appresso
dopo 'l salir il suo tristo calare.
    Tarquin, Porsenna e Lentulo dop'esso,
Ovidio, Tulio, Amulcar si vedieno
ed altri molti, i quali io con espresso
    riguardo non mirai, perché già pieno
di tal materia aveva lo 'ntelletto,
ed eran tanti che non venien meno.
    –O beato --, diss'io, -- que' che l'effetto
ad altre cose tira che a queste,
le quali istato mostrano imperfetto!
    Più vili ch'altre sono e più moleste,
piene d'inganno e d'affanno gravoso,
e la lor fine è sola mortal peste --.
    Poi mi voltai al viso grazioso
di quella donna che m'avea condotto,
dicendo: -- Il mio voler, che fu ritroso,
    or è tornato dritto, e già non dotto
che questi ben terren son veramente
que' che a' vizi ciascun mettono sotto.
    Nessun porria pensar che tanta gente,
così famosa e di tanta virtute,
Fortuna avesse sfatti sì vilmente.
    Fosse chi nol vedesse? o chi salute
ispererà omai, se non coloro
che le vere ed etterne han conosciute?
    Il più far qui omai lungo dimoro,
donna, mi spiace: però giamo omai
dove volete, e qui lascian costoro --.
    Allor disse la donna: -- Or t'è assai
aperto che costei esser turbata
vi dà salute ed iscemavi guai?
    Ma se tu fossi stato altra fiata
così disposto, come ora ti sento,
già meco fori in capo alla montata.
    Ma poi che del seguirmi se' contento
ed hai veduto le mondane cose
volubili e caduche più che vento,
    appresso viemmi, ché le gloriose
ed etterne vedrai. Ma non torniamo
onde venimmo, per le 'mpetuose
    tralciute vie, ma di qua teniamo,
ché picciola rivolta alla portella
prima ci menerà, che noi vogliamo --
    Ora si mosse questa ed io dop'ella,
di quelle cose molto ragionando
ch'eran dipinte nella sala bella.
    Ognor seguendo lei, così mirando
intorno a me per veder ciò che v'era
e nella mente ogni cosa recando.
    sì vi vidi io, per una porta ch'era
alla sinistra mano, un bel giardino
fiorito e bello com di primavera.
    -- Entrian --, diss'io, -- in questo orto vicino,
donna, se piace a voi, ché poi alquanto
ricreati terrem nostro cammino --.

    Là entro udiva io festa e gran canto,
onde mi crebbe d'esservi il disio,
sì ch'altri mai non disiò cotanto.
    Mirandomi allor dopo, mi vid'io
i due primier che dicean: -- Che, non passi
dentro, poiché ardi di volere? -- ed io
    infra me gia dicendo: « Se tu lassi
costei per colà entro voler gire,
s'ella non vien, chi guiderà i tuoi passi? ».
    -- Oh -- cominciò costei allora a dire,
-- che credi tu che colà entro sia?
Troppo ti volge ogni cosa il disire.
    Faccian, mentre avem tempo, nostra via,
ché, come tu costà pinto hai veduto,
così v'è dentro mondana vania.
    Il ver che ora avanti conosciuto,
secondo il tuo parlar, avevi tutto,
seguilo, e non voler con non dovuto
    operar seguir danno e perder frutto --.



CANTO XXXVIII

    Comincia' io allora: -- A te che face
l'entrar là entro ed un poco vedere?
Io verrò poi là ovunque ti piace --.
    -- Or veggio ben che tu il tuo parere
vuo' pur seguire in ciascheduna cosa,
e fai quel che tu vuo' a me volere --.
    Così mi disse, e quasi dispettosa
soggiunse: -- Andian, ched e' potrà seguire
che quando tu in più pericolosa
    angoscia ti vedrai, vorrai reddire
con meco adietro e non esser forse ito,
ed io ti lascerò in tal martire --.
    Non fu il suo parlar da me udito
allor per poco, tanto avea la mente
pure al giardin verdeggiante e fiorito.
    Tutti e quatro v'entrammo insiememente:
tanta gioia vi vidi, che ciò ch'io
dinanzi vidi ivi m'usci di mente.
    Ahi quanto egli era bello il luogo ov'io
era venuto, e quanto era contento
dentro da me l'ardente mio disio!
    Rimirando m'andava intorno attento
per lo gioioso loco, scalpitando
l'erbette e' fior col passo lento lento.
    Sì con diletto per lo loco andando
vidi in un verde e piccioletto prato
una fontana bella e grande; e quando
    io m'appressai a quella, d'intagliato
e bianco marmo vidi assai figure,
ognuna in diverso atto ed in istato.
    Mirando quelle, vidi le scolture
di diversi color, com'io compresi,
qua' belle e qua' lucenti e quali oscure.
    Vidi lì un bel marmo; e quel sedesi
sopra la verde erbetta, di colore
sanguigno tutto, e 'n su quella stendesi
    in piano, e s'io già non presi errore
nell'avisare, una canna per verso,
quadro e basso e lucido di fore.
    Sovr'ogni canto di quel marmo terso
di marmo una figura si sedea,
ben che ciascuna avea atto diverso,
    ch'umil, bella, soave mi parea
l'una di queste, e due spiritelli
con l'una mano a pie di sé tenea.
    Habituati, parlando con quelli,
gli aveva sì in un voler recati,
che ciascuno contento è di quel ch'elli
    all'altro vedea 'n voglia; e colorati
eran li suoi vestir di tanti e tali
color, ch'io non li avrei mai avisati.
    Nell'altro canto, a man destra, ch'iguali
spazio occupava, una donna vi stava
ad ogni creatura disiguali.
    Ella nel capo suo quivi mostrava
tre visi, ed è vestita, ciò mi pare,
come di neve e così biancheggiava.
    Là vid'io poi nel terzo angulo stare
una donna robusta tutta armata,
ad ogni affanno presta di portare.
    Parea di ferro questa ivi formata
tutta a veder; e dopo lei seguia
un'altra sopra 'l quarto angul fermata.
    Rimirando colei ognun diria
che di fino smeraldo fatta fosse,
in abito piacente, umile e pia.
    Or quel che più a mirarle mi mosse
fu un vaso vermiglio grande e bello,
che tutte sostenien con le lor posse.
    Fermato sopra loro, il bel vasello
più chè 'l sanguigno marmo si spandeva
sopra 'l fiorito e verde prato quello.
    Egli era tondo, e 'n mezzo d'esso aveva
fermata una colonna piccioletta
che diamante in vista mi pareva,
    ritonda e bella; e sopra quella eretta
un capitel v'aveva di fino oro,
fatto con maestria, non miga in fretta;
    e sopra quel tre figure dimoro
faceano ignude, e le spalle rivolte
erano l'una all'altra di costoro.
    Rideva l'una in atto, ben che molte
lagrime fuor per gli occhi ella gittasse,
che poi nel vaso parevan racolte.
    Bruna era e nera; e poi che somigliasse
foco pareva l'altra e dalla poppa
d'acqua gittava; e la terza sopr'a sé
    rampollava ancor, bianca ma non troppa.



CANTO XXXIX

    Oh quanto bella tal fonte pariemi
e quanto da lodar, tal che giammai
di mirarla saziato non sariemi!
    Com'io a basso al vaso riguardai,
dove l'acqua cadea ch'era gittata
da quelle tre, se bene immaginai
    o vidi il vero, io vidi ch'adunata
era da parte quanta ne gittava
la bianca donna e là effigiata.
    Onde uscia quella del vaso vi stava
un capo d'un leone, e ver levante
d'un picciol fiume il bel giardin rigava.
    Tolto di quivi e fattomi più avante,
ciò che la donna vermiglia spandea
nel vaso vidi fare il simigliante.
    Rimirando esso ancora vi vedea
una testa d'un toro, al mio parere,
del qual quell'acqua adunata scendea;
    oltre ver mezzogiorno il suo sentiere
tenendo, mi parea che se ne andasse
ancor rigando il piacente verziere.
    Poi mi parve ch'alquanto mi tirasse
inver la terza donna tutta nera,
che ridendo parea che lagrimasse.
    Parevami che, poi ch'adunato era
suo lagrimar nel vaso, che scendesse
per una testa ancora che quivi era;
    ove mirando, parve ch'io vedesse
che lupo fosse, e questa se ne gia
or qua or là, né parea che tenesse
    en l'andar suo nulla diritta via:
ad aquilon talora e ver ponente
scendendo, non so dove si finia.
    Ciò che dal leon cade pianamente
dico che corre, e sopra li suoi liti
d'erbe e di fior si vede ognor ridente.
    Herba non v'ha, né frutti che smarriti
teman dell'autunno, ma tuttora
con frutti e frondi be' verdi e fioriti
    ivi dimoran, né mai si scolora
prato, ma bel di variati fiori
la state e 'l verno sempre vi dimora.
    A que' 'l ruscel, che al toro di fori
cade di bocca, similmente è bello
d'erbe e di fior di diversi colori;
    rivestito di ciascuno albuscello
è 'l dolce lito, che porti verdura,
e similmente d'ogni gaio uccello.
    Odesi alcuna volta en la pianura
le frondi risonar per dolce vento,
il qual si move da quell'aere pura.
    Ogni pratel di quel lito è contento
di mutar condizione a tempo e loco,
secondo c'ha 'l vigore acceso e spento.
    Rallegrasi ogni animale e gioco
vi fa, secondo che amor lo strigne
sotto la forza sua o molto o poco.
    Ovunque la natura più dipigne
la terra di bellezza, è a rispetto
nulla di quello che quel fiume tigne.
    Così veduto quel, con lo 'ntelletto
io corsi a quel che fuor del lupo usciva:
ov'io non vidi un albero soletto
    o altra pianta, la qual verde o viva
vi sia, ma secca la pianura trista,
biancheggiar tutto con l'occhio scopriva.
    Aveva ben del fiumicel la lista
tinta la terra d'un suo color perso,
che quasi lo schifava la mia vista.
    Mossimi allora quindi, ed a traverso
presi il sentiero per lo bel giardino,
per gire al fiume del bel toro emerso.
    E quella donna con cui il cammino
impresi prima, disse: -- Se ti piace,
andian per questa via, ché più vicino
    ne fia 'l sentier che ci merrà a pace.
Dove tu vai, come tu hai veduto,
è del bel transitorio e fallace;
    del qual se tu ti se' bene aveduto,
come dicevi e come il tuo parlare
mostrava che avessi conosciuto,
    a quel non guarderesti, ma andare
il lasceresti come cosa vana
e 'ntenderesti a sol me seguitare.
    Trai dalla mente tua quel che insana
esser la fa, giovi quel ch'io ti dico,
e per quel falla che ritorni sana:
    e non esser di te stesso nimico --.



CANTO XL

    La donna mi parlava, ed io mirando
con l'occhio andava pure ove 'l disio
mi tenea fitto, non so che ascoltando.
    Avevami davanti, al parer mio,
su quella riva assai donne vedute,
di cui veder in tal voglia venn'io,
    ch'io dissi: -- Donna mia, a mia salute
non pensar più ch'i' voglia, a tempo e loco
farò d'adoperar la tua virtute;
    ch'ora di novo m'è nel cor un foco
venuto d'esser là: però o vienci,
o tu m'aspetta infin ch'i' torni un poco.
    In qual parte vorrai poi insieme andrenci:
nostra stanza fia poca veramente,
che noi da veder quelle liberrenci --.
    Oltre n'andai, sanza dir più niente,
co' due che mi traevano, e costei
quasi scornata mi teneva mente
    con intentivo sguardo, ed io a lei;
sanza dir nulla io la vi pur lasciai,
o bene o mal non so qual io mi fei.
    Hardito con costoro oltre passai,
e 'n sulla riva del bel fiumicello
io vidi donne ch'io conobbi assai;
    e riguardando lor con occhio snello,
qual gia cantando e qual cogliendo fiori,
chi sedea, chi danzava in un pratello.
    Bello era il loco e di soavi odori
ripien per molte piante che 'l coprieno
dal sole e dalli suoi già caldi ardori;
    e' suoi cavalli, al mio parer, salieno
già sopra la quarta ora e mezzo il segno
del friseo monton co' piè tenieno.
    Non credo ched e' sie sì alto ingegno
che 'nteramente potesse pensare
le bellezze di quelle ch'io disegno.
    Rimanga adunque qui questo lodare,
sol procedendo a' nomi di coloro
ch'io vi conobbi degne di nomare.
    Infra quel bello e grazioso coro
di tante donne, vidi una bellezza
ch'ancora stupefatto ne dimoro.
    Pietoso Appollo, alquanto dell'altezza
del tuo ingegno presta, o tu ispira
ora per me con la tua sottigliezza!
    Omero, Maro, Naso, o chi più mira
discrizione o di donna o di dea
fé, saria poco a quella che si gira
    sopra quel prato, ov'io vidi sedea
giovinetta leggiadra e tanto bella,
ch'io la pensai per fermo Citarea.
    Inginocchia' mi per volere ad ella
far reverenza, ma poscia m'avidi
ch'era mondana e somigliava stella.
    Sallosi Amore che i piatosi gridi
del cor sentì a sì mirabil vista,
ch'io nol so dir, ché non ho chi mi guidi,
    e s'io pur conforto l'anima trista
poi che per li occhi senti' 'l dolce raggio
di tal bellezza, per obliqua lista.
    Istesi adunque inver di lei il visaggio,
e s'a sua posta l'alma, ch'altra guarda,
dar si potesse, io muterei coraggio.
    Nel viso che d'amor sempre par ch'arda
afigurai, mirando con diletto,
che costei era la bella lombarda.
    Signore etterno, a cui nessuno effetto
mai si nascose, alla giusta preghiera
rispondi e dì: fu mai sì bello aspetto?
    Essa sopra la verde primavera
si riposava con altre dintorno,
delle quali il bel luogo ripien era,
    faccendo con la luce dell'adorno
e bellissimo viso, riflettendo
con lume, troppo più il chiaro giorno;
    rimirando talor, fra sé ridendo
ver me di me, che arso m'accendeva
di nova fiamma ancora lei vedendo.
    Udire appresso questa mi pareva
cantar tanto soave in voce lieta
che me di me sovente mi toglieva.
    Così al canto libera e quieta
tutta la mente avea disposta, allora
che con benigna voce e mansueta:
    -- Troppa qui lunga dispendiam dimora --,
i due mi dissero; a' qua' rivoltato
risposi: -- Andiam, sed e' vi pare, ancora --.
    Oltre la via prendemmo per lo prato.



CANTO XLI

    Oltre passando tra' fiori e l'erbette,
in loco pien di rose e d'albuscelli
venimmo, ove ciascun di noi ristette;
    fra li qua' canti piacenti d'uccelli
s'udivan tai, che io mi saria stato
quasi contento pure ad udir quelli.
    Or mirando più là nel verde prato,
donne vi vidi una carola fare
ad uno strano suon, ch'una dallato
    ritta a me mi parve udir sonare.
Io non conobbi lei, posto ch'assai
bella paresse a me nel riguardare:
    sì ch'io avanti all'altre riguardai,
ornata quale a sua somma grandezza
si conveniva, in atti lieti e gai,
    esser la mira e piacevol bellezza
di Perigota, nata genitrice
dell'onor di Durazzo e dell'altezza.
    Ahi quanto allor mi reputai felice,
non risparmiando gli occhi a mirar quella
che per bellezza si può dir fenice!
    La qual non donna, ma diana stella,
con passo rado la menava attenta,
non altrimenti che si voglia ad ella,
    con gli occhi bassi, del mirar contenta
che io faceva in lei, che già sentia
come d'altrui per biltà si diventa.
    Vaga e leggiadra molto la seguia
la ninfa fiorentina, al cui piacere
oppongon tai, che non san che si sia,
    nel viso lei parere un cavaliere,
onesta andando sì umilemente
ch'oltra dovere me ne fu in calere.
    Dopo essa, attenta al suon similemente,
veniva quella Lia che trasse Ameto
dal volgar uso dell'umana gente,
    in abito soave e mansueto,
inghirlandata di novella fronda,
con lento passo e con aspetto lieto.
    Lì dopo lei, bianca e rubiconda
quanto conviensi a donna nel bel viso,
tutta gentile, graziosa e gioconda,
    era colei di cui nel fiordaliso
il padre fu dall'astuzia volpina,
col zio e col fratel di lei, conquiso
    con molta della gente fiorentina:
li quai libraron lor poscia, per merto,
troppo più che 'l dover pace vicina.
    Tra tanto ben, quanto a' mie' occhi offerto
era 'n quel loco, vid'io poi seguire,
come 'l ramemorar me ne fa certo,
    ognor più belle è più conte nel gire
donne altre assai, i nomi delle quali
io non saprei di tutte ben ridire.
    Però le taccio, ma con disiguali
passi e maniere si movea catuna,
sì come il suon ne porgeva segnali,
    oltre, al parer mio; e ciascheduna
a tal bisogna conta, lieta e presta
mi pareva che fosse, perch'ognuna,
    ridendo in sé, prendeva gioia e festa,
sanza mostrar negli atti ch'altra cura
le fosse forse dentro al cor molesta.
    Givansi adunque su per la verdura
e sopra i fior che novi produceva
allato al rivo la bella pianura;
    e talor quella che le conduceva
fino alla bella fonte se ne giva
e 'ntorno ad essa in giro si torceva,
    sopra tornando per la chiara riva
del fiumicello e poi nel pian tornando
che di diversi odor tututto oliva.
    Sempre con l'occhio quelle seguitando
m'andava io, e dentro lo 'ntelletto
la lor bellezza giva immaginando;
    e di quella prendea tanto diletto
in sé, ch'alcuna volta fu che io,
a tal piacer, credetti far subbietto
    alla mia voglia quiveritta il mio
libero albitrio: ma pur si ritenne
con vigorosa forza il mio disio.
    Voltatomi a que' due, allor mi venne,
ch'eran con meco, verso lor dicendo:
-- Oh quanto a queste natura sovenne,
    ogni bellezza in esse componendo!
Beati que' che della grazia d'esse
son fatti degni, quella mantenendo,
    la qual volesse Iddio che io l'avesse! --.



CANTO XLII

    E mentre ch'io m'andava sì parlando
con questi due, ed ecco d'altra parte
molte donne gentili assai danzando.
    Certo non credo che natura od arte
bellezze tante formasse giammai,
quanto ne' visi a quelle vidi sparte.
    Tra me medesmo men maravigliai,
ma volto il viso a lor, come venieno
così nella memoria le fermai.
    Onde mi par che quella, cui seguieno
danzando a nota d'una canzonetta
che due di quelle cantando dicieno,
    raffigurando, era una giovinetta
dell'alto nome di Calavra ornata,
di Carlo figlia gaia e leggiadretta:
    reggendo quella alla nota cantata
con volte degne e passi, a cotal danza,
come mi parve, appresso seguitata
    ivi dall'alta ed unica intendanza
del Melanese, che col Can lucchese
abatté di Cardona l'arroganza.
    Nelle man della qual poi la cortese
donna di quel cui seguita Ungheria,
bellissima si fece a me palese:
    graziosa venendo, onesta e pia,
con lieta fronte, in atto signorile,
fece maravigliar l'anima mia.
    Riguardando oltre, con sembianza umile
venia colei che nacque di coloro,
che tal fiata con materia vile
    aguzzando lo 'ngegno a lor lavoro,
fer nobile colore ad uopo altrui,
multiplicando con famiglia in oro.
    Tra l'altre nominat' è da colui
che con Cefàs abandonò le reti
per seguitare il Maestro, per cui
    i tristi duoli e gli angosciosi fleti
fur tolti a' padri antichi, e parimente
da Lui menati nelli regni leti.
    Appresso questa assai vezzosamente
se ne veniva la novella Dido,
di nome, non di fatto veramente,
    tenendo acceso nel viso Cupido,
di tale sposa ch'assai mal contenta
credo la faccia nel marital nido.
    Ed il nome di lui di due s'imprenta,
d'un albero e d'un tino, e 'l poco fatto
dal suo diminutivo s'argomenta.
    Costei seguiva con piacevol atto
donna che del sussidio d'Orione
il nome tien, quando sonò per patto.
    Oh quanto ella vorria, ed a ragione,
vedova rimaner partenopea
di tal c'ha nome da quel che menzione
    l'agosto dà ad Ascesi! E poi vedea
dopo essa molte, le qua' raccontare
per più brieve parlar meglio è mi stea.
    E com'io dissi, ad un dolce cantare,
in voce fatto angelica e sovrana,
era guidata, qual di sotto pare.
    -- In chiunque dimora alma sì vana
ch'esser non voglia suggetta ad Amore,
da nostra festa facciasi lontana.
    Lo suo inestimabile valore,
che adduce virtute e gentilezza,
a ciascuna di noi disposto ha il core
    a sempre seguitar la sua grandezza,
e lui servendo staremo in disire,
tanto che sentiren quella dolcezza
    ched e' concede altrui dopo 'l martire:
null'altra gioia al suo dono è iguale,
poiché per quel sembra dolce il morire.
    Vita che sanza lui dura non vale
né più né meno che se ella fosse
cosa insensata o d'un bruto animale.
    In quel disio adunque in che ci mosse,
quando a noi fé sua signoria sentirsi,
a sostenere inforzi nostre posse:
    benivol poi essendoci a largirsi,
sì che, deh, non ci paian le ferute
di lui noiose né grave il soffrirsi,
    in cui consiste la nostra salute;
quando parralli, la dobbiamo avere,
dandola tosto con la sua virtute --.
    L'altre poi tutte appresso, al mio parere,
rispondendo diceano: -- O signor nostro,
in te si ferma ogni nostro volere,
    tutte disposte siamo al piacer vostro --.



CANTO XLIII

    Aveami già quel canto e la bellezza
delle giovani donne l'alma presa
e riempiuta di nuova allegrezza,
    tanto che ad altro la mente sospesa
con gli occhi non tenea, che non faceano
alli raggi di lor nulla difesa;
    e com'io loro alzai, vidi sedeano
donne più là, quasi sé riposando,
che forse fatta festa innanzi aveano.
    Queste, mentre io andava riguardando,
d'erbe e di frondi tutte coronate
vidi ed insieme d'amor ragionando.
    Ver è ch'ell'eran di maturitate,
di costumi, di senno e di valore
e di bellezza molto e molto ornate.
    E volto verso là, il primo ardore
della bellezza dell'altre fu spento,
di tutte, fuor che d'una, nel mio core;
    sì ch'io con passo mansueto e lento
a quelle m'appressai com'io potei,
ed a mirarle mi disposi attento.
    Tra l'altre che io prima conoscei,
fu una ninfa sicula per cui
già si maravigliaron gli occhi miei.
    Oh quanto bella lì negli atti sui,
biasimando le fiamme di Tifeo,
si sedea ragionando con altrui!
    mostrando come per quelle perdeo
l'amato sposo in cieco marte preso,
allor che tutto vinto si rendeo
    in Lipari lo stuolo, ond'elli offeso
col bianco monte nel campo vermiglio
ne fu menato, ove ancora è difeso,
    mudando in chiusa dell'aureo giglio;
donde doleasi, perch'a lui riavere
non valean prieghi, danar, né consiglio.
    Ove costei così, al mio parere,
quivi doleasi, attenta l'ascoltava
giovane donna di sommo piacere,
    simile a cui nessuna ve ne stava,
per quel ch'a me paresse, nel suo viso
che d'ogni biltà pien si dimostrava.
    Sariasi detto che di paradiso
fosse discesa da chi 'ntentamente
l'avesse alquanto rimirata fiso.
    E com'io seppi, ell'era della gente
del Campagnin che lo Spagnuol seguio
nella cappa, nel dire e con la mente,
    a sé faccendo sì benigno Iddio,
che d'ampio fiume di scienza degno
si fece, come poi chiar si sentio,
    faccendo aperte col suo sommo ingegno
le scritture nascose, e quinci appresso
da Carlo pinto gì nello dio regno;
    faccendo sé da quella, in cui compresso
stette Colui che la nostra natura
nobilitò, nomar, che poi l'eccesso
    absterse della prima creatura
con la sua pena; e quivi coronata
della fronda pennea, con somma cura
    raggiugnea fior per farsi più ornata,
mostrando sé tal fiata piatosa
della noia dell'altra a lei narrata.
    Con questa era colei ch'essere sposa
e figliuola perdé quasi in un anno,
di brun vestita e nel viso amorosa:
    oggi tornando dove i fabbri stanno
vulcanei e' miropoli e coloro
ch'ornan di freno e di sella, all'affanno
    me' sostener l'animal, ch'al sonoro
percuoter di Nettunno apparve fori
nel bel conspetto del celeste coro.
    Ed il bel nome che' gemmier maggiori
danno alla perla è suo, il cui cognome
gli Asini legan, di que' guardatori.
    Splendida, chiara e bella era sì come
nel ciel si mostra qual più luce stella,
di vel coperte l'auree chiome.
    Vaga più ch'altra, si sedea con ella
un'altra fiorentina in atto onesto,
assai passante di bellezza quella.
    Ben m'accors'io chi era e che dal sesto
Cesare nominato era il marito,
qual chi 'l conosce il pensa a lei molesto.
    Guardando adunque nel piacente sito
costoro ed altre che v'erano assai,
sentiva ben da me mai non sentito,
    in guisa tal ch'io men maravigliai.



CANTO XLIV

    Era più là, di donne accompagnata,
la Cipriana, il cui figliuolo attende
d'aver la fronte di corona ornata,
    con quello onore che ad essa si rende
dell'isola maggior de' Baleari,
se caso fortunal non gliel contende.
    Tra le quali era, in atto non dispari
della gran donna, un'altra tanto bella,
che mi fur gli atti suoi a mirar cari.
    Ognuna quivi riguardava ad ella
per la sua gran bellezza, ed io con loro
che già in me riconosceva quella.
    Ell'è colei di cui il padre nell'oro
l'azzurro re de' quadrupedi tene
nel militare scudo, e di coloro
    passata stassi, come si convene,
isposa d'un che la fronzuta pera
d'oro nel ciel per arma ancor ritene.
    E con queste a seder bellissim'era,
simile a riguardare ad una dea,
la sposa di colui che la rivera
    rosseggiar fé di Lipari, eolea
isola, poi togliendo in guidardone
l'amiraglia da chi dar la potea.
    Con essa questa ancora ad un sermone
conobb'io quella che fu tratta al mondo,
onde fuggita s'era in religione,
    honesta e gaia nel viso giocondo,
moglie di tal che me' saria non fosse:
ma chi più sia non mosterrò del fondo.
    E l'altre oltre mirando, mi percosse
ma non so che, e tutto quasi smorto
subito altrove gli occhi e me rimosse.
    Venend'io così men sanza conforto,
tremando tutto, mi ritorna' a mente
ch'io vidi in una parte di quell'orto,
    onesta e graziosa umilemente,
una donna sedere il cui aspetto
tutto dintorno a sé facea lucente.
    In questo alquanto nel tremante petto
con forza ritornò l'alma smarruta,
rendendo forza al debile intelletto.
    Così mi ricordò che io veduta
avea costei tra quelle donne prima,
e 'n altra parte ancora conosciuta.
    Onde se sua bellezza la mia rima
qui al presente perfetta non dice,
maraviglia non è; ma tanto estima
    sentendo l'alma mia, che om felice
mirando quella dovria divenire,
se la memoria mia ver mi ridice.
    Tenendo mente lei, sommo disire
d'entrar mi venne dentro allo splendore
che delli suoi belli occhi vedea uscire;
    e 'n ciò pensando subito nel core
punger sentimmi, e quasi in un momento
mi ritrovai nel piacevol lustrore.
    Ivi mirabile il dimoramento
pareami, e quasi in me di me facea
beffe di sì notabile ardimento.
    Ma lì essere stato mi parea
tanto che quattro via sei volte il sole
con l'orizonte il ciel congiunto avea.
    E come nell'orecchia talor sole
subito dolce suon percuoter tale
che quello udendo poi le piace e vole,
    così orribil mi venne cotale
e spaventommi per lungo soggiorno,
né mi fé già, ben ch'io temessi, male:
    -- O tu -- dicendo, -- ch'e' nel chiaro giorno
del dolce lume della luce mia,
che a te vago si raggia dintorno,
    non ischernir con gabbo mia balia,
né dubitar però per mia grandezza,
la quale umil, quanto vorrai, ti fia.
    Onora con amor la mia bellezza,
né d'alcun'altra più non ti curare,
se tu non vuo' provar mia rigidezza --.
    Sentimmi poi il cor dentro legare
co' cari crini del suo capo, e adesso
più volte intorno avolgere e girare.
    Così mi parve, se bene in me stesso
ricordo, che costei dicesse: ond'io
risposi: -- Donna, a te tutto sommesso
    io sono e sarò sempre, e ciò disio --.



CANTO XLV

    A tal partito nel beato loco
istandomi, io mi senti' nel core
raccender più ardente questo foco,
    tal ch'io pensai che 'l novello ardore
oltre al dovuto modo mi tirasse,
tal nel principio suo mostrò furore.
    E 'l cor, che ciò pareva che pigliasse
a sé, lo 'ncendio, quantunque potesse,
oltre a dovuta parte a sé ne trasse.
    E così stando parve ch'io vedesse
questa donna gentile a me venire
ed aprirmi nel petto, e poi scrivesse
    là entro nel mio cor posto a soffrire,
il suo bel nome di lettere d'oro
in modo che non ne potesse uscire.
    La qual, non dopo molto gran dimoro,
nel mio dito minore uno anelletto
metteva tratto di suo gran tesoro;
    al qual pareami, se 'l mio intelletto
bene stimò, che una catenella
fosse legata, che infino al petto
    si distendeva della donna bella,
passando dentro, e con artigli presa,
come ancora scoglio, tenea quella.
    Oh quanto da quell'ora in qua accesa
fu la mia mente del piacer di lei,
che mai non era più stata offesa!
    Moveami questa ove pareva a lei
co' suoi belli occhi, e sol pensando andava
com'io potessi piacere a costei.
    Infra quel circuito che ocupava
la luce sua, quasi come 'nretito,
a forza a rimirarla mi girava.
    Gravoso mi parea l'esser fedito
e più fiate lagrime ne sparsi,
non potend'io durar l'esser partito
    là onde quella soleva mostrarsi
agli occhi miei gentile e graziosa,
e più nel cor sentia 'l foco allumarsi.
    Io non trovava nella mente posa,
sì mi stringea pur di lei vedere
la mente ardente di sì bella cosa.
    Adunque seguitando il mio volere,
dovunque era costei, così tirato
parea ch'io fossi dal suo bel piacere;
    ma certo in ciò Amor m'era assai grato,
sol che 'l disio non fosse oltra misura
nell'amoroso cor troppo avanzato.
    Ognora che la sua bella figura
disiava vedere, Amor faceva
di ciò contenta la mia mente scura,
    rendendo lei umil quand'io voleva.
E questo più m'accendeva, vedendo
che 'l mio disio adempier si poteva,
    né per lei rimaneva ma, sentendo
forse maggior periglio, consentia
che io avanti mi stessi piangendo,
    e graziosa mostrandosi e pia
verso di me, con sua benignitate
in conforto tenea la mente mia.
    Lungamente seguendo sua pietate,
ora in avversi ed ora in graziosi
casi reggendo la mia volontate,
    sollecito del tutto mi proposi
di pur sentire l'ultima possanza
che in loro hanno i termini amorosi.
    Ver è che molto prolissa speranza
mi tenne in questa via, non però tanto
che 'l mio proposto gisse in oblianza.
    Alla seconda con sospiri e pianto,
quando con festa, sempre seguitai
il mio proponimento, infino a tanto,
    sottilmente guardando, m'avisai
che la donna pensava terminare
con savio stile i disiosi guai.
    Però alquanto lasciai 'l pensare,
dicendo: « Tosto credo proveduto
fia da costei il mio grave penare.
    Ell'ha ben ora tanto conosciuto
del mal ch'io sento e del mio disio,
ch'io credo che di me le sia incresciuto ».
    Così fra me gia ragionando io,
pure aspettando che la sua grandezza
si dichinasse alquanto al dolor mio
    torre potere con la sua bellezza:
la qual l'anima mia più ch'altra brama
e più che altra alcuna in sé l'apprezza,
    onorandola sempre quanto l'ama.



CANTO XLVI

    Tenendo me il valor di colei
dentro a sua luce in tal modo costretto,
sempre con lo 'ntelletto volto a lei,
    avendo spesso dolore e diletto,
riposo e noia con isperanza assai,
com'io qui poco di sopra ho detto,
    non sappiendo a che termine mai
si dovesse finire, un poco appresso
inver di lei alquanto mi voltai
    traendomi più là, e con sommesso
parlar le chiesi che al mio dolore
fine ponesse, qual doveva, adesso,
    ognor servando quel debito onore
che si convene a' suoi costumi adorni,
di gentilezza pieni e di valore.
    Cinque fiate tre via nove giorni
sotto la dolce signoria di questa
trovato m'era in diversi soggiorni,
    allora ch'io senti' che la molesta
pena, che m'era nello cor durata,
convertir si doveva in lieta festa.
    Lasciando adunque la mia vesta usata
in parte più profonda del verziere,
mi parea ritrovar quella fiata
    con gioia smisurata, al mio parere,
e nelle braccia la donna piatosa
stupefatto mi parea tenere.
    Vinceva tanto l'anima amorosa
la gioia, che la lingua stando muta
divenuta pareva dubitosa,
    né diceva niente, ma l'aguta
voglia di star dov'esser mi parea
facea parermi falsa tal paruta.
    Dond'io fra me spesse volte dicea:
« Sogni tu? o se' qui come ti pare? »
« Anzi ci son », poi fra me rispondea.
    In cotal guisa spesso a disgannare
me quella donna gentile abracciava
e con disio la mi parea basciare,
    fra me dicendo ch'io pur non sognava,
posto che mi pareva grande tanto
la cosa, ch'io pur di sognar dubbiava.
    E se per comprazion volessi quanto
fu la mia gioia porre, essemplo degno
nol crederia trovar; ma dopo alquanto,
    con quella gioia che io qui disegno,
la quale immaginar non si porria
da alcuno mai per altezza d'ingegno,
    tratto un sospiro, graziosa e pia
la donna inver di me disse: -- Ora dimmi,
come venisti qui, anima mia? --.
    Ond'io a lei: -- Poi ch'Amore aprimmi
gli occhi a conoscer la vostra biltate
a cui io per mia voglia consentimmi,
    nel cerchio della vostra potestate
entrato con affanno e con sospiri,
sempre sperando en la vostra pietate,
    ò lui pregato che a' miei martiri
dia fine grazioso, ed e' menato
m'ha qui per fine porre a' miei disiri.
    Nel giardin là ver è ch'i' ho lasciato
stare una donna, la qual lungamente
prima m'avea benigna accompagnato
    venendo qui --; e non lasciai niente
a dire a lei e di que' due ancora
con cui io venni qui similemente.
    Alquanto stette quella donna allora
in abito sospesa, in sé pensando:
e poi, non dopo molto gran dimora:
    -- Andrai --, mi disse, la donna cercando,
e lei seguisci però ch'ella è quella
che 'n dritta via ripon chi va errando.
    Ciò ch'ella vuoi, vo' facci, fuor che s'ella
me ti volesse far di mente uscire:
in ciò non vo' che ubidischi ad ella.
    Humiliati sempre al suo disire
e me porta nel cuor, né ti sia grave,
che ben te ne vedrai, credo, seguire.
    Il portar te in me tanto soave
m'è, che per pace corro a tua figura
quando gravezza alcuna il mio cor have.
    Giammai non fu neuna creatura
che tanto mi piacesse: fatti lieto,
e di ciò tien l'anima tua sicura.
    Io volli ora al presente far quieto
il tuo disio con amorosa pace,
dandoti l'arra che finirà 'l fleto:
    adunque va omai quando ti piace --.



CANTO XLVII

    La donna tacque allora, ed io congedo
presi in un atto in me molto contento
e 'n altro più dolente che mai, credo,
    ver quella parte ritornando lento
dov'io aveva la donna lasciata,
che fu mia guida nel cominciamento.
    Io mi giva pensando con bassata
testa a quel ben che io avuto avea,
e doleami di sì corta durata.
    Di più disio ancora mi parea
tutto arder dentro nel trafitto core
vie più che nel principio non facea;
    e diceva fra me: « Deh, se l'ardore
ora non manca, non credo che mai
egli esca omai della mente di fore.
    Avuto ho quel che io più disiai:
deh, che cercherò io per mia salute?
chi stuterà cotal fuoco oramai?
    La volontà che d'Amor le ferute
mi porsero, non è in me finita
ma è cresciuta in me la sua virtute ».
    Tra' fiori e l'erba con vista smarrita
m'andava in me in tal guisa pensando,
dispregiando e lodando la mia vita.
    Riguardandomi a' piedi, così andando,
mi trovai alla fonte non avendo
vedute quelle donne festeggiando;
    e 'l viso alzai, me stesso riprendendo
del perduto diletto, e ver me vidi
quella donna venir cui io caendo
    fra quel giardino andava, -- Ove ti fidi? --
ver me dicendo, e con le braccia aperte
mi prese, e: -- Non cre' tu che io ti guidi
    in qual parte vorrai? perché perverte
tua volontà il mio consiglio vero,
per vanità lasciando cose certe? --
    Allor risposi: -- Madonna, sincero
m'è il tuo mostrar tornato di colei
grazia che m'ha disposto a tal sentiero.
    Tu verrai, se ti piace, infino a lei,
e quivi insieme ci dimoreremo
quanto piacer sarà tuo e di lei;
    e poi insieme tutti e tre andremo
dove vorrai, ché io credo segnare
sotto 'l piacer di lei il dì estremo --.
    Ed allora: -- Il tuo adimandare
è d'ordine di fuor, ché io so bene
quel che tu vo' che io vi venga a fare.
    La donna meco assai più si convene,
che tu non fai: dove menar mi vuoi
e ben conosco qual disio ti tene.
    Vieni con meco ed a lei andrem poi --.
-- Ma andian là -- risposi, -- prima ed essa
insieme meneren con esso noi.
    Non c'è bisogno d'aver sì gran pressa:
ancora il sole al cerchio di merigge
non è, e 'l nostro andar però non cessa --.
    Diss'ella allora: -- Io so che ti trafigge
di lei il piacer e non ti puoi partire,
però pur qui tua volontà si figge.
    E però se in questo il tuo disire
io seguirò, tu giurerai di fare
quel ch'io vorrò ed altro non seguire --.
    La mia risposta fu: -- Non comandare
ch'io non ami costei, ogni altra cosa
al tuo piacer mi fia lieve osservare.
    La qual se io sol per libidinosa
voglia fornire amassi, in veritate
con dover ne saresti crucciosa;
    anzi con quella intera caritate
che prossima persona amar si dee,
amo, servo ed onoro sua bontate;
    la qual, si come manifesto v'ee,
non trova pari in atti né 'n bellezza,
né in saper nel mondo simil ee --.
    -- Tu hai --, mi disse quella con dolcezza,
sì presa me pur di voler vedere
costei, cui donna fai di gentilezza
    real posseditrice, che potere
non ho sanza vederla d'ire altrove
né di negare a te il tuo piacere.
    Or dunque insieme ce n'andiam là dove
tu l'hai lasciata, e veggian manifesto
se quello è vero a che il tuo dir mi move --.
    Subitamente ragionato questo
insieme ci movemmo e nel conspetto
venimmo di colei, che 'n atto onesto
    incontro venne a noi con lieto aspetto.



CANTO XLVIII

    Graziosamente si feciono onore
quivi insieme le donne, ed in brieve
l'una dell'altra conobbe il valore.
    -- Ora mi fia --, la prima donna, -- lieve --,
ver me rivolta disse, -- farti quella
grazia che per adietro m'era grieve.
    Dolce, cara e benigna mia sorella
tengo costei, e s' tu m'avessi detto
di lei il nome, già saremmo ad ella,
    è gran pezza, venuti nel conspetto.
Costei sanza 'l fedel consiglio mio
non ferma fatto né compon suo detto:
    dunque per tale essemplo il tuo disio
raffrena e serva il verace piacere,
il qual più volte t'ho già mostrat'io.
    Intero fa che servi il suo parere:
altro che ben non ten potrà seguire,
però ch'ell'ha ver te il mio volere --.
    Lei prese poi per mano e così a dire
incominciò: -- Figliuola di virtute,
cui questi qui del tutto vuol servire
    ognor con più disio, per sua salute
pensa, sì ch'egli, ch'ogn'altra ha lasciata
per servir te, con laude dovute
    ringrazi te, cui elli ha essaltata
nel mio conspetto tanto che giammai
nulla ne fu per tal modo lodata.
    Ond'io udendo ciò immaginai
che fuor che tu altr'esser non potea,
e però a venir qui m'inviai --.
    Ove poi per la destra mi prendea
e davami a costei, così dicendo
ancora inver di lei, ciò mi parea:
    -- Non ebbe questi mai fren che tenendo
andasse in modo buon sua giovanezza,
se non ch'io ora di porgliele intendo,
    dirizzando esso verso quella altezza
onde tu discendesti a dimostrare
alli mondan quaggiù la tua bellezza.
    Imperciò ch'io il sento ancora a fare
a te ogni servigio molto presto,
per la fé che mi dei ti vo' pregare,
    ogni cagion rimossa, che in questo
e' sia in quanto può racomandato,
drizzando lui col tuo parlare onesto
    là ove sia onorevole stato
di lui e tuo e suo contentamento,
in modo che a me non sia disgrato.
    Io il ti dono tutto, i' 'l ti presento:
sempre sia tuo, né giammai sia ardito
di sé partir dal tuo comandamento --.
    E poi rivolta a me mi disse: -- Udito
hai ch'io t'ho dato a questa: fa che 'n guisa
la servi che 'l mio don sia gradito.
    Tiella per donna tua, né mai divisa
sia da lei l'alma tua fin che la vita
dal mortal colpo in te non è conquisa.
    Or qui alquanto per questa fiorita
campagna dolcemente ti riposa,
sì che poi sie più forte alla salita
    dove menarti intendo, e la gioiosa
donna con noi, acciò che la via
del tutto paia a ciascun dilettosa --.
    Io dissi allor: -- Madonna, così sia!
se tal grazia mi fai, quando ti piace
a tal camin con noi dietro t'invia.
    Manifesto conosco altro che pace
io non potrei aver, poi questa vene
che per conforto sola nel cor giace,
    ond'io sento alleggiare le mie pene.
Dio voglia ch'ella ci stia lungamente,
con allegrezza aggiugnendoci bene! --.
    Ridendo e festeggiando insiememente
su per l'erbette insieme n'andavamo
e d'amor ragionando lietamente.
    Ora innanzi ora 'ndietro tornavamo,
e talora cogliendo erbette e fiori
sopra li verdi prati abassavamo,
    rinnovando con gli occhi più gli ardori
degli animi, e andando per la via
soave al naso per diversi odori.
    E con colei ch'a me più agradia
cercando ogni boschetto, noi soletti,
sanza la donna ch'adietro venia,
    n'andavan tutti prendendo diletti;
tanto che quella, entrati in chiuso loco,
più non vedemmo, onde: -- Ciascun s'assetti --,
    dicendo, -- qui or aspettianla un poco --.



CANTO XLIX

    Era quel loco, dove ci trovamo,
soletto tutto, né persona appresso
di nulla parte a noi non sentavamo.
    Tutto dintorno ed ancora sopra esso
era di frondi verdi il loco pieno,
e di quelle era ben follato e spesso.
    Entrar non vi potea sol né sereno,
e di vermiglie rose in circuito
gran quantità ancor vi si vedieno.
    Allor vedendo il dilettevol sito
e me con quella dimorar soletti
e d'ogni altra compagna esser partito,
    là fra me dissi: « Io non so ch'io m'aspetti:
perché, poi che qui sono, ora non prendo
di questa i tanti affannati diletti?
    Lo loco ov'ora dimorian sedendo
to' ogni sospetto, né qui mai trovarci
quella potria che ci venia seguendo,
    ed altro non cred'io che impacciarci
potesse: costei vuole ed io 'l disio,
dunque perché cercar più d'indugiarci? ».
    In cotal ragionar m'acosta' io
a quella, e presa lei che 'n sull'erbetta
sonniferava già, al parer mio,
    lei nelle braccia mi reca' istretta:
mille fiate credo la basciai
pria si svegliasse la bella angioletta.
    Ma subito stordita a dir: -- Che fai? --
cominciò isvegliata, -- deh, non fare!
se quella donna vien, come farai? --.
    Ed io allora cominciai a parlare:
-- Donna, io non so quando mi riavesse
quel che tu ora mi vuoi far lasciare.
    Ragion sarebbe ch'io sempre piangesse,
se per preghiera che non dee valere
quel ch'io ho mattamente perdesse --.
    In cotal guisa stando, al mio parere,
già questa bella donna stava cheta,
consentendo umilmente, al mio piacere
    tutta disposta, quando l'alma lieta
di cotal bene tanta gioia prese
in sé, che ritener dentro a sua meta
    allora non poté, ma 'l sonno offese
là dov'io dolce allor facea dimora,
per che si ruppe e più non si difese.
    Tutto stordito mi riscossi allora
e strinsi a me le braccia, e mi credea
intra esse madama avervi ancora.
    Omè, quanto angosciosa e quanto rea
tal partita mi fu, e quanto caro
mi fu il dormir mentre 'n braccio v'avea!
    Ahi come ritornò in duolo amaro
quel diletto che 'l sonno m'avea porto,
ch'a ogni affanno avea posto riparo!
    Lasso, angoscioso e sanza alcun conforto,
levato pur dintorno mi mirava
immaginando ancora star nell'orto.
    La fantasia non so come m'errava,
e, mentre avea sognato, mi credeva
non sogno avesse e così estimava.
    Ora stordito sognar mi pareva,
e lungo spazio non seppi ov'io m'era
né vero sentimento in me aveva.
    Ritornato ch'io fui poi nella vera
conoscenza di prima e lagrimato
ebbi per certo spazio quivi ov'era:
    « Omè », dicendo, « dove son io stato
con tanta gioia? Ora fosse piaciuto
a Dio ch'i' non mi fossi mai destato,
    e 'n cotal gioia sempre sare' suto!
Ancor mi fora leggiero il dormire
se più tal don mi fosse conceduto.
    Pianto ed angoscia e noioso martire
di ciò mi crebbe, e multiplicò 'l foco
in me vie più d'amoroso disire,
    il quale io sento che a poco a poco
tutto mi sface; e già saria finita
la vita mia, se non che a quel loco
    veracemente spero che reddita
ancor farò con essenza perfetta,
allor prendendo quella gioia compita,
    nella quale ora dormendo imperfetta
stetti. E questo l'amorosa mente
solo disia e fermamente aspetta,
    ove Colui, che di tutto è potente,
mi rechi e servi nella vostra grazia
quanto vi piace, madonna piacente,
    nella qual sempre fia la mente sazia ».



CANTO L

    Dico che poi che 'l sonno fu partito
tutto di me, che stava lagrimando
ancora in me di tal bene smarrito,
    in piè drizzato, intorno a me guardando
vidi la bella donna, la qual voi
per lo giardin mi feste andar cercando.
    -- Che pensi? -- disse a me, e poco poi
soggiunse: -- Andiam, ch'egli è voler di quella
che nel tuo sonno mi ti diè ancoi --.
    Ond'io risposi stupefatto ad ella:
–- E dove andremo? e torneren noi forse
dov'io era or con quella donna bella? --.
    -- Mai sì --, disse allora, -- e ciò che porse
il tuo dormire alla tua fantasia
tututto avrai, se da me non ti smorse.
    Ancora più per me dato ti fia
di grazia, di veder ciò che perdesti
quando lasciasti la mia compagnia.
    In quella parte là, dove or dicesti,
sanza consiglio molto esaminato
ir non si vuol, ché tu ten penteresti.
    Primieramente là dove m'è grato
seguita, ché sanza dubbio intenta
farò di farti a tempo consolato:
    e quel disio, che or più ti tormenta,
porrò in pace con quella bellezza
che l'alma al cor tuttora ti presenta --.
    Ristette allora, ed io tanta dolcezza
presi della promessa, che nel viso
tututto sfavillava d'allegrezza.
    Con voce piana e tutto pien di riso
risposi a lei: -- Donna gentile, io vegno,
né più da te voglio esser mai diviso.
    Humile e pian, quant'io posso, m'assegno
a te: fa sì ch'al piacer di colei,
di cui io sono, io non trapassi il segno --.
    -- Ell'ha del mio voler --, disse costei, --
-- in mano il fren, sì ch'io non posso fare
se non sol quel ch'è in piacere a lei.
    Di tanto sempre mi veggo onorare
da essa, ch'io lei lascio, che giammai
oltre alla voglia mia non vuoi mutare --.
    E questo detto disse: -- Andiamo omai,
che 'l tempo è brieve a quel che voi fornire --;
per ch'io sanza più dir la seguitai.
    Così adunque vo per pervenire,
donna gentile, al loco dove sendo
voi ebbi tanta gioia nel mio dormire,
    tuttor notando quel ch'andrò vedendo
dietro a costei per la portella stretta,
e di scriverlo oltre ancora attendo.
    Or vi voglio pregar, donna diletta,
che poi che la passata visione
tututta con diletto avrete letta,
    mirando dove cade riprensione
mi correggiate, e cara la teniate
pensando alla mia buona affezione.
    Io non mi curo poi se dispregiate
fien forse le sue rime e sua sentenza,
sol che a voi sien dilettose e grate.
    Per vostro onore e somma reverenza
della fé ch'io vi deggio, come a donna
di virtuosa e somma intelligenza,
    atando me la possa che s'indonna
in ciascun cuor gentil che da virtute
per accidente alcun mai non si sdonna,
    rispetto avendo ancora alla salute
che da vo' isperanza mi promette
a mitigar l'amorose ferute,
    aggio composte queste parolette
in rima, e fine faccio col piacere
di voi, in cui l'alma tutta si rimette,
    vaga e contenta solo di potere
far cosa che v'agrada, e questo vole,
questo disia e questo l'è 'n calere,
    ed il contrario più ch'altro le dole.
Dunque, donna gentile e valorosa,
di biltà fonte, com di luce sole,
    rimirate alla fiamma che nascosa
dimora nel mio petto, ed ispegnete
quella con l'esser verso me piatosa.
    Amor mi diede a voi, voi sola sete
il ben che mi promette la speranza,
sola mia vita in gioia tener potete.
    Solo mio ben, sola mia disianza,
solo conforto della vaga mente,
sola colei che mia virtute avanza
    sete e sarete sempre al mio vivente;
né più disio né disiar più voglio
fuor che d'esser a tal biltà servente.
    Adunque quello ardor in cui m'invoglio
terminerete omai quando vi piace,
ch'io vi sono entro ognor più ch'i' non soglio:
    io v'acomando al Sir di tutta pace.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Tutte le opere di Giovanni Boccaccio - Volume III", a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1974







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