5-6 novembre 1953: quando morire per l’Italia era un onore

 

di V. - N.V.G.

Con il Trattato di pace di Parigi del 1947 ricominciò di nuovo il calvario per le terre orientali d’Italia. Si arrivò ad una soluzione per l’intera Venezia Giulia: quasi tutta l' Istria, le città di Fiume e di Zara, passarono alla Jugoslavia (si assistette così all' esodo di quasi 350 mila italiani verso la restante Italia), Gorizia e Monfalcone rimasero italiane, mentre Trieste e l' Istria nord-occidentale andarono a formare il "Territorio Libero di Trieste", una nuova entità statale riconosciuta dalle potenze alleate e dall'Italia, la cui integrità sarebbe stata assicurata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il TLT fu suddiviso temporaneamente in una "zona A" (da Duino a Muggia) sotto l'amministrazione militare anglo-americana e in una "zona B" (da Capodistria a Cittanova d' Istria) sotto l' amministrazione jugoslava. Contro queste disposizioni, si manifestò a Trieste e nel resto della regione un forte movimento di opposizione, il quanto in TLT avrebbe significato il distacco dalla madre patria e la perdita totale di gran parte dell'Istria, di Fiume e di Zara, assegnate alla Jugoslavia.
Erano gli inizi degli anni cinquanta e in molte parti d'Italia si manifestava per l'italianità del capoluogo giuliano e di tutta la regione.

Le prime manifestazioni di protesta violentemente represse si ebbero a Trieste il 15 settembre 1947. Ma i primi veri disordini scoppiarono il 20 marzo 1952, quando la polizia civile, agli ordini degli ufficiali inglesi, reprime duramente, con una brutalità mai registrata, la popolazione radunatasi in Piazza dell' Unità. Il prefetto Palutan, il quale, dal suo ufficio, aveva osservato al violenza ingiustificata della Polizia contro la folla, scende in piazza ad esprimere la sua indignazione agli ufficiali inglesi. La manifestazione, che doveva essere una protesta contro Tito e il regime jugoslavo in Istria, si trasforma in una aperta e unanime ribellione contro gli inglesi occupatori, creando una fattura insanabile fra la popolazione della città e il governo militare alleato. Sono le tre giornate di passione triestina. Il bilancio è di ben 157 feriti (di cui 51 della polizia civile) e 61 arrestati. Imponenti manifestazioni di solidarietà si registrano a Milano, Roma e Napoli. Il 5 novembre 1953 il comportamento del generale Winterton e l' atteggiamento della polizia civile suscitano vasto risentimento fra la popolazione. Un gruppo di studenti, che manifesta per l' Italia presso la chiesa di S. Antonio nuovo, subisce una violenta aggressione da parte della Polizia. La chiesa è invasa e diverse persone ferite. Cadono uccisi Antonio Zavadil e lo studente quindicenne Piero Addobbati. Nel pomeriggio, durante la cerimonia di riconsacrazione della chiesa, la polizia carica i fedeli accorsi numerosi per assistere al rito religioso. All' imbrunire duemila persone, in piazza dell' Unità, reclamano l' esposizione del tricolore imbrunato, ma saranno dispersi dalla polizia. L' indomani l' esasperazione raggiunse l' acme. Cortei di cittadini sboccano da tutte le strade verso piazza dell' Unità. La polizia, di fronte alla marea crescente di popolo, teme di essere travolta e reagisce aprendo il fuoco. Cadono l' universitario Francesco Paglia, l' ex partigiano Saverio Montano, il sedicenne Leonardo Manzi e il marittimo Elio Bassa. Sarebbero dovuti passare due decenni, da quegli anni cinquanta pieni di manifestazioni popolari in tutt' Italia per Trieste italiana, perchè venisse siglato dal Ministro Rumor il vergognoso accordo di Osimo, nel 1975, allorchè l' Italia rinunciava definitivamente alla "zona B" e pure ai territori tutt' intorno alla città, non ottenendo in cambio proprio niente, neanche la restituzione delle zone che erano state assegnate alla conferenza di pace, con in più la partecipazione ad attività imprenditoriali miste, che andavano regolarmente a favore di aziende jugoslave.

Ma che senso ha oggi, a cinquant’anni di distanza, ricordare questi fatti così dolorosi per noi giuliani?

La domanda è retorica, logico, ma vale la pena fare alcune considerazioni: viviamo in un mondo che fa del materiale e del consumo i suoi valori fondanti; le uniche date che i politici ci vogliono far ricordare sono il 25 aprile e il 1 maggio (altro giorno nefando per la Venezia Giulia, che ci ricorda i quaranta giorni di occupazione titina), in un paese che sembra avere memoria solo per i coraggiosi “eroi” di Via Rasella.

Noi vogliamo ricordare invece chi ha voluto bagnare col proprio sangue le vie di Trieste, chi nel nome dell’Italia, della Patria, ha dato quanto di più caro aveva: la vita.

E non è retorica, questa volta, parlare di Patria. Sì, perché in un’Italia dove ormai tutti son Patrioti, dove centro-destra e centro-sinistra hanno nel loro simbolo il tricolore, dove milioni di persone danno per scontato che sulla loro carta d’identità vi sia scritto “Repubblica Italiana”, c’è ancora chi crede che la Patria sia qualcosa di più grande, di più forte, di più profondo.

Quello in cui credevano i triestini morti nelle piazze nel 1953, e tutti i feriti, era molto di più dell’Italia liberal-capitalista di Berlusconi e Fini che non vede l’ora che Slovenia e Croazia entrino in Europa; molto di più dell’Italia di D’Alema e Rutelli che a Basovizza non sono mai stati, e che forse non sanno nemmeno cosa sia.

Erano altri tempi, certo: tempi migliori aggiungerei, tempi in cui lottare per un ideale era un nobile gesto, tempi in cui a sedici anni si era già uomini. Tempi in cui morire per l’Italia aveva un senso. E non dimentichiamo che morire nel 1953 significava non solo morire per Trieste Italiana, ma anche morire per Pola, Fiume, Zara italiane, e per tutte le terre che sono state dimenticate troppo in fretta da un paese che voleva chiudere la porta al proprio vergognoso passato.

Nell’Italia odierna c’è chi vorrebbe dimenticare tutto in nome di una Riconciliazione generale, c’è chi grida al ritorno del fascismo quando vede sventolare tricolori con i nomi delle città martiri istriane, c’è chi addirittura si compiace dei poveri corpi gettati nelle foibe. A maggior ragione abbiamo il dovere di tenere alto il ricordo dei “nostri” eroi, e far si che siano da esempio alle nuove generazioni; esempio di lotta, di coraggio e di lealtà ai più alti valori morali.

Concedetemi un ultimo pensiero ad una persona che oggi purtroppo non c’è più: anch’egli in quei tristi giorni di novembre volle macchiare col proprio sangue la storia della Venezia Giulia. Oggi senz’altro, anche nel 2002, lo rifarebbe, ne sono certo…