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a cura di Vincenzo de Simone

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la città moderna

 

 

 

Indice

Presentazione

Introduzione
            1 – Natura e consistenza della documentazione

            2 – Metodi di datazione ab incarnatione

Premessa

            1 – Gli studi di Michele de Angelis

            2 – Gli studi di Arcangelo R. Amarotta               

            3 – Il percorso alternativo

I – Struttura della città medievale

            1 – Evoluzione e status giuridico della mura

            2 – Strade, quartieri e territori parrocchiali

            3 – Terre con casa, anditi e mignani

II – Visita alla città medievale

            1 – Territori parrocchiali di Santa Maria di Portanova, Santi XII Apostoli,

            Santa Maria de Domno, Santa Maria de Orto Magno, San Giovanni de

            Cannabariis, San Pietro de Grisonte, San Giovanni delle Capre

            2 – Territori parrocchiali di San Gregorio, Santa Lucia de Giudaica,

            San Vito Maggiore, San Matteo Piccolo, Santa Maria de Capite Platearum,

            Santa Maria dei Barbuti, San Grammazio, San Massimo, Sant’Eufebio

            3 – Territori parrocchiali di Sant’Andrea de Lavina, Santa Maria de Lama,

            Santa Maria de Alimundo, San Salvatore de Coriariis, San Bartoloneo

            de Coriariis, San Pietro de Lama, San Giovanni dei Greci, Sant’Angelo

            de Marronibus, Santa Trofimena

Tavole

            I – M. de Amgelis, Elaborazione della sua carta delle mura di Salerno

            II – A. R. Amarotta, Sintesi delle sue elaborazioni delle mura di Salerno

            III – Chiesa di Santa Maria de Domno

            IV – Evoluzione delle mura di Salerno

            V – Siti della porta Nova

            VI – Quartieri e toponimi

            VII – Territori e sedi parrocchiali

            VIII – Area di Santa Maria de Domno

            IX – Area di Sant'Agostino

           

Appendici: tavole genealogiche

            1 – Principi longobardi di Salerno

            2 – Discendenza dal conte Guidone

            3 – Conti di Giffoni

            4 – Conti di Capaccio

            5 – Casa di Altavilla

                       

 

  

 

 

 

 

 

Presentazione

 

Il giugno 1991, con la pubblicazione del primo di una serie di scritti sulle pagine della «Rassegna Storica Salernitana», vedeva l’inizio di un mio percorso che mi avrebbe condotto ad una revisione sostanziale delle concezioni precedentemente correnti della topografia di Salerno nel Medioevo. Nella premessa e nella prima parte di questa pubblicazione rivisiteremo le tesi che permisero a due fra i più notevoli studiosi della materia la costruzione di loro immagini della città medievale; ripercorreremo le mie conclusioni alternative; assisteremo alla formazione di una diversa immagine della Salerno di quell’epoca. Nella seconda parte seguiremo un ipotetico viandante che agli anni novanta del Quattrocento, entrato dalla porta Nova, percorreva la città fino a uscirne dalla porta Busanola: attraverso la documentazione giunta fino a noi, rifaremo la storia dei luoghi che attraversava e degli edifici che poteva vedere. Lauspicio è che il lettore voglia effettivamente utilizzare tale seconda parte come una guida turistica virtuale e fisicamente percorrere vicoli e strade, in molti casi immaginando, in altri effettivamente osservando quanto vide il nostro viandante.

Salerno, dicembre 2009.

  

 

 

 

 

 

Introduzione

  

1 – Natura e consistenza della documentazione

 

La documentazione reperita per la realizzazione di questo lavoro negli archivi è ripartibile, in ordine alla natura degli edifici ai quali si riferisce, in due categorie: l’una che segue le vicende dei luoghi di culto, l’altra relativa a immobili destinati ad uso civile; la seconda, al di là dell’interesse per i novantacinque edifici sacri che osserveremo e per le fonti ad essi relative, è di importanza evidentemente preminente ai fini della ricostruzione del tessuto urbano, anche per il contenuto di informazioni circa il reticolo viario, la toponomastica, la morfologia stessa della città.

Per l’epoca trattata, il Medioevo, nella quale erano inesistenti le raccolte organiche degli atti notarili, competendo esclusivamente ai proprietari l’onere della custodia dei documenti inerenti la gestione degli immobili, cartule che costituivano anche, in mancanza di catasti riconducibili a quelli che oggi conosciamo, le uniche prove dei diritti di possesso, soltanto una parte infinitesimale degli atti effettivamente prodotti è giunta fino a noi; e ove ciò è avvenuto lo dobbiamo al fatto che essi sono relativi a beni entrati negli interessi di enti ecclesiastici o, ma molto sporadicamente, del potere politico e, quindi, da questi archiviati.

Parte preponderante in quest’opera di custodia ebbe la badia della Santissima Trinità di Cava che, oltre ai documenti alla stesura dei quali effettivamente intervenne come persona giuridica, per effetto della consuetudine invalsa in ampia parte dell’epoca della consegna da parte del venditore o del donatore dell’immobile della documentazione pregressa, si trovò ad archiviare atti prodotti nel corso di alcuni secoli antecedenti la sua fondazione. Nel suo archivio sono stati reperiti, fra quelli effettivamente utilizzati e altri non considerati utili, ancorché anche trattassero del tessuto urbano cittadino, quattrocentocinquantanove documenti, contro i centodue complessivi reperiti negli archivi di Stato di Salerno e di Napoli, nel Diocesano di Salerno, in quello della badia di Montevergine e nella Biblioteca Provinciale cittadina.

L’analisi della estensione e delle concentrazioni temporali della documentazione cavense evidenzia una distribuzione fra l’aprile 853 e il 7 novembre 1351, ripartita in tre atti per il IX secolo, trentasei per il X, centootto per l’XI, duecentocinque per il XII, ottantacinque per il XIII, ventidue per il XIV. L’analoga analisi della documentazione complessiva reperita negli altri archivi evidenzia una distribuzione fra l’agosto 1007 e il 26 maggio 1494, ripartita in cinque atti per l’XI secolo, tredici per il XII, quarantasei per il XIII, quindici per il XIV, ventitre per il XV. Da questa disamina è evidente una maggiore morbidezza della curva delle ripartizioni per la documentazione extra cavense, salvo il picco del XIII secolo dovuto essenzialmente alla maggiore concentrazione di documenti provenienti del monastero di San Giorgio, rispetto all’impennata per il XII secolo dell’analoga curva della documentazione di Cava, dovuta al periodo di massima espansione del patrimonio immobiliare cittadino detenuto da quei monaci, con un brusco calo nei due secoli successivi, quando iniziarono e proseguirono le dismissioni, e l’assoluta mancanza di atti nel secolo conclusivo del Medioevo. L’analisi della stessa curva relativa a tutta la documentazione reperita evidenzia, ovviamente, un andamento di maggiore morbidezza, sia nella parte ascendente (tre atti per il IX secolo, trentasei per il X, centotredici per l’XI, duecentodiciotto per il XII) che in quella discendente (centotrentuno atti per il XIII secolo, trentasette per il XIV, ventitre per il XV).

Abbiamo, dunque, una documentazione del tessuto urbano limitata da un lato dalla sua stessa natura, essendo relativa esclusivamente a immobili e ambiti entrati negli interessi di ben determinati enti, dall’altro dalla concentrazione all’interno di un altrettanto ben delimitato segmento temporale, corrispondente a quello durante il quale maggiori furono gli interessi, particolarmente della badia cavense. La conseguenza è che se relativamente bene sono ricostruibili alcune parti del tessuto urbano cittadino, molte meno lo sono altre; così come se relativamente buona è la possibilità di conoscenza dello stesso tessuto urbano per il segmento fra XI e XIII secolo, meno lo è per il XIV e praticamente nulla per il secolo successivo. Effetto di tanto è la recisione improvvisa della quasi totalità delle vicende che vedremo nella seconda parte di questo lavoro, con poche eccezioni nelle quali assisteremo alla possibilità di proiettarne il filo conduttore nell’età moderna.

  

 

 

 

 

  

2 metodi di datazione ab incarnatione

 

Nella seconda metà dell’XI secolo, pur mantenendosi nella datazione dei documenti l’indicazione dell’anno indizionale di tipo bizantino, corrente dal 1° settembre al 31 agosto, e quella degli anni di governo del sovrano, seguite dal mese senza precisazione del giorno, fu introdotto il numerale dell’anno ab incarnatione; esso iniziava il 25 marzo, giorno in cui Nostro Signore si sarebbe incarnato nella Vergine Maria per poter nascere il 25 dicembre.

Tale innovazione, però, non fu univoca, pertanto quello preso a base del computo fu ritenuto l’anno zero nel metodo di tipo fiorentino, l’anno uno nel metodo di tipo pisano. La conseguenza fu che se prendiamo ad esempio l’anno che noi chiamiamo 2000 dal 1° gennaio al 31 dicembre, con il metodo ab incarnatione di tipo fiorentino esso sarebbe ancora 1999 dal 1° gennaio al 24 marzo, mentre corrisponderebbe al 2000 dal 25 marzo al 31 dicembre; con il metodo ab incarnatione di tipo pisano, invece, corrisponderebbe al 2000 soltanto dal 1° gennaio al 24 marzo, mentre sarebbe 2001 dal 25 marzo al 31 dicembre.

Accanto a questi metodi ne fu utilizzato un terzo, il tipo veneto, che, come il fiorentino, ritardava nel computo, fissando, però, il capodanno al 1° marzo; esso, nel periodo in cui non si usava indicare il numerale del giorno, in pratica non è distinguibile da quello di origine; tuttavia noi considereremo i documenti salernitani in cui il computo ritarda senza l’indicazione del giorno ascrivibili ad esso, perché fu il tipo di datazione ab incarnatione utilizzato nella nostra area.

In realtà, inizialmente, fra il 1070 e il 1077, nel principato di Salerno fu utilizzato un quarto metodo, che definiremo, appunto, di tipo salernitano, che era, in effetti, il tipo pisano con il capodanno fissato al 1° marzo, pertanto il computo degli anni anticipava dal 1° marzo al 31 dicembre. Nel 1077 si passò al tipo veneto. La conseguenza fu che l’anno ab incarnatione 1078 durò ventiquattro mesi, ossia dal nostro 1° marzo 1077 al nostro 28 febbraio 1079, pertanto i documenti datati ab incarnatione 1078 sono caratterizzati da tre indizioni diverse: la XV (marzo-agosto 1077), la I (settembre 1077-agosto 1078) e la II (settembre 1078-febbraio 1079).

In questa pubblicazione sarà indicata nel testo la data secondo il computo attualmente in uso, richiamando in nota quella riportata sul documento, quando difforme, insieme al tipo di datazione ab incarnatione cui è riconducibile.

  

 

 

 

 

 

Premessa

  

1 – Gli studi di Michele de Angelis

 

Lo studio dell’evoluzione urbanistica di Salerno, come branca specialistica della Storia cittadina, nasce con una serie di saggi pubblicati, negli anni venti e trenta del Novecento, da Michele de Angelis1; ma l’autore, tecnico attento in importanti opere tese al recupero delle strutture più antiche del duomo normanno, pur con il merito di aver affrontato per primo sistematicamente la materia, quando volle cimentarsi in tali studi, che avrebbero richiesto un ben più approfondito lavoro di ricerca su documenti originali, lo fece, pur consapevole della necessità di verifiche e discussioni per correggere gli errori, per far luce nei punti oscuri, e giungere a più esatte conclusioni2, limitandosi a sfogliare gli otto volumi allora disponibili del Codex Diplomaticus Cavensis e i primi due del Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII3 che, riportando un numero relativamente limitato di documenti, non potevano fornirgli una visione abbastanza estesa, nel tempo e nello spazio, della città medievale.  Nel contempo, con atteggiamento estremamente semplicistico, ritenne di poter identificare con certezza assoluta le chiese citate intorno all’anno Mille con quelle dedicate allo stesso culto pervenute fino a noi, non considerando la possibilità della coesistenza di più luoghi pii sotto lo stesso titolo; allo stesso modo, identificò in ruderi anonimi chiese di cui leggeva nel Codex, senza minimamente interrogarsi circa la possibilità che una pluralità di esse potesse aver coesistito nelle parti del tessuto urbano che andava considerando.

 

1M. de Angelis, Studio sui muri di Salerno verso il mare, in «Archivio Storico della Provincia di Salerno», 1923, pp. 100-116; Il passato di Salerno visto a traverso gli antichi archi, ivi, pp. 347-365; La porta Elina di Salerno, ivi, 1924, pp. 99-135; Conferme sulle antiche cinte di Salerno e il “labinario” di S. Maria de Domno, in «Archivio Storico per la Provincia di Salerno», 1932-1933, pp. 111-125; La chiesa di S. Maria de Domno e le mura meridionali di Salerno, nell’epoca longobarda, in «Salernum», giugno-agosto 1934, pp. 1-7; L’ampliamento di Salerno, alla fine del Cinquecento, in «Rassegna Storica Salernitana», 1937, pp. 132-152.

2M. de Angelis, Studiocit., p. 100.

3Codex Diplomaticus Cavensis, a cura di M. Morcaldi, M. Schiani, S. de Stefano, I, 1873; II, 1875; III, 1876; IV, 1877; V, 1878; VI, 1884; VII, 1888; VIII, 1893. Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII, a cura di C. Carucci, I, 1931; II, 1934.

 

 

Nel primo dei suoi lavori esaminò con molta attenzione il contenuto di sette documenti cavensi, distribuiti fra il febbraio 990 e il marzo 1057, relativi al sito e alle adiacenze della chiesa di Santa Maria, poi detta de Domno, edificata per iniziativa della principessa Sichelgaita, consorte del principe Giovanni II di Lamberto regnante in Salerno fra il 983 e il 999, in un suo terreno posto inter murum et muricinum, ossia nell’ampliamento urbano realizzato munendo di un antemurale la cortina verso il mare della Salerno prelongobarda. Da essi, oltre ad altri particolari, si ricava che la chiesa, naturalmente disposta sull’asse ovest-est come tutti gli edifici di culto dell’epoca, aveva occupato solo parte dell’area disponibile, per cui si era creato uno spiazzo fra il suo ingresso e un corso d’acqua che limitava il suolo verso occidente, e che aveva tre absidi che, verso oriente, si protendevano in un terreno del conte Guaimario, figlio di Guaiferio detto Imperato, a sua volta confinante con un altro terreno del principe Giovanni. Sia la chiesa che la proprietà di Guaimario erano addossate con i loro lati meridionali all’antemurale, mentre erano delimitate verso settentrione da una strada oltre la quale correva l’antica cortina difensiva; sia quest’ultima che la nuova muraglia erano attraversate dal corso d’acqua che abbiamo visto tramite apposite luci aperte in esse. In corrispondenza di tale corso d’acqua il muro antico era posto circa nove metri e mezzo a settentrione della strada, mentre l’antemurale ne distava, verso meridione, circa undici.

L’importanza di queste informazioni non poteva sfuggirgli, essendo evidente che, individuata l’ubicazione della chiesa, la disposizione degli elementi urbanistici recuperati sulla topografia novecentesca della città avrebbe evidenziato non solo le altezze latitudinali del muro e dell’antemurale, ma anche un punto oltre il quale, verso est, cercare i limiti orientali dei nuclei urbani relativi. La sua attenzione fu attratta dalla bottega di un fruttivendolo, la seconda verso oriente dall’angolo nord-occidentale del Palazzo Trucillo, poi distrutto dagli eventi bellici, lungo quello che nel 1923 era, rispetto al largo Dogana Regia, il ramo occidentale della via Flavio Gioia, oggi non più esistente a causa dello sventramento che ha creato la piazza Sant’Agostino, a oriente dell’edificio allora della Prefettura, oggi della Provincia, ove si osservavano due colonne antiche con capitelli corinzi di marmo sostenenti un arco. Egli identificò tali reperti come resti delle strutture fra la navata settentrionale e quella centrale della nostra chiesa; conseguentemente, tracciò le due difese, il muro, che ritenne essere l’inferiore e che riconobbe arechiana, e il muricino, che ritenne essere la superiore e che riconobbe romana, l’una a valle del sito individuato, l’altra lungo il lato settentrionale del largo Dogana Regia; inoltre riconobbe il corso d’acqua che limitava lo spiazzo innanzi all’ingresso del luogo di culto nell’attuale via Antonio Genovesi e suo proseguimento verso meridione. Quindi, lasciandosi guidare da impressioni visive circa l’architettura degli edifici prospettanti sull’allora Marina, oggi via Roma, e le parallele via Flavio Gioia e Macelli, oggi Masuccio Salernitano e Giudaica, e seguendo le dividenti catastali attraverso gli attuali isolati, estese l’arechiana verso oriente fino al meridione della porta Nova, che tuttora osserviamo alla piazza Flavio Gioia, verso occidente fino alla Santissima Annunziata Maggiore; la romana, verso oriente fino ai terreni ove più tardi sorgerà Santa Maria de Portanova, attuale Santissimo Crocifisso, verso occidente fino all’altezza del largo Sedile del Campo. 

Con il secondo lavoro, datato aprile 1924, ma apparso su un fascicolo dell’«Archivio Storico della Provincia di Salerno» evidentemente pubblicato in ritardo, poiché gli fu attribuita la stessa data del 1923, affrontò una ben più vasta tematica, gettando le basi di quella che sarebbe stata la sua visione complessiva della città antica e medievale, pur se destinata ad alcune limature anche di rilievo. Esaminò un solo documento cavense, che, per altro, fornisce soltanto l’informazione ovvia che la chiesa di Santa Trofimena era, al 1012, interna alle mura cittadine; attenzione, purtroppo superficiale, prestò anche ad una nota posta dai curatori del Codex Diplomaticus Cavensis ad esplicazione di un passo della pergamena F 10 dell’arca magna, ove, a titolo di esempio, si propongono due citazioni della porta di Rateprando, rispettivamente del 1091 e del 1128, senza fornire alcuna collocazione archivistica dei documenti dai quali furono tratte4. Da questa banale nota, evidentemente senza curarsi di cercare i due originali per una opportuna verifica che gli avrebbe permesso una ben diversa visione della realtà, come vedremo, delle problematiche che affrontava (significativo è il fatto che alla sua nota 1 si limita a indicare Archivio Cava, senza specificare  numero di arca e di pergamena), elaborò la tesi secondo la quale in epoca prelongobarda l’attuale rione delle Fornelle rimaneva fuori dalle mura cittadine.

   

 

 

 

4Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, p. 80.

 

In effetti da tali citazioni si ricava soltanto che una chiesa di Sant’Andrea era sita fra un duplice muro cittadino, al di sopra della porta di Rateprando; da tanto, identificando la chiesa citata con Sant’Andrea de Lama o de Lavina che ancora vediamo alle Galesse, senza minimamente porsi il problema dell’eventuale esistenza di altri luoghi di culto dedicati a quel santo nella Salerno longobarda (in realtà ne sono documentati tre), egli non solo identificò la porta di Rateprando con l’arco che si osserva all’innesto della via che attualmente di tale porta reca il nome5 sulla via Portacatena, ove fece correre l’esterno del duplice muro fra cui racchiudere la chiesa, ma anche, seguendo non evidenze archeologiche o documentarie, bensì un personale ragionamento circa i luoghi ove più favorevolmente posizionare le difese, costruì l’opinione secondo la quale il muro meridionale che questa città possedeva quando Arechi II vi stabilì la sede della propria corte, poi divenuto l’interno della duplice difesa, correva lungo il lato meridionale della via Torquato Tasso lasciando, appunto, il rione delle Fornelle fuori dalla cinta difensiva. In conseguenza di tanto, e di una serie complessa e opinabile di considerazioni sulla diversificazione della struttura dei vari quartieri cittadini, anche attribuendo a semplici muri di contenimento di molto posteriori origini da fortilizi romani, concluse assegnando alla città tre perimetri di mura [ripromettendosi di presentarne successivamente un quarto e un quinto], dei quali il più interno si dovrebbe attribuire al secolo V, perdurato fino alla fine del secolo VIII, l’intermedio, di Grimoaldo [quello nel primo saggio attribuito ad Arechi II], dalla fine del secolo VIII a quella del secolo XVI, e l’esterno dalla fine del XVI a quella del XVIII6. In realtà, non di perimetri si trattava nella sua esposizione, ma della descrizione di due dei lati della città triangolare, che egli suppose di origine romana: l’occidentale e il meridionale. Ma rileggiamo quanto scrisse.

 

 

 

 

 

 

 

5Fino al 1932 l’attuale via Porta Rateprandi era denominata vicolo Ruggi. Nell’aprile di quell’anno, il podestà di Salerno, on. Mario Iannelli, nominò una commissione per la revisione dei nomi delle strade cittadine composta da Matteo Fiore, Francesco Alario, Francesco Cantarella, Carlo Carucci, Michele de Angelis, Domenico Lorito, Andrea Sinno, Paolo Vocca e Nicola Telesca; essa, nel settembre successivo, presentò una relazione con la quale si proponevano settantanove sostituzioni di denominazioni fra cui, appunto, vicolo Ruggi con via Porta Rateprandi. Questa relazione si legge in «Archivio Storico per la Provincia di Salerno», 1932-1933, pp. 64-86; la sostituzione di denominazione che ci interessa è la numero 44 ed è riportata alla p. 71. Da notare che nell’attribuzione della nuova denominazione non ci si curò di tradurre il genitivo latino porta Rateprandi nell’italiano porta di Rateprando.  

6M. de Angelis, Il passato cit., p. 360.

 

Il primo [calato dal castello] andava da Porta S. Nicola a Porta di Ronca, seguendo il ciglio dell’appicco a sud della Via Orfanotrofio [attuale via Porta San Nicola] fino al Largo Scuola Salernitana, e di qui la Via Asilo di Mendicità [attuale via Porta di Ronca] fino a casa Avenia [l’edificio sotto il quale si apre l’arco che conclude via Torquato Tasso e da inizio a via Spinosa]. Poi, da Porta di Ronca a Porta di Mare, per l’orlo meridionale della Via Tasso fino all’arco Ruggi [l’arco che cavalca via Torquato Tasso poco a occidente dei gradoni Madonna della Lama]; da quest’arco, per la salita S. Andrea [ufficialmente, nel 1924, vicolo Ruggi; attualmente via Porta Rateprandi] fino al lato superiore del Largo Campo; attraversando poi questo Largo in direzione verso sud-est, raggiungeva un punto sotto l’estremo orientale del palazzo sede della Banca d’Italia [Palazzo Genovese], dal quale, procedendo poco a sud del Vicolo Porta di Mare [attuale vicolo Pandolfina Fasanella], raggiungeva questa porta cadente sulla Via Municipio [attuale via Porta di Mare]. Da questa, sempre in direzione da ovest ad est perveniva alla Via Ruggi a Portanova, passando per il lato superiore del Largo Dogana Regia.

La cinta intermedia di Grimoaldo, si staccava dalla precedente a Porta di Ronca e perveniva alla Porta Rateprandi (Arco del Campo) [arco con il quale l’attuale via Porta Rateprandi sbocca su via Portacatena] passando per l’angolo sud-ovest della Trofimena. Da Porta Rateprandi andava allo sbocco di Via Municipio alla Marina [sbocco dell’attuale via Porta di Mare su via Roma], con andamento parallelo alla cinta più interna, passando per la torre di Guaiferio nel Vicolo Lungo [estremità occidentale dell’attuale vicolo Guaiferio], poco ad est della quale raggiungeva la nuova Porta di Mare, a circa trenta metri più a sud della porta omonima più antica. Da porta di Mare, procedendo verso est, sempre parallelamente alla cinta più interna, passava a sud di S. Lucia, tagliava l’edificio della Prefettura [Palazzo Sant’Agostino, attuale sede della Provincia], toccava il lato meridionale di S. Maria de Domno e raggiungeva il suo estremo orientale in corrispondenza del piede della Via Ruggi a Portanova [nel primo studio raggiungeva l’attuale piazza Flavio Gioia].

Infine la cinta più esterna, si staccava dalla più antica a Porta S. Nicola, scendeva a Porta di Ronca a lato della scala del giardino Capasso [oggi noto come Giardino della Minerva], seguiva l’andamento del Fusandola fino alla nuova Porta dell’Annunziata, e girava intorno alla Chiesa con un bastione. Indi, disponendosi poco a nord dell’attuale fronte dei fabbricati alla Marina [lato settentrionale dell’attuale via Roma], volgeva direttamente a Porta di Mare, dove si innestava alla cinta di Grimoaldo. Seguiva poi questa sino ad un punto a sud del Largo Dogana Regia, nel qual luogo, o poco più ad est di questo, gradualmente si spostava leggermente più a sud della cinta di Grimoaldo, girava lo sperone in corrispondenza della Palazzina d’Agostino alla Marina, e perveniva alla torre all’angolo sud-est dell’Albergo Diana (demolita verso il 1888). Qui la cinta volgeva a nord, e per l’esistente Porta Nova raggiungeva il muro a piede dello scarpato a sud dell’altipiano della Torretta [attuale rione Mutilati]. [...]

In quest’ultima cinta, oltre che il quartiere dell’Annunziata vediamo, dunque, aggiunto anche l’altro di Portanova, ed altre due porte, quella dell’Annunziata e la Porta Nova, entrambe collocate sulla Via delle Calabrie costruita dagli Spagnuoli. La Porta Nova però già preesisteva, ma non nel posto attuale e, forse in corrispondenza della Via Ruggi allo estremo occidentale della Via Flavio Gioia [attuale via Masuccio Salernitano], antica Via Carraria fra il muro e il muricino, là dove tuttora avanzano alcuni pilastri antichi che costituiscono i cimeli più avanzati verso est della vecchia Salerno, anteriore al secolo XVI7.

  7M. de Angelis, Il passato cit., p. 360-361.

Con il terzo lavoro, datato marzo 1925, ma apparso su un fascicolo dell’«Archivio Storico della Provincia di Salerno» evidentemente anch’esso pubblicato in ritardo, poiché gli fu attribuita la data del 1924, affrontò le problematiche relative alle difese orientali della città e al sito della porta che egli chiamava Elina e che in questa pubblicazione sarà detta di Elino8; allo stesso tempo rivide dettagli di quanto precedentemente esposto e presentò i promessi quarto e quinto perimetro delle mura. A tale fine esaminò sette documenti cavensi, così come li leggeva nel Codex9, relativi alla chiesa di San Michele edificata dai coniugi Guido e Aloara con l’apporto di Guaiferio, rispettivamente fratello e cognato, a meridione della via che conduceva alla porta di Elino riconoscendola in quella giunta fino a noi, che sappiamo residuo del monastero di San Michele e Santo Stefano e che vediamo a occidente della badia di San Benedetto; conseguentemente, identificò la via che a tale porta conduceva in un asse che dall’arco del palazzo arcivescovile su via Roberto il Guiscardo, lungo il vicolo dei Sediari, che giudicò chiuso da una edicola votiva intorno al secolo XV, perveniva alla via San Benedetto per  incontrare la porta oltre la badia, al meridione dell’altopiano oggi rione Mutilati. Non gli parve incongruenza che ben sei dei sette documenti che esaminava citano la chiesa come posta non a settentrione, ma a meridione della strada; anzi, poiché il settimo, invece, a suo dire, la poneva a settentrione, suppose si trattasse di un errore o che le strade fossero due: l’una come descritta, l’altra corrispondente alla via Bastioni. Tutte e due le ipotesi sono possibili, – concluse – ma a noi non interessano10 [!]; ove, invece, se ne fosse interessato e non solo non avesse omesso la lettura della pergamena, ma avesse anche prestato più attenzione alla sua edizione11, avrebbe scoperto che il documento riporta due volte la descrizione del sito della chiesa: la prima nel testo principale, la seconda in un inserto; ma l’edizione, nel primo caso, contiene un banale errore di stampa: super in luogo di supter, per cui anche in esso il luogo di culto risulta posto a meridione della strada.

 

8Analogamente a quanto operato per la porta Rateprandi, ritengo di rendere correttamente il medievale porta Elini con porta di Elino, risultando arbitraria, come rilevato da Bracco (V. Bracco, Salerno Romana, 1979, nota 72, pp. 164-166), la dizione adottata da Michele de Angelis ed entrata nella toponomastica cittadina attraverso una sostituzione di denominazione proposta dalla commissione di cui alla nota 5, che propose, appunto, via Porta Elina in luogo di calata Dogana Nuova. Nella relazione di tale commissione questa sostituzione di denominazione è la numero 34 ed è riportata alla p. 70.

9M. de Angelis, La porta cit., p. 122, nota 1.

10M. de Angelis, La porta cit., p. 114.

11Archivio della badia di Cava, pergamena XI 37; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 90-94.

 

Identificato in tal modo il sito della porta di Elino, senza minimamente porsi il problema, come già nel caso di sant’Andrea, dell’eventuale esistenza di altre chiese dedicate a san Michele, l’Angelo per antonomasia, nella Salerno longobarda (in realtà ne sono documentate quattro), vediamo come fissò le epoche e gli andamenti delle varie cortine difensive.

La prima cinta romana deve cadere nel I secolo a. C.; l’ultima non viene più in qua del V secolo. Se ve ne fu una intermedia, essa cadrebbe dopo l’epoca della conquista della cittadinanza romana, o colla legge Giulia o colla legge Plautina.

La prima scendeva dal castello, e per Porta dei Respizzi, via Orfanotrofio [attuale via Porta San Nicola], Porta di Ronca, via Tasso e via S. Andrea [ufficialmente, nel 1925, vicolo Ruggi; attualmente via Porta Rateprandi], raggiungeva il lato superiore del Largo Campo. Qui volgendo ad est, per via Dogana [Vecchia]–Mercanti guadagnava il piede di via Botteghelle, ora [nel 1925] Pietro Giannone e, risalendo per questa via, in linea retta perveniva alla piccola chiesa di S. Filippo Neri, per ricongiungersi, mediante una inclinazione verso nord-ovest, al Castello.

La intermedia, cadente fra il I a. C. ed il V secolo, se vi fu, come tutto lascia credere, si sarebbe staccata dalla precedente al piede della via Botteghelle, e, continuando in direzione verso est per via Mercanti, avrebbe raggiunto il piede del Vicolo Storto [attuale via Matteo Fiore] ad est della Via Dogana Regia, ora [nel 1925] Rosario Macchiaroli [attuale via Antonio Mazza]. Poi, risalendo per questo vicolo, e volgendo ad est alla estremità superiore di esso sotto S. Michele, avrebbe recinto l’altipiano della Torretta [attuale rione Mutilati], per raggiungere Porta Rotese, e di qui restituirsi al Castello, innestandosi alla precedente cinta presso la chiesa di S. Filippo Neri.

La cinta del V secolo, che è quella del muricino [in realtà era quella del muro, ma egli non comprese mai l’equivoco in cui era incorso nel primo lavoro, quando, ingannato dal diminutivo, ritenne che il muricino fosse il piccolo muro interno poi rafforzato dai longobardi con una difesa più poderosa], si staccava dalla prima cinta romana a nord del Largo Campo, a settentrione della Chiesa di S. Andrea, dirigendosi a sud-est, per breve tratto fino al lato sud di detto largo. Qui volgeva ad est in linea retta, passando per il lato settentrionale del Largo Dogana Regia, e così proseguiva fino ad incontrare il prolungamento rettilineo del Vicolo Storto, volgendo poi a nord ed innestandosi alla cinta precedente a Via Mercanti.

La cinta di Grimoaldo della fine dell’VIII secolo, si staccava dalla prima cinta romana a Porta di Ronca, ed andando a sud fino all’angolo sud-ovest della Trofimena, proseguiva poi verso est fino al Largo Campo, dove incontrava la porta Rateprandi. Da questa, inclinandosi a sud-est, perveniva a Porta di Mare sull’attuale [nel 1925] Via Municipio [attuale via Porta di Mare], e poi, in linea retta rivolta ad est, chiudeva nelle mura la chiesa di S. Lucia, tagliava il Palazzo della Prefettura attuale [nel 1925; oggi Palazzo Sant’Agostino, sede della Provincia], e, sempre nella stessa direzione perveniva al piede della Via Ruggi a Portanova. Indi, risalendo a nord per detta Via e per Via Cetrangolo [ufficialmente, nel 1925, calata Dogana Nuova; attualmente via Porta Elina], dopo aver guadagnato la Porta Elina sotto S. Benedetto, recingeva il nucleo di questo cenobio, escludendo l’altopiano della Torretta. Infine, riattaccandosi alla cinta antica all’arco Capone, per Via Bastioni e per Porta Rotese, ritornava al castello. [...] Posteriormente a questa cinta qualcuno dovette includervi di nuovo l’alto piano della Torretta [...].

Infine la cinta del XVI secolo non si costituì in altro che nella inclusione dei nuovi rioni dell’Annunziata e di Portanova. Perciò essa, a occidente si staccava dalla cinta antica a Porta S. Nicola presso l’Orfanotrofio, e, scendendo lungo il Fusandola fino all’Annunziata, raggiungeva l’antica Porta di Mare, dopo di aver recinto con un bastione la chiesa. Ad oriente, staccandosi leggermente dalla preesistente cinta meridionale verso la Dogana Regia, con direzione ad est raggiungeva l’angolo sud-est del palazzo Grassi, ora Albergo Diana. Di qui risalendo a nord, e, passando per la Portanova attuale, si ricollegava al vecchio muro presso l’altipiano della Torretta12.

  12M. de Angelis, La porta cit., pp. 130-132.

Nell’ambito di questo lavoro, in particolare esaminando uno dei documenti relativi alla porta di Elino, Michele de Angelis ebbe una felice intuizione a proposito della locuzione civitatem novam salernitanam quando scrisse: Ecco; siamo nel 912 [il documento che esaminava è del novembre] cioè dieci o quindici anni dopo che Grimoaldo aveva costruita la nuova cinta [in realtà, Grimoaldo I, figlio e successore di Arechi II, era morto nell’806; d’altronde, lo stesso de Angelis, come abbiamo visto, in altra parte dello scritto assegna la cinta a lui attribuita alla fine dell’VIII secolo], includendo nuovo terreno in essa, come aveva fatto ad ovest per il quartiere delle Fornelle. Dopo la costruzione di questa nuova cinta tutti i documenti dell’epoca vicina chiamano nuova la città sulle zone aggiunte. Dunque dal documento sappiamo che la porta Elina era al di sopra della casa [di cui tratta il documento] posta in Ortomagno, nella parte nuova della città13. Purtroppo egli non arricchì l’intuizione con una ricerca mirata all’individuazione di altre aree allo stesso modo denominate; ove lo avesse fatto, avrebbe scoperto che l’intero Plaio Montis, dal settentrione della porta Nocerina, che lui spesso chiamava di Ronca, al complesso di San Massimo, ricadeva nella nuova città; conseguentemente, avrebbe compreso che le mura che ancora vediamo calare dal castello, al di là delle evidenze costruttive, non sono romane, ma appartengono ad uno degli ampliamenti longobardi. Ma egli non si soffermò a esaminare con la dovuta attenzione nemmeno il seguito di quel documento; ove avesse fatto almeno questo, avrebbe scoperto che la casa con giardino di agrumi e altri alberi di cui esso tratta aveva per confine meridionale il muro della città e vi si accedeva dalla via Carraria. Ossia, questa casa, al 912 detta in civitate salernitanam novam ad ortum magnum, poiché l’Orto Magno era l’intera città a oriente dell’attuale via Duomo, era sita nella stessa striscia di terreno che sarà detta alla fondazione di Santa Maria de Domno inter muro et muricino. La conseguenza di tanto sarebbe stato il sorgere di qualche dubbio circa il sito della porta di Elino, poiché è semplicemente inconcepibile che per ubicare una casa posta fra la via Carraria e il muro dell’ampliamento meridionale si facesse riferimento ad una porta posta praticamente al limite opposto della città. Se, poi, avesse potuto conoscere altri quattro documenti datati novembre 1065, ottobre 1091, novembre 1117, ottobre 112414, che non conobbe perché inediti quando scriveva, così come gli ultimi tre sono tuttora, avrebbe scoperto che in essi è la chiesa di Santa Maria de Domno, edificata, come sapeva, lungo quella stessa via Carraria, a essere ubicata a meridione della via che conduceva alla porta di Elino.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

13M. de Angelis, La porta cit., p. 113.

14Archivio della badia di Cava, pergamene XII 28; C 29; XX 87; XXI 110; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 29-30.

 

Negli altri tre saggi citati alla nota 1 a questo capitolo il Nostro aggiunse studi su particolari componenti della struttura cittadina, quali il fossato realizzato innanzi alla porta Rotense e gli acquedotti della via Arce, confermando la sua propensione alla ricerca condotta esclusivamente su documentazione edita: Ora, a seguito della pubblicazione del Codice Diplomatico Salernitano, da parte del prof. Carlo Carucci, ho rinvenuti dei documenti che confermano la ipotesi fondata sulle precedenti considerazioni15 e ribadendo le convinzioni già espresse sulle questioni sostanziali, pur se con la presentazione, nel 193416, di una carta delle mura cittadine con qualche semplificazione e diversità di dettaglio rispetto a quella allegata al terzo degli scritti qui considerati17.

 

15M.de Angelis, Conferme cit., p. 113.

16M. de Angelis, La chiesa cit.

17Le cinte difensive ricostruite da Michele de Angelis, così come risultano dalla carta allegata al suo lavoro La porta cit., sono illustrate dalla

tavola I.

  

 

La forma urbis della Salerno medievale che risulta dagli scritti di Michele de Angelis fu ricostruita, sostanzialmente, attraverso il presunto riconoscimento dei siti di tre chiese esistenti intorno all’anno Mille: con quello di Santa Maria de Domno egli tracciò gran parte delle difese meridionali; con quello di Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando, il rimanente delle stesse difese e quelle occidentali; con quello di San Michele di Guido, Aloara e Guaiferio, le difese orientali con la porta di Elino. Purtroppo, nessuno dei siti identificati corrispondeva a quelli reali. L’errata identificazione, poi, di Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando costituì un macigno che gli impedì anche una visione corretta della città antica. Questa, come appare dai suoi scritti, è una entità astratta, senza alcun collegamento con fonti documentarie, che ovviamente non possono esistere, o con evidenze archeologiche, costruita esclusivamente su impressioni soggettive derivanti da osservazioni del tessuto urbano fatte da una distanza fra i quindici e i venti secoli. Così, nessun elemento tangibilmente osservabile ci racconta del castrum romano sulla cima del colle18, né delle mura lungo il ciglio meridionale della via Torquato Tasso, né del proliferare delle cinte difensive; di contro, la documentazione giunta fino a noi, come vedremo, racconta tutt’altra storia.

  18M. de Angelis, La porta cit., p. 134.

  

 

 

 

 

 

2 – Gli studi di Arcangelo R. Amarotta

 

Nel decennio fra il 1979 e il 1989, con una serie di studi e un volume che li riassume e in qualche modo li integra1, Arcangelo R. Amarotta presenta una propria visione della forma urbis antica e medievale di Salerno, in parte mutuata dai lavori di Michele de Angelis, in parte costruita in opposizione ad essi. Come il suo antecessore, egli tralascia lo studio diretto della documentazione giacente presso gli archivi, affidandosi alle edizioni, alle trascrizioni, al massimo ai regesti manoscritti, quando esistono2. Il quadro che così ricava non può che essere frammentario, bloccato, come già la visione di de Angelis, in un ambito temporale limitato; il problema si aggrava quando passa a studiare i contenuti della forma urbis, sopratutto edifici di culto, che assenti per periodi più o meno lunghi dalla documentazione cui si limita, e dati perciò per scomparsi, ricompaiono a distanza di tempo nelle fonti tralasciate.

Alla città antica egli assegna un perimetro che nella parte sud-occidentale ricalca lo schema di de Angelis, con la murazione lungo il ciglio a meridione della via Torquato Tasso e la conseguente esclusione delle Fornelle, in quanto concorda nell’identificazione di Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando con Sant’Andrea de Lavina; però, poiché conosce che l’attuale via Porta Rateprandi era un corso d’acqua a regime torrentizio, sposta la porta dallo sbocco di essa a quello del vicolo delle Galesse. In relazione al quartiere longobardo inter murum et muricinum, rileva l’equivoco per il quale de Angelis ritenne essere il muricino la difesa interna; quindi contesta l’estensione che lo stesso assegnò al muro del suo terzo perimetro romano, retrocedendolo dalla via Giovanni Ruggi d’Aragona alla via Antonio Genovesi. In relazione alla parte settentrionale della città, analogo atteggiamento pone in essere nei confronti di uno dei capisaldi delle tesi di de Angelis, quello secondo il quale le mura romane calavano dal castello, quando riconosce alla città che egli definisce romana, e che in questa pubblicazione sarà definita prelongobarda, un muro settentrionale che va a porre vicino alla sorgente dell’acqua de la Palma, a monte del monastero di San Nicola; contestualmente, riconosce corretta l’intuizione dello stesso de Angelis circa l’interpretazione della locuzione civitatem novam salernitanam, in opposizione alla città romana, la civitas vetus. Egli, tuttavia, come già il suo antecessore, non arricchisce l’assunto con una ricerca mirata all’individuazione di altre aree allo stesso modo denominate; ove lo avesse fatto, anche lui avrebbe scoperto che già il settentrione della porta Nocerina e il complesso di San Massimo erano nella nuova città; conseguentemente, avrebbe compreso che il muro settentrionale della città prelongobarda non poteva essere posizionato a settentrione di San Nicola de la Palma, ma andava ricercato a meridione dello stesso complesso di San Massimo. Allo stesso modo, non rileva che l’area a settentrione della badia di San Benedetto, attuale rione Mutilati, che de Angelis indicava come altopiano della Torretta e che egli indica come Orto Magno, era anch’essa nuova città; conseguentemente, la pone all’interno del perimetro romano, anzi tale perimetro estende abnormemente lungo la via Michele Vernieri, ben oltre il limite destro della nostra tavola II3, affinché vada a raggiungere il sito del presunto anfiteatro, oltre il trincerone ferroviario.

 

1A. R. Amarotta, Il palazzo di Arechi e il quartiere meridionale di Salerno, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXVIII, 1979, pp. 229-251; L’ampliamento longobardo in “Plaium Montis” a Salerno, ivi, XXIX, 1980, pp. 297-323; L’Ortomagno nelle fortificazioni longobarde di Salerno, ivi, XXX, 1981, pp. 175-206; Dinamica urbanistica nell’età longobarda, in A. Leone e G. Vitolo, Guida alla storia di Salerno e della sua provincia, 1982, pp. 69-86; La cappella palatina di Salerno, 1982; Il “vicus” di S. Trofimena e il porto longobardo di Salerno, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXXI, 1983, pp. 113-134; Il secolo normanno nell’urbanistica salernitana, in «Rassegna Storica Salernitana», 3, 1985, pp. 71-122;  Salerno romana e medievale, dinamica di un insediamento, 1989.

2Oltre le edizioni già utilizzate da de Angelis: Pergamene Salernitane, a cura di L. E. Pennacchini, 1941. Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII, a cura di C. Carucci, III, 1946. Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV, a cura di C. Carucci, I, 1949; II, 1950. Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio, a cura di L. Cassese, 1950. Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno,  a cura di M. Galante, (I, 1984; II, 1997), I. Codex Diplomaticus Cavensis., a cura di S. Leone e G. Vitolo, IX, 1984; X, 1990. Diplomata Tabularii Cavensis, trascrizioni dattiloscritte delle pergamene dell’archivio di Cava, presso lo stesso archivio, a cura di S. Leone e A. Miele. Index Chronologicus Pergamenarum, regesti manoscritti delle pergamene dell’archivio di Cava, presso lo stesso archivio, a cura di A. Venereo.

3La tavola II riassume le cinte difensive ricostruite da Arcangelo R. Amarotta così come si evincono dalle varie piante pubblicate nel suo volume Salerno cit.

  

 

A tale città, egli fa seguire un castrum bizantino estremamente ristretto, dotato di proprie mura, limitato a settentrione dall’attraversamento viario della Capua–Reggio, attuale asse via Romualdo II Guarna–via Torquato Tasso; a meridione dal muro corrente a valle del monastero di San Giorgio; a oriente dal labinario di Sant’Eremita, individuato, come da de Angelis, nella linea di massima pendenza salita delle Croci–via Antonio Genovesi–via Santa Maria de Domno; a occidente dal corso della Lama, attuali gradoni Madonna della Lama–via Porta Rateprandi–vicolo delle Colonne.

Negli anni delle invasioni barbariche i Salernitani abbandonarono la pericolosa posizione a cavallo della strada consolare e si ritrassero verso il mare, fonte principale di sostentamento, per sopravvivere col minor danno possibile a vicende che non erano in grado di controllare. [...]

Naturale erede della città romana, Salerno bizantina fu ereditata dai conquistatori longobardi, che dopo una pausa di riflessione la eressero a capitale di uno stato destinato a far da base di un organismo politico del tutto nuovo in Europa4.

  4A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 70.

 

Per la trasformazione di Salerno in tale capitale Amarotta fa tornare i longobardi al più ampio perimetro romano, la cui murazione, contro le pessimistiche previsioni bizantine, doveva aver ben retto al passaggio delle invasioni barbariche, a eccezione del lato orientale, ove fa costruire una nuova cortina difensiva. Essa, dal settentrione dell’altopiano della Torretta, lungo la via Bastioni, il meridione della via Romualdo II Guarna, la via Santa Maria della Mercede, raggiunge il muro settentrionale della città antica che corre a monte di San Nicola de la Palma e lo supera per ascendere al sito del futuro castello e discendere lungo il crinale opposto del colle. A tanto fa aggiungere le Fornelle, la fascia inter murum et muricinum, l’area fra gli assi costituiti dalle vie Antonio Genovesi e Antonio Mazza, affinché, lungo il vicolo Pietro Barliario, il muro orientale raggiunga la piazzetta Francesco Cerenza, al cui settentrione, nel sito della traversa San Giovanni, riconosce i resti di quello che sarà il castello di Terracena.

Nella città longobarda, in opposizione a de Angelis, pone la porta di Elino, che egli chiama Elinia, a settentrione della badia di San Benedetto, grosso modo nel luogo ove vediamo la gradinata che congiunge il rione Mutilati alla sottostante via Velia, quindi alla sommità di una scarpata impraticabile, altissima sul corso del torrente Rafastia che oggi corre sotto quella stessa via, in una posizione tale da renderla praticamente inutilizzabile se non da pedoni che, scesi da essa al livello del torrente lungo una ipotetica gradinata antesignana dell’attuale, passassero il torrente a guado, poiché dobbiamo escludere l’attraversamento del corso d’acqua con un ponte, sia per lo stato dei luoghi che per la presenza di un altro ponte a circa duecento metri di distanza [lungo la via della porta Rotense], pertanto Porta Elinia ci appare meno come un’opera razionale che come uno status symbol5 [!]. 

  5A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 68.

 

Tutto questo sulla base dell’evidente contrasto fra il sito della chiesa di San Michele di Guido, Aloara e Guaiferio relativamente alla via che conduceva alla porta, così come si rileva dai documenti già esaminati da de Angelis, e il tracciato della via San Benedetto relativamente alla chiesa del monastero di San Michele e Santo Stefano, da Amarotta, come da de Angelis, identificata con quella: se la chiesa di San Michele era a meridione della via che conduceva alla porta di Elino, è il ragionamento di Amarotta, tale via doveva passare a settentrione del luogo ove ancora vediamo la chiesa e, quindi, a settentrione di San Benedetto. Per l’unico caso in cui la chiesa è detta posta a super della strada, Amarotta sposa la prima ipotesi di de Angelis, quella dell’errore; ma, alieno come il suo antecessore allo studio dei documenti originali, non rileva che tale errore è banalmente di stampa nel Codex. Nell’intera questione, il dubbio che la chiesa citata intorno all’anno Mille non fosse quella oggi esistente non sfiora Amarotta, così come non aveva sfiorato de Angelis.

La presunta forma urbis longobarda ebbe, nella visione amarottiana, dai conquistatori normanni lo spostamento, al 1083 circa, per motivi di sicurezza, in conseguenza dell’edificazione del castello di Terracena, della porta di Elino (che smetteva la sua funzione di status symbol per decadere [!] a quella di normale porta cittadina utilitaria ai fini della viabilità urbana verso la piana dell’Irno) dalla sommità della scarpata incombente sul torrente Rafastia all’incrocio della via dei Mercanti con la via Antonio Mazza e un ampliamento, intorno al 1170, dall’immediato occidente della chiesa di Santa Trofimena al corso del torrente Fusandola; dagli svevi, fra il 1194 e il 1200, l’inclusione fra le mura dell’area della Piantanova e del quartiere San Giovanniello, con un conseguente nuovo posizionamento della porta di Elino, ormai detta Nova, allo sbocco della via dei Mercanti sulla piazza Sedile di Portanova; dagli angioini, nel 1363 (unico fatto reale, ma avvenuto dopo il 30 luglio 1364), una nuova murazione che includeva il monastero di Santa Maria della Porta, comunemente detto di San Domenico, e dava un nuovo posizionamento anche alla porta Rotense.

A differenza di Michele de Angelis, che limitò i suoi studi alla forma urbis, Arcangelo R. Amarotta si spinge a indagini sulla dinamica urbanistica, tentando di dare ubicazione ad una serie di edifici, in particolare a quelli caratterizzati dal fatto di essere posti nelle vicinanze della via che conduceva alla porta di Elino; fra essi vi sono l’antica cattedrale e l’episcopio, poi archiepiscopio. A proposito della prima scrive che il corpo dell’apostolo Matteo, alla traslazione in città, nel 954, fu sistemato nell’antica cattedrale, che in quella circostanza dovette essere ristrutturata su due piani, riservando la cripta al monumento funebre e l’edificio superiore al culto ordinario. La distinzione fu mantenuta dal Guiscardo, che riedificò il duomo sull’area dell’antica cattedrale6. Non spiega, però, come fu possibile una tale ristrutturazione: se scavando la cripta sotto l’edificio già esistente o sopraelevandolo; allo stesso tempo non fornisce prove archeologiche o documentarie che avallino la sua certezza, che vedremo fallace, circa l’edificazione del duomo normanno sulla stessa area dell’antica cattedrale. A proposito dell’episcopio scrive che esso non fu mai in Orto Magno; vi fu, invece, l’archiepiscopio, ma in due siti diversi. In realtà, la tesi è una forzatura conseguente alla concezione che egli ha della via che conduceva alla porta di Elino; ovviamente, a causa dei presunti spostamenti che abbiamo visto, ne riconosce due: quella che correva al settentrione del monastero di San Michele e Santo Stefano e della badia di San Benedetto, operante fino al 1083 circa, e l’attuale via dei Mercanti. Secondo tale assunto, la successione di identità fra le due strade portò a indicare la seconda come la via che conduceva alla porta olim detta di Elino, ove olim non va inteso nel senso di anticamente, ma di comunemente; pertanto, avendo la porta cambiato ubicazione, con la chiusura della vera sulla scarpata del rione Mutilati e l’apertura dell’altra sulla via dei Mercanti, la seconda impropriamente e comunemente era anche detta di Elino.

  6A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., p. 194.
 

Da documenti anteriori al 1083, che in seguito vedremo più diffusamente, si apprende che lungo la via che conduceva alla porta di Elino era sita la chiesa di San Gregorio; essa aveva a settentrione la chiesa di San Matteo e San Tommaso con la corte e le case del conte Alfano; tali immobili, a loro volta, avevano a settentrione l’archiepiscopio. Amarotta posiziona il tutto a monte della sua via della porta di Elino, senza spiegare come la strada e quegli stabili potessero trovare posto nei pochi metri che si misurano fra il fronte nord del monastero di San Michele e Santo Stefano e il margine settentrionale dell’attuale via Bastioni, lungo il quale correvano le mura cittadine. Altro elemento caratterizzante la via della porta di Elino anteriormente al 1083 è la chiesa di San Vito: egli la posiziona nella parte orientale dell’area oggi del palazzo arcivescovile.

Da documenti posteriori al 1083 si apprende che l’archiepiscopio era posto a settentrione della via recante alla porta olim detta di Elino; per Amarotta si tratta di un nuovo immobile edificato a monte della nuova via della porta di Elino, così come il vecchio era stato edificato a monte della vecchia via che conduceva alla stessa porta; ma a meridione di esso troviamo la chiesa di San Matteo e San Tommaso, avente al proprio meridione la chiesa di San Gregorio; e ancora troviamo la chiesa di San Vito nei pressi di questa nuova via della porta di Elino. Per Amarotta si tratta di una nuova San Matteo e San Tommaso, di una nuova San Gregorio, di una nuova San Vito [!] le quali, circostanza che oserei definire unica nella storia urbanistica planetaria, avevano seguito la migrazione della sede arcivescovile e della porta di Elino, rioccupando anche le posizioni relative.

Oltre che su una serie di altri elementi urbanistici, Amarotta punta la sua attenzione su alcuni edifici di culto distribuiti in città. Nota la chiesa di Sant’Andrea de Orto Magno, soggetta al vescovo di Pesto, posta nel 970 e nel 977 (in realtà è novembre 976) a monte della citata San Matteo e San Tommaso e scrive che, poiché nel 1040 si trova a settentrione della stessa San Matteo e San Tommaso l’archiepiscopio, mentre si perde ogni traccia di s. Andrea [...], l’unica conclusione possibile è che l’arcivescovado sia sorto tra il 983 [anno di elevazione della città a sede arcivescovile] e il 990 sull’area già occupata da s. Andrea7. Peccato che la chiesa di  Sant’Andrea de Orto Magno ricompaia in documenti del 1188, del 1266, del 1309, del 1316 o 13178.

 

7A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., p. 195.

8Archivio della badia di Cava, pergamene XLI 98; LV 55. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV, Campania, a cura di M. Inguanez, L. Mattei Cerasoli, P. Sella, 1942, p. 453, 6542. Necrologio e Liber confratrum di S. Matteo di Salerno, a cura di C. A. Garufi, 1922, p. 143.

Nota anche la chiesa di San Michele nel vicus di S. Trofimena, subiecta alla cappella palatina che compare ancora nella seconda metà dell’XI secolo poi non se ne fa più menzione, mentre appare nelle fonti una chiesa di S. Andrea, detta de Lama perché situata sull’antico canale di S. Michele [?], in possesso di Ruggero il Normanno, Guaimario conte di Giffoni e Gregorio conte di Capaccio, [...] che nell’ultimo scorcio del secolo XI ne fecero dono alla badia di Cava9.

Vedrei in S. Andrea de Lama il nuovo titolo (forse anche un nuovo edificio) dato all’antico S. Michele dai dominatori normanni, che la chiesa avevano ereditato in quanto subiecta alla cappella di palazzo10. Peccato che la chiesa di San Michele in Vico Santa Trofimena, poi Sant’Angelo de Marronibus, ricompaia in documenti del 1176 e del 1286, oltre che nelle relazioni di trentasette visite pastorali distribuite fra il 1558 e il 180311.

  9In realtà, il Gregorio che nel maggio 1092, insieme alla moglie Maria, fece dono non alla badia di Cava, ma alla chiesa di San Nicola de Casa Vetere a Capaccio di parte del patronato di Sant’Andrea de Lavina e di San Massimo non era conte di Capaccio, in quanto figlio minore del duca Pandolfo che, detenendo quel feudo, lo trasmise al figlio maggiore Guaimario, il quale a sua volta lo trasmise al proprio primogenito Gregorio; quindi il conte di Capaccio di tale nome era il nipote di quello agente nel maggio 1092 (si veda in appendice la tavola genealogica relativa a questa famiglia comitale). Successivamente, la chiesa di San Nicola de Casa Vetere pervenne nel patrimonio della badia di Cava, portando alla stessa le parti ricevute da Gregorio e Maria dei patronati di Sant’Andrea de Lavina e di San Massimo.

10A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 272.

11Archivio della badia di Cava, pergamene XXXV 13; LVIII 109. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

Ancora nota il monastero e le chiese dedicate a san Vito, ossia, come scrive, un monastero di S. Vito de Mare e una chiesa di S. Vito Martire, che risultano da documenti cavensi, e le chiese di S. Vito de Mare, Scutis, Maggiore e Piccolo12, che risultano da documenti salernitani; quindi, identifica San Vito Martire che, come abbiamo visto, posiziona nella parte orientale dell’area oggi del palazzo arcivescovile, con San Vito Maggiore. Purtroppo, la chiesa di San Vito Martire, posta nei pressi della sua prima via della porta di Elino, non è altra che San Vito de Scutis, posta nei pressi della sua seconda via della stessa porta, essendo, ovviamente, unica la strada; inoltre, il monastero di San Vito de Mare e la chiesa omonima, cui egli, del tutto arbitrariamente, assegna due ubicazioni diverse fuori dalle mura meridionali della città, non sono altro che modi diversi, succedutesi nel tempo, di indicare lo stesso luogo di culto, quando, soppresso il monastero, nella sua chiesa fu istituita una parrocchia, poi detta San Vito Maggiore, per distinguerla dalla vicina San Vito Piccolo o Minore; successivamente, tale parrocchia sarà annessa a Santa Lucia de Giudaica, come si rileva dalle relazioni di tredici visite pastorali distribuite fra il 1515 e il 173113. In definitiva, quelli che Amarotta considera un monastero e quattro chiese non sono che tre luoghi pii.

 

 

 

 

12A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 272.

13Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

 

Naturalmente, si interessa della chiesa di San Michele, poi detta di Sant’Angelo, edificata da Guido, Aloara e Guaiferio, che, come de Angelis, identifica con quella giunta fino a noi e che vediamo a occidente della badia di San Benedetto: Tra il 1039 e il 1062 è costantemente legata a s. Sofia col titolo di monastero di s. Angelo e s. Sofia [in realtà non era la chiesa ad avere il duplice titolo, ma gli abati di Santa Sofia da cui dipendeva Sant’Angelo], di cui intorno al 1043 diventa proprietario Pandolfo, fratello del principe regnante Guaimario. A Pandolfo subentrano nel 1052 la moglie e i figli. Dal 1062 s. Angelo comincia ad essere citato come monastero femminile autonomo col titolo di s. Angelo e s. Stefano, e scompare ogni collegamento con la famiglia di Pandolfo: si avvertono i segni dell’azione riformatrice di Alfano I, di cui la progressiva riduzione delle chiese nobiliari e la ristrutturazione in senso centripeto dell’archidiocesi furono i punti qualificanti14. Peccato, anche per le presunte riforme di Alfano I, che la chiesa di Sant’Angelo compaia ancora in possesso di Giovanni, figlio di Pandolfo, nell’agosto 1100, quando, come più diffusamente vedremo, donando Santa Sofia alla badia di Cava, dichiara di voler trattenere per se e i suoi eredi la chiesa di San Michele Arcangelo, detta anche di Sant’Angelo, e nel 1198 e 1309, oltre che in sette relazioni di visite pastorali distribuite fra il 1515 e il 157515; inoltre, il monastero femminile dell’ordine benedettino di San Michele e Santo Stefano non compare nelle fonti nel 1062, ma già nel marzo 1039, con la badessa Sichelgaita, e nel giugno 1054, con la badessa Blatta16 (mentre la chiesa di Guido, Aloaria e Guiaiferio è costantemente legata a s. Sofia).  

 

14A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., p. 192.

15Archivio della badia di Cava, pergamena D 28. Archivio di Stato di Napoli, pergamena distrutta; edita in Codice Diplomatico Amalfitano, a cura di R. Filangieri di Candida (I, 1917; II, 1951), I, pp. 463-465. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6536. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

16Archivio della badia di Cava, pergamena V 116; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IV, p. 139. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 10; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 12-15. Il primo documento fu mal datato dai curatori del Codex Diplomaticus Cavensis che lo assegnarono al marzo 1009, in quanto ritennero che il principe Guaimario citato nella datazione fosse il terzo, regnante fra il 999 e il 1027 (dal 989 associato al padre Giovanni II di Lamberto); si tratta invece del figlio, regnante fra il 1027 e il 1052 (dal 1018 associato al padre), poiché la datazione si completa riferendosi al primo anno principatus eius Capue e fu, appunto, Guaimario IV ad avere, fra il 1038 e il 1047, anche il principato di Capua, cui aggiunse, fra quello stesso 1039 e il 1052, i ducati di Amalfi e Sorrento e, fra il 1043 e il 1047, quelli di Puglia e Calabria.

Infine nota un edificio di culto altomedievale nelle fondazioni del conservatorio Ave Gratia Plena Minore in via dei Canali17 e, del tutto gratuitamente, vi riconosce una chiesa di San Grammazio anteriore a quella esistente fino al 1670 davanti alla gradinata dell’ex chiesa dei gesuiti. Peccato che il sito del ritrovamento non insista all’interno di quello che fu il territorio parrocchiale di San Grammazio, ma di quello che fu di San Matteo Piccolo; anzi, proprio accosto all’edificio di culto venuto alla luce, o forse addirittura sopra di esso, fino al 1720 vi era la stessa chiesa parrocchiale di San Matteo Piccolo, prima che fosse demolita per la formazione del largo davanti al conservatorio della Santissima Annunziata Minore e ricostruita dove la vediamo tuttora18. A proposito di San Matteo Piccolo, Amarotta nota una chiesa con tale titolo in Orto Magno, a meridione dell’archiepiscopio; pensa di poterne cercare il sito nell’attuale via dei Canapari, a sud-est del duomo normanno e, poiché nella seconda metà del Duecento il titolo scompare dall’Ortomagno e ricompare in loco ubi a li Canali dicitur, suppone che fin dalla seconda metà del secolo XIII la chiesetta abbia impegnato il suolo dov’è ora, ad angolo tra via dei Canali e il largo S. Pietro a Corte19. Peccato che, come abbiamo visto, San Matteo Piccolo sarà ricostruita dove la vediamo soltanto dopo il 1720; inoltre San Matteo Piccolo in Orto Magno, che non era altra che quella San Matteo e San Tommaso che egli aveva già ubicato a settentrione della sua via della porta di Elino, donata dalla famiglia che l’aveva edificata alla badia di Cava e da questa ceduta ai Capograsso, per cui fu detta San Matteo Piccolo dei Capograsso per distinguerla dall’omonima parrocchiale ai Canali, compare ancora, a meridione dell’archiepiscopio, nell’ambito della casa di quella famiglia, nell’attuale vicolo San Bonosio, oltre che in documenti distribuiti fra il 1340 e il 1366, nelle relazioni di dodici visite pastorali effettuate fra il 1515 e il 162620.

 

 

 

 

17A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 275.

18Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5370, 1761, f. 659.

19A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 275.

20Archivio della badia di Cava, Registro III dell’abate Mainerio, 1340-1366, f. 39; Inventario dell’abate Mainerio, 1359, f. 160. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

 

La ricostruzione della Salerno antica e medievale di Arcangelo R. Amarotta, sostanzialmente, raccoglie gli equivoci in cui incorse Michele de Angelis, pur con tentativi, non riusciti, di correggerne le storture più evidenti; a tanto l’Autore aggiunge una serie nutrita di illazioni prive di collegamenti con fonti documentarie, anzi, troppo spesso in contrasto con esse. Fra queste illazioni, il riconoscimento del sito del castello di Terracena nei reperti che si osservano alla traversa San Giovanni, così come per il suo antecessore era avvenuto per quello di Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando, costituisce un macigno che gli impedisce una visione corretta delle difese orientali; nel contempo, la città antica che appare dai suoi scritti, analogamente a quella che appariva dagli scritti di de Angelis, è una entità astratta, costruita esclusivamente sul presupposto che ovunque saranno ipotizzate mura e porte assai difficilmente interverranno ritrovamenti archeologici in grado di smentire. Così, nessun elemento tangibilmente osservabile ci racconta dell’abnorme estensione della cinta romana, né del restringersi del castrum bizantino, né dell’inclusione sveva dell’area della Piantanova e del rione San Giovanniello fra le mura; di contro, la documentazione giunta fino a noi, come vedremo, racconta tutt’altra storia.

  

 

 

 

 

 

3 – Il percorso alternativo

 

Il giugno 1991, come accennato, vedeva l’inizio di un mio percorso di studio alternativo a quelli fin qui visitati, che mi avrebbe condotto a rettificare sostanzialmente le visioni della Salerno medioevale elaborate da Michele de Angelis e da Arcangelo R. Amarotta1.

Esso non poteva prendere avvio che da un documento del novembre 10642, il solo, fra quelli giunti fino a noi, che ci fornisca un riferimento utile a determinare l’ubicazione dell’antica cattedrale, in quanto ci informa che l’archiepiscopio era posto davanti ad essa. Da tale assunto, considerando che certamente la chiesa ebbe l’orientamento canonico dell’epoca sull’asse est-ovest con ingresso da quest’ultima direzione, si evince che l’archiepiscopio, per essere davanti alla cattedrale, non poteva che essere posto sullo stesso asse, avendo la chiesa a oriente; ove, quindi, fosse stato possibile determinare il sito, all’epoca, dell’archiepiscopio, evidentemente avremmo avuto anche l’ubicazione della cattedrale. La sollecitazione a intraprendere il mio percorso di studio proprio da questo elemento, comunque di importanza rilevante, dell’urbanistica medievale salernitana giungeva non tanto dalle tesi amarottiane, che pur nella loro opinabilità lo ponevano in Orto Magno, quanto da un opuscolo pubblicato un decennio innanzi da Arturo Carucci, i cui assunti erano stati riproposti l’anno precedente in un nuovo lavoro dello stesso autore3, che riconosceva l’antica cattedrale nel luogo di culto paleocristiano tornato alla luce negli ambienti ipogei di San Pietro a Corte. Occorreva, dunque, riportarla in Orto Magno tramite una corretta ubicazione dell’archiepiscopio, a oriente del quale era sita al novembre 1064.

 

1V. de Simone, L’ubicazione dell’antica cattedrale dei vescovi salernitani, in «Rassegna Storica Salernitana», 15, 1991, pp. 179-184; L’identificazione della via che conduceva alla porta di Elino, ivi, 17, 1992, pp. 257-266; La «forma urbis» prelongobarda e altre questioni di topografia salernitana, ivi, 19, 1993, pp. 191-207; Nuove acquisizioni sulla chiesa di santa Maria de Domno in Salerno, ivi, 28, 1997, pp. 7-21; Il sito del castello di Terracena in Salerno, ivi, 32, 1999, pp. 9-21.

2Archivio della badia di Cava, pergamena XII 19; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 320-332. 

3A. Carucci, La chiesa più antica di Salerno: l’ecclesia Dei Genitricis, 1981; Opulenta Salernum, 1990, pp. 95-96.

Un documento del marzo 9904 tratta di un terreno sito in tale area cittadina, a meridione dell’archiepiscopio, prospettante con il proprio lato orientale su una strada, con andamento sud-nord, che conduceva alla casa e al cortile del conte Alfano; ma i documenti che ci permettono una ubicazione della sede arcivescovile addirittura approssimata alle decine di metri sono due atti del marzo 1040 e del marzo 11855 il secondo con inserti del giugno 971, del novembre 976, del giugno 1055, del luglio 1056 e del febbraio 1058. Il primo di essi è relativo alla chiesa sotto il titolo di San Matteo e San Tommaso sita a meridione dell’archiepiscopio, di pertinenza del conte e giudice Ademario, figlio del conte Pietro, e dei nipoti conti Adalberto e Guaimario, figli di Alfano. Il secondo è relativo alla sentenza con la quale era stata composta una lite fra Giovanni, sacerdote e abate della chiesa di San Matteo apostolo sita in Orto Magno, a settentrione della chiesa di San Gregorio, e il conte Alfano, figlio del conte e giudice Ademario, patrono della stessa chiesa, da una parte, e Leone atrianense, figlio di Pietro, dall’altra parte; la causa era stata discussa nell’atrio della citata chiesa di San Gregorio, costruita lungo la via che conduceva alla porta di Elino. Nel secondo, l’inserto del novembre 976 rappresenta l’atto di dotazione a favore della chiesa di San Matteo e San Tommaso da parte dei fondatori coniugi conte Pietro, figlio di Landolfo, e Aloara detta Fasana, figlia di Leone napoletano; da tale inserto in particolare, con l’ausilio del contesto generale del documento, si apprende che a settentrione della chiesa di San Gregorio correva, con andamento ovest-est, un andito6 che, attraversando beni appartenenti al conte Alfano, zio del fondatore della chiesa di San Matteo e San Tommaso, congiungeva una via con andamento sud-nord, posta a occidente sia della stessa chiesa che di quella di San Gregorio, con beni degli eredi del chierico Giovanni. A settentrione di tale andito era posto il terreno sul quale era edificata la chiesa di San Matteo e San Tommaso, detta anche semplicemente di San Matteo apostolo, fra il cui abate e il cui patrono, da una parte, e Leone atrianense, dall’altra, sussisteva la lite che si discuteva nel 1058. Tale terreno aveva una lunghezza, sull’asse nord-sud, di poco più di ventinove metri sul lato occidentale e di poco meno di trenta su quello orientale, per una larghezza di poco meno di dodici metri sul lato meridionale e di poco più di sedici e mezzo su quello settentrionale7; esso confinava a oriente con gli eredi di Mastalo atrianense, con l’ebreo Reginulo, con Mundulo e con gli eredi di Sellitto de Aunito; verso occidente non giungeva alla strada con andamento sud-nord che abbiamo visto, ma a questa era collegato tramite un altro andito che attraversava beni del conte Alfano e beni degli eredi del conte Pietro, altro zio del fondatore della chiesa. A settentrione di quest’ultima vi erano le case e il cortile dello stesso conte Alfano e un’altra chiesa sotto il titolo di Sant’Andrea, quella stessa, soggetta al vescovo di Pesto-Capaccio, che Amarotta dice demolita e sostituita dall’archiepiscopio fra il 983 e il 990, ma che, come abbiamo visto, ancora esisteva nel primo quarto del XIV secolo8.

 

 

 

 

 

 

 

 

4Archivio della badia di Cava, pergamena IV 46; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 295-296.

5Archivio della badia di Cava, pergamene VIII 84; XI 21; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 127-131; VIII, pp. 51-59; in tale edizione alla XI 21, per errore di stampa, è attribuita la data del marzo 1057.

6Per il termine andito si veda il capitolo 3 della I parte.

7Le misure indicate, volutamente con approssimazione, sono state ottenute attribuendo a ciascuno dei piedi riportati dal documento il valore di trentaquattro centimetri. Il concetto di piede fu ampiamente variabile presso i longobardi ed i loro eredi, tanto da indurre gli estensori di alcuni atti notarili a stilarli su pergamene di cui la larghezza al margine superiore o la lunghezza di un segmento ricavato lungo uno dei lati, fra lo stesso margine superiore e una tacca contrassegnata da una croce, considerata l’unità, si utilizzava per la misurazione dell’immobile di cui si trattava. Venti documenti con tale caratteristica, distribuiti fra il dicembre 984 e il febbraio 1164 (Archivio della badia di Cava, pergamene III 116; IV 60; IV 64; IV 76; IV 82; VI 31; VII 52; VII 54; VII 63; X 59; XVIII 87; XVIII 120; XIX 7; XIX 8; XIX 120; E 40; XXI 61; XXI 81; H 11; XXXI 74; le prime dieci edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp. 218-219; II, pp. 316-317; II, pp. 320-321; II, p. 339; III, pp. 2-3; IV, pp. 199-200; V, pp. 139-141; V, pp. 144-145; V, pp. 161-162; VII, pp. 200-201) presentano piedi compresi fra trentuno centimetri e un millimetro e trentasei centimetri e quattro millimetri, con la maggioranza, undici su venti, fra trentatré e mezzo e trentaquattro e mezzo, per una media generale di trentaquattro centimetri e quattro decimi di millimetro, naturalmente arrotondabili a trentaquattro. Da notarsi che i curatori del Codex Diplomaticus Cavensis si preoccuparono di indicare in nota a ciascuno dei dieci documenti da loro editi il valore in centimetri e millimetri del piede che vi riscontrarono, ma essi corrispondono soltanto in tre casi alle misure che effettivamente si rilevano sulle pergamene. In P. Guillaume, Essai historique sur l’Abbaye de Cava, 1877, appendice, p. XLVII, si vede una tavola con le misure del piede ricavato da sedici pergamene fra le venti sopra riportate, ma anche in questo caso le misure non corrispondono alle reali se non in quattro casi.

8Necrologio e Liber confratrum di S. Matteo di Salerno cit., p. 143. Obito di Roberto Galla, cappellano della chiesa di Sant’Andrea de Episcopio (altra denominazione di Sant’Andrea de Orto Magno) databile fra il settembre 1316 e l’agosto 1317 (XV indizione dopo il 1315).

 

 

 

Dal contesto dei due documenti e dai personaggi che compaiono, è evidente che la chiesa di San Matteo e San Tommaso del primo è la stessa detta anche semplicemente di San Matteo apostolo nel secondo, mentre è altrettanto evidente che la via con andamento sud-nord sulla quale prospettava con il proprio lato orientale il terreno sito a meridione dell’archiepiscopio, di cui al documento del marzo 990, e che portava alle case e al cortile del conte Alfano è la stessa che appare nell’inserto del novembre 976 facente parte del documento del febbraio 1058, pertanto si evince che l’archiepiscopio era a settentrione di quel luogo di culto.

Ora, dunque, partendo dal sito certo della chiesa di San Gregorio lungo la via dei Mercanti, considerando che a settentrione di questa vi erano i beni del conte Alfano attraversati da un andito che congiungeva la via con andamento sud-nord ai beni del chierico Giovanni, che a settentrione di tale andito vi era il terreno sul quale era edificata la chiesa di San Matteo e San Tommaso per una estensione di circa ventinove o trenta metri, che ancora più a settentrione vi erano le case e il cortile dello stesso conte Alfano e la chiesa di Sant’Andrea e infine l’archiepiscopio con a oriente l’antica cattedrale, si evince che l’archiepiscopio era, in pratica, sulla parte occidentale dell’area che occupa anche attualmente e l’antica cattedrale verso l’angolo nord-orientale della stessa area, ove abbiamo visto Amarotta porre una chiesa di San Vito.

Il passo successivo su questo percorso non poteva che essere l’identificazione certa della via che conduceva alla porta di Elino, visto il suo apparire tanto difforme, nel passo precedente, sia dalla tesi di de Angelis che da quella di Amarotta. La chiesa di San Michele Arcangelo, detta anche di Sant’Angelo, che risulta edificata al suo meridione9, utilizzata dai due Autori quale riferimento per l’identificazione, fu fondata dai coniugi Guido, figlio del conte Guaimario, e Aloara, figlia del conte Landoario, con l’apporto di Guaiferio, rispettivamente fratello e cognato. Il padre dei due, il citato conte Guaimario, aveva edificato la chiesa di San Martino oltre il fiume Irno, nei pressi della Carnale; egli era figlio del conte Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario I, quindi fratello di Guaimario II. Guaiferio ebbe due figli: Guaimario, che compare con lo zio Guido come compatrono di San Martino e che risulta già morto nel settembre 1011, e Guaiferio, che sposò Gemma, figlia di un altro conte Guaimario, e fu il fondatore del monastero di Santa Sofia. Guido e Aloara ebbero tre figli: Aidolfo, Astolfo e Gisolfo, che compaiono, nel gennaio 1012, come compatroni di San Martino; Astolfo, o Astilfo, compare anche, nel novembre 1023, come patrono di San Michele, mentre Aidolfo, o Raidolfo, compare in un atto di amministrazione di beni di Santa Sofia, nell’ottobre 1026, essendo morto il cugino Guaiferio10.

 

9Archivio della badia di Cava, pergamene IV 60, maggio 991; IV 120, ottobre 996; V 9, agosto 997; IX 33, agosto 1043; XI 37, dicembre 1058; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp. 316-317; III, p. 60; III, pp. 72-73; VI, pp. 240-243; VIII, pp. 90-94; in tale edizione la IX 33 è indicata come IX 31, mentre la trascrizione della XI 37, che cita due volte l’ubicazione della chiesa di Sant’Angelo, per errore di stampa (super in luogo di supter) nella prima citazione va a ubicare la chiesa a settentrione della via che conduceva alla porta di Elino.

10Questo discorso genealogico è stato elaborato sulla base delle genealogie che si vedono in S. Leone, La fondazione del Monastero di S. Sofia in Salerno, in «Benedictina», 1973, p. 58, e in A. R. Amarotta, L’ampliamento cit., p. 312, integrato da quanto risulta da Archivio della badia di Cava, pergamene II 25; II 27; II 36; II 42; II 47; IV 3; VI 25; VII 10; VII 41; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, I, pp. 194-195; I, pp. 196-197; I, pp. 207-208; I, pp. 215-216; I, pp. 224-225; II, pp. 229-230; IV, pp. 188-189; V, pp. 75-76; V, p. 123; in tale edizione la VII 10 è indicata come VII 11 e la VII 41 come VII 42; di quest’ultima è dato soltanto un transunto, mentre l’edizione integrale si legge in S. Leone, La fondazione cit., p. 66.

Da questo discorso genealogico, è evidente che nelle mani degli eredi di Guido e Aloara si concentrarono i patronati delle tre chiese, pertanto troviamo una serie di abati investiti del doppio titolo di Sant’Angelo e Santa Sofia, dai quali dipendeva anche San Martino11. Per motivi ereditari che ci sfuggono o per atti di donazione non giunti fino a noi, da un documento del febbraio 104312 troviamo le tre chiese in patronato di Pandolfo, fratello del principe Guaimario IV, dal quale passeranno alla vedova Teodora, figlia del console Gregorio, e ai figli Guaimario, Gregorio, Guido e Giovanni13. Quest’ultimo lo ritroviamo, come accennato, nell’agosto 110014, nell’atto con il quale, nel palazzo arcivescovile, alla presenza di papa Pasquale II, dichiara di possedere, quale erede dei suoi genitori Pandolfo e Teodora, le chiese di Santa Sofia e di San Michele Arcangelo, costruite nella città di Salerno, e di voler donare all’abate Pietro del monastero di Cava, per la redenzione delle anime dei suoi genitori e di Ageltrude, perduta sua consorte, e per la salute sua, di Aczilina, sua consorte attuale, e dei figli, quella di Santa Sofia, trattenendo per sé e i suoi eredi l’altra di San Michele Arcangelo, detta anche di Sant’Angelo15.

Da quanto fin qui esposto appare evidente l’impossibilità di una identificazione fra la chiesa che rimane in possesso di Giovanni e dei suoi eredi all’agosto 1100 e il monastero benedettino che abbiamo visto comparire nelle fonti quale ente autonomo fin dal marzo 103916 e che, d’altronde, in nessuno dei documenti che lo citano è detto prospiciente su una via che conduceva alla porta di Elino (così come mai è detto vicino a una via con tale caratteristica, o vicino alla porta stessa, il complesso badiale di San Benedetto, che pure vediamo a pochi passi dal luogo ove de Angelis e Amarotta la posero); così come appare evidente l’impossibilità di ipotizzare una coincidenza della via che conduceva alla porta di Elino diversa da quella con la via dei Mercanti, così come appariva a margine del primo passo su questo percorso. Parve, tuttavia, in occasione di questo secondo passo, doveroso procedere ad una controprova che accertasse l’esattezza dell’assunto. Per tale operazione furono considerati cinque edifici, verificandone la posizione prima e dopo l’anno 1083, quando, secondo Amarotta, in Salerno vi fu un passaggio di identità da una strada ad altra strada. Essi sono ancora la chiesa di San Vito, la chiesa di San Matteo e San Tommaso, la chiesa di San Gregorio e l’archiepiscopio, con l’aggiunta della chiesa di Santa Maria de Domno.

 

 

 

11Cosma, citato fra il dicembre 1039 e il maggio 1041; Pietro, citato nell’agosto 1041; Giovanni, citato dal settembre 1041 al febbraio 1049; Amico, citato nel maggio 1049; Giovanni, citato fra l’agosto 1049 e il maggio 1052; Moscato, citato fra il dicembre 1052 e il dicembre 1058. Dopo quest’ultima data, Moscato continuerà a essere citato come abate della sola Santa Sofia.

12Archivio della badia di Cava, pergamena IX 26; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VI, pp. 229-230; in tale edizione è indicata come IX 24.

13Archivio della badia di Cava, pergamena XI 37; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 90-94.

14Archivio della badia di Cava, pergamena D 28.

15La chiesa di San Martino alla Carnale, in circostanze che ci sfuggono, non essendo giunta fino a noi alcuna documentazione, era già passata alle dipendenze della stessa badia di Cava: infatti, nella bolla di papa Urbano II del 21 settembre 1089 (Archivio della badia di Cava, pergamena C 21), di conferma dei possedimenti della badia, è citata la chiesa di San Martino in territorio salernitano; che si tratti della nostra lo conferma il documento dell’agosto 1104 (Archivio della badia di Cava, pergamena XVII 110) in cui Giovanni, figlio del fu conte Guaimario, dichiarava che la chiesa di San Martino alla Carnale apparteneva interamente alla badia, compreso l’ottavo che era stato di Guaimario, suo avo paterno; e la bolla di papa Eugenio III del 5 maggio 1148 (Archivio della badia di Cava, pergamena H 7), di ulteriore conferma dei possedimenti della badia, ove la chiesa è esplicitamente citata come San Martino alla Carnale.

16Archivio della badia di Cava, pergamena V 116; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IV, p. 139. Per la datazione di questo documento si veda la nota 16 al capitolo 2 di questa Premessa.

Nel maggio 1058 la chiesa di San Vito era sita lungo la via che conduceva alla porta di Elino17, circostanza confermata nell’ottobre 1067 e nel luglio 107018; nel luglio 1240 la stessa chiesa era sita a nord di una casa posta vicino al monastero di San Giorgio e prospettante su una strada che, volgendo a settentrione, incontrava la via che conduceva alla porta olim detta di Elino19. Intorno a quest’ultima citazione, Amarotta20 fa qualche confusione: egli, avendo fissato il sito della chiesa, come abbiamo visto, sulla parte nord-orientale dell’area oggi dell’archiepiscopio, all’incrocio della via Roberto il Guiscardo con la via Antonio Genovesi, pone la casa oggetto di questo atto lungo quest’ultima strada che, andando verso settentrione, incontrava l’asse viario passante a nord di San Michele e Santo Stefano che egli identifica con la via della porta di Elino. A parte il fatto che tale luogo non è vicino San Giorgio, questo documento è del 1240 e parla della via che conduceva alla porta olim detta di Elino, corrispondente, come Amarotta stesso dice, all’attuale via dei Mercanti, a meridione della quale, quindi, dobbiamo cercare la strada che, volgendo a settentrione, la incontrava21. Naturalmente, è mia opinione che la via conducente alla porta olim detta di Elino di quest’ultima citazione sia identificabile con quella conducente alla porta di Elino delle prime tre, essendo caratterizzata dalla presenza della chiesa di San Vito.

In epoca antecedente il 1083 abbiamo visto la chiesa di San Matteo e San Tommaso sita a monte della via che conduceva alla porta di Elino, avendo a settentrione l’archiepiscopio e a meridione l’altra chiesa di San Gregorio; nel dicembre 1149 si conferma la sua posizione sia in relazione all’archiepiscopio che alla strada, anche se questa nell’attualità del documento conduce alla porta olim detta di Elino22. Amarotta sostiene23, come abbiamo anche visto, che, così come vi furono due porte, la vera e la comunemente detta di Elino, e due vie conducenti a ciascuna di esse, vi furono due chiese di San Gregorio, pertanto quella citata anteriormente al 1083 non è la stessa che vediamo lungo la via dei Mercanti, tanto più che una epigrafe dice questa edificata nel 1172 da Roberto Guarna, fratello dell’arcivescovo Romualdo24; ma tale epigrafe ci informa anche che all’epoca Roberto Guarna deteneva già il titolo di abate di San Gregorio, circostanza confermata da un documento del luglio 116825, pertanto egli edificava la chiesa non quale suo bene privato, ma quale suo beneficio ecclesiastico, evidentemente in sostituzione di quella che deteneva nel 1168 e che non poteva essere altra che quella esistente anteriormente al 1083. Stando le cose in tali termini, pare logico supporre che il nuovo edificio sia sorto sullo stesso terreno già impegnato dal primo, magari utilizzandone strutture residue, secondo i canoni costruttivi dell’epoca. Amarotta sostiene anche26 che a settentrione della nuova San Gregorio fu edificato, dopo il 1366, un nuovo archiepiscopio, l’attuale; in realtà, come abbiamo visto, la situazione che si osservava anteriormente al 1083 e nel dicembre 1149 è la stessa che osserviamo oggi, con l’archiepiscopio a settentrione della chiesa e della via conducente alla porta di Elino, attuale o olim che fosse, pertanto possiamo riaffermare che la sede arcivescovile e la chiesa di San Gregorio furono sempre dove le vediamo tuttora e, di conseguenza, che la via della porta di Elino fu sempre l’attuale via dei Mercanti.

 

 

 

 

 

 

 

 

17Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 24; edita in G. Paesano, Memorie per servire alla storia della Chiesa salernitana, I, 1846, pp. 115-117.

18Archivio di Stato di Salerno, pergamene IV e V; edite in Pergamene Salernitane cit., pp. 33-36 e 37-39; in tale edizione alla pergamena V è attribuita la data del luglio 1071, non considerando che si tratta di una datazione ab incarnatione di tipo salernitano. 

19Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 199-201. Questo documento, come altri che vedremo, manca dall’archivio diocesano, così come dai regesti di A. Balducci, L’Archivio della curia arcivescovile di Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 1945, pp. 248-341; dovrebbe, quindi, essere andato perduto fra il 1931, anno di pubblicazione del I volume del Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., e lo stesso 1945. I regesti di Balducci, relativamente alle pergamene, furono pubblicati anche come L’Archivio diocesano di Salerno, I, 1959.

20A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., pp. 202-203; La cappella cit., pp. 84-85; Dinamica cit., p. 79.

21Nel primo dei miei scritti qui considerati (L’identificazione cit., p. 181-182, nota 8) ritenni di poter riconoscere residui di questa chiesa di San Vito, poi detta de Scutis, nelle colonne che si osservano lungo la via dei Mercanti, nei locali terranei dell’isolato fra la via Duomo e il vicolo San Bonosio. Ricerche successive, come vedremo nella II parte di questa pubblicazione, mi hanno condotto a ubicarla, invece, sul lato opposto della stessa via dei Mercanti, all’angolo a occidente di Palazzo Pinto; appare evidente, quindi, che la strada che verso settentrione incontrava la via della porta di Elino, non fosse che il tratto meridionale della via Duomo.

22Archivio della badia di Cava, pergamena XXVII 57.

23A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., p. 200; La cappella cit., p. 78, nota 167; Il secolo cit., pp. 104-106.

24Questa epigrafe è trascritta in G. Paesano, Memorie cit., II, 1852, p. 190 e in A. R. Amarotta, Il secolo cit., p. 106. Attualmente è conservata presso il museo diocesano.

25Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 75.

26A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., p. 203.

 

Percorrendo gli studi di de Angelis abbiamo visto come egli, non soffermandosi ad esaminare con la dovuta attenzione un atto del novembre 91227, perdette l’occasione di farsi sorgere qualche dubbio circa il sito della porta di Elino; abbiamo anche visto l’esistenza di quattro documenti, datati novembre 1065, ottobre 1191, novembre 1117, ottobre 112428 che riportano ubicazioni della chiesa di Santa Maria de Domno: i primi tre la pongono a meridione della via che conduceva alla porta di Elino, il quarto la pone a meridione della via che conduceva alla porta olim detta di Elino. Essi, oltre a ulteriormente dimostrare che quella strada corrispose sempre all’attuale via dei Mercanti, ci forniscono un’altra importante notizia: non fu dopo il 1083, come ritenuto da Amarotta, che la porta cominciò a essere citata come olim detta di Elino, bensì poco prima del 1117, se non in quello stesso anno, poiché un documento del settembre 1093, inserito il altro del febbraio 110529, cita ancora la via come conducente alla porta di Elino e soltanto nell’aprile 111730 la troviamo conducente alla porta olim detta di Elino. Il fatto che in tale anno, in aprile troviamo l’espressione olim detta e in novembre l’espressione detta pare confermi che quella fu un’epoca di transizione in cui scomparsa l’antica porta, probabilmente a causa di una ricostruzione, si cominciò a denominare anticamente detta di Elino quella che la sostituì, per passare, poi, all’appellativo di Nova.

 

27Archivio della badia di Cava, pergamena II 5; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, pp. 167-169.

28Archivio della badia di Cava, pergamene XII 28; C 29; XX 87; XXI 110; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 29-30.

29Archivio della badia di Cava, pergamena XVII 95, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1104.

30Archivio della badia di Cava, pergamena XX 66.

 

 

 

Il terzo passo su questo percorso prese le mosse dall’evidente artificio insito nella tesi, avanzata da de Angelis e assunta da Amarotta, che il muro meridionale della città prelongobarda, nell’area occidentale, corresse all’immediato meridione dell’attuale via Torquato Tasso, lasciando fuori dal perimetro difensivo il rione delle Fornelle. Stante che, come abbiamo visto, il muro settentrionale di quella città correva a meridione del complesso di San Massimo e appena a settentrione della porta Nocerina, che si apriva all’estremità occidentale della stessa strada, se così fosse stato, la città antica, in quell’area, sarebbe stata larga, sull’asse nord-sud, appena qualche decina di metri; essendo ciò altamente improbabile, elementi di confusione dovevano essere insiti nelle fondamenta della tesi: l’identificazione della chiesa di Sant’Andrea de Lama con la Sant’Andrea sita fra il duplice muro cittadino al di sopra della porta di Rateprando. Infatti, il primo luogo di culto nulla aveva in comune con il secondo, originariamente monastero, poi semplice chiesa, se non il fatto che nell’ottobre 109131 parti di entrambi erano in patronato di Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III. Infatti egli, in quel mese e anno, alla presenza del giudice Sicone, dichiarava che ai suoi genitori, il citato duca Guidone e Rangarda, figlia del conte Landone di Caiazzo, appartenevano parti della chiesa di Santa Maria, sita in Salerno fra il muro e il muricino; della chiesa di Sant’Andrea apostolo, sita in Salerno ove si diceva a la Lama; della chiesa di San Massimo, sita in Salerno; del monastero sito sopra la porta di Rateprando, fra il duplice muro della città, in onore dello stesso Sant’Andrea apostolo; della chiesa di San Nicola, sita fuori città; e che, per la salute della sua anima, di quella della suddetta sua genitrice e di suo figlio Guaimario, e per la redenzione dell’anima del suddetto suo genitore, di suo fratello Pandolfo e di ogni altro suo parente, desiderava donare alla badia di Cava tali parti.

   

 

 

 

 

31Archivio della badia di Cava, pergamena C 29.

Conferma del fatto che Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando era altra chiesa che Sant’Andrea de Lama ci viene da un documento datato maggio 1087, evidentemente spurio32, prodotto, probabilmente nel XIV secolo, per giustificare pretese di possesso da parte della badia cavense su giurisdizioni feudali e chiese di varie località, fra cui Salerno, in relazione a presunte donazioni e conferme da parte del duca Ruggero; le chiese cittadine citate sono: San Matteo Piccolo, Sant’Andrea de Lavina, Santa Maria de la Giudecca, San Salvatore de Coriariis, San Gregorio de Porta Nova, Sant’Andrea de Portella, San Nicola de Fontana. Paradossalmente, la falsificazione del documento, evidenziata, al di là delle considerazioni paleografiche che pone in essere Menager33, dal fatto che le due Sant’Andrea sono indicate non come nel documento dell’ottobre 1091, cioè de Lama e sopra la porta di Rateprando, ma come in uso nel XIV secolo, cioè de Lavina e de Portella, e che San Gregorio è detta de Porta Nova, appellativo addirittura impossibile al 1087, poiché sappiamo che tale porta fu edificata soltanto nel 1117 o poco prima, appare, a prescindere da altri documenti che le citano, la migliore prova dell’esistenza delle chiese nominate, in quanto, nel caso contrario, non si comprenderebbero i motivi che spinsero a produrre un falso giustificante pretese di possesso su chiese inesistenti. Ulteriore conferma troviamo in tre registri di amministrazione della badia di Cava, due dell’epoca dell’abate Mainerio, il terzo dell’epoca del cardinale Giovanni d’Aragona34. Essi riportano elenchi di chiese che pur non essendo del tutto dipendenti dalla badia, in quanto questa ne possedeva solo parti del patronato, alla stessa erano tenute a versare censi annui, con la contabilizzazione di quanto se ne ricavava; esse sono le stesse citate nel documento spurio di cui sopra.

 

32Archivio della badia di Cava, pergamena C 12; edita con lacune e ritenendola autentica in D. Ventimiglia, Difesa storico-diplomatica-legale Della Giurisdizione Civile del Sacro Monastero della SS. Trinità de PP. Casinesi della Cava nel Feudo di Tramutola, 1801, appendice, pp. III-X; e in G. A. Adinolfi, Storia della Cava distinta in tre epoche, 1846, pp. 290-294. Edita correttamente e riconoscendola falsa in L. R. Menager, Recueil des actes des Ducs normands d’Italie, I, 1981, pp. 203-212.

33Si veda la nota precedente.

34Archivio della badia di Cava, Registro III dell’abate Mainerio, 1340-1366, ff. 39-40; Inventario dell’abate Mainerio, 1359, f. 160; Registro I del cardinale Giovanni d’Aragona, 1478-1482, f. 5.

La doppia difesa che chiudeva la città verso il mare (che, come vedremo, non era il duplice muro, poiché questi, con la porta di Rateprando, era in Plaio Montis), costituita dal muro prelongobardo all’interno e da quello longobardo all’esterno, relativamente all’area delle attuali Fornelle, compare nelle fonti con un documento del febbraio 112035 con il quale una terra con casa posta fra il muro e il muricino, confinante a settentrione con una via, a oriente con il corso dell’acqua della Lama, a meridione con il muro della città, a occidente con un andito, veniva legata testamentariamente a favore della badia di Cava da Sichelgaita, figlia del conte Giovanni e vedova di Gregorio, figlio del duca Pandolfo. Altri tre documenti, rispettivamente dell’agosto 1134, dell’ottobre 1258 e del giugno 126836, nel trattare di parti dello stesso terreno, oltre a confermarci che esso era posto fra il muro e il muricino, confinando a oriente con il corso della Lama, ci forniscono altre importanti notizie: il terreno era posto nel luogo Veterensium e propriamente ove si diceva a li Cicari, vicino alla chiesa di San Vito Maggiore detta anche de Mare; la via che ne costituiva il confine settentrionale, andando verso occidente, conduceva alla porta della città per la quale si usciva in Busanola; la distanza fra la via della porta Busanola e il muro esterno della città, misurata lungo il corso della Lama, era di circa tredici metri.

 

 

35Archivio della badia di Cava, pergamena F 13, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1119.

36Archivio della badia di Cava, pergamene XXIII 82; LIV 32; LV 102.

 

 

 

Amarotta37, sulla scorta di un documento che definisce dalla sintassi piuttosto confusa38, pone la porta Busanola una ventina di metri a monte del sito ove molto più tardi sarà eretta porta Catena e, conseguentemente, conclude che la via che conduceva ad essa sfiorava il lato meridionale della chiesa di Santa Trofimena. In realtà, non ci troviamo di fronte ad una sintassi piuttosto confusa, ma di fronte al limite già noto della ricerca amarottiana, consistente nell’utilizzo delle edizioni delle fonti in luogo dei loro originali. Infatti, Carucci, nel trascrivere questo documento, ne omette alcune parti rilevanti proprio ove esso si sofferma a descrivere i confini dell’immobile di cui tratta, rendendo incomprensibile il senso del discorso; dal canto suo, Amarotta, alieno alla lettura degli originali, giunge a giudizi e conclusioni infelici. Ma, al di là di tanto, il documento in oggetto, mancando di riferimenti a immobili tuttora esistenti o riconoscibili, comunque non ci permette una identificazione della via di porta Busanola, cosa che, invece, ci permette un atto del dicembre 128639. Esso tratta di due terre con case di proprietà della badia di Cava che sono permutate con altro terreno, posto fuori città, di proprietà di Nicola detto Spitillo, figlio di Tommaso. La prima di esse era posta nel luogo detto Veterensium, in vico di Santa Trofimena, al di sotto della chiesa. Il suo confine meridionale era costituito dalla via che, andando verso occidente, conduceva alla porta cittadina detta di Busanola; il confine occidentale, da altri beni del detto Nicola; il confine settentrionale, dalla linea mediana di un canale di scolo; il confine orientale, da un andito. La seconda era posta nello stesso luogo, alle spalle della prima, alle spalle della casa di Nicola detto Patano e alle spalle di una casa della frateria dell’archiepiscopio, al di sotto della chiesa di San Michele. Il suo confine meridionale era costituito dal canale di scolo che la separava dalla casa di Nicola Patano e da quella della frateria; il confine orientale, da una lavina; il confine settentrionale, da un andito; il confine occidentale, da beni di altri. Il documento non ci fornisce alcuna misura, ma il fatto che descrive due complessi immobiliari posti in senso latitudinale fra la chiesa di Santa Trofimena e la via di porta Busanola, lasciando supporre che ve ne fossero altri, in quanto la seconda terra non confina ancora con la chiesa ma con un andito che potrebbe a sua volta confinare con altri immobili posti a loro volta a meridione di essa, esclude, evidentemente, che la via di porta Busanola sfiorasse il lato meridionale di Santa Trofimena. Attualmente, fra la via Portacatena e la chiesa osserviamo una distanza che pare atta a contenere gli immobili sopra descritti senza lasciare spazio ad una ipotetica via parallela a quella esistente, pertanto la conclusione è che la via di porta Busanola corrispose all’attuale via Portacatena.

 

 

 

 

 

 

 

 

37A. R. Amarotta, Il secolo cit., p. 78.

38Archivio della badia di Cava, pergamena XLVI 78; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 103-104.

39Archivio della badia di Cava, pergamena LVIII 109.

 

 

 

L’area fra il muro e il muricino, dunque, in corrispondenza delle attuali Fornelle era percorsa longitudinalmente da una via, così come in corrispondenza di Santa Maria de Domno; analoga appare anche la disposizione del muro esterno della città relativamente alla stessa strada, posto ad una distanza da essa di circa dodici metri in corrispondenza di Santa Maria de Domno, di circa tredici in corrispondenza del corso della Lama. Non è giunto fino a noi alcun documento che ci permetta di conoscere l’andamento del muro interno relativamente al quartiere, ma il fatto che in corrispondenza del lavinario di Santa Maria de Domno distava dalla strada circa dieci metri, il fatto che certamente correva al di sotto di Sant’Andrea de Lama, perché, come abbiamo visto, questa non era la chiesa posta fra il duplice muro cittadino, il fatto che la chiesa di Santa Trofimena mai è citata come costruita fra il muro e il muricino ci permettono di ipotizzare che questa difesa corresse circa a metà fra la via di porta Busanola e Santa Trofimena. È appena il caso di sottolineare che, avendo la città una struttura analoga fra l’area di Santa Maria de Domno e quella delle Fornelle, il muro interno che nella prima abbiamo riconosciuto prelongobardo (romano secondo de Angelis e Amarotta) è analogo a quello riscontrato nella seconda, pertanto la conclusione è che della città antica, secondo la definizione dei notai longobardi, fece parte questo quartiere.

Del tutto inaspettato, ma estremamente illuminante, un quarto passo su questo percorso giunse con il ritrovamento, da parte dell’amico Francesco Manzione, di una perizia commissionata dal tribunale civile di Salerno ed espletata il 4 gennaio 1862 dall’architetto Michele Santoro40 a seguito di una lite giudiziaria vertente fra due privati entrati in possesso delle strutture residue della chiesa di Santa Maria de Domno dopo il trasferimento della giurisdizione su questa dall’abate di Cava all’arcivescovo di Salerno. In essa si legge: Descrizione della vecchia Chiesa in quanto al suo stato materiale. Si giace la indicata Chiesa in questa Città nella strada che dal largo Dogana Regia conduce all’altro di Portanova che ne limita il suo lato settentrionale, il solo che si ha interamente scoverto, mentre negli altri suoi lati viene sempre circoscritta da altrui private proprietà, salvo una parte del lato di occidente ove nel solo pianterreno si apre la principale porta d’ingresso, e corrisponde in un compreso coverto, laterale alla pubblica strada, che reputo di privata proprietà, e del quale nulla potrei dire circa il diritto che vi rappresenta la Chiesa in concorso delle altre vicine e sovrastanti case, che vi hanno ugualmente l’accesso. La istessa è distribuita in tre navi, ma disuguali e non in corrispondenza simmetriche, mediante tre pilastri di fabbrica isolati, e quattro vani arcuati in ciascun lato, terminate le navi medesime verso levante, quella di mezzo da un abside semicircolare, l’altra verso la strada da una picciola sacristia coverta da volta, la quale insieme coll’abside sono in parte sovrastate da altre diverse particolari proprietà. Presso l’angolo nord-ovest sonovi le fabbriche di un picciolo campanile che si avanza sporgente poco più di tre palmi verso la detta strada, il tutto come si osserva nell’annessa pianta. Tre piccole finestre nel muro alla strada, altre tre nel partimento della nave di mezzo da questa parte la rischiaravano; ed altra picciola finestrina anche nel muro esteriore in corrispondenza della sacristia. Erano altra volta coperte le ripetute tre navi da un soffitto di travi e tavole di legname, di cui non ne resta pur una, e quindi sormontate da un tetto, a riserba del primo compartimento nell’angolo sud-ovest di quella più meridionale che trovasi coverta da un’antica volta a croce, la di cui area superiore ritiene il Signor Ferretti [uno dei due privati fra i quali verteva la lite giudiziaria] essersi occupata in danno della Chiesa da’ vicini, ed essere perciò abusive le costruzioni che vi si sono fatte al di sopra. Allo stato il rimanente di quest’ultima nave laterale trovasi interamente scoverta, solo restandovi quattro puntoni, o cavalli dell’antico tetto che in una falda la copriva, del quale la gronda si appoggiava in sulla parte meridionale che si eleva a maggiore altezza, e la cresta sul muro della nave intermedia. In questa poi vi restano solo quattro travi dell’antico soffitto, su i quali sono montati altrettanti puntoni sostenenti due riposi; e del tetto, che si componeva di un’altra falda colla cresta in coincidenza di quella opposta nel lato sud, sono di avanzo dieci cavalli e circa la metà della covertura di tegoli e canali. E l’ultima picciola nave verso la strada rimane coverta dal solo tetto sostenuto da dieci piccioli debolissimi cavalli, colla covertura di tegoli e canali in parte mancanti, i quali legnami sono tutti degradatissimi e per quanto si puol giudicare dalle apparenze, ancora inservibili. Mi dispenso discendere a maggiori dettagli di descrizione, potendosi rilevare dalla enunciata pianta e dall’altro sciografico disegno. Il pavimento è di vecchio lastrico, e l’unico altare che vi esisteva nel sito dell’abside è pure di fabbrica inservibile41.

  40Archivio di Stato di Salerno, Perizie del Tribunale Civile, 937, ff. 194-210.
41Dai disegni dell’architetto Santoro, dopo averli liberati dal progetto delle fabbriche da innalzarsi per rendere il sito utilizzabile per fini civili, è stata tratta la tavola III.

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

il campanile superstite di

Santa Maria de Domno

 

I disegni dell’architetto Santoro sono corredati da una scala in palmi napoletani, utilizzando la quale procediamo a due misurazioni della chiesa nel senso della larghezza: la prima dal fronte lungo la strada, escluso il ringrosso del campanile, alla faccia interna del muro meridionale; la seconda della sola aula. Nel primo caso si rilevano quarantaquattro palmi, nel secondo quarantuno e quattro decimi, salvo, naturalmente, piccoli errori possibili sia da parte del disegnatore nel realizzare la pianta o la scala che da parte nostra nell’utilizzarle. Attribuendo a ciascun palmo cm. 26,45542, si hanno, rispettivamente, undici metri e sessantaquattro centimetri e poco più di dieci metri e novantacinque centimetri. Uno dei documenti già utilizzati da de Angelis per la ricostruzione dell’ambito topografico di Santa Maria de Domno, quello del febbraio 99043, assegna allarea sulla quale la chiesa fu edificata una larghezza di trentasei piedi, compresa fra la strada e l’antemurale; ma il piede longobardo, come abbiamo visto44, era un concetto ampiamente variabile, pertanto troviamo contratti stilati su pergamene la cui larghezza, considerata un piede, si utilizzava per la misurazione dell’immobile di cui di trattava, con citazione della circostanza nella scrittura. Questo non è il caso del nostro documento, anche perché le misure dell’area non sono contenute nel testo principale ma in un inserto del marzo 986; invece è il documento dell’ottobre 99145 che fornisce il dato mancante. Esso è l’atto con il quale l’abate di Santa Maria de Domno permuta un terreno, che vedremo successivamente, con quello del conte Guaimario, posto a oriente della chiesa e ad essa contiguo. Quest’ultimo misurava, nel senso della larghezza, lungo il fronte delle absidi che vi prospettavano, dalla strada all’antemurale, esattamente al cantone orientale della posterola che qui si apriva nella muraglia per permettere il transito fra i terreni interni alla città e quelli lungo il mare, gli stessi trentasei piedi che abbiamo visto misurare il suolo della chiesa. Il documento precisa che il piede utilizzato per la misurazione corrispondeva alla larghezza della pergamena al suo margine superiore, che è di trentuno centimetri e un millimetro; pertanto questi trentasei piedi corrispondono a undici metri e quasi venti centimetri, misura che si pone fra le due rilevate sulla pianta dell’architetto Santoro, permettendo di concludere che la chiesa occupò completamente la larghezza dell’area disponibile; salvo ringrossi dei muri dovuti a opere di consolidamento o a ricostruzioni, questa dimensione non subì variazioni nel corso dei suoi oltre ottocentosettanta anni di esistenza. Applicando la stessa scala alla maggiore lunghezza dell’edificio, che corrisponde al prospetto verso la strada a causa del ringrosso all’angolo nord-occidentale del campanile, compresi entrambi i muri perimetrali, ancorché quello orientale, che consideriamo della stessa consistenza dell’altro, non sia perfettamente reso dalla pianta dell’architetto Santoro, si rilevano sessantasei palmi e otto decimi, pari a diciassette metri e sessantotto centimetri. Ritornando al documento del febbraio 990, troviamo che la lunghezza dell’area sulla quale la chiesa fu edificata era di novanta piedi, pari a ventotto metri con l’arrotondamento di un centimetro46; dunque, Santa Maria de Domno fu edificata, sull’asse est-ovest, su poco più della metà del suolo disponibile.

 

 

 

 

 

 

 

42Con una legge del 6 aprile 1840 si fissarono i rapporti fra le misure del sistema napoletano e quelle del metrico decimale; al palmo furono attribuiti cm. 26,455. Tale legge, con le tavole comparative fra i due sistemi, è riportata in C. Salvati, Misure e pesi, 1970, pp. 34-38.

43Archivio della badia di Cava, pergamena IV 45; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 289-295.

44Si veda la nota 7 a questo capitolo.

45Archivio della badia di Cava, pergamena IV 64; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 320-321.

 

46M. de Angelis, Studio cit., p. 103, attribuisce all’area sulla quale la chiesa fu edificata le stesse misure in metri. A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 62, si esercita nella ricerca di un piede longobardo medio fra quelli ricavabili da nove pergamene fra le venti considerate alla nota 7 a questo capitolo, delle quali sei le estrapola dalla tavola di Guillaume e tre le rileva dal Codex Diplomaticus Cavensis; fortunosamente, nonostante riporti due volte lo stesso documento, riprendendolo sia da Guillaume che dal Codex Diplomaticus Cavensis, e gli errori di misurazione contenuti nei due testi, il risultato e trentatré centimetri e nove millimetri che egli arrotonda a trentaquattro, per cui attribuisce all’area di Santa Maria de Domno (ivi, p. 194) dodici metri e venticinque centimetri per trenta metri e sessanta centimetri, dimenticando di aver già scritto (ivi, p. 63) che la distanza fra il fronte settentrionale della chiesa e l’antemurale era di undici metri e venti centimetri.

In queste misurazioni abbiamo utilizzato metodi diversi: nel caso della lunghezza della chiesa vi abbiamo compreso lo spessore di entrambi i muri; nel caso della larghezza, invece, del solo muro settentrionale. Tanto perché è estremamente probabile che l’edificio non ebbe un suo muro meridionale, ma per tale incombenza fu utilizzato lo stesso antemurale, sul quale fu poggiata la travatura del tetto della navata destra. Riscontro a tale tecnica costruttiva troviamo in documenti47 con i quali gli abati di Santa Maria de Domno concedevano terreni addossati alla cortina difensiva con facoltà di ampliare le case esistenti o erigerne di nuove manomettendo la muraglia per poggiarvi o inserirvi i legni necessari.

   
47Archivio della badia di Cava, pergamene VIII 24, aprile 1035; X 99, febbraio 1056; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 31-35; VII, pp. 280-281; in tale edizione la VIII 24 è indicata come VIII 25 e la X 99 come X 96.

Al di là della dettagliata descrizione e dei preziosi disegni, il passo di straordinaria importanza della perizia dell’architetto Santoro è quello che precisa il sito della chiesa: nella strada che dal largo Dogana Regia conduce all’altro di Portanova, ossia l’attuale via Masuccio Salernitano; ma, ove trovarne l’altezza, lungo tale strada, è suggerito da documenti settecenteschi. Fra gli altri, sono rilevanti due atti notarili fra essi collegabili, il secondo dei quali, facendo riferimento a un punto immediatamente individuabile, l’angolo del largo Dogana Regia con la via Masuccio Salernitano, permette un rapido riconoscimento del sito. Il primo, del 20 novembre 1751, informa che Domenico Marchese e Domenico Antonio Bruno erano comproprietari di un palazzo posto di fronte alla chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Donne48. Il secondo, del 6 settembre 1755, è l’atto con il quale un’altra casa, della chiesa della Santissima Annunziata, è venduta a Domenico Marchese; essa è così confinata: da levante con beni di Domenico Antonio Bruno, dello stesso Domenico Marchese e dei figli Bernardo e Nunziante, da tramontana con beni posseduti da Gaetano Errico, da mezzogiorno con strada, da ponente con il largo della Dogana Regia49.

 

48La chiesa di Santa Maria edificata dalla principessa Sichelgaita, consorte del principe Giovanni II di Lamberto regnante in Salerno fra il 983 e il 999, compare con l’appellativo de Domno per la prima volta in un documento dell’agosto 1092 (Archivio della badia di Cava, pergamena C 40). Nelle relazioni cinquecentesche e seicentesche delle visite pastorali (in Archivio Diocesano di Salerno) è detta generalmente de Dominabus, mentre nel 1725 è utilizzata la forma singolarmente volgarizzata in delle Donne; tuttavia, tale forma era già di uso nei protocolli notarili (in Archivio di Stato di Salerno) almeno dalla seconda metà del Cinquecento. Da notarsi è che il decreto concistoriale dato in Roma il 7 maggio 1856 (Archivio della badia di Cava, manoscritto 186), con il quale si sanciva la transazione intervenuta fra l’arcivescovo di Salerno e l’abate di Cava, grazie alla quale il primo acquisiva la giurisdizione sulla chiesa, essa è detta de Dominabus nella parte in latino, delle Donne in quella in Italiano.

49Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5221, 1751, f. 217t; 5223, 1755, f. 219t.

Dunque, lungo il lato settentrionale della via Masuccio Salernitano, l’edificio d’angolo con il largo Dogana Regia rappresenta la casa della Santissima Annunziata venduta a Domenico Marchese, mentre l’antico portale contrassegnato dal numero civico 56 è l’ingresso al palazzo che fu parte dello stesso Domenico Marchese e parte di Domenico Antonio Bruno. Qui di fronte vi era la chiesa di Santa Maria de Domno; e qui, in effetti, essa ha lasciato il segno nell’edificio che la sostituisce. Questi si compone di due elementi architettonicamente distinti: il primo, consistente in tre piani superiori e quattro locali terranei contrassegnati dai numeri civici dal 63 al 69, allineato al fronte delle costruzioni contigue verso oriente; il secondo, consistente nella sola tromba delle scale con il portoncino contrassegnato dal numero civico 71, allineato, con avanzamento rispetto al primo di circa un metro, al fronte del palazzo contiguo verso occidente. Questo secondo elemento è il campanile di Santa Maria de Domno e il portone del palazzo posto al suo lato occidentale, aperto nella tompagnatura di un ampio arco, il cui piedritto sinistro aderisce al campanile stesso, rappresenta l’accesso al compreso coverto osservato dall’architetto Santoro, e da lui ritenuto di proprietà privata, attraverso il quale si accedeva all’ingresso della chiesa e alle vicine e sovrastanti case50. Verso oriente l’edificio si incastra sotto l’ala occidentale del palazzo adiacente che occupa qualche metro della sua area superiore: siamo nella zona absidale di Santa Maria de Domno, già sovrastata da costruzioni nel 1862.   

 

 

 

 

 

 

 

si veda l’immagine del campanile

sopra riportata

 

50Il possesso di questo atrio fu oggetto di una lunga contesa di cui troviamo traccia nelle relazioni delle visite pastorali (in Archivio Diocesano di Salerno): il 14 aprile 1609 si ordinava ai privati che l’avevano occupato con pietre di liberarlo; nell’ottobre 1692 si asseriva essere di Matteo Clarizia, che vi aveva l’ingresso alle proprie case, per cui, constatato che la chiesa aveva anche una porta verso la strada, si ordinava all’economo di tenere chiusa quella che vi corrispondeva; il 1° marzo 1699 fu detto pubblico, anche se posto sotto le case di Sebastiano Clarizia; il 13 febbraio 1707 fu detto dello stesso Sebastiano Clarizia.

Procediamo alla misurazione del prospetto comprendendovi la sottile lesena che lo conclude verso oriente e il piedritto dell’arco costituente il ringrosso all’angolo nord-occidentale del campanile disegnato sulla pianta dell’architetto Santoro: rileviamo diciassette metri e cinquantaquattro centimetri contro i diciassette metri e sessantotto centimetri calcolati sulla pianta, con una differenza di quattordici centimetri, pari a meno dell’uno per cento dell’intera misura. Dalla stessa lesena misuriamo ventotto metri verso occidente arrivando nel terraneo contraddistinto dal numero civico 77: siamo al limite dell’area su cui fu edificata Santa Maria de Domno, ove, dall’interno della città verso il mare, correva il corso d’acqua che de Angelis volle riconoscere nella via Antonio Genovesi; di esso non rimane traccia nemmeno nelle dividenti catastali, logicamente, se, come lo stesso autore sostenne51, già in epoca normanna il suo corso fu deviato nel fossato realizzato per proteggere le mura orientali della città.

   

 

 

 

51M. de Angelis, Conferme cit., p. 118 e 124.

Lungo la via Masuccio Salernitano, il prospetto dell’isolato in cui è incastonato il sito di Santa Maria de Domno è una linea spezzata, la cui parte più arretrata è proprio quella relativa all’edificio che sostituisce la chiesa. Qui la strada raggiunge la massima ampiezza, circa tre metri e trenta centimetri, all’altezza dell’angolo formato dal campanile sulla facciata, mentre si riduce a poco meno di tre metri all’altezza del portale di Palazzo Marchese-Bruno, che assumiamo come riferimento più antico. L’ampiezza della strada che sfiorava la chiesa fu valutata fra i cinque e i dieci metri da de Angelis52, misura che appare eccessiva per una strada longobarda ancorché dell’importanza che lo stesso autore volle attribuirle; più realistica appare l’ipotesi di Amarotta, che la valuta intorno ai quattro metri53. Tale ampiezza assume importanza in relazione al terreno, cui si accennava innanzi, che l’abate di Santa Maria de Domno cedette nell’ottobre 991 al conte Guaimario in permuta di quello posto a oriente della chiesa. Esso era sito a occidente del corso d’acqua che abbiamo visto, ma a settentrione della strada, lungo la quale si sviluppava per quarantanove piedi, pari a circa quindici metri e ventiquattro centimetri; la sua larghezza era di trentuno piedi, pari a nove metri e sessantaquattro centimetri, ed era compresa fra la stessa strada e il muro prelongobardo che ne costituiva il confine settentrionale. Molto approssimativamente, dunque, in relazione al sito ove abbiamo individuato la chiesa, tenendo sempre presente il fattore variabile costituito dall’ampiezza della strada, possiamo dire che tale muro correva circa alla metà dell’ampiezza latitudinale del largo Dogana Regia. Ma se l’individuazione di Santa Maria de Domno a circa settanta metri verso oriente dall’ubicazione di de Angelis non produce, naturalmente, che effetti irrilevanti circa la latitudine delle mura meridionali, ben più notevoli conseguenze porta circa la posizione di quelle orientali. Intanto è evidente che il muro e il muricino superavano abbondantemente il largo Dogana Regia; anzi, conoscendo che a oriente di Santa Maria de Domno si estendeva per quaranta piedi, pari a circa dodici metri e quarantacinque centimetri, il terreno del conte Guaimario poi passato alla chiesa e che questo aveva al proprio confine orientale un altro terreno del principe Giovanni, anche volendo supporre che oltre quest’ultimo non vi fosse altro che il muro orientale ortogonale all’antemurale, possiamo affermare che la città longobarda raggiungeva certamente, e molto probabilmente superava, l’attuale via Luigi Cannoniere.

 

52M. de Angelis, Studio cit. p. 106.

53A. R. Amarotta, Salerno cit., p. 63.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come abbiamo visto, de Angelis ipotizzò il muro prelongobardo volgente a settentrione alle spalle di Palazzo Marchese-Bruno, lungo la direttrice dell’allora vicolo Storto, oggi via Matteo Fiore; il longobardo lungo il vicolo Giovanni Ruggi d’Aragona. Amarotta, come anche abbiamo visto, fa risalire il primo lungo la via Antonio Genovesi; il secondo lungo la direttrice via Antonio Mazza–vicolo Pietro Barliario, affinché incontri il sito ove riconosce il castello di Terracena, attribuendone l’ubicazione a Carlo Carucci; il quale Carucci, però, assolutamente non volle identificare quel castello con l’edificio a settentrione della piazzetta Francesco Cerenza famoso per le tarsie policrome, bensì con l’attuale sede del museo provinciale, ex Castelnuovo, ove alloggiò la regina Margherita di Durazzo, ed ex palazzo badiale di San Benedetto. Egli, infatti, scrisse che, avendo papa Alessandro IV donato ai monaci di San Benedetto il suolo su cui era stato edificato castel Terracena, essi dovettero fabbricarvi un palazzo, perché più tardi lo diedero, perché vi abitasse, alla regina Margherita di Durazzo54. Conferma del fatto che Carucci immaginò il famoso castello nel sito del museo provinciale ci viene dalla relazione di quella commissione per la revisione dei nomi delle strade cittadine che già abbiamo visto influenzata dalle convinzioni di de Angelis, di cui anche Carucci faceva parte, che propose di sostituire, questa volta opportunamente, la denominazione di vicolo Castel Terracena a quella di vicolo Nuovo55 allora attribuita alla gradinata che rasenta il lato occidentale del museo provinciale e al suo proseguimento verso la via dei Mercanti. Ora, dall’opinione di Carucci si può anche dissentire; operazione profondamente scorretta, però, è accreditare la diceria secondo la quale egli identificò il castello di Terracena nella traversa San Giovanni, nel suo largo, nei suoi paramenti murari intarsiati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

54C. Carucci, La provincia di Salerno dai tempi più remoti al tramonto della fortuna normanna, 1922, p. 292. La parte relativa al castello di Terracena di questo lavoro fu pubblicata anche come Il palazzo principesco normanno di Salerno, in «Archivio Storico della Provincia di Salerno», III, 1922, pp. 211-216.

55Nella relazione di questa commissione, che si legge in «Archivio Storico per la Provincia di Salerno», 1932-1933, pp. 64-86, la sostituzione di denominazione che ci interessa è la numero 49 ed è riportata alla p. 72. Per i tempi di attività a la composizione della stessa commissione, si veda la nota 5 al capitolo 1 di questa Premessa.

Il passo conclusivo di questo percorso, dunque, non poteva che riguardare un più attento esame delle problematiche relative al sito del castello di Terracena. Esso fu edificato, nell’ultimo quarto dell’XI secolo, dalla dinastia normanna, sulle mura della città, in Orto Magno, a oriente del duomo56, al duplice scopo, pare, di rafforzare le difese che si erano mostrate vulnerabili proprio agli attacchi normanni e di fornire i nuovi sovrani di un palazzo del potere diverso da quello longobardo. La sua esistenza fu breve, se raffrontata a quella di edifici consimili, avendo avuto termine, in circostanze che rimangono misteriose, fra il maggio 1251, data della sua ultima citazione57, e il 1261, anno della morte di papa Alessandro IV che, per diritti anch’essi oscuri, donò ai monaci di San Benedetto il suolo sul quale era stato edificato58. Il 28 maggio 1301 Carlo II d’Angiò esortava lo stratigoto di Salerno ad adoperarsi affinché tornasse nel possesso della regia curia il luogo e la terra ove era stato il castello di Terracena e a non permettere che vi si edificasse alcunché di nuovo59. Alla luce di quest’ultimo documento, il precedente, registrato in Napoli in quello stesso 1301 pur riferendosi ad un avvenimento lontano oltre un quarantennio, assume una connotazione particolare, inducendo a ritenere che esso fu parte di una corrispondenza intercorsa sull’argomento fra lo stratigoto e Carlo II. Purtroppo, non è giunta fino a noi un’altra corrispondenza che sarebbe stata illuminante sulle reali condizioni fisiche e giuridiche dell’edificio normanno o della sua area di risulta: quella forse intercorsa fra il giustiziere di Principato e Carlo I a seguito della disposizione con la quale il Re, il 20 aprile 1277, individuava nei cittadini di Salerno e negli abitanti di San Mango, Sant’Auditore, Cava, San Severino e loro casali i soggetti tenuti alle riparazioni della Torre Maggiore e del castello di Terracena60. In ogni caso, l’esortazione di Carlo II non sortì effetti poiché, nei secoli successivi, le dinastie regnanti, e conseguentemente i loro feudatari, non avranno residenze in Salerno oltre la Torre Maggiore sul cocuzzolo del colle61, mentre i monaci avranno il loro Castel Nuovo di San Benedetto, nel quale, il 4 aprile 1412, sarà rogato un atto di donazione di Margherita di Durazzo a favore della cappella di San Giovanni del duomo62. Il 14 gennaio 1534, il soggiorno dell’illustre dama sarà ricordato nell’atto con il quale i monaci di San Benedetto affitteranno al confratello Costabile della badia di Cava alcuni ambienti del loro palazzo, fra i quali la camera della regina, avente il prospetto verso meridione63.

 

 

 

 

 

 

56A. di Montecassino, Storia dei Normanni, a cura di V. De Bartholomaeis, 1935. P. da Eboli, Liber ad honorem Augusti, a cura di G. B. Siracusa, 1905-1906; anche altre edizioni. Archivio della badia di Cava, pergamena XLIV 111, febbraio 1201, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1200.

57Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 138; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 244-247. A. R. Amarotta, Il secolo cit., p. 95, nota 87, citando come fonte la cronaca di Riccardo di San Germano, scrive: nel 1255 Federico II si ferma a Salerno nel castello di Terracena ove lascia la moglie. Naturalmente, si tratta di un abbaglio, poiché Federico II morì nel 1250 e la fonte citata va solo dal 1189 al 1243; in realtà, l’episodio avvenne nel 1226 (R. di San Germano, Chronica, in «Monumenti storici», 1888, p. 122, edizione a cura di C. A. Garufi in L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, VII, parte II, 1936-1938, p. 136; anche altre edizioni).

58Archivio di Stato di Napoli, Repertori, 25, f. 288; notizia in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, p. 12.

59Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 111, f. 70; notizia in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 477-478, nota 1.

60Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 12, f. 211b; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 476-478.

61C. Carucci, La provincia cit., pp. 292-293.

62Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 546-554.

63Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4849, 1533-1534, f. 195. 

Il sito dell’edificio normanno, per rispondere alla caratteristica principale fra quelle ricordate, ossia essere sulle mura, non potette che affacciarsi dal luogo ove la cortina con andamento est-ovest, che chiudeva la città a meridione del complesso benedettino, incontrava quella con andamento sud-nord, che la chiudeva verso oriente. Identificato senza particolari controversie il tracciato della prima, quello della seconda fu oggetto delle tesi di de Angelis e di Amarotta dinanzi ricordate. Nell’effettuare il secondo passo su questo percorso, abbiamo visto che la porta di Elino non fu sulla via San Benedetto né alle spalle del complesso benedettino, ma sulla via dei Mercanti e che le fu mutato il nome per una ricostruzione avvenuta nel 1117 o poco prima, quindi oltre un quarto di secolo dopo la costruzione del castello di Terracena, evidentemente senza alcuna relazione di causa-effetto fra i due avvenimenti; la questione che con l’occasione non si affrontava era proprio quella del tracciato della cortina orientale, poiché parve che gli studi fin lì condotti non fornissero indizi sufficienti. Il successivo recupero del sito di Santa Maria de Domno lungo il lato meridionale dell’attuale via Masuccio Salernitano, di cui al passo precedente, rese fortemente verosimile la tesi di de Angelis e del tutto improponibile quella di Amarotta, apparendo ovvio che, essendo stata Santa Maria de Domno edificata all’interno dell’abitato, il muro che chiudeva la città verso oriente doveva ricadere almeno in corrispondenza della via Luigi Cannoniere; lo studio di ulteriori documenti inediti ha reso superata quella prudente conclusione.

Con un atto del febbraio 114064, Romoaldo, figlio del conte Landone, donava all’arcivescovo di Salerno la sua parte del patronato della chiesa di Santa Maria de Portanova, attuale Santissimo Crocifisso, costruita in città, vicino alla porta di Elino. Questo documento, unico posteriore al 1117 a citare la porta ricostruita con il nome antico, ci fornisce la prima informazione concreta circa il punto di intersecazione della cortina con la via dei Mercanti, permettendoci di porlo a oriente della chiesa, essendo questa interna alla città. Conferma di tanto ci viene da un documento del gennaio 129165: esso, nel trattare di due terreni adiacenti fra di loro sull’asse nord-sud, ci informa che erano siti a meridione della chiesa di Santa Maria de Portanova, vicini ma non aderenti ad essa, essendone separati per interposizione di altro immobile, ed erano limitati a occidente da un andito e a oriente dal muro cittadino.

 

64Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 45, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1139.

65Archivio della badia di Cava, pergamena LIX 60, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1290.

 

 

 

Le conclusioni di questa parte di ragionamento sono che Salerno ebbe una sola difesa orientale dall’epoca longobarda all’ampliamento che incluse fra le mura l’area intorno alla piazza Sedile di Portanova; che in tale difesa, all’intersecazione con la via dei Mercanti, fu sostituita la porta di Elino con la prima porta Nova; che essa correva a oriente della chiesa del Santissimo Crocifisso, grosso modo sul tracciato ipotizzato da de Angelis; che incontrava il muro che chiudeva la città a meridione del complesso benedettino nel luogo ove vediamo il museo provinciale, in cui Carucci riconobbe il sito del castello di Terracena, il quale, per essere sulle mura, non poteva trovarsi altrove. Si potrebbe obbiettare, avendo letto Amato di Montecassino e volendosi fidare di un plurale del francese molto approssimato del suo traduttore, che il castello di Terracena, forse, si articolava in più edifici allungati dalle mura verso occidente, comprendente sia l’area del museo provinciale, nella parte più propriamente militare, che quella della traversa San Giovanni, nella parte residenziale66. Ma poche considerazioni sul sito dalle tarsie, l’analisi dell’ambito topografico in cui esso si collocava fino agli anni trenta del Novecento, lo studio dei documenti giunti fino a noi relativi al rione San Giovanniello, per il periodo di esistenza del castello di Terracena, non permettono tale ipotesi.

  66Cf. F. dell’Acqua, La riscoperta di frammenti di decorazione parietale a Castel Terracena, residenza dei principi normanni di Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 31, 1999, p. 18.
 

Il sito della traversa San Giovanni si compone di due immobili collegati da una coppia di terrazzi-cavalcavia sovrapposti che, essendo intonacati, nulla ci dicono circa l’epoca in cui il collegamento fu realizzato. I due edifici non presentano unità di tipologia costruttiva, essendo solo l’occidentale riconducibile a quella della casa-torre; l’utilizzo delle finestrature è difforme, non in asse e non allo stesso livello, la qual cosa accentua l’impressione di posteriorità del detto collegamento; le decorazioni a tarsie, almeno a giudicare dalle poche visibili sul manufatto occidentale, presentano più elementi di similitudine che di unità stilistica che possa far pensare ad una continuità costruttiva fra le due parti. L’edificio orientale, che presenta una estensione di decorazioni maggiore, essendo completamente privo di intonaco, in realtà non è che un sottile fabbricato, forse mutilo verso oriente, che male suggerisce di aver contenuto sale o appartamenti regali; ad esso fu addossata da settentrione una costruzione posteriore che venne solo artificiosamente a chiudere la piccola corte e che certamente non fece parte di alcun quadrilatero coevo alla posa in opera delle tarsie. La traversa non intervenne a posteriori a tagliare un ambito murato, poiché i prospetti su di essa ci dicono della sua preesistenza; né, immaginandola chiusa verso settentrione, ebbe la funzione di collegamento fra due corti interne ad un’area palaziata, per i motivi che vedremo67.

  67Cf. F. dell’Acqua, La riscoperta cit., pp. 9, 16, 17.

Oggi, uscendo dalla traversa San Giovanni verso meridione, ci si ritrova su un ballatoio collegato alla piazza sottostante da due gradinate recenti. Fino agli anni trenta del Novecento, chi faceva quel cammino si ritrovava in un vicolo delimitato da un isolato che occupava lo sbancamento attuale; dalle spalle di esso, andando verso occidente, superato un gomito verso meridione, ci si ritrovava in quello che prima delle proposte della commissione per la revisione dei nomi delle strade cittadine era detto vicolo Dogana Regia; andando, invece, verso oriente, si arrivava in un piccolo spiazzo, davanti ad una chiesa che insisteva sul luogo ove attualmente vediamo una costruzione con porta metallica; da tale spiazzo, verso meridione, correva un altro vicolo che, svoltando verso occidente, lungo il limite del dislivello che oggi interrompe l’asse nord-sud della piazzetta Francesco Cerenza, completava il periplo dell’isolato. Quindi, fino alle demolizioni e agli sbancamenti che hanno distrutto l’antico tessuto urbano del quartiere, a meridione del sito della traversa San Giovanni non vi era alcuno strapiombo che permettesse una difesa passiva dell’edificio dalle tarsie, né vi era un muro posto a creare una corte meridionale, perché adiacente ad esso e al suo prolungamento verso oriente, almeno dal gennaio 1131 e fino alle incursioni aeree del secondo conflitto mondiale, insisteva la chiesa che abbiamo visto, che era quella di San Giovanni de Cannabariis, anticamente detta delle Femmine68. Ora, se è impossibile stabilire una successione fra la costruzione dell’edificio dalle tarsie e quella del luogo di culto, è evidente l’assurdità dell’edificazione della reggia normanna, o di una sua ala, a ridosso della chiesa, ove questa fosse stata preesistente; o del permettere l’edificazione della chiesa aderente alla parete meridionale del complesso normanno, nel caso inverso.

   

68Questa chiesa fu sede parrocchiale fino al 1857.

 

I documenti giunti fino a noi relativi al tessuto urbano del rione San Giovanniello, per il periodo di esistenza del castello di Terracena, sono dodici, compreso il già citato del gennaio 1131 che è il primo della serie; ne esamineremo rapidamente il contenuto, allo scopo di porre in evidenza gli immobili di cui trattano e i riferimenti topografici che utilizzano. Gennaio 113169: terra con casa di cui Amato Scotto vende una metà a Pietro Abbe, sita a meridione della via che conduce al monastero di Santo Stefano e di San Michele Arcangelo, vicino alla chiesa di San Giovanni; luglio 114370: terra con casa che Marino cannabaro vende a Pandolfo, figlio di Pietro, sita a meridione della via che conduce lungo il monastero di San Michele Arcangelo; marzo 115871, inserto del settembre 1148: terra con casa lignea della badia di San Benedetto, sita a meridione della via che conduce alla stessa, confinante a settentrione con detta via, a occidente con altri beni del monastero, a meridione con una strettola72, a oriente con altra strettola che la divide da ulteriori beni del monastero e da una terra con casa del chierico Giovanni, figlio di Romoaldodeli Panicari; gennaio 117473: terra con casa che Sebastiano Occhigallo vende alla badia di Cava, sita a meridione della via che conduce al monastero di San Benedetto; aprile 118874: terra con casa che Landolfo Piczicnato vende a Matteo chierico e medico, sita a meridione del monastero di San Michele Arcangelo e Santo Stefano; aprile 119375: terra con casa che Ruggero Mascorgno e la moglie Gemma vendono alla badia di Cava, sita a meridione del monastero di San Michele Arcangelo e Santo Stefano; marzo 120276: terra con casa di Pietro Calvaruso, sita a settentrione della via che conduce alla porta Nova e a meridione della chiesa di San Giovanni delle Femmine; giugno 120677: terra con casa della badia di Cava, sita vicino alla chiesa di San Giovanni delle Femmine; luglio 120878: terra con casa di cui Marotta, vedova di Luca Casacziano, e il figlio Matteo vendono una parte a Teodora, moglie di Giacomo, figlio del notaio greco Attanasio, sita a settentrione della via che conduce alla porta anticamente detta di Elino e a meridione della chiesa di San Giovanni delle Femmine; gennaio 123879: terra con casa della frateria del duomo, sita vicino alla chiesa di San Giovanni delle Femmine, confinante verso oriente con una via che, andando verso meridione, si congiunge a quella che conduce alla porta anticamente detta di Elino; marzo 125880: terra con casa della badia di Cava, sita vicino alla chiesa di San Giovanni delle Femmine, confinante verso meridione con un andito che la divide da altri beni della stessa badia.

 

 

 

 

 

 

69Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 42, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1130.

70Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 54.

71Archivio della badia di Cava, pergamena XXX 9.

72Per il termine strettola si veda il capitolo 3 della I parte.

73Archivio della badia di Cava, pergamena XXXIV 48, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1173.

74Archivio della badia di Cava, pergamena XLI 98.

75Archivio della badia di Cava, pergamena XLIII 68.

76Archivio della badia di Cava, pergamene XLV 11 e XLV, 14; edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 49-50; pp. 47-48.

77Archivio della badia di Cava, pergamena XLV 80; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 63-64.

78Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 105; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 78-80.

79Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata (si veda la nota 19 a questo capitolo), datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1237; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 188-189.

80Archivio della badia di Cava, pergamena LIV 12; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 288-289; in tale edizione manca parte del testo, ove si descrivono i confini dell’immobile di cui si tratta.

  

Evidentemente, gli immobili di cui trattano questi documenti erano compresi in un’area avente al centro la chiesa di San Giovanni e il sito dell’edificio dalle tarsie. Ebbene, per nessuno di essi fu utilizzato quale riferimento topografico il castello di Terracena, nonostante la mole architettonica e il significato politico: il fatto che notai operanti nell’arco di centoventisette anni gli preferirono il monastero di San Michele, la via che conduceva alla badia di San Benedetto, la minuscola chiesa di San Giovanni non può che significare che esso non era in quell’area.

  

 

 

 

 

 

I – Struttura della città medievale

  

1 – Evoluzione e status giuridico delle mura

 

Il momento in cui il principe Arechi II decise di trasferire la sede della propria corte da Benevento a Salerno costituisce, nella storia di questa città, lo spartiacque fra una fase alquanto oscura e quella che la preparerà a entrare nel novero delle capitali. Dal punto di vista urbanistico, il periodo immediatamente seguente sarà quello in cui, senza che ci sia dato distinguere l’apporto dello stesso Arechi da quello dei suoi immediati successori, nascerà la città triangolare che con piccoli aggiustamenti basso medievali sopravvivrà fin oltre l’età moderna; quello antecedente era stato il periodo in cui Salerno aveva avuto una forma urbis molto allungata sull’asse est-ovest, certamente determinata dalle caratteristiche fortemente declive del terreno, ampliamento del più antico e quadrato castrum Salerni, il campo militare romano posto a presidio del collegamento costiero fra la valle dell’Irno e l’agro nocerino.

Nelle fonti pervenute fino a noi, generalmente alquanto tarde rispetto all’epoca di Arechi e dei suoi immediati successori, i limiti della città prearechiana si intravedono attraverso le citazioni di tratti di mura, relativamente ai lati settentrionale e meridionale, e dei luoghi indicati come nuova città salernitana. È ormai generalmente accolta dagli studiosi, dopo vecchie speculazioni ancora recentemente riprese circa l’interpretazione della locuzione1, la tesi enunciata da Michele de Angelis e accolta da Arcangelo R. Amarotta secondo la quale vanno riconosciute in tali luoghi aree che un tempo rimanevano fuori dalle mura cittadine e che furono incluse nel territorio urbano con gli ampliamenti longobardi. È evidente, quindi, che la loro disposizione sulla topografia della città, insieme a tratti delle antiche mura direttamente citate, ci permetterà di ritagliare nel tessuto urbano contemporaneo quel perimetro difensivo che Arechi e i suoi immediati successori trovarono certamente inadeguato alle esigenze della loro città capitale, ma carico di potenzialità che, opportunamente valorizzate, avrebbe portato alla realizzazione di un impianto, almeno teoricamente e per l’epoca, inespugnabile.

  1G. Senatore, Marcina-Salerno e altri studi, a cura di D. Caiazza, 1998. V. de Simone, La «Nuova città salernitana», in «Rassegna Storica Salernitana», 37, 2002, pp. 267-273.
 

Tre documenti2, datati novembre 1058, febbraio 934 e aprile 853, ci permettono di fissare, sebbene in modo ampiamente approssimato, il caposaldo occidentale del muro settentrionale. Il primo, nel trattare la divisione di un terreno posto in Plaio Montis, vicino l’acqua de la Palma, ci informa che esso aveva per confine meridionale un muro distrutto che era stato della città vecchia e per confine occidentale il muro che nell’attualità era della città. Il secondo, contenente un inserto del marzo 880, tratta di un terreno posto nella nuova città salernitana, al di sopra della porta Nocerina; dunque, a settentrione della via Torquato Tasso, sul cui proseguimento verso occidente si apriva la porta Nocerina, già si era nell’ampliamento longobardo; di conseguenza, il muro distrutto, che alla sua estremità occidentale incontrava la stessa muraglia in cui si apriva quella porta, doveva collocarsi, sull’asse latitudinale, fra la stessa via Torquato Tasso e la via Trotula de Ruggiero. Conferma di tanto ci viene dal terzo documento, che tratta di un terreno posto nella nuova città, al di sotto della strada lungo la quale correva la Fistola pubblica, ossia la via Trotula de Ruggiero.

  2Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 33; II 29; I 35; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VIII, pp. 83-85; I, pp. 198-199; I, pp. 43-45.

A oriente di questo caposaldo il muro settentrionale della città antica scompare ad ogni possibilità di indagine per ricomparire in corrispondenza del complesso di San Massimo: nove documenti3, datati fra il giugno 865 e il novembre 936, ci dicono che esso ricadeva nella nuova città. Anche qui le possibilità di posizionamento della cortina sull’asse latitudinale sono varie, fra l’immediato meridione della via Trotula de Ruggiero e lo stesso complesso di San Massimo; e altra volta fu privilegiata la prima possibilità4. Ma la ricerca storica, particolarmente quella urbanistica salernitana, è in continuo divenire, pertanto l’acquisizione di documenti inediti spesso conduce alla revisione di ubicazioni precedentemente apparse verosimili, anche se presentate come ampiamente presunte; e sono, appunto, due documenti inediti5, datati luglio 1166 e ottobre 1172, a informarci che un terreno posto in Plaio Montis, a meridione della chiesa di Sant’Andrea in parte soggetta alla badia di Cava, confinava verso settentrione con la vecchia difesa cittadina e verso oriente con una torre e con il muro che nell’attualità era della città. Questo terreno aveva, dunque, il proprio angolo nord-orientale in corrispondenza del punto ove l’antico muro settentrionale incontrava le difese allora operanti; ovvero nel punto ove, sull’angolo formato dalla murazione antica per scendere lungo gli attuali gradoni che costituiscono via Santa Maria della Mercede verso la porta Rotense, posta appena prima dell’innesto della via Romualdo II Guarna sul largo Abate Conforti anteriormente all’ampliamento basso medievale che la porterà a ridosso della più tarda chiesa del Monte dei Morti, era stata innestata la lunga cortina che ancora vediamo ascendere il colle Bonadies lungo il fronte del complesso di Montevergine per girarne il cocuzzolo e discenderne il versante opposto, fino a innestarsi sul muro antico all’angolo sud-occidentale del terreno di cui al documento del novembre 1058. Ma questo terreno aveva anche un’altra peculiarità: era posto a meridione della chiesa di Sant’Andrea in Plaio Montis in parte soggetta alla badia di Cava.

 

3Archivio della Badia di Cava, pergamene I 60; I 70; I 73; I 86; I 95; A 4; I 113; II 3; II 36; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, rispettivamente, pp. 76-77; pp. 94-95; pp. 97-99; pp. 114-115; pp. 124-126; pp. 139-140; pp. 150-151; pp. 165-166; pp. 207-208.

4V. de Simone, La «forma urbis» cit., pianta a p. 206, particolare S-T.

5Archivio della Badia di Cava, pergamene XXXII 42; XXXIV 41.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Trattando dell’equivoco che indusse ad identificare Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando con Sant’Andrea de Lama o de Lavina, abbiamo visto l’atto di donazione di Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, a favore della badia di Cava che, mentre chiariva, appunto, l’equivoco, lasciava irrisolto il quesito circa il sito della porta a settentrione della quale quel monastero era posto. Ci permettono di risolverlo due documenti6, datati novembre 1092 e maggio 1100, che citano il monastero di Sant’Andrea in Plaio Montis, di cui appartenevano alla badia di Cava le parti di patronato che erano state di Guidone, pervenute alla stessa tramite il figlio Guaimario; tanto rende evidente che questi era lo stesso che quello sito sopra la porta di Rateprando ed è da identificarsi con la chiesa di cui ai citati documenti del luglio 1166 e dell’ottobre 1172, in quanto questa è detta, come quello, in parte soggetta alla badia di Cava. Il duplice muro fra cui il luogo di culto era posto, dunque, non era costituito dal muro e dal muricino, come si ritenne, ma dall’antico muro settentrionale e da quello dell’ampliamento longobardo in Plaio Montis; trova, quindi, spiegazione anche quella che poteva apparire come una locuzione anomala e poco comprensibile: fra il duplice muro in luogo della classica fra il muro e il muricino.

 

6Archivio della Badia di Cava, pergamene C 32; D 27. Lo studio di questi documenti ha corretto l’opinione (V. de Simone, La «forma urbis» cit., p. 194, nota 11) secondo la quale la chiesa di Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando e l’omonimo monastero in Plaio Montis fossero due luoghi pii diversi.

 

Tornando al nostro terreno, possiamo, dunque, sostenere che il vecchio muro della città che costituiva il suo confine settentrionale corresse, se non proprio adiacente, poco a meridione della strada alla cui estremità si apriva, verso oriente, nella cortina longobarda, quella porta creata, forse, per permettere il transito fra parti di terreni rimasti tagliati dall’edificazione della nuova difesa e nominata di Rateprando da un antico proprietario di quegli appezzamenti; conseguentemente, possiamo ipotizzare una coincidenza fra tale strada e l’attuale vicolo Sant’Antonio, andando a tracciare a valle di quest’ultimo il muro settentrionale della città antica.

Superata la porta Rotense, la murazione si disponeva poco a meridione della strada, dalla quale la separava una lunga e stretta striscia di terreno, parte impegnata da un numero non precisabile di torri, delle quali la più vicina alla porta al marzo 1078 troviamo pertinente al conte Salerno, parte costituita da proprietà private anche con botteghe7. Al sito della futura chiesa del Monte dei Morti volgeva sul tracciato visibile fino a pochi anni or sono lungo il lato settentrionale della via Bastioni; prima di raggiungere l’area di San Benedetto, citata nel settembre 868 come nuova città8, volgeva a meridione per andare a intersecare la via dei Mercanti al luogo della porta di San Fortunato, poi di Elino, poco a oriente, come abbiamo visto, dell’attuale chiesa del Santissimo Crocifisso.

 

 

 

 

 

 

7Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 36, dicembre 1058; XII 36, ottobre 1066; XIII 64, marzo 1078; E 39, marzo 1115; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VIII, pp. 88-90; IX, pp. 65-67; X, pp. 237-238.

8Archivio della Badia di Cava, pergamena I 63; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, pp. 84-85.

 

 

Sul lato meridionale della città la difesa antica correva a settentrione di una strada attualmente ravvisabile nell’asse via Masuccio Salernitano–vicolo Giudaica–vicolo Guaiferio–parte occidentale della via Portacatena. A meridione di essa, tagliando i terreni che si estendevano verso il lido, fu costruito l’antemurale, che chiuse la lunga striscia di terreno dell’Inter Murum et Muricinum, dal meridione della porta di San Fortunato, dove l’abbiamo visto citato nel novembre 912, alle Fornelle. In particolare, il muro antico è documentato all’altezza del sito di Santa Maria de Domno, ove correva, come abbiamo visto, circa dieci metri a settentrione della strada; in corrispondenza dei complessi di San Giorgio e del palazzo di Arechi, di cui costituiva il limite meridionale9; a oriente della porta di Mare e a occidente del corso della Lama, ove pur non comparendo direttamente lo si intravede nella locuzione fra il muro e il muricino utilizzata per identificare quelle località10.

 

9Per il monastero di San Giorgio, fra le altre: Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 B 16, settembre 1171; 1 B 18, aprile 1180; 1 B 20, novembre 1207; edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, rispettivamente, pp. 37-39; pp. 50-52; pp. 54-56. Per il palazzo di Arechi: Archivio della Badia di Cava, pergamena XI 46, luglio 1059; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 106-114.

10Archivio della Badia di Cava, pergamene XVI 39, novembre 1095; XVIII 89, gennaio 1110, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1109; F 13, febbraio 1120, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1119; XXIII 82, agosto 1134.

Il perimetro antico era chiuso da un lato occidentale non perfettamente leggibile, dall’occidente del luogo ove molto più tardi sorgerà l’ospedale della Santissima Annunziata, poi di San Biagio dei fratelli ospedalieri di San Giovanni di Dio, all’angolo su cui sarà innestata la cortina longobarda, genericamente lungo il corso del Fusandola, come recitano non pochi documenti, tenendo, però, conto del fatto che questo torrente, oggi triste rigagnolo, mutò almeno una volta il suo corso11.

 

11Archivio della Badia di Cava, pergamena XVI 105, agosto 1099: trattando di terreni posti lungo il Fusandola, si cita il corso che il torrente seguiva nell’attualità del documento e il locum unde antea ipse flubius solitus erat fluere.

 

Intorno a questa Salerno antica Arechi e i suoi immediati successori intervennero sul lato settentrionale, edificando le cortine con vertice in una preesistente torre, inglobando la quale crescerà il castello; sull’angolo nord-orientale, innestando un poderoso sistema di fortilizi lungo il ciglio dell’altopiano oggi rappresentato dal rione Mutilati; lungo il lato meridionale, edificando un antemurale, ossia il muricino, che fu fatto correre, come abbiamo visto, approssimativamente parallelo alla cortina antica, disposto circa tredici metri a meridione della strada a occidente del corso della Lama, a poco più di undici metri all’altezza di Santa Maria de Domno. In quest’ultima area, sul finire degli anni cinquanta dell’XI secolo, l’antemurale sarà travalicato dal tessuto urbano e una ulteriore difesa sarà edificata verso il mare; occorreranno diversi secoli prima che questo ampliamento sarà esteso all’intero lato meridionale, portando la murazione circa al fronte degli edifici che attualmente vediamo lungo il settentrione della via Roma.

La costruzione del muricino certamente creò non pochi problemi ai possessori dei terreni compresi fra la strada e il lido, in quanto le loro proprietà si trovarono tagliate dalla nuova difesa; tanto determinò, come ipotizzato a proposito di quella di Rateprando, l’apertura di una serie di piccole porte, le posterole, alcune al servizio di più appezzamenti, in quanto aperte in corrispondenza di anditi interpoderali, altre aperte direttamente fra le parti del terreno rimasto tagliato. Di esse ne sono documentate almeno sei in corrispondenza della Giudaica, di cui tre nell’area ove sorgerà il complesso di Sant’Agostino e due a occidente e oriente di Santa Maria de Domno; di queste ultime, con l’edificazione del secondo antemurale, scomparirà l’orientale, divenuta semplice passaggio fra le due muraglie, mentre l’altra sopravvivrà qualche tempo prima di essere chiusa da costruzioni private12. Il muricino, come già il muro della città antica, fu rafforzato da torri, una delle quali pare possa riconoscersi in strutture oggi inglobate in costruzioni successive a occidente del sito della porta di Mare.

  12Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 268, f. 46, 8 maggio 1328; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, pp. 123-124. Risulta che il milite Pietro Comite, con un proprio edificio, aveva occupato illecitamente la via pubblica che lambiva l’ingresso della chiesa di Santa Maria de Domno, impedendo il transito verso il mare; nonostante si disponga la demolizione immediata di quanto costruito e la riapertura del passaggio, di fatto, l’episodio costituisce l’origine di quel compreso coverto che abbiamo visto osservato dall’architetto Santoro il 4 gennaio 1862.

 

Sul perimetro della città triangolare i normanni intervennero soltanto nella parte bassa del lato orientale, forse perché da qui a loro stessi era stato dato penetrare, edificando una nuova porta in luogo di quella di Elino, poi detta Nova, e il castello di Terracena, fortezza e reggia al tempo stesso. Con l’ampliamento che abbiamo visto progettato nel 1364 la città avrà, fra l’Orto Magno e il Plaio Montis, come accennato, una diversa porta Rotense.

Lungo il lato meridionale l’avanzamento dalla linea del muricino alla muraglia che perverrà fino all’epoca napoleonica non fu legato ad un progetto organico, come era stato per l’antemurale di Arechi o dei suoi immediati successori, ma determinato da episodi isolati nel tempo, alcuni certamente di iniziativa privata. Abbiamo già visto un secondo antemurale sorgere in corrispondenza di Santa Maria de Domno, nato quasi certamente dal desiderio degli abati di quella chiesa di racchiudere nelle mura immobili dai quali, per tale circostanza di maggiore sicurezza, ricavare redditi più elevati. Nel 1309, edificandosi il convento di Sant’Agostino, il Capitolo della cattedrale donerà a quei monaci, in aggiunta al terreno che già possedevano o che acquisiranno fra la strada e il muricino e fuori da questi, il suolo sul quale era stata edificata la chiesa di Sant’Angelo, anch’esso fuori dall’antemurale13; l’utilizzazione di tutto il disponibile porterà il fronte meridionale del monastero a protendersi verso il mare, divenendo di fatto il limite del tessuto urbano in quell’area. Un caso analogo si riscontrava già nel marzo 1214 relativamente al meridione della porta Busanola, ove il limite della città non era costituito dalla cortina difensiva, bensì dal prospetto di un fondaco che si affacciava direttamente al lido14. Ulteriori scavalcamenti della linea del muricino, con avanzamenti del tessuto urbano fino alla strada che correva esterna e parallela ad esso, determinarono nell’area un ampliamento di fatto che, mentre creava le condizioni per il trasferimento della chiesa dell’Annunziata, che vedremo precedentemente sita fuori città, oltre il corso del Fusandola, veniva a costituire un fronte estremamente fragile e frammentario; a tanto si ovvierà con una riorganizzazione cinquecentesca del sistema difensivo, che comporterà la costruzione della torre che sarà detta dell’Annunziata e di una cortina lungo il lato meridionale della strada; quest’ultima, divenuta interna alla città, sarà detta la via delle Muraglie.

 

 

 

 

 

 

 

13Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 575-583.

14Archivio della Badia di Cava, pergamena XLVI 78; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 103-104; in tale edizione mancano parti del testo, proprio ove il documento si sofferma a descrivere i confini degli immobili.

 

Analogamente, sul lato opposto della città, nell’area dell’attuale piazza Sedile di Portanova (gratuita licenza toponomastica, poiché in questo luogo il Sedile dei nobili di Portanova non vi fu mai), l’urbanizzazione precedette la murazione che perverrà fino all’epoca napoleonica. Un grosso complesso di costruzioni, frammentario ma continuo, quello che attualmente include la chiesa di San Pietro in Vinculis ed è tagliato dal corso Vittorio Emanuele, si era sviluppato dal meridione dei fortilizi di San Benedetto al tratto orizzontale che la via seguiva, proveniente dal sagrato di San Pietro in Camerellis, prima di svoltare verso settentrione per entrare in città dalla porta Nova. In epoca non precisabile, forse agli inizi del Quattrocento, se non in concomitanza con l’intervento realizzato a partire dal 1364 nell’area della porta Rotense, una seconda porta Nova, come vedremo più diffusamente visitando virtualmente la città medievale, fu inserita circa alla metà del suo lato meridionale, fra questi e un torrione. Successivamente si giunse a distendere una nuova muraglia al suo oriente con la creazione della terza porta Nova. Per questa realizzazione, la via della Marina, quella che abbiamo visto provenire dal sagrato di San Pietro in Camerellis, fu deviata verso settentrione e fatta girare, in senso antiorario, intorno ad un bastione con terrapieno posto a spezzarne il percorso originario, per accedere alla porta da settentrione, passando fra il bastione stesso e la cortina; oltrepassata la porta, la strada svoltava bruscamente a destra, ritornando ad allinearsi al tracciato naturale. Questo percorso contorto, dettato, con ogni evidenza, da motivi di carattere difensivo, sarà mantenuto fino agli anni cinquanta del Settecento, quando, a seguito di una istanza da parte di un gruppo di cittadini che lamentava i molto inconvenienti di traffico che si verificavano soprattutto nel tempo della fiera, in quello della vendemmia, del raccolto e quando la porta era impegnata dal corteo reale che, attraversando la città, si portava alla caccia in Persano, il governo cittadino deliberò la demolizione del terrapieno e di parte del bastione, affinché si edificasse una nuova porta, la quarta detta Nova, simmetrica all’andamento recuperato della strada, che è quella che, unica superstite e salva per miracolo da smanie ammodernatrici, tuttora vediamo15.

  15L’evoluzione delle mura è riassunta dalla tavola IV. I siti delle porte Nova sono illustrati dalla tavola V.

  

  

 

1    La prima porta Nova sostituì, nel 1117 o poco prima, la porta di Elino appena ad est dell’attuale chiesa del Crocifisso.

2   La seconda fu edificata, forse agli inizi del Quattrocento, lungo la via che usciva nell’area della fiera; al suo meridione fu costruito un tratto di cortina e un torrione; al suo settentrione l’isolato che giungeva fin sotto la Torretta costituì,  proba-bilmente senza ulteriori difese, il limite  della città verso l’arsenale, attuale piazza Flavio Gioia.

3   Più tardi, rivelatasi probabilmente poco difendibile tale posizione, una muraglia fu fatta correre ad occidente dell’arsenale e un poderoso bastione ad “elle” con terrapieno fu posto a chiudere lo sbocco della strada; la porta fu aperta verso settentrione, fra il bastione stesso e la cortina. 

 
 

4   Alla metà del Settecento, divenuto poco pratico il percorso che i mezzi di trasporto erano costretti a compiere, e venuta meno la necessità di una forte difesa della città, sarà demolito il braccio verso settentrione del bastione, murato il vecchio arco ed edificata la porta che vediamo tuttora.

5   Porta di San Sebastiano, poi degli Angeli.

   

 

Percorrendo le vicende evolutive delle difese cittadine, abbiamo avuto modo di notare torri e tratti delle mura appartenenti a privati, ancorché fossero parti integranti del sistema; allo stesso tempo abbiamo potuto rilevare la possibilità che revisioni delle stesse avvenissero per iniziative extraistituzionali. Ciò può apparire singolare, poiché l’immaginario ci conduce a considerare le mura di una città medievale come una linea costantemente vigilata militarmente, quindi di pertinenza delle autorità cittadine. In realtà, una nutrita serie di documenti, distribuiti fra il 1052 e il 1762, ci presenta uno status giuridico delle difese di Salerno che credo non sia inutile considerare.

Per l’area a meridione di Santa Maria de Domno, fra la chiesa e il secondo muricino, contratti di concessioni immobiliari intervenuti fra il 1059 o 1060 e il 111316 prevedevano il diritto da parte dei locatari di utilizzare la difesa cittadina per immettervi travature, aprirvi finestre, sopraelevarla con nuovi edifici, precisando che essa, in corrispondenza di tali immobili, era di pertinenza della chiesa. Nell’ottobre 105217 il principe Gisulfo II, nel confermare a favore di Melo, figlio dell’abate Angelo, i diritti che il padre Guaimario IV gli aveva concesso su un tratto delle mura cittadine, vi aggiungeva la concessione di una torre, con il diritto di rompere, aprire finestre e rendere il tutto atto alle sue necessità; il documento precisa che la torre era stata di Ederrado, figlio di Landemario, e che gli era stata confiscata avendo egli preso parte alla congiura che aveva portato all’uccisione dello stesso principe Guaimario. Nel gennaio 117718 la badia di Cava, nel concedere un immobile sito nell’area del futuro Sant’Agostino, confinante a meridione con il muricino, precisava che tale concessione comprendeva i diritti sull’antemurale che la stessa badia vantava. Abbiamo già visto che nel 1078 una delle torri poste lungo il lato meridionale della strada esterna di porta Rotense apparteneva al conte Salerno. Analogamente, all’angolo sud-occidentale delle mura longobarde nel 1126 troviamo un tratto della cortina e una torre appartenenti al conte Giovanni; la stessa torre nel 1272 risulta appartenente a Giovanni Russo19. Sul lato opposto della città, alle Fornelle, troviamo che nel 1214 appartenevano alla badia di Cava terreni con case, fondaci e torri20.

 

16Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 49; XIII 54; XIX 18; XIX 26; la prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VIII, pp. 117-119; X, pp. 228-230; in tale edizione alla XI 49 viene attribuita la data dell’agosto 1059, ma gli elementi della datazione non concordano; essa è così espressa: octabodecimo anno principatus domni nostri Gisulfi gloriosi principis mense agusto tertiadecima indictione; ma il diciottesimo anno di principato di Gisulfo andava dal marzo 1059 al febbraio 1060, per cui l’agosto era quello del 1059, mentre la tredicesima indizione andava dal settembre 1059 all’agosto 1060, per cui l’agosto era quello del 1060. M. Galante, La datazione dei documenti del Codex Diplomaticus Cavensis, 1980, pp. 149-150, propende per il 1060 ipotizzando un errore nell’anno di principato piuttosto che nell’indizione; ma potrebbe essere anche il contrario.

17Archivio della Badia di Cava, pergamena XXV 116, inserto dell’ottobre 1052.

18Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXV 49, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1176.

19Archivio della Badia di Cava, pergamena XXII 27. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 13, f. 191; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 402-403.

20Archivio della Badia di Cava, pergamena XLVI 78; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 103-104; in tale edizione mancano parti del testo, proprio ove il documento si sofferma a descrivere i confini degli immobili.

Con il consolidarsi del regime angioino, la regia curia tentò, forse, un recupero di giurisdizione sulle mura cittadine, poiché nel 1305 troviamo proteste sia per l’abusiva occupazione da parte di Riccardo de Aiello della torre posta a ridosso dell’ex monastero di San Clemente, sia per un’analoga azione da parte di Landolfo di Santo Mango lungo il muro a meridione della prima porta Rotense21. Ma se tale tentativo ci fu, non dovette sortire molti effetti, poiché ancora nel 1544 sussisteva una vertenza fra il monastero di San Benedetto e il principe di Salerno (all’epoca deteneva il titolo Ferrante Sanseverino) circa il possesso del fortilizio all’angolo sud-orientale dell’attuale rione Mutilati, ancorché si trattasse di un’opera diruta22. Di contro, nel 1523 risulta che il governo cittadino aveva il diritto di accedere ad un edificio privato per raggiungere le mura allo scopo di predisporvi servizi di guardia23; mentre nel 1762, descrivendosi il casamento dei fratelli Francesco e Nicola Gaudioso, che allora ostruiva lattuale corso Vittorio Emanuele, si definiranno pubbliche le mura orientali, ancorché su di esse i due fratelli avevano poggiato nuove fabbriche sporgenti verso larsenale e la fiera vecchia24.

 

 

 

 

 

 

 

 

21Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 139, f. 81; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, pp. 17-31. 

22Archivio della Badia di Cava, manoscritto 113.

23Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4838, 1522-1523, f. 154t.

24Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5340, 1762, f. 213.

 

  

 

 

 

 

 

2 – Strade, quartieri e territori parrocchiali

 

Nella città antica il principale attraversamento viario correva fra le porte Rotense e Nocerina, sul tracciato di quella strada per il controllo della quale il castrum Salerni era sorto; la sua biforcazione verso settentrione, nel luogo ove si è voluto intravedere il foro cittadino, conduceva, forse, a un’altra porta che si apriva ove il muro settentrionale intersecava la strada, antesignana di quella de la Palma che sarà aperta nella cortina occidentale innalzata da Arechi o dai suoi immediati successori. A meridione, una strada che assumerà un ben diverso rilievo nel corso dei secoli, l’attuale via dei Mercanti, usciva verso la piana orientale attraverso la porta di San Fortunato, ma non trovava sbocchi verso occidente, ove le condizioni del terreno non consentivano opere di viabilità alla tecnica del tempo. Gli interventi longobardi ancora la depauperarono, in quanto fu tranciata dall’area palaziale di Arechi, mentre l’ex strada lungo il lido, inclusa nell’ambito urbano dall’edificazione dell’antemurale, assurgeva a nuovo asse di percorrenza est-ovest, ancorché neppure vantasse sbocchi, non solo verso occidente, ma nemmeno verso oriente, ove si spegneva poco prima del termine dell’attuale via Masuccio Salernitano, alle spalle del sito futuro del monastero di San Clemente. Sarà con l’apertura, nella sutura occidentale fra l’antemurale e la difesa antica, al termine della strada fra il muro e il muricino, della porta Busanola e l’urbanizzazione dell’area palaziale, determinata dalla caduta del principato e dal trasferimento della sede del potere al castello di Terracena, che l’antica strada assumerà il diverso rilievo cui si accennava e che non smetterà nonostante le insidie delle arterie commerciali dell’area orientale contemporanea.

Ortogonalmente a questi assi longitudinali se ne contavano alquanti latitudinali, strade o torrenti, secondo le contingenze atmosferiche, fra i quali uno solo, quello dei Canali, attraverso la porta di Mare, si apriva verso il lido. Due fra gli altri, le attuali vie Duomo e Porta Rateprandi, rispettivamente la Cloaca e il corso della Lama, scandivano il nucleo della città prelongobarda nei tre quartieri che vivendo fra IX e X secolo avremmo potuto definire storici: il Veterensium, a occidente, l’Orto Magno, a oriente, e uno centrale del quale non è giunta fino a noi alcuna denominazione d’insieme di epoca longobarda, ma soltanto toponimi parziali e piuttosto tardi.

Quale tessuto urbano insistesse fra le mura della città antica è estremamente difficile anche solo ipotizzare. Sporadici ritrovamenti archeologici ne lasciano intravedere residui, ruderi già riutilizzati all’avvento di Arechi; ma le destinazioni di tali riutilizzi ci sono ignote, se si eccettuano la chiesa paleocristiana sulla quale lo stesso principe imposterà la sua cappella palatina e l’antica cattedrale con l’episcopio di fronte, sorta adattando un tempio pagano; certezza di esistenza, poi, abbiamo per il monastero di San Giorgio, documentato al 718 o 7191. I tre quartieri storici furono arricchiti da Arechi del palazzo e dell’accennata cappella palatina dei Santi Pietro e Paolo, poi San Pietro a Corte, e forse, nell’ampliamento che annetteva all’Orto Magno il Corpus, l’attuale rione Mutilati, se tale ampliamento fu opera sua, del monastero di San Benedetto, documentato, però, soltanto dal settembre 8682, quando il rifondatore di questa città era morto da ottantuno anni. In realtà, quali chiese e monasteri egli trovasse e quali egli stesso e i suoi immediati successori fondassero fra quelli documentati successivamente lo ignoriamo del tutto. Tanto perché, come già abbiamo visto, le fonti giunte fino a noi sono costituite essenzialmente da atti di parte archiviati dai monaci cavensi allo scopo di giustificare il possesso dell’enorme patrimonio in immobili, patronati, diritti feudali, accumulato dalla badia; da esse, quindi, non sono rilevabili quei luoghi pii e quella parte del tessuto urbano che non furono interessati da acquisizioni a suo favore, mentre quanto conosciamo spesso ci è noto soltanto perché citato in relazione a immobili ad essa pertinenti. In questo stato di fatto, la nostra indagine non può che limitarsi alla registrazione delle date di esistenza dei vari luoghi pii; soltanto sporadicamente, nei casi in cui è giunto fino a noi il nome del fondatore, per altro tutti notevolmente tardi rispetto all’epoca arechiana, possiamo spingerci a ipotizzare archi di tempo nei quali collocarne la fondazione; estremamente ridotti sono i casi per i quali possiamo restringerci ad un solo anno.

 

 

1Archivio di Stato di Salerno, pergamena A 6, giugno 1073, datazione ab incarnatione di tipo salernitano giugno 1074; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 46-56. Questo documento contiene un inserto, datato semplicemente jndictione secunda, con il quale Romoaldo, duca della gente longobarda, dona alcuni beni al monastero di San Giorgio. Questo Romoaldo è certamente il secondo duca beneventano di tale nome, in quanto il primo resse il ducato prima che Salerno ne entrasse a far parte; Romoaldo II governò fra il 706 e il 731: in tale periodo, la seconda indizione ricadde solamente fra il settembre 718 e l’agosto 719.

2Archivio della Badia di Cava, pergamena I 63; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, pp. 84-85.

 

 

 

 

 

 

 

Il quartiere centrale del nucleo antico era percorso, sull’asse nord-sud, dalla direttrice dei Canali che abbiamo visto, la quale, prima di diventare, verso meridione, la via della porta di Mare, si ampliava in toponimo per il tessuto urbano che vi prospettava e sul quale insisteva il territorio di San Matteo Piccolo, una delle venticinque parrocchiali che si dividevano l’ambito urbano3. Al suo capo, in territorio di San Grammazio, l’area intorno al sito che sarà della chiesa dei gesuiti, attuale Santissima Addolorata, assumeva l’altro toponimo, dalla stessa direttrice derivante, di Sopra i Canali. Calando alla porta di Mare, a occidente, lungo l’attuale via Dogana Vecchia, si estendeva la Dogana dei Grani, che sfociava nel Campo dei Grani, oggi largo Sedile del Campo. A oriente della via della porta di Mare, il palazzo di Arechi vide, fin dagli inizi del XII secolo, sempre più massicce violazioni della sacralità del proprio perimetro; infatti, quantunque il duca Guglielmo amasse definirlo sacro nostro salernitano vecchio palazzo4, la sua corte, come accennato, fu concessa come suolo edificatorio e venne coperta da immobili, fino ad assurgere a quartiere con la denominazione di Corte Dominica. Nella lottizzazione non mancò di inserirsi la badia cavense che, tramite la dipendente Santa Maria de Domno, si farà la parte del leone; come sempre, sono, appunto, i documenti relativi archiviati da quei monaci5 a fornirci qualche dettaglio circa l’ingombro del palazzo: in particolare si rileva che esso, verso occidente, non raggiungeva la via della porta di Mare, ma da questa era separato dalla parte occidentale della corte, larga circa sedici metri, nella quale aveva la gradinata di accesso. Intanto, a settentrione, all’innesto dell’attuale via delle Botteghelle su quella dei Mercanti, perdeva in logica il toponimo Capite Platearum (nel senso di Capo delle vie ampie), attribuito, forse, perché qui avevano principio le due strade in relazione al recinto palaziale, e si volgarizzava in Capopiazza, mentre la forma classica entrava nel titolo della sua parrocchiale di Santa Maria. Ancora più a monte, l’altra parrocchiale di Santa Maria, quella dei Barbuti, anticipava il toponimo che, però, entrerà nell’uso comune soltanto in età moderna.

 

3Quartieri e toponimi sono illustrati dalla tavola VI; i territori parrocchiali, dalla tavola VII.

4Archivio della Badia di Cava, pergamena F 14, maggio 1119.

5Archivio della Badia di Cava, pergamene XXII 23, agosto 1126; XXII 29, dicembre 1126; XXII 30, dicembre 1126; XXVII 54, ottobre 1149.

 

 

 

 

 

  

  

 

Il corso della Lama, come accennato, costituiva la sutura fra il quartiere centrale del nucleo antico e il Veterensium; ma i confini dei territori parrocchiali furono tracciati seguendo schemi di opportunità pastorale e non solo (vedremo aree contese fra più parroci), che non potevano tenere conto di ripartizioni che potremmo definire civili, ma che, in effetti, rimasero aleatorie. Così a cavallo della Lama troviamo i territori di due delle tre chiese che da essa si appellavano: Santa Maria, che sita a occidente del corso torrentizio estendeva la propria giurisdizione all’argine opposto, e Sant’Andrea, che posta topograficamente nel Veterensium, verso occidente raggiungeva la via della porta di Mare. Il quartiere Veterensium, poi le Fornelle, con il cuore dal singolare toponimo di Marronibus, forse costituì il nucleo più densamente abitato, se dobbiamo dare un valore al fatto che nel suo ristretto ambito insistettero, oltre le citate, altre quattro chiese parrocchiali, ancorché a tre di esse, San Pietro de Lama, San Giovanni dei Greci, Sant’Angelo de Marronibus, fosse affidata la cura di un numero veramente esiguo di anime. La più rilevante per ampiezza giurisdizionale e, conseguentemente, per numero di figliani fu Santa Trofimena, che estendeva il suo territorio oltre le mura occidentali, al suburbio del Busanola.

Sul lato opposto del nucleo antico, l’Orto Magno costituiva l’antitesi del Veterensium sia per estensione che per densità abitativa, anche se, forse, alla luce di recenti rinvenimenti archeologici che narrano di una consistente urbanizzazione romana, andrebbero riviste tesi che lo vollero area di espansione soltanto tardivamente utilizzata. Gli ampliamenti longobardi, come accennato, gli annetterono il Corpus; quelli normanni crearono le condizioni per la definizione al suo interno del Portanova, che assurgerà esso stesso a quartiere, e lo arricchirono del secondo palazzo del potere, il castello di Terracena, che abbiamo visto scomparire in circostanze misteriose e senza lasciare tracce archeologiche o documentarie che ci permettano di valutarne la volumetria, ancorché sia presumibile non fosse dissimile da quella del Castelnuovo, attuale museo provinciale, edificato sulla stessa area. Toponimi basso medievali nell’ambito dell’Orto Magno furono li Casilli, lungo il lato orientale della via Duomo, di fronte al monastero di San Giorgio; li Ripari, a monte della piazza Sedile di Portanova; le Mollicelle, a meridione della chiesa oggi del Santissimo Crocifisso. Le chiese parrocchiali che vi insistettero furono Santa Maria della Neve, poi de Portanova, Santi XII Apostoli, Santa Maria de Orto Magno, San Giovanni delle Femmine, poi de Cannabariis, San Pietro de Grisonte, San Giovanni delle Capre, San Gregorio, che estendeva il suo territorio oltre il limite occidentale del quartiere, fino alla via delle Botteghelle.

A meridione del nucleo antico, lungo il mare, abbiamo visto i longobardi creare l’Inter Murum et Muricinum. In effetti, però, si può dire che esso andò a configurarsi autonomo soltanto in relazione al centrale fra i quartieri antichi, poiché ricorrenti, nella documentazione giunta fino a noi, sono le espressioni in Orto Magno, inter murum et muricinum e in Veterensium, inter murum et muricinum, nelle quali si intravede per esso una considerazione di annessione ai quartieri storici. Al suo interno, a cavallo della sutura fra quartiere centrale e Orto Magno, prese forma la Giudaica. Altre aree fortemente caratterizzate che comprese furono il Bordello e il Vecchio Tarsinale, a ridosso della chiesa di Santa Lucia; li Cicari, alle spalle del futuro Palazzo Genovese; il Lavinario o Resusulo, allo sbocco verso il mare del corso della Lama. L’Inter Murum et Muricinum ebbe proprie parrocchiali in edifici di culto sorti per effetto della sua urbanizzazione, quali Santa Maria de Domno, Santa Maria de Mare o de Ruganova o de Giudaica, attuale Santa Lucia, e, in epoca successiva, San Vito Maggiore; ma altre chiese estesero in esso i loro territori: Santi XII Apostoli, San Gregorio, Sant’Andrea de Lavina, Santa Trofimena.

Il secondo quartiere nato dagli ampliamenti longobardi, il Plaio Montis, con alla base il muro settentrionale della città antica e al vertice la torre intorno alla quale crescerà il castello, fu la parte preminente della forma triangolare assunta dalla città medievale. Urbanizzato più da monasteri che da abitazioni, ebbe al suo interno, con il favore delle molte sorgenti dell’area de la Palma, nel Coriariis in generale, a San Martino in particolare, il polo cittadino dell’industria conciaria. Significativamente qui insistettero i territori di San Salvatore e San Bartolomeo de Coriariis, oltre a quello di Santa Maria de Alimundo e, nella parte orientale, di San Massimo e di Santa Maria de Raidulfo, poi Sant’Eufebio.

Il territorio immediatamente fuori dalle mura ebbe caratterizzazioni differenziate legate essenzialmente alle condizioni ambientali. Fortemente declive, raccolto fra le colline incombenti e il mare, certamente meno esposto della piana orientale, il suburbio occidentale, il Busanola, vide, frammisti ai terreni agricoli, un embrione di urbanizzazione su un ampio appezzamento concesso da Gisulfo II a famiglie greche e sicule, che fu sottoposto ad una lottizzazione nella quale non mancò di inserirsi la badia cavense, e un considerevole numero, relativamente alla ristrettezza dell’ambito, di monasteri e chiese: Santo Spirito, San Leone, Sant’Angelo, Santissima Annunziata Vecchia o San Bernardo, San Biagio, Sant’Erasmo, San Menna, Sant’Onofrio e quella San Giovanni che il vicecancelliere Matteo de Aiello ottenne dal figlio arcivescovo Nicola in cambio di Santa Maria in Vico Santa Trofimena allo scopo di fondare un ospedale nelle case adiacenti e ad essa appartenenti6. Naturale appendice del Busanola, in quanto abbastanza ampia nella parte occidentale andava restringendosi verso oriente, anche la striscia lungo il mare vide un proliferare di luoghi pii addossati al muricino: alcuni, come San Vito de Mare, poi parrocchiale di San Vito Maggiore, saranno inglobati nel tessuto urbano con l’edificazione del secondo antemurale; altri, come San Nicola e Santa Croce, saranno troppo esposti ai marosi per sopravvivere; il monastero di San Clemente, posto all’angolo formato dall’antemurale con il muro orientale, fra il 1139 e il 1160 sarà riedificato nel sobborgo di porta Rotense7. Esposta ad ogni possibile incursione, la piana orientale rimase essenzialmente agricola e soltanto tardivamente avrà l’Arsenale e la Fiera, la seconda trasferita dopo essere stata originariamente più a monte, nel rione oggi del Carmine. A settentrione della porta Rotense, il Suburbio Settentrionale di epoca longobarda, poi Palearea, sarà incluso fra le mura con la riorganizzazione delle difese nell’area avviata nel 1364.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 91, aprile 1183; edita in G. Paesano, Memorie cit., II, 1852, pp. 226-229.

7Archivio della Badia di Cava, pergamena XVI 76, agosto 1097. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 15, aprile 1160; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 34-37.

 

 

  

 

 

 

 

 

3 – Terre con casa, anditi e mignani

 

Le zolle di territorio urbano delimitate dagli assi viari che abbiamo visto e da alcuni altri, fra i quali di rilievo quello che dalla salita delle Croci raggiungeva l’Inter Murum et Muricinum, erano a loro volta percorse da reticoli di vicoli di cui, fortunatamente, vasti esempi rimangono, sopratutto ai Barbuti, nonostante le incursioni aeree del secondo conflitto mondiale, il terremoto del 1980 e alcuni sbancamenti gratuiti, frutto di malintese e peggio realizzate ansie risanatrici. All’interno delle insule così a loro volta delimitate, la viabilità smetteva di essere pubblica per divenire privata con gli anditi e le corti di vicinato.

Il concetto di proprietà immobiliare fu legato, per la maggior parte del Medioevo, non tanto alla consistenza degli edifici, che essendo, per lungo tempo, almeno in parte, lignei, subivano frequenti operazioni di smontaggio e riassemblaggio, quanto all’estensione dei suoli sui quali essi e le loro pertinenze insistevano; conseguentemente, gli atti di locazione o di compravendita, anche quando trattano di singole parti di uno stabile, fanno riferimento all’intera terra con casa, che assurge a particella di un ipotetico sistema catastale. Spesso queste aree erano risultanti dalla lottizzazione, vuoi per motivi di vendita che di concessione in locazione, di un’unica proprietà originaria, nell’effettuare la quale era necessario, ovviamente, assicurare a ciascun lotto la possibilità di accesso; ciò si realizzava tracciando degli anditi, angusti passaggi che divenivano condominiali fra i lotti che vi prospettavano. Esempio di tale prassi troviamo fra il giugno 1165 e l’ottobre 11711: alla prima data si assiste all’acquisizione da parte della badia di Cava, per divisione con l’archiepiscopio di Salerno, di un terreno compreso fra la via della Giudaica e il muricino, nei pressi della chiesa di Sant’Angelo de Mare, ossia sull’area oggi di Palazzo Sant’Agostino; alla seconda, lo stesso terreno appare percorso, nel senso nord-sud, da un andito che permette l’accesso ad una casa costruita sulla sua parte meridionale, mentre la parte settentrionale, sfiorata dallo stesso andito, è occupata da altra casa. La gestione degli anditi nell’economia delle proprietà, sopratutto con il garantirne la immutabilità dell’ampiezza, assumeva grande rilievo, poiché eventuali usurpazioni su di essi, anche in minima misura, da parte di un condomino, nelle frequenti riedificazioni degli immobili lignei, poteva risultare di grande nocumento al valore degli edifici circonvicini, riducendo la possibilità di accedervi con suppellettili voluminose. Da tanto, la comparsa, per altro non frequentissima (se ne contano quattordici nei due secoli fra il giugno 971 e l’aprile 1172), delle loro ampiezze in atti notarili, con la possibilità di valutarle statisticamente fra i cinque e i sei piedi e mezzo, con una punta minima di tre piedi e mezzo e due punte massime di sette, per una media generale fissabile al metro e novantasei centimetri2; in alcuni casi gli anditi si ampliavano nelle corti di vicinato, spesso eredi di cortili interni a caseggiati uniproprietari successivamente smembrati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1Archivio della Badia di Cava, pergamene XXXI 118; XXXIII 115.

2Convenzionalmente, in questa pubblicazione un piede è valutato trentaquattro centimetri. Si veda la nota 7 al capitolo 3 della Premessa.

 

 

 

Altro elemento caratterizzante le delimitazioni delle terre con casa, ovviamente quanto queste non aderivano immediatamente ad altri immobili, furono le strettole, canali, ma anche passaggi, verso le quali avveniva lo stillicidio, ossia lo scarico al suolo sia dell’acqua piovana che delle acque luride; di esse sono giunte fino a noi soltanto tre misure, rilevate fra l’aprile 1135 e l’aprile 1172, che vanno dal piede e due once ai tre piedi, per una media fissabile ai sessantacinque centimetri. Oggi ne sopravvive un esempio chiuso da un cancello lungo il lato a monte della via Torquato Tasso, fra la salita San Bartolomeo e la via Porta di Ronca.

Le estensioni delle unità immobiliari, sia che fossero costituite da aree edificate, edificabili o destinate ad altri usi, in linea di massima erano estremamente limitate in rapporto a quelli che oggi possiamo considerare standard accettabili. Fra la documentazione giunta fino a noi contenente misure di aree, eliminati gli atti plurimi chiaramente concernenti lo stesso terreno e quelli mancanti di sufficienti elementi di valutazione, sono stati individuati centoquarantacinque esempi datati fra il luglio 971 e il giugno 1269, periodo nel quale maggiore cura ebbero gli estensori degli atti nell’indicare le misure delle terre di cui si trattava; in essi la media delle estensioni si pone poco oltre i cinquantotto metri e settanta centimetri quadrati. Una prima analisi per grandi intervalli evidenzia come ben centoventuno casi si pongono a meno di cento metri quadrati, quindici fra i cento e i duecento, otto fra i duecento e i trecento, uno soltanto oltre i trecento3. Un’analisi dell’intervallo concernente le superfici fino a cento metri4 evidenzia una maggioranza relativa (sia all’intervallo stesso che alla totalità delle aree considerate) di cinquantasei casi posta fra i venti e i quaranta metri quadrati, seguita da trenta fra i quaranta e i sessanta; ventidue casi si pongono a meno di venti, con l’estremo inferiore a poco meno di sette per una terra di poco più di due metri per tre e quaranta citata nell’aprile 1054 in relazione alla donazione che ne era stata fatta nel giugno 993 a favore del chierico Maraldo; otto fra i sessanta e gli ottanta; cinque fra gli ottanta e i cento.

 

3Si veda il grafico 1.

4Si veda il grafico 2 .

 

 

 

Una ulteriore analisi per utilizzo delle superfici, eliminate le aree sulle quali insistevano più unità abitative, quelle sulle quali pur insistendovi una sola unità questa era caratterizzata dalla presenza di corti, vacui e altri elementi non propriamente destinati ad abitazione, terreni ad uso non specificato o chiaramente destinati a colture, evidenzia come centodieci di esse fossero terre con casa unifamiliare, terre concesse per l’edificazione di case o terre munite di pareti da utilizzarsi quali base per sopraelevazioni con le stesse caratteristiche di unifamiliarità. Fra queste aree, che possiamo considerare indicative delle dimensioni al suolo delle abitazioni, la maggioranza relativa, quarantanove casi, si pone fra i venti e i quaranta metri quadrati, seguita da ventitre fra i quaranta e i sessanta; diciotto casi si pongono a meno di venti, con l’estremo inferiore a poco più di undici per una terra con casa lignea di circa quattro metri e quaranta per due e sessanta che nell’ottobre 1020 Pietro, figlio di Giaquinto, per conto della moglie Itta concede a Orso; sette fra i sessanta e gli ottanta; tre fra gli ottanta e i cento. L’ampia fascia fra i cento e i centosessanta metri quadrati raccoglie nove casi; uno soltanto quella oltre i duecento per una casa in muratura che nel marzo 1263 risulta essere stata edificata dal notaio Tommaso detto Piscicariolo su un terreno concessagli dalla badia di Cava, valutabile intorno ai duecentoventidue metri quadrati.

Naturalmente, le impronte al suolo delle unità abitative costituisce soltanto uno degli elementi di valutazione della loro effettiva volumetria, poiché, salvo i casi, per altro abbastanza sporadici, di immobili esclusivamente terranei, queste case disponevano, intanto che prevarrà il concetto di unifamiliarità, di un piano superiore, che andrà moltiplicandosi con l’introduzione, ma alquanto tarda, del condominio. Sui vani terranei, i catodei, nell’alto Medioevo lignei, poi con sempre maggiore frequenza in muratura, che della casa generalmente costituivano un unico ambiente giorno, ossia la cucina con un spazio di avanzo, insisteva l’ambiente notte, che di norma sporgeva rispetto al terraneo a mo’ di balconata, certamente lungo il lato della casa ove si apriva la porta sulla strada o sull’andito, ma anche, se possibile, su strade, anditi e strettole laterali. Gli ambienti notte allineavano le loro pareti a queste balconate, i mignani, pertanto, di fatto, le loro dimensioni risultavano ampliate rispetto al vano terraneo; nel pavimento del mignano, o di uno di essi quando la posizione della casa relativamente a strade e anditi consentiva di realizzarne più di uno, si apriva la botola che permetteva, direttamente dall’esterno, l’accesso all’ambiente superiore tramite una scala che poteva essere retrattile, se a pioli, o stabile, quale uno scalandrone di legno o anche, ma in epoca tarda, una gradinata in muratura. Dalla documentazione giunta fino a noi si ricavano soltanto tre misure di sporgenze dei mignani, rilevate fra il giugno 1056 e il maggio 1096, di cui una è da ritenersi poco indicativa quale esempio, poiché la sua ampiezza è rapportabile a sessantatre centimetri, certamente insufficienti a permettere il posizionamento di una scala di accesso; le altre due corrispondono a poco più di un metro e ad un metro e trentasei centimetri. La sporgenza sugli anditi dei mignani di case dirimpettaie determinò di fatto un fenomeno di saldatura fra le loro pareti, fenomeno che, consolidatosi nel tempo attraverso ricostruzioni, portò ad una moltitudine di anditi coperti, che intanto andavano perdendo la loro caratteristica di passaggi condominiali per divenire percorsi pubblici, esempi dei quali, per fortuna, ancora osserviamo nel vicolo San Giovanni (ove uno di essi forma un angolo retto sotto il caseggiato alla piazzetta Francesco Cerenza), nella parte meridionale del vicolo Piantanova, nel vicolo Gisulfo II, nel collegamento fra la via Portacatena e le Fornelle, nel vicolo Lavina e in altri.

Le case documentate nell’arco di Medioevo fra VIII e XV secolo, lungo il quale sono distribuite le scritture giunte fino a noi, sono state ascritte, ai fini di questo studio, in relazione alla natura delle loro strutture, a tre categorie: lignee, miste, fabbricate. Nella prima sono state incluse quelle abitazioni, sia terranee che sopraelevate, esplicitamente indicate come tali; nella seconda, quelle da edificarsi su terreni muniti di mura perimetrali concessi con il diritto di sopraelevare, far sporgere mignani su strade e anditi circonvicini e, quasi sempre, di recuperare, alla fine della concessione, il legname utilizzato per la sopraelevazione; alla terza, quelle esplicitamente indicate come in muratura, anche se con scale o altre parti accessorie lignee. Una quarta categoria, delle imprecisate, raccoglie quegli esempi di casa di cui il documento che ne tratta non accenna alla natura della struttura, ma che si è scelto ugualmente di considerare in quanto li vedremo rilevanti nell’economia generale dello studio. Fra la documentazione giunta fino a noi, eliminati, anche qui, gli atti plurimi chiaramente concernenti lo stesso immobile e considerando tre unità abitative i casi nei quali si parla di una pluralità di case, sono stati individuati quattrocentocinquantaquattro esempi distribuiti fra il 718-719 e il 7 settembre 1484, di cui cinque appartenenti all’VIII-IX secolo, quarantuno al X, novantanove all’XI, centosettantuno al XII, centonove al XIII, diciotto al XIV, undici al XV. Ai fini statistici sono stati esclusi i cinque più antichi, sia per la distribuzione nel tempo, che li rende non significativi, sia per la mancanza di indicazioni sulla natura della struttura in ben quattro casi; analogamente sono stati esclusi gli ultimi undici, sia per l’esiguità del numero, meno della soglia del dieci per cento rispetto ai casi osservati per il secolo più documentato, sia perché anch’essi mancanti, nella totalità, dello stesso elemento.

L’analisi dei restanti quattrocentotrentotto esempi5 evidenzia come nel X secolo il 29,3% delle case considerate fossero lignee; il 7,3%, miste; il 24,4%, fabbricate. Tuttavia è il quarto dato, quello delle imprecisate, che conquista la maggioranza relativa con il 39%. Tanto potrebbe spiegarsi semplicemente con una scarsa attenzione alla natura delle strutture da parte degli estensori dei documenti, per cui tale percentuale potrebbe proporzionalmente essere ripartita fra le altre categorie, ma anche si potrebbe ipotizzare una considerazione di inutilità nello specificare il dato nei casi di appartenenza degli immobili alla tipologia più diffusa, riservando le precisazioni a quelle minoritarie; in ogni caso rimane evidente un prevalere delle costruzioni totalmente o parzialmente in legno.

  5Si veda il grafico 3.

 

 

Nell’XI secolo le case fabbricate raggiungono la maggioranza relativa con il 43,4%; le lignee confermano il dato del secolo precedente con il 29,3%; le miste salgono al 10,1%; le imprecisate, pur riducendosi di oltre la metà, attestandosi al 17,2% rimangono una significativa area all’interno della quale ipotizzare fluttuazioni degli altri dati.

Il XII secolo, il più documentato con i suoi centosettantuno casi, è quello nel corso del quale si assiste al raggiungimento della maggioranza assoluta da parte delle case fabbricate con il 58,5%; le altre percentuali si riducono al 16,9% per le lignee e all’8,2% per le miste; il dato delle imprecisate, 16,4%, pur rimanendo consistente, diviene incapace di incidere sul rapporto fra la tipologia maggioritaria e le altre.

Nel XIII secolo virtualmente scompaiono le case lignee, poiché nessuna appartenente a tale tipologia risulta fra i centonove casi documentati; le fabbricate ascendono al 78%; le imprecisate continuano la loro discesa attestandosi al 14,7%, così come le miste, che si attestano al 7,3%.

Anche con il XIV secolo si assiste ad una scomparsa: quelle delle case miste, poiché in nessuno dei casi documentati compaiono terre con pareti da sopraelevarsi con strutture da rimuovere alla fine della concessione recuperando il legname utilizzato; i due soli dati disponibili concernano le case in muratura e quelle imprecisate, rispettivamente il 77,8% e il 22,2%. Come si vede, si tratta di dati anomali rispetto al trend dei secoli precedenti, in quanto le case in muratura regrediscono mentre aumentano quelle imprecisate. Si potrebbe ritenere, forse troppo ottimisticamente, che in effetti non vi fossero in città che case in muratura, pertanto diveniva superfluo indicarne la tipologia o, come già osservato in relazione al X secolo, si potrebbe ipotizzare, forse più realisticamente, un semplice disinteresse nei confronti del dato da parte degli estensori dei documenti, essendo questo il secolo nel quale le scritture diventano, oltre che poche (gli esempi utili scendono a diciotto dai centonove del secolo precedente), avare di informazioni, con la scomparsa anche delle misure, come abbiamo visto, e delle accurate confinazioni degli immobili proprie dei secoli XII e XIII.

L’ultimo secolo del Medioevo, il XV, come accennato, non è stato considerato ai fini di questa statistica, sia per l’ancora diminuita disponibilità di esempi utilizzabili (non dimentichiamo che la stragrande maggioranza degli immobili documentati lo sono in quanto entrati in qualche modo negli interessi della badia cavense e i secoli XIV e XV sono quelli nel corso dei quali tali interessi vanno scemando in città), che per la mancanza di qualsiasi indicazione circa la topologia delle case, il che le ascriverebbe virtualmente tutte fra le imprecisate.

Naturalmente, i dati risultanti da questo studio vanno assunti con estrema prudenza, essendo evidente che, anche nel caso del secolo meglio documentato, un campione di centosettantuno esempi non può ritenersi scientificamente rappresentativo delle caratteristiche di un complesso abitativo certamente di consistenza ampiamente superiore; tuttavia, poiché gli studi non possono che condursi sulla documentazione esistente, è stato scelto di porre questi risultati a disposizione del lettore, almeno quale elemento orientativo.

    

 

 

 

 

 

II – Visita alla città medievale

     

1 – Territori parrocchiali di Santa Maria de Portanova, Santi XII Apostoli, Santa Maria de Domno, Santa Maria de Orto Magno, San Giovanni de Cannabariis, San Pietro de Grisonte, San Giovanni delle Capre

     

  

 

 

 

Santa Maria de Portanova

 

La fiera, istituita nel 1259 per concessione di re Manfredi ad istanza di Giovanni da Procida, sullo spirare del Medioevo si svolgeva essenzialmente intorno al monastero di San Pietro in Camerellis dell’ordine dei crociferi [1]0, nel suburbio orientale. Esso compare nella documentazione giunta fino a noi nel maggio 1231 con l’abate Pietro detto Capitornuto; sarà soppresso il 6 maggio 1653, in applicazione della bolla di Innocenzo X del 22 ottobre 1652 che stabiliva l’estinzione dei piccoli conventi nei quali, per la esiguità del numero dei religiosi, non era possibile osservare la disciplina e le regole, circostanza, questa, rilevata per San Pietro in Camerellis già nel corso della visita pastorale del 12 aprile 1573; nella chiesa sarà istituita una nuova parrocchia, sotto lo stesso titolo, per la cura delle anime distribuite nel vasto territorio che dalle mura della città raggiungeva, verso oriente, il fiume Irno e, verso settentrione, il ponte della Fratta1.

Chi, agli anni novanta del Quattrocento, pervenendo dal sagrato di questo luogo di culto, si apprestava a entrare in Salerno seguendo la via della Marina, lo faceva attraverso la seconda o la terza delle quattro porte dette Nova che la città avrà nel corso della sua storia. Come accennato trattando dell’evoluzione e dello status giuridico delle mura, la documentazione giunta fino a noi non permette di datare con esattezza l’ampliamento cittadino verso oriente che incluse l’isolato costituito essenzialmente dalla chiesa di San Pietro in Vinculis [2] e da beni della badia di San Benedetto, successivamente frazionati da più alienazioni e concessioni enfiteutiche; nella sua realizzazione, tuttavia, sappiamo di poter distinguere due fasi caratterizzate da diverse posizioni dell’accesso cittadino posto lungo la via che dal largo dalla prima porta omonima [3], dopo aver piegato verso meridione, raggiungeva l’area della fiera.

Nella prima fase la porta fu edificata circa alla metà della strada [4], stretta fra un torrione costruito al suo meridione e lo stesso isolato che si intendeva includere in città, forse senza che si ritenesse necessario chiuderlo a oriente con una cortina, ma utilizzando il fronte delle costruzioni, allo stesso modo che in altre parti del perimetro cittadino, come difesa. Questa seconda porta Nova è citata lungo l’intero Cinquecento e al suo apparire nella documentazione, nel 1517, è già definita antica. Il suo sito è recuperabile attraverso le ubicazioni relative di una serie di particelle catastali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0I numeri e le altre indicazioni fra le parentesi quadre si riferiscono ai particolari delle piantine topografiche.

 

 

1Archivio della Badia di Cava, pergamena XLIX 36; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 160-162. Archivio Diocesano di Salerno, Monasteri soppressi; Visite pastorali. Delle antiche strutture nulla è visibile nell’attuale parrocchiale, interamente ricostruita dopo il secondo conflitto mondiale; una pianta dei locali dell’ex convento e della chiesa annessa si vede allegata a un documento del 17 maggio 1839 in Archivio di Stato di Salerno, Perizie, 906, f. 604.

La prima di esse è costituita da una bottega di donna Sabella Passarella, moglie di Matteo de Aiello, che il 27 agosto 1517 risulta posta a Portanova, confinante con detta porta antica, con altri beni degli stessi coniugi, con la via pubblica e altri confini; il 1° ottobre 1522 si confermerà che i beni di Matteo de Aiello, di cui faceva parte una bottega con due porte, erano siti a Portanova, vicino alla porta antica della città; il 23 febbraio 1525 si preciserà che tali beni confinavano anche con le mura2.

  2Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4837, 1516-1517, f. 145t; 4838, 1522-1523, f. 14t. Archivio della Badia di Cava, pergamena XC 104.

Un secondo immobile presente nell’area compare il 7 ottobre 1564: è costituito da due botteghe, una grande e una piccola, con altri vani terranei e superiori di Fabrizio de Vicariis, poste vicino alla porta e al torrione antichi di porta Nova, confinanti con beni di Giacomo Capograsso, con altri suoi beni, con la via pubblica e altri confini; il 17 aprile 1574 si preciserà che gli altri beni di Fabrizio de Vicariis erano costituiti da due camere utilizzate come taverna, poste vicino al torrione, all’interno della città; il 4 giugno 1577, nell’atto con il quale una delle botteghe è venduta giudizialmente, si preciserà anche che i beni di Fabrizio de Vicariis siti a Portanova erano posti in frontespizio delle case dei Durante3.

  3Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4843, 1564-1565, f. 9; 4869, 1573-1574, f. 261t; 4869, 1576-1577, f. 299.

Il 6 ottobre 1578 compare nelle fonti una bottega di donna Porzia Ruggi q(ua)le e la prima fore la prima porta de porta Nova qua(n)do si escie fuora, frontispitio a la poteca del s(ignor) Iacobo Capograsso; il 25 ottobre successivo donna Porzia venderà tale bottega: di essa si conferma il sito vicino alla prima porta di porta Nova, e proprio quella qua(n)do si escie fuora a mano sinistra, confinante con i beni degli eredi di Giovanni Maria Durante, con la via pubblica e altri confini, in frontespizio delle botteghe di Giacomo Capograsso4.

  4Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4870, 1578-1579, f. 60 e f. 83.

Compare, dunque, un nuovo elemento costituito da botteghe di Giacomo Capograsso: esse appaiono confinanti con i beni già visti di Fabrizio de Vicariis, a loro volta confinanti con la porta e il torrione antichi, e posti in frontespizio della bottega di donna Porzia che, per essere la prima oltre la prima, ossia l’antica5, porta Nova, a mano sinistra, era posta al lato settentrionale della strada uscente verso oriente.

  5Evidentemente, il notaio considera prima la porta Nova dismessa esistente in loco e seconda quella esistente poco più a oriente e operante nell’attualità, senza tener conto dell’altra, una volta posta lungo la parte terminale dell’attuale via dei Mercanti.

Infine, si intravede un altro immobile costituito dalle case dei Durante, poste in frontespizio dei beni de Vicariis, confinanti con la bottega di donna Porzia; tali case costituivano l’intera parte meridionale dell’isolato comprendente la chiesa di San Pietro in Vinculis e compaiono nella documentazione il 25 settembre 1551 essendo in possesso di Giovanni Maria Durante di Napoli abitante in Salerno, poste, entrando in città, a mano destra; il 1° agosto 1555 si affitteranno tre vani superiori e uno terraneo con forno facenti parte di queste case, poste al borgo di Portanova, vicino alla porta della città, confinanti con le mura, con la via pubblica e altri confini; il 21 febbraio 1561 si preciserà che tali case prospettavano sull’area della fiera, oltre le mura; il 20 luglio 1564 risulterà che Giovanni Maria Durante voleva edificare una loggia nelle sue case, sopra il muro e il revellino della città, a Portanova, ma ciò gli fu impedito dallo stratigoto ad istanza dei signori Marco Antonio Cioffi, Battista Pinto e altri che possedevano botteghe per la fiera attaccate al detto muro, evidentemente fuori la porta Nova allora operante6.

  6Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4843, 1551-1552, f. 35t; 4856, 1554-1555, f. 449t; 4854, testamenti, f. 198; 4871, 1563-1564, f. 276.

La porta antica è citata ancora il 20 maggio 1585 in una perizia sulle botteghe di Fabrizio de Vicariis, ordinata dalla curia dello stratigoto, che seguiva una sua petizione con la quale, manifestando l’intenzione di ristrutturarle arretrandone il prospetto fra tre palmi e mezzo e sei rispetto alla strada allo scopo di allinearle fra di loro, chiedeva gli venisse riconosciuto il diritto di proprietà sullo spazio lasciato libero; il sito della porta, definita ancora prima, appare inglobato fra tali botteghe e una scalinata da farsi per accedere alle case poste al di sopra di esse, in frontespizio delle case già dei Durante, intanto passate in proprietà di Alessandro de Iudice7.

  7Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4893, 1584-1586, f. 131. Questa perizia è corredata da un disegno dei luoghi.

Nella seconda fase, probabilmente perché rivelatasi precaria la soluzione adottata, una muraglia fu fatta correre a occidente dell’arsenale [5], attuale piazza Flavio Gioia, e un bastione a “elle” con terrapieno fu posto a spezzare la linearità della strada [6]; la porta fu aperta verso settentrione, fra la cortina e il bastione, intorno al quale la strada della Marina fu fatta girare in senso antiorario. Come anche già accennato, non è pervenuta fino a noi documentazione che permetta di conoscere parametri temporali relativi a queste fasi: certo è che al 1517 la prima era già definita antica, essendo operante la seconda, forse già dagli anni novanta del Quattrocento o forse no: ecco, dunque, l’incertezza circa la porta che oltrepassava il viandante che in quel tempo, dall’area della fiera, si apprestava a entrare in Salerno8.

 

 

 

8Per i siti delle porte Nova si veda anche la tavola V.

Percorrendo interamente la via di Portanova, il nostro viandante raggiungeva l’incrocio che verso settentrione conduceva al largo omonimo [3] e verso meridione alla porta di San Sebastiano [7] aperta verso il mare nella muraglia dell’ampliamento. Essa prendeva il nome da una piccola chiesa, San Sebastiano a Portanova [8], posta al suo esterno, che sarà ancora citata fra il 1526 e il 1573, mentre nel 1604 troveremo il suo beneficio trasferito in San Pietro in Vinculis9.

  9Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4847, 1525-1526, f. 438t. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

A occidente della porta di San Sebastiano la cortina meridionale dell’ampliamento si innestava alla torre che costituiva l’elemento d’angolo della difesa di origine longobarda [9], dalla quale il muro antico si dirigeva verso settentrione per incontrare, appena a oriente dell’attuale chiesa del Santissimo Crocefisso, il sito della porta di Elino, anticamente di San Fortunato, poi prima porta Nova [10]. Tale torre, antesignana del più tardo e imponente sperone, i cui avanzi erano ancora visibili prima della costruzione degli edifici dell’area della camera di commercio, la si intravede in un avanzamento di poco meno di nove metri sul fronte del muro cittadino verso il mare documentato al novembre 1126; a meridione di esso vi era un terreno appartenente alla chiesa di Santa Croce, nell’attualità del documento diruta, parte del cui patronato spettava al conte Giovanni, così come di sua pertinenza erano il terreno con pareti posto all’angolo formato dall’avanzamento sul muro e le mura stesse con esso confinanti, pertanto egli, nel concedere tale terreno a Giovanni e Cioffo, figli di Mansone, trasferisce ad essi anche il diritto di utilizzare quella parte delle difese cittadine per poggiarvi travi e altro legname10.

 

 

 

 

 

10Archivio della Badia di Cava, pergamena XXII 27.

La chiesa di Santa Croce compare, con il presbitero Giovanni, in un documento del giugno 1093, nel quale si precisa essere il suo sito vicino al lido, nel luogo detto al Muricino; nell’agosto 1166, nell’atto con il quale Roberto detto Mostazza, figlio di Guglielmo, a sua volta figlio del conte Alfano detto Russo, cede alla badia di Cava una delle dodici once del suo patronato, è detta edificata fuori e vicino al muro orientale della città [11], ma diruta, come già un quarantennio prima, a causa di una tempesta11.

Ritroviamo la torre il 4 febbraio 1272, nel documento con il quale si concede a Giovanni Russo, che la possiede, di potervi aprire una finestra, a condizione che tanto non rechi danno alla città e ai vicini; e ancora il 22 agosto 1489, quando compare come la Torre del Russo ed è citata quale termine occidentale di una concessione per la costruzione di botteghe per la fiera, già accordata a Matteo della Porta, di cui gli altri limiti sono l’orto di San Pietro in Camerellis e il mare; essa, probabilmente, è anche riconoscibile in quella torre delle mura di Salerno posta vicino alle case di Riccardo de Aiello, il quale, come si rileva il 7 settembre 1305, l’aveva occupata abusivamente e, aperto un passaggio nelle mura stesse, aveva collegato alle sue case interne alla città gli edifici, la chiesa e il giardino appartenenti al monastero di Santa Maria de Ilice12.

   

 

11Archivio della Badia di Cava, pergamene XV 89; XXXII 45.

 

 

 

12Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 13, f. 191; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 402-403. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 238. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 139, f. 81; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, pp. 17-31.

Tanto ci conduce al sito del monastero di San Clemente, poiché gli immobili attribuiti al Santa Maria de Ilice nel 1305 non erano altri che il suo sito antico. Questo monastero compare nelle fonti giunte fino a noi fra il giugno 1047 e il giugno 1052, in un atto con il quale Guaimario IV gli dona la parte a lui toccata nella divisione dei beni posti in località Batrano che possedeva in comune con i fratelli Guido e Pandolfo; nel settembre 1054, nell’atto con il quale Gisulfo II, per intervento della madre Gemma, lo rende soggetto al monastero di Santa Maria de Ilice, risulta edificato fuori dalle mura di Salerno, vicino al lido e al muricino; localizzazione confermata nell’agosto 1097, nel gennaio 1100, nell’agosto 1105, nel gennaio 1115, nell’aprile 1135, con le varianti fuori dal muro della città di Salerno vicino al lido, lungo il muro e vicino al lido, fuori e adiacente al muro, vicino al lido e al muro; nel dicembre 1139 Giaquinto, suo monaco e preposto, presente Mauro, abate di Santa Maria de Ilice, concede a Mansone Caputo, figlio di Landolfo, due palmi e mezzo della larghezza del muro che, con andamento est-ovest, separava una terra nella quale lo stesso Mansone aveva edificato la sua nuova casa, che era verso settentrione, dal monastero, che era verso meridione, dalla qual cosa si comprende che il monastero aderiva al muro cittadino verso occidente, avendo a settentrione la detta terra e casa e a meridione il lido [12]; nell’aprile 1160 il monastero non risulta più nel sito sopra descritto, ma nel suburbio di porta Rotense, circostanza confermata in un documento del luglio 1168, che costituisce anche la sua ultima citazione13.

  13Archivio Segreto Vaticano, fondo Boncompagni-Ludovisi, documenti 270.5 e 270.2; editi in Diplomi sconosciuti dei principi longobardi di Salerno e dei re normanni di Sicilia, a cura di R. Volpini, in «Contributi dell’Istituto di Storia Medievale», I, 1968, pp. 511-512 e pp. 512-517. Archivio della Badia di Cava, pergamene XVI 76; XVI 90; XVIII 22; XIX 101; XXIII 96; XXIV 95. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 15; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 34-37. Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXII 101. Il fondo Boncompagni-Ludovisi in Archivio Segreto Vaticano conserva anche un falso datato 871 (documento 270.1a) con il quale i principi Guaimario e Guaimario donano il monastero di San Clemente al Santa Maria de Ilice. È appena il caso di rilevare che due Guaimario, il primo e il secondo, regnarono insieme soltanto fra l’893 e il 900, mentre altri due, il terzo e il quarto, lo fecero fra il 1018 e il 1027; la grossolanità della falsificazione arriva a datare il documento col metodo ab incarnatione, adottato nel principato di Salerno soltanto dal 1070.

Risalendo verso settentrione, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva forse già osservare, alla sua destra, come facciamo tuttora, la chiesa di San Pietro in Vinculis [2], anche se la sua prima citazione è soltanto del 14 luglio 151214. Volgendo lungo l’attuale via dei Mercanti, quasi immediatamente giungeva al sito dell’antica porta di Elino [10]. Essa compare nella documentazione giunta fino a noi nel novembre 912 quale riferimento topografico nell’ubicazione di una casa in muratura, con pergola e giardino di agrumi e altri alberi, posta al suo meridione, nella nuova città, in Orto Magno, confinante verso sud con la cortina cittadina, alla quale si accedeva dalla via Carraria, della quale una metà è donata dai coniugi Alaisso e Adelgrima al principe Guaimario II; nel giugno 995 si precisa che era detta di Elino, ma in realtà era la porta di San Fortunato, circostanza confermata nel dicembre 1028, nell’atto con il quale i coniugi Gemma, figlia di Giaquinto, e Leone, figlio di Corvo, vendono al conte Giovanni una terra con casa posta al suo settentrione; nell’aprile 1117, per la prima volta, forse a causa di una ricostruzione che potrebbe averne mutato anche il percorso di accesso, compare come la porta olim detta di Elino, quale riferimento nell’ubicazione di un terreno vuoto posto al meridione della via ad essa conducente, in Orto Magno, che il normanno Ruggero vende a Mauro, figlio di Giovanni detto Manganario; successivamente costituirà la prima porta detta Nova15.

 

 

14Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4836, 1511-1512, f. 134.

 

 

 

 

 

 

 

 

15Archivio della Badia di Cava, pergamene II 5; IV 109; VII 63; XX 66; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, I, pp. 167-169; III, pp. 41-42; V, pp. 161-162.

Appena oltre il sito della porta di Elino il nostro viandante poteva accedere alla chiesa di Santa Maria della Neve, detta de Portanova, attuale Santissimo Crocefisso [13], attraverso la sua porta piccola, che si apriva lungo la strada; la porta grande si apriva, invece, qualche metro più indietro rispetto alla falsa facciata attuale, lungo un vicolo oggi scomparso e sostituito dalla piazza Giacomo Matteotti. Il suo territorio parrocchiale, verso oriente, si estendeva oltre le mura cittadine, comprendendo la parte meridionale di quello che sarà assegnato nel 1653 alla nuova parrocchia di San Pietro in Camerellis. La chiesa compare nelle fonti giunte fino a noi nel febbraio 1140, nell’atto, che precisa essere essa vicino alla porta di Elino ancorché fosse detta de porta Nova, con il quale Romoaldo, figlio del conte Landone, ne dona la sua porzione di patronato all’arcivescovo di Salerno; nel settembre 1213 ne risulta presbitero e primicerio Ferrante; nel 1309 vi troviamo addetti i presbiteri Angelo, Giovanni e Tommaso16.

In un atto di permuta del gennaio 1291 si citano due immobili adiacenti fra di loro sull’asse nord-sud, di uno dei quali appartenevano alla chiesa di Santa Maria de Portanova i piani inferiori e alla badia di Cava il secondo solaio discoperto, siti in Orto Magno, alle Mollicelle, a meridione della stessa chiesa, vicino ma non aderenti ad essa, essendone separati per interposizione di altro immobile, limitati a occidente da un andito e a oriente dal muro della città17; evidentemente quello stesso muro che dalla torre del Russo saliva al sito della porta già di San Fortunato e di Elino, nell’attualità del documento Nova. Su quest’area, adiacente al muro meridionale di Santa Maria della Neve, nel 1450 troviamo il monastero delle clarisse di Santa Maria della Pietà [14]18. 

  16Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 45, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1139. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 21; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 56-58. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6535. In M. A. Marsilio Colonna, Costitutiones editae a M. Antonio Marsilio Colonna, Archiepiscopo Salernitano in diocesana Synodo celebrata Salerni nonas maji 1579, 1580, è riportato un elenco di parrocchiali, fra cui Santa Maria de Portanova, con l’inciso quae tempore translationis B. Matthaei Ap. et Ev. erant; ma ciò non può costituire fonte storica per documentare l’esistenza della chiesa all’anno 954, poiché in tale elenco compaiono anche Santa Maria de Domno (con l’appellativo de Dominabus), eretta fra il 986 e il 989, San Vito de Mare, istituita nella chiesa del monastero omonimo soltanto dopo il 1133, e Santa Maria de Alimundo (con l’appellativo de Ulmis), i cui fondatori, avendola appena edificata, la dotano di beni e suppellettili nel 1048.

17Archivio della badia di Cava, pergamena LIX 60, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1290.

18Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 D 3, edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, pp. 197-201.

Poco distante dal monastero, accosto a sue case, ancora nell’aprile 1573, quindi osservabile dal nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento, vi era la chiesa di Sant’Angelo de Puteo, ancorché discoperta e con la porta murata [15]19. Essa era stata edificata prima del settembre 984 dai coniugi Guido, figlio del conte Guaimario, e Aloara, figlia del conte Landoario, con l’apporto di Guaiferio, fratello di Guido; in realtà, compare nella documentazione soltanto nel maggio 991, ma già nel detto settembre 984 risulta morto uno dei fondatori, Guaiferio, in quanto i figli litigano proprio con la zio Guido per il possesso di un terreno che Gisulfo I aveva a lui donato nel 974. Nell’ottobre 996 la troviamo passata in patronato degli eredi dei due fratelli fondatori, il padre dei quali, il citato conte Guaimario, aveva edificato la chiesa di San Martino oltre il fiume Irno, nei pressi della Carnale, anch’essa pervenuta in patronato dei figli di Guaiferio, Guaimario e Guaiferio, il secondo dei quali sposò Gemma, figlia di un altro conte Guaimario, e sarà il fondatore del monastero di Santa Sofia, e dei figli di Guido e Aloara, Aidolfo, Astolfo e Gisolfo, che compaiono, nel gennaio 1012, quali compatroni di San Martino; Astolfo, o Astilfo, compare anche, nel novembre 1023, come patrono di San Michele (o Sant’Angelo), mentre Aidolfo, o Raidolfo, compare in un atto di amministrazione di beni di Santa Sofia, nell’ottobre 1026, essendo morto il cugino Guaiferio20. Nelle mani dei figli di Guido e Aloara si concentrarono, dunque, i patronati dei tre luoghi di culto; pertanto, nel luglio 103221, troviamo Musando, abate del monastero di Santa Sofia che fu di Guaiferio, figlio del conte Guaiferio, che concede un terreno appartenente ai beni di Sant’Angelo, presso la quale intanto si era costituita una comunità monastica, che egli detiene; da questa prima indicazione, negli anni fra il 1039 e il 1058, scaturisce una serie di abati che si fregiano del doppio titolo di Sant’Angelo e Santa Sofia22, dai quali dipende anche San Martino alla Carnale. Dal febbraio 1043, per diritti ereditari che ci sfuggono o per atti di donazione non giunti fino a noi, i due monasteri e la chiesa risultano in patronato di Pandolfo, fratello del principe Guaimario IV. Nel dicembre 1058, essendone compatroni Teodora, figlia del console Gregorio e vedova di Pandolfo, e i figli Guaimario, Gregorio, Guidone e Giovanni, Sant’Angelo è detta chiesa; lo stesso appellativo si ripete nel marzo 1082, ma, riferendosi all’ottobre 1048, si precisa che Sant’Angelo e Santa Sofia erano stati monasteri. Nell’agosto 1100, Giovanni, figlio di Pandolfo e Teodora, nel palazzo arcivescovile, alla presenza di papa Pasquale II, dichiara di possedere, quale erede dei suoi genitori, le chiese di Santa Sofia e di San Michele Arcangelo, costruite in città, e di voler donare all’abate Pietro del monastero di Cava, per la redenzione delle anime dei suoi stessi genitori e di Ageltrude, perduta sua consorte, e per la salute sua, di Aczilina, sua consorte attuale, e dei suoi figli, quella di Santa Sofia, trattenendo per sé e i suoi eredi l’altra di San Michele Arcangelo, detta anche di Sant’Angelo23. Elemento caratterizzante il sito della chiesa fu una corticella, posta al suo meridione, con un pozzo costantemente citato quale punto di riferimento nell’ubicazione degli immobili posti nella vicinanze, al luogo di culto o ad altri pertinenti; dal luglio 1198 esso finirà per entrare nella stessa denominazione della chiesa, Sant’Angelo de Puteo o del Puzzo, e vi resterà costantemente fino alla sua ultima citazione, il 20 maggio 1575, quando si rileverà che, stante l’impossibilità di restaurarla a causa della esiguità delle rendite, la sua cappellania era stata unita alla parrocchiale di Santa Maria della Neve24.

Il tessuto urbano posto al meridione della via della porta di Elino, relativamente all’ambito parrocchiale di Santa Maria di Portanova, oltre che in relazione a beni di Sant’Angelo de Puteo e di San Martino alla Carnale25, è documentato in relazione a proprietà private26, di Santa Sofia27, di San Benedetto28, di Santa Maria de Domno29; di cui però, con l’eccezione di quelle di Santa Sofia e della casa in muratura con scala lignea che nel luglio 1198 Barisana, vedova di Silvestro macellaro, vende ad Ansalone zeppario30, certamente ricadenti nell’area di Sant’Angelo, come i beni della stessa Sant’Angelo e di San Martino, rimane problematica l’ubicazione stante la mancanza di riferimenti topografici attualmente riconoscibili. Analoga situazione si riscontra al settentrione della stessa via, almeno relativamente alla fascia su di essa prospiciente31, con l’eccezione della terra con casa che nel dicembre 1028 Gemma, figlia di Giaquinto, e il marito Leone vendono al conte Giovanni e delle altre due terre, l’una con casa e l’altra vuota, che Giovanni siculo, figlio di Gisulfo de Sellitto, aveva acquistato nel dicembre 1071 da Pietro del Porto, figlio dell’atrianense Orso, e che nell’agosto 1082 cede ai figli Sifo e Filippo, poste subito a settentrione della porta32.  

              

 

 

 

 

Santi XII Apostoli

 

Percorrendo la strada verso occidente, superata l’area attualmente impegnata dall’isolato appena a ovest della chiesa del Santissimo Crocefisso, il nostro viandante, svoltando a sinistra, discendeva verso uno dei tanti campitelli cittadini, largo di Giovancola dalla seconda metà del Cinquecento, oggi Dogana Regia [16]. A occidente di esso osservava un denso tessuto urbano percorso da un reticolo di vicoli, in gran parte ancora esistente prima dei bombardamenti del secondo conflitto mondiale, sulle aree oggi impegnate da edifici postbellici e dalla piazza Sant’Agostino [17]. All’angolo formato da due di tali vicoli vi era la chiesa parrocchiale dei Santi XII Apostoli [18]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel dicembre 1084; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Martino; il 23 febbraio 1613 la sua struttura sarà definita di forma antica, appena tollerata per i canoni dell’edilizia sacra dell’epoca; nel 1692 così sarà descritta dal parroco: La Chiesa Parrochiale di s(an)ti XII Apostoli è antichiss(i)ma ne ho possuto haverne notitia alcuna della fondat(i)one. Però sta questa Parrochia dentro uno ristretto dove si dice la Dogana Reggia, et è quatra à pingi coverta, humidiss(i)ma et oscura, con una porta à ponente e altra à menzo giorno: et perchè stà dentro a stretture di mura attorno sta oscura, ne vi è campanile, solo la sacrestia, l’altare maggiore con il Sig(no)re una Cappella vi stà di S. Giuseppe con la statua, ne vi stanno reliquie in d(ett)a Chiesa quanto sia di larghezza da otto passi in c(irc)a, e dieci di longhezza in c(irc)a33.

Il tessuto urbano che incombeva intorno alla parrocchiale, determinando le stretture lamentate dal parroco ancora nel 1692, lo si intravede in una serie di cinque documenti distribuiti fra il dicembre 1084 e il giugno 129234, nei quali i termini andito, strettola e mignano35 ben suggeriscono le angustie dei luoghi che, tuttavia, non erano certamente esclusive di questo particolare ambito cittadino. Nel primo di essi, che è anche quello in cui la chiesa compare per la prima volta, Leo, figlio di Giovanni detto Folle, vende a Leone, figlio di Regimundo, la nona parte di una terra con casa di legno sita in Orto Magno, nei pressi della chiesa dei Santi Apostoli, confinante a oriente con una strettola, a settentrione con un andito comune con altre proprietà sopra il quale era costruito un mignano della stessa casa, a occidente e meridione con altre costruzioni. Nel secondo, del luglio 1156, Nicola, figlio dell’orefice Antico, cede al fratello Matteo il solaio superiore, che possedeva per donazione del padre, di una casa in muratura sita in Orto Magno, nei pressi della chiesa dei Santi Apostoli, confinante a oriente con un andito, a settentrione e occidente con strettole. Nel terzo, del gennaio 1182, l’orefice Lupeno, figlio di Giovanni detto Cicalole, dichiara di aver ricevuto dal suocero Sergio detto Scotaus, figlio di Simeone, per le doti di Porpora, rispettivamente moglie e figlia, il primo solaio di una casa sita in Orto Magno, a meridione della via che conduce alla porta anticamente detta di Elino e presso la chiesa dei Santi Apostoli, confinante a oriente con un andito. Nel quarto, dell’agosto 1263, Matteo detto de Dattulo, figlio di Andrea, vende a Pandolfo detto Commeta, figlio di Guidone, la parte occidentale del primo solaio posto sopra un terraneo della chiesa di Santa Maria de Domno, in Orto Magno, a meridione e nei pressi della chiesa dei Santi Apostoli, confinante con anditi a meridione e occidente. Nel quinto, del giugno 1292, la chiesa di San Gregorio riceve dal monastero di Santa Maria Maddalena il primo solaio di una casa in muratura sita in Orto Magno, nei pressi della chiesa dei Santi Apostoli, confinante a oriente con la strada che andando verso settentrione si congiunge con la via che conduce alla porta anticamente detta di Elino, a meridione con altra costruzione, a occidente con una strettola, a settentrione in parte con altra strettola e in parte con altra costruzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4843, 1551-1552, f. 19t. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.19Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4843, 1551-1552, f. 19t. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

20Archivio della Badia di Cava, pergamene III 112; IV 60; IV 120; V 9; VI 25; VII 10; VII 41; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp. 207-212; II, pp. 316-317; III, p. 60; III, pp. 72-73; IV, pp. 188-189; V, pp. 75-76; V, p. 123; in tale edizione la VII 10 è indicata come VII 11 e la VII 41 come VII 42; di quest’ultima viene dato soltanto un transunto, mentre l’edizione integrale si legge in S. Leone, La fondazione cit., p. 66.

21Archivio della Badia di Cava, pergamena V 44; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IV, pp. 10-11; in tale edizione, erroneamente, luglio 1002; la correzione si legge in M. Galante, La datazione cit., pp. 73-75.

22Cosma, citato fra il dicembre 1039 e il maggio 1041 (Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII 79; VIII 89; VIII 103; VIII 104; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 120-121; VI, pp. 137-138; VI, pp. 159-161; VI, pp. 161-162). Pietro, citato nell’agosto 1041 (Archivio della Badia di Cava, pergamena VIII 106; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VI, pp. 164-165). Giovanni, citato dal settembre 1041 al febbraio 1049 (Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII 107; VIII 117; IX 26; IX 33; IX 109; IX 110; IX 113; IX 119; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 165-166; VI, pp. 183-184; VI, pp. 229-230; VI, pp. 240-243; VII, pp. 75-76; VII, pp. 77-78; VII, pp. 80-82; VII, pp. 91-92; in tale edizione la IX 26 è indicata come IX 24, la IX 33 come IX 31, la IX 109 come IX 106, la IX 110 come IX 107, la IX 113 come IX 110, la IX 119 come IX 115). Amico, citato nel maggio 1049 (Archivio della Badia di Cava, pergamena X 3; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VII, pp. 106-108; in tale edizione è indicata come IX 119). Giovanni, citato fra l’agosto 1049 e il maggio 1052 (Archivio della Badia di Cava, pergamene X 9; X 10; X 30; X 43; X 49; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VII, pp. 117-118; VII, pp. 118-119; VII, pp. 150-151; VII, pp. 173-174; VII, pp. 183-185; in tale edizione la X 9 è indicata come X 5, la X 10 come X 6, la X 30 come X 26, la X 43 come X 39, la X 49 come X 45). Moscato, citato fra il dicembre 1052 e il dicembre 1058 (Archivio della Badia di Cava, pergamene X 55; X 70; XI 37; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VII, pp. 191-193; VII, pp. 216-217; VIII, pp. 90-94; in tale edizione la X 55 è indicata come X 51 e la X 70 come X 67). Successivamente Moscato continuerà a essere citato come abate della sola Santa Sofia.

23Archivio della Badia di Cava, pergamene IX 26; XI 37; XIII 117; D 28; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 229-230; VIII, pp. 90-94; in tale edizione la IX 26 è indicata come IX 24. 

24Archivio della Badia di Cava, pergamene IV 60; IV 109; IX 33; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp. 316-317; III, pp. 41-42; VI, pp. 240-243; in tale edizione la IX 33 è indicata come IX 31. Archivio di Stato di Napoli, pergamena distrutta; edita in Codice Diplomatico Amalfitano cit., I, pp. 463-465. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6536. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

25Archivio della Badia di Cava, pergamene IV 60, maggio 991; IV 109, giugno 995; IV 120, ottobre 996; V 9, agosto 997; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp. 316-317; III, pp. 41-42; III, p. 60; III, pp. 72-73.

26Archivio della Badia di Cava, pergamene VII 119, febbraio 1034; XI 44, maggio 1059; XX 66, aprile 1117; XXII 42, dicembre 1127; XXV 7, gennaio 1142, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1141; XXVI 63, ottobre 1146; XXIX 23, ottobre 1155; XXXI 15, febbraio 1164, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1163; XXXII 28, aprile 1166; XXXIII 36, agosto 1169; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, V, pp. 255-256; VIII, pp. 103-104; in tale edizione la VII 119 è indicata come IX 120.

27Archivio della Badia di Cava, pergamene IX 33, agosto 1043; IX 76, novembre 1046; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 240-243; VII, pp. 19-20; in tale edizione la IX 33 è indicata come IX 31 e la IX 76 come IX 73.

28Archivio della Badia di Cava, pergamena XX 66, aprile 1117.

29Archivio della Badia di Cava, pergamena XXI 55, agosto 1121.

30Archivio di Stato di Napoli, pergamena distrutta; edita in Codice Diplomatico Amalfitano cit., I, pp. 463-465.

31Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 43, maggio 1059; XIII 81, settembre 1079; XVII 95, febbraio 1105, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1104; XXIV 13, novembre 1136; XXXVII 83, marzo 1181; XLIII 55, dicembre 1192; XLV 62, novembre 1205; XLVIII 101, gennaio 1229, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1228; LIX 112, luglio 1292; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VIII, pp. 101-103; X, pp. 297-298; la settima e l’ottava edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 58-60; pp. 148-149. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 53, febbraio 1144, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1143.

32Archivio della Badia di Cava, pergamene VII 63; XIV 1; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., V, pp. 161-162; l’inserto del dicembre 1071 nella seconda, datato ab incarnatione di tipo salernitano dicembre 1072, è edito, estrapolato dal contesto del documento, in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, p. 350.

 

 

33Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 37; Visite pastorali. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6538.

34Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 37. Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIX 65; XXXVII 62, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1181; LV 37; LIX 109; la terza edita in Codice Diplomatico Salernitano del, sec. XIII, I, pp. 307-308.

35Per il termine mignano si veda il capitolo 3 della I parte.

 

Nei pressi della parrocchiale insisteva anche la chiesa di Santa Maria de Dogana, beneficio, à presentaz(io)ne del Rè, dell’abate Simone Capograsso al 1272; forse lo stesso luogo pio descritto nell’Inventario delle Parrocchiali come ancora d’altre Chiese del 1725 come un’imagine della Beatis(sima) Vergine e S. Felice, quale dicono essere di molta Rendita di collazione Regia visibile in un portico vicino la Dogana Regia, sotto le case di Andrea Bottigliero36.

  36Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19 (Manoscritto Pinto), f. 25. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

Lungo le mura meridionali della città il territorio parrocchiale dei Santi XII Apostoli includeva la parte più orientale dell’attuale Palazzo Sant’Agostino, non compresa nell’ambito dell’omonimo convento prima della sua trasformazione nel palazzo dell’intendenza [19]; qui insistevano beni dello stesso monastero, che in occasione dell’apprezzo per la stesura del catasto onciario, il 25 gennaio 1754, saranno descritti come un magazzino con sei stanze superiori e giardinetto37. A questi adiacente, sul sito attualmente della via Giuseppe Vigorito e dell’edificio postbellico che vediamo immediatamente verso oriente [20], il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva osservare la sede della dogana, lì documentata al 1312, quando, il 16 giugno, la badia di Cava concede a Riccardo detto Cometa, figlio di Guidone, una terra con casa in muratura posta in Orto Magno, nei pressi della chiesa dei Santi Apostoli, confinante verso meridione con la strada che la separa dal fondaco e dalla dogana cittadina [21]; come tale sarà ancora citata il 12 ottobre 1546, mentre il 29 maggio 1555 l’immobile comparirà come la Dogana Vecchia, essendo di proprietà della famiglia Barrile già da prima del 5 maggio 155438. Del complesso faceva parte la chiesa di San Salvatore de Fundaco. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel marzo 1268 quale riferimento topografico nell’ubicazione di una casa in muratura che la badia di Cava concede all’ebreo Giuseppe, figlio di Dattilo, che dovrebbe essere la stessa poi concessa a Riccardo Cometa, in quanto come quella confina verso meridione con la strada che attraversa la Giudaica, nei pressi della chiesa, sotto suoi archi ed edifici; nel 1296 Carlo II, cui spetta il patronato, ne nomina cappellano il chierico Riccardo Scillato, figlio di Tommaso; il 16 giugno 1515 sarà detta San Salvatore de Dogana, di patronato del principe di Salerno, di grande antichità; il 22 gennaio 1567 comparirà come San Salvatore della Dogana Vecchia e si ordinerà al beneficiato di ripararla poiché minaccia di crollare con il pericolo di coinvolgere gli edifici adiacenti; il 15 gennaio 1616 risulterà compresa nelle case di Domenico Barrile e se ne ordinerà la sconsacrazione, che risulterà già avvenuta il 3 aprile 161839. Naturalmente, l’appellativo della chiesa al 1268, così come quello della citata Santa Maria al 1272, costituisce prova dell’esistenza nel luogo della dogana antecedentemente alla sua esplicita citazione del 1312.

 

 

 

37Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 458, particella 4.

 

 

 

 

 

 

38Archivio della Badia di Cava, pergamena LXV 21. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4842, 1546-1547, f. 45t; 4856, 1554-1555, f. 365; 4853, 1553-1554, f. 102.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

39Archivio della Badia di Cava, pergamena LV 99; edita in Codice Diplomatico Salernitano del, sec. XIII, I, pp. 329-330. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 87, f. 229; 76, f. 212; documenti editi in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, rispettivamente, pp. 304-305; pp. 310-311. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

  

 

 

 

 

Santa Maria de Domno

 

Il territorio parrocchiale di Santa Maria de Domno si sviluppava interamente lungo i lati della via oggi Masuccio Salernitano, nel Medioevo Carraria o della Giudaica, con una piccola appendice nella parte orientale dell’edificio che chiudeva a meridione l’attuale largo Dogana Regia [22]. Come abbiamo visto trattando degli studi di Michele de Angelis, la chiesa [23] era stata edificata per iniziativa della principessa Sichelgaita, consorte del principe Giovanni II di Lamberto regnante fra il 983 e il 999, in un suo terreno posto inter murum et muricinum, ossia nell’ampliamento urbano realizzato munendo di un antemurale la cortina verso il mare della Salerno prelongobarda. Tre documenti in particolare40, fra quelli esaminati dallo stesso de Angelis, datati febbraio 990, aprile 990 e ottobre 991, completandosi a vicenda, ci permettono una ricostruzione oltre che del suo sito, stretto fra la strada della Giudaica e l’antemurale, di alcune sue caratteristiche: l’essere naturalmente disposta sull’asse ovest-est; l’aver occupato solo parte dell’area disponibile, per cui si era creato uno spiazzo innanzi al suo ingresso; l’essere munita di tre absidi che, verso oriente, si protendevano in un terreno del conte Guaimario, figlio di Guaiferio detto Imperato.

   

 

 

 

 

40Archivio della Badia di Cava, pergamene IV 45; A 15; IV 64; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, rispettivamente, pp. 289-295; pp. 297-300; pp. 320-321.

Nel dicembre 1012 Santa Maria de Domno risulta di patronato del principe Guaimario III, figlio e successore di Giovanni II di Lamberto, e del fratello conte Giovanni; nel novembre 1031, di Guaimario IV, figlio e successore di Guaimario III, dei fratelli e dello zio conte Giovanni; nel febbraio 1056, di Gisulfo II, figlio e successore di Guaimario IV, dei fratelli, dello zio duca Guidone e degli eredi dell’altro zio Pandolfo. Con la successione fra Gisulfo II e Roberto il Guiscardo, alla dinastia normanna perviene una piccola parte, che vedremo quantificata in due dodicesimi, del patronato della chiesa che il duca Ruggero tenterà di far valere, evidentemente sopravvalutandola insieme al proprio carisma politico, immettendone nel beneficio, anche contro i diritti dell’archiepiscopato, un presbitero che sarà interdetto nell’agosto 1092 da papa Urbano II su sollecitazione dell’arcivescovo Alfano II. Ma già dall’ottobre 1091, con la donazione da parte di Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, della sesta parte del patronato che competeva al padre e alla madre Rangarda, figlia del conte Landone di Caiazzo, era stato avviato un lento processo che porterà la chiesa a divenire dipendenza della badia di Cava; infatti, analoga donazione compie nell’ottobre 1094 Gisulfo, figlio del conte Giovanni e pronipote dei principi fondatori, con la riserva di poter omni tempore egli e i suoi successori seppellire i propri defunti nella sepoltura che il padre possedeva nell’atrio della chiesa; altre parti di patronato dona alla stessa badia, nell’agosto 1098, Guaimario conte di Capaccio, figlio di Pandolfo, che fu figlio del principe Guaimario III, quindi cugino di Guaimario conte di Giffoni, per intervento della moglie Sichelgaita, figlia di Landolfo, a sua volta figlio di Pandolfo principe di Capua; e ancora, nel marzo 1110, lo stesso atto compie il duca Ruggero, che rinuncia alle due delle dodici once dell’intero patronato che possedeva. Tuttavia altri diritti su Santa Maria de Domno sfuggono ancora al controllo della badia cavense, distribuiti fra i molti discendenti dei principi fondatori, tant’è che nell’aprile 1110 la quota in suo possesso è quantificata in otto once e parte di una nona, mentre nel marzo 1118 la chiesa risulta pertinente, fra gli altri, alla badia stessa e a Bartolomeo, figlio del conte Giovanni, e nel gennaio 1140 interviene un’altra donazione, di un’oncia del patronato, sempre a favore degli abati di Cava, da parte di Guido e Guglielmo, figli di Alfano, a sua volta figlio del conte Ademario detto Russo. Nel privilegio di papa Eugenio III del maggio 1148, concesso all’abate Marino, Santa Maria de Domno è fra le chiese di Salerno soggette alla badia di Cava, ma, non essendo ancora completi i dodici dodicesimi nelle mani degli abati cavensi, evidentemente parti residue di patronato persistono in mani altrui, tant’è che nel 1441 troviamo aventi diritti sulla chiesa le famiglie Mazza, Guarna e Mariconda41.

  41Archivio della Badia di Cava, pergamene VI 39; VII 96; X 99; C 40; C 29; D 3; XVI 86; E 12; XVIII 117; XX 100; XXIV 75; H 7, datazione ab incarnatione di tipo salernitano maggio 1149; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, IV, pp. 215-216; V, pp. 211-212; VII, pp. 280-281; in tale edizione la VII 96 è indicata come VII 97 e la X 99 come X 96. Archivio Diocesano di Salerno, Bollari.

Nel corso della sua storia Santa Maria de Domno vide un numero notevole di varianti al proprio titolo. Inizialmente citata in modo generico come Santa Maria Madre di Dio, per la prima volta è detta de Domno nell’agosto 1092, nel documento con il quale papa Urbano II interdice il presbitero immessovi dal duca Ruggero; successivamente a tale appellativo si affianca, per poi sostituirlo, quello di de Dompno che troviamo, ad esempio, nelle decime e inquisizioni del 1309, quando vi risultano addetti i presbiteri Lambardo e Giovanni. Nel corso del Quattrocento e del primo trentennio del Cinquecento esso appare frammisto alla variante de Dopno come, ad esempio nella bolla pontificia del 23 aprile 1489; in questa fase compare anche la forma de Donno che troviamo nella relazione della visita pastorale del 1515, con le varianti de Donnis, nel 1570, e de Duonni, nel 1592. Nel 1573 compare l’appellativo de Dominabus che, con la citata eccezione del 1592, contraddistinguerà la chiesa nelle relazioni delle visite pastorali fino al 1725; nell’Inventario delle Parrocchiali come ancora d’altre Chiese, redatto nell’ambito della visita pastorale di quell’anno, per la prima volta la si cita come Santa Maria delle Donne, anche se bisogna dire che tale singolare volgarizzazione era in uso già dal Cinquecento nel linguaggio dei protocolli notarili. Nell’atto conclusivo della sua storia, il decreto concistoriale dato in Roma il 7 maggio 1856, con il quale si sanciva la transazione intervenuta fra l’arcivescovo di Salerno e l’abate di Cava, grazie alla quale il primo ne acquisiva la giurisdizione, la chiesa è detta de Dominabus nella parte in latino, delle Donne in quella in italiano42.

  42Archivio della Badia di Cava, pergamena C 40. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6537. Archivio della badia di Cava, pergamena LXXXVI 68. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. Archivio della badia di Cava, manoscritto 186. Santa Maria de Domno (citata con l’appellativo de Dominabus) è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 a questo capitolo) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo; in realtà, essa fu edificata fra il 986, anno in cui il terreno che impegnerà passa dal monastero di San Benedetto al conte Friderisio che lo donerà alla principessa Sichelgaita (Archivio della badia di Cava, pergamena IV 45; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 289-295), e l’ottobre 989, quando l’arcivescovo Amato prende atto  dell’avvenuta edificazione (Archivio della Badia di Cava, pergamena A 14; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 272-274). Questa imprecisione, insieme a quelle che danno esistenti allo stesso 954 anche Santa Maria de Alimundo (citata con l’appellativo de Ulmis), i cui fondatori vedremo in vita al 1048, e San Vito de Mare, istituita nella chiesa del monastero omonimo soltanto dopo il 1133, impedisce di considerare gli Atti del Sinodo quale fonte attendibile per la determinazione dell’esistenza delle parrocchiali citate.

 

Abbiamo visto, seguendo il quarto passo del mio percorso di studio alternativo a quelli di Michele de Angelis e di Arcangelo R. Amarotta, l’interessante descrizione della chiesa, pur se molto tarda rispetto all’osservazione che poteva farne il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento, che ne fece l’architetto Michele Santoro nella perizia commissionatagli dal tribunale civile di Salerno ed espletata il 4 gennaio 1862; abbiamo anche ripercorso lo studio, in quella occasione posto in essere, intorno alle dimensioni della costruzione, alla parte da essa occupata dell’area disponibile, al probabile utilizzo dell’antemurale quale sua parete meridionale, all’edificio per civili abitazioni e attività commerciali che attualmente la sostituisce, contrassegnato dai civici dal 63 al 71 della via Masuccio Salernitano, ove ha lasciato il segno della sua antica presenza nel campanile oggi adibito a tromba delle scale.

La parte inutilizzata dell’area posta a disposizione dalla principessa fondatrice [24] non rimase a lungo priva di costruzioni, tant’è che nell’aprile 1035 l’abate e scriba di palazzo Truppoaldo concede al presbitero Domnello e a Dauferio, figli di Giovanni, e a Pietro de Tusciano, figlio di Pietro, una terra con casa confinante verso oriente con altra casa, che si precisa essere in muratura, utilizzata quale residenza dallo stesso abate; quest’ultima è definita il palazzo maggiore di Santa Maria de Domno in un documento databile fra il settembre 1116 e il febbraio 1117 con il quale una bottega posta sotto di essa, che è locata per ventitre anni, risulta confinante a oriente con l’andito che conduce alla chiesa e che per una posterola esce al lido; sulla stessa area sono documentate altre costruzioni di legno, alcune della chiesa, come quella affittata nel luglio 1148 a Giovanni detto Grillo, figlio di Orso, che agisce per conto del fratello Alfano, altre poste in essere con materiali degli affittuari, ai quali gli abati concedevano il terreno per periodi generalmente di ventinove anni, come nel caso di due contratti intervenuti nell’ottobre e nel dicembre 115143. A partire dal 1168 questi beni cominciano a essere sottratti all’amministrazione dei presbiteri di Santa Maria de Domno, che da qualche tempo erano, comunque, monaci cavensi con il titolo di priore, per passare in amministrazione diretta della badia, che non limiterà a tanto il proprio impegno, ma procederà ad altre acquisizioni di immobili nell’area44. Una inversione di tendenza, forse prodromo di quella che condurrà alla progressiva dismissione degli interessi cavensi in città, dovette subentrare nel corso del XIII secolo, poiché l’8 maggio 1328 troviamo che il milite Pietro Comite aveva costruito un edificio che chiudeva la via che, passando davanti alla chiesa, conduceva al lido45; essendo evidente che tanto avrebbe potuto fare solo in virtù di diritti reali o presunti legati al possesso dell’ex palazzo maggiore della chiesa, è da ritenersi che questi fosse stato da qualche tempo alienato dagli abati cavensi. Non sappiamo se l’intimazione rivolta al Comite di demolire quanto costruito e riaprire la strada ebbe effetto; certo è che, nel prosieguo del tempo, l’area davanti alla chiesa non solo non avrà sbocchi verso il mare, ma anche sarà coperta e sovrastata da costruzioni così come abbiamo visto documentato e come sarà osservato nel 1862 dall’architetto Santoro.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

43Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII 24; XX 41; XXVII 12; XXVIII 12; XXVIII 18; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VI, pp. 31-33; in tale edizione è indicata come VIII 25. 

44Archivio della Badia di Cava, pergamene XXXII 56, febbraio 1168, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1167; XXXII 59, febbraio 1168, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1167; XXXIII 17, marzo 1169.

45Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 268, f. 46; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, pp. 123-124.

 

Anche i terreni esterni all’antemurale, in corrispondenza dell’area originariamente assegnata alla chiesa [25], entrarono, ma non è giunta fino a noi documentazione delle circostanze, nelle disponibilità prima degli abati di Santa Maria de Domno, poi di quelli cavensi. Quindici pergamene distribuite fra il marzo 1059 e il novembre 1167 documentano le vicende di questa parte di tessuto urbano in relazione al suo scavalcamento del muricino, alla edificazione di un secondo antemurale e allo scavalcamento anche di questi.

Un primo gruppo di otto46 narra le vicende della striscia di terreno, e delle case su di essa edificate, posta immediatamente adiacente alla faccia esterna del muricino, che vedremo trasformarsi da difesa cittadina a semplice muro della chiesa: nel marzo 1059 l’abate Giovanni di Santa Maria de Domno concede per ventinove anni a Leone, figlio di Giovanni, una terra con casa in muratura posta fuori città, confinante a oriente e meridione con altri beni della chiesa, a occidente con l’andito che conduce alla posterola aperta nell’antemurale per permettere l’accesso all’immobile, a settentrione con lo stesso muro cittadino che è detto pertinente alla chiesa; nel febbraio 1117 il presbitero Pietro concede per quattordici anni a Giovanni detto Bello, figlio di Nicola, chierico nella stessa Santa Maria de Domno, un terreno in cui ha edificato una casa in muratura, a meridione della chiesa, dove si dice alla Posterola, ma all’interno della città, confinante a meridione con un andito anch’esso della chiesa in cui la casa ha la scala di legno e il diritto di sovrastarlo con un mignano, a oriente e occidente con altri beni di Santa Maria de Domno, a settentrione con il muro che non è detto più della città, ma della chiesa; nell’ottobre 1124 ancora il presbitero Pietro concede per ventidue anni al fabbroferraio Giovanni, figlio dell’amalfitano Sergio, una terra con casa fabbricata posta inter murum et muricinum, a meridione della chiesa, confinante a settentrione con il suo muro, a occidente e oriente con altri suoi beni, a meridione con il suo andito; nel febbraio 1140 il preposto di Santa Maria de Domno concede per diciotto anni a Regale, vedova di Stefano detto Centruto, una terra nella quale ella e le sue figlie hanno edificato una casa, a meridione della chiesa, vicino alla posterola, confinante a meridione con l’andito nel quale è posta la scala di legno e di sopra il mignano della stessa casa, a oriente e occidente con altri beni della chiesa, a settentrione con il suo muro vecchio; ancora nel febbraio 1140 si rinnova per altri diciotto anni la concessione già posta in essere a favore del chierico Giovanni detto Bello; nel febbraio 1150 il monaco Pietro della badia di Cava, agente per conto di Santa Maria de Domno, concede per diciannove anni al ferraio Giovanni, figlio di Pietro, anch’egli ferraio, una terra nella quale lo stesso Giovanni ha edificato delle mura, a meridione della chiesa, confinante a oriente e occidente con altre case della stessa, a settentrione con il suo muro, a meridione con l’andito nel quale è da costruirsi la scala lignea e di sopra il mignano; nel giugno di quello stesso anno il monaco Pietro rinnova per altri diciannove anni la concessione già posta in essere a favore del fabbro Giovanni figlio di Sergio: nell’occasione il muro che delimita la proprietà verso settentrione, nel documento dell’ottobre 1124 definito della chiesa, è citato come il muro vecchio della città, con la precisazione che utilizzandolo si erano costruite parti della casa; nel novembre 1167 il monaco Centurio della badia di Cava, anch’egli agente per conto di Santa Maria de Domno, concede per diciannove anni a Pietro detto de Oliva una terra con casa in muratura, la stessa di cui al giugno 1150, della quale lo stesso Pietro già possiede il solaio superiore, con gli stessi confini e diritti di cui alla precedente concessione.

 

46Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 42; XX 39, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1116; XXI 110; XXIV 78, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1139; XXIV 80, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1139; XXVII 36, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1149; XXVII 85; XXXII 86; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 100-101.

Un secondo gruppo di quattro pergamene47 ci informa circa gli immobili, anch’essi di Santa Maria de Domno, posti a meridione dell’andito che abbiamo visto correre esternamente al primo muricino e ad esso parallelo: nell’agosto 1059 o 1060 il chierico Giovanni, presente l’abate e medico Maraldo, concede per venti anni a Bonomilo, figlio di Abento, una terra con pareti vecchie, a meridione della chiesa, confinante a occidente con la via che conduce alla posterola, a settentrione con l’andito, a oriente con altri beni di Santa Maria de Domno, a meridione con il muricino, con l’impegno di edificare una casa avendo il diritto di utilizzare lo stesso muricino come struttura portante e di cavalcare la via con eventuali costruzioni, della quale casa, trascorsi i venti anni, metà dovrà cedere alla chiesa trattenendo l’altra metà per se e i suoi successori; nel settembre 1077 lo stesso chierico Giovanni, intanto divenuto abate, concede per ventiquattro anni a Nicola, figlio di Giovanni greco, una terra con casa in muratura, a meridione della chiesa, confinante a oriente e occidente con altre case di Santa Maria de Domno, di cui quella a oriente detenuta dallo stesso Nicola, a meridione con il muricino, a settentrione con l’andito e con le scale in muratura della stessa casa; nel dicembre 1111 il presbitero Pietro concede a Malfrido, per ventiquattro anni, una terra con pareti posta inter murum et muricinum, confinante a settentrione con l’andito, nel quale è da costruirsi la scala di legno e di sopra il mignano, a occidente con altre case della chiesa, a meridione con il muricino, a oriente con beni di altri; nel giugno 1147 il monaco Pietro della badia di Cava, agente per conto di Santa Maria de Domno, concede per diciannove anni a Pietro detto Nocerino, figlio di Giovanni, una terra con casa posta inter murum et muricinum, a meridione della chiesa, confinante a settentrione con l’andito che la separa da altre terre con case della stessa chiesa, a meridione con il muro della città, a oriente con altri beni di Santa Maria de Domno, a occidente con una strettola.

  47Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 49; XIII 54, datazione ab incarnatione di tipo salernitano settembre 1078; XIX 18; XXVI 86; la prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VIII, pp. 117-119; X, pp. 228-230; per la datazione della XI 49 si veda la nota 16 al capitolo 1 della I parte.

Infine, un terzo gruppo di tre pergamene48 ci informa di una proprietà posta all’esterno del secondo muricino, fra la linea del labinario e quella del fronte occidentale della chiesa: nel gennaio 1113 Giovanni, figlio del conte Guaiferio, cede all’abate Pietro di Cava suoi beni siti fuori dall’ambito urbano ricevendo in cambio una terra con casa fabbricata di Santa Maria de Domno, confinante a settentrione con la faccia del muro cittadino, a occidente con la linea mediana di una luce aperta nello stesso muro per permettere a un corso d’acqua corrente all’interno della città di raggiungere il mare, evidentemente il labinario che delimitava a occidente l’area complessiva messa a disposizione della principessa Sichelgaita, a meridione con la strada che corre lungo il lido, a oriente con l’andito della chiesa, con il diritto di passaggio in esso dalla strada pubblica che corre a settentrione della chiesa stessa a quella che corre lungo il lido; nel marzo 1118 forse si tratta di parte della stessa proprietà quando lo stesso abate Pietro riconosce appartenere a Bartolomeo, figlio del conte Giovanni, un piccolo terreno posto lungo il lido, confinante a oriente con altri suoi beni; mentre certamente della stessa proprietà si tratta nell’agosto 1155, quando Raniero Pisano, figlio di Bruno, agente per conto di Santa Maria de Domno, concede a Sichelgaita, figlia di Glorioso e vedova del napoletano Marino detto Cacapece, di mantenere, sua vita durante, un edificio che aveva costruito adiacente al muro orientale delle sue case con fondaco poste lungo il lido, sopra l’andito comune con la chiesa.

  48Archivio della Badia di Cava, pergamene XIX 26, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1112; XX 100; XXIX 19.

A meridione di Santa Maria de Domno, ad un’altezza sia latitudinale che longitudinale non meglio precisabile, vi era anche una chiesa di San Nicola; essa compare in un unico atto49, dell’agosto 1156, con il quale Roberto detto Mostazza, figlio di Guglielmo, a sua volta figlio del conte Alfano detto Russo, cede alla badia di Cava, che già ne deteneva parte, una delle dodici once del suo patronato; con questo stesso documento, come abbiamo visto, Roberto cede alla badia anche una delle dodici once del patronato della chiesa di Santa Croce, diruta a causa di una tempesta, che era stata edificata fuori e vicino al muro orientale della città, nei pressi della torre del Russo.

A oriente di Santa Maria de Domno [26] abbiamo visto, all’epoca della sua fondazione, un terreno del conte Guaimario, figlio di Guaiferio detto Imperato; abbiamo anche visto come lo cedette alla chiesa nell’ottobre 991. Nel febbraio 1056 troviamo l’area urbanizzata, percorsa nel senso est-ovest da un andito posto circa alla metà della sua ampiezza fra la via della Giudaica e il primo muricino, sul quale prospettano, da settentrione e da meridione, case della chiesa50.

   

 

 

49Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXII 45.

 

 

50Archivio della Badia di Cava, pergamena X 99; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VII, pp. 280-281; in tale edizione è indicata come X 96.Una ricostruzione ideale dell’area di Santa Maria de Domno si vede alla tavola VIII.

  

 

La documentazione di ulteriori proprietà poste inter murum et muricinum, in Giudica, a meridione della strada, di Santa Maria de Domno e di altri soggetti, rimane insufficiente, non permettendo la definizione delle altezze longitudinali degli immobili51.

Lungo il lato settentrione della via della Giudaica, a occidente del labinario [27], vi era il terreno, in cui alcuni ebrei avevano edificato delle case di legno, che nell’ottobre 991 l’abate di Santa Maria de Domno cedette in cambio di quello del conte Guaimario in cui si protendevano le absidi della chiesa. Esso era compreso, in senso latitudinale, fra la strada e il vecchio muro cittadino e misurava, sia lungo il labinario che lungo il confine occidentale comune con l’ebreo Leonte, trentuno piedi aventi ciascuno il valore di trentuno centimetri e un millimetro, che è la misura del margine superiore della pergamena cui nel documento si fa riferimento per quantificare la dimensione del piede utilizzato nelle misurazioni52; tanto ci permette di conoscere che il muro prelongobardo correva, in quest’area, poco più di nove metri e mezzo a settentrione della strada.

Lungo lo stesso lato della via della Giudaica, ma a oriente del labinario [28], nel giugno 1140 troviamo un altro terreno di Santa Maria de Domno che è concesso per ventinove anni all’ebreo Sciamarro, figlio di Abramo, avendovi egli edificato una casa in muratura; nell’aprile 1149 una nuova concessione nell’area interesserà lo stesso Sciamarro53: si tratta, forse, di quel terreno, posto fra il vecchio muro e la strada, che nell’agosto 1000 l’infante conte Guaiferio, figlio del conte Landoario, aveva donato alla chiesa per la sua anima e sul quale dei forestieri avevano edificato una casa54. Ancora fra questo lato della via della Giudaica e il vecchio muro cittadino, ma ad altezze longitudinali difficilmente individuabili stante la mancanza di riferimenti riconoscibili, se si eccettua quel terreno che nel febbraio 993 il castaldo Aleriso, figlio di Giaquinto, vende all’abate Domnello, confinante a oriente con la via che conduceva ad una posterola aperta nel muro antico che potremmo immaginare corrispondente a quella che si apriva nel muricino a tergo delle absidi di Santa Maria de Domno55, sono documentati altri immobili che sono detti siti nelle adiacenze di una torre del muro antico; a meridione della via che conduceva alla porta di Elino; a occidente e oriente di una strada che collegava la stessa via della porta di Elino a quella che attraversava la Giudaica, genericamente a settentrione di quest’ultima56. Infine, mentre due citazioni si riferiscono a immobili, sempre posti lungo il lato settentrionale della stessa via, ma che potrebbero interessare non le adiacenze dell’attuale via Masuccio Salernitano, bensì quelle della piazza Sant’Agostino57, una si riferisce a una terra con casa in muratura della frateria del duomo sita in un campitello nei pressi della parrocchiale58 e una serie di cinque a immobili siti genericamente vicino ad essa59.

    

 

 

 

 

Santa Maria de Orto Magno

 

Percorsa interamente, verso oriente, l’antica via Carraria fra il muro e il muricino, poi della Giudaica, oggi Masuccio Salernitano e, dopo aver svoltato a sinistra, pervenuto nuovamente al largo della prima porta Nova, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento, superato l’imbocco della via dei Mercanti, poteva percorrere, sul tracciato dell’attuale via Porta Elina, la salita delle Capre che, girando alle spalle dell’area ove a partire dal 1577 troveremo le case della famiglia Barrera [29], raggiungeva la chiesa di Santa Caterina alli Ripari [30] e, poco oltre, sul lato opposto della strada, la porta Caprara [31], praticata nel muro dell’ampliamento longobardo che chiudeva a meridione il complesso badiale benedettino.

La chiesa compare nelle fonti giunte fino a noi soltanto il 6 febbraio 1544 quale dipendenza del monastero di San Benedetto, ma, poiché il 17 gennaio 1567 sarà già definita diruta, è immaginabile una sua lunga preesistenza; il 15 gennaio 1616 il suo luogo, sopra le case della Barrera, sarà definito indecente; il 10 gennaio 1626 risulterà adibita ad uso profano60.

La porta permetteva il collegamento fra il largo della prima porta Nova, quando questi era extra moenia, e le proprietà del monastero benedettino che, chiuse da tre lati dalle mura dell’ampliamento longobardo, comprendevano interamente l’altopiano oggi rappresentato dal rione Mutilati [32]; supponendo che il nostro viandante la potesse oltrepassare, si ritrovava nell’orto dei Ripari [33], chiuso fra il vecchio muro cittadino e il convento [34], e poteva osservare quello che nella platea dei beni di San Benedetto datata 6 febbraio 1544 sarà descritto come un Palazo, seu Castello olim, nunc diruto, ruinato et ridutto quasi ad solum, che, ciò nonostante, sarà oggetto di contesa con il principe di Salerno61. Procedendo verso occidente, e rasentando gli antichi bagni, raggiungeva l’atrio del complesso monastico [35], compreso fra la chiesa, recentemente restituita al culto, a settentrione e il palazzo badiale a meridione.

Il monastero di San Benedetto compare nelle fonti giunte fino a noi nel settembre 868, quale riferimento topografico per l’ubicazione di una casa posta lungo la strada che correva al suo settentrione; nel novembre successivo il principe Guaiferio dispone che in caso di inadempienza, da parte dei suoi eredi e del vescovo di Salerno, di alcune norme relative alla conduzione del patronato della chiesa di San Massimo da lui fondata, il patronato stesso pervenga nelle mani degli abati di San Benedetto, la qual cosa dovrebbe testimoniare di un raggiunto prestigio dell’istituzione benedettina e, quindi, di una sua non recente fondazione; in un documento del marzo 986, presentato nel febbraio 990 in occasione della lite vertente fra il monastero e l’abate di Santa Maria de Domno per il possesso del terreno sul quale la chiesa era stata edificata, e in altre fonti distribuite fino agli inizi dell’XI secolo, il monastero è indicato con il titolo di Santa Maria e San Benedetto; nel 1301 risulta che papa Alessandro IV, regnante fra il 1254 e il 1261, aveva donato ai suoi monaci il suolo sul quale era stato edificato il castello di Terracena62. 

  51Archivio della Badia di Cava, pergamene VI 29, marzo 1012; X 108, giugno 1056; XXIV 100, ottobre 1147; XXIX 2, marzo 1155; XXXIII 17, marzo 1169; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, IV, pp. 196-197; VII, pp. 298-299; in tale edizione la X 108 è indicata come X 105. Archivio di Stato di Napoli, Codice Perris, ff. 181-182, aprile 1172; ff. 184t-186, settembre 1174; ff. 190t-192t, agosto 1176; ff. 192t-195t, agosto 1176; documenti editi in Il Codice Perris, a cura di J. Mazzoleni e  R Orefice, (I, 1986; II, 1986; III, 1987; IV, 1988), I, rispettivamente, pp. 284-287; pp. 291-293; pp. 302-304; pp. 304-309; il primo e il terzo documento costituivano pergamene dell’Archivio di Stato di Napoli andate distrutte: come tali sono editi anche in Codice Diplomatico Amalfitano cit., I, rispettivamente, pp. 339-342; pp. 358-361.

52Archivio della Badia di Cava, pergamena IV 64; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 320-321.

53Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIV 108; XXVII 41.

54Archivio della Badia di Cava, pergamena A 17; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., III, pp. 109-110.

55Archivio della Badia di Cava, pergamena IV 82; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., III, pp. 2-3.

56Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII 8, agosto 1034; VIII 51, dicembre 1037; XI 18, marzo 1058; XI 19, marzo 1058; XI 118, gennaio 1064; XIII 62, marzo 1078; XXX 24, settembre 1158; XXXI 108, marzo 1165; XXXIII 51, marzo 1170; le prime sei edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 6-9; VI, pp. 80-81; VIII, pp. 47-48; VIII, pp. 48-49; VIII, pp. 273-274; X, pp. 239-242; in tale edizione la VIII 8 è indicata come VIII 9 e la VIII 51 come VIII 52; a quest’ultima, per errore di stampa, viene attribuita la data del 1036, mentre alla XI 118, sempre per errore di stampa, viene attribuita quella del 1054.

57Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 14, novembre 1159; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 31-34. Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXI 34, giugno 1163.

58Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata (si veda la nota 19 al capitolo 3 della Premessa), agosto 1243; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 215-216.

59Archivio della Badia di Cava, pergamene XXVIII 17, dicembre 1151; XLV 17, maggio 1202; XLV 115, aprile 1207; XLVI 112, agosto 1217; LIII 43, giugno 1255; le ultime quattro edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 50-52; p. 76; p. 112; pp. 280-282.

 

 

 

 

 

 

 

 

60Archivio della Badia di Cava, manoscritto 113. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

 

 

61Archivio della Badia di Cava, manoscritto 113.

62Archivio della Badia di Cava, pergamene I 63; F 10; IV 45; XV 90, luglio 1093, inserto del novembre 1065; XVIII 53, gennaio 1108, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1107; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, I, pp. 84-85; I, pp. 79-84; II, pp. 289-295; in tale edizione la F 10 è posta prima della I 63, nonostante quella sia cronologicamente posteriore a questa; l’inserto del novembre 1065 nella XV 90 è edito, estrapolato dal contesto del documento, in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 22-26. Archivio di Stato di Napoli, Repertori, 25, f. 288; notizia in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, p. 12.

Tanto ci porta al palazzo badiale posto a meridione dell’atrio che, come accennato, il nostro viandante poteva osservare, come facciamo tuttora, ancorché trasformato in museo provinciale [36]. Su quest’area, infatti, era sorto, in epoca normanna, il castello di Terracena. Esso compare nelle fonti giunte fino a noi nel settembre 1174 come luogo di stesura di un documento; nel febbraio 1201 è citato quale riferimento topografico nell’ubicazione di una terra con casa sita in Orto Magno; del maggio 1251 è la sua ultima citazione quale luogo di riunione della regia curia63. Abbiamo visto, seguendo l’ultimo passo del mio percorso di studio, come, vanificati i tentativi angioini di conservare, o recuperare, il possesso del suo suolo, i monaci vi edificarono il loro Castel Nuovo di San Benedetto, ospizio per Margherita di Durazzo e palazzo badiale.

Uscendo dall’atrio di San Benedetto verso occidente, oltre il luogo ove vediamo la più tarda chiesa di Santa Maria della Misericordia o Santa Maria Assunta dei Bottegari, comunemente Sant’Apollonia, all’angolo con la via che in età moderna sarà detta dei Santi Manghi, attualmente Sant’Alferio e Bastioni, il nostro viandante poteva osservare la chiesa parrocchiale di Santa Maria de Orto Magno [37]. Essa compare nelle fonti con un inserto del giugno 961 in un documento dell’aprile 1054 relativo ad una vertenza per il possesso di una terra con casa posta in Orto Magno, nei pressi del complesso benedettino; nel corso del Cinquecento la sua cappellania sarà unita prima a quella di San Giovanni delle Capre, poi, con quest’ultima, a San Giovanni de Cannabariis; comparirà per l’ultima volta in una relazione di visita pastorale il 14 aprile 160964.

   

 

63Archivio di Stato di Napoli, Codice Perris, ff. 184t-186; documento edito in Il Codice Perris cit., I, pp. 291-293. Archivio della Badia di Cava, pergamena XLIV 111, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1200. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 138; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 244-247.

 

 

 

 

 

 

 

 

64Archivio della Badia di Cava, pergamena X 73; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VII, pp. 223-241; in tale edizione è indicata come X 70. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

Risalendo la strada, prima del gomito che se percorso l’avrebbe portato sotto le mura, il nostro viandante poteva osservare alla sua destra [38] il luogo di un’altra chiesa, Santa Maria de Armenando, quasi certamente già scomparsa agli anni novanta del Quattrocento, poiché è documentata nelle fonti giunte fino a noi soltanto fra il marzo 1281 e il 4 ottobre 1330, esclusivamente quale riferimento topografico nell’ubicazione di case poste al suo settentrione, addossate alle mura cittadine, e al suo occidente, presumibilmente all’angolo nord-orientale [39] dell’isolato comprendente il monastero di San Michele Arcangelo. Nel marzo 1281 la badia di Cava, rappresentata dal monaco e camerario Goffredo, permuta con Nicola detto Spicillo, figlio di Tommaso, metà di un immobile sito in vico di Santa Trofimena, di cui l’altra metà rimaneva allo stesso Nicola, con il secondo solaio, un altro solaio superiore e un ambiente terraneo di una casa confinante con le mura della città, in Orto Magno, a settentrione e vicino alla chiesa di Santa Maria de Armenando, che il detto Nicola aveva acquistato da Pietro, figlio di Ruggero detto de Claro; nello stessomarzo 1281 la badia acquista dal detto Pietro due terranei, di cui uno grande, con tre solai, due sul grande e il terzo sull’altro, e un orticello contiguo con viti, in Orto Magno, a settentrione e vicino alla chiesa di Santa Maria de Armenando, confinanti, complessivamente, a occidente con la via, a settentrione con le mura della città e con altri beni della badia, evidentemente quelli ottenuti in permuta da Nicola Spicillo, a oriente con beni del monastero di San Benedetto, a meridione con beni di altri; il 27 novembre 1317 la badia, rappresentata da fra Mainerio, concede per cinque anni ad Andrea, figlio di Giovanni, una casa con orto vicino alla chiesa di Santa Maria de Armenando; il 4 ottobre 1330 suor Costanza Greco, monaca in San Giorgio, cede a Pandolfo Greco, figlio di Pietro, una casa che possedeva per eredità del padre giudice Matteo, in Orto Magno, vicino alla chiesa di Santa Maria de Armenando, confinante a settentrione e oriente con strade, in cambio di altra casa sita nei pressi della chiesa di San Giovanni de Cannabariis65.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

65Archivio della Badia di Cava, pergamene LVII 108; LVII 105; LXV 114; la seconda edita con lacune in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 535-536. Da notare che nella numerazione assegnata alle pergamene dagli archivisti cavensi, quella con la quale la badia acquisisce gli immobili da Pietro de Claro è posta prima di quella con la quale li acquisisce da Nicola Spicillo; è evidente, invece, che doveva essere il contrario, poiché nella prima la badia già risulta detentrice dei beni di cui si tratta nella seconda. Archivio di Stato di Salerno, pergamena I 4; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 126-128.

Parte preponderante dell’isolato posto a oriente e meridione della vie oggi Sant’Alferio e Bastioni, era, come lo è tuttora, il monastero di San Michele Arcangelo, detto anche di San Michele e Santo Stefano [40]. La sua prima citazione è del marzo 1039; nel XIV secolo risulta soggetto alla cappella regia di San Pietro a Corte; il 21 agosto 1471, evidentemente per togliere la soggezione reciproca, ma forse anche per ampliare gli ambienti a loro disposizione, le monache acquistano da Francesco Borda, tutore di Andrea, Belardino e Susanna, un immobile posto in frontespizio della chiesa monastica, all’epoca ancora quella di origine longobarda con ingresso verso occidente, costituito da diversi locali terranei e da camere superiori, con due ingressi, uno dalla strada, attraverso un locale con forno, l’altro in frontespizio della chiesa, all’interno del recinto monastico, confinante oltre che con la strada e il monastero, con le case degli eredi di Loisio de Porta e con beni del presbitero Stefano Mazo che erano appartenuti ad Andrea Minerva; nel primo ventennio del Seicento, passando dall’ordine benedettino a quello francescano, il monastero sarà ricostruito forse integralmente, pertanto l’edificio che oggi vediamo poco, o più probabilmente nulla, conserva di quello osservabile dal nostro viandante66.

   

 

 

 

 

66Archivio della Badia di Cava, pergamena V 116; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IV, pp. 139. Per la datazione di questo documento si veda la nota 16 al capitolo 2 della Premessa. Archivio Segreto Vaticano, Inquisizioni secolo XIV; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 408, 6038. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 D 8; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, pp. 222-233.

Il territorio parrocchiale di Santa Maria de Orto Magno comprendeva una sottile striscia di tessuto urbano posta a meridione della strada che costeggia il monastero di San Michele Arcangelo e conduce a quello di San Benedetto, ma relativamente agli immobili in essa esistenti soltanto un documento è pervenuto fino a noi senza, per altro, fornirci informazioni che consentano una ubicazione in senso longitudinale della terra con casa di cui tratta67.

  67Archivio della Badia di Cava, pergamena XXX 9, marzo 1158.

     

 

 

 

 

San Giovanni de Cannabariis

 

Il territorio parrocchiale di San Giovanni de Cannabariis, l’ormai distrutto rione San Giovanniello, si sviluppava, in senso latitudinale, dal meridione della sottile striscia di tessuto urbano che abbiamo visto prospettare sull’attuale via San Michele al settentrione di una analoga striscia prospettante sulla via anticamente della porta di Elino, poi della prima porta Nova, oggi dei Mercanti, che abbiamo visto ricadere nella parrocchia di Santa Maria de Portanova. Si trattava di un territorio estremamente complesso, per il gran numero di vicoli e anditi che lo percorrevano, ancora in buona parte esistente fino ai bombardamenti del secondo conflitto mondiale che crearono le premesse per gli sventramenti successivi e qualche non felice ricostruzione. La documentazione ad esso relativa giunta fino a noi è estremamente avara di riferimenti attualmente riconoscibili, rimandando ad anonimi anditi e strettole e molto genericamente al meridione di San Benedetto68; al meridione della via per San Benedetto69; al meridione di San Michele Arcangelo70; alle vicinanze della chiesa parrocchiale71; al meridione della stessa72, in alcuni casi con la vaga precisazione fra essa e Santa Maria de Portanova73.

Il nostro viandante, dalla via oggi San Michele, forse passando sotto una copertura analoga a quella che cavalca l’accesso da settentrione alla traversa San Giovanni, o forse no se l’edificio lì esistente agli anni novanta del Quattrocento non cavalcava il vicolo come l’attuale, raggiungeva la piazzetta nella quale molti, con molta fantasia, riconoscono la corte, o una delle corti, del castello di Terracena [41]; forse egli conosceva, se la tradizione o documenti allora esistenti e non giunti fino a noi di tanto lo informavano, la vera origine di quell’edificio le cui tarsie policrome tanto interesse e illazioni suscita ai nostri giorni; o forse il tempo già ne aveva cancellato l’identità. Uscendo dal vicolo verso meridione e percorrendone un altro verso oriente il nostro viandante si ritrovava in un piccolo spiazzo, davanti ad una chiesa che insisteva sul luogo ove attualmente vediamo una costruzione con porta metallica [42]. Si trattava della parrocchiale di San Giovanni de Cannabariis, detta anche delle Femmine, che compare nelle fonti giunte fino a noi nel gennaio 1131; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Tommaso; nello Stato delle chiese dell’ottobre 1692 così sarà descritta con il suo sito: Sotto la Contrada dell’Abbadia di San Benedetto vi stà la Chiesa Parrochi(a)le sotto il titolo di San Gio(vanni) Batt(ist)a de Cannabariis la cui fondat(ion)e p(er) essere immemorabile non si sà, né meno il nome de’ fondatori. La d(ett)a Chiesa consiste in piano, da’ parte di levante v’è un orticello delle case della Cattedrale di S(an)to Matteo; da’ ponente alla porta maggiore v’è una piazzetta; da’ settentrione vi sono attaccate le Case della medesima Cattedrale; da mezzo giorno vi sono attaccate le Case del q(uonda)m Lutio Comite e le Case di Fran(ces)co d’Urso. La retros(cri)tta Chiesa sta in piano, e quasi quatrata coverta à pingi; soppressa come parrocchiale nel 1857 per il trasferimento della cura delle anime nei locali di San Benedetto con il nuovo titolo del Santissimo Crocifisso, l’immobile continuerà a esistere fino ad una notte di bombardamenti nel corso del secondo conflitto mondiale; ne rimane il segno dell’attaccatura del tetto sul prospetto meridionale dell’edificio dalle tarsie policrome74.

 

68Archivio della Badia di Cava, pergamene XXXVI 91, settembre 1179; XXXVI 99, settembre 1179.

69Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXIV 48, gennaio 1174, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1173.

70Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 54, luglio 1143. Archivio della Badia di Cava, pergamene XLI 98, aprile 1188; XLIII 68, aprile 1193.

71Archivio della Badia di Cava, pergamene XLV 80, giugno 1206; LIV 12, marzo 1258; edite, la seconda con lacune, in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 63-64; pp. 288-289. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata (si veda la nota 19 al capitolo 3 della Premessa), gennaio 1238, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1237; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 188-189. Archivio di Stato di Salerno, pergamena I 4, 4 ottobre 1330; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 126-128.

72Archivio Diocesano di Salerno, pergamene 42, gennaio 1131, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1130; 105, luglio 1208; la seconda edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 78-80. Archivio della Badia di Cava, pergamene XLV 11, marzo 1202; XLV 14, marzo 1202; edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 49-50; pp. 47-48. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 4, f. 112a, 4 luglio 1269; 39, f. 138, 28 ottobre 1282; documenti editi in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 347-349; III, pp. 3-4.  

73Archivio della Badia di Cava, pergamene LV 47, luglio 1264; LX 83, novembre 1296; la prima edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 309-312.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

74Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 42, gennaio 1131, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1130; Visite pastorali; cartella Parrocchia SS. Crocifisso. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6544.

       

 

 

 

 

San Pietro de Grisonte

 

Il nostro viandante, percorso qualche vicolo a meridione di San Giovanni de Cannabariis e raggiunta la via oggi dei Mercanti, procedendo verso occidente, raggiungeva, come la si raggiunge tuttora, la chiesa parrocchiale di San Pietro de Grisonte, volgarmente San Petrillo, oggi impropriamente San Rocco per essere stata affidata alla confraternita omonima [43]. La sua prima citazione è del giugno 1165; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Matteo; sarà ricostruita nella forma attuale dalla famiglia de Iudice, che ne deteneva il patronato, negli anni venti del Seicento75. Nei suoi pressi, presumibilmente verso le propaggini di San Giovanniello, case di Santa Maria de Domno, confinanti con beni del monastero di San Leonardo, sono concesse nell’ottobre 1287 a Giovanni, figlio di Ruggero de Guidone, e nel gennaio 1289 al giudice Pietro detto Castellomata, figlio del giudice Giovanni76.

A meridione della chiesa e della via che andando verso oriente usciva dalla città attraverso la porta anticamente detta di Elino è documentata una casa in muratura della badia di Cava [44], amministrata, come le precedenti di Santa Maria de Domno, dal camerario fra Goffredo, che è concessa nel maggio 1277 a Giovanni detto Busano, figlio di Pietro, e nel luglio 1287 a Francesco detto de Luciano, figlio di Giacomo77. Nella stessa area insisteva la chiesa di San Benedetto Piccolo [45]. La sua prima citazione giunta fino a noi, con la precisazione che si trattava di una grancia della badia di San Benedetto, è soltanto del 7 aprile 1573, in occasione della visita pastorale, ma ritrovandosi già sordida et quasi tota ruinosa è evidente una sua lunga preesistenza78.

 

 

75Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXI 118. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6539. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

76Archivio della Badia di Cava, pergamene LIX 10; LIX 18, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1288. La seconda di queste pergamene riporta una genealogia di Pietro Castellomata dalla quale risulta che il padre, il giudice Giovanni, era figlio del giudice Matteo, figlio di Romoaldo, figlio di Matteo che poi fu chierico, figlio di Giovanni, figlio di Landone, figlio di Pietro.

77Archivio della Badia di Cava, pergamene LVII 36; LIX 1; la prima edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 478-479; in tale edizione, nell’ubicare la casa di cui si tratta, è riportato: in Orto magno prope ecclesiam S. Marie de Grisonte [!], mentre, ovviamente, sulla pergamena si legge: s(an)ti pet(ri) de g(ri)sonta.

78Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

A settentrione di San Pietro de Grisonte, vicino alla chiesa di Sant’Andrea [46], prospettante verso occidente sulla strada che conduce dietro l’archiepiscopio [58], è documentata una ulteriore casa in muratura della badia cavense [47] che è concessa nel febbraio 1266 all’amalfitano Pandolfo detto de Iudice, figlio di Giovanni79. La citata chiesa di Sant’Andrea, detta de Episcopio Pestano o anche semplicemente de Episcopio, compare nelle fonti giunte fino a noi nel dicembre 970 quale riferimento topografico per l’ubicazione dell’altra chiesa di San Matteo e San Tommaso che vedremo trattando del territorio parrocchiale di San Gregorio; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Roberto; la sua ultima citazione è collocabile fra il settembre 1316 e l’agosto 1317, pertanto è molto probabile che fosse già scomparsa agli anni novanta del Quattrocento80.

Procedendo verso settentrione, ove il nostro viandante avesse volto lo sguardo al vicolo attualmente detto dei Sediari, avrebbe potuto osservare al suo fondo la chiesa della Santissima Annunziata de Orto Magno [48]. La sua prima citazione è del 2 ottobre 1348, quando i nobili signori abate Ludovico e Pandullo, figli ed eredi del conte Francillo, dichiarandosene legittimi patroni, ne nominano rettore l’arcidiacono Giovanni de Porta; il 29 maggio 1445 il diritto di nomina del presbitero risulta pertinente a suor Martuccia Marchisano, figlia di Antonio, sia quale erede del padre che quale badessa del monastero di San Michele Arcangelo, al quale ella stessa aveva donato la sua parte di patronato con lo jus presentandi; pervenuta successivamente alla famiglia de Iudice, sarà sconsacrata il 27 marzo 1618, essendo stata trovata, in corso di visita pastorale, discoperta, quasi diruta e senza porta, con l’obbligo, da parte del beneficiato, di erigere un altare sotto lo stesso titolo della Santissima Annunziata nella chiesa parrocchiale di San Pietro de Grisonte che, come abbiamo visto, era patronato della stessa famiglia81.

 

 

79Archivio della Badia di Cava, pergamena LV 55, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1266.

80Archivio della Badia di Cava, pergamena A 10; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 64-66. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6542. Necrologio e Liber confratrum di S. Matteo di Salerno cit., p. 143; questo obito non riporta l’anno, ma soltanto l’indizione: XV; esso segue un’annotazione del 1315; dopo tale anno la XV indizione ricorse dal settembre 1316 all’agosto 1317.

 

 

 

 

 

 

 

81Fonte non identificata, forse pergamena dell’Archivio Diocesano di Salerno oggi perduta; edita in G. Paesano, Memorie cit., III, 1855, pp. 279-280. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 D 1; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, pp. 185-188. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

  

 

 

 

 

San Giovanni delle Capre

 

Lasciate alla sinistra le absidi del duomo [56], probabilmente il nostro viandante doveva percorrere itinerari alternativi al tratto oggi gradinato a monte di via Antonio Genovesi, la salita delle Croci, per portarsi lungo l’attuale via Bastioni e raggiungere la chiesa parrocchiale di San Giovanni delle Capre [49]. Questa compare nelle fonti giunte fino a noi soltanto nel 1473; soppressa la parrocchia con l’annessione del territorio a quello di Santa Maria de Orto Magno, diventerà il primo luogo di culto del seminario sotto il titolo di Santa Caterina; se ne disporrà la demolizione il 18 marzo 1613 per edificare sul suo sito una nuova cappella per i seminaristi sotto lo stesso titolo82.

Fra la Santissima Annunziata de Orto Magno e San Giovanni delle Capre, in un sito non meglio precisabile, vi era un’altra chiesa che compare in un’unica visita pastorale, il 13 giugno 1515: San Giacomo dei Marescalchi83. Nella stessa area, presumibilmente appena a monte della Santissima Annunziata, in un punto dove, con qualche confusione, si incontravano i territori parrocchiali di San Pietro de Grisonte, di San Giovanni de Cannabariis, di Santa Maria de Orto Magno e di San Giovanni delle Capre è documentata una casa che il 21 marzo 1349 la badia di Santa Maria de Vetro riceve in dono da Roberto Sanseverino, conte di Corigliano; essa sarà ancora fra i possedimenti di quella badia il 4 giugno 151684. Altri immobili sono documentati a settentrione dell’archiepiscopio, lungo le mura cittadine e a meridione della strada85.

Lasciata San Giovanni delle Capre e il sito dove più tardi sorgerà il seminario, ricostruito nella prima metà del Settecento e oggi museo, archivio e biblioteca diocesani [50], il nostro viandante trovava l’attuale largo Plebiscito [51] ingombro da un giardino con case che sopravvivrà fino all’episcopato di monsignor Paolo de Vilana Perlas (1723-1729), il quale, avviando la riedificazione del seminario, vorrà nobilitarlo con la creazione del largo86. Qui, a meridione della strada, prima dell’ampliamento angioino che porterà la porta Rotense dal settentrione della via delle Botteghelle [52] al ridosso del sito poi della chiesa di San Sebastiano [53], correva la difesa settentrionale della città87. Fra essa e la via si interponeva una striscia di terreno nella quale si protendeva un numero non precisabile di torri, una delle quali, la più vicina alla porta antica, nel marzo 1078 troviamo pertinente al conte Salerno, così come di sua pertinenza era il terreno ad essa contiguo; attiguo a tale terreno, verso occidente, vi era quello, in cui erano state costruite delle botteghe di legno, di Giovanni e Desideo, figli di Romoaldo, la cui metà spettante a Giovanni, quella occidentale, da egli è donata fra il marzo e il dicembre 1058 a Melo, figlio dell’abate Angelo, che aveva sposato sua figlia Gemma; l’altra metà, quella orientale, confinante con la torre e il terreno del conte Salerno, spettante a Desideo, è da questi venduta ad Andrea, uomo libero, nel gennaio 1063 per essere riacquistata nell’ottobre 1066; successivamente anche la seconda metà pervenne a Melo, poiché nel marzo 1078 lo troviamo impegnato in una contesa per i confini con il conte Salerno; nel marzo 1115 questo terreno, o forse parte di esso, è donato da Riccardo, figlio del conte Drogone, alla badia di Cava88. Nella stessa area, forse attigua alla stessa o ad un’altra torre, ma all’interno della città, vi erano case di Landolfo di Santo Mango che, come si rileva il 7 settembre 1305, in danno della regia curia, aveva rotto il muro cittadino e occupato il bastione costruendovi una camera e aprendovi una finestra; è da presumersi che l’amministrazione cittadina e la stessa regia curia non riuscissero più a farsi rendere il maltolto, poiché la famiglia Santomango, divenute inutili quelle difese dopo l’ampliamento angioino, ampliò le case fino al limite della strada incorporando la torre, che risulterà ancora esistente il 30 ottobre 1556, fino all’edificazione di un grosso complesso abitativo che in parte raggiungerà, verso meridione, il muro dell’atrio del duomo; porzione di esso troveremo in suo possesso ancora oltre la metà del Settecento [54]89.

   

 

 

 

 

 

 

82Archivio Diocesano di Salerno, Bollari; Visite pastorali. In realtà, esiste un documento del novembre 1289 (Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 158; edita con lacune in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, pp. 62-64) nel quale si tratta di una casa in muratura sita in Orto Magno, a monte dell’archiepiscopio, confinante a settentrione con le mura della città, vicino una chiesa di San Giovanni detta de lo Iudice et de le Femine. A parte il fatto che si tratta dell’unica citazione conosciuta di una chiesa di San Giovanni de Iudice, l’appellativo delle Femmine farebbe pensare a San Giovanni de Cannabariis, ma appare curioso che per una casa posta lungo le mura si utilizzasse quale riferimento topografico tale chiesa; si potrebbe pensare, in alternativa, a San Giovanni delle Capre, certamente più consona, ma allora si dovrebbe ipotizzare un duplice abbaglio dell’estensore del documento, non essendo certamente questa nota anche con gli appellativi attribuitale. Ove fosse esatta questa seconda ipotesi, il detto documento costituirebbe la prima testimonianza giunta fino a noi dellesistenza della chiesa.

83Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

84Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4896, 1597-1598, f. 135; 4844, 1515-1516, f. 218t.

85Archivio della Badia di Cava, pergamena XLVI 119, dicembre 1217; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 113-114.

 

 

86Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5324, 1764, f. 182.

87Si veda la tavola IV.

 

 

 

 

 

 

 

88Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 36; XII 36; XIII 64; E 39; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VIII, pp. 88-90; IX, pp. 65-67; X, pp. 237-238.

 

 

 

89Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 139, f. 81; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, pp. 17-31. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4863, 1555-1557, f. 256t; 4854, testamenti, f. 180, 19 dicembre 1559. Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 466, particella 2.

Girando intorno casa Santomango e pervenendo all’attuale piazza Alfano I [55] il nostro viandante la trovava in gran parte ingombra dalla gradinata semicircolare del duomo; sarà sostituita dalle due rampe che oggi vediamo nel corso dell’episcopato di monsignor Gregorio Carafa (1664-1675), ancorché le insegne che vi si vedono sono quelle dei suoi successori Bonaventura Poerio (1697-1722) e Isidoro Sanchez de Luna (1759-1783).

Il duomo [56] fu edificato da Roberto il Guiscardo sull’area della chiesa di San Matteo de Archiepiscopio e su quelle di immobili allo scopo donati dalle famiglie de Ruggiero e Santomango.

La chiesa compare nelle fonti pervenute fino a noi nell’ottobre 982, quando il vescovo Amato cede dei beni onde reperire danaro per eseguire lavori nel suo atrio; nell’aprile 986 è citata quale riferimento topografico nell’ubicazione di terreni con case di Guaimario e Guaiferio, figli del conte Guaiferio, posti al suo settentrione; fra il gennaio di quello stesso anno e l’aprile 1073, in una serie di venticinque documenti, sono citate le misure riportate sulla colonna apposita posta nel suo atrio; nel febbraio 1085, riferendosi al giugno 1033, quando era stata effettuata la misurazione di un terreno, si precisa che tale misura era stata fatta utilizzando il passo riportato sulla colonna marmorea all’epoca esistente presso la chiesa di San Matteo dell’archiepiscopio salernitano90. Questa chiesa, dunque, esistette, con la sua colonna delle misure, da qualche anno dopo la traslazione del corpo di san Matteo in città, forse edificata appositamente per custodire tale sacro deposito, forse frutto di nuova intitolazione di una chiesa preesistente, all’epoca dell’edificazione del duomo normanno.

Le donazioni delle famiglie de Ruggiero e Santomango saranno ricordate ancora nella seconda metà del Settecento, una prima volta l’8 maggio 1768, quando il notaio Benedetto Maria de Sanctis roga la richiesta da parte del marchese don Francesco de Ruggiero che per quell’anno l’omaggio floreale spettante alla sua famiglia in memoria di quella elargizione sia presentato al figlio Matteo non ostante che sia della ettà d’anni cinque, una seconda volta l’11 maggio 1783, quando lo stesso notaio roga la dichiarazione di don Francesco Saverio Santomango che asserisce a lui spettare lo stesso omaggio dovuto alla sua famiglia91; il primo documento, di cui il secondo è una copia praticamente identica, naturalmente riferendosi ai Santomango in luogo dei de Ruggiero, recita che p(er) la nuova, e più ampla edificaz(io)ne, che si fece della Basilica, la di lui Famiglia de Ruggiero, che in quel tempo possedeva Palazzi, ed abbitaz(io)ni accosto alla med(esim)a, p(er) testificare la pietà, e divoz(io)ne verso al d(ett)o Glorioso Apostolo, in onore di cui ergevasi il nuovo Magnifico Tempio, donò al med(esimo)o Apostolo tutta quella parte di sua propria abitaz(io)ne, e Case, che si credè necessaria p(er) il d(ett)o nuovo Edificio, il che fù motivo alla Chiesa Salernitana, e Clero in riconoscenza di una si pia elargiz(io)ne, e p(er) vicendevole memoria di sua gratitudine, di obligarsi in ogni anno in perpetuo, nella domenica infra l’ottava della Traslaz(io)ne d’esso Glorioso Apostolo, che si celebra alli Sei di Maggio, di uscire dalla Metropolitana sud(ett)a Processionalm(en)te, con Croce inalberata, vestito di Sacri Arredi, con Arciprete in Piviale, e così sotto il Suono delle Campane, cantando Inni per le strade, portarsi all’abitaz(io)ni d’essi de Ruggieri, con salire sopra la med(esim)a, in dove schierandosi a due Ali, il sud(ett)o Clero, l’Arciprete come sop(r)a offre j fiori à quell’Individuo di essa Famiglia, che si trova di esercitare un tal diritto; prosegue citando vari storici che riportano notizie della cerimonia e delle sue origini, fra i quali Cesare Eugenio Caracciolo, che nella sua Descrizione del Regno di Napoli scrive: di questi Colombri, ed Albori [offerti dalle parrocchie alla cattedrale nella festa della traslazione del corpo di san Matteo] ogni anno, se ne mandano, accompagnati dal Clero, e da altra Gente à quelle Case dell’antichissime Famiglie de’ Roggiero, e Santomango, che si ritrovarono ad aver suolo, e territorio nel luogo, dove fù edificata d(etta)a Chiesa in onore di d(ett)o Apostolo, ed Evangelista; e l’abate don Placido Troyli, che nella Storia Generale del Regno di Napoli scrive: Poi il duca (Guiscardo) proseguì il camino p(er) Sal(er)no una assieme al Pontefice, e lo pregò che consegrasse la Chiesa di S. Matteo da lui eretta [...] e perche il luogo in cui d(ett)o tempio fù fondato, appartenea alla famiglia Roggiero procedente da j Normandi, perciò à nostri tempi quel Capitolo nella Domenica trà lottava della Traslaz(io)ne del Santo, che si celebra a 6 maggio, coll’Arciprete in Piviale, portar si suole innanzi il Palazzo de SS.ri Ruggiero, ed offerisce à colui, che vi abita un Albero ghirlandato di fiori benedetti sù lAltare del Santo (che Frascone volgarm(en)te colà vien chiamato) in segno di riconoscim(en)to.

   

 

90Archivio della Badia di Cava, pergamene A 12, ottobre 982; IV 3, gennaio 986; IV 4, gennaio 986; IV 8, aprile 986; IV 40, gennaio 990; IV 42, gennaio 990; IV 94, dicembre 994; V 33, marzo 1000; V 49, gennaio 1003; V 58, gennaio 1004; V 62, marzo 1004; V 63, marzo 1004; V 101, aprile 1008; V 119, giugno 1009; VI 45, giugno 1013; VII 50, novembre 1027; VII 97, febbraio 1032; VIII 57, giugno 1038; VIII 74, settembre 1039; VIII 118, aprile 1042; IX 55, agosto 1045; X 73, aprile 1054; XI 24, giugno 1058; XI 72, maggio 1061; XI 107, settembre 1063; XI 108, settembre 1063; XII 113, aprile 1073, datazione ab incarnatione di tipo salernitano aprile 1074; XIV 13, febbraio 1085; edite, esclusa l’ultima, in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp. 175-176; II, pp. 229-230; II, pp. 231-232; II, pp. 235-236; II, pp. 278-279; II, pp. 282-285; III, pp. 20-22; III, pp. 102-105; IV, pp. 16-18; IV, pp. 31-32; IV, pp. 36-38; IV, pp. 39-40; IV, pp. 103-117; IV, pp. 143-146; IV, pp. 223-225; V, pp. 137-139; V, pp. 212-214; VI, p. 87; VI, pp. 111-113; VI, pp. 184-187; VI, pp. 274-277; VII, pp. 223-241; VIII, pp. 62-64; VIII, pp. 155-158; VIII, pp. 230-232; VIII, pp. 233-251; X, 22-23; in tale edizione la VII 50 è indicata come VII 51, la VII 97 come VII 98, la VIII 57 come VIII 58, la VIII 74 come VIII 75, la X 73 come X 70; della A 12 e della VIII 57 viene dato soltanto un transunto, mentre le edizioni integrali si leggono in M. Galante, La datazione cit., rispettivamente, pp. 186-191; pp. 240-243.

 

 

 

 

 

 

 

91Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5412, 1768, f. 106; 5423, 1783, f. 167.

Agli anni novanta del Quattrocento il nostro viandante poteva osservare il duomo in tutto il suo splendore romanico, prima dei purtroppo necessari lavori settecenteschi che lo renderanno più stabile ma anche lontano dalla visione progettuale che ne avevano avuto l’arcivescovo Alfano I e Roberto il Guiscardo. In realtà, già l’arcivescovo Barnaba Orsini (1440-1449) era stato costretto a intervenire sulle strutture del muro meridionale con la costruzione di due barbacani di sostegno addossati alla parte esterna, lungo l’attuale via Roberto il Guiscardo, come è provato dagli stemmi del presule; uguale opera fu necessaria anche all’interno, a favore della muratura fra la navata centrale e quella meridionale, anche qui testimoniata dallo stemma su uno dei pilastri di rinforzo. Anche il secondo successore dell’Orsini, monsignor Pietro Guglielmo de Rocha (1471-1482), lascia il suo stemma su un poderoso barbacane posto a sostegno del cantone sud-orientale del transetto; non è noto se intervenne anche dall’interno in continuità a quanto già posto in opera dal suo predecessore Orsini e forse anche da Nicola Piscicelli II (1449-1471).

Lasciato il duomo, a meridione del cimitero, la Terra santa [57]92, il nostro viandante poteva osservare, come è possibile fare tuttora, l’archiepiscopio [58]. Esso era sorto, insieme all’antica cattedrale, sulle strutture di un tempio romano, forse di Pomona, residuo del quale sono le colonne visibili nell’ampia sala terranea posta all’estremità occidentale dell’edificio. La sua prima notizia, per altro indiretta, giunta fino a noi è dell’ottobre 946, quando si cita la strada che vi conduce93. Abbiamo visto, seguendo il primo passo del mio percorso di studio, fra il giugno 971 e il marzo 1058, il tessuto urbano posto al suo meridione, intorno alle case e al cortile del conte Alfano; contestualmente, abbiamo anche visto, nel novembre 1064, precisare che esso era posto davanti all’antica cattedrale, pertanto, considerando che certamente la chiesa ebbe l’orientamento canonico dell’epoca sull’asse est-ovest con ingresso verso quest’ultima direzione, abbiamo concluso che, per esserle davanti, l’archiepiscopio non poteva che essere posto sullo stesso asse, avendola a oriente. Nel febbraio 1071 l’arcivescovo Alfano I concede l’esenzione dal potere arcivescovile alla chiesa di San Nicola de la Palma in cambio di cinque libbre d’argento da destinarsi a restauri dell’archiepiscopio; un ampliamento verso meridione di esso è documentato al giugno 1228, quando il chierico Nicola Caposcrofa, agente per conto della curia archiepiscopale, acquista da Giovanni, figlio di Matteo, un terreno con pareti dirute confinante verso settentrione con la sede arcivescovile e con il palazzo del signor arcivescovo94. Con l’edificazione del duomo normanno, la cattedrale di Santa Maria Dei Genitricis andò in disuso e, quindi, fu incorporata negli ampliamenti successivi del palazzo. Conferma indiretta di tanto ci viene da un documento del febbraio 1160 che cita una strada che, andando verso settentrione, conduce dietro le absidi dell’archiepiscopio, le quali sono utilizzate per altri usi; e da un altro del dicembre 1262, che cita la stessa strada que ducit retro absidas suprascripti archiepiscopii95. Ora, essendo evidente che l’archiepiscopio, in quanto tale, non poteva essere munito di absidi, tanto meno utilizzate per altri usi, è da ritenersi che esse fossero residuo ancora visibile dell’antica cattedrale. Infine, il 24 agosto 1556, per raccogliere una testimonianza del chierico Marino Rufolo, un notaio si recherà in un locale detto la sacrestia antica della cattedrale, posto allinterno del palazzo Archiepiscopale96.

 

 

92Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 149, riporta che vi erano tumoli marmorei della famiglia Santo Mango in piedi alla Chiesa di S. Matteo e vicino le Scale del Palazzo Arcivescovile.

93Archivio della Badia di Cava, pergamena II 44; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, pp. 221-222.

 

 

 

 

 

 

94Archivio della Badia di Cava, pergamena B 2; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 318-322. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 129.

95Archivio della Badia di Cava, pergamena XXX 33, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1159. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata (si veda la nota 19 al capitolo 3 della Premessa); edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 303-305.

96Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4856, 1555-1556, f. 584.

  

 

 

 

 

 

2 – Territori parrocchiali di San Gregorio, Santa Lucia de Giudaica, San Vito Maggiore, San Matteo Piccolo, Santa Maria de Capite Platearum, Santa Maria dei Barbuti, San Grammazio, San Massimo, Sant’Eufebio

  

 

 

 

 

San Gregorio

 

Il secondo itinerario del nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento prende avvio dal sagrato della chiesa parrocchiale di San Gregorio [1]0, lungo l’attuale via dei Mercanti. Abbiamo visto, sia ripercorrendo gli studi di Amarotta che i miei, questa chiesa comparire nelle fonti giunte fino a noi con un documento del marzo 1058, in cui si fa riferimento ad un atto che era stato rogato nel suo atrio nel febbraio precedente1; l’abbiamo anche vista nel 1172, in occasione della sua ricostruzione da parte dall’abate Roberto Guarna, fratello dell’arcivescovo Romualdo II; nel 1309 vi troviamo addetti i presbiteri Angelo e Giovanni2. Fra il 1340 e il 1366 la troviamo tenuta a corrispondere alla badia di Cava censi nei giorni di Natale e Pasqua, consuetudine limitata al solo Natale fra il 1478 e il 14823; l’origine di tali diritti non appare chiara e forse proprio ciò indusse i monaci al tentativo di giustificarli, per San Gregorio come per altre chiese, con la produzione di un falso relativo ad una presunta donazione, del maggio 1087, da parte del duca Ruggero4.

Il documento del marzo 1058 più volte citato, oltre a contenere nel suo ultimo inserto in ordine di tempo la prima citazione della parrocchiale di San Gregorio, con il secondo, del novembre 976, l’abbiamo visto informarci, seguendo il primo passo del mio percorso di studio, dell’esistenza di un andito che correva poco a settentrione del sito della stessa San Gregorio, a monte del quale era posta la chiesa di San Matteo e San Tommaso [2]; al di sopra di quest’ultima vi erano le case del conte Alfano [3], quelle stesse che abbiamo visto nel marzo 990 poste a meridione dell’archiepiscopio, e un’altra chiesa sotto il titolo di Sant’Andrea, quella stessa che, trattando del territorio parrocchiale di San Pietro de Grisonte, abbiamo visto soggetta all’episcopio pestano [4].

La chiesa di San Matteo e San Tommaso risulta esistente al dicembre 970, quando, a richiesta del castaldo Pietro, figlio di Landolfo, che l’aveva fondata, il vescovo Pietro la esonera dal potere episcopale; nel marzo 1040 ne risultano compatroni il conte e giudice Ademario, figlio del conte Pietro, e i suoi nipoti conti Adalberto e Guaimario, figli di Alfano; nel marzo 1050, essendo morto il presbitero addetto, compare Alfano, figlio del conte e giudice Ademario, che agisce anche per conto di un altro Alfano, figlio di Guaimario, e di un terzo Alfano e di Pietro, figli di Adalberto, tutti compatroni della chiesa, allo scopo di procedere ad un nuovo affidamento; nel dicembre 1149 Gemma, figlia di Guaimario detto Ripitella che fu figlio del conte Marino, e vedova di Ademario che fu figlio del giudice Giovanni, cede al cugino Mansone, figlio di Leone che fu figlio di Costanagno de Urso, la sua porzione del patronato della chiesa, che è detta semplicemente di San Matteo e di cui si ribadisce il sito: in Orto Magno, a settentrione della strada che conduce alla porta anticamente detta di Elino e a meridione dell’archiepiscopio; nel febbraio 1174 Raone detto de Aczia, figlio di Roberto, riconosce che appartiene alla badia di Cava una casa e quanto fu di Landolfo detto de Manso, figlio di Ademario che fu figlio del conte Alfano, della chiesa di San Matteo detto Piccolo sita in Orto Magno; nel gennaio 1176 Matteo detto Viscido, figlio di Ademario, presenta un documento del gennaio 1172 con il quale Cioffo, figlio di Lupo che fu figlio del conte Maione, gli cedeva quanto di sua pertinenza del patronato della chiesa che egli, con l’atto presente, trasferisce alla badia di Cava, con la precisazione che si tratta di cinque once e mezza delle dodici costituenti l’intero patronato; in un inserto del giugno 1178, contenuto in un documento dell’aprile 1179, la chiesa risulta pertinente all’archiepiscopio, alla badia di Cava e ad altri compatroni; nel giugno 1180 Bartolomeo, figlio di Giovanni detto Sarraceno che fu figlio del conte Lamberto, dona alla badia quanto gli appartiene della chiesa; la stessa cosa fa nell’agosto 1181 Petrone Marchisano, figlio di Pietro; e ancora, nell’ottobre dello stesso anno, Truda, moglie di Tommaso detto Pennatorta e figlia di Alfano che fu figlio di Lupo, a sua volta figlio del conte Maione5. Nel gennaio 1238 il patronato risulta pertinente per nove once alla badia di Cava e per tre all’archiepiscopio di Salerno. Nel marzo 1278 Sergio Capograsso, figlio di Michele, si incontra con l’abate Leone di Cava, il quale conferma che alla sua badia competono nove delle dodici once del patronato della chiesa di San Matteo Piccolo sita in Orto Magno, vicino alle case del giudice Giovanni Capograsso, figlio del detto Sergio; quindi egli, per conto della badia, cede a Sergio tale parte di patronato in cambio di dieci once di quello di San Pietro de Iudice. Nella relazione della visita pastorale del 16 giugno 1515 la chiesa sarà citata come San Matteo Piccolo dei Capograsso. Trovata necessitante di importanti riparazioni l’8 aprile 1573, il 15 gennaio 1616 se ne ordinerà la sconsacrazione seguita, il 31 maggio 1618, dall’ordine di demolirne gli altari laterali entro un mese;  il 24 gennaio 1626 sarà citata per l’ultima volta6.

 

0I numeri e le altre indicazioni fra le parentesi quadre si riferiscono ai particolari delle piantine topografiche.

1San Gregorio è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistenti al 954, anno della traslazione in città del corpo di San Matteo.

2Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6540.

3Archivio della Badia di Cava, Registro III dellabate Mainerio, f. 39; Inventario dellabate Mainerio, f. 160t; Registro I del cardinale Giovanni dAragona, f. 5.

4Archivio della Badia di Cava, pergamena C 12; edita con lacune e ritenendola autentica in D. Ventimiglia, Difesa storico-diplomatica-legale Della Giurisdizione Civile del Sacro Monastero della SS. Trinità de PP. Casinesi della Cava nel Feudo di Tramutola, 1801, appendice, pp. III-X; e in G. A. Adinolfi, Storia della Cava distinta in tre epoche, 1846, pp. 290-294; edita correttamente e riconoscendola falsa in L. R. Menager, Recueil des

actes des Ducs normands d’Italie, I, 1981, pp. 203-212. La falsificazione appare evidente, oltre che da considerazioni di carattere paleografico (cf. Archivio della Badia di Cava, Trascrizioni Leone, C, f. 16; L. R. Menager, cit.), dal fatto che chiese qui elencate non risultano nella bolla di conferma dei possedimenti della badia emessa da Urbano II nell’ottobre 1089 (Archivio della Badia di Cava, pergamena C 21) e dal fatto che alcuni luoghi di culto il cui patronato il duca Ruggiero avrebbe donato alla badia sono citati con titoli non in uso nel 1087 ma nel XIV secolo. È il caso proprio di San Gregorio, citata con l’appellativo de porta Nova, addirittura impossibile nel 1087 in quanto sappiamo che tale porta fu edificata soltanto nel 1117 o poco prima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5Archivio della Badia di Cava, pergamene A 10; VIII 84; X 15; XXVII 57; XXXIV 57, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1173; XXXV 9, datazioneab incarnatione di tipo veneto gennaio 1175; XXXVI 73; XXXVII 28; XXXVII 117; XXXVIII 1; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente II, pp. 64-66; VI, pp. 127-131; VII, pp. 126-128; in tale edizione la X 15 è indicata come X 11.

6Archivio della Badia di Cava, pergamene L 72, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1238; LVII 53; la prima edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 189-191. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. La pergamena LVII 53 riporta una genealogia del giudice Giovanni Capograsso dalla quale risulta che il nonno, Michele, era figlio di Sergio, figlio di Marotta, figlia di Adenolfo de Procida, figlio di Pietro, figlio di Giovanni, figlio del conte Azzone.

In prossimità della chiesa, fra il XII e il XIII secolo, oltre il terreno con pareti dirute che nel giugno 1228 abbiamo visto acquistare dal chierico Nicola Caposcrofa per conto della curia archiepiscopale, sono documentate case di cui al gennaio 1157 possedeva una metà Leo detto Abate, figlio di Pietro, avendola ricevuta nel novembre 1145 da Giovanni detto Calabrone, figlio di Giovanni che fu figlio del chierico Giovanni, per le doti di Sica, rispettivamente moglie e sorella7. Al marzo 1278, come abbiamo anche visto, compaiono le case del giudice Giovanni Capograsso, certamente le stesse, almeno in parte, che erano state della famiglia del fondatore della chiesa e che avevano incorporato, o incorporeranno, le proprietà circonvicine, poiché saranno ampliate fino a estendersi, sul finire del Cinquecento, dalla chiesa di San Gregorio all’archiepiscopio; alla metà del Settecento saranno ancora in possesso della famiglia nella persona dell’abate Matteo8.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7Archivio della Badia di Cava, pergamena XXIX 42, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1156.

8Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali, 2 settembre 1581. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4885, 1588-1589, f. 735t, 11 luglio 1589. Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 472, particella 6.

 

A oriente di Casa Capograsso correva una strettola che verso settentrione raggiungeva una strada che doveva condurre alla chiesa di Sant’Andrea de Episcopio Pestano. Nel gennaio 1106 troviamo che tali strettola e strada costituiscono i confini occidentale e settentrionale di una terra con case in muratura che si dividono Giovanni e Landolfo, chierici e medici, figli di Landolfo del conte Giovanni, di cui gli altri confini sono la strada che conduce dietro l’archiepiscopio, a oriente, e beni del giudice Ademario, a meridione; nel febbraio 1160 nella stessa area [5] troviamo una terra con casa in muratura che il protogiudice Pietro, figlio di Amato, lega testamentariamente a favore dell’arcivescovo e dell’abate della Santissima Trinità di Cava, di cui il confine orientale è costituito dalla strada che andando verso settentrione conduce dietro le absidi dell’archiepiscopio; nel dicembre 1262 la stessa strada che conduce dietro le absidi dell’archiepiscopio costituisce il confine orientale di una terra con casa in muratura che i coniugi Salerno de Salerna, figlio di Matteo, e Truda, figlia di Giovanni de Fussiano, vendono a Pietro de Giaquinto, figlio di Tommaso, di cui gli altri confini sono beni del monastero di San Liberatore a meridione, la strettola che abbiamo visto a occidente e altri beni dei venditori e di altri privati a settentrione9.

 

9Archivio della Badia di Cava, pergamene XVIII 1, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1105; XXX 33, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1159. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata (si veda la nota 19 al capitolo 3 della Premessa); edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 303-305.

A meridione della chiesa parrocchiale il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva osservare Casa Mazza [6], la cui area compare nelle fonti giunte fino a noi nel marzo 1274, quando Matteo detto Cacizza, figlio di Angelo, procuratore del monastero di Santo Spirito fuori le mura, in cambio di altri beni, cede al regio notaio Filippo Mazza, figlio del giudice Stefano, una terra con case in muratura, scale ugualmente fabbricate, archi e altri edifici sita in Orto Magno, vicino alla chiesa di San Gregorio, di cui due botteghe già possedeva lo stesso notaio Filippo, e una terra con bagno diruto; la prima confinante a settentrione con la strada che la divide dalla detta chiesa di San Gregorio e che andando verso oriente conduce alla porta anticamente detta di Elino, a oriente con beni di altri, a meridione con una strettola che la divide da case in muratura del detto giudice Stefano e con una strada posta sotto degli archi, a occidente con una corte e con beni dell’archiepiscopio; la seconda posta a occidente delle dette case del giudice Stefano Mazza10. Queste case, certamente riattate nel corso del tempo, con tre atti, rispettivamente del 28 aprile 1534, del 18 luglio 1584 e del 6 febbraio 1585, entreranno nelle disponibilità dei signori Pinto e andranno a costituire, nella ricostruzione generale che si farà delle loro case, la parte orientale del palazzo omonimo che tuttora osserviamo11.

 

 

 

 

 

10Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 335. Questo documento riporta una genealogia del notaio Filippo Mazza dalla quale risulta che il padre, il giudice Stefano, era figlio di Roberto, figlio di Pietro, figlio di Ruggero, figlio di Guglielmo, figlio di Guaiferio, figlio del conte Donadeo.

11Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4849, 1533-1534, f. non numerato; 4880, 1583-1584, f. 686t; 4881, 1584-1585, f. 474.

Al marzo 990, a meridione dell’archiepiscopio, a occidente dell’odierno vicolo San Bonosio [7], in Orto Magno, è documentata una terra vuota confinante da tre parti con beni degli eredi di Pandone e a oriente con la strada che conduce alle case e alla corte del conte Alfano che Giaquinto e Orso, figli di Giovanni, e il loro zio Maraldo, figlio di Pietro, scambiano con altra terra vuota di Giovanni, figlio di Campulo, posta inter murum et muricinum12.

Al limite settentrionale del territorio parrocchiale di San Gregorio, nell’isolato a occidente della via Duomo, a monte del vicolo che dal secondo decennio del Seicento sarà detto della Cassa Vecchia, il nostro viandante poteva osservare la chiesa di San Fortunato de Stellatis [8]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel maggio 1242 quale riferimento topografico nell’ubicazione di un immobile sito fra l’archiepiscopio e la strada anticamente del mercato; nel gennaio 1558 risulterà di patronato della famiglia Capograsso; il 15 gennaio 1616, essendo sita in un cortile definito luogo non decente, ne sarà ordinata la sconsacrazione; sarà citata per l’ultima volta il 24 gennaio 162613. Le case alle quali la chiesa era annessa, pervenute anch’esse ai Capograsso, saranno locate come residenza arcivescovile durante uno dei numerosi interventi sulle strutture dell’archiepiscopio e quale sede della regia udienza, prima, e della percettoria di Principato Citra, poi (da cui la denominazione Cassa Vecchia); alla metà del Settecento saranno ancora in possesso della famiglia nella persona dell’abate Matteo14.

 

 

 

12Archivio della Badia di Cava, pergamena IV 46; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 295-296.

 

 

 

 

13Archivio della Badia di Cava, pergamena LI 62; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 208-210. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

14Archivio della Badia di Cava, pergamena XCV 3, 17 maggio 1549. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4854, testamenti, f. 125, 26 ottobre 1557; 4907, 1601-1602, f. 661t, 18 agosto 1602. Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 469, particella 2.

La strada che abbiamo visto citata nel 1242 come quella anticamente del mercato, l’attuale via delle Botteghelle, nel marzo 1283 la ritroviamo citata allo stesso modo in relazione a una terra con casa fabbricata della quale la badia di Cava concede per diciannove anni una bottega a Matteo detto de Balneo, figlio di Andrea; tale immobile verso meridione confina con la strada che, andando verso oriente, conduce alla porta anticamente detta di Elino [9]15.

All’incrocio della via Duomo con la via dei Mercanti, verso occidente, lungo il lato meridionale di quest’ultima [10], il nostro viandante osservava un complesso immobiliare sorto per evoluzione e ampliamento delle case che erano state edificate da Giovanni detto Stoccapiro su una parte della striscia di terreno di proprietà del monastero di San Giorgio che si interponeva fra la strada e la clausura dello stesso, al quale, nel settembre 1171, la sua vedova Gaita e i figli Nicola e Matteo le avevano cedute. Presumibilmente a queste case contigue, quindi costituenti altra parte del futuro complesso, erano le due terre vuote site in platea Maiore, in ruga Bambacariorum, confinanti a settentrione con la strada e dagli altri lati con beni del monastero, concesse nell’ottobre 1202 per diciannove anni, con decorrenza dal gennaio successivo, al coltellinaio Aminada, figlio di Domenico; nell’ottobre 1219, avendo egli edificato con suoi materiali due botteghe in muratura, il possesso gli é prorogato per altri diciannove anni dalla scadenza della prima concessione. Questo complesso immobiliare sarà ancora fra le proprietà del monastero alla metà del Settecento16.

   

 

15Archivio della Badia di Cava, pergamena LVIII 22; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, pp. 5-6.

 

 

 

 

 

 

 

16Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 16; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 37-39. Archivio di Stato di Salerno, pergamena I 5; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 89-92. Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 471, particella 6.

A meridione di queste case si estendeva, come avviene tuttora, certamente difforme da come lo vediamo, anche se di ingombro pressoché analogo, lo stesso monastero di San Giorgio [11]. In una lite del giugno 1073 sono esibiti dei documenti fra cui uno, databile fra il settembre 718 e l’agosto 719, con il quale Romoaldo II, summus dux gentis langobardorum, concede case e altri cespiti alla badessa Agata; esso costituisce la più antica citazione del monastero giunta fino a noi17.

L’area di fronte al monastero, li Casilli [12], era caratterizzata dalla presenza della chiesa di Santa Maria de Sicone. Essa compare nelle fonti nell’aprile 1135 quale riferimento topografico nell’ubicazione di una terra con casa lignea e di altra terra vuota con pareti e pilastri, fra di loro contigue, che Sergio, figlio di Pietro che fu figlio del conte Aliberto, cede a Pietro, figlio di Landolfo detto Scorsenella che fu figlio del conte Pietro; nell’agosto 1182 Marotta, vedova di Pietro detto de Baia, vende alla badia di Cava una terra con casa in muratura sita non molto lontano da essa; nel luglio 1240 Bonaventura, figlia di Bonsignore Pisano, dona alla frateria dell’archiepiscopio il secondo solaio di una casa in muratura posta a meridione della chiesa di San Vito de Scutis, vicino al monastero di San Giorgio e davanti alla chiesa di Santa Maria de Sicone, vicino alla strada che andando verso settentrione si congiunge con altra strada che conduce alla porta anticamente detta di Elino; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Angelo; il 21 aprile 1322 Bartolomeo detto Trentacapilli, figlio di Giovanni, vende a Villana, vedova di Saraceno detto Melione, una terra con casa fabbricata, con due solai, ai Casilli, vicino alla chiesa di Santa Maria de Sicone, confinante a oriente con la via; del 7 novembre 1351 è la sua ultima citazione, nell’atto con il quale Margarella, vedova di Matteo Quaranta, dona al monastero di Santa Maria Maddalena una terra con casa in muratura posta al suo settentrione18.

   

 

17Archivio di Stato di Salerno, pergamena A 6, datazione ab incarnatione di tipo salernitano giugno 1074; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 46-56. Per la datazione dell’inserto citato si veda la nota 1 al capitolo 2 della I parte.

 

 

18Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIII 94; XXXVIII 86. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata (si veda la nota 19 al capitolo 3 della Premessa); edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 188-189; in tale edizione si nota la mancanza di alcune parole che, per logica, essendo seguite da altra strada, sono state ricostruite in vicino alla strada; non essendo reperibile la pergamena, è impossibile stabilire se la lacuna appartenesse al documento o, come capita spesso nel Codice Diplomatico Salernitano del, appartenga all’edizione, così come e impossibile stabilire se l’avverbio usato, ricostruito in vicino, fosse effettivamente prope o iuxta. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6532. Archivio della Badia di Cava, pergamene LXVI 103; LXXII 93.

La chiesa di San Vito de Scutis [13], che nel luglio 1240 abbiamo visto citare in relazione a Santa Maria de Sicone, osservabile dal nostro viandante, compare nelle fonti giunte fino a noi nel maggio 1058, quando Gisulfo II, a richiesta dell’arcivescovo Alfano I e per intercessione della madre Gemma, ne conferma il possesso all’archiepiscopio; il 12 ottobre 1067 papa Alessandro II, nel confermare alla Chiesa salernitana privilegi e possedimenti, fra cui questa chiesa, precisa che essa era stata donata all’archiepiscopio da Landemario, figlio di Ademario; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Napolitano; trovata già sconcia nel corso della visita pastorale del 22 gennaio 1567, se ne ordinerà la sconsacrazione il 30 settembre 1577 con la disposizione di trasferirne il beneficio nella cattedrale, ove, dietro la sedia pontificale, vi era una figura dello stesso santo; il successivo 15 ottobre i nobili del sedile di Portanova acquisteranno l’immobile della chiesa sconsacrata, sotto casa Grillo, confinante con beni del signor Michele Pinto, con vie pubbliche e altri confini, avendo intenzione di trasferirvi la loro sede; in realtà, il progetto non avrà seguito, poiché il luogo della chiesa diruta di San Vito de Scutis sarà ancora visitato nel 1616, nel 1618, nel 162619. Nei pressi della chiesa sono documentati una sua terra con casa in muratura, confinante con una corte e altri suoi beni, che nel luglio 1070 è concessa per ventisei anni a Leo, figlio di Gregorio; una terra con casa in muratura, confinante a meridione e occidente con strade, che il 13 settembre 1315 il medico Pandolfo de Protoiudice, figlio del signor milite Nicola, vende a Matteo de Protoiudice, figlio del giudice Biscardo; un casaleno diruto che il 23 aprile 1379 il monastero di San Giorgio vende all’abate Bernardo Pappacarbone, confinante con la via pubblica, con altri beni del compratore, con beni del giudice Pietro Gennareno, con altri beni del monastero; un suolo sul quale era stato costruito un vano con un solaio e un terraneo piccolo che il 21 aprile 1407 il monastero di San Giorgio cede in enfiteusi ad Antonello Scarzoleario e ai figli Pacilio e Angelo loro vita durante, confinante con beni del signor Antonio de Riccardo, con beni del notaio Francesco Gennareno, con via vicinale e altri confini20.

 

 

 

 

 

 

 

 

19Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 16; edita in G. Paesano, Memorie cit., I, 1846, pp. 115-117. Archivio di Stato di Salerno, pergamena IV; edita in Pergamene Salernitane cit., pp. 33-36. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6541. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4869, 1577-1578, f. 38.

20Archivio di Stato di Salerno, pergamena V, datazione ab incarnatione di tipo salernitano luglio 1071; edita in Pergamene Salernitane cit., pp. 37-39; in tale edizione al documento viene attribuita la data del luglio 1071, che effettivamente vi si legge, senza rilevare che si tratta di una datazione ab incarnatione e senza spiegazioni circa l’incongruenza con gli altri elementi: ventinovesimo anno di Gisulfo II, che andava dal marzo 1070 al febbraio 1071, per cui il luglio era 1070, e ottava indizione, che andava dal settembre 1069 all’agosto 1070, per cui il luglio era ancora 1070. Archivio della Badia di Montevergine, pergamena CV 67; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, pp. 87-88. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 C 35; 1 C 41; edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, rispettivamente, pp. 116-119; pp. 138-145.

Gli immobili edificati sull’area a meridione dei Casilli [14], estesa anche su parte dell’attuale piazza Sant’Agostino [15] e attraversata in senso longitudinale dal muro prelongobardo della città che, proseguendo verso occidente, costituiva anche il limite meridionale della clausura di San Giorgio, rappresentarono un importante cespite nell’economia del monastero fin dall’epoca della sua comparsa nelle fonti. Il citato documento del giugno 1073, contenente l’atto di concessione di Romoaldo II databile fra il settembre 718 e l’agosto 719, contiene altri otto inserti distribuiti fra il maggio 955 e il maggio 1036 tutti concernenti le vicende di parte di questi immobili, poiché il documento in cui sono inseriti è relativo a una lite vertente fra il monastero, rappresentato dal preposto Giovanni, e il presbitero Roffredo Mazzoti, figlio di Pietro, per il possesso di diritti su un andito che tali beni separava da una terra con casa in parte lignea e in parte in muratura che lo stesso Roffredo, nel marzo 1073, aveva acquistato da Maio, figlio del conte Landone. Con la concessione di Romoaldo II entravano in possesso del monastero beni che erano stati di Anastasio, consistenti in una casa con una corticella e un canneto posto al loro meridione, che all’epoca erano suburbani, quindi posti a meridione dal muro prelongobardo, poiché, chiaramente, siamo in epoca anteriore all’edificazione del muricino; nel maggio 955 sono riconosciuti i diritti del monastero su beni, che non sono descritti, che erano stati di Alais, figlio del principe Arechi; nel luglio 971 si tratta di una concessione a favore di Giordano, figlio di Natale, di un terreno circondato da altri beni del monastero, posto a oriente di un pozzo; nel settembre 972 si tratta di altra concessione a favore di Teodenanda, vedova di Giovanni, di una terra con casa confinante a occidente con la strada che conduce davanti alla porta del monastero; nel gennaio 991 si aggiungono altre terre e case, con licenza di costruire sulla strada, ma ad altezza tale che sia agevole passarvi, per concessione dei principi Giovanni e Guaimario; nel gennaio 1009 si concede a Giovanni e Leone, figli dell’amalfitano Sergio, una terra vuota contigua al pozzo verso occidente, ad un andito verso settentrione e ad altri beni del monastero verso oriente e meridione; nel giugno 1010 si tratta di una lite fra il monastero e Imetango, figlio di Malone, e la madre Senda per il possesso di un terreno che non è descritto; nell’aprile 1025 si tratta di altra lite fra il monastero e i conti Landone e Landolfo, figli del detto Malone, che usurpando una terra e un andito, nella prima avevano infisso pali e piantato alberi, sul secondo avevano costruito un mignano e altri edifici; nel maggio 1036 si concede per venti anni a Muzza, vedova dell’amalfitano Leone, e al figlio Regimundo una terra posta a oriente del pozzo, alla quale si giunge percorrendo un andito, confinante da ogni parte con altri beni del monastero, sulla quale essi avevano edificato una casa con proprio legname. Nella stessa area sono documentate una casa in muratura confinante a settentrione con un andito, a oriente e occidente con altri beni del monastero, a meridione con il muro antico della città, di cui, nel giugno 1255, è concesso per diciannove anni un terraneo all’ebreo Abramo detto de Cali, figlio di Salomone, e una terra, anche del monastero, confinante a occidente con un andito, a meridione con il muro antico della città e a settentrione con beni di altri, sulla quale Gregorio detto Sordo, figlio di Matteo, aveva costruito una casa in muratura che nell’aprile 1286 vende a Guidone, figlio di Guidone21. Con atto del 3 settembre 1469, a seguito di asta espletata il 24 agosto precedente, le monache concedono in enfiteusi perpetua al notaio Salvatore Gaulino e al fratello Gabriele i due piani superiori di una casa sita nei pressi del bagno diruto del monastero, a partire dalla morte di Antonello Sardella, al momento occupante l’immobile, e altri vani terranei e superiori, in uno dei quali è posto lo stesso bagno, in frontespizio del monastero, confinanti con altri beni dello stesso già detenuti dai fratelli Gaulino; il 7 settembre 1484 Gabriele Gaulino e la moglie Candidella Macinello vendono al notaio Salvatore, rispettivamente fratello e cognato, la parte di questi beni e di altri beni patrimoniali loro toccata nella divisione fatta con lo stesso Salvatore; tali beni saranno ancora in possesso della famiglia agli anni venti del Cinquecento22.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

21Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 36; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 95-97. Archivio di Stato di Salerno, pergamena I 12; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 121-123.

22Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 D 6; 1 D 13; edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, rispettivamente, pp. 211-219; pp. 141-154. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4846, 1521-1522, f. 222, 5 aprile 1522; 4846, 1523-1524, f. 57, 18 novembre 1523; 4847, 1526-1526, f. 46t, 9 ottobre 1525.

Agli anni novanta del Quattrocento, non esistendo il tratto di strada che oggi corre verso il mare lungo il lato occidentale della chiesa di Sant’Agostino, la futura via Duomo si arrestava in uno spiazzo [16] di cui la metà occidentale sopravvive all’imbocco del vicolo Giudaica, mentre l’altra, a  meridione dei beni sopra considerati, davanti alla stessa chiesa di Sant’Agostino, è divenuta irrilevante essendo scomparsa la strada verso oriente di cui costituiva l’imbocco. Proprio allo spirare del Medioevo, il 24 agosto 1492, Marino di Santo Mango, regio portolano di Salerno, emette una sentenza con la quale stabilisce che tale spiazzo compete al monastero di San Giorgio, con l’esclusione del passaggio viario; su di esso le monache eserciteranno diritti ancora sul finire dell’età moderna esigendo fitti dai venditori e dalle venditrici di frutta, verdura, vasi di creta e altro che vi pongono le loro marcanzie23.

L’area sulla quale sarà edificato il convento di Sant’Agostino [17] compare nelle fonti giunte fino a noi con un documento dell’ottobre 1125, con il quale, in relazione ad una lite vertente fra la badia della Santissima Trinità di Cava, rappresentata da Pietro detto Boso, e gli ebrei Buonomo e Bulforaccio per il possesso di una terra con casa posta fra il muro e il muricino, in Giudaica, sono esibiti cinque documenti, due dei quali contenenti, rispettivamente, uno e due inserti. Dagli atti prodotti per parte della badia risulta che, con due donazioni dell’aprile e del maggio 1088, Guaimario, figlio di Guaimario che fu figlio di Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III, aveva trasferito alla moglie Gaitelgrima un quarto dei suoi beni che ella, nell’ottobre 1124, aveva donato alla badia; intanto, nel febbraio 1123, Mabilia, moglie del normanno Simone detto de Tibilla e figlia di Guaimario, figlio di Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III, quindi cognata di Gaitelgrima, aveva dichiarato che la madre Sichelgarda aveva donato alla stessa badia un quarto di quanto a lei spettante dei beni stabili del marito. Dagli atti prodotti da Buonomo e Bulforaccio risulta che nel maggio 1116 Raidolfo, viceconte nel castello di Giffoni per conto di Roberto di Eboli, aveva ceduto al genero Giovanni detto Lubru, figlio del greco Vivo, una terra con casa in muratura che aveva ricevuto da Guaimario, figlio di Guaimario che fu figlio di Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III, posta inter murum et muricinum, confinante a settentrione con la strada, a oriente con beni di altri, a meridione con lantemurale che la separava dalla chiesa di Sant’Angelo una volta appartenente allo stesso principe Guaimario, a occidente con il capo di un andito e con beni che erano stati del detto principe; quindi, nel maggio 1121, Giovanni aveva venduto tale terra con casa ad un gruppo di ebrei, fra i quali Buonomo, figlio di Samuele, e Bulforaccio, figlio di Zaccaria, che vi avevano istituito una scuola24. Nel giugno 1165, alla presenza dell’arcivescovo Romualdo II e dell’abate Marino di Cava, si procede alla divisione di terre con case parte interne alla città, in Giudaica, fra la strada e il muricino, parte esterne, fra il muricino e il lido, ove insiste un fondaco che il mare ha nella maggior parte diruto, che l’archiepiscopio e la badia possiedono in comune, in ragione, sulle dodici once costituenti l’intera proprietà, di sei once e tre quarti dall’archiepiscopio e di cinque once e un quarto dalla badia; dalla descrizione delle parti che se ne fanno25, si evince che questi beni erano posti a occidente della chiesa di Sant’Angelo detta de Mare, che si raggiungeva percorrendo un andito che dalla strada conduceva verso il lido attraversando lantemurale, e della terra con casa che abbiamo visto contesa fra la badia e il gruppo di ebrei, che della detta chiesa era al settentrione; altro elemento che la descrizione dei luoghi ci fornisce è lo spessore del muricino, che risulta compreso fra i tre piedi e mezzo e i cinque e mezzo, corrispondenti circa a un metro e venti centimetri e a un metro e novanta26. Dopo la divisione con l’archiepiscopio, tre atti datati ottobre 1171, gennaio 1177 e agosto 1178 documentano concessioni che la badia effettua delle parti ad essa toccate di questi beni27.

 

 

23Archivio di Stato di Salerno, pergamena M 5; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 263-266; Protocolli notarili, 5425, 1789, f. 108, 21 agosto 1789. Il secondo documento riporta una pianta dello spiazzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

24Archivio della Badia di Cava, pergamena XXII 4.

25Si veda la tavola XII.

26Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXI 118.

27Archivio della Badia di Cava, pergamene XXXIII 115; XXXV 49, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1176; XXXVI 30.

Il 16 aprile 1309, nel coro del duomo, si riuniscono i canonici, l’arcivescovo eletto Giovanni de Ruggiero e i religiosi agostiniani del convento costruendo in marittima e ruga Nova allo scopo di redigere il documento ufficiale relativo alla cessione gratuita, da parte del Capitolo della cattedrale a favore di quei religiosi, del suolo vuoto ove anticamente sorgeva la chiesa di Sant’Angelo de Mare, confinante con il muro meridionale della città, affinché possano edificare il luogo e la chiesa in onore di sant’Agostino; in realtà tale cessione era già avvenuta solennemente da qualche tempo, con una processione e l’apposizione di una epigrafe, poiché il 3 marzo precedente i padri della curia provincializia degli agostiniani avevano ringraziato di tanto28. Naturalmente, perché l’edificazione del convento e della chiesa fosse possibile, oltre ad altri terreni interni ed esterni al muricino, quei religiosi dovevano ricevere, o forse già possedevano, anche l’area che abbiamo visto contesa fra la badia di Cava e il gruppo di ebrei e almeno parte dei terreni aggiudicati all’archiepiscopio nella divisione con la stessa badia, poiché questi fra il sito di Sant’Angelo de Mare e la strada della Giudaica, la ruga Nova, si frapponevano; ma, molto probabilmente, il convento sorgerà sull’intera area che era stata oggetto della divisione fra l’archiepiscopio e la badia, forse intanto pervenuta interamente nelle disponibilità degli arcivescovi salernitani. L’edificazione del complesso agostiniano con l’utilizzazione di tutta l’ampiezza disponibile fra la strada della Giudaica e quella che correva lungo il lido porterà il fronte meridionale dell’edificio a protendersi oltre lantemurale, divenendo di fatto, in quest’area, il limite della città verso il mare29.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

28Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 575-583. Giovanni de Ruggiero, eletto arcivescovo dal Capitolo della cattedrale, non sarà confermato dalla Santa Sede, poiché il 12 giugno 1310 Clemente V, avocando a se la provvista della diocesi, trasferisce a Salerno, dalla sede metropolitana di Lunden, in Danimarca, l’agostiniano Isarno Morlane; egli non raggiungerà mai la diocesi: infatti muore ad Avignone qualche mese dopo la nomina.

29Una ricostruzione ideale dell’area ove sorgerà il complesso agostiniano si vede alla tavola XII.

 

  

 

Come abbiamo visto, agli inizi del Trecento la denominazione ruga Nova aveva sostituito quella di Giudaica attribuita all’antica via Carraria fra il muro e il muricino. Lungo questa strada, in una posizione non definibile, troviamo un immobile consistente in una taverna con camere coperte a lamia, due corticelle, altri edifici e un terreno vuoto contiguo che Angelo de Protogiudice, il 12 settembre 1384, dona al convento di Sant’Agostino rappresentato dal religioso Antonio de Sant’Elpidio; il 13 aprile 1402 le monache di San Giorgio rivendicano il possesso del complesso, di cui si ribadisce il sito in ruga Nova, ove anticamente era la Giudaica, con la precisazione che esso era appartenuto al notaio Giovanni Mazza e che il de Protogiudice lo possedeva soltanto per concessione in enfiteusi perpetua da parte del monastero dell’8 ottobre 1367; il 21 aprile 1404 abbiamo la sentenza che riconosce i diritti delle religiose nella causa che le opponeva ai padri agostiniani30.

  30Archivio di Stato di Salerno, pergamena I 11; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 131-138. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 C 39; 1 C 40; edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, rispettivamente, pp. 127-130; pp. 134-138.

  

 

 

 

 

Santa Lucia de Giudaica

 

Lungo il muro meridionale della città, il confine fra i territori parrocchiali di San Gregorio e di Santa Lucia de Giudaica si posizionava sullo sbocco della fogna cittadina, attualmente coperta dal tratto meridionale della via Duomo, fra l’area pervenuta agli agostiniani, al limite della quale, a occidente della chiesa, essi avevano edificato una bottega, e un’altra bottega, anch’essa sulla strada attuale, dell’oratorio di Sant’Antonio da Padova detto dei Nobili31. Questo luogo di culto, ancorché compaia nelle fonti giunte fino a noi soltanto il 30 gennaio 1512, è da presumersi esistente agli anni novanta del Quattrocento, quindi osservabile dal nostro viandante, ma non nel sito ove oggi lo vediamo, bensì immediatamente adiacente verso occidente alla sua bottega, con prospetto verso settentrione sulla parte del largo che abbiamo visto aggiudicare al monastero di San Giorgio che costituisce imbocco al vicolo Giudaica, avendo a occidente un’altra sua bottega [18]; soltanto nel 1842, aperta la strada, sarà ricostruito, con il palazzo annesso, nel sito ove tuttora lo osserviamo32.

 

31Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4864, 1560-1561, f. 352, 4 luglio 1561; 4880, 1583-1584, f. 640t, 25 giugno 1584.

 

 

All’estremità occidentale della ruga Nova, prospettante sul largo del Bordello, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva osservare, come facciamo tuttora, la chiesa parrocchiale di Santa Lucia de Giudaica [19]. Essa compare con tale titolo soltanto nelle relazioni delle visite pastorali, la prima del 4 giugno 1515, ma è più antica di almeno quattro secoli e mezzo, essendo citata come Santa Maria e con gli appellativi de Mare, de Ruganova, de Giudaica, fin dal marzo 1072; in tale data Costantino, figlio del monaco Giovanni Ioncatella, retrocede al padre, sua vita durante, alcuni immobili e la terza parte di quanto a lui pertinente della chiesa costruita inter muro et muricino ad honorem sancte Marie que etiam de Mare dicitur. Nel giugno 1186 Giovanni, figlio di Petrone de Bivo, cede alla badia di Cava una delle dodici once del patronato della chiesa, del quale la stessa badia già possiede parte; il documento precisa che la chiesa è sita lungo la via della Giudaica. Nel febbraio 1188 analoga donazione compie Pietro Curiale, figlio di Giovanni33. Un documento del settembre 1279 conferma il sito di Santa Maria de Mare lungo la via che ducit per ipsam Iudaycam; un altro, del 13 gennaio 1305, confermando quando già conosciamo circa il cambio di denominazione di questa strada, ci dice che la chiesa è sita lungo la ruga Nova; dell’ottobre 1297 è la citazione come sancte Marie de ruga Nova que de Mare dicitur34. L’anno precedente, in ottobre, abate di Santa Maria de Mare risultava il presbitero Giacomo de Abundancia, che agiva per conto del monastero di San Giorgio di cui era economo. Lo ritroveremo nel 1309 presbitero della stessa chiesa, citata con la nuova denominazione di Santa Maria de Ruganova; e ancora il 5 novembre 1318. Ma nel settembre 1296 lo stesso Giacomo, economo del monastero di San Giorgio, era detto abate di Santa Maria de Giudaica, titolo già comparso nel novembre 1216 con il chierico e abate Giacomo Cavaselice e nel settembre 1294 in relazione all’ubicazione di una casa sita in ruga Nova35.

Abbiamo, dunque, una chiesa detta prima de Mare, poi de Iudaica o de Ruganova, a seconda che ci si riferisca alla via lungo la quale è sita con la denominazione classica o con quella di recente introduzione, ubicata in una parte fortemente caratterizzata della strada, come risulta da un documento del 31 dicembre 1336, che tratta di una casa con taverna posta in prostibulo istius civitatis prope ecclesiam sancte Marie de Ruganova, caratterizzazione che ritroveremo a proposito del sito di Santa Lucia de Giudaica. Il 7 aprile 1513 la badessa di San Giorgio ratificherà la vendita fatta il 22 settembre 1512 di un terraneo privo di copertura su cui gravava un censo a favore del monastero; tale terraneo risulterà sito in plebe di Santa Maria de Giudaica, lungo la via dei Macelli, confinante con le mura claustrali dello stesso monastero, ossia in un’area che ritroveremo in plebe di Santa Lucia de Giudaica. Poco più di due anni dopo, il 4 giugno 1515, come sopra accennato, la chiesa sarà sottoposta a visita pastorale e sarà detta Santa Lucia. Il 16 marzo 1519 un immobile risulterà sito in plebe sancte Marie seu sancte Lucie de Iudaica. Nella relazione della visita pastorale dell’11 aprile 1573 sarà citata come ecclesiam parochialem sancte Marie alias sancta Lucia de iudaica. Il 25 maggio 1575, visitando la Ecclesiam parochialem sancte Lucie de iudaica, si rileverà che essa constructa est in lupanario et prope macellum, il che ci riporta a quanto rilevato nel 1336, quando la si citava come Santa Maria de Ruganova, e nel 1513, quando era detta Santa Maria de Giudaica36.

 

32Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4836, 1511-1512, f. 73t; 5425, 1789, f. 108, pianta, particolare GHIK; Intendenza, 1407, fascicolo 16. Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 479, particelle 6 e 7.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

33Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. Archivio della Badia di Cava, pergamena XII 101, datazione ab incarnatione di tipo salernitano marzo 1073; XLI 1; XLI 38, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1187; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 360-365.

34Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 C 8; 1 C 19:edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, rispettivamente, pp. 21-24; pp. 53-55. Archivio della Badia di Cava, pergamena LXII 76, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1304.

35Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 C 17; 1 C 18; edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, rispettivamente, pp. 47-50; pp. 50-52. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6531. Archivio di Stato di Napoli, pergamena distrutta; edita in Codice Diplomatico Amalfitano cit., II, p. 245. Archivio della Badia di Cava, pergamene XLVI 101; LX 29; la prima edita in Codice Diplomatica Salernitano del sec. XIII, I, pp. 109-110. Santa Maria de la judeca è fra i luoghi di culto che compaiono nel falso datato maggio 1087 con il quale il duca Ruggiero ne dona i patronati alla badia di Cava (Archivio della Badia di Cava, pergamena C 12), per il quale si veda la nota 4 a questo capitolo; da notarsi luso intempestivo del titolo, che comparirà in documenti autentici soltanto nel novembre 1216.

 

 

 

 

36Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 179. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 D 20; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, p 283. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4837, 1518-1519, f. 92. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

La fascia di tessuto urbano limitata a meridione dalla ruga Nova e a settentrione dal muro antico della città, che costituiva anche il limite meridionale della clausura di San Giorgio [20], era costituita da beni dello stesso monastero le cui vicende troviamo in parte documentate in una serie di dieci documenti distribuiti fra il 1180 e il 1371. Sei di essi37 sono relativi a concessioni per diciannove anni: di una terra con casa in muratura, dell’aprile 1180, a favore di Mosè, sacerdote ebreo, figlio di Melo; di una terra con pareti dirute, del novembre 1207, a favore di Stantio, figlio di Stantio; di una terra vuota, del luglio 1240, a favore di Scimele, sacerdote ebreo, figlio del sacerdote Gioele, e del fratello Sismario, nella quale essi, con loro materiali, avevano costruito una casa in muratura; di due terreni vuoti, dell’agosto 1272, a favore dell’ebreo Gaudio detto Gallitello, figlio di Giuseppe, e dei suoi fratelli Leone e Vitale, nei quali essi avevano costruito case in muratura; di una terra, del gennaio 1293, a favore di Matteo detto Stoccatortora, figlio di Giovanni, nella quale anch’egli, con suoi materiali, aveva costruito una casa in muratura. Gli altri quattro38 narrano incidentalmente di una famiglia ebrea convertita al cristianesimo: nell’aprile 1285 è concessa per ventinove anni all’ebreo Gaugello Bibulo, figlio di Mosè, una terra nella quale egli, con suoi materiali, aveva edificato una casa in muratura; nell’ottobre 1296 è concessa in enfiteusi perpetua al cristiano Matteo Bibulo, figlio dell’ebreo Mosè, una terra confinante con altri suoi beni, nella quale anch’egli, con suoi materiali, aveva edificato una casa in muratura; il 10 giugno 1366 è rinnovata al neofita Nicola Bibulo, figlio di Matteo, la concessione perpetua sulla terra nella quale lo stesso Matteo, che si ricorda essere stato figlio di Mosè, aveva edificato una casa con suoi materiali e su un’altra terra nella quale il fu Gaugello Bibulo, altro figlio di Mosè, anche aveva edificato una casa con suoi materiali; il 17 aprile 1371 si conferma a Liseo e a Masarello Bibulo, figli di Nicola, il possesso di queste terre con case, site alla ruga Nova, confinanti a settentrione con la clausura del monastero.

   

 

37Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 B 18; 1 B 20: 1 B 31; 1 B 43; 1 B 44; 1 C 11, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1292; edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., rispettivamente, I, pp. 50-52; I, pp. 54-56; I, pp. 77-79; II, pp. 10-13; II, pp. 13-15; II, pp. 29-31.

38Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamene 1 C 10; 1 C 18; 1 C 30; 1 C 32; edite in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, rispettivamente, pp. 26-28; pp. 50-52; 9o-93; 101-109.  

 

 

 

 

L’area a settentrione della chiesa parrocchiale [21] fu caratterizzata dalla presenza di immobili della badia di Cava e della dipendente Santa Maria de Domno di cui troviamo notizie in una serie di otto documenti39: nel settembre 1187 è concesso per diciannove anni al calzolaio Matteo detto Bossoeda, figlio di Pietro, il primo solaio di una casa in muratura sita vicino Santa Maria de Mare, confinante a occidente con una strada; nel giugno 1196 è concessa allo stesso Matteo, anche per diciannove anni, parte del primo solaio di altra casa in muratura, confinante a occidente con la strada che conduce al mare e a meridione con altra strada che, verso oriente, lambendo la chiesa di Santa Maria de Mare, conduce per la Giudaica; nel febbraio 1256 sono concesse in enfiteusi perpetua a Mitiliano de Bene, figlio di Pietro, due terre con case in muratura site in Corte Dominica, dove anticamente era il vecchio tarsinale, vicino la chiesa di Santa Maria de Mare, confinanti con vie a occidente e meridione e con altri beni della badia a settentrione; nel marzo 1259 il detto Mitiliano, che si precisa essere un milite di Cava, vende a Nicola Castellomata, figlio del signor Guglielmo, le concessioni enfiteutiche di cui sopra; nell’aprile 1269 la badia, rappresentata dal priore Dompnando, cede a Lando, figlio di Giovanni detto Pisano, che agisce per conto della moglie Margherita e della cognata Giuliana, una terra con casa sita in Corte Dominica, a settentrione della chiesa di Santa Maria de Mare, confinante a occidente con la strada che attraversa la stessa corte e a meridione con beni del monastero di San Leonardo; nel maggio 1282 il maniscalco Ruggero, figlio di Filippo, vende a Deomiladedo, figlio di Pasquale de Constantino, una bottega, nella quale si esercita l’arte del fabbro, facente parte di una casa in muratura di cui la parte residua appartiene alla badia di Cava, in Corte Dominica, a settentrione della chiesa di Santa Maria de Mare, confinante con altri beni della stessa badia e prospettante, verso occidente, su una strada che verso meridione si congiunge con altra strada; nel novembre 1283 si concede per dieci anni al fabbro Pietro de Freda, figlio di Bartolomeo, una bottega in muratura prospettante sulla stessa strada; nell’agosto 1294 si fitta per un solo anno all’oste Pietro de Vitale, figlio di Matteo, una terra con casa in muratura che dovrebbe essere una di quelle già concesse in enfiteusi perpetua a Mitiliano de Bene e da questi cedute a Nicola Castellomata, in quanto uguale è il sito, ove fu il vecchio tarsinale e vicino Santa Maria de Mare, e la confinazione con strade verso occidente e meridione.

 

 

39Archivio della Badia di Cava, pergamene XLI 73; XLIV 43; LIII 30, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1255; LIV 44; LV 114; LVIII 9; LVIII 33; LX 41; la terza, la quarta e la settima edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 285-286; I, pp. 290-291; III, pp. 19-20; in tale edizione mancano parti del testo, proprio ove i documenti si soffermano a descrivere i confini degli immobili, della LIV 44 e della LVIII 33.

 

 

 

Questi immobili, ancorché siano, con l’esclusione delle prime due citazioni, detti in Corte Dominica, essendo ubicati vicino Santa Maria de Mare, con il prospetto meridionale lungo la strada che ne sfiorava il lato settentrionale, e nel luogo ove fu il vecchio tarsinale, erano posti, in realtà, a cavallo del tracciato del muro prelongobardo che nel XII secolo, nell’area, doveva già essere stato tagliato in più parti con l’apertura di passaggi verso l’Inter Murum et Muricinum, di cui la strada sulla quale questi stessi immobili prospettavano verso occidente costituisce un esempio, o inglobato nelle costruzioni dell’urbanizzazione che aveva investito la corte del complesso palaziale di Arechi dopo l’edificazione del castello di Terracena e la conseguente dismissione del vecchio palazzo. I limiti orientale e settentrionale della Corte Dominica [delimitazione azzurra], dato per scontato che quelli occidentale e meridionale fossero costituiti, rispettivamente, dal fronte lungo la via che conduceva alla porta di Mare [22] e dal muro della città antica, sono documentati al febbraio 1137 e al settembre 1139 quello orientale40, quando il monastero di San Giorgio è detto confinante con le mura del vecchio palazzo, e al novembre 1179 quello settentrionale41, quando Truda, vedova di Giovanni detto Fratie, vende a Petrone detto Mannarino, figlio di Amato, a sua volta figlio di Leone che fu figlio di Pietro de Alessandro, una terra con casa in muratura, con scale di legno e mignano, che possedeva per lascito testamentario di Giovanni, vescovo di Sarno, sita vicino alla chiesa di Santa Maria de Plaza [42]; tale casa confinava a settentrione con la strada e a meridione con il muro del palazzo vecchio anticamente detto Dominico, il quale muro, proprio in corrispondenza della casa, presentava una sporgenza, forse una torre, di circa due metri rispetto all’allineamento originario; la casa, verso meridione, rompendo il muro del palazzo vecchio, era stata dotata di una finestra che corrispondeva nella corte detta Dominica. Purtroppo, il documento non riporta l’ampiezza latitudinale della casa, fra la strada e il muro del palazzo, pertanto soltanto con qualche approssimazione, ma con buone possibilità di essere nel vero, possiamo tracciare questo lato del complesso arechiano; ciò che invece il documento ci fa intravedere, nella citazione della finestra, è la mancanza di edifici addossati a questo lato, o almeno al tratto specifico di questo lato, dell’ambito palaziale; ma poiché è da ritenersi che caserme, scuderie, uffici e quant’altro potesse reputarsi utile tenere nelle vicinanze della residenza principesca avessero quale centro la corte, è ipotizzabile che edifici fossero addossati ai suoi lati meridionale e orientale, molto più probabilmente a quest’ultimo. L’asse est-ovest della Corte Dominica era tagliato dal corpo della residenza principesca [delimitazione fucsia] sotto il quale più passaggi ponevano in comunicazione le due parti in cui la corte stessa veniva a essere divisa.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

40Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 43, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1136; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 26-28. Archivio di Stato di Salerno, pergamena H 2; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 71-74.

41Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXVI 105.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Naturalmente, perché fosse possibile agli amministratori della res publica dei successori dei principi longobardi lottizzare la Corte Dominica allo scopo di poterla concedere quale suolo edificatorio nell’ambito dell’urbanizzazione cui si accennava, fu necessaria la creazione di strade che venissero a circoscrivere gli isolati. Avviene così che, se nell’agosto 1138 la terra con fondamenta che lo stratigoto Sergio Capuano concede per diciannove anni ad Alferio, figlio di Giovanni, è detta genericamente confinante da tre lati con la Corte Dominica e dal quarto con ipsius reipublice, nell’ottobre 1170 la terra con casa in muratura, con scale in legno e mignano, che Cioffo detto Vecchio, figlio di Sergio de Mastalo, vende alla badia di Cava, rappresentata da Ruggero, figlio di Amato de Madelmo, è detta in Corte Dominica, vicino al vecchio palazzo, confinante da due lati, il meridionale e l’orientale, con strade42; ma è con il Duecento che i passaggi sotto il palazzo, dotati di sbocchi aperti verso la via di porta di Mare, e il reticolo tracciato nella parte orientale della corte assumono connotazione soprattutto in relazione alle arti che si esercitano nelle botteghe su di essi prospicienti.

   

 

 

 

 

 

42Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIV 68; XXXIII 65.

 

Nel giugno 1232 il giudice Romualdo Guarna, figlio del giudice Giovanni, dona a Matteo Marchisano, figlio di Pietro, che aveva sposato sua figlia Truda, una terra con bottega confinante verso occidente con la via Parmentariorum; nell’agosto 1239 Matteo Marchisano riconosce che il fu Palmerio, figlio di Giovanni de Salomone, aveva legato testamentariamente a favore dell’infante Palmerio, suo pronipote, figlio dello stesso Matteo e di Truda, figlia di Romualdo Guarna, una terra con bottega confinante verso occidente con la via Parmentariorum, con la condizione che in caso di morte prematura del beneficiario tale bottega rimanesse in possesso di Truda e alla anche di lei morte passasse in proprietà della badia di Cava; essendosi verificate entrambe le circostanze, con altro documento rogato in quello stesso agosto 1239 Matteo Marchisano conferma il possesso dell’immobile a favore della badia; nel gennaio 1258 la stessa badia concede per diciannove anni a Giovanni detto Sergente una bottega con un solaio superiore e scale in muratura, la prima, numerando da meridione, fra le botteghe orientali della via Parmenteriorum, in Corte Dominica; nel febbraio 1287 ancora la badia cavense concede per due anni a Graciuolo, figlio di Giordano, una terra con bottega e solaio superiore sita in Corte Dominica, confinante a occidente con la strada e a settentrione con beni della chiesa dei Santi Apostoli, che dovrebbe essere la stessa che nel marzo 1301 è concessa per cinque anni a Simone de Toro, figlio di Giovanni, poiché quest’ultima risulta confinante a occidente con la ruga Palmenteriorum, a meridione con beni della chiesa di Santa Maria dei Barbuti, a oriente con beni di Nicola de Bucco, a settentrione con beni della chiesa dei Santi Apostoli43. Nel maggio 1253 compare in Corte Dominica la via Saracolorum, lungo la quale prospettano due terre adiacenti con botteghe che la badia di Cava concede per diciannove anni a Matteo detto Salato, figlio di Palmerio; il 4 luglio 1269, la ruga Petitorum, ove erano siti beni edificati su terreno reipublice Salerni confiscati a Matteo de Vallone, nel cui possesso, per ordine di Carlo I, è immesso Matteo de Alena; il giorno successivo, il loco Sutorum, identificabile con l’innesto dell’attuale via Arechi II sull’asse Dogana Vecchia–Mercanti, ove erano siti beni già di Riccardo Marchiafava nel cui possesso, sempre per ordine di Carlo I, è immesso Ugo de Conchis44. Il 5 agosto 1304 la badia di Cava concede per cinque anni ad Andreotto, figlio del milite Matteo, una terra con bottega confinante a occidente con la ruga Pelisanorum, a settentrione con beni delle chiese dei Santi Apostoli e di San Pietro a Corte, a meridione con beni della chiesa di Santa Maria de Ilice; il 29 marzo 1305 la stessa badia concede, anche per cinque anni, ad Andrea detto Bissido, figlio di Guglielmo, e a Filippo Saraceno, figlio di Nicola, una bottega che potrebbe identificarsi con la precedente, poiché uguali sono sito e confini, che si precisa essere in Corte Dominica45. La documentazione giunta fino a noi ci consegna anche tre citazioni, del 15 aprile 1307, del 17 aprile dello stesso anno e del 12 febbraio 1308, della ruga Coppulariorum, ove erano site due botteghe della badia cavense costruite su terreno rei puplice46. In realtà nessuno dei tre documenti pone questa strada in Corte Dominica, ma il fatto che immobili su di essa prospettanti fossero edificati su terreno del demanio induce a far ritenere che anch’essa fosse nelle vicinanze del palazzo arechiano.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

43Archivio della Badia di Cava, pergamene XLIX 58; LI 21; LI 23; LIII 84, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1257; LVIII 69, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1286; LXI 112; la prima, la seconda e la quinta edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 162-163; I, pp. 193-195; III, pp. 33-34; in tale edizione mancano parti del testo, proprio ove i documenti si soffermano a descrivere i confini degli immobili, della LI 21 e della LVIII 69.

44Archivio della Badia di Cava, pergamena LIII 7; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 265-266; in tale edizione manca parte del testo proprio ove il documento si sofferma a descrivere i confini dell’immobile. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 4, ff. 112a e 112b; documenti editi in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 347-349 e pp. 350-351.

45Archivio della Badia di Cava, pergamene LXII 94; LXIII 15.

46Archivio della Badia di Cava, pergamene LXIII 94; LXIII 91; LXIII 84, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1307.

 

 

 

L’urbanizzazione della parte orientale della Corte Dominica si completa nel 1423 con l’edificazione, a spese di Pacilio Surdo, e l’erezione canonica databile al 24 maggio di quell’anno47, della chiesa di San Salvatore de Drapparia [23] a ridosso del fronte del palazzo principesco. L’immobile che poteva osservare il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento nulla aveva in comune con quello che vediamo attualmente, poiché nel settembre 1582 sarà avviata la ricostruzione dalle fondamenta della chiesa, che sarà completata sul finire del 1584; essa, intrapresa sopratutto per ampliare il luogo di culto, comporterà l’acquisizione da parte della confraternita dei sarti, che nel 1535 vi troviamo trasferita, di due botteghe limitrofe alla costruzione originaria48.

Come accennato, collegamento fra le due parti della corte furono alcuni passaggi esistenti sotto la residenza principesca. Il 4 luglio 1269 e il 28 ottobre 1282, in relazione a beni che erano stati edificati su terreno demaniale, compaiono la ruga Corbiseriorum e la ruga Ferrariorum, identificabili nel tratto orientale dell’attuale via Dogana Vecchia, poiché il suo arco terminale vicino la chiesa di San Salvatore de Drapparia sarà detto Corbiseriorum alias deli Ferrari ancora nella seconda metà del Cinquecento49. Nel novembre 1279 Santoro detto de Zurigeone, figlio di Nicola, che fu figlio di Ursone, figlio di Giorgio, a sua volta figlio di Teofilatto Archandapoli, cede a Gualtiero Granita, figlio di Bonaventura, ogni diritto su una bottega che gli era stata locata dal demanio, in ruga Speciariorum, propriamente la terza fra le botteghe settentrionali di tale via numerando da oriente, sotto gli archi del vecchio palazzo; nel luglio 1291 Petrone de Guidone vende a Tipoldina, figlia di Petrone e vedova di Rumo, una bottega edificata su terreno demaniale, in ruga Speciariorum, propriamente la seconda fra le botteghe settentrionali di tale via numerando da occidente; ancora alla metà del Settecento la parte orientale dell’attuale via Giovanni da Procida sarà detta degli Speciali, così come l’arco che la conclude all’innesto sulla via Arechi II50. Con lo stesso documento di cui sopra, Petrone de Guidone vende a Tipoldina anche altre quattro botteghe che egli stesso aveva costruito con suoi materiali su terreno demaniale, in ruga Arcariorum, propriamente la terza, la quarta, l’ottava e la decima fra le botteghe settentrionali di tale via numerando da occidente, e ancora un’altra bottega lungo la stessa via, anch’essa edificata su terreno demaniale, propriamente la sesta fra le meridionali numerando da oriente. Accanto a questi importanti passaggi, altri di minore rilievo dovettero esserci, poiché, nel maggio 1119 il duca Guglielmo, nel concedere a Giordano, fratello di Roberto principe di Capua, due terre appartenenti al demanio fra loro contigue, l’una con casa l’altra vuota, poste nella parte orientale della Corte Dominica, cita un andito conducente sotto il palazzo che egli ama definire sacrum nostrum salernitanum vetustum palatium, mentre con altrettanta enfasi e retorica definisce il principe di Capua dilectissimi consanguinei et baronis nostri51.

 

 

47Come da epigrafe: +ANNO D(OMI)NI MCCCCXXIII DE ME(N)SE MA / DII DIE XXIIII PACILIUS SURDUS DE SAL(ER)NO / HEDIFICARI FECIT SUIS SUNTIBUS IST / UD ORATORIUM SUB VOCABULO N(OST)RI / SALVATORIS P(RO) SUI A(N)I(M)A ET SUORUM. Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 172, riporta che lo stemma della famiglia Turdo Stà in Marmo nel Muro Dalla parte di fuori della Chiesa del Salvatore.

48Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4874, 1580-1581, f. non numerato; 4880, 1582-1583, f. 29t; 4880, 1582-1583, f. 278. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

49Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 4, f. 112a; 39, f. 138; documenti editi in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 347-349; III, pp. 3-4. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4871, 1563-1564, f. 60t, 10 novembre 1563.

 

 

 

 

 

 

 

 

50Archivio della Badia di Montevergine, pergamena CV 64; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 513-514. Archivio della Badia di Cava, pergamena LIX 88.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

51Archivio della Badia di Cava, pergamena F 14.

L’estremità settentrionale del palazzo arechiano era costituita della cappella palatina dei Santi Pietro e Paolo, più comunemente, dopo la caduta del principato longobardo e la dismissione della funzione originaria, San Pietro a Corte [24]. Essa era stata impostata sulle strutture residue di un sito, un complesso termale riconducibile al I secolo, già riutilizzato quale chiesa paleocristiana e sepolcreto almeno dall’ultimo decennio del V secolo alla seconda metà di quello successivo, poiché, fra gli altri, vi furono sepolti Socrate, morto il 23 dicembre 497, due persone che rimangono ignote, morte fra il 542 e il 565, la piccola Teodenanda, morta il 27 settembre 566. Nel corso del tempo la cappella palatina divenne un centro di potere rilevante che addirittura si pose in antagonismo alle prerogative arcivescovili, poiché nella sua dotazione entrarono i patronati di una serie di luoghi pii, fra cui quelli delle chiese cittadine di Sant’Antonio di Vienne, di San Matteo Piccolo, di Sant’Angelo de Marronibus e del monastero di San Michele Arcangelo, sui quali i suoi rettori esercitavano il diritto di presentazione dei cappellani, per le chiese, e di conferma dell’elezione della badessa, per il monastero. Con la nomina dell’arcivescovo Filippo, confermata da papa Onorio IV il 7 marzo 1287, abbiamo i primi tentativi, di cui notizia è giunta fino a noi, da parte della curia arcivescovile di sottomettere alla propria giurisdizione la regia cappella sancti Petri ad Curtim, esente dal controllo delle gerarchie diocesane a tempore cuius memoria non habetur, tanto da indurre il rettore dell’epoca, Landolfo Vulcano, ad appellarsi a Carlo Martello, nella sua qualità di principe di Salerno, che con lettera datata da Napoli il 30 gennaio 1294 invita lo stratigoto della città a intervenire in difesa delle prerogative regie esortando l’arcivescovo a desistere da ogni turbativa contro la cappella e il rettore. Agli anni novanta del Quattrocento il nostro viandante forse poteva osservare sull’altare maggiore la stessa icona di legno recante centralmente la figura della Vergine e ai lati, rispettivamente, quelle dei santi Ciro e Giovanni e Pietro e Paolo che sarà osservata l’8 febbraio 1554 da don Nicola Francesco Marescalco, vicario generale dell’abate Gabriele Sanchez; forse poteva anche accedere alla cripta, il luogo di culto paleocristiano ove era stato istituito un beneficio sotto il titolo di Sant’Elena, e osservare le figure di santi affrescate, prima che il luogo fosse ridotto ad uso di cellaro; il 20 luglio 1573 sarà dato incarico a un mastro muratore di eseguire alcuni lavori nella badia, fra cui murare la porta di Sant’Elena verso la strada riducendola a finestra, aprire un nuovo accesso dal cortile, demolire l’altare52.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

52M. Galante, Le epigrafi, con P. Peduto e altri, Un accesso alla storia di Salerno: stratigrafie e materiali dell’area palaziale longobarda, in «Rassegna Storica Salernitana», 10, 1988, pp. 42-45. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 69, f. 139; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, p. 224; Diplomatica, Cappellano maggiore, 1083, n. 824. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4868, 1572-1573, f. 473t.

L’area posta a ridosso del muro settentrione del complesso palaziale, nella parte occidentale della Corte Dominica, era costituita dal giardino della residenza principesca [25]. Fra l’ottobre 974 e il dicembre 977 i principi Gisulfo I, Gemma, sua moglie, e Pandolfo, loro figlio adottivo, concedono a Nicola, figlio di Sergio, una terra confinante verso meridione con il muro di tale giardino, a occidente con altri beni dello stesso Nicola, a settentrione con la strada, a oriente con il palazzo, con la condizione che mai siano praticate aperture nel muro che possano permettere di guardare nel giardino stesso; nel luglio 1193 Truda, vedova di Teodoro detto de Benevento, e il figlio Giovanni detto Vaccaro vendono alla badia di Cava, rappresentata dal monaco Ruggero, una terra con casa in muratura e bottega sita nel luogo ove fu il giardino dominico, vicino al sacro palazzo, confinante a meridione con la strada nella quale i calzolai cittadini esercitano la loro attività, a oriente con beni demaniali, a settentrione con beni di altri, a occidente con altra via nella quale è posta la scala lignea di accesso alla casa e di sopra il mignano53.

 

 

53Archivio della Badia di Cava, pergamene F 11; XLIII 78; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 87-88; in tale edizione, non recando la pergamena alcuna data, le è attribuita genericamente quella del 974; la correzione, basata sul periodo di regno congiunto di Gisulfo II, Gemma e Pandolfo, si legge in M. Galante, La datazione cit., p. 37.

Il restante di questa parte occidentale della Corte Dominica, in gran parte o forse nell’interezza, anche pervenne nelle disponibilità della badia cavense e vi rimase almeno fino al XIII secolo, quando, generalmente, in quest’area, come in altre della città, iniziarono le dismissioni dell’ingente patrimonio immobiliare detenuto da quei monaci sia direttamente che tramite la dipendente Santa Maria de Domno. Accanto a documenti54 che pochi o nessuno indizio forniscono circa l’ambito urbanistico in cui si collocavano gli immobili di cui trattano, ubicati genericamente fra il fronte occidentale del vecchio palazzo e la via della porta di Mare, sono pervenuti fino a noi quattro atti che ci permettono di intravedere almeno due aspetti della costruzione arechiana. Tre di essi55, il primo datato agosto 1126, gli altri dicembre dello stesso anno, sono relativi a un terreno demaniale, posto in Corte Dominica, che nel maggio 1106 il duca Ruggero, per intervento della moglie Ala e per i buoni servigi ricevuti, aveva donato a Luciano, figlio di Alferio; successivamente, tale terreno era stato diviso in quattro parti, toccate, rispettivamente, a Teodora, vedova del donatario, e ai suoi figli Giovanni, Stefano e Pietro. Con l’atto dell’agosto 1126 Giovanni dona la sua parte alla badia di Cava; con gli altri due, analoga donazione compiono Teodora e Pietro. Dal contesto dei tre documenti e dal transunto dell’atto del duca Ruggero, presente quale inserto in ciascuno di essi, risulta che il terreno di cui si tratta confinava a settentrione e meridione con due strettole lungo le quali si misuravano quarantotto piedi, a occidente con la strada che lambiva la Corte Dominica, a oriente con il prospetto del vecchio palazzo; dalla qual cosa, attribuendo a ciascun piede la misura teorica di trentaquattro centimetri56, abbiamo che la via della porta di Mare distava dal fronte del palazzo arechiano, almeno in corrispondenza di questo terreno di cui, per altro, non è possibile stabilire l’altezza latitudinale, poco più di sedici metri. Il quarto documento57, datato ottobre 1149, costituisce l’atto di concessione per diciannove anni di una terra con bottega e due solai superiori, l’uno completato l’altro da completarsi, da parte del monaco cavense Pietro, in rappresentanza della chiesa di Santa Maria de Domno cui apparteneva, a favore di Mauro Guglielmi. Tale terra risulta posta nei pressi della porta di Mare, avente quale confine occidentale la strada che a tale porta conduceva e che, verso settentrione, passava davanti alle scale del sacro palazzo; dalla qual cosa possiamo immaginare, con buone probabilità di essere nel vero, che l’accesso primario alla residenza principesca avvenisse da questo lato.

 

54Archivio della Badia di Cava, pergamene XXI 29, marzo 1120; XXIV 63, luglio 1138; XLIV 35, gennaio 1197, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1196; XLVI 37, agosto 1210; XLIX 73 agosto 1232; le ultime due edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 88-89; pp. 164-166.

55Archivio della Badia di Cava, pergamene XXII 23; XXII 29; XXII 30.

56Si veda la nota 7 al capitolo 3 della Premessa.

57Archivio della Badia di Cava, pergamena XXVII 54.

 

 

 

 

Il terreno concesso a Mauro Guglielmi possedeva altre due caratteristiche interessanti per la definizione di almeno un aspetto dell’urbanizzazione che era stata realizzata nell’area più meridionale di questa parte della Corte Dominica, anche in relazione a quanto abbiamo visto posto in essere nella parte orientale: esso confinava a meridione con un’altra terra della chiesa di Santa Maria de Domno sulla quale insisteva una bottega il cui solaio superiore era detenuto da Ruggero detto Pandolese e vi si accedeva sia della strada che la limitava a occidente che dalla via della Giudaica, ma non direttamente, bensì percorrendo un andito che costituiva, come ci informa l’atto della concessione datato novembre 1143, il confine orientale di quanto detenuto dal detto Ruggero; ma neanche quest’ultima proprietà raggiungeva la via della Giudaica, essendone separata per interposizione di un ulteriore immobile di Santa Maria de Domno posto inter murum et muricinum, confinante a occidente con la via che verso meridione conduceva alla porta di Mare e a meridione con quella che verso oriente conduceva alla Giudaica, costituito da altra bottega sul cui solaio era costruita una casa di legno che, già concessa nel novembre 1095 a Ligorio, figlio del presbitero Leone, passata nel gennaio 1110 a Orso, figlio di Giovanni detto de Amata, e confermata nel gennaio 1138 allo stesso Orso e a Giovanni, figlio di Truppoaldo, suo cognato e socio, nel febbraio 1145 anche era pervenuta a Ruggero detto Pandolese; nell’ottobre 1171 i due solai, con la bottega più meridionale, sono concessi per diciannove anni a Bartolomeo, figlio di Giovanni detto de Oppido, che su quello settentrionale, con suoi materiali, aveva edificato una nuova casa lignea alla quale si accedeva tramite scale in muratura comuni con altre case di Santa Maria de Domno; nel maggio 1182 lo stesso Bartolomeo, in questo documento detto de Grusa, figlio di Giovanni detto de Oppido, vende alla stessa chiesa di Santa Maria de Domno, rappresentata dal monaco cavense Ruggero, quanto aveva edificato sui due solai di cui si confermano sito e confini58. Questi immobili, dunque, erano posti al limite fra il lato meridionale della Corte Dominica e l’Inter Murum et Muricinum, a cavallo del tracciato della difesa antica [26], analogamente a quanto abbiamo visto a meridione della parte orientale della corte.

  58 Archivio della Badia di Cava, pergamene XVI 39; XVIII 89, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1109; XXIV 16, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1137; XXV 80; XXV 91, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1144; XXXIII 17; XXXVIII 73.

Un documento del luglio 1059 narra di due terreni posti all’esterno del muro antico della città che, scavalcando il muricino, si estendevano fino al lido. Uno dei due era stato concesso, nel maggio 1032, dal principe Guaimario IV al conte Pietro, suo zio e referendario, per intercessione del conte Laidolfo, suo suocero; esso aveva per confine occidentale un corso d’acqua che usciva da una corte detta di San Michele e si estendeva verso oriente per diciotto passi. L’altro era stato concesso, in una data non specificata, dal principe Siconolfo, che aveva regnato fra 1’839 e 1’849, al castaldo Radechi, figlio di Moncolano; esso con il terreno di cui sopra aveva per confine comune il corso d’acqua che abbiamo visto e si estendeva verso occidente per settanta passi prima di concludersi contro il muro del palazzo principesco, che, evidentemente, si protendeva, nel suo asse nord-sud, oltre il muro prelongobardo, nell’Inter Murum et Muricinum [27], nel luogo ove vi era una torre, vicino una posterola in capo a delle scale. Questa posterola praticata nel muro antico, che poneva il palazzo, o più probabilmente la sua corte, in comunicazione con l’ampliamento longobardo meridionale, compare anche in due precetti, l’uno dell’epoca del principato di Guaimario IV (1027-1052) l’altro di quello del figlio Gisulfo II (1052-1077), dei quali, nel marzo 1165, la badia di Cava, entrata in possesso del terreno demaniale del quale in essi si tratta, chiede ne venga fatta copia; tale terreno, concesso da Guaimario IV a Giovanni, figlio del presbitero Rodiperto, e a favore di questi confermato da Gisulfo II, si estendeva a occidente dalla posterola verso la porta di Mare, presso la chiesa di Santa Maria59.

Questa chiesa, più correttamente Santa Maria Maddalena a Porta di Mare [28], volgarmente la Maddalena Piccola, nella documentazione giunta fino a noi a volte è detta grancia di San Pietro a Corte, a volte di San Matteo Piccolo, il che, poi, era la stessa cosa, essendo San Matteo Piccolo a sua volta dipendente da San Pietro a Corte; osservabile dal nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento, l’edificio di culto risulterà scomparso all’11 gennaio 1558, quando in corso di visita pastorale si osserverà soltanto la figura della santa dipinta sul muro cittadino60. Presso la chiesa, in epoca angioina, è documentata una taverna confiscata a Matteo de Vallone, prima concessa a Matteo de Alena, poi passata a Simone de Bosco e, quindi, al figlio ed erede Giovanni61.

  59Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 46; XXXI 107; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 106-114.

60Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4837, 1520-1521, f. 57t, 16 marzo 1521; 4838, 1522-1523, f. 153, 5 giugno 1523; 4839, 1531-1532, f. 185, 19 giugno 1532. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

61Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 4, f. 112a; 39, f. 138; documenti editi in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 347-349; III, pp. 3-4.

  

 

 

 

 

San Vito Maggiore

 

A occidente della porta di Mare [29], in territorio parrocchiale originariamente di Sant’Andrea de Lavina poi di San Vito Maggiore, il nostro viandante poteva osservare un’altra chiesa: quella di San Vito Minore. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi il 27 novembre 1298 quale detentrice di quattro botteghe della regia curia site in ruga de Tabernariis; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Salerno; il 24 gennaio 1567, analogamente a quanto avvenuto nove anni prima per Santa Maria Maddalena, se ne noterà soltanto la figura del santo dipinta sul muro lungo la strada62.

Dalla porta di Mare verso occidente l’asse di percorrenza dell’Inter Murum et Muricinum è identificabile con il vicolo che dal XII secolo sarà detto dei Cicari63, attualmente Guaiferio, alle spalle di Palazzo Genovese. All’angolo sud-orientale del suo incrocio con il canale, la via, come recitano i documenti, in cui fluiva uno dei tanti corsi d’acqua che percorrevano la città in senso nord-sud, la Lama, attualmente vicolo delle Colonne, nel luogo detto al Diffusorio [30], al gennaio 1139 è documentata una terra su parte della quale era stata edificata una casa di cui metà é donata alla badia di Cava, rappresentata dall’abate Simeone, da Bagelardo, figlio di Gregorio signore di Capaccio, che agiva anche in nome del fratello Pandolfo e del cugino Matteo, figlio di Gisulfo64.

 

 

62Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 95, f. 113; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, pp. 358-360. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6530. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

63Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 47, riporta che il vicolo prese la denominazione dalla famiglia Cicaro, che vi abitava.

64Archivio della Badia di Cava, pergamena XXIV 41, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1138.

Diciannove anni prima, nel febbraio 1120, Gregorio, il padre dei detti Bagelardo e Pandolfo, il fratello Gisulfo, il padre di Matteo, gli altri fratelli Guaimario e Tudino, figli di Guaimario che fu figlio del duca Pandolfo, e Giordano, figlio di Giovanni, altro figlio del duca Pandolfo, avevano testimoniato che Sichelgaita, figlia di Giovanni conte di Teano e vedova di Gregorio, a sua volta figlio del duca Pandolfo, aveva legato testamentariamente a favore della badia di Cava una terra con casa lignea posta inter murum et muricinum, confinante a settentrione con la strada, a oriente con la via dell’acqua della Lama, a occidente con un andito, a meridione con il muro cittadino (in realtà  il muricino essendo l’immobile inter murum et muricinum) in cui erano inserite travi e altri legni della costruzione [31]; nell’agosto 1134 la badia concede, sua vita durante, a Guglielmo signore del castello di Trentinara, figlio di Gregorio signore di Capaccio65, ossia figlio della stessa testatrice Sichelgaita, questa terra, sulla quale risultano costruite case adiacenti lignee e in muratura, con scale e altri edifici lungo e sopra la strada e l’andito; nel luglio 1167 parte della proprietà è concessa a Giovanni detto Sorraca, figlio di Mario, e nell’agosto 1179 altra parte a Giovanni detto Villano, figlio di Pietro; in quest’ultimo documento il complesso è detto sito in vico di Sant’Andrea Apostolo, nel luogo detto al Resusulo, e il corso d’acqua sul quale prospetta verso oriente, e nel quale confluiscono gli scarichi delle case, è detto la Lavina; ancora parte di questo immobile è concessa nell’aprile 1191 a Ruggero, figlio di Mario detto Vallese, mentre nel marzo 1192 è rinnovata la concessione a favore di Giovanni detto Sorraca; nell’ottobre 1258 è concesso per ventinove anni al notaio Giacomo Dardano, figlio di Pietro, l’intero terreno, sul quale al momento insiste una casa in muratura della badia e un solaio edificato con suoi materiali dallo stesso notaio Giacomo, che è detto sito in loco Veterensium, ai Cicari, nei pressi della chiesa di San Vito Maggiore detta anche de Mare, confinante a settentrione con la strada che andando verso occidente conduce alla porta che esce in Busanola, a oriente con il corso dell’acqua della Lama, a meridione con il muro cittadino, a occidente con altri beni della badia 66.

   

 

 

65In questa vicenda, compaiono due Gregorio, entrambi citati quali signori di Capaccio. In realtà, il primo in ordine di citazione, il padre di Bagelardo e Pandolfo, effettivamente era signore di Capaccio con il titolo di conte, essendo il figlio primogenito del conte Guaimario, a sua volta figlio primogenito del duca Pandolfo, che troviamo ab initio investito di quel feudo. Il secondo, del quale vediamo agire la vedova Sichelgaita, era uno zio del primo, essendo uno degli altri figli del duca Pandolfo, quindi apparteneva alla famiglia dei signori di Capaccio, ma non ne deteneva il possesso feudale; questi era quel Gregorio che, insieme alla prima moglie Maria, vedremo donare parte del patronato di San Massimo e di Sant’Andrea de Lavina alla chiesa di San Nicola de Casa Vetere a Capaccio (si veda in appendice la tavola genealogica relativa a questa famiglia comitale)

66 Archivio della Badia di Cava, pergamene F 13, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1119; XXIII 82; XXXII 77; XXXVI 90; XLII 107; XLIII 19; LIV 32.

Una parte di questi ulteriori beni dei monaci cavensi [32] era stata loro venduta, nel giugno 1185, da Lolelgrima, vedova di Marino signore del castello di Trentinara; all’atto di tale vendita la proprietà risultava costituita da una casa in muratura confinante a settentrione con la strada che andando verso oriente incrociava il corso della Lama, a oriente con un andito in cui erano costruite scale e di sopra edifici comuni fra la badia e la venditrice, a meridione con il muro cittadino, a occidente con beni di altri; nell’agosto 1186 il monaco Ruggero, in rappresentanza della badia, concede l’immobile per diciannove anni al saponaio Matteo, figlio del saponaio Guglielmo. Nel luglio 1193 Truda, vedova di Teodoro detto de Benevento, e il figlio Giovanni detto Vaccaro vendono alla badia una seconda casa in muratura adiacente alla precedente. Nel giugno 1268 si procede ad una nuova convenzione con il notaio Giacomo Dardano, in virtù della quale, a quanto già concessogli nell’ottobre 1258, si aggiungono queste case e tutto quanto la badia possiede fuori dal muro cittadino fino al mare67.

 

 

 

67Archivio della Badia di Cava, pergamene XL 53; XLI 7; XLIII 78; LV 102.

A settentrione dei beni della badia cavense che abbiamo visto, è documentata una terra con casa in muratura [33] di Nicola detto Marzullo, figlio di Giovanni, sulla quale egli aveva garantito un mutuo acceso il 30 giugno 1291 presso la nobile signora Elisabetta, vedova del dottore fisico Bartolomeo detto de Vallone, con l’impegno di estinguerlo entro un anno; non essendo ciò avvenuto, il 16 marzo 1293 il sarto Romoaldo, figlio di Nicola, procuratore della detta signora Elisabetta, chiede il pignoramento della casa, che risulta composta da sei terranei e un solaio superiore, sita in loco Veterensium, a settentrione e vicino la chiesa di San Vito de Mare, confinante a meridione con la strada e a oriente e settentrione con anditi. Il 21 dicembre 1293 il detto Nicola, che doveva aver estinto il suo debito nei termini fissati dalla legge, ossia nei trentasei giorni successivi al pignoramento, dona la casa in oggetto al monastero di Santa Maria di Montevergine, rappresentato dall’abate Guglielmo; nell’occasione, mentre si conferma che l’immobile era costituito da sei terranei e da un solaio superiore, si precisa che era sito a meridione della chiesa di Sant’Andrea de Lama [34] e che i sei terranei prospettavano due a settentrione, due a oriente e due a meridione68.

La sede parrocchiale di San Vito Maggiore, richiamata quale riferimento topografico in relazione ad alcuni degli immobili che abbiamo visto, fu istituita nella chiesa del monastero di San Vito de Mare [35]. Questi compare nelle fonti giunte fino a noi con un precetto del giugno 1005, al quale si fa riferimento in un documento del febbraio 1133, relativo al terreno sul quale era stato edificato; un inserto nello stesso documento rappresenta l’atto con il quale, nel luglio 1062, l’arcivescovo Alfano I cede alcune terre e chiese al principe Gisulfo II ricevendone in cambio il monastero in onore del beato martire Vito, costruito fuori e lungo il muro della città, vicino al lido. Nell’agosto 1056, nell’atto con il quale si concede a Giovanni, figlio del greco Eufimo, parte di un terreno che donna Teodora, vedova di Pandolfo che fu figlio del principe Guaimario III, e i figli Guaimario, Gregorio, Giovanni e Guidone possedevano fuori città, al lido, congiunto con il muricino, è citata una strada che, costituendo il confine orientale di tale terreno, lo separava dall’area sulla quale insistevano il monastero e suoi beni; area, quest’ultima, che nel febbraio 1133 sarà descritta come confinante a settentrione con il muro della città per trentotto passi e mezzo, a meridione con la strada che correva lungo il mare per uguale misura, a oriente con beni demaniali. Nel maggio 1255 per la prima volta non compare più il monastero, ma soltanto la chiesa con lo stesso titolo di San Vito de Mare, sita fuori la città di Salerno, al lido, lungo il muro meridiano; nel 1309 vi troviamo addetto il presbitero Nicola. Dalla documentazione giunta fino a noi appare difficile stabilire quando la chiesa divenne sede parrocchiale, così come appare difficile stabilire quando fu racchiusa fra le mura cittadine con l’edificazione di un secondo antemurale anche in quest’area, così come abbiamo visto avvenire in corrispondenza di Santa Maria de Domno. Con bolla arcivescovile del 6 gennaio 1566 la parrocchia sarà soppressa e il territorio annesso a quello di Santa Lucia de Giudaica; l’immobile, collassato, indecente e con la porta murata sarà visitato per l’ultima volta il 29 marzo 161869.

A meridione di San Vito Maggiore, esterna alla città, attaccata al secondo muricino, vi era una chiesa sotto il titolo di San Giacomo de Mare [36], patronato delle famiglie de Granita e de Lantella; ancorché compaia con il titolo specifico soltanto con la visita pastorale del 30 maggio 1515, forse è identificabile con la San Giacomo citata nel 1309 con il presbitero Riccardo, quindi osservabile agli anni novanta del Quattrocento; risulterà diruta il 10 gennaio 155870.

Nella parte orientale dell’area che sarà molto più tardi di Palazzo Genovese [37], prospettante verso settentrione sulla strada della Mala Cucina e verso meridione su quella dei Cicari, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva osservare il forno con case superiori dei Barbarito, documentato dal 1475, che sarà in possesso della stessa famiglia ancora agli anni venti del Seicento nella persona di Dianora, erede del fratello Giacomo e moglie di Muzio Solofrano71.

 

 

 

 

68Archivio della Badia di Montevergine, pergamene CV 72; CV 38; edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, rispettivamente, pp. 180-183; pp. 217-220.

 

 

 

 

69Archivio della Badia di Cava, pergamene X 109; XXIII 20; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VII, pp. 300-301; la seconda in S. M. de Blasio, Series principum qui Langobardorum aetate Salerni imperarunt, 1785, appendice; nella edizione citata la X 109 è indicata come X 106. Le specifiche di data del precetto al quale si fa riferimento nella seconda pergamena, scriptum per Romoaldum septimodecimo anno principatus domni Guaymarii mense iunio indictione tertia, possono riferirsi sia al giugno 1005 che al giugno 1035, poiché in entrambe le date regnava un principe Guaimario (il terzo nel primo caso, il quarto nel secondo) e correva la terza indizione; qui si opta per il 1005 in quanto redige l’atto Romoaldo, mentre tutti gli atti della curia principesca del 1035 sono redatti da Truppoaldo, scriba di palazzo e abate di Santa Maria de Domno. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena non identificata (si veda la nota 19 al capitolo 3 della Premessa); edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 279-280; Bollari; Visite pastorali. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6529. San Vito de Mare è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistenti al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo; in realtà, essa fu istituita nella chiesa del monastero omonimo soltanto dopo il 1133. Questa imprecisione, insieme a quelle che danno esistenti allo stesso 954 anche Santa Maria de Domno (citata con lappellativo de Dominabus), eretta fra il 986 e il 989, e Santa Maria de Alimundo (citata con lappellativo de Ulmis), i cui fondatori vedremo in vita al 1048, impedisce di considerare gli Atti del Sinodo quale fonte attendibile per la determinazione dellesistenza delle parrocchiali citate.

 

 

70Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6546.

71Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4923, 1621, f. 396; 4941, 1617-1618, f. 18.

  

 

 

 

 

San Matteo Piccolo

 

Lasciato il territorio parrocchiale di San Vito Maggiore e risalita la via della porta di Mare, il cui tratto terminale fu la trecentesca ruga Olearum72, giungendo davanti alla gradinata di San Pietro a Corte il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento non si ritrovava nel largo che oggi caratterizza la parte meridionale della via dei Canali73, che sarà realizzato soltanto nella prima metà del Settecento nell’ambito della riqualificazione dell’area promossa dall’amministrazione cittadina contestualmente all’edificazione del conservatorio e dell’annessa chiesa della Santissima Annunziata Minore, ma all’imbocco meridionale di una strada che doveva presentare un’ampiezza analoga a quella che tuttora vediamo all’imbocco opposto. All’angolo occidentale, in territorio parrocchiale di San Matteo Piccolo, forse poteva osservare, come è possibile a noi, la chiesa di Santa Maria Piccola dei Calzolari, più comunemente dei Santi Crispino e Crispiniano [38]. Come altri luoghi di culto citati in quest’opera, ancorché compaia nelle fonti giunte fino a noi soltanto con la relazione della visita pastorale del 1515, la consideriamo, sebbene con qualche riserva, esistente alla fine del Medioevo74.

Poco più a settentrione, dal lato opposto della strada, circa all’altezza dell’attuale ingresso del conservatorio, prospettava la chiesa parrocchiale di San Matteo Piccolo [39]. Essa compare nella documentazione giunta fino a noi il 4 luglio 1269 quale riferimento topografico; nelle relazioni delle visite pastorali è costantemente detta grancia della badia di San Pietro a Corte75. L’immobile sarà demolito nell’ambito della riqualificazione urbanistica di cui sopra per essere ricostruito all’angolo sud-orientale del largo che si formerà, ove lo vediamo tuttora.

A meridione della sede parrocchiale, insistente su gran parte del futuro largo, il nostro viandante vedeva un complesso costituito dall’ospedale che prendeva il nome dall’attigua chiesa di Sant’Antonio di Vienne, oggi, Santa Rita, da una casa dell’oratorio di Gesù e Maria eretto in una cappella della stessa chiesa e dal giardino nel quale si protendeva l’abside [40]. Il complesso, pertinente alla badia di San Pietro a Corte, della quale, come accennato, Sant’Antonio di Vienne era altra grancia, sarà ceduto all’amministrazione cittadina il 12 agosto 1720 per permettere la realizzazione della riqualificazione urbanistica e la riedificazione della sede parrocchiale che andava demolita in quanto ingombrava, come abbiamo visto, altra parte dell’area destinata all’opera progettata76. L’ospedale compare nelle fonti giunte fino a noi il 15 ottobre 1372, quando si esegue i1 testamento di Cobella Dardano, vedova del giudice Filippo Scattaretica, che aveva lasciato vari legati, fra cui all’ospitalerio Sancti Antonii, de Sancto Petri ad Curtim. Si intravede, dunque, una seconda struttura di assistenza pubblica accanto all’ospedale della Santissima Annunziata Nuova, che vedremo nell’ambito parrocchiale di Santa Trofimena, ma non esistono elementi che ci permettano di comprendere se almeno in un periodo della sua esistenza fu un vero ospedale o, piuttosto, sempre un semplice ospizio per l’accoglienza dei poveri. Infatti, il 17 gennaio 1567, dopo aver sottoposto a visita pastorale la chiesa, si accederà all’hospitale contiguum pro hospitandis pauperibus non tamen infirmis e il 28 maggio 1575 l’ospitalerio Silvestro Ianuense dichiarerà che si ci allogiano li passagieri et li pizzienti, alli quali se li da solo da dormir; ma esso non era il solo luogo deputato a tale funzione in città: lo stesso giorno 28 maggio 1575 l’abate, interrogato circa la funzione della struttura, dirà di aver saputo dal signor Michele Pinto lo quale diceva haverlo inteso dal quondam Bernardino Pinto suo padre, quale dice che fu spetalieri et mastro del spedale di santo Pietro in Cammarellis, che à tutte le porte ci era lo spedale, et questo era il spedale della porta di porta di mare77.

Nell’ambito del territorio parrocchiale di San Matteo Piccolo sono documentati, senza che sia possibile una maggiore precisione di ubicazione, beni della regia curia78 e della badia di Cava79

 

72Archivio della Badia di Cava, pergamena LXVIII 73, 6 ottobre 1326.

73Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 22, riporta che la via dei Canali prese la denominazione dalla famiglia Canali, che a sua volta traeva il cognome dal possesso della baronia di Canali in Terra di Lavoro; nel 1316 Landulfo de’ Canali dice, come i suoi antecessori han’avuto l’abitazione nella d(ett)a Strada de’ Canali, ed havevano il proprio Seggio d(ett)o de’ Canali, cioè un luogo aperto, contiguo alla loro abitazione, dove solevano fermarsi.

 

 

74Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

75Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 4, f. 112a; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 347-349. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. San Matteo Piccolo è fra i luoghi di culto che compaiono nel falso datato maggio 1087 con il quale il duca Ruggiero ne dona i patronati alla badia di Cava (Archivio della Badia di Cava, pergamena C 12), per il quale si veda la nota 4 a questo capitolo; però, quasi certamente, nel produrre quella contraffazione i monaci cavensi desideravano giustificare pretese non su questa parrocchiale, ma su San Matteo Piccolo in Orto Magno che, come abbiamo visto, effettivamente la badia possedette. La parrocchiale è fra quelle elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo I di questa II parte) come esistenti al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo.

 

 

76Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5322, 1759, f. 169; 5370, 1761, f. 659.

 

 

 

 

 

77Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 C 33; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, pp. 109-114. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

78Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 4, f. 112a, 4 luglio 1269; 39, f. 138, 28 ottobre 1282; 58, f. 271, 17 novembre 1291; 56, f. 249, 23 agosto 1292; documenti editi in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 347-349; III, pp. 3-4; III, pp. 127-128; III, pp. 155.156.

79Archivio della Badia di Cava, pergamene LVII 69, gennaio 1280, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1279; LVII 113, settembre 1281; LIX 60, gennaio 1291, datazione ab incarnatione di tipo venetogennaio 1290; LX 7, maggio 1293; LX 1, febbraio 1294, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1293.

  

 

 

 

 

Santa Maria de Capite Platearum

 

Appena a oriente di Sant’Antonio di Vienne, al largo omonimo, ma già in territorio parrocchiale di Santa Maria de Capite Platearum, il nostro viandante osservava l’odierno Palazzo Fruscione [41]. Esso, ancorché sia evidente una sua maggiore antichità, compare nelle fonti giunte fino a noi soltanto il 9 ottobre 1522 con la denominazione di Casa della Tenta, ossia della Contessa; alla metà del Settecento sarà in possesso di Giuseppe Longo80.

Procedendo ancora verso oriente, nel cuore del quartiere dei Barbuti, si ritrovava davanti alla chiesa parrocchiale di Santa Maria de Capite Platearum o de Plaza [42]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel febbraio 1160 con il testamento di Pietro Protogiudice, figlio di Amato, che assegna legati a vari enti ecclesiastici, fra cui Santa Maria de Platea; nell’agosto 1277 Giovanni de Protogiudice, figlio di Filippo, Guglielmo de Drogone, figlio di Nicola, e Guglielmo de Canali, figlio di Riccardo, tutori di Landolfo, figlio minorenne di Roberto de Canali, cedono a Sergio Capograsso, figlio di Michele, una delle dodici once del patronato di San Pietro de Iudice in cambio di una parte analoga di quello di Santa Maria que de la Placza dicitur; nel 1309 vi troviamo  addetto il presbitero Angelo; il 4 febbraio 1566 la parrocchia sarà unita a Santa Maria dei Barbuti; il 15 gennaio 1616 si  decreterà la sconsacrazione della chiesa, ma essa sopravvivrà come beneficio laicale della famiglia Capograsso81.

 

 

80Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4846, 1522-1523, f. 41t. Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 497, particella 8.

 

 

 

 

 

81Archivio della Badia di Cava, pergamene XXX 33, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1159; LVII 44; la seconda edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 483-484. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6533. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

A settentrione della chiesa e di suoi beni, oltre una corticella e un andito, al 15 aprile 1307 è documentata una casa in muratura della quale Giacomo detto de Coda, figlio di Biagio, dona alla badia di Cava, rappresentata da fra Giovanni de Napoli, la parte occidentale del terzo piano; lo stesso fra Giovanni ritroviamo il 15 aprile 1315, quando dichiara di aver concesso, nel passato, al signor Nicola Caposcrofa una terra con bottega sita in Capite Platearum e che, essendosi estinta tale concessione per la morte del concessionario, intende locare la stessa bottega ad Antonio de Montella, cosa che effettivamente pone in essere con altro documento in pari data82.

Nell’ambito del territorio parrocchiale insisteva la chiesa sotto il titolo di San Nicola degli Aversano [43]. Ancorché compaia nella documentazione giunta fino a noi soltanto il 1° giugno 1515, presumibilmente era esistente agli anni novanta del Quattrocento; già rinvenuta aperta, immonda e tenuta pessimamente il 22 maggio 1575, se ne decreterà la sconsacrazione il 15 gennaio 161683.

 

82Archivio della Badia di Cava, pergamene LXIII 94; LXV 46; LXV 55.

83Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

  

 

 

 

 

Santa Maria dei Barbuti

 

Percorso verso settentrione l’attuale vicolo omonimo, il nostro viandante raggiungeva, come facciamo tuttora, la parrocchiale di Santa Maria dei Barbuti [44]. Essa, certamente molto più antica, compare nelle fonti nel marzo 1301 in relazione a suoi beni siti in platea Palmentariorum84. Il suo territorio parrocchiale si estendeva a cavallo dell’antica via del mercato, attualmente delle Botteghelle, comprendendo gli immobili prospettanti verso il duomo; qui al 1449 è documentata la chiesa di San Giovanni in Gerusalemme [45]; già rinvenuta minacciante di crollo nel corso della visita pastorale del 15 marzo 1535 e definita diruta il 12 marzo 1556, nel 1578 il suo beneficio sarà trasferito in cattedrale, nella cappella di San Sebastiano, ove attualmente vediamo collocato il monumento funebre di Margherita di Durazzo85.

Nell’isolato successivo verso meridione, nel quale, trattando del territorio parrocchiale di San Gregorio, abbiamo visto la chiesa di San Fortunato de Stellatis [8], al luglio 1185 è documentata una terra con casa in muratura che Guglielmo conte di Caserta, figlio di Roberto, cede alla badia di Cava; nel gennaio 1213 si discute una causa intentata dalla stessa badia contro Tommasa, moglie del teutonico Enrico e figlia di Pietro detto Mazza, che abusivamente deteneva l’immobile; nel maggio 1242 la casa, che risulta costituita da terranei e due piani superiori, è concessa per ventinove anni a Ruggero de Petrasturnina [46]86. Dal terzo fra i documenti considerati si ricava che questa terra con casa era posta a settentrione della chiesa di San Fortunato de Stellatis, nei pressi dell’archiepiscopio, lungo la strada che conduceva allo stesso e, andando verso occidente, si congiungeva con altra strada, la platea Maggiore, ove anticamente si teneva il mercato.

Una strada del mercato con andamento nord-sud, quindi identificabile con l’attuale via delle Botteghelle, alla quale chiaramente si riferisce il documento che abbiamo visto, compare nella documentazione giunta fino a noi nell’ottobre 1063 quale confine orientale di una terra con casa in muratura che si dividono Melo, figlio di Angelo, e Orso, figlio di Stefano; nell’agosto 1082, Giovanni, figlio di Melo, concede per otto anni a Filippo, figlio del siculo Giovanni, una bottega facente parte di quanto toccato al padre; nel febbraio 1090 Gemma, figlia di Giovanni e vedova di Melo, agente anche per conto della figlia Trotta, concede per sei anni a Leone e Pietro, figli di Orso de Rocca, l’intera parte che era stata pertinente al rispettivo marito e padre87. Dallo stesso lato occidentale della strada risulta prospettare la bottega in muratura che nel marzo 1115 Riccardo, figlio del conte Drogone, offre alla badia di Cava e che questa nel gennaio 1128 cede a Domnello, figlio di Domnello, in cambio di un terreno sito in Busanola88. Sul lato opposto di questa strada sono documentati due immobili: una terra con casa e botteghe in muratura che nel luglio 1092 Giovanni, figlio di Giovanni detto de Fatterosa dona alla badia di Cava e una terra con casa in muratura, archi e altri edifici, con un piccolo terreno vuoto adiacente, che nell’ottobre 1178 si dividono la stessa badia e Giovanni, figlio di Pandolfo che fu figlio di Landone; nel dicembre 1188 lo stesso Giovanni, che qui si precisa essere detto Pizzocarolo, figlio di Pandolfo che fu figlio di Landone de Papa, insieme alla moglie Rebecca, vende ai monaci cavensi, rappresentati dal confratello Ruggero, la parte toccatagli nella divisione di dieci anni prima89. Tuttavia, la documentazione circa l’ubicazione dell’area mercatale non appare univoca poiché, a parte il fatto che certamente altri siti seguirono essendo detta la via delle Botteghelle al maggio 1242 anticamente del mercato, già un inserto datato febbraio 1060, contenuto in un documento del luglio 1178, con il quale il principe Gisulfo II concedeva all’archiepiscopio una terra con case di legno, lascia intravedere una diversa strada, con andamento est-ovest, allo scopo deputata, mentre nel maggio 1183 Luca detto Guarna, signore del castello di Mandra, figlio di Pietro che fu figlio del conte Romoaldo detto Grasso, aveva venduto alla badia cavense, rappresentata dallo stesso monaco Ruggero che abbiamo visto agire nell’atto del dicembre 1188, la quarta parte di una terra con casa in muratura e di una terra con botteghe alla prima contigua, pertinente alla moglie Ita, che la possedeva per donazione del fu Landolfo detto de Manso, figlio del conte Alfano, che era stato suo primo marito, poste nei pressi del sacro vecchio palazzo, confinanti a meridione con la strada del mercato90. Intanto, al febbraio 1144, un’altra strada era indicata come anticamente del mercato, ma il contesto del documento non permette di individuarla né di stabilirne l’andamento91.

   

 

 

 

 

 

 

84Archivio della Badia di Cava, pergamena LXI 112. Santa Maria dei Barbuti è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo.

85Archivio Diocesano di Salerno, Benefici vari; Visite pastorali.

 

 

86Archivio della Badia di Cava, pergamene L 15; XLVI 48, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1212; LI 62.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

87Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 109; XIV 2; XIV 113, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1089; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 250-251.

88Archivio della Badia di Cava, pergamene E 39; XXII 33, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1127.

89Archivio della Badia di Cava, pergamene XV 53; XXXVI 39; XLII 12.

90Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 17. Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXIX 25.

91Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 53.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell’ambito del territorio parrocchiale di Santa Maria dei Barbuti sono documentate, senza che sia possibile una maggiore precisione di ubicazione, una casa che il 2 settembre 1434 Cubello de Rogerio, fratello di Stefano, aveva donato alla confraternita di San Salvatore de Drapparia92 e, al 7 novembre 1493, una casa della chiesa di San Giovanni a Mare93.

 

 

92Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4871, 1596, f. non numerato, 20 gennaio.

93Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4835, 1493-1494, f. 48.

  

 

 

 

 

San Grammazio

 

Percorsa interamente verso settentrione la via delle Botteghelle, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento raggiungeva il largo della prima porta Rotense, in territorio parrocchiale di San Grammazio. Qui, all’angolo sud-occidentale, poteva  osservare la chiesa di San Marco della Porta [47]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi con un privilegio del principe Gisulfo II del novembre 1053, esibito il 12 agosto 1335 dal procuratore del nobile signore Matteo de Porta, regio consigliere e familiare, figlio del milite Tommaso, con il quale, per intervento Octavie Principisse dilecte genetricis nostre, concede ai conti Guaiferio e Alberto, figli del conte Adalferio, definiti suoi diletti parenti, l’intera chiesa Sancti Marci, que constructa est intra hanc Civitatem super plateam que ducit ad portam que Rotensa dicitur; nell’ottobre 1085 ne risulta custode il presbitero Pietro e primicerio il chierico Manso; nel 1309 è retta dai presbiteri Matteo e Giacomo94. Adiacenti alla chiesa vi erano case già confiscate a Bartolomeo della Porta che il 12 luglio 1300 Carlo II concede a Giovanni della Porta e ai suoi eredi95.

Lungo lo stesso lato della strada, poco a occidente, attualmente riconoscibile nella cosiddetta Farmacia all’interno dell’Archivio di Stato, il nostro viandante poteva osservare l’altra chiesa di San Ludovico della Porta [48]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi il 16 marzo 1466, quando risulta posta sotto le case che furono del signor Francesco de Porta, nell’attualità del signor Giovanni Guarna; il suo patronato, con il diritto di presentazione del rettore, ossia del cappellano, spettava a Nicola Matteo de Porta, al quale, però, erano stati confiscati tutti i beni, poi concessi a Roberto Sanseverino, principe di Salerno, che esercita tale diritto nominando, tramite il suo procuratore, il presbitero Fabrizio de Guido. Quando il palazzo sarà adibito a sede della Regia Udienza, San Ludovico o San Luigi o San Leonardo, detta de Porta o de Guarna, diverrà la cappella del carcere; nel 1725 così sarà descritta: Chiesa di S. Lonardo sotto la Regia Udienza con due porte, una dalla strada publica, e l’altra dentro il cortile della d(et)ta Regia Udienza, nella quale sentono Messa i Carcerati nelle Carceri della med(esim)a; d(et)ta Chiesa sta sottoposta al Parroco de S(an)to Gramazio96.

 

 

94Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 609-614. Archivio di Stato di Salerno, pergamena A 9; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 57-59. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6522. Il primo di questi documento contiene una genealogia dalla quale risulta che Matteo de Porta, tramite il padre Tommaso, figlio di Matteo, figlio di Tommaso che fu familiare di re Carlo, figlio di Eufronone che fu viceré in Sicilia dell’imperatore Federico, figlio di Matteo, figlio di Eufronone, figlio di Sergio, figlio di Pietro, discendeva da quel conte Alberto al quale Gisulfo II, unitamente al fratello Guaiferio, aveva donato la chiesa e le sue pertinenze; è da notarsi che il documento esibito, o la trascrizione fattane nel 1335, oppure quella nel Registro I della Mensa, quest’ultimo spesso non ineccepibile in quanto a correttezza delle informazioni riportate, contiene due imprecisioni: la prima è che la madre di Gisulfo II non si chiamava Ottavia, ma Gemma; la seconda è che la chiesa di San Marco della Porta non era sita a settentrione della via che conduceva alla porta Rotense, ma a meridione. Del secondo di questi documenti altro originale è in Archivio della Badia di Cava, pergamena XIV 42.

95Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 102, f. 27; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, p. 458.

96Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 227; Visite pastorali.

La chiesa parrocchiale di San Grammazio poteva essere osservata dal nostro viandante poco a occidente, lungo il lato opposto della strada [49]. Essa fu dedicata al secondo fra i vescovi salernitani conosciuti, tradizionalmente ritenuto santo, le cui reliquie erano custodite sotto il suo altare. Una epigrafe che sarà rinvenuta con esse il 29 marzo 1670 ne farebbe risalire la morte al 25 gennaio 490, all’età di 41 anni97. Forse il suo carisma fu tale che non trascorse molto tempo prima che si diffondesse un culto a lui dedicato; forse l’edificazione di una chiesa in suo onore si potrebbe far risalire addirittura al VI secolo. Certo è che nel novembre 1026 essa esisteva al centro dell’attuale largo Abate Conforti: in tale mese e anno Aldemario, suo presbitero e abate, compra da Ermesenda, figlia di Orso e vedova del chierico Truppoaldo, e dal figlio chierico Romoaldo una terra con casa posta a meridione della strada che conduce sotto la chiesa di San Massimo; il 12 ottobre 1067 papa Alessandro II, nella bolla di conferma all’arcivescovo Alfano I dei beni e privilegi della Chiesa salernitana, cita la parrocchiale di San Grammazio con le case annesse, precisando che essa era stata donata all’episcopio da Maldefrido e Adelferio; nel 1309 è retta dal presbitero Stasio; sarà fatta demolire il 29 marzo 1670 dall’arcivescovo Gregorio Carafa con la motivazione ufficiale della inadeguatezza al culto, essendo definita edicola angusta, ma più probabilmente su pressione dei gesuiti che intendevano creare uno spiazzo davanti alla gradinata della loro imponente chiesa del Gesù98.

Adiacenti alla chiesa di San Grammazio, oltre quelle della stessa che abbiamo visto citare da papa Alessandro II, sono documentate case che nel giugno 1263 Bartolomeo de Iudice cede al monastero di Santa Maria costruito sul monte Vergine in cambio di beni siti in Felline99. A meridione della strada che la lambiva, in una posizione non perfettamente definibile, troviamo, al giugno 1038, una piccola terra con una costruzione di legno già del castaldo Desigio, figlio di Landenolfo, che Specioso, abate dei monasteri di San Pietro e di San Giovanni, il secondo sito in Salerno, vicino alla porta Rotense, a causa di debiti contratti per lavori eseguiti nello stesso monastero, essendo angustiato dai creditori, è costretto a vendere a Pietro Ramfo, figlio di Giovanni, che già possiede, per acquisto dallo stesso figlio e dalla vedova del castaldo Landenolfo, un’altra terra con casa ugualmente di legno posta a meridione di quella di cui si tratta; nel dicembre 1085 Gemma, figlia di Pietro Ramfo, vende il complesso delle due terre, che risultano prive di costruzioni, al presbitero Costabile, figlio del presbitero Fasano; nel novembre 1095 il detto Costabile rivende l’intera l’area, sulla quale, intanto, ha edificato una casa di legno, a Nicola, figlio del greco Pancullo100.

 

 

97+DEP. SCM GRAMMATII EPI / SUB DIE VIII KALD FEBR’ / CONS PROBO VCIVII QUI / VIXIT IN PACE ANN XLI. L’epigrafista professor Armando Petrucci (cf. G. Crisci, Il cammino della Chiesa Salernitana nell’opera dei suoi Vescovi, I, 1976, p. 61; II, 1977, pp. 121-122) così interpreta l’iscrizione: Dep(ositio) s(an)c(tae)m(emoriae) Grammatii epi(scopi) sub die VIII kal(en)d(as) febr(uarias) cons(ule) Probo v(iro)c(larissimo)iun(iore) (dando per scontato un errore di trascrizione in VCIVN, ove la N fu trascritta II) qui vixit in pace ann(is) XLI. L’anno del consolato di Flavio Probo Fausto iuniore fu il 490.

98Archivio della Badia di Cava, pergamena VII 43; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., V, pp. 125-126; in tale edizione è indicata come VII 44. Archivio di Stato di Salerno, pergamena IV; edita in Pergamene Salernitane cit., pp. 33-36. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6521. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. San Grammazio è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo. Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 53, riporta che Roberto Coppola, contemporaneo dell’arcivescovo Romualdo II Guarna (resse la Chiesa salernitana dal 1153, morì nel 1180 o 1181), vessato da’ Maligni Spiriti, portato nella Chiesa di S. Gramatio, per li meriti del Santo ricevé la grazia di essere liberato.

99Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 326.

 

 

 

 

 

 

100Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII 57; XIV 45; XVI 41; della prima viene dato un transunto in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VI, p. 87, ove è indicata come VIII 58, mentre l’edizione integrale si legge in M. Galante, La datazione cit., pp. 240-243.

Il monastero di San Giovanni a Porta Rotense rimane non perfettamente ubicabile, poiché i pochi documenti giunti fino a noi che lo citano lo dicono soltanto e genericamente vicino alla porta cittadina da cui prendeva l’appellativo. Il primo di essi, del settembre 1018, è relativo al fitto di due mulini posti sul fiume Irno, vicino al mare, che Guaiferio, figlio del conte Guaiferio, e Lando, abate del monastero, possedevano in comune; successivamente all’atto di vendita che sopra abbiamo visto, il luogo di culto compare, con l’abate Pietro, in un inserto del marzo 1058 presente in due documenti del luglio 1104 e del luglio 1106; un altro inserto, del novembre 1065, in un documento del luglio 1093, che rappresenta il testamento del conte Giovanni, figlio del conte Giovanni, costituisce la sua ultima citazione101.

  101Archivio della Badia di Cava, pergamene VI 86; XV 90; XVII 108; XVIII 42; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., V, pp. 3-4; l’inserto nella seconda è edito, estrapolato dal contesto del documento, in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 22-26.

Ugualmente non perfettamente ubicabile rimane la chiesa di San Matteo de Solariis, detta anche di San Matteo e San Giovanni, della quale la documentazione giunta fino a noi ci dice soltanto che era sita a settentrione della strada che conduceva alla porta Rotense oppure in Plaio Montis, a settentrione della porta stessa. Nel novembre 1041 compare con il suo abate Orso e si precisa essere pertinente agli eredi del castaldo Romoaldo; nel marzo 1064, mentre si chiarisce essere stato il castaldo Romoaldo, figlio di Pietro, il fondatore della chiesa, ne risultano compatroni il conte e giudice Rottelgrimo e Pietro, figli di Grimoaldo, pertanto Pietro cede al fratello la sua parte di patronato; nel novembre 1065, alla presenza dello stesso Rottelgrimo, il conte Giovanni, figlio del conte Giovanni che fu figlio del conte Lamberto, giacente infermo, dispone a favore della chiesa, per amore di Dio onnipotente e per la salute della sua anima, il lascito di un suo terreno sito a Priato; in quello stesso mese e anno, con il testamento che abbiamo visto inserito nel documento del luglio 1093, il conte Giovanni conferma la donazione di cui sopra; nel dicembre 1156 Giovanni, presbitero e abate della chiesa, che risulta pertinente agli eredi di Lupo, figlio del conte Maione, vende un terreno posto in Priato, presumibilmente lo stesso donato novantuno anni prima dal conte Giovanni; il 10 marzo 1535 sarà detta diruta; il 10 aprile 1573 il suo beneficio risulterà trasferito in San Marco della Porta con l’edificazione di un altare apposito lungo la parete di sinistra102. A settentrione della chiesa, all’aprile 1102, è documentata una terra con casa in muratura che Leo e Pietro, figli di Maione, donano alla badia di Cava103.

 

102Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII 112; XII 7; XII 26; XV 90; XXIX 84; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 173-174; VIII, pp. 297-302; IX, pp. 20-22; l’inserto nella quarta è edito, estrapolato dal contesto del documento, in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 22-26. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.   

103Archivio della Badia di Cava, pergamena XVII 30.

Lungo il lato settentrionale dell’attuale largo Abate Conforti, sul sito ove oggi vediamo il convitto nazionale Torquato Tasso, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva osservare il monastero di Santa Maria Monialium [50]. Esso compare nelle fonti giunte fino a noi nel maggio 1094, quando il conte e giudice Sicone lo cita come di sua pertinenza nell’atto con il quale raccoglie le testimonianze dell’arcidiacono Alfano, del presbitero cardinale Mario, del chierico Orso, figlio di Guinecisio, e di Maiorano, figlio di Maraldo, che attestano come il chierico Pietro, figlio di Madienolfo e di Imelsenda, essendo gravemente infermo, aveva disposto il lascito della parte a lui spettante della casa in muratura che era stata dei detti suoi genitori, sita a settentrione del monastero, a favore di Gemma, figlia naturale di suo fratello Ademario e moglie del detto Maiorano, e di suo figlio Zoffo; in quello stesso mese e anno il medesimo conte Sicone, figlio del conte Godeno, redige il suo testamento con il quale lascia al figlio Bertarario, fra altri beni, il patronato del monastero; nel marzo 1187 il notaio Alferio, figlio di Lupeno che fu figlio di Marino detto de Vina, dichiara che, essendo morto senza eredi Bertarario, figlio del conte Sicone, a lui, per eredità di Gaitelgrima, una delle tre figlie dello stesso conte Sicone, era pervenuto un terzo del patronato del monastero di Santa Maria de Monialibus che egli, contestualmente a tale dichiarazione, dona all’archiepiscopio rappresentato dal presbitero e cardinale Giovanni; sarà sottoposto a visita pastorale per l’ultima volta il 27 aprile 1645 con la disposizione, sintomatica del ridotto numero delle monache e anticipatrice dell’imminente soppressione, di chiudere con tavole le porte delle celle aventi prospetto sulla via di Sant’Eufebio, attuale vicolo Sant’Antonio104.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

104Archivio della Badia di Cava, pergamene XV 120; XXX 33. Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 449-455; Visite pastorali.

Procedendo verso occidente, poco oltre l’imbocco dell’attuale via Trotula de Ruggiero, nel Medioevo della Fistola pubblica o di San Lorenzo o della porta Rotense, il nostro viandante osservava l’altro monastero di Santa Sofia [51]. Esso compare nelle fonti giunte fino a noi nell’ottobre 1026 con Musando, monaco e abate, che agisce insieme a Raidolfo, figlio di Guidone e cugino del fondatore Guaiferio, figlio del conte Guaiferio, in relazione all’amministrazione di beni che erano stati comuni fra i due cugini e che al momento erano comuni fra il superstite Raidolfo e il monastero, essendo questi erede del suo stesso fondatore. Nel luglio 1032 l’abate Musando dichiara di detenere, oltre Santa Sofia, il monastero di Sant’Angelo; da tale prima indicazione, negli anni fra il 1039 e il 1058, scaturirà una serie di abati che si fregeranno del doppio titolo di Santa Sofia e Sant’Angelo. Dal febbraio 1043, per diritti ereditari che ci sfuggono o per atti di donazione non giunti fino a noi, i due monasteri e la chiesa di San Martino alla Carnale, che era stata fondata dal conte Guaimario, nonno del fondatore di Santa Sofia e padre del fondatore di Sant’Angelo, risultano in patronato di Pandolfo, fratello del principe Guaimario IV. Nel dicembre 1052, essendone presbitero e abate Moscato, si parla di chiesa di Santa Sofia, non più di monastero. Nell’agosto 1100 Giovanni, figlio di Pandolfo, a sua volta figlio del principe Guaimario III, nel palazzo arcivescovile di Salerno, alla presenza di papa Pasquale II, dichiara che al detto suo genitore e alla madre Teodora, figlia di Gregorio console e duca dei romani, spettava il patronato della chiesa di Santa Sofia, anticamente monastero, che la stessa Teodora aveva fatto restaurare e ampliare; e poiché tale patronato era a lui pervenuto, desidera donarlo alla badia di Cava. Non si hanno elementi per precisare l’anno della trasformazione del Santa Sofia in monastero femminile; certo è che mentre il 20 maggio 1302 si parla ancora una volta soltanto di chiesa, nella prima metà del 1332 le monache di San Liberatore, che con il loro trasferimento determinarono il nuovo status dell’antico complesso, già vi si trovano. Con breve apostolico di papa Gregorio XIII del 10 dicembre 1575 il monastero sarà sottratto in perpetuum agli abati, ai monaci e al convento di Cava e sottoposto alla giurisdizione degli arcivescovi di Salerno105. Soppresso il sodalizio per effetto della riforma di Sisto V del 1589, nel 1590 i locali saranno ceduti ai padri gesuiti.

 

 

 

 

 

 

 

105Archivio della Badia di Cava, pergamene VII 41; V 44; IX 26; X 55; D 28; LXII 21; della prima è dato un transunto in Codex Diplomaticus Cavensis cit., V, p. 123, ove è indicata come VII 42, mentre l’edizione integrale si legge in S. Leone, La fondazione cit., p. 66; la seconda, la terza e la quarta edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, IV, pp. 10-11; VI, pp. 229-230; VII, pp. 191-193; in tale edizione, alla V 44 erroneamente è attribuita la data del luglio 1002; la correzione si legge in M. Galante, La datazione cit., pp. 73-75; nella stessa edizione la IX 26 è indicata come IX 24 e la X 55 come X 51. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 C 24, edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, pp. 70-72. M. A. Marsilio Colonna, Costitutiones cit., pp. 284-287. G. Paesano, Memorie cit., IV, 1857, pp. 335-337. Per la serie degli abati con il doppio titolo di Santa Sofia e Sant’Angelo si veda la nota 11 al capitolo 3 della premessa; la nota 22 al capitolo 1 di questa II parte, oltre la serie di questi abati, riporta anche la documentazione relativa a ciascuno di essi.

Fra il meridione e l’occidente del monastero di Santa Sofia [52], limitati verso quest’ultima direzione da un andito che ancora vediamo rappresentato dalla gradinata che conduce ad un vicolo cieco, intorno alla sua corte e fra questa e la via che conduceva alla porta anticamente detta Nocerina, attuale via Torquato Tasso, sono documentati immobili del monastero, prima gestiti dai suoi abati, poi dai monaci cavensi. Nel novembre 1026 Gisolfo, figlio di Guidone, dichiara che l’anno precedente lui e la moglie Adeltruda avevano venduto al presbitero Arechiso, figlio di Falcone, una terra vuota sita a meridione della via che conduce alla porta Rotense, trattenendo un’altra piccola terra posta a settentrione di quella venduta, fra questa e beni che furono di suo cugino Guaiferio, ossia il fondatore di Santa Sofia; quindi egli e la moglie donano allo stesso presbitero Arechiso quanto avevano trattenuto. Nell’agosto 1043 Giovanni, figlio di Amando, dichiara che a lui appartiene una terra con casa in muratura sita a meridione della via che conduce alla porta Rotense, in relazione alla quale presente due atti, l’uno del marzo 1025, l’altro che risulta essere quello sopra citato del novembre 1026, con i quali tale terra era stata in parte venduta e in parte donata da Gisolfo e Adeltruda al padre Amando e al presbitero Arechiso; quindi egli cede all’abate Giovanni di Santa Sofia tale terra con casa in cambio di altra terra con casa sita nei pressi della chiesa di Sant’Angelo soggetta al monastero. Nel luglio 1062 il presbitero e abate Moscato concede per venti anni a Giovanni, figlio di Pietro, una terra con pareti in muratura che potrà utilizzare per edificare una casa aggiungendo parti in legno, con il patto che, trascorsi i venti anni, egli o i suoi successori potranno recuperare il legname utilizzato rendendo alla chiesa il luogo così come è concesso; nel gennaio 1090 il presbitero e abate Giovanni concede per dodici anni ai chierici Pietro e Giovanni, figli del presbitero Disideo, una terra con pareti in muratura, posta a meridione della chiesa e a occidente della sua corte; nel maggio 1097 il sacerdote e custode Giovanni concede per diciotto anni al fabbro Pietro una terra posta a meridione della corte; nel giugno 1105 il monaco cavense Giovanni concede per venti anni a Pietro, figlio di Giovanni Capuano, e alla moglie Trotta, figlia di Giovannaccio, una terra nella quale essi avevano edificato una casa di legno, a settentrione della corte e a occidente dell’edificio monastico; nell’agosto 1164 Pietro e Cioffo, figli di Simeone de Anastasio, dichiarano, alla presenza del monaco cavense Giovanni, preposto del monastero di Santa Sofia, che appartiene allo stesso monastero una terra con pareti vecchie posta al suo meridione; nel giugno 1174 lo stesso monaco Giovanni concede, loro vita durante, al fabbro Pietro, figlio di Salerno, e alla moglie Sichelgaita, una terra con casa in muratura, scale di legno e mignano posta fra il monastero e la via che conduce alla porta anticamente detta Nocerina, escluso un terraneo meridionale che rimane al monastero106.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

106Archivio della Badia di Cava, pergamene VII 42; IX 33; XI 90; XIV 110, datazione ab incarnatione di tipo vebeto gennaio 1089; XVI 71; XVIII 19; XXXI 87; XXXIV 101; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, V, pp. 124-125; VI, pp. 240-243; VIII, pp. 195-196; in tale edizione la VII 42 è indicata come VII 43 e la IX 33 come IX 31.

Nel dicembre 1058107 i conti Guaimario e Giovanni, figli del conte Guaimario, si incontrano con Moscato, sacerdote e abate di Santa Sofia e di Sant’Angelo, il quale presenta un atto privato senza data relativo ad una convenzione intervenuta fra lui, in rappresentanza di Santa Sofia, e i detti fratelli con la quale erano state consensualmente divise le terre e le case che furono del conte Guaiferio, figlio di Guaiferio, ossia il fondatore del monastero, delle quali tre parti competevano al monastero stesso e una parte a Guaimario e Giovanni quali eredi di Gemma, loro zia paterna, che fu moglie dello stesso conte Guaiferio. Le parti assegnate al monastero si articolavano in due immobili: il primo [53], costituito dalla maggior parte dell’ex residenza del conte Guaiferio, dal fronte settentrionale del monastero, scavalcando la strada con l’arco che ancora vediamo, si estendeva, ma senza raggiungerla, verso la via di San Massimo, confinando a oriente con una corte e un andito, a settentrione con il residuo della stessa ex residenza che sarà assegnato a Guaimario e Giovanni, a occidente con beni di altri; il secondo [54], costituito da una terra con una casa parte in legno e parte in muratura, confinava a settentrione con la strada, a occidente con beni del conte Castelmanno, a oriente con un andito, a meridione con beni di altri. Anche la parte assegnata ai conti Guaimario e Giovanni si articolava in due immobili: il primo [55], costituito dal residuo dell’ex residenza del conte Guaiferio, prospettava verso settentrione sulla via di San Massimo; il secondo [56], costituito da una terra con casa in muratura, era posto a settentrione del primo, oltre la strada, confinando a oriente con la terra del fabbro Raidolfo.

 

107Archivio della Badia di Cava, pergamena XI 37; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 90-94.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell’aprile 1070 Alferada, figlia di Orso e vedova di Romoaldo, il figlio chierico Giovanni e Maria, moglie di questi, si incontrano con Siconolfo, figlio di Amato e loro genero e cognato rispettivamente, e presentano un documento del gennaio 1064 con il quale il conte Guaimario, figlio del conte Guaimario, presentando l’atto della divisione con l’abate Moscato di cui sopra, dichiarava che a lui apparteneva l’intero residuo dell’ex residenza del conte Guaiferio posto a meridione della via di San Massimo a suo tempo assegnato ad egli stesso e al fratello e tanto vendeva a Romoaldo e al figlio chierico Giovanni; quindi, a loro volta, essi vendono al detto Siconolfo lo stesso immobile. Nel maggio 1130 Giovanni detto Occhi di Capra, figlio di Romoaldo Vallense, si incontra con Regimundo, figlio di Pietro, che rappresenta la badia di Cava, e gli vende questo immobile, che risulta confinante verso meridione con la peschiera del bagno del monastero, consegnandogli quattro documenti relativi ad altrettanti passaggi di proprietà, che non vengono trascritti, datati aprile 1070, marzo 1096, marzo 1102, giugno 1102108.

   

 

 

 

108Archivio della Badia di Cava, pergamene XII 86, datazione ab incarnatione di tipo dalernitano aprile 1071; XXII 104; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., IX, pp. 259-263.

Alla parte dell’ex residenza del conte Guaiferio originariamente pervenuta a Santa Sofia appartenevano due botteghe poste sotto l’arco edificato sulla strada, l’una lungo il lato settentrionale, l’altra lungo quello meridionale. Nell’agosto 1059 l’abate Moscato concede per dieci anni a Carammalo, figlio di Basilio, la prima di tali botteghe insieme al primo solaio posto sull’arco; nell’aprile 1104 il monaco cavense Berengario testimonia, insieme ad altri, come il fu Manso Brancatulo, figlio di Guidone, aveva legato testamentariamente a favore del monastero una terra con pareti che nell’ottobre 1102 aveva acquistato da Guidone, figlio del conte Landolfo, posta a settentrione della strada; nel settembre dello stesso anno Giovanni, figlio del conte Castelmanno, dichiara che alla badia di Cava appartiene la camera, forse ottenuta restaurando quanto donato da Manso Brancatulo, confinante con la corte e il bagno funzionante nell’ex residenza comitale; nell’ottobre 1109 si concede per dieci anni a Orso, figlio di Orso detto de Gaudio, un piccolo terreno posto sotto le case del monastero, confinante a settentrione con il bagno, a meridione con la strada, a occidente e oriente con due dei pilastri dell’arco; nel giugno 1117 il suddiacono Pietro, figlio di Romoaldo Vallense, agente anche per conto del fratello Giovanni, rilascia una dichiarazione analoga a quella resa tredici anni prima da Giovanni, figlio del conte Castelmanno, a proposito della proprietà della camera confinante con la corte e il bagno; nell’ottobre 1151 Rainerio di nazione pisana, figlio di Brino, agente per conto della badia di Cava, concede per sette anni ad Alfano, figlio di Amato, entrambe le botteghe109. Nel giugno 1164 è concesso per cinque anni allo stesso Alfano, qui detto Benevico, figlio di Amato, il bagno con la corte e l’andito che lo limitano verso oriente e lo separano dalla casa nuova del monastero, con l’obbligo di ricevervi gratuitamente i monaci cavensi, l’abate e i serventi che lo avessero accompagnato, i chierici e il presbitero della chiesa di San Massimo, le monache di Santa Maria Monialium, secondo quanto era solito farsi pro amore Dei; nel novembre 1169 la concessione è rinnovata con le stesse pertinenze e obbligo; nel febbraio 1171 si concede per diciannove anni a Giovanni de Marenda, figlio di Pietro, un solaio costruito sul bagno, confinante con la casa che lo stesso Giovanni detiene per concessione del monastero, con le scale, comuni fra tali case e solaio, poste nell’andito che verso meridione raggiunge la via che conduce alla porta Rotense; nell’ottobre 1183 allo stesso Giovanni è concesso per nove anni la gestione del bagno, con il solito obbligo delle prestazioni gratuite a favore dei monaci cavensi e degli amici del monastero; nell’ottobre 1186 è concesso per diciannove anni al carpentiere Giovanni, figlio di Roberto de Grimoaldo, un solaio costruito su parte del bagno, confinante verso oriente con l’andito che lo separa da altri beni del monastero; lo stesso solaio, nel settembre 1191, è concesso, ancora per diciannove anni, a Nicola detto Lugro, figlio di Alessandro110.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

109Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 50; XVII 101; XVII 112; XVIII 110; XX 79; XXVIII 11; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 119-121.

110Archivio della Badia di Cava, pergamene XXXI 79; XXXIII 41; XXXIII 50, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1170; XXXIX 55; XLI 19; XLII 115; la quarta pubblicata in «Archivio Storico per la Provincia di Salerno», 1932, pp. 88-89.

 

 

Al giugno 1164 abbiamo visto citare una casa nuova del monastero e al febbraio 1171 abbiamo visto come Giovanni de Marenda deteneva, per concessione della badia di Cava, una casa posta a oriente del bagno. In effetti, su quest’area a oriente dell’ex residenza del conte Guaiferio [57] sono documentate alcune particelle immobiliari delle quali è possibile seguire le vicende fra l’ultimo decennio del X secolo e gli anni sessanta del XIII. Nell’aprile 1105 il giudice Giovanni, figlio del conte di palazzo Disideo, si incontra con il monaco cavense Giovanni e dichiara che a Sichelgaita, figlia del conte Pietro e vedova di Lamberto, figlio del conte Adalberto, appartiene una terra con casa e arco sulla strada che conduce al monastero di San Lorenzo, confinante a occidente con la terra con pareti in muratura di Santa Sofia che fu di Mansone detto Brancatulo e a settentrione con una strettola; quindi, per conto della detta Sichelgaita, che confermerà la vendita con un atto del maggio successivo, vende tale terra con casa, arco e pertinenze alla badia consegnando una cartula divisionis relativa all’immobile del marzo 1096111. Nell’aprile 1118 Doniboldo, figlio del normanno Erberto, si incontra con Alfano, figlio del conte Ademario, e gli vende una casa in muratura sita a settentrione della via che conduce al monastero di San Lorenzo consegnandogli tre documenti, fra i quali uno del marzo 1096; nel dicembre successivo Alferio, figlio di Machenolfo, al quale l’immobile in oggetto evidentemente era pervenuto, presenta, allo scopo ne venga fatta copia, un documento del marzo 1096, chiaramente lo stesso di cui sopra, del quale altra copia era stata consegnata alla badia dal giudice Giovanni nell’aprile 1105, con il quale una terra con casa parte in muratura e parte in legno era stata divisa fra Doniboldo, figlio del normanno Erberto, e Sichelgaita, figlia del conte Pietro e vedova di Lamberto, figlio del conte Adalberto; nel marzo 1166 il chierico Machenolfo, primicerio della chiesa di San Massimo, figlio di Alferio, cede alla badia di Cava, rappresentata dal monaco Centurio, questa parte di quanto fu comune fra Doniboldo e Sichelgaita, che risulta confinante a meridione con la via che conduce alla porta Rotense e la divide dal monastero di Santa Sofia, nella quale sono edificati i gradini in muratura che permettono l’accesso all’immobile; nel giugno 1185 la badia concede per diciannove anni a Matteo detto Scemese, figlio di Giovanni, il primo solaio e altri ambienti di questa casa definita come quella nella quale abitò mastro Machenolfo; allo stesso modo è definita nel settembre 1188, nell’atto con il quale la si concede, anche per diciannove anni, a Petrone detto Acquafredda, figlio di Costantino112. L’immobile che possiamo riconoscere antesignano della casa nuova del monastero citata al giugno 1164 compare nella documentazione giunta fino a noi nel novembre 1148, quando Giovanni detto Saraceno, figlio di Lamberto ugualmente detto Saraceno che fu figlio del conte Alfano, si incontra con il notaio Landolfo, figlio di Giaquinto, che interviene in rappresentanza della badia di Cava, e presenta un documento dell’agosto precedente con il quale Sica, figlia di Cioffo de Basilio e vedova di Constanagno detto Bocca Rappulo, e i suoi figli infanti Bartolomeo e Constanagno gli avevano venduto una terra con casa in muratura, con pareti e scale dirute, posta a settentrione della via che conduce al monastero di San Lorenzo e a meridione della chiesa di San Massimo, che il fu Constanagno e il fratello Guido avevano acquistato nel febbraio 1139, confinante a meridione con la corte, a occidente con l’andito comune, a settentrione con la via che conduce alla chiesa di San Massimo; quindi Giovanni Saraceno vende alla badia la parte occidentale di tale immobile. Nel novembre 1154 si concede per diciannove anni a Guarnerio, figlio di Guarnerio, il primo solaio e il terraneo della casa nuova in muratura, con scale nuove ugualmente fabbricate, edificata sul sito delle case dirute acquistate sei anni prima; fra il marzo 1154 e il febbraio 1155, alla presenza dell’arcivescovo Romoaldo II Guarna e del padre Pietro, figlio del conte Romoaldo detto Crasso, Giovanni, fratello dello stesso arcivescovo e figlio del detto Pietro, anche a nome degli altri suoi fratelli, dichiara che alla badia di Cava appartengono le scale in muratura congiunte con le case della stessa poste a occidente del bagno di Santa Sofia; nel novembre 1169 l’immobile è concesso per dodici anni a Salerno, figlio di Pietro; nel maggio 1187 si concede per diciannove anni a Giovanni, figlio di Guidone, parte dello stesso, escluso quanto già detenuto da Giovanni, presbitero della chiesa di San Massimo113. Naturalmente, perché Giovanni, il fratello dell’arcivescovo Romoaldo II, potesse essere chiamato a dichiarare quanto abbiamo visto, anche a nome dei fratelli, la famiglia doveva possedere beni nell’area; infatti, nell’aprile 1124 il monaco cavense Ligorio, agente per conto della chiesa di San Massimo, in cambio di un terreno sito fuori città, aveva ceduto a Landolfo, figlio del conte Landone detto de li Canali, una terra con casa in muratura posta all’angolo sud-orientale della nostra area 57, poiché confinava a meridione con la via che conduceva alla chiesa di Santa Sofia e a oriente con la via che saliva alla chiesa di San Massimo, avendo per confine settentrionale un andito e per confine occidentale una terra con casa in muratura nella quale vi era il bagno di Pietro, figlio del conte Romoaldo detto Crasso, ossia il padre dell’arcivescovo Romoaldo II; questa terra con casa ceduta dalla chiesa di San Massimo a Landolfo de li Canali era la stessa, poiché uguali sono i confini, che nel dicembre 1078 il conte Audoalfo, figlio del conte Adalferio, aveva venduto a Riso, figlio del conte Giovanni, e che questi e la moglie Boccia, figlia di Pietro, nel dicembre 1091 avevano donato all’altare di San Bartolomeo eretto nella stessa chiesa di San Massimo114. Nell’aprile 1236 Guido, figlio di Pandolfo che fu figlio di Guidone, vende al dottore fisico Bartolomeo detto de Vallone, figlio di Matteo ugualmente detto de Vallone, terre con pareti in muratura ove nel passato vi furono case fra di loro contigue, in una delle quali è costruito un bagno, poste intorno alla corte, lungo la via che conduce alla porta Rotense, vicino al monastero di Santa Sofia, a meridione della chiesa di San Massimo, confinanti a oriente e settentrione con la via che conduce alla detta chiesa; nel febbraio 1258 la badia di Cava concede per due anni a Bartolomeo de Vallone, figlio del salernitano dottore fisico Matteo, due terre con case in muratura confinanti a occidente con l’andito, a settentrione con la via che conduce alla chiesa di San Massimo, a oriente e meridione con beni dello stesso Bartolomeo, insieme al bagno diruto e agli archi ed edifici, evidentemente quelli dell’ex residenza del conte Guaiferio e della casa già di Sichelgaita, ugualmente diruti, posti sulla strada che conduce al monastero di San Lorenzo; nell’aprile 1269 la badia vende a Bernardo detto de Vallone, figlio del dottor Bartolomeo, ai suoi fratelli Bartolomeo e Filippo e alla loro madre Elisabetta le due terre con case concesse undici anni prima, di cui si confermano i confini115.

Oltre gli immobili che abbiamo visto o che vedremo dettagliatamente, nell’area, senza che sia possibile determinarne l’altezza lungo la strada e, quindi, l’appartenenza parrocchiale, ne sono documentati altri posti genericamente a settentrione della via della porta Rotense o della Fistola pubblica116 e a meridione della stessa strada, citata anche come quella che lambisce Santa Sofia e conduce a San Lorenzo117

 

 

 

 

 

 

 

111Archivio della Badia di Cava, pergamene XVIII 15; XVIII 16.

 

 

 

 

 

 

 

112Archivio della Badia di Cava, pergamene XX 108; XXI 5; XXXII 22; XL 55; XLI 119.

113Archivio della Badia di Cava, pergamene XXVII 19; XXVIII 109; XXVIII 117; XXXIII 42; XLI 53. Sulla terza non si leggono mese e indizione, ma soltanto lanno ab incarnatione 1154 che correva fra il marzo 1154 e il febbraio 1155. Interessante la citazione del padre dellArcivescovo Romoaldo II Guarna, figlio del conte Romoaldo detto Crasso (in altri casi è detto Grasso), e del fratello Giovanni, che si aggiunge allaltro fratello generalmente noto, labate Roberto della chiesa di San Gregorio, e a Luca, signore del castello di Mandra, che abbiamo visto vendere alla badia di Cava la quarta parte di una terra con casa in muratura e di una terra con botteghe alla prima contigua poste nei pressi del sacro vecchio palazzo, confinante a meridione con la strada del mercato (Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXIX 25). Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 74, riporta che la famiglia Guarna È di Origine Longobarda. Prima era nominata Crasso, poi Guarna. Come la Famiglia avesse mutato il nome di Crasso in Guarna, fù perché un di loro tenne ben’incurata con Merli qualche Fortezza; mentre che la parola Guarna in Francese significa Fortificare, e il Vocabolo Guarna in Italiano allude a tal significato, e perciò nel Scudo ergono tanti Merli. In realtà, nello stemma dei Guarna quelli che l’estensore del Manoscritto scambia per merli sono tre fasce dello smalto araldico vaio. In Archivio della Badia di Cava, pergamena G 42, dicembre 1143, compare il futuro arcivescovo, l’allora chierico Romoaldo detto Guarna, figlio di Pietro, a sua volta figlio del conte Romoaldo detto Grasso.

114Archivio della Badia di Cava, pergamene XXI 103; XV 38.

 

 

 

 

 

 

 

115Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 315. Archivio della Badia di Cava, pergamena LIII 94, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1257; LV 112; la prima edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 286-288.

116Archivio della Badia di Cava, pergamene IX 111, ottobre 1048; XXI 33, aprile 1120; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VII, pp. 78-80; in tale edizione è indicata come IX 108.

117Archivio della Badia di Cava, pergamene I 35, aprile 853; IV 73, giugno 992; IV 84, marzo 993; XIII 87, febbraio 1081, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1080; E 1, agosto 1105; XXI 112, novembre 1124; XXV 84, dicembre 1143; XXV 58, gennaio 1144, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1143; XXVII 100, gennaio 1152, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1151; XXVII 98, gennaio 1152, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1151; XXIX 80, dicembre 1156; XXXVII 10, febbraio 1181, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1180; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, I, pp. 43-45; II, pp. 333-334; III, pp. 5-6.

  

 

 

 

 

San Massimo

 

Superato l’arco dell’ex residenza del conte Guaiferio, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva osservare a meridione della strada, oltre l’andito oggi rappresentato dalla già citata gradinata che conduce ad un vicolo cieco, in territorio parrocchiale di San Massimo, gli edifici posteri del secondo immobile toccato a Santa Sofia nella divisione dei beni del suo fondatore [54]. Nell’aprile 1081 si concede per quindici anni al chierico Pietro detto Lazzaro, figlio di Orso, parte di un solaio delle case qui edificate, confinanti a oriente con l’andito che conduce all’atrio e ad altre case della chiesa, a settentrione con la strada nella quale è posta la scala di legno tramite la quale si accede all’immobile, a occidente con la parte residua del solaio, a meridione con beni di altri; nel maggio dello stesso anno si concede, anche per quindici anni, a Manno e Giovanni, figli di Bernardo, il residuo dello stesso solaio; nel luglio successivo si concede, ancora per quindici anni, a Giovanni detto Pesce, figlio di Andrea, parte di un altro solaio delle stesse case; nel febbraio 1120 Castelmanno, Giovanni e Malfrido, figli di Giovanni che fu figlio del conte Castelmanno, dichiarano, anche per conto dell’altro fratello Bernardo, che alla badia di Cava, della quale Santa Sofia è dipendenza, appartiene la terra con casa in muratura, nella quale è costruito un bagno, confinante a settentrione con la strada che conduce al monastero di San Lorenzo, nella quale sono poste le scale dell’immobile e di sopra il mignano, a oriente con la via che rasenta il monastero, a occidente con beni degli stessi dichiaranti118.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

118Archivio della Badia di Cava, pergamene XIII 104: XIII 109; XIII 111; XXI 22, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1119.

Le case del conte Castelmanno [58], che già abbiamo visto al dicembre 1058, nell’atto della divisione dei beni del fondatore di Santa Sofia, e che dinanzi abbiamo visto in possesso dei suoi nipoti, sono documentate ancora al febbraio 1129, quando Alferio, figlio del conte Castelmanno, garantisce su di esse un mutuo che accende presso Massano, figlio di Guidone119. Il 20 maggio 1302 Riccardo Curiale, figlio di Gregorio ugualmente detto Curiale, dichiara che alla badia di Cava appartiene la terra nella quale anticamente fu costruito un bagno, confinante a settentrione e oriente con vie, a occidente con beni di suo padre e di suo zio Angelo, a meridione con beni di altri120.

Sul lato opposto della strada [59] sono documentate altre case del conte Castelmanno. Nel settembre 1051 egli, che risulta essere figlio del conte Adelferio, acquista da Ademario, figlio del chierico Pietro, una terra con casa fabbricata sita a meridione della strada che conduce sotto la chiesa di San Massimo, confinante a occidente con un andito e dalle altre parti con suoi beni. Nel marzo 1070 lo stesso conte Castelmanno concede per ventinove anni a Elia, figlio del greco Giovanni, una terra con casa lignea ed edificio in muratura, vicino la chiesa di San Massimo, della quale egli è uno dei compatroni, confinante a occidente con un andito, a settentrione con la via che conduce alla stessa chiesa sulla quale sporge il mignano, a oriente e meridione con altre sue case. Nel maggio 1109 Giovanni e Alferio cognomento Sclabus, figli del conte Castelmanno, si incontrano e dichiarano di possedere delle terre con case confinanti a meridione con la corte comune e a settentrione con la via che conduce alla chiesa di San Massimo, delle quali Giovanni detiene la parte orientale e Alferio quella occidentale, quindi convengono che Giovanni ceda mezzo piede di terreno per l’intera lunghezza del confine fra le due proprietà, misurato in ventinove piedi e mezzo, e Alferio un piede e mezzo lungo lo stesso confine allo scopo di creare un’area di due piedi di larghezza sulla quale, entro un anno, Alferio costruirà un muro lungo l’intero confine per un’altezza pari alla sommità dei tetti delle case. Nel dicembre 1139 Maria detta de Grisa e il figlio Guaiferio si incontrano con Giovanni detto Marchese, figlio del conte Alfano, e con Castelmanno, Giovanni e Bernardo, che intervengono anche per conto dell’altro fratello Malfrido, figli di Giovanni detto Sclabo che fu figlio del conte Castelmanno, e detti madre a figlio dichiarano che a Giovanni Marchese e ai fratelli Sclabo appartengono le terre con case in muratura e le terre con case in legno alle prime congiunte che confinano a meridione con la corte comune, a occidente con l’andito, a settentrione con la via che conduce alla chiesa di San Massimo. Nel maggio 1197 si discute una lite fra il monastero di San Giorgio e Luca, figlio di Giovanni detto Sclavo, che agisce anche per conto del fratello Sergio, della sorella Mira e della nipote Agnese, figlia dell’altro suo fratello Bartolomeo, in relazione all’utilizzo dell’acqua che fluisce dal bagno del monastero e corre in un acquedotto lungo la strada davanti alla loro casa, sulla quale acqua sostengono avere diritti; a dimostrazione di tanto presentano l’atto di una divisione di beni, di cui non è specificata la data, intervenuta fra i fratelli Giovanni e Matteo Sclavo, nella quale l’utilizzo della stessa acqua veniva assegnato a Giovanni; ma, giudicandosi tale atto di divisione ininfluente ai fini dell’accertamento dei diritti, si sentenzia a favore del monastero121. Il 31 ottobre 1304 forse dei beni già degli Sclavo si tratta quando Filippo detto de Dario, figlio di Dario, in cambio di beni siti a Capezzano, cede alla badia di Cava, rappresentata dal monaco e camerario Pandolfo de Eboli, una terra con casa in muratura, archi e edifici sulla strada e una terra con casalino congiunta alla prima dalla parte orientale, vicino alla chiesa di San Massimo, confinante con strade a oriente e meridione; in realtà, anche se mai compare nelle confinazioni delle case degli Sclavo, come vedremo, una via esisteva fra le nostre aree 58 e 59. Il 25 giugno 1314 si ratifica un altro scambio avvenuto fra la badia, che aveva ceduto un immobile sito vicino Santa Maria de Domno, e il milite signor Matteo Cometa, figlio di Giacomo, che aveva ceduto il secondo e il terzo solaio di una casa in muratura che aveva acquistato il 12 marzo 1311 da Gerardo de Dario, vicino alla chiesa di San Massimo, confinante a settentrione, oriente e meridione con strade. Il 23 settembre 1322 l’intero immobile è locato per tre anni a Stasio de Dario, figlio di Filippo122.

   

 

119Archivio della Badia di Cava, pergamena XXII 46, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1128.

120Archivio della Badia di Cava, pergamena LXII 21.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

121Archivio della Badia di Cava, pergamene X 40; XII 84, datazione ab incarnatione di tipo salernitano marzo 1071; XVIII 98; XXIV 94; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VII, pp. 168-169; IX pp. 254-257; in tale edizione la X 40 è indicata come X 36. Archivio di Stato di Salerno, pergamena A 4; edita in Pergamenee del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 83-85.

122Archivio della Badia di Cava, pergamene LXII 112; LXV 47; LXVI 116. In Archivio della Badia di Cava, Index Chronologicus Pergamenarum, 5, f. 139, il regesto della LXV 47 è erroneamente datato 20 giugno 1314.

A oriente delle case degli Sclavo [60], fra queste e la residenza del conte Guaiferio poi pervenuta al monastero di Santa Sofia, limitati verso occidente, come accennato, da una via che scomparirà con l’acquisizione del complesso delle nostre aree 58 e 59 al patrimonio di San Massimo, sono documentati immobili della stessa chiesa. Nel maggio 982 Stefano, figlio di Pietro, dichiara che gli era stata concessa una terra vuota di San Massimo, confinante a settentrione con la via che passa a meridione della stessa chiesa ove corrono le fondamenta di una parete antica e a occidente con altra strada, con il patto di edificarvi, entro il successivo agosto, utilizzando pietre e legname già presenti sul luogo e altre sue pietre, una casa da dividersi con la chiesa trattenendone la metà per ventiquattro anni, alla fine dei quali avrà il diritto di asportare il legname utilizzato nella costruzione della metà da lui utilizzata; nell’agosto 1090 si concede per ventisette anni a Giovannaccio detto Cambrea, figlio di Andrea, affinché ne disponga il figlio Nicola, una terra con pareti in muratura sita a meridione della via che conduce alla chiesa, nella quale egli possiede una casa vecchia di legno, confinante a occidente con altra strada sulla quale sporge il mignano e a meridione con un andito nel quale è posta la scala di legno; nel settembre 1117 si rinnova la concessione per altri ventisette anni a favore di Nicola; nel giugno 1123 si concede per venti anni a Pietro detto de Argenta, figlio di Giovanni, e a Leone, figlio di Nicola, una terra con pareti dirute sita a meridione della chiesa di San Massimo, che il chierico Matteo, figlio del chierico Mastalo, deteneva in beneficio dalla stessa chiesa; nell’aprile 1143 si rinnova per altri venti anni la concessione a favore di Nicola sulla metà orientale della terra di cui sopra, ove aveva costruito una casa di legno, intanto passata in beneficio del chierico Giovanni, figlio di Cero; nel maggio 1145 si concede a Regale, vedova di Alfano che fu figlio del chierico Mastalo, e al figlio Leone una terra nella quale erano stata costruita una casa lignea confinante a settentrione con la strada che conduce sotto la chiesa di San Massimo e a oriente e meridione con anditi; nel marzo 1263 Andrea detto Grasso, figlio di Giovanni, agente per conto del genero notaio Tommaso detto Pizzocarolo, figlio di Bonaventura, cede alla badia di Cava, rappresentata dal presbitero Bonaccorso, un immobile con botteghe sito fuori città in cambio di una terra con pareti dirute che lo stesso Tommaso aveva condotto dalla badia costruendovi, con suoi materiali, una casa in muratura confinante a settentrione con la via pubblica che la separa dalla chiesa di San Massimo, sulla quale sono costruiti archi ed edifici larghi sei piedi e un palmo per tutta la lunghezza dell’immobile, a occidente con altra via ugualmente coperta da archi ed edifici con travi immessi nella parete di una casa di altri, a meridione con una strettola; nell’ottobre 1281 il notaio Tommaso Pizzocarolo rivende alla badia, rappresentata dal monaco e camerario Goffredo, l’immobile acquisito diciotto anni prima, che risulta confinante a settentrione con la via che la divide dalla chiesa di San Massimo e conduce sotto gli archi settentrionali della casa, a occidente con altra via sulla quale sono altri archi ed edifici della stessa casa, a meridione in parte con una strettola che la divide da altri beni della badia e in parte con gli stessi beni, a oriente in parte con ulteriori beni della badia e in parte con beni di altri123.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

123Archivio della Badia di Cava, pergamene III 88; XV 17; XX 84; XXI 87; XXV 65; XXVI 11; LV 30; LVII 115; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 171-172; la settima e l’ottava edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 305-307; pp. 536-539; nella edizione della settima manca parte del testo; in quella dell’ottava la frase a parte septentrionis vie que discernit a suprascripta ecclesia Sancti Maximi è resa con a parte septentrionis vie que discendit a suprascripta ecclesia Sancti Maximi.

In corrispondenza dei beni degli Sclavo, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva percorrere, come è possibile fare tuttora, l’andito che taglia verso occidente, quasi parallelamente alla strada, il grosso isolato la cui parte meridionale sarà Casa Ruggi d’Aragona [61]. Superato l’innesto con l’attuale vicolo Lavina, verso meridione poteva osservare l’ex monastero di San Pietro de Iudice [62], agli anni novanta del Quattrocento ridotto a semplice oratorio. Esso compare nella documentazione giunta fino a noi nel dicembre 1039, quando il suo presbitero e preposto Pietro compra, anche per conto della badia di Cava, un terreno sito a Nocera, del quale tre parti andranno al monastero di San Pietro, che risulta fondato dal giudice Pietro, e cinque alla badia; nel settembre 1047 troviamo un monaco e preposto di Cava, Leo, che agisce per conto dei due enti religiosi; nel giugno 1059 risulta abate del nostro monastero Leone che è anche abate di Cava e che forse è lo stesso Leo della citazione precedente; nell’aprile 1109 per l’ultima volta il luogo di culto è detto monastero. Oltre un secolo e mezzo dopo, nell’aprile 1269, Matteo de Donna Penta, figlio di Giovanni, dona a Sergio Capograsso, figlio di Michele e suo cugino, un’oncia delle dodici che costituiscono il patronato della chiesa di San Pietro de Iudice, di cui lo stesso Sergio già possiede quattro once e mezza; nel gennaio 1271 Stefano Mazza, figlio di Roberto, dona allo stesso Sergio Capograsso altre due once meno un quarto del patronato della chiesa; ancora nell’agosto 1277 Sergio acquisisce un’altra oncia dello stesso patronato dai tutori di Landolfo de Canali, figlio minorenne di Roberto, in cambio di un’oncia a lui pertinente del patronato di Santa Maria de Capite Platearum; infine, in quello stesso mese e anno riceve in dono da Guglielmo de Canali, figlio di Riccardo, un’altra oncia; nel marzo 1278 Sergio Capograsso, che con queste operazioni, aggiunto a quanto a lui spettante inizialmente, aveva accumulato nove once e un quarto del patronato della nostra chiesa, si incontra con l’abate Leone di Cava allo scopo di cedere alla badia tutto quanto gli compete di tale patronato in cambio di nove once di San Matteo Piccolo in Orto Magno, vicino alla casa di suo figlio Giovanni. Nel 1309 San Pietro de Iudice risulta affidata al presbitero Matteo; il 27 novembre 1335, nell’atto con il quale è nominato rettore della chiesa Filippo de Alduino, ne risultano patroni la badia di Cava, il monastero di Santa Maria Monialium, i fratelli Nicola e Guglielmo de Iudicissa; nel 1359 risulta che la badia, evidentemente in virtù del suo maggior patronato, riscuoteva censi da San Pietro de Iudice in occasione del Natale e della Pasqua; fra il 1478 e il 1482 tale riscossione risulta limitata al solo Natale. Il 17 maggio 1549, per decreto dell’arcivescovo Ludovico de Torres, il semplice beneficio di San Pietro de Iudice sarà unito al monastero di Santa Maria Maddalena; la chiesa risulterà ridotta ad uso profano il 10 novembre 1575124.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

124Archivio della Badia di Cava, pergamene VIII 77; IX 95; XI 45; XVIII 95; LV 113; LVI 18; LVII 44; LVII 47; LVII 53; XCV 3; le prime tre edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VI, pp. 117-119; VII, pp. 53-56; VIII, pp. 104-105; in tale edizione la IX 22 è indicata come IX 20. Inventario dellabate Mainerio, f. 160t; Registro I del cardinale Giovanni dAragona, f. 5. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6517. Archivio di Stato di Salerno, pergamena XXXVI; edita in Pergamene Salernitane cit., pp. 192-196. Archivio Diocesano di Salerno, Benefici vari. I due abati cavensi di nome Leone che compaiono nelle vicende di San Pietro de Iudice sono san Leone da Lucca (abate dal 1050 al 1079) e il beato Leone II (abate dal 1268 al 1295).

Nell’aprile 1109 Aloara, vedova del conte Landolfo, dona alla badia di Cava, rappresentata da Pietro, figlio di Pietro detto Boso,  il quarto a lei pertinente di una terra con casa in muratura e pareti dirute parte sita a settentrione e parte a meridione della via che conduce al monastero di San Lorenzo, con l’edificio e l’arco sopra la stessa strada, fra l’uno e l’altro degli immobili; di questi, quello con pareti dirute confina a meridione con l’andito che conduce al monastero di San Pietro, a settentrione con la strada, a oriente e occidente con beni di altri [63], mentre l’altro confina a meridione con la stessa strada, a oriente con una strettola, a settentrione e occidente anche con beni di altri [parte occidentale e settentrionale di 64]; contestualmente Aloara dichiara che alla badia già appartiene altra parte dei due immobili per donazione del suo defunto marito. Nel giugno 1112 Zoffo detto Pagano, figlio del conte Landone, e la moglie Trotta, figlia del chierico Pietro, vendono alla badia, rappresentata dal monaco Berengario, metà di questi immobili dichiarando che alla stessa badia già appartiene l’altra metà. Nell’agosto 1251, in circostanze che ci sfuggono, non essendo giunto fino a noi alcun documento, i due immobili si ritrovano in possesso di Leonardo e del dottor Giovanni detti Pappacarbone, figli del giudice Pietro ugualmente detto Pappacarbone, che li vendono al presbitero Nicola, figlio di Pietro, cappellano della chiesa di Santa Maria de Lama; essi sono così descritti: due terre vuote con pareti dirute, divise dalla via che conduce al monastero di San Lorenzo, nelle quali vi furono case in muratura e arco e edificio dall’una all’altra sopra detta strada, una vicino alla chiesa di San Massimo, l’altra vicino alla chiesa di San Pietro detta de Iudice, la prima confinante a oriente con il capo di un andito, a settentrione con altro andito, a occidente con beni di altri, a meridione con l’altra terra, che a sua volta confina a meridione con una corte che conduce alla detta chiesa di San Pietro, a oriente con beni di altri, a settentrione con la strada125. All’angolo sud-orientale della nostra area 64, confinante a meridione con la via che conduce sotto l’acqua della Fistola, sulla quale è posto un suo edificio, a occidente con la strettola che abbiamo visto costituire il confine orientale della terra settentrione di cui sopra, a settentrione e oriente con l’andito della chiesa di San Massimo, sul quale è posto il suo mignano con la scala lignea, al settembre 1116 è documentata una casa parte in muratura e parte in legno della stessa chiesa di San Massimo che è concessa per ventisette anni al chierico Alferio, figlio di Pietro; nel maggio 1252 lo stesso immobile, definito come una terra vuota con pareti dirute, è concesso per ventinove anni al presbitero Nicola della chiesa di Santa Maria de Lama, che possiede altri beni verso occidente, ossia i due immobili di cui sopra; nel marzo 1287 il monaco Goffredo, camerario della badia di Cava, in cambio di beni siti fuori città, cede al giudice Giacomo detto de Ursone, figlio del giudice Matteo ugualmente detto de Ursone, questo immobile, definito come una terra vuota detta Casalina, confinante a meridione con la via che andando verso occidente conduce al monastero di San Lorenzo, a oriente con l’andito che conduce alla chiesa di San Massimo, a settentrione con altro andito, a occidente con beni del presbitero Nicola della chiesa di Santa Maria de Lama126.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

125Archivio della Badia di Cava, pergamene XVIII 95; XIX 38; LII 109.

126Archivio della Badia di Cava, pergamene XX 50; LII 117; LVIII 116; la seconda edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 262-263.

 

Lasciata la via per il monastero di San Lorenzo, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento, attraverso l’andito coperto dai posteri degli antichi mignani, poteva raggiungere la via sotto San Massimo e osservare questa chiesa parrocchiale, già parte dell’omonimo complesso monastico [65]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel giugno 865, essendo stata edificata dal principe Guaiferio, figlio di Dauferio, regnante dall’861, a settentrione della Fistola, in prossimità della sua casa, nella parte nuova della città di Salerno. Nel marzo 882 la chiesa, l’abate, i presbiteri e i chierici ad essa addetti sono dichiarati dal vescovo Pietro, a postulazione di donna Landelaica, vedova del principe Guaiferio, e del figlio Guaimario I, esenti dalla giurisdizione e dalla potestà vescovile. Nel maggio 1054 risulta ancora di pertinenza della famiglia principesca, anche se non si tratta più della dinastia del fondatore, avendo quali maggiori patroni Gisulfo II e i suoi fratelli. Nel settembre 1085 il conte Castelmanno e il figlio Giovanni dichiarano di possedere, per eredità di Aloara, madre di Castelmanno, porzione del patronato della chiesa di San Massimo, mentre Aloara, figlia dello stesso Castelmanno, e suo figlio Pietro dichiarano di possederne altra porzione per eredità di Alfano, rispettivamente marito e padre; quindi donano tali porzioni all’archiepiscopio dichiarando che allo stesso già competono altre parti dello stesso patronato per precedenti donazioni. Nell’ottobre 1086 il duca Ruggiero e il figlio Roberto, che forse avevano ricevuto dall’archiepiscopio le porzioni di patronato di cui sopra o forse possedevano quelle già di Gisulfo II o dei suoi fratelli, donano alla badia di Cava quanto loro compete della chiesa; allo stesso tempo le confermano il possesso di altre porzioni che le aveva donato Landoario Cavaselice, figlio di Landolfo. A queste, nel giugno 1087, Astolfo, figlio del conte Gisulfo, e il nipote Guido, figlio di suo fratello Landolfo, aggiungono quelle di loro pertinenza, con riserva del diritto di seppellire i defunti della loro famiglia nell’atrio e sotto il campanile della chiesa. Nell’ottobre 1089 papa Urbano II conferma alla badia di Cava il possesso di chiese e monasteri, fra i quali San Massimo; ma, in realtà, essa non compete ancora interamente agli abati cavensi e altre importanti donazioni di parti di patronato dovranno intervenire. Nell’ottobre 1091 Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III, dichiara che al detto suo padre e alla madre Rangarda, figlia del conte Landone di Caiazzo, competeva porzione del patronato di San Massimo, che egli dona alla badia. Nel maggio 1092, Gregorio, figlio di Pandolfo, a sua volta figlio del principe Guaimario III, quindi cugino di Guaimario di Giffoni, e la moglie Maria, figlia di Erberto, donano la loro porzione del patronato di San Massimo alla loro chiesa di San Nicola de Casa Vetere, a Capaccio; in effetti tale porzione di patronato, appunto tramite San Nicola, che a sua volta ne diverrà dipendenza, perverrà alla stessa badia di Cava. Conclude la lunga vicenda, almeno per quanto si evince dalla documentazione giunta fino a noi, nell’agosto 1094 la donazione di Sichelgaita, figlia di Giaquinto e vedova di Guidone, figlio di Guaiferio, a sua volta figlio del conte Gisulfo, e del figlio chierico Giaquinto. Nel 1309 troviamo addetto alla chiesa il presbitero Matteo. Il 12 aprile 1570 la parrocchia risulterà soppressa e annessa alla limitrofa Sant’Eufebio. Il 14 maggio 1575 la chiesa sarà definita immonda essendo stata trovata con galline dentro127.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

127Archivio della Badia di Cava, pergamene I 60; F 10; A 2; X 78; XIV 27; C 8; C 13; C 21; C 29; C 34; XVI 10; le prime quattro edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, I, pp. 76-77; I, pp, 79-84; I, pp. 111-113; VII, pp. 248-249; in tale edizione la X 78 è indicata come X 75. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6518. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. A proposito della pergamena C 8 (donazione del duca Ruggiero e del figlio Roberto) è da notarsi che il documento, con il quale oltre San Massimo vengono donate alla badia altre chiese e diritti feudali, rimane sospettato di essere un falso sia per considerazioni di carattere paleografico (Cf. Archivio della Badia di Cava, Trascrizioni Leone, C, f. 11-12) sia per il fatto che Ruggiero e Roberto definiscono di loro proprietà la chgiesa senza minimamente accennare al fatto che appena l’anno prima parti del suo patronato erano state donate all’archiepiscopio salernitano con conferma di donazioni precedenti; a meno che, con documento non giunto fino a noi, l’arcivescovo non avesse intanto rinunciato ai suoi diritti a favore della famiglia ducale. Ciò spiegherebbe la presenza presso l’archivio di Cava del documento di donazione a favore dell’archiepiscopio, che naturalmente dovrebbe trovarsi presso l’archivio diocesano di Salerno, in quanto il trasferimento dei diritti dall’arcivescovo al duca e da questi alla badia, ove così avvenne, certamente comportò la cessione dei documenti relativi.

L’area di San Massimo che vediamo oggi, ossia quella sulla quale insiste il palazzo omonimo, rimane difficilmente riconducibile sia a quella esistente nel corso del principato di Guaiferio (861-880) che a quella osservabile dal nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento. Ciò che è certo è che la chiesa aveva, naturalmente a occidente secondo i canoni dell’epoca, l’atrio e il campanile che abbiamo visto citare nel giugno 1087 e, ovviamente, verso oriente l’abside, dietro alla quale, fra l’area propriamente dell’edificio di culto e beni che lo stesso principe Guaiferio nel novembre 868 le assegna quale dotazione, correva un muro; ma aveva anche un atrio meridionale, ove vi era un arco sotto il quale era dipinto il volto della Vergine Maria, ai piedi del quale, nel giugno 1103 è concessa ai coniugi Pietro, figlio di Pietro, e Gemma, figlia di Pietro, la facoltà di costruire una tomba128; verso settentrione, invece, confinava con un andito oltre il quale erano siti, come vedremo, altri suoi beni. È appena il caso di rilevare che la chiesa che appare da questa documentazione nulla ha in comune con la cappella che attualmente si vede all’interno di Palazzo San Massimo, nella quale comunemente si suole riconoscere la chiesa longobarda, se non per il fatto, forse, di insistere sul suo sito ampliato all’atrio meridionale.

  128Archivio della Badia di Cava, pergamene C 13; F 10; XVII 79; la seconda edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, pp. 79-84.
 

Nell’agosto 1000 una terra vuota della chiesa, concessa per ventisei anni a Ligorio, figlio del sorrentino Giovanni, affinché vi edifichi una casa lignea terranea, risulta confinante a oriente con un labinario; lo stesso confine lo ritroviamo nel maggio 1109, con la precisazione che al suo oriente insistevano beni di altri, in relazione a una terra con casa terranea in muratura, della quale i confini settentrionale e meridionale sono costituiti da anditi, che è concessa per ventisei anni al fabbro Orso, figlio di Amore129. Immobili di San Massimo compresi nel senso latitudinale fra due anditi erano già comparsi nel maggio 1023; nel settembre 1052; nel giugno 1107, quando, nel concedere a Giovanni detto Barillario, figlio di Orso, una terra nella quale aveva edificato, con suoi materiali, una casa di legno, si precisa che l’andito che ne costituiva il confine meridionale la separava dalla chiesa, mentre quello che ne costituiva il confine settentrionale la separava da altri beni di San Massimo130. Forse di immobili confinanti con questi stessi anditi si tratta nel dicembre 984; nel gennaio 1008; nel marzo 1051; nel febbraio 1054; nel maggio 1081, quando Alferada, figlia di Giovanni e vedova di Falcone che fu figlio di Giovanni, e i figli Truppoaldo, chierico Pietro e infante Ademario dichiarano che sono costretti, per grande necessità e per non morire di fame, a vendere a Giovanni, figlio di Orso, due parti di una terra con casa in muratura posta a settentrione della chiesa di San Massimo, confinante a meridione con un andito, su parte del quale sono posti edifici e mignano, e a occidente con il vallone, in relazione alla quale presentano un documento del febbraio 1068 con il quale Alfano, figlio di Truppoaldo, e la moglie Gemma, figlia di Rodoaldo, vendettero a Falcone, loro nipote, poiché il padre Giovanni era fratello di Truppoaldo, le due parti dell’immobile che ora essi rivendono, precisando che la terza parte spettava allo stesso Falcone; nel giugno 1092 il presbitero Machenolfo, figlio di Maranco, vende a Pietro, figlio del giudice Pietro, che agisce per conto di una figlia di Desideo della quale non è chiaro il nome e di Sanda, figlia di Pietro e moglie di Silvestro, le due parti di cui sopra di questa terra con casa, della quale si confermano sito e confini, consegnando tre documenti: il primo del dicembre 1086 con il quale il bene oggetto della transazione era stato a lui venduto, il secondo e il terzo costituiti dai sopra citati atti del febbraio 1068 e del maggio 1081; nell’agosto 1112 Orso, figlio di Falcone, dona alla badia di Cava l’intero immobile, consegnando i quattro documenti del febbraio 1068, del maggio 1081, del dicembre 1086, del giugno 1092131.

Se poco leggibili sull’area complessiva dell’attuale Palazzo San Massimo o sulle sue adiacenze appaiono gli immobili fin qui considerati, così come altri documentati ancora con minori possibilità di localizzazione132, un caso a se stante è rappresentato dalla terra con casa in muratura, congiunta ad altra terra vuota, che nel settembre 1168 è concessa per diciannove anni a Sergio, figlio dell’amalfitano Orso [66]: essa confina a occidente e meridione con la via che, andando verso oriente, si congiunge con la corte posta davanti alla chiesa e, forse, è quella stessa, unico altro caso fra quelli documentati dalle fonti giunte fino a noi avente la caratteristica di essere confinante da due lati con una strada, di cui si trattava nel luglio 962133.

   

 

129Archivio della Badia di Cava, pergamene V 36; XVIII 100; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., III, pp. 108-109.

130Archivio della Badia di Cava, pergamene VII 7; X 51; XVIII 60; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, V, pp. 70-71; VII, pp. 186-188; in tale edizione la VII 7 è indicata come VII 8 e la X 51 come X 47.

131Archivio della Badia di Cava, pergamene III 116; V 97; X 31; X 72; XIII 106; XV 50; XIX 46; le prime quattro edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp 218-219; IV, pp. 97-98; VII, pp. 151-152; VII, pp. 219-220; in tale edizione la X 31 è indicata come X 27 e la X 72 come X 69.

132Archivio della Badia di Cava, pergamene II 39, febbraio 940; II 119, dicembre 966; III 77, aprile 981; IV 54, ottobre 990; IV 74, luglio 992; IV 76, dicembre 992; IV 86, novembre 993; IV 117, agosto 996; V 37, aprile 1001; V 75, maggio 1005; V 103, agosto 1008; VI 82, febbraio 1018; VII 6, maggio 1023; VIII 11, novembre 1034; VIII 14, dicembre 1034; VIII 16, gennaio 1035; VIII 17, gennaio 1035; VIII 18, gennaio 1035; VIII 25, giugno 1035; VIII 99, marzo 1041; IX 17, ottobre 1042; X 78, maggio 1054; X 81, giugno 1054; X 92, maggio 1055; XII 93, giugno 1071; XV 2, settembre 1089; XVI 57, maggio 1096; XVII 79, giugno 1103; XVIII 101, maggio 1109; XXI 45, dicembre 1120; XXI 79, dicembre 1122; le prime venticinque edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, I, pp. 211-212; II, pp, 46-47; II, pp. 156-157; II, p. 309; II, pp. 334-335; II, p. 339; III, p. 8; III, pp. 56-57; IV, pp. 1-2; IV, p. 58; IV, pp. 119-120; IV, pp. 285-286; V, pp. 68-69; VI, pp. 14-16; VI, pp. 21-22; VI, pp. 23-24; VI, pp. 24-25; VI, pp. 25-26; VI, pp. 33-34; VI, pp. 154-155; VI, pp. 214-215; VII, pp. 248-249; VII, pp. 252-253; VII, pp. 269-270; IX, pp. 331-334; in tale edizione la VII 6 è indicata come VII 7, la VIII 11 come VIII 12, la VIII 14 come VIII 15, la VIII 16 come VIII 17, la VIII 17 come VIII 18, la VIII 18 come VIII 19, la VIII 25 come VIII 26, la IX 17 come IX 15; la X 78 come X 75; la X 81 come X 78; la X 92 come X 89; della IV 86 è dato soltanto un transunto, mentre l'edizione integrale si legge in M. Galante, La datazione cit., pp. 195-196.

 

 

L’area di San Massimo fu quella nella quale ancora a cavallo fra Duecento e Trecento, quando, probabilmente, in altre parti della città già avviava la dismissione del suo ingente patrimonio immobiliare, che avrà collateralmente la conseguenza di un drastico impoverimento delle fonti nell’ultimo secolo e mezzo del Medioevo, la badia concentra l’acquisizione di beni, sia per compere che per permute; esempi, certamente non esaustivi della problematica, abbiamo in cinque atti distribuiti fra il gennaio 1291 e il 25 giugno 1314134, fra i quali gli ultimi due già abbiamo per altri casi considerato.

  133Archivio della Badia di Cava, pergamene II 86; XXXII 106; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 7-8.

 

134Archivio della Badia di Cava, pergamene LIX 60, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1290; LXI 43; LXII 9; LXII 112; LXV 47.

     

 

 

 

 

Sant'Eufebio

 

Proseguendo verso oriente lungo la via allora come oggi di San Massimo, alla sua sinistra, in territorio parrocchiale di Sant’Eufebio, il nostro viandante poteva imboccare una strada oggi rappresentata dalla gradinata di accesso all’ex complesso carcerario maschile e raggiungere, sulla sua destra, il monastero di San Francesco d’Assisi dei padri minori conventuali [67]. Esso compare nella documentazione giunta fino a noi nel maggio 1238, quando il chierico Giovanni Pizzocarolo, diacono dell’archiepiscopio e abate di San Nicola de la Fontana, concede a Girardo, figlio di Ursone detto de Donna Gezza, che lo rappresenta, l’uso di un corso d’acqua che sgorga in una proprietà della sua chiesa135; visitandolo agli anni novanta del Quattrocento, il nostro viandante poteva osservare nella chiesa il monumento funebre di Margherita di Durazzo, che attualmente è possibile vedere nella navata sinistra del Duomo, ove sarà trasportato nel 1808, e nell’atrio la sepoltura della famiglia Guardati, ove, forse, era stato deposto da qualche anno il corpo di Masuccio Salernitano136. Sotto la chiesa conventuale, documentata soltanto all’ultimo ventennio del Cinquecento, ma ovviamente esistente fin dall’edificazione del complesso, il nostro viandante poteva osservare la cripta; il 20 novembre 1586 i padri minori conventuali la venderanno alla confraternita di Santo Stefano, dalla quale assumerà il titolo; il 18 luglio 1767 sarà descritta come coperta a lamie da buono ed antico pittore dipinte137. 

   

 

 

 

135Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 241-244.

136Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 25, riporta che lo stemma dei Guardati si osservava Nella Sepoltura avanti la porta dalla parte di fuori Sotto il Sopportico della Chiesa de’ Conventuali di S. Francesco.

137Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5436, 1767-1770, f. non numerato, 18 luglio 1767.

Percorso il proseguimento verso oriente della via di San Massimo, attualmente vicolo Sant’Antonio, immediatamente prima del suo sbocco sul primo tornante dell’asse costituito dalle attuali via Santa Maria della Mercede e salita Montevergine, alla sua sinistra, a meridione del monastero di San Francesco d’Assisi, il nostro viandante osservava la chiesa parrocchiale di Sant’Eufebio, antica Santa Maria de Raidulfo [68]. Essa compare nella documentazione giunta fino a noi nel giugno 1186, quando Giovanni, figlio di Petrone detto de Bivo, dona alla badia di Cava metà di una delle dodici once costituenti il suo patronato; nel febbraio 1188 analoga donazione, ma di un’oncia intera, compie Pietro detto Curiale, figlio di Giovanni; nel maggio 1238, nel documento con il quale Giovanni Pizzocarolo concede l’acqua al monastero di San Francesco, è citata quale riferimento topografico e si ricava che Matteo, il giudice presente alla stesura dell’atto, ne è uno dei compatroni138.

In quest’area, a un’altezza latitudinale non perfettamente definibile lungo il lato orientale dell’asse costituito dalle attuali via Santa Maria della Mercede e salita Montevergine, è documentato il monastero di Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando. Nell’ottobre 1091 Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III, dichiara che al detto suo padre e alla madre Rangarda, figlia del conte Landone di Caiazzo, competevano porzioni di patronato di alcuni luoghi di culto, fra cui, oltre Santa Maria de Domno e San Massimo come abbiamo visto, la chiesa di Sant’Andrea apostolo costruita ove si dice a la Lama e il monastero sito sopra la porta di Rateprando, fra il duplice muro della città, in onore dello stesso sant’Andrea apostolo; quindi tali porzioni di patronato dona alla badia di Cava. Un documento del novembre 1092 permette di conoscere che il monastero beati Andree apostoli, del cui patronato parte spetta alla badia di Cava per donazione del figlio di Guidone, è sito in Plaio Montis; nel maggio 1100 si conferma. Nel novembre 1128 per la prima volta si parla soltanto di chiesa di Sant’Andrea apostolo al di sopra e vicino la porta detta di Prando; essa, con la localizzazione nel Plaio Montis, è successivamente citata nell’agosto 1140, nell’aprile 1156, nel luglio 1166; nel XIV secolo appare la denominazione de Portella; l’ultima citazione è dell’ultimo quarto del XV secolo139.

 

 

138Archivio della Badia di Cava, pergamene XLI 1; XLI 38; datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1188. Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 241-244. Sant’Eufebio (citata come Santa Maria de domno Raidulpho) è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

139Archivio della Badia di Cava, pergamene C 29; C 32; D 27; XXII 64; XXIV 113; XXIX 56; XXXII 42; Registro III  dellabate Mainerio f. 39; Inventario dellabate Mainerio, f. 160t; Registro I del cardinale Giovanni dAragona, f. 5. SantAndrea de portella è fra i luoghi di culto che compaiono nel falso datato maggio 1087 con il quale il duca Ruggiero ne dona i patronati alla badia di Cava (Archivio della Badia di Cava, pergamena C 12), per il quale si veda la nota 4 a questo capitolo; da notarsi l’uso intempestivo del titolo, che comparirà in documenti autentici soltanto nel XIV secolo.

I documenti dell’agosto 1140, dell’aprile 1156 e del luglio 1166 di cui sopra citano la chiesa di Sant’Andrea quale riferimento topografico nell’ubicazione di due terre, l’una con casa in muratura l’altra vuota, poste al suo meridione. Nel primo di essi, tali terre, che risultano confinanti a oriente e settentrione con le mura cittadine, a occidente con una strada sopra la quale sono posti edifici, a meridione con beni di Ebulo, figlio di Pietro, sono vendute allo stesso Ebulo da Giovanni, figlio di Amato detto de Lucrezia, dalla moglie Sica, dal presbitero Pietro, figlio di Pietro, e da Orso, figlio di Machenolfo e cugino del detto presbitero Pietro, agente anche per conto del fratello Giovanni; nel secondo, Gaitelgrima, vedova di Cioffo detto de Marenda, consegnando una cartula costituita dal documento dell’agosto 1140, vende le stesse terre, di cui si confermano sito e confini occidentale, settentrionale e orientale, mentre il meridionale risulta con altri beni della venditrice, a Guglielmo detto de Parisi, figlio del normanno Guglielmo; nel terzo, le due terre, delle quali si ribadisce il sito a meridione della chiesa di Sant’Andrea in parte appartenente alla badia di Cava, con la precisazione che il confine settentrionale è costituito dal muro vecchio della città e quello orientale da una torre, risultano in possesso della stessa badia cavense, che le concede per diciannove anni ad Amato, figlio di Lolegrimo; gli stessi sito e confini si ripetono nell’ottobre 1172, quando le due terre sono concesse per diciannove anni a Pietro, Matteo, Giovanni, Ruggero ed Evolo, figli di Cioffo detto de Marenda, che possiedono la terra con casa in muratura che ne costituisce il confine meridionale, ossia quella stessa detta della loro madre Gaitelgrima nell’aprile 1156140.

 

 

140Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIV 113; XXIX 56; XXXII 42; XXXIV 41.

Procedendo verso settentrione lungo l’attuale salita Montevergine, il nostro viandante raggiungeva il monastero di Santa Maria Maddalena [69]. Esso compare nelle fonti documentarie giunte fino a noi con la bolla Cum universis di papa Alessandro IV del 22 maggio 1255, elencato fra i monasteri femminili soggetti all’archiepiscopio; nel luglio 1269, non essendo stato ancora realizzato l’ampliamento angioino, è detto sito fuori città, nel luogo detto alla Pallara, ossia nel suburbio settentrionale della Palearea, come si scrive meglio nel giugno 1292141. Nelle Inquisizioni del XIV secolo è detto dell’ordine francescano di santa Chiara; essendovisi, però, trasferite monache da altri monasteri, con rescritto del 5 maggio 1453 Votis humilium papa Nicolò V dispone che nel futuro tutte le monache del monastero della Maddalena, provenienti o meno da altre case, vivano sotto la regola e la professione di San Benedetto142. Soppresso il sodalizio femminile per effetto della riforma di Sisto V del 1589, nei locali si trasferiranno i padri della congregazione di Montevergine, dai quali la denominazione che l’immobile tuttora conserva.

Nell’aprile 1259 Giovanni detto Sorraca, figlio di Nicola ugualmente detto Sorraca, dona al Santa Maria Maddalena, rappresentato dal presbitero Nicola della chiesa di San Paolo, una terra con pareti dirute, ove una volta vi era una casa con fondaco, fuori città, vicino alla stessa chiesa di San Paolo, nel luogo anticamente detto il Suburbio Settentrionale, confinante a occidente con il muro cittadino e a meridione con una strada; questa casa, chiaramente ricostruita perché le monache potessero trarre un reddito dalla donazione, forse è la stessa citata l’8 luglio 1296, quando risulta che i frati predicatori avevano supplicato le autorità affinché venisse riaperta la portella detta de lu Franciscu praticata nel muro cittadino, vicino le case di Santa Maria Maddalena, la cui chiusura, posta in essere per una più efficace difesa della città, impediva ai fedeli di raggiungere la chiesa del loro monastero143. Forse questa portella non è altra che l’antica porta di Rateprando, a settentrione della quale era sita la chiesa di Sant’Andrea che, come abbiamo visto, nel XIV secolo sarà detta de Portella.

La chiesa di San Paolo sita nel luogo anticamente detto il Suburbio Settentrionale, di cui nell’aprile 1259, con la sua prima citazione giunta fino a noi, abbiamo conosciuto il presbitero Nicola, nel settembre 1267 la troviamo retta dall’abate Marco detto Sirraca, figlio di Giovanni ugualmente detto Sirraca, nella controversia che lo oppone a Bartolomeo detto de Iudice, figlio di Matteo, in relazione al patronato della stessa chiesa; Marco, intanto defunto, è ricordato nel marzo 1272 nell’atto con il quale l’arcivescovo Matteo della Porta concede la chiesa, citata come San Paolo de Palearea, con case, orto e altri immobili, ai frati predicatori di san Domenico che già detenevano altri immobili, posti a oriente di quanto si concede, per donazione del Capitolo della cattedrale; nel marzo 1277 il vicario dei predicatori, fra Simone de Benevento, e altri membri dello stesso ordine chiedono al Capitolo, essendo vacante la sede arcivescovile di Salerno, di permettere ai vescovi di Siponto, Acerno e Sarno, presenti in città, la consacrazione della loro chiesa di Santa Maria, appena edificata sul sito di San Paolo de Palearea e delle sue adiacenze [70]; il 30 luglio 1364 la regina Giovanna, confermando quanto era stato nella volontà del defunto marito Ludovico, ordina che il monastero di Santa Maria della Porta dell’ordine dei predicatori sia incluso fra le mura delle città e lasciato illeso da qualunque demolizione che si potesse ipotizzare sotto il pretesto di più efficaci fortificazioni144.

Lasciato il convento domenicano, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento, percorrendo la via della porta Rotense verso il centro cittadino, osservava alla sua sinistra, poco prima del capo della via oggi delle Botteghelle, il sedile dei nobili di Porta Rotense [71], di cui l’area sovrastante era stata concessa nel 1403 a Matteo della Pagliara; alla metà del Cinquecento quella stessa copertura, l’astracho, farà parte di un appartamento delle case di Ascanio de Palearea; alla metà del Settecento il sedile occuperà lo stesso sito e sopra di esso insisterà la loggia delle case di Matteo del Pezzo145.

 

 

141Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 149. Archivio della Badia di Cava, pergamene LVI 9; LIX 109.

142Archivio Segreto Vaticano, Inquisizioni secolo XIV; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 408, 6036. Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 445-448. Questa trascrizione nel Registro I della Mensa del rescritto di Nicolò V è corredata da due note: la prima riferisce che nel 1559 Pio IV conferma l’unione al monastero del semplice beneficio di San Pietro de Iudice decretata il 17 maggio 1549 dall’arcivescovo Ludovico de Torres (Archivio della Badia di Cava, pergamena XCV 3). La seconda introduce non pochi elementi di confusione in quanto asserisce che In alcune scritture di d(ett)o Monasterio di S(an)ta Maria delle Monache (?) esso Ven(erabi)le Monasterio viene chiamato S(an)ta Maria de D(omi)no Sicone, come edificato et fondato dal Principe Sicone; naturalmente, il Santa Maria delle Monache, o Monialium o de Sicone, nulla aveva a che fare con il Santa Maria Maddalena, così come il principe Sicone (regnante fra l’817 e l’832) nulla ebbe a che fare con la fondazione del Monialium, di patronato del conte e giudice Sicone ancora vivente nel maggio 1094. Questa seconda nota trasse in inganno M. Fiore (Il Monastero di S. Maria Maddalena e le successive vicende del sacro edificio, in «Rassegna Storica Salernitana», 1957, pp. 163-168) facendogli identificare il Maddalena con il Monialium e, conseguentemente, quest’ultimo con il Montevergine.

143Archivio della Badia di Cava, pergamena LIV 47. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 84, f. 262; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., II, pp. 503-504. Precedentemente (Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 61, f. 116, 16 giugno 1293; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, pp. 193-194), i frati predicatori avevano chiesto, allo stesso scopo di permettere l’accesso alla loro chiesa, la riapertura di altre due portelle, de lu Pinetu e de Agello; ma il documento non riporta indicazioni utili a determinarne il sito.

 

 

144Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 426-429; pergamena non identificata (si veda la nota 19 al capitolo 3 della Premessa); edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 406-409; Registro I della Mensa, pp. 433-442; Registro I della Mensa, pp. 421-425. Il marito della regina Giovanna citato nell’ultimo documento come Ludovico era Luigi di Taranto, suo secondo consorte, sposato nel 1348 e morto nel 1362. Il Manoscritto Pinto (Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19), f. 110, riporta che la chiesa concessa ai domenicani dall’arcivescovo Matteo della Porta era sotto il titolo di Santa Maria della Pagliara.

145Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19 (Manoscritto Pinto), f. 93. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4860, 1565-1566, f. 195. Archivio di Stato di Napoli, Catasti onciari, 3946, f. 503, particella 4.

  

 

 

 

 

 

3 – Territori parrocchiali di Sant’Andrea de Lavina, Santa Maria de Lama, Santa Maria de Alimundo, San Salvatore de Coriariis, San Bartolomeo de Coriariis, San Pietro de Lama, San Giovanni dei Greci, Sant’Angelo de Marronibus, Santa Trofimena

  

 

 

 

 

Sant'Andrea de Lavina

 

Il terzo itinerario del nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento prende avvio dal sagrato della chiesa parrocchiale di Sant’Andrea de Lavina [1]0. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi, con l’appellativo de Lama, nell’agosto 1084, quando un documento è rogato nel suo atrio. Come abbiamo già visto trattando di Santa Maria de Domno, San Massimo e Sant’Andrea sopra la porta di Rateprando, nell’ottobre 1091 Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III, dichiara che al detto suo padre e alla madre Rangarda, figlia del conte Landone di Caiazzo, competevano porzioni di patronato di alcuni luoghi di culto, fra cui la chiesa di Sant’Andrea apostolo costruita ove si dice a la Lama, quindi tali porzioni di patronato dona alla badia di Cava. Nel maggio 1092, Gregorio, figlio di Pandolfo, a sua volta figlio del principe Guaimario III, quindi cugino di Guaimario di Giffoni, e la moglie Maria, figlia di Erberto, donano la loro porzione del patronato di Sant’Andrea alla loro chiesa di San Nicola de Casa Vetere, a Capaccio; in effetti tale porzione di patronato, appunto tramite San Nicola, che a sua volta ne diverrà dipendenza, perverrà alla stessa badia di Cava. Nel corso del XIII secolo la chiesa conserva l’appellativo de Lama; nel 1309 compare semplicemente come Sant’Andrea, con i presbiteri Tommaso, Manzo, Giovanni e Matteo; nel 1312 è detta de Lavina, con i1 cappellano Tommaso de Ruggiero. Nel 1338 risulta parrocchiale1. L’immobile, divenuto insufficiente per l’accresciuta popolazione e l’aggregazione alla parrocchia dei territori di Santa Maria de Lama, di San Matteo Piccolo, della maggior parte di quello di Santa Maria dei Barbuti, al quale era già stato annesso l’altro di Santa Maria de Capite Platearum, e di San Pietro delle Femmine, già annesso a Santa Trofimena e poi da questa dismembrato, sarà abbandonato nel 1946 con il trasferimento della sede parrocchiale nella chiesa del conservatorio della Santissima Annunziata Minore.

Nell’area a meridione di Sant’Andrea [2] sono documentati immobili evidentemente entrati negli interessi della badia di Montevergine, poiché in quell’archivio si conservano i documenti ad essi relativi. Nell’ottobre 1206 l’orefice Giovanni, figlio di Gregorio detto de Ala e marito di Tanda, si incontra con Alfano, figlio del notaio Matteo detto de Donna Urania che fu figlio di Alfano, a sua volta figlio del conte Landone, e riceve, per le doti della moglie che è cognata dello stesso Alfano, la metà di una terra con casa in muratura e scale ugualmente fabbricate sita in loco Veterensium, a meridione e vicino la chiesa di Sant’Andrea detta de Lama, confinante a oriente con un andito e una corte comune, a settentrione con altro andito, a meridione con la strada; nel febbraio 1243 i fratelli Pietro e Guglielmo, fedecommissari costituiti dal fu orefice Nicola detto de Ala, loro nipote, figlio del loro fratello Giovanni, in vigore di disposizione del dicembre 1236, vendono a Bartolomeo Granita tre parti del secondo solaio e di tre terranei di questa terra con casa in muratura, confinante a meridione con la strada che, si precisa, andando verso oriente conduce al Campo ove anticamente si vendeva il frumento [3]; nell’ottobre 1283 Giaquinta Trentacapilli, vedova di Bonaventura de Ala, prende possesso del secondo solaio di questa stessa casa a fronte delle proprie doti vantate nei confronti del curatore dei beni dei figli di Giacomo de Ala, cugino del suo defunto marito. Nella stessa area sono collocabili i sei terranei con solaio sopra uno di essi che nel novembre 1269 Giovanni detto Monzullo, figlio di Matteo, dona ad Alfano e Nicola, figli di Petrone, a sua volta figlio di Matteo detto Pizzicato, e a Pandolfo, figlio di Tommaso, a sua volta figlio dello stesso Giovanni, siti a meridione e vicino Sant’Andrea de Lama, confinanti a settentrione con un andito e la corte comune, a oriente con una strada, a meridione con la via che andando verso oriente conduce al Campo dei Grani2.

 

0I numeri e le altre indicazioni fra le parentesi quadre si riferiscono ai particolari delle piantine topografiche.

 

 

1Archivio della Badia di Cava, pergamene XIV 21; C 29; C 34. Archivio della Badia di Montevergine, pergamene CV 75, ottobre 1206; CV 65, febbraio 1243; CV 57, novembre 1269; CV 76, ottobre 1283; edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 65-67; I, pp. 212-215; I, pp. 361-363; III, pp. 8-11. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6528.Archivio di Stato di Napoli, pergamena distrutta; edita in Codice Diplomatico Amalfitano cit., II, p. 231. Archivio Diocesano di Salerno, Statistiche e inventari. L'archivio di Stato di Salerno conserva, fra le pergamene di San Giorgio, un documento del giugno 1065 (pergamena A 3; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio cit., pp. 15-45) contenente un inserto del gennaio 999 in cui si cita una chiesa di Sant’Andrea senza altre indicazioni che ne consentano l’identificazione; potrebbe trattarsi di una prima citazione di Sant’Andrea de Lavina, ma anche di una ulteriore di Sant’Andrea de Orto Magno. La citazione nelle Decime e inquisizioni del 1309 è da attribuirsi a Sant’Andrea de Lama, ancorché non riporti appellativo; escludiamo Sant’Andrea de Orto Magno poiché è riportata nelle stesse Decime al 6542; fra le due rimanenti, optiamo decisamente per la nostra perché la pluralità dei presbiteri addetti è sua caratteristica costante, essendo in essa istituite quattro cappellanie con rendite separate. Sant’Andrea de Lavina è fra i luoghi di culto che compaiono nel falso datato maggio 1087 con il quale il duca Ruggiero ne dona i patronati alla badia di Cava (Archivio della Badia di Cava, pergamena C 12), per il quale si veda la nota 4 al capitolo 2 di questa II parte; da notarsi luso intempestivo del titolo, che comparirà in documenti autentici soltanto nel XIV secolo. Sant’Andrea de Lavina è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo.

 

 

 

 

 

 

 

2Archivio della Badia di Montevergine, pergamene CV 75; CV 65; CV 57; CV 76; edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., rispettivamente, I, pp. 65-67; I, pp. 212-215; I, pp. 361-363; III, pp. 8-11.

L’area a settentrione di Sant’Andrea [4] è documentata da una sola fonte del 27 giugno 1363, quando Feolo de Guaimario, esecutore testamentario del padre Iacuzzolo, assegna alla stessa chiesa, rappresentata dal sacerdote Simone Marinario, un terraneo con un solaio superiore facenti parte di una casa in muratura sita in loco Veterensium, a settentrione e vicino ad essa, confinante con il campitello comune3.

Nell’ambito del territorio parrocchiale, genericamente alla Dogana dei Grani, tratto fra il Campo e l’incrocio con la via della porta di Mare dell’attuale via Dogana Vecchia, sono documentate le cappelle di Santa Maria della Pietà dei Corbisieri e di San Giovanni dei Grillo. La prima, sede della confraternita dei fabbricanti di ceste, compare nella documentazione giunta fino a noi il 16 giugno 1513 per scomparire con una citazione del 17 febbraio 15194. La seconda, di patronato della famiglia Grillo, compare con la visita pastorale del 30 maggio 1515; già ridotta ad uso profano prima del 1616, sarà citata per l’ultima volta in corso di visita pastorale il 10 gennaio 16265.

   

 

3Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 C 29; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, pp. 88-90.

4Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4836, 1512-1513, f. 82; 4837, 1518-1519, f. 82.

5Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

 

  

 

 

 

 

Santa Maria de Lama

 

Dal sagrato di Sant’Andrea de Lavina, percorrendo verso settentrione la strada donne cala l’acqua in tempo di pioggia6, quella stessa attualmente denominata, molto inopportunamente, via Porta Rateprandi, ossia l’antica Lama, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento raggiungeva, come è possibile fare tuttora, la chiesa parrocchiale di Santa Maria de Lama [5]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel gennaio 1055 con il chierico e abate Giovanni; ne risultano compatroni il principe Gisulfo II e gli eredi del conte Giovannaccio, figlio del castaldo Mansone. Nell’aprile dello stesso anno risulta in patronato degli eredi del conte Giovanni, figlio del castaldo Mansone, e del duca Guidone, uno degli zii del principe Gisulfo. Nel 1309 è retta dai presbiteri Nicola e Pietro. Il 6 marzo 1323 i fratelli Giovanni e Tommaso de Porta, figli di Matteo, cedono a Giacomo de Ursone, figlio di Matteo, una delle dodici once del patronato di Santa Maria de Lama in cambio di una parte analoga del patronato di San Salvatore de Plaio Montis. Nel 1338 è detta parrocchiale. Il 7 gennaio 1558, nel corso della visita pastorale, si preciserà che la chiesa è di patronato della famiglia de Iudice. Il 13 maggio 1575 si preciserà ancora che il patronato della rettoria spetta alla famiglia de Iudice, quello della cappellania alla gerarchia ecclesiastica7. La chiesa che oggi osserviamo molto probabilmente fu edificata in epoca normanna sulla preesistente Santa Maria de Lama longobarda, a sua volta inserita in una struttura romana, che divenne la cripta della nuova costruzione; come tale sarà citata nel corso della visita pastorale del 13 maggio 1575; il 1° settembre 1581 si preciserà che il primo cappellano esercita la cura delle anime nella chiesa superiore, mentre il secondo ha cura della chiesa inferiore; quest’ultima l’11 dicembre 1615 risulterà essere sotto il titolo di Santo Stefano8.

 

6Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7Archivio della Badia di Cava, pergamene X 86; X 91; LXVI 55; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VII, rispettivamente, pp. 261-261; pp. 268-269; in tale edizione la X 86 è indicata come X 83 e la X 91 come X 89. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6523. Archivio Diocesano di Salerno, Statistiche e inventari; Visite pastorali. Santa Maria de Lama è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo.

8Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

A settentrione della chiesa [6] sono documentate, al gennaio e all’aprile 1055, sue terre con case, delle quali una è concessa per ventinove anni al presbitero Maraldo, figlio di Pietro, e un’altra per venti anni a Orso de Maria9. Nei pressi, genericamente a meridione della strada, sono documentate, al marzo 1143, una terra con casa in muratura del chierico e medico Sergio, figlio del chierico e medico Alfano, e una terra con casa lignea di Petrone, figlio di Zoffo che fu figlio del viceconte Desideo, fra le quali correva un andito comune; e ancora una terra con casa in muratura che nel luglio 1269 il sarto Giovanni detto de Roasa, figlio di Pietro, e la moglie Roasa donano al monastero di Santa Maria Maddalena, rappresentato dal presbitero Nicola, insieme al secondo solaio di un’altra casa ad essa congiunta10.

Nell’ambito del territorio parrocchiale, in un luogo non meglio definibile, il nostro viandante poteva osservare la chiesa di San Nicola de Ursone. Essa compare nella documentazione giunta fino a noi il 1° novembre 1475, quando, essendone vacante la rettoria e la cappellania per la morte del presbitero Giovanni de Laurentiis, i procuratori del Capitolo della cattedrale, che ne detiene il patronato con diritto di presentazione, nominano il nobile signore abate Andrea de Rogerio; il 17 aprile 1613 risulterà adibita ad uso profano, più precisamente a deposito di fieno11.

   

 

9Archivio della Badia di Cava, pergamene X 86; X 91; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VII, rispettivamente, pp. 261-261; pp. 268-269; in tale edizione la X 86 è indicata come X 83 e la X 91 come X 89.

10Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 291. Archivio della Badia di Cava, pergamena LVI 9.

11Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 230; Visite pastorali.

  

 

 

 

 

Santa Maria de Alimundo

 

Dagli attuali gradoni Madonna della Lama, procedendo verso occidente lungo la via che conduceva alla porta anticamente detta Nocerina, oggi Torquato Tasso, il nostro viandante raggiungeva il piede dell’attuale salita Intendenza Vecchia lungo la quale scopriva, come è possibile fare tuttora, la parrocchiale di Santa Maria de Alimundo [7]. In un documento del marzo 1135, riassunto in altro del 3 luglio 1326, compare Dauferio, arcidiacono, medico e di essa abate, che presenta un ulteriore documento databile al gennaio 1048 con il quale i conti Maio, Adelmo, Madelmo e Guaimario, figli del conte Guaiferio, dichiarano di aver fondato, con l’aiuto di Dio, la chiesa in honore sancte Dei genitrix Marie, che dotano di beni immobili e di suppellettili. Nel 1265 la famiglia Solimele vi possiede diritti di patronato, come da transunto di un documento del 1124. L’11 giugno 1299 è detta di collazione regia. Il 21 ottobre 1300 risulta che il fu Giovanni da Procida aveva posseduto parte del suo patronato; tale diritto è riconosciuto ai figli Tommaso e Francesco. Nel 1309 vi troviamo addetti i presbiteri Roberto e Francesco. Nel 1425 è detta parrocchiale; su di essa ha diritti di patronato Tommaso Mariconda, che in parte li trasferirà a Masuccio Salernitano Guardati12.

L’edificio che attualmente osserviamo, in un’unica navata di concezione settecentesca, nulla conserva dell’impianto longobardo ancora esistente al 1692, quando la chiesa, citata con l’appellativo d’Alimundo seu dell’Ulmo, sarà descritta come consistente in tre navate benche hogi p(er) l’antichità poco si conosce per ripari fattici; crollata agli inizi degli anni venti del Settecento, sarà ricostruita nei successivi anni trenta13. In essa si ipotizza14 trovasse sepoltura Masuccio Salernitano, che oltre a esserne, come accennato, compatrono per eredità di Tommaso Mariconda, ne era figliano, poiché abitava nei suoi pressi, in case confinanti con beni dei Ruggi e della stessa chiesa parrocchiale [8] che il 20 ottobre 1485 troviamo abitate dal figlio abate Loisio15; ma molto più probabilmente egli fu deposto sotto il portico del monastero di San Francesco d’Assisi, ove la famiglia possedeva una sepoltura16.

Lasciato il vico remoto sul fondo del quale vediamo Santa Maria de Alimundo, percorrendo, verso settentrione, la via di passaggio17, attuale salita Intendenza Vecchia, il nostro viandante poteva raggiungere, attraversando il largo Montone, l’antica strada per il monastero di San Lorenzo e osservare la chiesa di Sant’Angelo de Plaio Montis [9]. Essa compare nelle fonti giunta fino a noi nell’aprile 930, quando Ermetanco, figlio di Imetanco, e Orso, presbitero della chiesa di Sant’Angelo che Adelaita, ava di Ermetanco, aveva fatto costruire nella sua corte, nella nuova città salernitana, vendono un terreno della stessa chiesa sito a Nocera. Nell’agosto 1077 Leo, figlio di Giaquinto, e la moglie Daofa, figlia di Falcone, donano al monastero di San Giorgio tutti i loro beni siti in Plaio Montis, vicino alla chiesa di Sant’Angelo pertinente allo stesso monastero; infatti, nel 1234 la badessa di San Giorgio la conferisce al chierico Alfano. Il 10 aprile 1573 sarà definita diruta, mentre il 6 settembre 1581, visitando la parrocchiale di Santa Maria de Alimundo, si rileverà che presso il suo altare maggiore era stato trasferito il beneficio di Sant’Angelo de Plaio Montis. Il 15 aprile 1613 si visiterà il sito dell’antica chiesa di cui non appaiono vestigia, essendo stata inglobata in case di Gennaro de Bonello che presenta copia del decreto del 1572 con il quale la chiesa fu destinata ad uso profano18.

Nell’ambito del territorio parrocchiale sono documentate due altre chiese, Sant’Eustachio e San Nicola de la Fontana, delle quali, allo stato degli studi, rimane irrisolto il problema dell’ubicazione. Esse compaiono quale riferimento topografico nell’inserto attribuibile al gennaio 1048, contenuto nel documento del 3 luglio 1326, che abbiamo visto a proposito della chiesa parrocchiale e mentre dell’una, Sant’Eustachio, non sono giunte fino a noi altre notizie, dell’altra, San Nicola de la Fontana, è documentato, fra il dicembre 1086 e l’aprile 1106, il presbitero e custode Miringo e, fra il settembre 1122 e il giugno 1153, l’abate Pietro, figlio di Giovanni, a sua volta figlio di Granato. Nel 1181 Romualdo Marchisano, figlio di Guaimario, a sua volta figlio di Giovanni de Biba, cede alla badia di Cava la parte spettante alla moglie Sichelgaita, figlia di Matteo, a sua volta figlio di Granato, del patronato della chiesa di San Nicola sita in Plaio Montis, detta de la Fontana. Nel luglio dello stesso anno il notaio e avvocato Alfano testimonia che quanto della chiesa era appartenuto a Romualdo Marchisano attualmente compete alla badia di Cava. Come abbiamo visto trattando del convento di San Francesco d’Assisi, nel maggio 1238 Giovanni Pizzocarolo, diacono dell’archiepiscopio e abate di San Nicola de la Fontana, concede a quei monaci l’uso di un corso d’acqua che sgorga in una proprietà della sua chiesa. Fra il 1340 e il 1366 essa risulta fra i luoghi di culto tenuti a corrispondere censi alla badia di Cava in occasione del Natale e della Pasqua; fra il 1478 e il 1482 tale onere risulta limitato al solo Natale19. In verità, sul dorso della pergamena del dicembre 1086, con la quale il presbitero e custode Miringo riceve in dono, da Amato, figlio di Siconolfo Vallense, un terreno con orto confinante a meridione con la via che conduce al monastero di San Lorenzo, vicino alla sua chiesa dedicata al beato confessore e pontefice Nicola sita in Plaio Montis, una scritta di mano posteriore fa riferimento a San Nicola de la Palma; ma è evidente l’errore per almeno tre ordini di motivi. Primo: la chiesa citata appare posta vicino ad un terreno confinante verso meridione con la via che conduce al monastero di San Lorenzo, coordinata topografica non compatibile con San Nicola de la Palma, il cui sito ancora vediamo oltre il complesso di San Lorenzo, a ridosso del luogo ove la strada usciva dalla città; secondo: in tutti i documenti dell’epoca, a partire dal giugno 1079, San Nicola de la Palma è detto monastero pertinente alla badia di Cava, mai chiesa; terzo: in questo periodo, a partire dal dicembre 1080, passando per il maggio 1087 e almeno fino al dicembre 1088, il responsabile del monastero è Giovanni, definito monaco e preposto20.

 

 

12Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 5; Registro I della Mensa, pp. 227-231; un estratto dalla pergamena è riportato nello stesso Registro I della Mensa, pp. 443-444. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 98, f. 175; 101, f. 101; documenti editi in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., III, rispettivamente p. 399; p. 464. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6516. Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19 (Manoscritto Pinto), f. 73. A. Balducci, L’Archivio cit., I, 1959, p. 4 (seguito da G. Crisci e A. Campagna, Salerno Sacra, 1962, p. 179, e da altri autori), assegna al documento presentato da Dauferio la data del 992, leggendo quinta indizione là dove si legge Tricesimo anno principatus domini nostri Guaimarii, mense Ianuarii, prime indictionis; comunque, anche se così fosse, nel gennaio 992, quinta indizione, non correva il trentesimo anno di principato di Guaimario III, bensì il nono di Giovanni, suo padre, al quale egli era stato associato soltanto da tre anni. Una corrispondenza fra i due elementi della datazione, trentesimo di un Guaimario e prima indizione, relativamente al mese di gennaio, la troviamo nel 1048, tuttavia è da non sottacersi che una corretta datazione avrebbe dovuto indicare anche nono anno di Amalfi e Sorrento e sesto di Gisulfo. Da notarsi anche che a margine dell’estratto riportato nel Registro I della Mensa, pp. 443-444, al documento è assegnata proprio la data del 1048. Santa Maria de Alimundo (citata con l’appellativo de Ulmis) è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo; in realtà, come abbiamo visto, i suoi fondatori, avendola appena edificata, la dotano di beni e suppellettili nel 1048. Questa imprecisione, insieme a quelle che danno esistenti allo stesso 954 anche Santa Maria de Domno (citata con lappellativo de Dominabus), eretta fra il 986 e il 989, e San Vito de Mare, istituita nella chiesa del monastero omonimo soltanto dopo il 1133, impedisce di considerare gli Atti del Sinodo quale fonte attendibile per la determinazione dellesistenza delle parrocchiali citate.

13Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

14M. Fiore, Il luogo ove fu sepolto Masuccio Salernitano, in «Rassegna Storica Salernitana», 1945, pp. 210-229.

15Archivio Diocesano di Salerno, Religiose, Salerno. In questo documento, che è la copia di un atto del notaio Cipriano Cafaro, oltre l’abate Loisio, compare una figlia di Masuccio, Adriana, che fu monaca clarissa nel monastero di San Lorenzo.

16Biblioteca Provinciale di Salerno, manoscritto 19 (Manoscritto Pinto), f. 73.

17Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

 

 

18Archivio della Badia di Cava, pergamena II 24; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, pp. 193-194. Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 B 9; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., I, pp. 18-19. Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 462-464; Visite pastorali.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

19Archivio della badia di Cava, pergamene XIV 64; XVIII 38; XXI 76; XXIV 31; XXVIII 71; XXXVII 66; XXXVII 108; Registro III dell’abate Mainerio, f. 40; Inventario dell’abate Mainerio, f. 160t; Registro I del cardinale Giovanni d’Aragona, f. 5. Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 241-244. Nella datazione della pergamena XXXVII 66 non si legge il mese, ma certamente esso è anteriore al luglio, poiché la testimonianza del notaio e avvocato Alfano rilasciata in questo mese (pergamena XXXVII 108) ne conferma il contenuto. San Nicola de fontana è fra i luoghi di culto che compaiono nel falso datato maggio 1087 con il quale il duca Ruggiero ne dona i patronati alla badia di Cava (Archivio della Badia di Cava, pergamena C 12), per il quale si veda la nota 4 al capitolo 2 di questa II parte; da notarsi luso intempestivo del titolo, che comparirà in documenti autentici soltanto nel giugno 1135 (Archivio della Badia di Cava, pergamena XXVII 71).

20Archivio della Badia di Cava, pergamene XIII 77; XII 100; XIV 75; XIV 104; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., X, rispettivamente, pp. 280-283; pp. 344-346.

Il territorio parrocchiale di Santa Maria de Alimundo, come in generale gli altri considerati in questo capitolo, non fu fra quelli massicciamente investiti dagli interessi della badia cavense, per la qual cosa sporadica è la documentazione giunta fino a noi su immobili in esso ricadenti. Due sono gli atti relativi al tessuto urbano posto nei pressi della parrocchiale, al meridione della strada per il monastero di San Lorenzo21; altri due, oltre quelli sopra considerati, interessano l’area di San Nicola della Fontana22; uno soltanto, quella di Sant’Angelo23.

 

21Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIV 32, novembre 1137; XXXII 108, ottobre 1168.

22Archivio della Badia di Cava, pergamene XVIII 21, luglio 1105; XVIII 38, aprile 1106.

23Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 329, settembre 1267.

  

 

 

 

 

Sant'Angelo de Plaio Montis

 

Attraverso un percorso non molto difforme da quello che è possibile praticare tuttora lungo le gradinature recenti che girano intorno all’isolato comprendente il sito di Sant’Angelo de Plaio Montis, il nostro viandante raggiungeva, in territorio parrocchiale di San Salvatore de Coriariis, il monastero di San Lorenzo [10]. Esso compare nella documentazione giunta fino a noi nel maggio 976 con l’abate Nicodemo. Pervenuto fra le dipendenze di Montecassino, sarà ridotto a priorato iniziando una lenta decadenza fin quando, il 1° marzo 1297, mandando ad effetto il progetto di Giovanna da Procida, monaca nel monastero di Santo Spirito e figlia di Giovanni, approvato fin dal 1295, papa Bonifacio VIII scrive al legato apostolico del regno di Sicilia disponendo che il monastero passi all’ordine di Santa Chiara e che ne sia badessa la stessa Giovanna24. Le clarisse lasceranno il San Lorenzo per effetto della riforma di Sisto V del 1589; nel 1616 i locali saranno ceduti ai frati minori riformati.

A sud-est di San Lorenzo, il nostro viandante poteva osservare la chiesa di Santa Maria del Cantaro [11]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel 1309 con il presbitero Andrea; durante quel secolo risulta di patronato delle famiglie de Iudice, de Albino e Dardano. Nel corso della visita pastorale del 30 maggio 1575 si ordinerà di sconsacrarla e di trasferirne le colonne di marmo nel cortile dell’archiepiscopio. Il 2 settembre 1581, durante la visita pastorale a San Pietro de Grisonte, sarà fatta istanza dal rettore, l’abate Pietro de Iudice, beneficiato di Santa Maria del Cantaro, chiesa diruta e sconsacrata di suo patronato, di poterne trasferire il beneficio nella stessa San Pietro, presso l’altare del Crocifisso. Il 10 novembre 1758 Giovanni Battista Ricciardo, di anni novantasette, e Nunziante de Simone, di anni novantasei, testimonieranno di aver veduto con li propri occhi che attaccato al palazzo di Casa Genovese da sotto la Chiesa di S. Lorenzo, e propriamente alla volta di S. Lorenzo, dove il fu Barone Genovese fece scavare p(er) farci edificio vi era anticamente un Casalino vecchio con un nicchio che si diceva Santa Maria del Cantaro e detto casalino confinava con il giardinetto di detto Barone Genovese, e vi stava un nicchio con certa pittura, e detto Gio(vanni) Batt(ist)a si ricorda di più che dalla montagna del Castello cascò una pietra molto grande precipitando sopra detto Casalino e lo buttò quasi tutto a terra e solam(en)te vi restò poi un muro verso la montagna col nicchio con pittura, e detta pietra cascata il fu Sig(no)r Bartolomeo Mauro avendola fatta rompere se ne servì per fabricare le sue case25.

 

 

24Archivio della Badia di Cava, pergamena III 41; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 103-104. Archivio di Stato di Napoli, Registri angioini, 78, f. 76; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., II, pp. 424-425. Archivio Segreto Vaticano, Registro epistole di Bonifacio VIII, 40; documento edito in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., II, pp. 541-545.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

25Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6519. Archivio Diocesano di Salerno, Benefici vari. Visite pastorali. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 5336, 1758, f. 703. Dalla testimonianza dei due ultranovantenni si evince che Santa Maria del Cantaro era adiacente al giardino del palazzo che la famiglia Genovese nel 1753 aveva venduto ai padri celestini di San Pietro a Maiella, oggi riconoscibile nell’edificio più settentrionale dell’ex carcere di Sant’Antonio, e a settentrione di Palazzo San Massimo, nel 1664 venduto dalla badia di Cava a Bartolomeo de Mauro, che l’ampliò con nuove costruzioni.

A settentrione di San Lorenzo, in loco montano, in Plaio Montis, in posizione non meglio definibile, al dicembre 1088 è documenta la chiesa di Sant’Aniello; Il 1° marzo 1640, il canonico Giovanni Maria Cositore, beneficiato del luogo di culto ormai diruto, che tuttavia conserva pitture di santi e sepolture, si appella alla curia arcivescovile perché i padri del convento di San Lorenzo costruiscono un muro che ostruirebbe l’unica via di accesso al luogo del suo beneficio, posto a settentrione di quel convento. I padri oppongono che il territorio a settentrione del convento è di loro proprietà senza alcuna servitù. La questione si definirà col lasciare libero un passaggio che consenta di raggiungere liberamente il sito di Sant’Aniello, così come è sempre stato26. Nella stessa area il nostro viandante poteva osservare anche la chiesa di San Giovanni dei Vallisi, della quale la prima citazione giunta fino a noi è del 1° maggio 1485, quando l’arcivescovo cardinale Giovanni d’Aragona ne conferisce la cappellania ad Andrea Freza, canonico della cattedrale; il 26 agosto 1579 si preciserà, con qualche approssimazione, il sito della chiesa: nella montagna del castello, vicino San Nicola de la Palma, a settentrione di San Lorenzo; nel 1618, nel 1625 e nel 1635, sottoponendo a visita pastorale la parrocchia di San Bartolomeo de Coriariis, alla quale quella di San Salvatore era stata intanto annessa, si citerà San Giovanni dei Vallisi quale semplice beneficio esistente in quel territorio parrocchiale27.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

26Archivio della Badia di Cava, pergamena XIV 104. Archivio Diocesano di Salerno, Conventuali.

27Archivio della Badia di Cava, pergamena LXXXVI 32. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4870, 1578-1579, f. 452. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

A occidente di San Lorenzo, lungo la strada che usciva dalla città attraverso la porta omonima, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento osservava il monastero di San Nicola de la Palma [12]. La sua storia prende avvio nel settembre 1061, quando Gisulfo II concede all’abate di Cava Leone e al castaldo Vivo, figlio di Pietro, la terra e la casa in muratura site vicino alla porta de la Palma che furono del chierico Pietro, figlio di Alfano, e un’altra terra con l’acqua che sgorga più a monte. Nel dicembre 1062 gli stessi abate Leone e castaldo Vivo dichiarano di aver acquistato due terreni siti in Cava; quindi, li donano alla chiesa che loro stessi, per la salute delle loro anime, hanno edificato al di sotto e vicino l’acqua detta de la Palma in onore del beato pontefice Nicola, evidentemente sui terreni l’anno precedente concessi dal principe Gisulfo. Nel gennaio 1070 l’abate Leone risulta investito del doppio titolo dei monasteri della Santissima Trinità di Cava e di San Nicola de la Palma di Salerno. Nel maggio 1074 il monastero risulta ancora in parte dell’abate Leone e in parte di Vivo, non più castaldo ma viceconte; nel giugno 1079, per la prima volta, è detto pertinente alla badia di Cava, fatto confermato nell’ottobre 1089 da papa Urbano II28. All’epoca della visita alla città del nostro viandante, il monastero era passato da circa un novantennio dai benedettini cavensi ai francescani minori osservanti.

 

 

 

 

 

28Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 76; XI 95; XII 82; XIII 15, datazione ab incarnatione di tipo salernitano maggio 1075; XIII 77; C 21; le prime cinque edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, VIII, pp. 172-174; VIII, pp. 202-204; IX, pp. 243-251; X, pp. 102-106; X, pp. 280-283.

Originariamente il monastero benedettino non ebbe l’estensione che oggi conosciamo degli edifici francescani e successivi, e certamente alla metà del Duecento, verso occidente, lungo il fronte della strada, non raggiungeva le mura cittadine, poiché al maggio 1252 è documenta una sua terra vuota, che è concessa a tempo indeterminato a Orso detto Saraceno, figlio di Pietro, confinante a meridione con la via che conduce alla porta cittadina, a occidente con beni dello stesso Orso, a settentrione con un vecchio muro, a oriente con il complesso monastico [13]29. Questo vecchio muro compare già nel dicembre 1108 quale confine meridionale di una terra con casa in muratura sita al di sopra del monastero [14], il cui confine settentrionale è costituito da un andito nel quale sono poste le scale di accesso, che si dividono Alferio e Orso, figli di Corvo; e nell’ottobre 1160, quando Orso, figlio di Orso, vende a Orso, figlio di Maione detto de Amore, la parte dell’eredità paterna che gli era pervenuta per divisione con il fratello Martino30. Nel gennaio 1293 ricompare l’andito che abbiamo appena visto quale confine meridionale di una terra con orto, pareti dirute, casa in muratura e fonte, di cui il confine orientale è costituito da una corticella e quello occidentale dalle mura della città [15], che Marino detto de Palma, figlio di Pietro, vende al monaco Goffredo, camerario della badia di Cava; nel novembre 1294 si concedono i beni che furono di Marino de la Palma al fratello di questi, il coppolaio Rogerio; nel giugno 1298 lo stesso monaco Goffredo concede a Filippo e Carmanino detti Salvatico, figli di Matteo, la metà dell’acqua che nasce nel giardino del monastero di San Nicola de la Palma che fu di Marino de Palma, la quale già il detto Matteo aveva tenuto in locazione31.

 

 

29Archivio della Badia di Cava, pergamena LII 118; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 254-255.

30Archivio della Badia di Cava, pergamene XVIII 85; XXX 66.

31Archivio della Badia di Cava, pergamene LIX 101, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1292; LX 31; LX 117.

L’area da cui il monastero di San Nicola, la porta cittadina aperta nelle mura occidentali e, pare, anche il Marino e il Rogerio che abbiamo appena conosciuto trassero appellativi e cognome, la Palma, a sua volta si denominava dall’acqua che vi sorgeva. Lungo il corso che questa seguiva verso meridione, senza che sia possibile determinarne l’altezza latitudinale, sono documentate case di Pietro, figlio di Giaquinto, e della moglie Miranda, figlia di Amato, parti delle quali sono cedute a Pietro, cognato e fratello rispettivamente, nel febbraio 1057 e a Grisomeno e Nicola, figli del greco Leone, nel marzo dello stesso anno32.

  32Archivio della Badia di Cava, pergamene X 115; X 117; edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, rispettivamente, p. 6; pp. 8-10.

A meridione della strada che usciva dalla città attraverso la porta de la Palma, in posizione non meglio precisabile all’interno di un’area relativamente vasta che da essa prendeva la denominazione a San Martino, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento poteva osservare la chiesa di San Martino de Coriariis. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel settembre 1060 quale riferimento topografico nell’ubicazione di una terra con casa. Il 20 luglio 1291 ne risulta presbitero Matteo, che la regge anche nel 1309. Il 12 aprile 1570 sarà definita diruta, aperta e sita in luogo desolato. Il 30 maggio 1575 se ne ordinerà la sconsacrazione con il mandato di trasferirne il beneficio nella cattedrale. Nelle relazioni delle visite pastorali il locum sub titulo sancti Martini de correariis comparirà per l’ultima volta il 31 marzo 161833.

  33Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 66; LIX 86; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, p. 146. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6513. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

Nelle adiacenze, genericamente a meridione della strada e vicino alla porta de la Palma, è documentato un complesso abitativo del viceconte Vivo, figlio di Pietro, che abbiamo visto fondare con l’abate Leone di Cava il monastero di San Nicola, e della moglie Romana, figlia dell’alemanno Cleno; di esso, oltre ad altre case di Vivo e della moglie e a quelle dallo stesso viceconte donate ai figli naturali Girardo e Gaita, faceva parte una terra con una casa consistente in tre stanze che Vivo e Romana nell’agosto 1080 donano a Gualterio, altro figlio naturale del viceconte; nel settembre 1088 Gualterio a sua volta dona tale proprietà, con altre due poste fuori città, alla badia cavense34. A causa dei già ricordati scarsi interessi della stessa badia per questa parte della città, trascorreranno oltre quattro secoli prima che l’area ricompaia, proprio agli anni novanta del Quattrocento, con i più antichi protocolli notarili, nella documentazione giunta fino a noi: il 14 settembre 1492 Angelo Greco vende a Manso de Alferio una sua proprietà sita a San Martino; il 31 ottobre la chiesa di San Giovanni a Mare vende a Loisio de Ambrosio una terra posta nello stesso luogo; così come nello stesso luogo è posto un giardino che il 5 marzo 1493 risulta in possesso di Geronimo Orso35.

Nella stessa area, genericamente al di sotto del monastero di San Nicola, è documentata una terra sulla quale, fra il dicembre 1143 e il dicembre 118836, Pietro Salvatico e la moglie Mabilia rinunciano ad ogni pretesa a fronte della riscossione di una somma di denaro. Generalmente, questo atto è considerato nella storiografia salernitana la dimostrazione che fin dal XII secolo la famiglia cui apparterrà Matteo Silvatico possedette il giardino attualmente detto della Minerva. A parte il fatto che nulla nel documento ci indirizza verso questi, anzi la coordinata al di sotto di San Nicola de la Palma pare da esso allontanarci, il documento non è un atto di possesso, anzi una rinuncia, per cui non si comprende come tale proprietà, ovunque fosse collocata, potesse pervenire a Matteo.

Nello stesso ambito, ma in posizione individuabile con maggiore precisione, insisteva la chiesa parrocchiale di San Salvatore de Coriariis [16]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel novembre 1022 quale riferimento topografico nell’ubicazione di un immobile; la stessa cosa avviene nel maggio 1028. Nel marzo o nel maggio 1118 Alferio, figlio del conte Grimoaldo e genero del giudice Pietro, dona alla badia di Cava quanto gli compete di essa; con l’occasione si precisa che due delle dodici once del suo patronato spettano al monastero di San Nicola de la Palma, dipendenza della stessa badia. Nel 1309 compare una chiesa di San Salvatore tenuta a versare decime alla curia pontificia, di cui è presbitero Nicola, ma nessuna specificazione ci permette di attribuire tale citazione a questa o all’altra chiesa con titolo analogo, San Salvatore de Dogana, che abbiamo visto in territorio della parrocchia dei Santi XII Apostoli. Il 6 marzo 1323 i fratelli Giovanni e Tommaso de Porta, figli di Matteo, cedono a Giacomo de Ursone, figlio di Matteo, un’oncia del patronato di Santa Maria de Lama in cambio di uguale parte del patronato di San Salvatore de Plaio Montis, altra denominazione attribuita a questa chiesa. Fra il 1340 e il 1366 risulta fra i luoghi di culto tenuti a corrispondere censi alla badia di Cava in occasione del Natale e della Pasqua. Fra il 1478 e il 1482 tale onere risulta limitato al solo Natale. Nel 1536 sarà annessa all’altra parrocchiale di San Bartolomeo; il 30 maggio 1575 si ordinerà di trasferirne nella cattedrale le due campane; il 13 novembre 1625 risulterà che la chiesa diruta di San Salvatore de Plaio Montis era stata concessa a Giovanni Battista Cavaselice per uso profano37.

Al settentrione di San Salvatore de Coriariis [17] è documentata una terra con casa in muratura che, essendo descritta come posta fra la chiesa e la strada per il monastero di San Nicola, è possibile ubicare con sufficiente approssimazione; di essa, nel marzo 1271, il primo solaio è ceduto da Giacomo detto de Acqua, figlio di Matteo, allo stesso monastero di San Nicola de la Palma in cambio di un terreno sito fuori città; nel settembre successivo si precisa che l’intera casa era stata venduta al detto Giacomo, nel novembre 1255, da Mattea, moglie del coppolaio Matteo detto Spalluccia38. Nei pressi sono ubicabili la terra con casa in muratura che nel giugno 1122 è detta, con unica coordinata, posta a settentrione della chiesa e quella con casa in muratura è orto detta, nel luglio 1270, vicino al vallone, fra la chiesa e il monastero di San Lorenzo39.

Il meridione della parrocchiale è documentato da tre atti datati novembre 1022, maggio 1028, luglio 117940, fra i quali, però, soltanto il secondo, descrivendo l’immobile di cui tratta, una terra vuota che il conte Giaquinto, figlio di Gaidone, vende a Stefano, figlio di Giovanni, come confinante a settentrione con un andito che la separa dalla chiesa, ne permette una ubicazione sufficientemente accurata, almeno nel senso latitudinale [18]. Altri quattro documenti, datati marzo 1119, gennaio 1133, marzo 1185, aprile 120041, genericamente vanno a ubicare gli immobili di cui trattano vicino San Salvatore, ma il secondo guadagna una particolare attenzione poiché costituisce una testimonianza di Manno, figlio di Giovanni, e di Leo detto de Sancti, figlio di Costantino, che dichiarano come, trovandosi nella città di Tripoli insieme a Orso, figlio naturale di Buccone, raccolsero la sua volontà, confermata da una cartula che Leo esibisce, di donare alla badia di Cava quanto gli spettava di una terra con casa che fu di suo padre sita nei pressi della chiesa di San Salvatore in Plaio Montis.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

34Archivio della Badia di Cava, pergamene XIII 95; XIV 100; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., X, pp. 336-339.

35Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4834, 1492-1493, f. 5; 4834, 1492-1493, f. 43; 4834, 1492-1493, f. 111.

36Archivio della Badia di Cava, pergamena XXX 40. La pergamena è mutila lungo il margine destro, per cui della datazione si legge soltanto Millesi(mo) c[...], al tempo di un re di Sicilia e dItalia, dicembre, VII indizione. Potrebbe riferirsi, quindi, al regno di Ruggiero II (1130-1154), quando la settima indizione correva nel dicembre 1143; o al regno di Guglielmo I il Malo (1154-1166), quando nella stessa indizione ricadeva il dicembre 1158; oppure al regno di Guglielmo II il Buono (1166-1189), correndo la stessa indizione nel dicembre del 1173 e del 1188. NellIndex Chronologicus Pergamenarum, 3, f. 19, il documento è datato 1159, dicembre, VIII indizione, IX anno Guglielmi Siciliae et Italiae Regis, ma sulla pergamena si legge chiaramente septima e non compare il nome del Re, mentre  appare corretta l’indicazione IX anno riferita al regno di Guglielmo I relativamente al 1159 se si enumerano i suoi anni di regno dal 1151, quando fu associato al padre. Sul dorso della pergamena il numerale dell’anno è sostituito da puntini sospensivi ed è riportato correttamente VII indizione.

37Archivio della Badia di Cava, pergamene VII 1; VII 54; XX 104; LXVI 55; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., V, rispettivamente, pp. 61-62; pp. 144-145; in tale edizione la VII 1 è indicata come VII 2 e la VII 54 come VII 55; nella datazione della XX 104 si legge solo la parte iniziale del mese. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6514. Archivio della Badia di Cava, Registro III dell’abate Mainerio, f. 40; Inventario dell’abate Mainerio, f. 160t; Registro I del cardinale Giovanni d’Aragona, f. 5. Archivio Diocesano di Salerno, Repertorio Perrone; Visite pastorali. San Salvatore de coriariis è fra i luoghi di culto che compaiono nel falso datato maggio 1087 con il quale il duca Ruggiero ne dona i patronati alla badia di Cava (Archivio della Badia di Cava, pergamena C 12), per il quale si veda la nota 4 al capitolo 2 di questa II parte; da notarsi luso intempestivo del titolo, che comparirà in documenti autentici soltanto nel gennaio 1133 (Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIII 19). La precisazione contenuta nel documento del 1118 conferma la falsità di questa donazione, essendo evidente che se prima dell’atto di Alferio nulla del patronato della chiesa competeva alla badia, se non due delle dodici once tramite il dipendente monastero di San Nicola de la Palma, i1 duca Ruggiero non poteva averle donato la totalità dello stesso patronato.

38Archivio della Badia di Cava, pergamene LVI 54; LVI 64; edite in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, rispettivamente, pp. 389-390; pp. 398-400.

39Archivio della Badia di Cava, pergamena XXI 72. Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 331.

40Archivio della Badia di Cava, pergamene VII 1; VII 54; XX 104; XXXVI 85; le prime due edite in Codex Diplomaticus Cavensis cit., V, rispettivamente, pp. 61-62; pp. 144-145; in tale edizione la VII 1 è indicata come VII 2 e la VII 54 come VII 55.

41Archivio della Badia di Cava, pergamene XXI 17; XXIII 19, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1132; XL 27; XLIV 105.

  

 

 

 

 

San Bartolomeo de Cotiariis

 

Procedendo verso meridione lungo l’attuale via Porta di Ronca, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento osservava alla sua sinistra la parrocchiale di San Bartolomeo de Coriariis [19]. Essa compare nella documentazione giunta fino a noi nel dicembre 1142 quale riferimento topografico nell’ubicazione di una terra con casa. Nel 1309 vi è addetto il presbitero Giovanni. In occasione della visita pastorale del 2 maggio 1592 sarà ritrovata diruta a causa del crollo di un muro del giardino che la sovrastava; il danno sarà irreparabile e determinerà una lunga agonia della parrocchiale che si protrarrà fin oltre gli inizi dell’Ottocento42.

Il tessuto urbano esistente a ridosso di San Bartolomeo è fra i meno documentati nell’ambito temporale del Medioevo, comparendo soltanto con l’atto del dicembre 1142 che abbiamo visto costituire anche la prima citazione della chiesa e con altro del 9 settembre 132643.

In un’area non perfettamente definibile, poiché troppo vaghe sono le ubicazioni per essere individuabili, genericamente al settentrione della porta Nocerina o della strada che vi conduceva, sono documentati alcuni immobili44 fra i quali quel terreno che abbiamo visto all’880 posto nella nuova città salernitana; poiché non rilevabili dalla documentazione sono altezze latitudinali e appartenenze parrocchiali, è possibile che questi immobili fossero tanto a settentrione della strada e della porta da ricadere in territorio di San Salvatore de Coriariis. Allo stesso modo, rimangono non definibili sito e appartenenza parrocchiale della chiesa di Sant’Agata, documentata al 24 maggio 1515 e al 5 gennaio 1558 in prossimità delle case dei Cafaro, lungo un percorso di visita pastorale, quello del 1558, che ne farebbe ipotizzare il sito fra San Martino e San Bartolomeo45.

 

 

42Archivio della Badia di Cava, pergamena XXV 53. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 452, 6515. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.San Bartolomeo de Coriariis è fra le parrocchiali elencate negli Atti del Sinodo Colonna (si veda la nota 16 al capitolo 1 di questa II parte) come esistente al 954, anno della traslazione in città del corpo di san Matteo.

43Archivio della Badia di Cava, pergamene XXV 53; LXVIII 67.

44Archivio della Badia di Cava, pergamene II 29, febbraio 934; XVI 87, ottobre 1098; XXXIII 70, novembre 1170; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., I, pp. 198-199.

 

 

 

 

 

 

 

45Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

In posizione ancora meno definibile, genericamente nel Plaio Montis, per la qual cosa la si cita prima di abbandonare questa parte della città, era esistita la chiesa di Santa Maria dello Sfagilla, che compare al giugno 1186 e al febbraio 1188, quando Giovanni, figlio di Petrone detto de Bivo, e Pietro detto Curiale, figlio di Giovanni, donano le parti loro pertinenti del suo patronato alla badia di Cava rappresentata dal monaco Ruggero46.

  46Archivio della Badia di Cava, pergamene XLI 1; XLI 38, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1187.

  

 

 

 

 

San Pietro de Lama

 

Procedendo verso oriente lungo la via della porta anticamente detta Nocerina, oggi Torquato Tasso, ripercorrendo verso meridione gli attuali gradoni Madonna della Lama e la strada attualmente denominata, molto inopportunamente, come ripeto, via Porta Rateprandi, il nostro viandante ritornava al settentrione della chiesa di Sant’Andrea de Lavina ove, lungo l’attuale vicolo degli Amalfitani, osservava la chiesa parrocchiale di San Pietro de Lama, detta anche delle Femmine [20]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel maggio 1080, quando per suo conto agisce Landone, presbitero di Santa Maria de Lama. Nel giugno 1186 Giovanni, figlio di Petrone detto de Bivo, dona alla badia di Cava una delle dodici once del patronato di San Pietro prope viam per quam fluit aqua que Lama dicitur, che per la prima volta è detta delle Femmine. Analoga donazione, ma limitata ad un terzo di oncia, compie, nel febbraio 1188, Pietro Curiale, figlio di Giovanni; anche in questa occasione la chiesa è detta delle Femmine. Nel 1309 la ritroviamo con lo stesso appellativo, retta dal presbitero Giovanni. Nella relazione della visita pastorale del 13 aprile 1570 sarà detta unita all’altra parrocchiale di Santa Trofimena; il 12 novembre 1625 si preciserà che tale unione era avvenuta in virtù di decreto emesso al tempo dell’arcivescovo Cervantes (1564-1568). Intanto, il 26 aprile 1580, l’immobile era stato concesso per uso profano47.

A occidente della chiesa, da questa separata da una strettola [21], al settembre 1179 è documentata una terra con casa in muratura che Giovanni, figlio di Nicola detto Sarnese, presente la madre Petronia, vende alla badia di Cava48. Altri immobili siti nell’ambito del territorio parrocchiale compaiono nell’agosto 1157; in due atti dell’aprile 1269; il 9 settembre 132649, quando la badia cavense cede una terra con casa in muratura qui sita, in Veterensium, in plebe di San Pietro detto delle Femmine, in cambio dell’immobile, anch’esso una terra con casa in muratura, che abbiamo visto documentato in pari data nei pressi della parrocchiale di San Bartolomeo.

 

47Archivio della Badia di Cava, pergamene XIII 91; XLI 1; XLI 38, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1187; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., X, pp. 320-322. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6527. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4878, 1579-1580, f. 328t.

48Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXVI 96.

49Archivio della Badia di Cava, pergamene XXIX 109; LV 112; LV 114; LXVIII 67.

 

 

  

 

 

 

 

San Giovanni dei Greci

 

Percorso interamente l’attuale vicolo degli Amalfitani, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento perveniva nella parrocchia di San Giovanni dei Greci, che alle limitrofe San Pietro de Lama e Sant’Angelo de Marronibus contendeva il primato del più piccolo fra i territori parrocchiali cittadini. La chiesa [22] compare nelle fonti giunte fino a noi nel 1279, quando le si assegnano alcune rendite. Il 19 novembre 1307 e nel 1309 risulta officiata dal presbitero Tommaso. Nella relazione della visita pastorale del 25 maggio 1515 sarà detta unita a Santa Trofimena. L’11 dicembre 1615 si ordinerà di murarne la porta50. Nei pressi, al 19 giugno 1404, confinante con altri suoi beni, vi era la casa che Stefano Ismiraldo dona al monastero di Santo Spirito fuori le mura51.

  

 

 

 

 

Sant'Angelo de Marronibus

 

Poco a meridione di San Giovanni dei Greci il nostro viandante osservava l’altra parrocchiale di Sant’Angelo de Marronibus [23]. In un inserto del giugno 940, contenuto in un documento del 985, è citata come San Michele soggetta alla cappella palatina di San Pietro a Corte, sita in vico di Santa Trofimena. Con lo stesso titolo e localizzazione compare nel febbraio 1176 e nel dicembre 1286. Nel 1503 sarà denominata de Marronibus. Il 5 settembre 1803 per l’ultima volta sarà sottoposta a visita pastorale come sede parrocchiale autonoma. Nel 1846 risulterà annessa a Santa Trofimena52. Il tessuto urbano al suo meridione [24] è documentato, nell’ambito temporale del Medioevo, soltanto nell’arco fra il 1176 e il 119753; altro immobile ubicato genericamente nelle sue vicinanze compare nel giugno 106254.

  

 

 

 

 

Santa Trofimena

 

A occidente di Sant’Angelo de Marronibus il nostro viandante raggiungeva la chiesa parrocchiale di Santa Trofimena [25]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi nel maggio 995; ma è certamente più antica, poiché il vico omonimo compariva già in un inserto del giugno 940 contenuto in un documento del giugno 985. Nel dicembre 1012 Armogeno atrianense, figlio di Sergio, dona metà del patronato di Santa Trofimena alla chiesa di Santa Maria de Domno. Nel gennaio 1108 compare Giovanni Butronino qui est unus ex quibus ipsa ecclesia (di Santa Trofimena) pertinet; nello stesso documento vi risulta addetto il presbitero Giovanni. Nel 1309 vi troviamo i presbiteri Matteo e Pietro. Dalla relazione della visita pastorale del 25 maggio 1515 risulterà che a Santa Trofimena era stata unita la parrocchia di San Giovanni de Greci; nel 1570 le risulterà annessa anche quella di San Pietro delle Femmine. Il 12 novembre 1625 si preciserà che questa seconda unione era avvenuta in virtù di decreto emesso al tempo dell’arcivescovo Cervantes (1564-1568). Monsignor Paglia, con bolla del 25 febbraio 1853, trasferirà la sede parrocchiale nella chiesa della Santissima Annunziata Maggiore55.

Il territorio parrocchiale intra moenia di Santa Trofimena, ai fini di questo studio, può essere distinto in due aree fortemente caratterizzate: le Fornelle e l’Annunziata. La prima, di antichissima urbanizzazione, già racchiusa nelle mura prelongobarde, allo spirare del Medioevo appare di difficile decifrazione topografica, essendo costituita da un denso tessuto urbano percorso da un reticolo di vicoli, anditi e strettole paragonabile a quello che abbiamo visto incombere intorno alle parrocchiali dei Santi XII Apostoli e di San Giovanni de Cannabariis. La documentazione ad essa relativa giunta fino a noi permette di raggruppare gli immobili di cui tratta, al di là del troppo generico in vico Santa Trofimena56 e dell’eccezione che vedremo, soltanto per grandi settori, quali la Ripa Maior57, il meridione della strada per la porta dello Iuncata58, le adiacenze delle mura59, il settentrione della parrocchiale60. Maggiori possibilità di corretta ubicazione offre la sottile casa in muratura, venti piedi e mezzo lungo il lato meridionale e poco più di diciassette e mezzo lungo quello settentrionale, compresa fra una strada che la separava dalla chiesa a occidente e altra strada a oriente [26], che nel dicembre 1061 Anna, vedova di Sergio, e il figlio Marino vendono a Pietro detto Spia, figlio di Lupeno, che agisce per conto della moglie Marenda, figlia di Gutto; forse la stessa, poiché analoghi sono i confini occidentale e orientale, che nel marzo e nel giugno 1177 risulta in possesso di Giovanni, figlio di Sergio detto Infresatore61.

Da Santa Trofimena, verso meridione, forse percorrendo uno degli anditi che ancora vediamo o qualche altro scomparso, il nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento raggiungeva la via della porta Busanola, attualmente Catena, asse mediano della seconda fra le parti nelle quali idealmente abbiamo distinto il territorio intra moenia di Santa Trofimena; questa, già limitata verso il mare dal muricino, allo spirare del Medioevo presentava un tessuto urbano in via di definizione, ancora mancante della murazione che raggiungerà la fine dell’età moderna. Lungo il lato settentrionale della strada il nostro viandante poteva osservare la chiesa di Santa Maria de Cancellariis o della Cita [27]. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi, come Santa Maria in vico Santa Trofimena, nell’aprile 1183, quando il vicecancelliere del Regno Matteo de Aiello la cede al figlio arcivescovo Nicola, che agisce quale pastore della Chiesa salernitana, in cambio dell’altra chiesa di San Giovanni de Busanola, con delle case ad essa pertinenti, sita fuori le mura occidentali della città, presso la quale intende istituire un ospedale. Nel marzo 1214 la chiesa compare, come Santa Maria de la Cita, quale riferimento topografico nell’ubicazione di una terra con case, fondaco e torri sita in loco Veterensium, adiacente al muro occidentale della città. Nel novembre 1217 è citata, invece, come sancte Marie que deli cancelleri dicitur. Il 21 agosto 1561 si confermerà l’identificazione: ecclesiam Sancte Mariae de la Cita alias deli Cancelleri. Il 25 maggio 1575, essendo stata trovata senza beneficiato e redditi, si ordinerà di ridurla ad uso profano e di trasferirne le colonne nel palazzo arcivescovile62.

 

 

 

 

 

 

 

 

50Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 436-442. Archivio della Badia di Montevergine, pergamena CV 78; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIV cit., I, pp. 57-59. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6526. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

51Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 352.

 

 

 

52Archivio della Badia di Cava, pergamene IV 1; XXXV 13, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1175; LVIII 109; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 225-228. Archivio Diocesano di Salerno, Registro I della Mensa, pp. 615-617; Visite pastorali; Obbedienza del clero.

53Archivio della Badia di Cava, pergamene XXXV 13, febbraio 1176, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1175; XXXVII 17, aprile 1180; XXXIX 9, marzo 1183; XLIV 75, settembre 1197.

54Archivio della Badia di Cava, pergamena XI 88; edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 190-194.

 

 

55Archivio della Badia di Cava, pergamene IV 1; IV 108; VI 39; XVIII 54, datazione ab incarnatione di tipo veneto gennaio 1108; le prime tre edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., rispettivamente, II, pp. 225-228; III, p. 41; IV, pp. 215-216. Archivio Segreto Vaticano, Decime e inquisizioni 1309; edite in Rationes Decimarum Italiae cit., p. 453, 6525. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali; Bollari.

56Archivio della Badia di Cava, pergamene III 61, giugno 979; XVIII 108, agosto 1109; XIX 14, aprile 1111; XXIV 92, novembre 1139; XLII 15, febbraio 1190, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1189; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 134-135.

57Archivio della Badia di Cava, pergamene IV 1, giugno 985; XV 13, luglio 1090; XVI 73, luglio 1097; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., II, pp. 225-228.

58Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 287, marzo 1100.

59Archivio di Stato di Napoli, Codice Perris, ff. 535t-536, 28 settembre 1326; ff. 966t-973, 3 marzo 1433; documenti editi in Il Codice Perris cit., rispettivamente, III, pp. 877-879; IV, pp. 1428-1438.

60Archivio della Badia di Cava, pergamene IX 40, marzo 1044; LV 112, aprile 1269; LV 114, aprile 1269; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VI, pp. 253-254; in tale edizione è indicata come IX 38. Archivio di Stato di Napoli, pergamena distrutta; edita in Codice Diplomatico Amalfitano cit., II, p. 231.

 

 

61Archivio della Badia di Cava, pergamene XI 82; XXXV 102; XXXV 108; la prima edita in Codex Diplomaticus Cavensis cit., VIII, pp. 181-183.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

62Archivio Diocesano di Salerno, pergamena 91; edita in G. Paesano, Memorie cit., II, 1852, pp. 226-229. Archivio della Badia di Cava, pergamene XLVI 78; XLVI 116; la prima edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 103-104. Archivio di Stato di Salerno, Protocolli notarili, 4858, 1560-1561, f. 553. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

Nelle vicinanze di Santa Maria de Cancellariis, lungo il lato settentrionale della strada, dal meridione di Santa Trofimena e quello di Sant’Angelo de Marronibus, fra altri immobili63, è documentata la terra con casa della quale nel febbraio 1182 un solaio è ceduto alla badia cavense da Giovanni, figlio del giudice Teofilatto e castellano di Ravello64; la descrizione del suo sito, in vico Santa Trofimena, non molto lontano dalla chiesa, confinante a meridione con la strada fra il muro e il muricino, ha consentito di conoscere, come abbiamo visto, che la doppia difesa cittadina verso il mare si estendeva dal meridione della porta prima di San Fortunato, poi di Elino, infine Nova, all’area della porta opposta,  prima Busanola, poi dell’Annunziata, infine della Catena.

 

63Archivio della Badia di Cava, pergamene XLVI 116, novembre 1217; LVII 46, agosto 1277; LVII 108, marzo 1281; LVIII 109, dicembre 1286.

64Archivio della Badia di Cava, pergamena XXXVII 69, datazione ab incarnatione di tipo veneto febbraio 1181.

 

 

 

 

A cavallo della via di porta Busanola, all’estremità occidentale del tessuto urbano, nei pressi della chiesa già di Matteo de Aiello, nell’occasione, come abbiamo visto, detta de la Cita, al marzo 1214 è documentata una terra con case in muratura, fondaco e torri che Guido detto Butromile, figlio di Guglielmo, e Giovanni detto Calenda, figlio di Orso, testimoniano appartenere alla badia di Cava in virtù del testamento di Bellicia, zia paterna di Guido; essa si estendeva, sull’asse latitudinale, in parte a meridione e in parte a settentrione della strada e, sull’asse longitudinale, in parte all’interno delle mura occidentali della città e in parte all’esterno, fra queste e il corso del torrente Busanola65. Sulla parte di essa posta a settentrione della strada, e forse su terreni limitrofi, inglobando le mura cittadine e, quindi, andando a determinare un nuovo limite del tessuto urbano verso occidente, fu edificato l’ospedale della Santissima Annunziata [28] che, come è possibile fare tuttora, poteva essere osservato dal nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento. Esso compare nella documentazione giunta fino a noi il 15 ottobre 1372, nell’atto esecutivo del testamento di Cobella Dardano, vedova del giudice Filippo Scattaretica, che lascia un legato al suo hospitalerio; il 28 giugno 1615, a conclusione di atti avviati l’anno precedente, il governo cittadino lo affiderà alle cure della congregazione di San Giovanni di Dio, detta dei Benfratelli, che lo denominerà di San Biagio66.

Sulla parte dello stesso appezzamento posta a meridione della strada [29], in questo caso certamente investendo terreni limitrofi, poiché insufficiente sarebbe stata la sua area, proprio allo spirare del Medioevo, forse addirittura osservabile in costruzione dal nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento, sorgerà la chiesa della Santissima Annunziata Nuova. Nel 1731 così si racconterà: Extra menia huius Civitatem et Portam Bussanole, nunc Catene nuncupata, qua Neapolim versus pergitur erecta erat antiqua Ecclesia Annunciationi Beata Virginis ac S. Bernardo dicata; sed ut maiori magnificentia et comoditate splenderet, circa finem decimiquinti seculi fuit hac nova ecclesia intra menia et etiam prope dictam Portam edificata expensis civitatem, relicta antiqua que, ex munificentia Principis Salerni anno 1516 donata fuit Religioni Minimorum seù Sancti Francisci de Paula67.

Uscendo dalla città attraverso la porta Busanola, appena oltre il corso del torrente omonimo, alla sua destra [30], il nostro viandante poteva osservare la chiesa della Santissima Annunziata extra Moenia o di San Bernardo, detta Vecchia dopo l’edificazione che abbiamo appena visto. Essa compare nelle fonti giunte fino a noi il 10 maggio 1330 quale riferimento topografico nell’ubicazione di una taverna sita in Busanola68; dopo la donazione del principe di Salerno (nel 1516 deteneva il titolo Ferrante Sanseverino) intorno ad essa sorgerà il convento che oggi vediamo utilizzato quale deposito militare.

  65Archivio della Badia di Cava, pergamena XLVI 78, marzo 1214; edita in Codice Diplomatico Salernitano del sec. XIII cit., I, pp. 103-104; in tale edizione mancano parti del testo, proprio ove il documento si sofferma a descrivere confini e misure del complesso immobiliare.

66Biblioteca Provinciale di Salerno, pergamena 1 C 33; edita in Nuove pergamene del Monastero femminile di S. Giorgio di Salerno cit., II, pp. 109-114. Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali. Prima dell’ospedale della Santissima Annunziata, come accennato trattando di Santa Maria de Cancellariis, la città aveva avuto quello istituito da Matteo d’Aiello presso la chiesa di San Giovanni de Busanola; quest’ultima, ormai priva dell’istituzione del d’Aiello, la si nota nella veduta della città della fine del Cinquecento conservata presso la Biblioteca Angelica di Roma (cf. «Rassegna Storica Salernitana», 17, 1992, allegato al lavoro di A. R. Amarotta Salerno in un ignoto disegno del Cinquecento: conferme e smentite) nei pressi dell’ex convento di Santa Maria di Porto Salvo, attuale Sant’Anna al Porto. Naturalmente, nulla in comune vi fu fra San Giovanni de Busanola e l’ospedale della Santissima Annunziata, poi di San Biagio dell’ordine di San Giovanni di Dio, se non un’assonanza che trasse in inganno G. Crisci e A. Campagna (Salerno Sacra, 1962, pp. 465-467) e gli autori che li seguirono.

67Archivio Diocesano di Salerno, Visite pastorali.

 

 

68Archivio della Badia di Cava, pergamena LXIX 47.

 

Il nostro girovagare nella città medievale si conclude qui, contestualmente a quello del nostro viandante degli anni novanta del Quattrocento. Di più, rispetto a quello che egli vide, abbiamo visto chiese e case già scomparse all’epoca della sua visita; di meno, aspetti del tessuto urbano dei quali documentazione non è giunta fino a noi o, essendo giunta, non è stata ancora ritrovata. Sostando ancora un momento oltre il corso ormai invisibile del Busanola, rileggiamo dalla relazione della visita pastorale de 1731 il passo che narra come san Francesco da Paola, in viaggio verso la Francia, uscendo da Salerno attraverso la stessa porta oltrepassata dal nostro viandante, osservava la chiesa della Santissima Annunziata extra Moenia e ispirato prophetico spiritu diceva a chi viaggiava con lui: hic debet esse conventus nostri ordinis.