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a cura di Vincenzo de Simone

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Santa Maria de Lama

 

La chiesa che vediamo attualmente, detta Sant’Alfonso dalla seconda metà dell’Ottocento al restauro seguito al terremoto del 1980, è una sovrastruttura, forse normanna, sul luogo di culto longobardo dedicato alla Madre di Dio, la cripta attuale, di cui la più antica notizia giunta fino a noi è del gennaio 1055, essendone compatroni il principe Gisulfo II e gli eredi del conte Giovannaccio, figlio del castaldo Mansone; nell’aprile di quello stesso anno è detta di patronato degli eredi del conte Giovanni e del duca Guidone, uno degli zii di Gisulfo II.

Nel 1309 vi risultano addetti due cappellani. Nel 1581 si precisa che il primo cappellano attende alle funzioni parrocchiali nella chiesa superiore, il secondo cura quella inferiore. Nel 1625 si precisa ancora che la chiesa inferiore è sotto il titolo di Santo Stefano; essa, però, è stata sconsacrata e il servizio dovutale trasferito presso l’altare superiore.

Il 21 ottobre 1692 si redige uno Stato della chiesa dal quale risulta che essa, dalla famiglia de Iudice che la possedeva nel corso del Cinquecento, era passata in patronato dei signori Capograsso; risulta inoltre che l’allora parroco, il canonico d. Gennaro Basile, aveva fatto eseguire una ristrutturazione per trasformarla alla moderna, ossia aveva fatto demolire il piccolo altare di fabbrica e un muro con cancellata anch’essa di fabbrica e porta in mezzo che attraversava l’aula dividendo il presbiterio dall’area destinata ai fedeli. Chiusa per ulteriori lavori nel 1725, risulta restituita al culto nel 1730.

Il 30 settembre 1854 la parrocchia è soppressa e annessa in amministrazione a quella di Sant’Andrea de Lavina.

 

La facciata si presenta di estrema semplicità, preceduta da gradini semicircolari innestati sui gradoni della Madonna della Lama che degradano dalla via Torquato Tasso. L’interno della chiesa superiore è ad impianto basilicale, in tre navate scandite da colonne di spoglio, su due delle quali si osservano affreschi raffiguranti Cristo con la Croce e La Maddalena.

La chiesa inferiore, certamente la maggiore per interesse, riscoperta soltanto nel 1970 ancorché documentata, come abbiamo visto, nel Cinquecento e nel Seicento, si presenta in due navate orientate, come le tre dell’aula superiore, sull’asse est-ovest, canonico per le chiese di epoca longobarda-normanna, scandite da tre spezzoni di colonne in materiali diversi, posti a reggere volte a crociera irregolari. La navata destra è conclusa da un’abside curva ornata con un affresco raffigurante santo Stefano che, come abbiamo visto, nel Seicento dava il titolo al luogo di culto, quella sinistra, da un’abside rettangolare; entrambe le absidi furono ricavate tramite tagli di una struttura muraria preesistente. Due passaggi verso meridione pongono in comunicazione l’aula con un vano stretto e lungo che a sua volta si apre sul vicolo Duca Ruggiero, dal quale, nel 1692, è documentato l’accesso. Sul lato settentrionale, ove si osserva un manufatto in opus reticolatum, residuo dell’edificio romano nel quale la chiesa longobarda fu inserita, un’apertura nella tompagnatura in tufo immette in uno spazio curvo; in esso si è voluto riconoscere l’abside di una prima conformazione della chiesa, che sarebbe stata a pianta quadrata orientata sull’asse nord-sud. Ove ciò corrispondesse al vero, ci troveremmo alla presenza dell’unico esempio conosciuto di chiesa in forma basiliana edificata dall’aristocrazia longobarda e orientata in modo non canonico: un esempio che, al di là dell’interesse, pure notevole, degli affreschi che vi si ammirano, proietterebbe il nostro luogo di culto in una dimensione assolutamente eccezionale; forse troppo eccezionale per essere vera.

La decorazione ad affresco della chiesa inferiore presenta due fasi principali: l’una riconducibile alla fondazione longobarda, l’altra successiva all’edificazione dell’aula superiore. Alla prima appartiene un San Bartolomeo sotto il quale è leggibile il nome di Ursus che lo fece dipingere e un santo non identificabile, solo parzialmente conservato, sotto il quale la scritta “Johannes C” ha fatto pensare a quel conte Giovanni o Giovannaccio i cui eredi abbiamo visto compatroni nel 1055 insieme alla famiglia principesca; anche qui con fantasia, poiché nessun documento giunge a sostegno, si è ipotizzato essere costui il fondatore della chiesa, amalfitano per la presenza di un altro affresco raffigurante Sant’Andrea. Rimane da spiegare perché questo conte amalfitano doveva venire ad edificare a Salerno, nella prima metà dell’XI secolo, una chiesa fuori dai canoni dell’epoca e come la famiglia principesca di questa città, avversaria di quell’aristocrazia, giungesse a detenerne parte del patronato.

 

Per saperne di più. G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione postuma a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, edizioni Gutenberg 2001, I, pp. 79-82.

Le immagini in basso si riferiscono alla chiesa inferiore.