PERIODO 1880-1918

Il rapporto italo-sloveno nella regione adriatica ha la sua origine nella fase di crisi successiva al crollo dell'impero romano, quando da una parte sul tronco della romanità si sviluppa l'italianità e dall'altra si verifica l'insediamento della popolazione slovena. Di questo secolare rapporto di vicinanza e di convivenza s'intende qui trattare il periodo, che si apre intorno al 1880, segnato dal sorgere di un rapporto conflittuale e di un contrasto nazionale italo-sloveno.

Questo conflitto si sviluppa all'interno di una realtà politico-statale, la monarchia asburgica, della quale le diverse zone costituenti il Litorale austriaco erano entrate a far parte attraverso un secolare processo, iniziato nella seconda metà del XIV secolo e conclusosi, con l'Istria veneziana, nel 1797. La plurinazionale monarchia asburgica nella seconda metà del XIX secolo appare incapace di dare vita a un sistema politico che rispecchiasse compiutamente nella struttura statale la multinazionalità della società, ed è scossa pertanto da una questione delle nazionalità che essa non sarà in grado di risolvere. All'interno di questa Nationalitätenfrage asburgica si colloca il contrasto italo-sloveno, sul quale si riflettono anche i processi di modernizzazione e di trasformazione economica, che toccano tutta l'Europa centrale e la stessa area adriatica.

Il rapporto italo-sloveno appare così caratterizzato, secondo un modello che si ritrova anche in altri casi della società asburgica del tempo, da un contrasto tra coloro, gli italiani, che cercano di difendere uno stato di possesso (Besitzstand) politico-nazionale ed economico-sociale e coloro, gli sloveni, che tentano invece di modificare o di ribaltare la situazione esistente. Il problema è reso ancora più complesso dall'indubbio richiamo culturale ed emotivo, anche se non sempre politico, che l'avvenuta proclamazione del Regno d'Italia e forse più ancora il passaggio a questo stato dei vicini territori del Veneto e del Friuli esercitano sulle popolazioni italiane d'Austria. Allo sguardo che gli italiani rivolgono oltre le frontiere della monarchia si contrappone la volontà slovena di rompere i confini politico-amministrativi, che in Austria li dividono tra diversi Kronländer (oltre ai tre del Litorale, la Carniola, la Carinzia e la Stiria), limitandone i rapporti reciproci e la collaborazione politico-nazionale.

L'unione del Veneto al Regno d'Italia aveva determinato anche la nascita di una questione che tocca direttamente le relazioni italo-slovene: con il 1866 la Valle del Natisone, la Slavia veneta, entra a fare parte dello stato italiano, la cui politica verso la popolazione slovena esprime immediatamente la differenza tra un vecchio stato regionale, la Repubblica di Venezia, e il nuovo stato nazionale. Il Regno d'Italia segue una linea di cancellazione del particolarismo linguistico, che ha le sue radici in una volontà uniformizzatrice che non tiene in alcun conto neppure l'atteggiamento lealistico della popolazione che è oggetto di queste misure.

Intorno all'anno 1880 gli sloveni si erano ormai dotati di basi sufficientemente solide per un'autonoma vita politica ed economica in tutte le unità politico-amministrative austriache nelle quali essi vivevano. Anche nel Litorale austriaco il movimento politico degli sloveni del Goriziano, del Triestino e dell'Istria costituì parte integrante del movimento politico degli sloveni nel loro complesso. Viene così a diminuire, per poi cessare quasi completamente nei decenni successivi, l'assimilazione della popolazione slovena (e anche croata) trasferitasi nei centri cittadini e in particolare a Trieste.

La più viva coscienza politica e nazionale e la maggiore solidità economica sono alla base di questo fenomeno che allarma le élites italiane, dà vita a una politica spesso angusta di difesa nazionale, che contrassegnerà la storia della regione sino al 1915, e contribuisce a rendere più teso il rapporto tra i due gruppi nazionali, anche a causa delle contrastanti aspirazioni slovene e italiane a una diversa delimitazione dei rispettivi territori nazionali.

In tutte e tre le componenti territoriali del Litorale austriaco (Trieste, Contea di Gorizia e di Gradisca, Istria) sloveni e italiani convivevano gli uni accanto agli altri. Nel Goriziano la delimitazione nazionale appariva più netta, con una separazione longitudinale Occidente-Oriente, etnicamente mista era solo la città di Gorizia, dove il numero degli sloveni era però crescente, tanto da far ritenere ad autori politici sloveni alla vigilia del 1915 che il raggiungimento di una maggioranza slovena nella città isontina fosse ormai imminente. Trieste era a maggioranza italiana, ma il suo circondario era sloveno.

Anche in questo caso la popolazione slovena appariva in ascesa. In Istria gli sloveni erano presenti nelle zone settentrionali, per la precisione nel circondario delle cittadine costiere a prevalenza italiana. In tutta l'Istria il movimento politico-nazionale degli sloveni si saldava con quello croato, rendendo talora difficile una trattazione distinta delle due componenti della realtà slavo-meridionale della penisola.

Il carattere peculiare degli insediamenti italiano e sloveno nel Litorale è rappresentato dalla fisionomia prevalentemente urbana di quello italiano ed eminentemente rurale di quello sloveno. Questa distinzione non va però assolutizzata, non devono essere dimenticati gli insediamenti rurali italiani in Istria e in quella parte del Goriziano detta allora Friuli Orientale e quelli urbani sloveni - oltre a tutto in espansione, come si è già detto - a Trieste e a Gorizia.

Ma anche se una separazione troppo marcata tra realtà urbana e rurale va evitata, il rapporto città-campagna rappresenta effettivamente un momento fondamentale della lotta politica nel Litorale, determinando anche un intersecarsi di motivi nazionali e sociali nel contrasto italo-sloveno, che ne renderà più difficile una composizione. Il nodo del rapporto tra città e campagna sta anche alla base di un dibattito politico e storiografico tuttora in corso sull'autentica fisionomia nazionale della regione Giulia.

Da parte slovena si afferma l'appartenenza delle città alla campagna, sia perché nelle aree rurali si sarebbe conservata intatta, non alterata dal sovrapporsi di processi culturali e sociali, l'identità originale di un territorio, sia perché il volto nazionale delle città sarebbe la conseguenza di processi di assimilazione che hanno impoverito la nazione slovena. La perdita dell'identità nazionale attraverso l'assimilazione è quindi vissuta dagli sloveni, ancora decenni dopo, come un'esperienza dolorosa e drammatica, che non deve ripetersi. Da parte italiana si replica con il richiamo al principio dell'appartenenza nazionale come frutto di una scelta culturale e morale liberamente compiuta e non di un'origine etnico-linguistica.

Tornando al nesso città-campagna, secondo l'interpretazione italiana è invece la tradizione culturale e civile delle città che dà la propria impronta alla fisionomia e al volto di un territorio. Da questa differenza di impostazione deriveranno anche i successivi contrasti sul concetto di confine etnico e sul significato degli stessi dati statistici sulla nazionalità delle popolazioni in aree di frontiera, alterati - a parere degli sloveni - dall'esistenza di polmoni urbani prevalentemente italiani.

Benché la questione nazionale all'interno della monarchia asburgica presenti alcuni denominatori comuni, le condizioni conflittuali nelle singole zone e quindi anche nel Litorale presentano peculiarità specifiche. La rapida crescita del movimento politico ed economico sloveno e l'espansione demografica degli sloveni nelle città sono ricondotte da parte italiana anche all'azione dell'autorità governativa che avrebbe attuato una politica di sostegno all'elemento sloveno (ritenuto indubbiamente più leale di quello italiano, come risulta da dichiarazioni esplicite di autorità austriache), per contrastare l'autonomismo e il nazionalismo italiano.

L'attribuzione di una fisionomia esclusivamente artificiale all'espansione slovena non tiene però conto di quella che è la naturale forza di attrazione esercitata da centri urbani verso le aree rurali e nel caso specifico a quella esercitata da una grande città in crescita dinamica come Trieste verso il suo circondario. Questo rapporto risponde a leggi economiche, come hanno sottolineato Angelo Vivante e Scipio Slataper, e non solo a un disegno politico.

Anche alla Chiesa cattolica, come all'autorità governativa, gli ambienti nazionali e liberali italiani rimproverano frequentemente di svolgere una funzione filo-slovena, affermazione questa suffragata dall'attiva partecipazione di sacerdoti al movimento politico sloveno.

Su un piano politico-amministrativo l'asprezza della questione nazionale impedisce o rende incompleto l'adeguamento delle istituzioni e dei rapporti linguistici ai principi costituzionali e alle idee liberali. Le modifiche alle leggi elettorali locali si mantengono nell'ambito del sistema censitario: in tal modo la composizione dei consigli dietali e comunali non rispecchia le reali proporzioni numeriche esistenti tra i gruppi nazionali (ad esempio nella Dieta provinciale di Gorizia esisteva una maggioranza italiana, anche se gli sloveni costituivano i 2/3 della popolazione di quel territorio). L'evoluzione delle disposizioni in materia linguistica e lo sviluppo delle strutture scolastiche slovene e croate sono frenati dagli organi politici a maggioranza italiana, che impediscono una piena parificazione tra le lingue parlate nel Litorale, due nella Contea di Gorizia e a Trieste e tre in Istria.

Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale gli sloveni e gli italiani non strinsero legami politici. Costituisce un'eccezione la Dieta goriziana, nella quale si verificarono inconsuete alleanze tra i cattolici sloveni e i liberali sloveni e i cattolici italiani a stringere intese contingenti.

I cattolici italiani del Goriziano avevano il proprio punto di forza specie nella campagna friulana, dove agiva il partito popolare friulano, i cui dirigenti furono più tardi tacciati di austriacantismo. Il tentativo di dare vita ad associazioni cattoliche slovene-italiane, fallì, né suscitò più tardi legami tra i due popoli il movimento cristiano-sociale. Appare dunque evidente come le ragioni dell'appartenenza nazionale facessero premio su quelle ideologiche.

Questa tendenza è ancora più chiara in Istria, dove il partito popolare italiano è più vicino a posizioni nazionali e dove la vita politica è imperniata su una contrapposizione tra un blocco italiano, che tenta di mantenere in vita la prevalenza italiana nelle istituzioni politiche e nel sistema scolastico, e un blocco croato-sloveno, che cerca invece di modificare l'equilibrio esistente. In campo liberale e popolare-cattolico i due gruppi nazionali sono rappresentati in tutto il Litorale da parte di partiti "nazionali" distinti e contrapposti.

Si instaurarono invece legami più solidi nell'ambito del movimento socialista improntato all'internazionalismo benché nel Litorale austriaco esso si fosse dato un'organizzazione articolata in base a criteri nazionali. Fu proprio l'affermazione di questo principio a contenere l'assimilazione dei lavoratori sloveni, ma vi furono palesi attriti fra i socialisti delle due nazionalità e divergenze di vedute spesso aspre si manifestarono anche successivamente, verso la fine della prima guerra mondiale, nel corso delle discussioni sulla appartenenza statale di Trieste e sulla sua identità nazionale.

Un progetto croato, che contemplava una comune resistenza a un'asserita germanizzazione della monarchia asburgica, avrebbe potuto dare vita ad un "patto adriatico" tra le nazioni gravitanti sul Litorale, ma esso avrebbe, secondo gli sloveni, attribuito agli italiani aree di influenza così estese da danneggiare gli interessi sloveni.

Il mancato sviluppo di un dialogo e di una cooperazione italo-sloveni incide profondamente sull'atmosfera di Trieste e, sia pure in misura minore, anche di Gorizia e dell'Istria alla vigilia del 1915. Italiani e sloveni guardano prevalentemente alla loro identità nazionale e si rivelano scarsamente capaci di sviluppare un senso di appartenenza comune alla terra nella quale entrambi i gruppi nazionali sono radicati. Gli sloveni perseguono l'idea di una Trieste capace di alimentare l'attuazione dei loro programmi economici e sottolineano il ruolo centrale per il loro sviluppo di questa città, la cui popolazione slovena sebbene minoritaria era superiore a quella della stessa Lubiana, in ragione della diversa consistenza demografica delle due città.

La loro espansione demografica li portava a ritenere imminente il momento della conquista della maggioranza della popolazione a Gorizia e inevitabile, sia pure in tempi più lunghi, un risultato analogo a Trieste. La maggioranza della popolazione italiana si raccoglie così intorno a una politica di intransigente difesa nazionale, tesa a salvaguardare un'immutabile fisionomia italiana della città. Se gli sloveni guardano a un retroterra vicino, gli italiani si rivolgono al più lontano retroterra dei territori interni della monarchia e anche al Regno d'Italia.

In campo italiano Ruggero Timeus sviluppa anche un nazionalismo radicale minoritario che è fondato sull'idea di una missione civilizzatrice in senso culturale e nazionale della città e sull'imperativo di un'espansione economica dell'italianità nell'Adriatico. La forza politica più rappresentativa degli italiani di Trieste è però il partito liberale-nazionale, nel quale sopravvive una minoranza legata all'ispirazione mazziniana mentre la maggioranza vede il compito immediato dell'irredentismo nella difesa dell'identità italiana della città e delle sue istituzioni.

In questo clima teso e infuocato vennero alla luce anche idee di personalità del mondo della cultura che si innestarono sul solco segnato dagli autori della rivista "La Favilla" nella fervida atmosfera del 1848. Si trattò del gruppo che si raccolse intorno alla rivista fiorentina "La Voce", resasi promotrice di iniziative rivolte alla convivenza tra i popoli nonché alla conoscenza e al riconoscimento della realtà plurietnica di Trieste e del suo circondario. A questa rivista collaborarono alcuni giovani triestini, tra i quali Slataper e i fratelli Carlo e Giani Stuparich.

In opposizione all'irredentismo politico essi definiscono la loro posizione con il termine di irredentismo culturale e intendono sviluppare la cultura italiana nel confronto e nel dialogo con quelle slavo-meridionali e tedesca. Trieste assume quindi per loro la funzione di luogo di incontro tra popoli e civiltà diversi; la loro concezione politica sino al 1914 è quindi molto simile a quella del socialismo triestino. Del resto proprio nelle edizioni de "La Voce" viene pubblicato il più maturo risultato del pensiero socialista, e cioè il volume di Vivante sull'irredentismo adriatico. Dal versante sloveno non si ebbero riscontri incoraggianti né si registrarono reazioni a questo libro.

Gli sloveni apparivano ancora impegnati nella ricerca di una propria identità e incapaci di incamminarsi alla scoperta di altre identità. Rari furono coloro i quali riuscirono a ergersi al di sopra delle barriere nazionalistiche, si vedano ad esempio alcuni giudizi della fondazione dell'università a Trieste. Le tensioni erano troppo acute e agli sloveni pareva preferibile e più a portata di mano una soluzione slavo-meridionale della crisi che attanagliava la monarchia austriaca alla vigilia dello scoppio del primo conflitto mondiale. Con la prima guerra mondiale il programma dell'irredentismo diventa parte integrante della politica italiana, sia pure nella convinzione - che durerò almeno sino alla primavera del 1918 - che l'Austria-Ungheria, anche se profondamente ridimensionata sotto il profilo territoriale, sarebbe sopravvissuta al conflitto.

Prima ancora dell'entrata in guerra dell'Italia il diplomatico italiano Carlo Galli nel corso di una missione a Trieste incontrò, per incarico del suo governo, esponenti sloveni.

Per la dirigenza slovena si trattò dei primi contatti ufficiali con uno stato straniero. Già con il patto di Londra però il governo italiano adottò un programma di espansione, nel quale accanto alle motivazioni nazionali erano presenti ragioni geografiche e strategiche. Il già diffuso lealismo sloveno nei confronti dello stato austriaco trasse ulteriore alimento dalle prime voci sugli aspetti imperialistici del patto di Londra e sulle soluzioni in esso adottate in merito al confine orientale del Regno d'Italia nonché dall'atteggiamento delle autorità militari italiane nelle prime zone occupate.

Un parziale revirement italiano si determinò dopo la sconfitta di Caporetto, dando luogo a una politica di dialogo con le nazionalità soggette d'Austria-Ungheria che culminò nel congresso di Roma dell'aprile 1918 e in un'intesa con il comitato jugoslavo. Mentre il persistere del lealismo asburgico sembra ormai contraddittorio di fronte ai processi di disgregazione interna che scuotono lo stato austro-ungarico, tra gli sloveni si diffondono l'idea del diritto all'autodeterminazione e quella della solidarietà jugoslava. Nella fase finale della guerra e all'inizio del dopoguerra si palesa con tutta evidenza il contrasto tra una tesi slovena e jugoslava, tendente a un confine "etnico", che affonda le sue radici nella concezione dell'appartenenza della città alla campagna e che sostanzialmente coincide con il confine italo-austriaco del 1866, e una tesi italiana, mirante a un confine geografico e strategico, determinata dal prevalere nella penisola delle correnti più radicali e dalla necessità politico-psicologica di garantire una frontiera sicura alle città e alla costa istriane, prevalentemente italiane, e di offrire all'opinione pubblica segni tangibili di ingrandimenti territoriali, che compensassero gli enormi sacrifici richiesti al paese durante la guerra.

PERIODO 1918-1941

L'Italia, vittoriosa nella prima guerra mondiale, concluse così il proprio processo di unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale austriaco ed estranei allo stesso concetto di Venezia Giulia italiana, come era stato elaborato negli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse componenti nazionali residenti nei territori dapprima occupati e poi annessi: gli italiani infatti accolsero con entusiasmo la nuova situazione, mentre per gli sloveni, che si erano impegnati per l'unità nazionale e si erano già alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo, l'inglobamento nello stato italiano comportò un grave trauma.

Il nuovo assetto del confine, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915 e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e l'Adriatico, strappò dal ceppo nazionale, un quarto del popolo sloveno (327.230 unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schiffrer), ma la crescita del numero degli sloveni presenti in Italia non influì sulla situazione di quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del Regno, ritenuti ormai assimilati e ai quali non venne pertanto riconosciuto alcun diritto nazionale.

L'amministrazione italiana, dapprima militare e poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad affrontare i delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati, dove si riscontravano consistenti insediamenti - in ampie zone maggioritari - di popolazioni non italiane che aspiravano all'unione con la propria "madrepatria" (nel caso degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che avevano compiuto per lo più la loro acculturazione politica nell'ambito dello stato plurinazionale asburgico.

Tale impreparazione, unita al retaggio della guerra appena conclusa - in cui gli slavi erano stati considerati come nemici, strumenti privilegiati dell'oppressione austriaca - provocò da parte delle autorità italiane comportamenti fortemente contraddittori. Da un lato, nel periodo 1918-20, quando il confine italo-jugoslavo non era ancora definito, le autorità di occupazione, influenzate pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano pesante nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la propria volontà di annessione alla Jugoslavia.

Furono così assunti numerosi provvedimenti restrittivi - sospensione di amministrazioni locali, scioglimento di consigli nazionali, limitazioni della libertà di associazione, condanne dei tribunali militari, detenzione di militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali - che penalizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente slovena. Al tempo stesso le autorità di occupazione favorirono le manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la definizione del nuovo confine un quadro politicamente italiano delle regioni.

D'altra parte, i governi liberali italiani, pur all'interno di un disegno generale di nazionalizzazione dei territori annessi, furono generosi di promesse nei confronti della minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell'istruzione scolastica in lingua slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche il progetto - sostenuto da esponenti politici giuliani e trentini, e che i governi prefascisti presero in seria considerazione - di conservare ai territori annessi forme di autonomia non lontane da quelle già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito un migliore rapporto fra le componenti minoritarie e lo stato. Inoltre, il Parlamento italiano formulò voti in favore di una politica di tutela della minoranza slava.

L'irremovibilità delle delegazioni italiane e jugoslava alla conferenza di Parigi sul problema della definizione del nuovo confine ritardò la stabilizzazione politica dei territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il formarsi del mito della "vittoria mutilata" e l'impresa dannunziana di Fiume, pur non riguardando direttamente l'area abitata da sloveni, accesero ulteriormente gli animi e costituirono il terreno ideale per l'affermarsi precoce del "fascismo di frontiera", che si erse a tutore degli interessi italiani sul confine orientale e coagulò gran parte delle locali forze nazionaliste italiane attorno all'asse dell'antislavismo combinato con l'antibolscevismo.

Il movimento socialista vedeva infatti una larga adesione degli sloveni - fiduciosi nei suoi principi di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale - che contribuirono a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche da ciò in seguito derivò la coniazione da parte fascista del neologismo "slavocomunista" che alimentò ulteriormente l'estremismo nazionalista. Nel luglio del 1920, l'incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene, di Trieste - che trasse pretesto dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono vittime sia italiane sia jugoslave - non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia come altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all'aggressività fascista, che si giovò di aperte collusioni con l'apparato dello stato, qui ancor più forti che altrove, come conseguenza della diffusa ostilità antislava.

Le "nuove province" d'Italia nascevano così con pesanti contraddizioni tra principio di nazionalità, ragion di stato e politica di potenza, che minavano alla base la possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali diversi.

Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il regno d'Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell'area considerata dagli sloveni come proprio "territorio etnico". Tale esito era dovuto alla favorevole posizione negoziale dell'Italia che usciva dalla Grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo status di "grande potenza". Il trattato, che non vincolò l'Italia al rispetto delle minoranze slovena e croata, garantiva invece la tutela della minoranza italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un trasferimento di alcune migliaia di italiani da questa regione al Regno d'Italia.

Clausole riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani e jugoslavi, il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre le premesse per una reciproca amicizia e collaborazione fra i due stati. Così invece non fu e ben presto la politica estera del fascismo si incamminò lungo la via dell'egemonia adriatica e del revisionismo, assumendo crescenti connotati anti-jugoslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati a espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano e trovò non pochi consensi nella popolazione italiana della Venezia Giulia. Presero corpo anche progetti di distruzione della compagine jugoslava, solo momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano-Stojadinovic del 1937, che sembrarono per breve tempo preludere all'ingresso della Jugoslavia nell'orbita italiana. Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe trasformato tali progetti in un preciso disegno di aggressione.

Nonostante la difficile situazione esistente nella Venezia Giulia, la politica degli esponenti sloveni e croati - tra cui i loro rappresentanti al parlamento - fu improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l'avvento del fascismo; tra l'altro, essi non aderirono all'opposizione legale quando nel 1924 essa si ritirò sull'Aventino in segno di protesta contro il delitto Matteotti. Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati della minoranza tedesca dell'Alto Adige, non diede alcun risultato, anzi, il regime fascista si impegnò a fondo, anche per via legislativa, nella snazionalizzazione di tutte le minoranze nazionali.

Così nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale. Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all'interno del regno, licenziati o costretti a emigrare, posti limiti all'accesso degli sloveni al pubblico impiego, soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, decine di cooperative economiche e istituzioni finanziarie, case popolari, biblioteche, ecc. Partiti politici e stampa periodica vennero posti fuori legge, eliminata fu la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali, proibito l'uso pubblico della lingua.

Le minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica e i loro rappresentanti fuoriusciti continuarono a operare tramite il Congresso delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così all'impostazione di una politica generale per la soluzione delle problematiche minoritarie.

L'impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica, nell'intento di arrivare alla "bonifica etnica" della Venezia Giulia. Così, l'italianizzazione dei toponimi sloveni o l'uso esclusivo della loro forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell'emigrazione, all'impiego di elementi sloveni nell'interno del paese e nelle colonie, all'avvio di progetti di colonizzazione agricola interna da parte di elementi italiani, ai provvedimenti economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla "superiore" civiltà italiana.

A tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva assai brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie che la politica di "bonifica etnica" avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche perché l'intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime.

L'azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa cattolica, dal momento che fra gli sloveni - dispersi e in esilio quadri dirigenti e intellettuali - fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la coscienza nazionale, in continuità con la funzione già svolta in epoca asburgica. I provvedimenti repressivi colpirono direttamente il basso clero, oggetto di aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni vennero condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui l'alto clero si era nei decenni precedenti guadagnato da parte dei nazionalisti italiani una solida fama di austriacantismo e filo-slavismo.

Tappe fondamentali dell'addomesticamento della Chiesa di confine - il cui esito va inserito nell'ambito dei nuovi rapporti fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo - furono la rimozione dell'arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive "romanizzatrici" del Vaticano, in conformità a quanto avveniva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità "alloglotte", come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano a offrire il minimo di occasioni di ingerenza in materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei principi cattolici che la Santa Sede riteneva minacciati dalla civiltà moderna. Questi provvedimenti comportavano in via di principio l'abolizione dell'uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in forma clandestina soprattutto in ambito rurale, a opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cristiano sociale.

Tale situazione provocò gravi tensioni tra i fedeli e i sacerdoti slavi da un lato, e i nuovi vescovi dall'altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modo d'intendere il ruolo del clero, cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria nella difesa dell'identità nazionale, che appariva invece agli ordinari diocesani italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stesse di fatto collaborando con il regime a un'opera di italianizzazione che investiva ogni campo della vita sociale.

Gli anni Venti e Trenta furono per i territori annessi un periodo di crisi economica, solo tardivamente interrotta dalla politica autarchica: alle difficoltà generali segnate dalle economie europee fra le due guerre si sommarono infatti gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione dell'area danubiano-balcanica, vitale per le fortune economiche delle terre giuliane. I provvedimenti compensativi assunti dallo stato italiano non riuscirono a invertire la tendenza negativa del periodo, dal momento che le sue cause profonde - vale a dire, la rottura dei legami con il retroterra - sfuggivano alla capacità di intervento sia delle forze locali sia della stessa Italia. Ciò dimostrò l'assurdità delle teorie imperialiste, predilette dai nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trieste e della Venezia Giulia la base per la penetrazione italiana nell'Europa centro-orientale e balcanica, ma procurò anche blocco delle prospettive di sviluppo e, spesso, riduzione del tenore di vita, specie negli strati inferiori della società, nei quali più numerosi erano gli sloveni.

Difficoltà economiche e pesantezza del clima politico favorirono fra le due guerre un robusto flusso migratorio della Venezia Giulia: le fonti non ci consentono di quantificare con precisione l'apporto sloveno a tale fenomeno, che coinvolse anche elementi italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell'ordine presumibile delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono complessivamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche e politiche, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto giovani e intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni politiche del fascismo è ben evidente.

Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma di distruzione integrale dell'identità nazionale slovena e croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di volontà, ma per quella carenza di risorse che, in questo come in altri campi, rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica snazionalizzatrice riuscì infatti a decimare la popolazione slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere largamente gli intellettuali e i ceti borghesi e a proletarizzare la popolazione rurale, che però, nonostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra.

Il risultato più duraturo raggiunto dalla politica fascista fu però quello di consolidare, agli occhi degli sloveni, l'equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Analogo atteggiamento di ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugoslavia, anche se, alla metà degli anni Trenta, l'ideologia corporativa del fascismo attirò alcuni ambienti politici cattolici.

Un certo interesse per la letteratura italiana venne manifestato da parte slovena specialmente sul piano della traduzione e della promozione di opere di autori italiani, mentre assai limitata fu l'attenzione degli italiani verso la letteratura slovena, anche se vi furono alcune iniziative, specie nel campo delle traduzioni. Naturalmente, a livello di rapporti personali e di vicinato, come pure in campo culturale e artistico, continuarono a sussistere ambiti in cui la convivenza e la collaborazione erano normali, e ciò avrebbe mantenuto preziosi germi che l'antifascismo e l'aspirazione alla democrazia avrebbero sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due gruppi nazionali si approfondì e nei territori giuliani si svilupparono varie forme di resistenza contro l'oppressione fascista.

In particolare la gioventù slovena di orientamento nazionalista, raccolta nell'organizzazione Tigr, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a quelli britannici, decise di reagire alla violenza con la violenza sviluppando azioni dimostrative e atti di terrorismo che provocarono repressioni durissime. Di fronte alla durezza della repressione fascista, le organizzazioni clandestine slovene assieme a quella dei fuoriusciti in Jugoslavia, decisero, verso la metà degli anni Trenta, di abbandonare le rivendicazioni di autonomia culturale nell'ambito dello stato italiano per porsi invece come obiettivo il distacco dall'Italia dei territori considerati etnicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza, il Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite.

Da parte sua, il partito comunista d'Italia maturò lentamente il riconoscimento come alleato del movimento irredentista sloveno, a lungo considerato un fenomeno borghese: la svolta si ebbe solo negli anni Trenta, sotto l'influenza dell'Internazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo prevedeva il collegamento con le forze nazional-rivoluzionarie per la costituzione dei fronti popolari. Fin dal 1926 il PCd'I riconobbe agli sloveni e ai croati residenti entro i confini d'Italia il diritto all'autodeterminazione e alla separazione dallo stato italiano, fermo restando che il criterio dell'autodecisione doveva valere anche per gli italiani.

Nel 1934 poi il PCd'I sottoscrisse assieme ai partiti comunisti della Jugoslavia e dell'Austria un'apposita dichiarazione sulla soluzione della questione nazionale slovena, impegnandosi altresì in favore dell'unificazione del popolo sloveno entro uno stato proprio. L'interpretazione da dare a tali risoluzioni sarebbe risultata particolarmente controversa durante la seconda guerra mondiale, quando il movimento di liberazione sloveno si trovò nella condizione di attuare nella prassi il proprio programma irredentista. A ogni modo, il patto d'azione stipulato nel 1936 fra il PCd'I e il movimento rivoluzionario nazionale degli sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista, mentre nella Venezia Giulia debole rimase la consistenza dell'antifascismo italiano d'impronta liberale e risorgimentale.

Va comunque ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti fra il movimento nazionale sloveno clandestino e le forze antifasciste democratiche italiane in esilio (e specialmente con il movimento Giustizia e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si impegnò ad alimentare l'attività antifascista in tutta Italia, mentre da parte italiana agli sloveni e ai croati venne riconosciuto il diritto all'autonomia e, in alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale collaborazione si interruppe quando tra gli sloveni prevalse la linea secessionista.

PERIODO 1941-1945

Dopo l'attacco tedesco contro l'Urss la guerra in Europa, specie in quella orientale, divenne totale e diretta alla completa eliminazione degli avversari. Il diritto internazionale ed anche le più elementari norme etiche vennero in quegli anni violate dai contendenti con impressionante frequenza ed anche le terre a nord dell'Adriatico vennero coinvolte in questa spirale di violenza.
La seconda guerra mondiale scatenata dalle forze dell'Asse introdusse nei rapporti sloveno-italiani dimensioni nuove che condizionarono il futuro di tali rapporti. Se infatti per un verso l'attacco contro la Jugoslavia del 1941 e la successiva occupazione del territorio sloveno acuirono al massimo la tensione fra i due popoli, nel suo insieme il tempo di guerra vide una serie di svolte drammatiche nelle relazioni fra italiani e sloveni. L'occupazione del 1941 rappresentò così per lo Stato italiano il culmine della sua politica di potenza, mentre gli sloveni toccarono con l'occupazione e lo smembramento il fondo di un precipizio; la fine della guerra rappresentò, per converso, per il popolo sloveno una fase trionfale, mentre la maggior parte della popolazione italiana della Venezia Giulia fu invece assalita nel 1945 dal timore del naufragio nazionale.

La distruzione del regno jugoslavo si accompagnò allo smembramento non solo della compagine statale jugoslava, ma anche della Slovenia in quanto realtà unitaria: la divisione del paese tra Italia, Germania ed Ungheria pose gli sloveni di fronte alla prospettiva dell'annientamento della loro esistenza come nazione di un milione e mezzo di abitanti e ciò li motivò alla resistenza contro gli invasori.

L'aggressione dell'Italia contro la Jugoslavia segnò il culmine della politica ventennale imperialista del fascismo, rivolta anche verso i Balcani ed il bacino danubiano. In contrasto con il diritto di guerra che non ammette l'annessione di territori occupati nel corso di azioni belliche prima della stipula di un trattato di pace, la Provincia di Lubiana fu annessa al Regno d'Italia. Alla popolazione della Provincia di Lubiana, di circa 350.000 abitanti, era stato garantito uno statuto di autonomia etnica e culturale; tuttavia le autorità di occupazione italiane manifestarono il fermo proposito di integrare quanto prima la regione nel sistema fascista italiano, subordinandone le istituzioni e le organizzazioni a quelle omologhe italiane.

L'attrazione politica, culturale ed economica dell'Italia avrebbe dovuto condurre gradualmente alla fascistizzazione ed all'italianizzazione della popolazione locale. Sulle prime l'aggressione fascista aveva previsto di poter soggiogare gli sloveni grazie ad un'asserita superiorità della civiltà italiana, perciò il regime d'occupazione inizialmente instaurato dalle autorità italiane fu piuttosto moderato.

A fonte di quello nazista, esso apparve perciò agli occhi degli sloveni un male minore, ed ottenne per questo alcune forme di collaborazione, anche se le stesse forze politiche che vi accondiscesero non lo fecero necessariamente in virtù di orientamenti filofascisti: gran parte degli sloveni confidava infatti, dopo un periodo di iniziale incertezza, nella vittoria delle armi alleate e vedeva il futuro del popolo sloveno a fianco della coalizione delle forze antifasciste. Fra i gruppi politici sloveni si manifestarono però due diverse vedute di fondo sulla strategia da seguire. La prima, propugnata dal Fronte di Liberazione (OF), sosteneva la necessità di avviare immediatamente la resistenza contro l'occupatore: vennero perciò formate le prime unità partigiane che condussero azioni militari contro le forze occupatrici, mentre ai piani italiani di avvicinamento culturale il movimento di liberazione rispose con il "silenzio culturale".

Aderirono al Fronte di Liberazione appartenenti a tutti i ceti della popolazione senza distinzione di credo politico ed ideale. L'altra opzione, maturata in seno agli esponenti delle forze liberal-conservatrici, suggeriva invece agli sloveni di prepararsi clandestinamente e gradualmente alla liberazione ed alla resa dei conti con l'occupatore alla fine della guerra. Certamente, tanto il Fronte di Liberazione che lo schieramento opposto, facente capo al governo monarchico jugoslavo in esilio a Londra, convergevano sull'obiettivo della Slovenia Unita, comprendente tutti i territori considerati sloveni nel quadro di una Jugoslavia federativa.

Al crescente successo delle azioni partigiane ed al radicalizzarsi della contrapposizione fra la popolazione e gli occupatori Mussolini rispose trasferendo i poteri dalle autorità civili a quelle militari, che adottarono drastiche misure repressive. Il regime d'occupazione fece leva sulla violenza che si manifestò con ogni genere di proibizioni, con le misure di confino, con le deportazioni e l'internamento nei numerosi campi istituiti in Italia (fra i quali vanno ricordati quelli di Arbe, Gonars e Renicci), con i processi dinanzi alle corti militari, con il sequestro e la distruzione di beni, con l'incendio di case e villaggi.

Migliaia furono i morti, fra caduti in combattimento, condannati a morte, ostaggi fucilati e civili uccisi. I deportati furono approssimativamente 30 mila, per lo più civili, donne e bambini, e molti morirono di stenti. Furono concepiti pure disegni di deportazione in massa degli sloveni residenti nella provincia. La violenza raggiunse il suo apice nel corso dell'offensiva italiana del 1942, durata quattro mesi, che si era prefissa di ristabilire il controllo italiano su tutta la Provincia di Lubiana.

Improntando la propria politica al motto "divide et impera" le autorità italiane sostennero le forze politiche slovene anticomuniste, specie d'ispirazione cattolica, le quali, paventando la rivoluzione comunista, avevano in quel momento individuato nel movimento partigiano il pericolo maggiore, e si erano rese perciò disponibili alla collaborazione. Esse avevano così creato delle formazioni di autodifesa che i comandi italiani, pur diffidandone, organizzarono nella Milizia volontaria anticomunista, impiegandole con successo nella lotta antipartigiana.

La lotta di liberazione si estese ben presto dalla Provincia di Lubiana alla popolazione slovena del Litorale che aveva vissuto per un quarto di secolo entro il nesso statale italiano. Ciò riaprì la questione dell'appartenenza statale di buona parte di questo territorio e rese manifesti non solo l'assoluta inefficacia della politica del regime fascista nei confronti degli sloveni, bensì pure il fallimento generale della politica italiana sul confine orientale. Contro la popolazione slovena erano stati adottati provvedimenti di carattere preventivo sin dall'inizio della guerra: l'internamento ed il confino dei personaggi di punta, l'assegnazione dei coscritti ai battaglioni speciali, l'evacuazione della popolazione lungo il confine, le condanne alla pena capitale nel quadro del secondo processo del tribunale speciale svoltosi a Trieste.

Fra gli sloveni della Venezia Giulia la lotta di liberazione capeggiata dal partito comunista trovò un terreno particolarmente fertile, perché aveva fatte proprie le loro tradizionali istanze nazionali tese all'annessione alla Jugoslavia di tutti i territori abitati da sloveni, anche di quelli in cui si riscontrava una maggioranza italiana. Il Pcs si era così assicurato l'assoluta egemonia sul movimento di massa e grazie alla lotta armata anche l'opportunità di attuare sia la liberazione nazionale che la rivoluzione sociale. Nell'opera di repressione del movimento di liberazione le autorità italiane ricorsero ai metodi repressivi già sperimentati nella Provincia di Lubiana, ivi compresi gli incendi di villaggi e la fucilazione di civili. A tal fine furono appositamente creati l'Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza e due nuovi corpi d'armata dell'esercito italiano. Le operazioni militari si estesero pertanto anche sul territorio dello stato italiano.

Nei giorni successivi all'8 settembre 1943 le forze armate ed elementi dell'amministrazione civile italiana poterono lasciare i territori sloveni senza contrasto e giovandosi anche dell'aiuto della popolazione locale. Le conseguenze dell'armistizio comunque rappresentarono una svolta chiave nei rapporti sloveno-italiani. La configurazione prevalente da essi assunta sino ad allora, che vedeva gli italiani-occupatori ovvero nazione dominante e gli sloveni-occupati ovvero popolo oppresso, si fece più complessa. Sotto il profilo psicologico ed anche in termini reali la bilancia s'inclinò a favore degli sloveni.

L'adesione della popolazione slovena della Venezia Giulia al movimento partigiano, le azioni delle formazioni militari e degli organismi di potere resero testimonianza della volontà di tale popolazione che questo territorio appartenesse alla Slovenia Unita. Tale determinazione fu sancita nell'autunno del 1943 dai vertici del movimento sloveno e fu successivamente fatta propria anche a livello jugoslavo. Anche nella Venezia Giulia gli sloveni intervennero così in veste di attore politico; ne tennero conto entro un certo limite anche le autorità tedesche che, prendendo atto dell'assetto etnico e reale del territorio, cercarono di interporsi strumentalmente come mediatrici fra italiani e slavi.

I tedeschi comunque, per mantenere il controllo del territorio fecero ricorso all'esercizio estremo della violenza, per la quale si servirono pure della collaborazione subordinata di formazioni militari e di polizia italiane, ma anche slovene. Essi inoltre utilizzarono gli apparati amministrativi italiani ancora esistenti nei centri maggiori della regione, nonché strutture di collaborazione istituite appositamente, e, nella logica del "divide et impera", sempre strumentalmente accolsero alcune richieste slovene nel campo dell'istruzione e dell'uso della lingua, concedendo pure ad elementi sloveni limitate responsabilità amministrative. La condivisione degli obiettivi anticomunisti ed antipartigiani tra le diverse forze collaborazioniste non poté però superare le reciproche diffidenze d'ordine nazionale, e ciò portò anche a scontri armati.

Più ampi furono i movimenti di opposizione all'occupazione germanica tanto che i nazisti sentirono il bisogno di adibire all'eliminazione su larga scala degli antifascisti, in primo luogo sloveni e croati, ma anche italiani, una struttura specifica, la risiera di San Sabba, utilizzata anche come centro di raccolta per gli ebrei da deportare nei campi di sterminio. Particolarmente vasta fu la partecipazione al movimento di liberazione da parte della popolazione slovena, mentre quella italiana fu frenata dal timore che il movimento partigiano venisse egemonizzato dagli sloveni, le rivendicazioni nazionali dei quali non erano accettate dalla maggioranza della popolazione italiana.

Influì anche negativamente l'eco degli eccidi di italiani dell'autunno del 1943 (le cosiddette "foibe istriane") nei territori istriani ove era attivo il movimento di liberazione croato, eccidi perpetrati non solo per motivi etnici e sociali, ma anche per colpire in primo luogo la locale classe dirigente, e che spinsero gran parte degli italiani della regione a temere per la loro sopravvivenza nazionale e per la loro stessa incolumità.

Nel corso della seconda guerra mondiale i rapporti sloveno-italiani giunsero al culmine della loro conflittualità; tuttavia vennero contestualmente sviluppandosi anche forme di collaborazione su basi antifasciste, in prosecuzione di una pluridecennale unità maturata nel movimento operaio. Tale collaborazione assurse al massimo rilievo nei rapporti fra i due partiti comunisti, tra le formazioni partigiane slovene ed italiane, nei comitati di unità operaia e, fin ad un certo momento, anche fra l'OF e il CLN. Sotto il profilo generale, la collaborazione fra i movimenti di liberazione sloveno ed italiano fu stretta ed ebbe notevoli sviluppi.

Nonostante le nuove forme di collaborazione fra i due popoli, i due movimenti di liberazione si distinguevano sensibilmente per genesi, strutturazione, consistenza ed influenza e non superarono la diversità di obiettivi e di tradizioni politiche. Emersero divergenze fra le dirigenze dei due partiti comunisti come pure fra il CLN giuliano ed i vertici dell'OF, nonostante avessero stipulato alcuni importanti accordi. Nella Venezia Giulia la resistenza si rivelò un fenomeno plurinazionale piuttosto che internazionale, dal momento che entrambi i movimenti di liberazione, pur rifacendosi ai valori dell'internazionalismo, risultarono fortemente condizionati dell'esigenza di difendere i rispettivi interessi nazionali.

Il movimento di liberazione sloveno reputò di importanza centrale l'annessione alla Jugoslavia di tutti i territori in cui vi fossero insediamenti storici sloveni, ma ciò non ebbe esclusivamente implicazioni di ordine nazionale, bensì - dato il carattere del movimento - anche implicazioni inerenti agli obiettivi rivoluzionari che si era preposto. Il possesso di Trieste infatti era considerato di grande importanza, non solo per la sua posizione geo-economica rispetto alla Slovenia, ma anche per la presenza di una forte classe operaia, nonché come base sia per la difesa del mondo comunista dall'influenza occidentale sia per un'ulteriore espansione del comunismo verso Ovest, ed in particolare verso l'Italia del Nord.

Il PCI, a livello sia locale che nazionale, fino all'estate del 1944 non accettò l'idea dell'annessione alla Jugoslavia delle aree mistilingui ovvero a prevalenza italiana, proponendo di rinviare la definizione del problema al dopoguerra. Più tardi invece, in una mutata situazione strategica e dopo che il PCS ebbe assunto il controllo sia delle formazioni garibaldine che della federazione triestina del PCI, i comunisti giuliani aderirono all'impostazione dell'OF, mentre in campo nazionale la linea del PCI si fece più oscillante: le rivendicazioni jugoslave non vennero mai ufficialmente accolte ma nemmeno respinte, e Togliatti propose una distinzione tattica fra annessione di Trieste alla Jugoslavia - di cui non bisognava parlare - ed occupazione del territorio giuliano da parte jugoslava, che andava invece favorita dai comunisti italiani.

Sulla linea del PCI, oltre al sostegno sovietico alle rivendicazioni jugoslave ed al dibattito interno sugli sbocchi da dare alla lotta di liberazione in Italia, influì anche l'atteggiamento assunto da buona parte del proletariato italiano di Trieste e Monfalcone, che aveva accolto la soluzione jugoslava in chiave internazionalista come integrazione entro uno stato socialista alle spalle del quale si ergeva l'Unione Sovietica. Tale scelta provocò pesanti conseguenze all'interno della resistenza italiana, portando tra l'altro all'eccidio delle malghe di Porzus, perpetrato da un formazione partigiana comunista nei confronti di partigiani osovani.

Diversa era la posizione del CLN giuliano (dal quale alla fine del 1944 uscirono i comunisti, a differenza di quanto accadde a Gorizia); esso rappresentava i sentimenti della popolazione italiana di orientamento antifascista che desiderava il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Il CLN tendeva inoltre a presentarsi agli anglo-americani come rappresentante della maggioranza della popolazione italiana, anche al fine di ottenerne l'appoggio per la definizione dei confini. Il CLN e l'OF esprimevano orientamenti in materia di confini opposti e incompatibili, perciò quando il problema della futura frontiera venne posto in primo piano, una loro collaborazione strategica divenne impossibile.

Sul piano tattico le ultime possibilità di accordo in vista dell'insurrezione finale svanirono di fronte all'impossibilità di raggiungere un'intesa su chi avrebbe avuto il controllo politico di Trieste dopo la cacciata dei tedeschi. Fu così che al termine della guerra ciascuna componente della Venezia Giulia attese i propri liberatori, la Quarta armata jugoslava e il suo nono corpo operante in Slovenia o l'Ottava armata britannica, e scorse in quelli dell'altra l'invasore.

Alla fine di aprile CLN e Unità operaia organizzarono a Trieste due insurrezioni parallele e concorrenziali, ma ad ogni modo la cacciata dei tedeschi dalla Venezia Giulia avvenne principalmente per opera delle grandi unità militari jugoslave e in parte di quelle alleate che finirono per sovrapporre le loro aree operative in maniera non concordata: il problema della transizione fra guerra e dopoguerra divenne così una questione che travalicava i rapporti fra italiani e sloveni della Venezia Giulia, come pure le relazioni fra l'Italia e la Jugoslavia, per diventare un nodo, seppur minore della politica europea del tempo. L'estensione del controllo jugoslavo dalle aree già precedentemente liberate dal movimento partigiano fino a tutto il territorio della Venezia Giulia fu salutata con grande entusiasmo dalla maggioranza degli sloveni e dagli italiani favorevoli alla Jugoslavia. Per gli sloveni si trattò di una duplice liberazione, dagli occupatori tedeschi e dallo Stato Italiano. Al contrario, i giuliani favorevoli all'Italia considerarono l'occupazione jugoslava come il momento più buio della loro storia, anche perché essa si accompagnò nella zona di Trieste, nel Goriziano e nel Capodistriano ad un'ondata di violenza che trovò espressione nell'arresto di molte migliaia di persone, parte delle quali venne in più riprese rilasciata - in larga maggioranza italiani, ma anche sloveni contrari al progetto politico comunista jugoslavo - in centinaia di esecuzioni sommarie immediate, le cui vittime vennero in genere gettate nelle " foibe ", e nella deportazione di un gran numero di militari e civili, parte dei quali perì di stenti o venne liquidata nel corso dei trasferimenti, nelle carceri e nei campi di prigionia (fra i quali va ricordato quello di Borovnica) creati in diverse zone della Jugoslavia. Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra ed appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo ed allo Stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario, che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale ed ideologica diffusa nei quadri partigiani.

PERIODO 1945-1956

L'area della Venezia Giulia e delle valli del Natisone (Slavia Veneta) che vede l'incontrarsi dei popoli italiano e sloveno, era stata in passato già frammentata, mai però nella misura in cui lo fu nel primo decennio del dopoguerra. Dal maggio 1945 al settembre 1947 vi operarono infatti due amministrazioni militari anglo-americane (con sede a Trieste e Udine) e il governo militare jugoslavo. La Venezia Giulia venne divisa in due zone di occupazione: la zona A amministrata da un governo militare alleato (Gma) e la zona B amministrata da un governo militare jugoslavo (Vuja), mentre le valli del Natisone ricadevano sotto la giurisdizione del Gma con sede a Udine.

Dopo il 1945 la situazione internazionale procedette rapidamente verso la contrapposizione globale fra Est e Ovest, e anche se nei rapporti diplomatici fra le grandi potenze la nuova logica si affermò solo gradualmente, il clima di scontro fra civiltà informò assai presto gli atteggiamenti politici delle popolazioni viventi al confine tra Italia e Jugoslavia. Inoltre, mentre nel primo dopoguerra i rapporti di forza a livello europeo avevano fatto sì che la controversia di frontiera italo-jugoslava si concentrasse sul margine orientale dei territori in discussione, nel secondo dopoguerra il rovesciamento degli equilibri di potenza fra i due Stati spostò il dibattito sui bordi occidentali della regione: il nuovo confine premiò così il contributo della Jugoslavia, aggredita dall'Italia, alla vittoria alleata e realizzò buona parte delle aspettative che avevano animato la lotta degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia contro il fascismo e per l'emancipazione nazionale.

Il tentativo di far coincidere limiti etnici e confini di stato si rivelò tuttavia impossibile, non solo per il prevalere delle politiche di potenza, ma per le caratteristiche stesse del popolamento nella regione Giulia e per il diverso modo d'intendere l'appartenenza nazionale dei residenti nell'area: ancora una volta quindi, com'era già avvenuto dopo il 1918 e com'è del resto tipico dell'età dei nazionalismi, il coronamento (seppur nel caso degli sloveni non integrale) delle aspirazioni nazionali di un popolo, si risolse di fatto nella penalizzazione di quelle dell'altro.

Dopo l'entrata in vigore del Trattato di pace - che istituiva quale soluzione di compromesso il Territorio Libero di Trieste (TLT) - le relazioni italo-jugoslave vennero assorbite nella logica della guerra fredda. Il momento culminante di tale fase si ebbe nel 1948, quando l'imminenza delle elezioni politiche italiane indusse i governi occidentali ad emanare la Nota tripartita del 20 marzo in favore della restituzione all'Italia dell'intero TLT.

A seguito del dissidio con l'Urss del 1948 la Jugoslavia non aderì più a blocchi politico-militari e le potenze occidentali si mostrarono disposte a ripagarne la neutralità con concessioni economiche e politiche, pur rimanendo essa retta da un regime totalitario. Sempre su sollecitazione delle potenze atlantiche, vista l'inconcludenza dei negoziati bilaterali sulla sorte del TLT, superata la crisi originata dalla Nota Bipartita dell'8 ottobre 1953, si pervenne il 5 ottobre 1954 alla stipula del Memorandum di Londra.

L'assetto imposto dal Trattato di Pace e successivamente completato dal Memorandum riuscì complessivamente vantaggioso per la Jugoslavia, che ottenne la maggior parte dei territori rivendicati ad eccezione del Goriziano, del Monfalconese e della Zona A del mai realizzato Territorio Libero di Trieste, che pur vedevano la presenza di sloveni. Le valli del Natisone, la val Canale e la val di Resia, sebbene rivendicate dalla Jugoslavia, non costituirono oggetto di trattative.

Diversa fu la percezione di tale esito da parte delle popolazioni interessate. Mentre la maggior parte dell'opinione pubblica italiana salutò con entusiasmo il ritorno all'Italia di Trieste, che era divenuta il simbolo della lunga contesa diplomatica per il nuovo confine italo-jugoslavo, gli italiani della Venezia Giulia vissero la perdita dell'Istria come un evento traumatico, che sedimentò nella memoria collettiva. Da parte slovena, la soddisfazione per il recupero delle vaste aree rurali del Carso e dell'alto Isonzo, si accompagnò alla delusione per il mancato accoglimento delle storiche rivendicazioni sui centri urbani di Gorizia e Trieste, in parte compensato dall'annessione della fascia costiera del Capodistriano - che vedeva una consistente presenza italiana - che fornì alla Slovenia lo sbocco al mare.

A conclusione della vertenza, mentre tutta la popolazione croata della Venezia Giulia si ritrovò nella repubblica di Croazia facente parte della Federazione jugoslava, rimasero comunità slovene in Italia, nelle province di Trieste, Gorizia ed Udine, e comunità italiane in Jugoslavia, anche se all'atto della stipula del Memorandum d'Intesa queste ultime erano già state falcidiate dall'esodo dai territori assegnati alla Croazia in forza del Trattato di pace.

Nelle zone in cui dopo il 1947 venne ripristinata l'amministrazione italiana, il ritorno alla normalità fu ostacolato dal permanere di atteggiamenti nazionalisti, anche come conseguenza dei rancori suscitati dall'occupazione jugoslava del 1945. Il reinserimento del Goriziano nella compagine statuale italiana fu accompagnato da numerosi episodi di violenza contro gli sloveni e contro le persone favorevoli alla Jugoslavia. Le autorità italiane mostrarono in genere diffidenza verso gli sloveni e, pur nel rispetto dei loro diritti individuali, non favorirono lo sviluppo nazionale della comunità slovena, e in alcuni casi promossero, anzi, tentativi di assimilazione strisciante. La divisione della vecchia provincia colpì gravemente il Goriziano, perché l'entroterra montano del bacino dell'Isonzo restò privo del suo sbocco nella pianura, e in particolare la popolazione slovena, che rimase separata dai propri connazionali. Ciò rese necessaria la costruzione da parte slovena di Nova Gorica, che nel nuovo clima instauratosi nei decenni seguenti venne allacciando, anche se con molte difficoltà, rapporti con il centro urbano rimasto in Italia, la cui ripresa, lenta e faticosa, si delineò appena sul finire degli anni Cinquanta.

Più precaria si rivelò la posizione degli sloveni abitanti nelle valli del Natisone e del Resiano e nella Val Canale, che non furono mai riconosciuti come minoranza nazionale e rimasero quindi privi dell'insegnamento nella madre lingua e del diritto ad usarla nei rapporti con le autorità. In tali zone si registrò il rifiorire, a partire dagli ultimi anni di guerra, di forme di coscienza nazionale slovena, ma la comparsa di orientamenti politici filo-jugoslavi presso popolazioni che avevano sempre manifestato lealismo verso lo Stato italiano, venne prevalentemente giudicata da parte italiana, complice anche il clima della guerra fredda, frutto non di un'evoluzione autonoma ma di agitazione politica proveniente da oltre confine.

I loro assertori furono fatti oggetto di intimidazioni e arresti, e in alcuni casi di atti di violenza, da parte di gruppi estremisti e formazioni paramilitari. Anche il clero sloveno incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nell'affermare il proprio ruolo di riferimento per l'identità degli sloveni della Slavia Veneta a partire dall'esercizio dei suoi compiti pastorali in lingua slovena. Vi è certo stato in tali zone un persistente ritardo da parte italiana nell'attuazione di una politica di tutela corrispondente allo spirito della Costituzione democratica. Su tale ritardo vennero a pesare l'inasprirsi della situazione internazionale e le corrispondenti contrapposizioni politiche. Da ciò derivarono pure ritardi nell'istituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia, la cui autonomia avrebbe comunque consentito, secondo il disegno della Costituente, una maggiore attenzione alle regioni minoritarie.

Nelle zone A e B della Venezia Giulia e dal 1947 del TLT, entrambi i governi militari operarono come amministrazioni provvisorie, tuttavia differivano fra loro per alcuni aspetti sostanziali. Mentre infatti il Gma costituiva soltanto un'autorità di occupazione, la Vuja rappresentava al tempo stesso anche lo Stato che rivendicava a sé l'area in questione, e ciò ne condizionò l'opera. Gli angloamericani introdussero nella zona A ordinamenti ispirati ai principi liberal-democratici, e, pur mantenendo sempre il completo controllo militare e politico nella zona A, cercarono sulle prime di coinvolgere nell'amministrazione civile tutte le correnti politiche.

Poi però, per il diniego della componente filo-jugoslava e anche in virtù del peso crescente della guerra fredda - che fino al 1948 trovò nell'area giuliana uno dei suoi luoghi di frizione - si servirono soltanto della collaborazione delle forze filoitaliane e anticomuniste. Il Gma adottò comunque provvedimenti volti ad assicurare alla popolazione slovena i suoi diritti nell'uso pubblico della lingua nazionale ed in campo scolastico, cercando però nel contempo di ostacolare i rapporti della comunità slovena con la Slovenia. Inoltre, l'attivazione - sia pure tardiva - degli istituti di autogoverno locale, permise agli sloveni, con le libere elezioni del 1949 e 1952, di eleggere i propri rappresentanti dopo più di due decenni di esclusione dalla vita pubblica. In quegli anni fece ritorno a Trieste e a Gorizia una parte degli sloveni fuoriusciti nel periodo fra le due guerre, in particolare gli appartenenti ai ceti intellettuali, i quali assunsero importanti funzioni in campo culturale e politico.

Fino al 1954 la priorità attribuita alla questione dell'appartenenza statuale della zona, sommandosi alle tensioni della guerra fredda, determinò una polarizzazione della lotta politica che rese più difficile l'avvio della nuova vita democratica. Lo spartiacque fra il blocco filo-italiano e quello filo-jugoslavo non era né esclusivamente nazionale né solo di classe o ideologico, bensì il risultato di un intreccio di tali elementi. Fino al 1947 all'interno dei due blocchi le distinzioni politiche si attenuarono e trovarono ampio spazio le pulsioni nazionaliste.

Più tardi le articolazioni divennero più marcate e, anche se il peso dello sconto nazionale rimase assai forte, le componenti democratiche filo-italiane, che assunsero la guida politica della zona, badarono in genere a distinguere la loro azione da quella delle forze di estrema destra. In modo analogo si manifestarono pubblicamente anche le distinzioni ideologiche, prima offuscate, fra gli sloveni, i quali formarono gruppi e partiti ostili alle nuove autorità jugoslave.

Presero corpo anche tendenze indipendentiste, che videro una certa convergenza di elementi italiani e sloveni attorno all'idea dell'entrata in vigore dello statuto definitivo del TLT.

Oltre ai rapporti quotidiani fra la gente che viveva sullo stesso territorio e che non furono mai interrotti, si ebbe fino alla risoluzione del Cominform una stretta collaborazione fra gli sloveni e numerosi italiani della regione, legata soprattutto all'appartenenza di classe e cementata dalla comune esperienza della lotta partigiana, che in determinati ambienti era valsa a infrangere alcuni miti, come quello della naturale avversione fra le due etnie. La scelta in favore dell'annessione alla Jugoslavia, come stato nel quale si veniva edificando il comunismo, compiuta allora dalla maggioranza del proletariato locale di lingua italiana, soprattutto nella zona A, fece sì che fino alla frattura tra la Jugoslavia e il Cominform (1948) a lungo si mantenesse la solidarietà fra comunisti italiani e sloveni, nonostante le crescenti divergenze sul modo d'intendere l'internazionalismo e sulla concezione del partito, oltre che su questioni chiave come quella dell'appartenenza statale della Venezia Giulia.

Stretta fu pure la collaborazione fra il Pci e il Pcj (Pcs), consolidata dalla lotta comune contro l'invasore e il fascismo, nonostante la diversità di posizioni su alcune questioni. Le tensioni esplosero all'atto della risoluzione del Cominform, sostenuta dalla maggioranza dei comunisti italiani, sicché si ebbe per parecchio tempo non solo l'interruzione di ogni contatto ma anche una vera e propria ostilità tra "cominformisti" e "titini". A seguito di ciò in Jugoslavia numerosi comunisti italiani, sia fra quelli residenti in Istria che fra quelli accorsi in Jugoslavia ad "edificare il socialismo", subirono il carcere, la deportazione e l'esilio. Si creò pure una frattura tra gli sloveni, essendosi schierata a favore dell'Unione Sovietica e contro la Jugoslavia anche la maggioranza degli sloveni della Zona A orientati a sinistra.

Da allora per lungo tempo gli sloveni furono divisi in tre gruppi contrapposti e spesso ostili: i democratici, i "cominformisti" ed i "titini". Nonostante la Zona B della Venezia Giulia si estendesse su una vasta area compresa tra il confine di Rapallo e la linea Morgan, l'area amministrata dalle autorità slovene registrava una vasta presenza italiana solo nella fascia costiera, mentre la popolazione dell'entroterra era in larga prevalenza slovena. Nel 1947 tale area costiera concorse, assieme al Buiese amministrato dalle autorità croate, alla formazione della Zona B del TLT. Qui la Vuja, che aveva trasferito parte delle proprie competenze agli organi civili del potere popolare, cercò di consolidare le strutture tipiche di un regime comunista, irrispettoso del diritto delle persone.

Le autorità jugoslave, in contrasto con il mandato a provvedere alla sola amministrazione provvisoria della zona occupata, senza pregiudizio della sua destinazione statuale, cercarono di forzare l'annessione con una politica di fatti compiuti. Così, oltre a provvedere al riconoscimento dei diritti nazionali degli sloveni, fino ad allora negati, tentarono di costringere gli italiani ad aderire alla soluzione jugoslava, facendo anche uso dell'intimidazione e della violenza.

Nel contempo, le basi economiche del gruppo nazionale italiano, fino ad allora egemone, vennero compromesse sia dalla nuova legislazione che dall'interruzione dei rapporti fra le due zone, mentre le tradizionali gerarchie sociali vennero rivoluzionate, anche a seguito della progressiva scomparsa della classe dirigente italiana. Si mirò inoltre ad eliminare i naturali punti di riferimento culturale delle comunità italiane: così, a ben poco valse l'attivazione di nuove istituzioni culturali - come l'emittente radiofonica in lingua italiana - strettamente controllate dal regime, di fronte alla progressiva espulsione degli insegnanti e - dopo il 1948 - al ridimensionamento del sistema scolastico in lingua italiana, nonché all'orientamento complessivo dell'insegnamento verso l'attenuazione dei legami del gruppo nazionale italiano con l'Italia e verso la denigrazione dell'Italia. Allo stesso modo, la persecuzione religiosa del regime assunse nei confronti del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell'identità nazionale, un'oggettiva valenza snazionalizzatrice.

Se nei comportamenti anti-italiani di parte degli attivisti locali, che ribaltavano sull'elemento italiano l'animosità per i trascorsi del fascismo istriano, è palese sin dall'immediato dopoguerra l'intento di liberarsi degli italiani in quanto ritenuti irriducibili alle istanze del nuovo potere, allo stato attuale delle conoscenze mancano riscontri certi alle testimonianze - anche autorevoli di parte jugoslava - sull'esistenza di un piano preordinato di espulsione da parte del governo jugoslavo, che pare essersi delineato compiutamente solo dopo la crisi nei rapporti con il Cominform del 1948; questa spinse i comunisti italiani che vivevano nella zona, e che pur avevano inizialmente collaborato, anche se con crescenti riserve, con le autorità jugoslave, a schierarsi nella loro stragrande maggioranza contro il partito di Tito. Ciò condusse le autorità popolari ad abbandonare la linea della "fratellanza italo-slava", che consentiva al mantenimento nello Stato socialista jugoslavo di una componente italiana politicamente e socialmente epurata al fine di renderla conformista rispetto agli orientamenti ideologici e alla politica nazionale del regime.

Da parte jugoslava, pertanto, si vide con crescente favore l'abbandono da parte degli italiani della loro terra d'origine, mentre il trattamento riservato al Gruppo Nazionale Italiano subì più marcatamente le oscillazioni dei negoziati sulla sorte del TLT. Alla violenza, che si manifestò nuovamente al tempo delle elezioni del 1950 e della crisi triestina del 1953, e agli allontanamenti forzati, si intrecciarono così provvedimenti miranti a consolidare le barriere fra Zona A e Zona B. La composizione etnica della Zona B subì inoltre rimaneggiamenti anche a causa dell'immissione di jugoslavi in città che erano state quasi esclusivamente italiane.

In conseguenza di tutto ciò, dal distretto di Capodistria si registrò un flusso costante, anche se numericamente limitato, di partenze e di fughe, che divenne particolarmente considerevole agli inizi degli anni Cinquanta, fino a coinvolgere l'intero gruppo nazionale italiano dopo la stipula del Memorandum di Londra, quando per gli italiani venne meno la speranza che la loro situazione potesse mutare. Infatti, nonostante gli impegni assunti con il Memorandum l'atteggiamento delle autorità nella Zona B non cambiò, mentre il medesimo atto concedeva alla popolazione la possibilità di optare per la cittadinanza italiana entro un tempo limitato.

Complessivamente nel corso del dopoguerra l'esodo dai territori istriani soggetti oggi alla sovranità slovena coinvolse più di 27.000 persone - vale a dire la quasi totalità della popolazione italiana ivi residente, oltre ad alcune migliaia di sloveni, che vennero ad aggiungersi alla grande massa di esuli, in larghissima maggioranza italiani (le cui stime più recenti vanno dalle 200 mila alle 300 mila unità), provenienti dalle aree dell'Istria e della Dalmazia oggi appartenenti alla Croazia. Gli italiani rimasti (l'8% della popolazione complessiva) furono in maggioranza operai e contadini, specie quelli più anziani, cui si aggiunsero alcuni immigrati politici del dopoguerra ed alcuni intellettuali di sinistra.

Fra le ragioni dell'esodo vanno tenute soprattutto presenti l'oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell'identità nazionale, il rigetto dei mutamenti nell'egemonia nazionale e sociale nell'area, nonché la ripulsa nei confronti delle radicali trasformazioni introdotte nell'economia. L'esistenza di uno Stato nazionale italiano democratico ed attiguo ai confini, più che l'azione propagandistica di agenzie locali filo-italiane, esplicatasi anche in assenza di sollecitazioni del governo italiano, costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate ed impaurite, nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l'esodo. A ciò si aggiunse il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti, ma legato pure all'interruzione coatta dei rapporti con Trieste - che innescarono il timore per gli italiani dell'Istria di rimanere definitivamente dalla parte sbagliata della "cortina di ferro". In definitiva, le comunità italiane furono condotte a riconoscere l'impossibilità di mantenere la loro identità nazionale - intesa come complesso di modi di vivere e di sentire, ben oltre la sola dimensione politico-ideologica - nelle condizioni concretamente offerte dallo Stato jugoslavo e la loro decisione venne vissuta come una scelta di libertà.

In una prospettiva più ampia, l'esodo degli italiani dall'Istria si configura come aspetto particolare del processo di formazione degli Stati nazionali in territori etnicamente compositi, che condusse alla dissoluzione della realtà plurilinguistica e multiculturale esistente nell'Europa centro-orientale e sud-orientale. Il fatto che gli italiani dovettero abbandonare uno Stato federale e fondato su di un'ideologia internazionalista, mostra come nell'ambito stesso di sistemi comunisti le spinte e distanze nazionali continuassero a condizionare massicciamente le dinamiche politiche.

La stipula del Memorandum di Londra non risolse tutti i problemi bilaterali, a cominciare da quelli relativi al trattamento delle minoranze, ma segnò nel complesso la fine di uno dei periodi più tesi nei rapporti italo-sloveni e l'inizio di un'epoca nuova, caratterizzata dal graduale avvio della cooperazione di confine sulla base degli accordi di Roma del 1955 e di Udine del 1962 e dallo sviluppo progressivo dei rapporti culturali ed economici. Nonostante i loro contrasti, già a partire dalla stipula del Trattato di Pace, i due paesi, l'Italia e la Jugoslavia, avevano avviato rapporti sempre più stretti, tali da rendere a partire dagli anni Sessanta tardi il loro confine il più aperto fra due Paesi europei a diverso ordinamento sociale. L'apporto delle due minoranze fu a tale proposito del massimo rilievo. Tutto ciò concorse, dopo decenni di accesi contrasti, ad avviare sia pure fra temporanee ricadute, i due popoli verso una più feconda collaborazione.

17 APRILE 2001

Il documento prodotto in questi giorni dalla commissione storica italo-slovena, incaricata di indagare sulle vicende e sulle conflittualità nazionali che hanno devastato l'attuale Venezia Giulia e quella parte dell'Istria oggi sotto sovranità slovena, ha innescato delle polemiche che dimostrano chiaramente quanto negativa sia e a quali situazioni paradossali possa portare la commistione tra l'interesse politico e la riflessione storiografica. Un arroventato dibattito scatenato da un documento che era stato pensato proprio per sopire i contrasti non solo tra due stati confinanti divisi da un tragico destino vissuto su fronti contrapposti ma anche per mettere una buona volta la parola fine ad un interminabile dopoguerra che avvelena ancora la memoria storica del popolo italiano.

Caduto il muro di Berlino, avviata verso la liberazione dal comunismo l'Europa orientale, da più parti si era colta l'occasione per chiedere che venisse finalmente fatta luce sulle gravi questioni accadute al confine orientale d'Italia. Tale fu il significato della mozione approvata il 24 settembre del 1990 dal consiglio comunale di Trieste per costituire una commissione di storici capace di dare risposte soddisfacenti. I governi d'Italia e di Slovenia si attivarono, dunque, in tal senso e tre anni dopo essa fu varata.

Analoga iniziativa venne avviata con la Croazia, ma dopo poche sedute tutto si arenò; sintomo di un rapporto difficile da instaurare con un paese fortemente nazionalista e tuttora impegnato in questioni balcaniche che non permettono alcun cedimento sul piano dell'orgoglio nazionale. Con la Slovenia, invece, il dialogo cominciò e, da parte italiana, l'incarico fu affidato a storici e ad esperti di diritto internazionale di chiara fama quali Sergio Bartole (poi sostituito da Giorgio Conetti), Fulvio Tomizza (al quale, alla sua morte, subentrò Raul Pupo), Elio Apih (sostituito da Marina Cattaruzza), Fulvio Salimbeni, Angelo Ara, Lucio Toth e, mai presente, Maria Paola Pagnini.

Nella controparte slovena un ruolo di primo piano ebbero Milica Kacin Wohinz e Nevenka Troha. Il risultato finale dei vari incontri, che data al luglio del 2000, ha richiesto più di otto mesi, segnati da indiscrezioni, mugugni e dietrologie varie, perché fosse reso pubblico dopo un'azione di forza compiuta dal giornale sloveno "Primorske Novice" che ne ha pubblicato le bozze non definitive. A quel punto si è resa necessaria la diffusione del documento ufficiale e, in tale frangente, il ministero degli esteri italiano ha manifestato tutta la sua imperizia dando adito a una situazione paradossale per cui scaricava sugli storici della commissione l'onere di pubblicare in proprio un documento di cui il governo italiano è stato il committente.

Vero è che ufficializzare una risultanza storica da parte di un organo governativo significa dare l'impressione che esista una versione imposta dallo Stato, cosa ovviamente non compatibile con un paese democratico, dove dovrebbe vigere l'assoluta libertà di ricerca e d'interpretazione. Ma allora, perché istituire una commissione storica nominata dai rispettivi governi? Non era già evidente nel 1993 il paradosso a cui si andava incontro? Il risultato che si voleva ottenere era, in realtà, soprattutto politico, ma il modo in cui la vicenda è stata gestita rischia di peggiorare le cose.

Ciò che premeva era di trovare un punto d'incontro, una piattaforma su cui avviare un dialogo tra Italia e Slovenia in vista del comune futuro europeo. E' palese, allora, che i contenuti del testo contano ben poco. Parlare di un documento di estrema sinteticità, localizzato unicamente nell'ambito territoriale attuale dei due stati confinanti - di modo che gli avvenimenti e le stime numeriche si riducono a una minima parte di quanto realmente accaduto - e che affronta i rapporti italo-sloveni dal 1880 al 1956 in modo da riconoscere i torti e le ragioni dell'una e dell'altra parte, scontentando così gli ultras di entrambi i popoli convinti che le ingiustizie siano state compiute tutte dalla controparte, appare, per chi fa della seria riflessione storiografica, tempo perso.

Anche perché chi professionalmente studia l'argomento conosceva già tutte le posizioni emerse dal testo in questione. Ciò che appare sconcertante è come si sia potuto credere di dare una risposta istituzionale a problemi che, come tutti i fatti storici, sono soggetti alle più svariate interpretazioni.

Certamente, nonostante le critiche cui sono sottoposti oggi i componenti italiani della commissione, aver fatto ammettere agli studiosi sloveni la corresponsabilità slava nella secolare conflittualità nazionale, il collaborazionismo con il fascismo, la realtà delle foibe e delle persecuzioni che provocarono l'esodo è stato un risultato impensabile fino a pochissimo tempo fa. Che poi, invece, si affermi, tra le altre cose che scontentano gli italiani, che quella jugoslava fu "violenza di stato" d'ispirazione comunista piuttosto che "pulizia etnica" rientra in quella contrapposizione dialettica che sembra non finire mai e che, ci pare, sia del tutto indifferente alle vittime di quella violenza.

Ma non a uno dei committenti della commissione storica, il governo italiano, che per motivi presumibilmente elettorali ha dovuto smentire lo stesso organo da lui voluto dichiarando che quella slava fu una vera "pulizia etnica". Rendendo in tal modo ancor più palese quanto poco valore abbia una ricerca storica finalizzata a motivazioni politiche e riducendo, con il proprio paradossale comportamento, tutta la questione ad una farsa.

Di storia si parlerà un'altra volta. Il risultato della commissione è stato, in sostanza, un accordo fra gentiluomini speranzosi in un dialogo proficuo tra i due popoli ma dal punto di vista storiografico esso sarà dimenticato non appena si saranno placate le polemiche e ognuno darà, come è sempre avvenuto, la propria versione al di fuori di inaccettabili verità ufficiali.

 

DIEGO REDIVO